lunedì 23 febbraio 2009

l’Unità 23.2.09
Testamento biologico, 150mila firme per l’appello on line di Ignazio Marino
di F. Fan.


Quota 150mila firme per l’appello on line sul testamento biologico promosso dal chirurgo e senatore del Pd Ignazio Marino.
L’appello «per il diritto alla libertà di cura» chiede che sia rispettato l’articolo 32 della Costituzione: «Chiediamo che la legge sul testamento biologico rispetti il diritto di ogni persona a poter scegliere... Dia a chi lo vuole, e solo a chi lo vuole, la possibilità di indicare, quando si è pienamente consapevoli e informati, le terapie alle quali si vuole essere sottoposti, così come quelle che si intendono rifiutare, se un giorno si perderà la coscienza e con essa la possibilità di esprimersi». E ancora, si legge nel testo: «Rifiutiamo che una qualunque terapia o trattamento medico siano imposti dallo Stato contro la volontà espressa del cittadino. Vogliamo una legge che confermi il diritto alla salute ma non il dovere alle terapie».
Tra i primi firmatari della campagna - che ha raggiunto anche Facebook - ci sono l’ex premier Giuliano Amato, Marcello Lippi, Stefano Rodotà, Eugenio Scalfari, il teologo Vito Mancuso, l’oncologo Umberto Veronesi, l’ex presidente della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelski.
Il 5 marzo il disegno di legge (PdL) sul testamento biologico approda nell’aula del Senato. Il neo leader Pd Franceschini ha già detto che i principi che lo ispirano sono inaccettabili, suscitando l’ira della teodem Paola Binetti.

Repubblica 23.2.09
Basta ingerenze della Chiesa
Paolo Ferrero: la linea resta quella di Veltroni
"Una forza di sinistra vera oggi serve ancora di più o moriremo democristiani"
Le ingerenze vaticane sull’etica sono inaccettabili. Ma il Pd fa finta che siano questioni di coscienza
di G.C.


ROMA - «In un modo o nell´altro qui si rischia di morire democristiani...». Paolo Ferrero ironizza sul fatto che «Franceschini è un ex dc» alla guida di un partito fondato anche dagli pci. Perciò, per il segretario di Rifondazione «è più che mai necessaria una forza di sinistra, anche se sarebbe bene che il Pd lavorasse a un´opposizione vera contro il governo e contro la Confindustria che del governo è il principale suggeritore , e quando serve anche contro il Vaticano».
Nulla di nuovo, Ferrero?
«Mi sembra che per la continuità con Veltroni, per le cose che ha detto e per la condizione oggettiva del Pd, a Dario Franceschini non passi nemmeno per l´anticamera del cervello di fare qualcosa di sinistra. È in continuità molto forte con l´9mpronta veltroniana».
Ha fatto un appello all´unità del sindacato, il neo segretario. Non è una cosa di sinistra?
«In un momento in cui il sindacato è spaccato è più un attacco alla Cgil che una cosa di sinistra. Di sinistra oggi è schierarsi con la Cgil in difesa del contratto di lavoro. Sulla contrattazione il governo ha fatto una cosa gravissima, nessun paese al mondo pensa di uscire dalla crisi tagliando i salari reali, perché così si aggrava la crisi economica. Che il Pd neppure su questo riesca a schierarsi la dice lunga sulla sua inutilità dal punto di vista dell´opposizione a Berlusconi».
Neppure la rivendicazione orgogliosa di laicità fatta da Franceschini l´ha convinta?
«Anche Veltroni diceva queste cose, ma poi il Pd lascia libertà di voto. Come se la clamorosa ingerenza vaticana che si è verificata sul testamento di fine-vita, questa cosa pazzesca di dire che l´idratazione e l´alimentazione forzata non sono un accanimento terapeutico per aggirare la Costituzione, sia accettabile. Il Pd fa finta che sia un problema di coscienza e non una delle questioni di civiltà per un paese».
Tuttavia la sinistra procede per scissioni. E alle europee avete da superare la soglia di sbarramento del 4%.
«Il 4%, già. L´ultimo successo veltroniano è stato uccidere la sinistra mentre stava regalando il paese a Berlusconi, che la dice lunga sulla miopia di quel progetto politico».
Forse è la sinistra radicale che non sa bene cosa fare?
«La posizione di Rifondazione è fare una lista di sinistra che sia autonoma dal Pd chiaramente, che abbia come riferimento a Strasburgo il gruppo della Sinistra europea e che parta dal nostro simbolo, che è il più conosciuto, e io spero che ci possano stare anche i compagni che sono usciti, Nichi Vendola e Franco Giordano. È il modo giusto per fare una cosa di sinistra».
Vendola è magari più interessato a un confronto con il Pd e teme le chiusure identitarie?
«Penso che ci vorrebbe un Partito democratico che si metta a fare un´opposizione seria al governo di Berlusconi. Ma per non correre il rischio di morire, ben che vada, democristiani, bisogna costruire una sinistra autonoma dai Democratici, che non sia una corrente esterna del Pd, come pensano invece Vendola e Giordano. Non un cartello in vista delle europee, ma una proposta in quattro punti per uscire dalla crisi: ridistribuzione del reddito; intervento pubblico però non un soldo a banche e imprese; ammortizzatori sociali per chi perde il posto di lavoro; lotta alla speculazione finanziaria».

Corriere della Sera 23.2.09
La legge sul fine vita
I confini della politica
di Angelo Panebianco


La frittata è fatta. Non c'è modo di tornare indietro. Lo scontro sui contenuti della legge che deve, con delicato linguaggio burocratico, «regolamentare il fine vita » dilanierà il Paese per molti anni. Forse era inevitabile. Come poteva un Paese iper politicizzato come il nostro non arrivare, prima o poi, a politicizzare anche la morte? Resta da sapere come verrà, alla fine, regolamentato il fine vita, se con la legge voluta dai neo guelfi o con il referendum contro la legge brandito dai neo ghibellini.
L'aspetto più impressionante della feroce disputa in atto è l'esibizione, da parte dei vari esponenti delle due fazioni, di certezze, oltre che di muscoli. Una volta tolti dal mazzo coloro che sono di tempra troppo debole per essere in grado di coltivare il dubbio, che dire degli altri? Come possono esibire certezze in una materia che per sua natura non le ammette? Pur con le dovute eccezioni, molti, mi sembra, stanno esibendo certezze per ragioni politico- strumentali. Come sempre accade quando una questione viene politicizzata, essa entra nel tritacarne delle logiche di schieramento. La questione del fine vita è ora diventata un'altra posta in gioco nel conflitto fra berlusconiani e antiberlusconiani: un conflitto transitorio, contingente, che tuttavia, nel caso in questione, va a incastrarsi in una divisione antica, quella fra guelfi e ghibellini.
Due madornali errori di valutazione, a me pare, sono stati commessi da chi ha voluto gettare fra i piedi del Paese una questione di tale portata. Il primo è stato di avere sopravvalutato le capacità della democrazia di gestire questo problema. La democrazia può occuparsi di tutto, tranne che dell'essenziale (le questioni della vita e della morte, appunto). Non è attrezzata per fronteggiare un conflitto filosofico radicale fra opposte concezioni della vita.
I fautori della «sacralità della vita», i neo guelfi, sbagliano di grosso a volere imporre per legge a tutti i loro valori (la sacralità della vita è un concetto privo di senso per chi non crede in Dio). Facendo ciò essi attentano a quel pluralismo degli orientamenti di cui solo può vivere una società liberale. Ma sbagliano anche i fautori della «libertà di scelta». Costoro la fanno troppo semplice, banalizzano in maniera inaccettabile il problema. Non è vero che essi si limitano a rivendicare un «diritto» che i credenti sono liberi di non praticare. Perché pretendendo una legge che riconosca quel diritto essi, per ciò stesso, intendono fare prevalere la loro concezione della vita e della morte, imporre il principio secondo cui la decisione sulla morte di un uomo è nell'esclusiva e libera disponibilità di quell'uomo. Un principio che non può non ripugnare ai fautori della diversa e opposta concezione.
Non è un caso che anche nelle società più liberali, dove i diritti di libertà sono più solidi (e più rispettati che da noi), su questi temi possano esplodere conflitti micidiali. Non stiamo parlando di un diritto qualitativamente simile ai più tradizionali diritti di libertà. Proprio perché la democrazia non è fatta per fronteggiare conflitti filosofici di questa portata, sia le prassi ispirate al principio della sacralità della vita sia quelle ispirate al principio opposto della libertà di scelta, dovevano (come si è sempre fatto) rimanere «al di qua» dello spazio pubblico, affidate al silenzio, agli sguardi e alle parole a mezza bocca scambiate fra i medici e gli assistiti o fra i medici e le persone affettivamente vicine agli assistiti. In un precedente intervento («Quel silenzioso terzo partito », Corriere del 9 febbraio) avevo parlato dell'importanza di preservare una zona grigia protetta (così mi ero espresso) da una «necessaria ipocrisia». Qualche amico, pur favorevole alle mie tesi, ha criticato l'uso del termine ipocrisia. Penso invece che fosse appropriato. In queste questioni l'ipocrisia non è, come si suole dire, una manifestazione del vizio che rende omaggio alla virtù. È essa stessa virtù. È la virtù grazie alla quale si possono cercare empiricamente (al riparo dai riflettori) soluzioni atte a ridurre le sofferenze dei malati senza offendere la sensibilità e le credenze delle persone coinvolte. Contemporaneamente, è la virtù che consente di non trasferire nella pubblica piazza ciò che non è assolutamente idoneo ad essere esposto in piazza.
Il secondo micidiale errore è stato quello di credere che solo la «legge» possa salvarci dall'arbitrio, dei medici o di chiunque altro. È un effetto di quell'ideologia italiana che assume che tutti i problemi debbano avere una soluzione «giuridica». È il riflesso di un Paese schizofrenico che, da un lato, ha della legge una visione cinica («la legge si applica ai nemici e si interpreta per gli amici», recita il detto) e, dall'altro, non sa evitare di farne un feticcio. Ma in un ambito come quello qui considerato la legge non riduce l'area dell'arbitrio. Anche ammesso, e non concesso, che possa eliminare le forme di abuso fin qui forse praticate, essa ne genera comunque altre. La legge è uno strumento troppo grossolano, troppo rozzo: pretendendo di imporre uguale trattamento in casi diversissimi, essa crea, più o meno involontariamente, le condizioni per nuovi arbitrii.
Senza contare che la legge, di sicuro, è il luogo più inadatto, più inospitale, per depositarvi visioni ultime della vita. Checché ne pensino i feticisti della legge, ci sono molte più cose in cielo e in terra di quante non ne possano contenere i loro codici e i loro commi. Qui siamo dunque, purtroppo. E non ne usciamo. Due ragioni, o due torti, si fronteggiano. Il problema verrà affrontato a colpi di maggioranza (e nessuno, per favore, se ne lamenti: è la democrazia, bellezza). Vorrà dire che faremo l'alternanza, a seconda di chi vince e di chi perde le elezioni, anche delle concezioni della vita e della morte. Davvero un bel risultato.

Corriere della Sera 23.2.09
Caso Englaro «Seguo le mie idee, non sono una marionetta»
Beppino conteso dalle tv Un invito anche da Vespa
di Grazia Maria Mottola


MILANO — Sotto pressione. Per i recenti interventi su stampa e tv. Ma anche per le critiche, a causa di una promessa di silenzio mai mantenuta.
Eppure nulla lo smuove. Papà Beppino resiste e tira dritto. «Se andrò ancora in tv? Seguo le mie idee come sempre, non sono una marionetta nelle mani di qualcuno». Chiaro e determinato. Ieri, nel cercare la strada della legalità «per fare le volontà di Eluana»; oggi, nel portare avanti la sua battaglia civile. «Forse ci si sarebbe aspettato che uscissi di scena, come ho detto in passato, ma ho fatto una scelta: continuare a battermi come cittadino, mettendo la mia esperienza al servizio della collettività.».
La storia di Eluana. L'ha ripetuta per anni, come «un cagnolino che abbaiava alla luna» cercando disperatamente chi potesse ascoltarla; oggi, invece, ha le porte aperte quasi ovunque. Sabato scorso era ospite da Fabio Fazio; nel pomeriggio, con il cellulare, interveniva alla manifestazione romana sul testamento biologico; oggi sarà in diretta telefonica con «Cominciamo bene» alle 10 (su Rai tre), solo dopo essersi collegato per un breve colloquio con Radio24. Ancora non lo sa, ma Bruno Vespa pensa di invitarlo: «Lo abbiamo sempre seguito — spiega —, dal 2000 in poi è venuto da noi per nove volte. I nostri dissensi in trasmissione erano su un unico punto: per me la volontà di Eluana non era documentabile. Comunque se si impegnerà nel dibattito sul testamento biologico, gli chiederò di essere mio ospite». Non si meraviglierebbe di vederlo ancora sul piccolo schermo o sentirne la parlata veloce dall'accento friulano neppure Antonio Polito, direttore del «Riformista»: «Quella di Englaro è sempre stata una battaglia civile, anche se lo faceva per la figlia. Per questo non mi stupisco che continui a lottare. Su un punto non sono d'accordo: la via del referendum sul testamento biologico è rischiosa, gli italiani non amano pronunciarsi su materie così tecniche ». Tra i suoi «ammiratori» c'è anche Massimo Bordin, direttore di Radio Radicale: «Di lui mi ha colpito il richiamo a Loris Fortuna, alla tradizione socialista e laica. Lui si rivela un socialista, e il fatto che prometta di non candidarsi è importante, mette a tacere chi tenta di screditarlo. Lo vedo come un personaggio positivo di un libro di Sciascia, anche se è friulano».
Critiche o lodi, Beppino va avanti. Come ha sempre fatto. «Seguirò il mio istinto, voglio essere libero». Ma una cosa gli è chiara: quella bozza di legge sul fine vita proprio non gli piace: «Ho già detto che è una barbarie, oggi dico che è una follia: non vorrei che nessuno vivesse l'inferno di Eluana, essere costretto a vivere come lei, contro la sua volontà». Perché se la normativa venisse approvata, per lui sarebbe un paradosso: «Dopo quello che ho passato, potrei trovarmi io stesso a essere idratato e nutrito senza il mio consenso». Dunque la battaglia continua: «Valuterò gli inviti e deciderò volta per volta — sottolinea —, ho bisogno di riflettere su quello che faccio, non voglio rischiare di restare prigioniero di un ingranaggio». Nel suo futuro la fondazione che porta il nome di Eluana: «Ci stanno lavorando i legali, ma non è semplice. Così andrà avanti il mio impegno civile».
Da cittadino, ripete, mai da politico. In ogni caso senza trascurare chi, negli anni, ha dato voce alle sue ragioni: «Non posso dimenticare che se sono giunto a questo punto lo devo anche alla comunicazione: ecco, voglio continuare così, dialogando come ho sempre fatto».

l’Unità 23.2.09
Ronde senza controllo. A Nord trionfa il «fai da te»
di Giuseppe Caruso


Dal Veneto alla Liguria, passando per Milano e la Lombardia. Nel nord Italia ormai da alcuni anni operano le così dette ronde. In alcuni casi in contatto diretto con le amministrazioni locali.

In principio furono i “City Angels”, il gruppo di volontari milanesi che nel 1994, giubba rossa e basco blu, ha dato vita ad un qualcosa di simile ad una ronda. Anche se il loro fondatore, Mario Furlan, preferisce parlare di «volontari di strada», che da quindici anni offrono un contributo di “dissuasione visiva” nei confronti dei malintenzionati e soprattutto di solidarietà per gli emarginati.
I “City Angels” sono stati i primi, iniziando ad operare nella zona della Stazione Centrale, e sono anche il modello a cui si è ispirato il governo nel decreto che è stato approvato venerdì scorso. In questo modo l’esecutivo ha voluto mettere il cappello su fenomeno già molto diffuso nel nord Italia e che in qualche caso ha assunto connotati bipartisan, con la partecipazione di cittadini di differente estrazione politica. Perché la tribù delle ronde nordiste è molto diversificata al suo interno.
ATEI E APOLITICI
L’esperienza dei «City angels» è di sicuro la migliore, ma non la più seguita. Se infatti il fondatore Furlan tiene sempre a precisare che il suo gruppo (con sedi a Torino, Bologna, Roma e Napoli) è «ateo ed apolitico» e che ha bisogno «di cuore, non di muscoli», in alcuni casi limite si può tranquillamente parlare di squadracce più che di volontari.
È il caso di Torino, dove una settimana fa sono stati denunciati a piede libero cinque ventenni. Facevano parte di una ronda (in tutto una ventina di persone) che negli ultimi mesi aveva compiuto decine di aggressioni contro tossicodipendenti al Parco della Stura, ribattezzato in città “Tossic park”.
Si tratta di ragazzi della zona, che avevano deciso di risolvere a modo loro il problema. Attaccavano con spranghe e catene, una delle loro ultime vittime ha riportato una prognosi di 60 giorni: clavicola spezzata a colpi di spranga e un forte trauma cranico. Quando i poliziotti li hanno arrestati, i ragazzi sembravano quasi stupiti: «Abbiamo solo difeso le nostre famiglie e le nostre fidanzate». I genitori erano solidali.
Ma a Torino dal 1998 opera anche il Coordinamento Comitati Spontanei Torinesi, che controlla 7 zone a rischio della città. E che non ha troppo amato il provvedimento varato dal governo. Quelli del Comitato ricordano di «non voler diventare un surrogato della polizia» e che «il cittadino non vuole essere costretto a scendere in strada in sostituzione dello Stato». Il presidente del Coordinamento, Carlo Verra, spiega che le loro armi «sono solo i fischietti», consegnati ai duecento cittadini che hanno deciso di far parte dei comitati. Ci sono anche alcuni militanti di sinistra.
LIGURIA
Il comitato «Genova sicura», diretta emanazione della Lega nord, è uno dei più noti in Liguria. Operano soprattutto nel centro storico, il più degradato della città, a partire dal tardo pomeriggio. Lo fanno su richiesta dei commercianti, che si sentono così più sicuri a chiudere i negozi quando la luce è andata via. Altre ronde sono nate nel quartiere di Sampierdarena per contrastare i «ladri acrobati», vale a dire quei topi di appartamento che salendo lungo i tubi del gas o le grondaie svaligiano gli appartamenti sino ad un’intera scala alla volta. Appartamento dopo appartamento, passando da terrazzo a terrazzo.
LEGA E NON SOLO
In Veneto le ronde fanno soprattutto rima con Lega nord, ma si stanno diffondendo trasversalmente. Il partito di Bossi ha creato da pochi giorni un coordinamento tra tutti i gruppi che operano nel Veneto orientale, con l’obiettivo di coordinare tra poco le ronde di tutta la regione. Nella sola provincia di Treviso il gruppo “Veneto sicuro” conta 500-600 volontari di area leghista.
Il fenomeno è talmente diffuso che addirittura a Padova alcuni gruppi di volontari sono composti cittadini stranieri.
Il comune della città veneta, guidato dal sindaco progressista Flavio Zanonato, paga alcune associazioni per scortare gli anziani a ritirare la pensione e riaccompagnarli a casa.
Tornando in Lombardia, a Caravaggio (cittadina in provincia di Bergamo) da un anno operano ronde di ex carabinieri, a stretto contatto con l’amministrazione locale leghista. Pattugliano il Santuario e la stazione, per prevenire scippi e rapine. La gente di Caravaggio (non proprio il Bronx) dice di sentirsi più sicura, ma forse è soltanto una sensazione. Come quella dell’insicurezza.

l’Unità 23.2.09
«Così lo Stato delegittima le forze dell’ordine»
Il segretario dell’Unione camere penali: «La norma che introduce l’obbligo della custodia cautelare per gli stupratori è anticostituzionale»
Intervista a Lodovica Giorgi di Claudia Fusani


Non può passare il principio per cui un governo decide per decreto chi mandare in galera, per il solo fatto di essere indagati di un tipo di reato. È un precedente gravissimo».
Lodovica Giorgi è avvocato e segretario dell’Unione delle camere penali italiane.
E proprio dai penalisti arriva una bocciatura netta del decreto che venerdì il consiglio dei ministri ha approvato all’unanimità in nome dell’allarme stupri e sicurezza.
Cosa la allarma di più in questo decreto?
«Tutto e prima fra tutto la nascita delle ronde, legalizzate e per decreto. Da non credere».
Sono associazioni di cittadini che rispondono a precisi criteri di selezione e avranno anche la supervisione del prefetto e del sindaco.
«È il principio che non va bene. L’introduzione delle ronde significa due cose. La prima: lo Stato abdica a una sua prerogativa fondamentale come la tutela dei cittadini e della sicurezza.
La seconda: delegittima l’operato delle forze dell’ordine che negli ultimi due anni hanno operato molto bene, e i dati del Ministero dell’Interno sono qui a dircelo».
In effetti le violenze sessuali sono diminuite del 10 per cento. Un dato positivo che Berlusconi ha subito rivendicato. Allora, perché?
«Perché dalla primavera scorsa il governo cavalca la voglia di ordine e autorità che c’è nei cittadini per soddisfare gli istinti più primitivi dell’elettorato. Ecco che introduce per decreto le ronde.
Ma così facendo agevola solo l’intolleranza. Abbiamo visto cosa è successo negli ultimi giorni, le vendette, i raid punitivi. La politica non può permettere questo».
E invece lo fa per decreto.
«Sbagliato il merito. Sbagliato il metodo. Un decreto è legittimo se esistono i presupposti di necessità e urgenza. Quando poi le modifiche legislative vanno ad incidere sui principi di fondo dello stato di diritto, è indispensabile il più ampio dibattito parlamentare».
Il decreto introduce anche l’obbligo della custodia cautelare per chi è accusato di stupri, violenze e abusi.
«Questo è anticostituzionale. La Carta stabilisce che la libertà delle persone può essere limitata per atto del giudice. Invece qui si va in carcere per decreto e perché indagati per un certo tipo di reato. Ma lo sanno che la maggior parte dei conflitti coniugali porta a denunce per violenza sessuale? Cosa facciamo allora: ex mariti e fidanzati tutti in galera? C’è molta confusione e si confonde la certezza delle pena con la certezza della custodia cautelare. Sono due cose diverse».
Per decreto nasce anche il reato di stalking. Su questo le Camere penali sono d’accordo?
«Ben venga il reato, in effetti c’era un vuoto normativo per le molestie persecutorie. Ma anche qui ci sono forzature e fratture col sistema. Si prevede, ad esempio, l’incidente probatorio per le vittime di stalking. Ma questo è istituto eccezionale e qui le ragioni di eccezionalità mancano completamente. Ma soprattutto, la norma era già stata approvata alla Camera, perché hanno dovuto fare un decreto?»
Esercizio del potere?
«La chiamerei autopromozione».
Cosa serve alla sicurezza?
«Più uomini in divisa e più risorse. Il decreto prevede 1.500 agenti in più. Ma nei prossimi tre anni anni ne usciranno dodicimila».

Repubblica 23.2.09
La corsa a creare le ronde di partito
di Renzo Guolo


E COSÌ, a forza di indifferenza verso le trasformazioni indotte nella "costituzione materiale" del tempo, eccoci piombati in piena era di vigilantismo.
L´istituzionalizzazione delle cosiddette "ronde" - mai come questa volta il nome indica la sostanza delle cose, al di là del tentativo della destra di matrice aennina e dello stesso Berlusconi di riconvertirlo nel più burocratese e fintamente rassicurante "sicurezza partecipata" - segna una svolta pericolosa.
Perché, nonostante i correttivi introdotti nel decreto, mina lo storico primato dello Stato in materia di sicurezza, "privatizzandolo" a favore di gruppi che possono diventare una sorta di milizia personale o di partito: come dimostra la corsa in queste ore, in un Nordest sempre più Far East, dei partiti a mettere le mani sulle ronde. Altro che ex-poliziotti o ex-alpini, come ammette senza falsi pudori un Carroccio che si fida solo dei "suoi". Si tratta di pure milizie di partito: "verdi", azzurre, nere. A ciascuno la sua. Un mix di collateralismo di partito utile alla mobilità sociale e di protagonismo locale a varie tinte. Con il rischio che nella nuova società della sorveglianza itinerante, le "telecamere umane" mettano nel loro occhiuto campo visivo non solo i rischi per la sicurezza, politicamente selezionati, ma anche i comportamenti non ritenuti ortodossi. E, perché no?, anche persone a qualsiasi titolo, sessuale, religioso, politico, sgradite ai vigilantes in pettorina.
Una deriva gravida di rischi. Perché produce conseguenze destinate a mettere in discussione proprio quella sicurezza che si vorrebbe tutelare, dal momento che non sempre sarà possibile controllare l´operato dei "volontari", fortunatamente non armati, così come la reazione dei potenziali sorvegliati. Perché tende a fare dell´ordine pubblico mobilitato il terreno prevalente della politica. Mescolando, in una preoccupante confusione di ruoli, istituzioni, organi di governo, milizie private. Con il concreto rischio che si snaturino gli stessi caratteri dello Stato democratico.
Al di là della prevedibile inefficacia delle ronde in quanto produttrici di sicurezza, il vero pericolo è dato dal diffondersi come senso comune della falsa idea del "popolo che si fa Stato" senza mediazioni istituzionali; di una subcultura politica che vive la Costituzione, la magistratura, lo stesso operato delle forze dell´ordine, come orpelli ingessanti, se non come ostacoli da superare. Una novità, quella del vigilantismo, che accanto alla progressiva trasformazione delle polizie municipali in organo di ordine pubblico generale politicamente orientato e in concorrenza con i corpi di polizia nazionale, rischia di alimentare non solo conflitti istituzionali ma anche drammatiche torsioni dei diritti: come ricorda il caso di Parma.
Un percorso che, se sottovalutato perché confuso, come fanno gli eterni sottovalutatori di turno, con il folclore, rischia di accentuare la corsa verso una sorta di "democrazia totalitaria" che ha come fine l´adesione del cittadino a una supposta "volontà generale". Una concezione di "Stato della paura" che mette paura. Non è un caso che il presidente della Repubblica, pur obbligato a dare via libera al provvedimento, ne abbia immediatamente preso le distanze, precisando come i contenuti del decreto siano di "esclusiva responsabilità del governo". Timori che aleggiano in ampi strati della società italiana, consapevoli che, nelle intenzioni dei suoi promotori, il vigilantismo è destinato a mettere sotto controllo le nuove "classi pericolose", immigrati in primo luogo. Timori, nonostante la presa di distanza del Vaticano, diffusi anche in parte rilevante dello stesso mondo cattolico che si riconosce in quanti, pure Oltretevere, hanno definito il rondismo come un´"abdicazione dello Stato di diritto".
Una deriva che le forze più responsabili del Paese, quelle che storicamente lo hanno salvato nei suoi momenti più difficili pur essendo spesso espressioni di "minoranze attive", devono non solo respingere decisamente ma contrastare culturalmente. Mostrandone, senza i complessi dovuti dall´aver colpevolmente sottovalutato in passato il tema sicurezza, i possibili rischi. Magari cercando di far comprendere alla società italiana che il fondamentale diritto all´incolumità e alla protezione fisica delle persone dovrebbe essere accompagnato a quello alla protezione sociale degli individui. Spezzando, così, la spirale che caratterizza questa incerta fase della globalizzazione e riduce a vicende secondarie una crisi economica che si annuncia durissima, lo sgretolamento del welfare, il drammatico collasso del capitale sociale, a partire dalla formazione e dall´istruzione, il degrado di quel bene indisponibile che è l´ambiente. Su questi versanti la destra populista non ha nulla da dire: il cittadino viene mobilitato solo per sorreggerne il progetto carismatico e securitario. Per il resto, che si arrangi: un salto all´indietro di due secoli.

l’Unità 23.2.09
Rihanna e le altre
Quando l’«amore» ti cancella
di Maria Serena Palieri


Un viso umano, quando è tumefatto e sanguinante, perde i suoi tratti: diventa uguale a qualunque altro viso umano tumefatto e sanguinante. È così anche per quello di Rihanna, apparso in Rete nei giorni scorsi, a riprova del pestaggio inflittole dal compagno Chris Brown. Rihanna, cantante barbadiana, è ventunenne da soli tre giorni ma, come informa Wikipedia, è già titolare di molti record: prima voce delle Barbados ad aver vinto un Grammy Award, una delle tre artiste al mondo ad avere avuto otto hit da uno stesso album, e così via. Nelle immagini di scena mostra un volto decisamente grazioso, di quelli che nei romanzi per signorine, quando regnavano le gerarchie generazionali, sarebbe stato definito un «visetto impertinente». Ma, appunto, pugni e schiaffi cancellano l’impertinenza: rendono una faccia di donna uguale a tutte le altre facce di donna sottoposte allo stesso pestaggio, facce belle, brutte, mansuete, spavalde.
È stata ridotta così, Rihanna, dall’ex-fidanzato - la voce maschile con cui duettava in Cinderella under my umbrella - l’8 febbraio, il giorno in cui insieme avrebbero dovuto esibirsi davanti alla platea del Grammy Awards. Invece quella sera lei è finita al pronto soccorso e lui sotto indagine per violenza. Una mano ignota (si ipotizza sia stata la stessa polizia losangelina, al fine di incriminare più rapidamente Brown) ha scattato la fotografia e l’ha inviata al sito web Tmz, specializzato in gossip sui personaggi dello spettacolo. Ora, sembra che in Rete fossero già circolate in precedenza altre immagini della cantante con un occhio nero. Questo, se è vero, farebbe pensare che Robyn Rihanna Fenty, è il nome completo con cui è stata iscritta all’anagrafe di St.Michael il 20 febbraio 1988, fosse abituata a prenderle da Cristopher Maurice Brown, nato a Tappahannock, Virginia, il 5 maggio 1989. Che, quindi, sotto l’identità da pop-star, agisse in lei lo stesso meccanismo psicologico che si mette in moto in tutte le donne - celebri o anonime, abituate a stare sui rotocalchi o effigiate solo alle nozze e sulla carta d’identità - che finiscono al pronto soccorso, o direttamente all’obitorio, per mano dei propri «innamorati». Il meccanismo è questo: lei accetta di essere considerata una «proprietà» da lui, di essere maltrattata e deprezzata, comincia a prenderle ma non denuncia, lui va oltre... È come se la coppia, di fronte a ciò che non è sopportabile: che un uomo si imponga su una donna in virtù della propria maggiore forza fisica, anziché scoppiare si cementasse. Perversamente.
Certo, è un paradosso maggiore che questo avvenga dove ci sono soldi. Soldi per pagarsi avvocati, una casa nuova quando ci si separa, per andare in analisi e capire di più di se stessi: quello che moltissime donne (e moltissimi uomini) non hanno. È un paradosso in apparenza maggiore che avvenga lì dove sembra regnino autoassertività e trionfale sicurezza di sé: nel mondo dello spettacolo.
Ma Rihanna non è il primo volto bello e famoso a diventare per qualche ora emblema di quello che altrove succede tutti i giorni, lontano dai riflettori. La mattina del 12 ottobre 1978 Nancy Spungen, ventenne bionda dal fascino da bambola dark, giaceva con un coltello nell’addome sul pavimento del bagno della stanza numero 100 del Chelsea Hotel, a Manhattan. A trovarla fu il suo fidanzato ventunenne John Simon Ritchie, in arte Sid Vicious, bassista dei Sex Pistols. Emergeva, raccontò, da un trip di droghe (erano eroinomani tutti e due). In realtà, là su quel pavimento, morta, ce l’aveva spedita lui. John Simon Ritchie, qualche mese dopo, fece quello che - stando alle statistiche - fanno poi molti di questi «amorosi assassini»: tentò il suicidio. Fu salvato una prima volta, ci riuscì la seconda, con un’overdose di eroina, il primo febbraio 1979. A dare alla vicenda un tocco ulteriore di perversione fu l’ipotesi circolata allora: che a fornirgli la dose per il viaggio fatale fosse stata sua madre.
La sera del 13 giugno 1994 Nicole Brown venne ritrovata quasi decapitata nel giardino del condominio in cui risiedeva, al numero 875 di South Bundy Drive, a Brentwood. Accanto a lei, coi segni di 17 coltellate, c’era il corpo di Ronald Goldman. Nicole era una tipica bellezza americana - bionda, pelle di pesca, sorriso scintillante - ed era la ex-moglie di O.J.Simpson, l’afroamericano stella del football. A differenza delle altre candidate a una «amorevole» morte violenta lei, dopo la separazione, il marito l’aveva denunciato, per maltrattamenti.
Ma nel suo caso questo stop - che spesso salva la vita - non aveva funzionato. Dopo la spettacolare fuga in macchina di O.J.Simpson, il processo tra il ‘94 e il ‘95 sarebbe diventato una tipica «cause célèbre»: razzista la polizia, bianca? Simpson sarebbe finito in carcere solo nel 2008, condannato a 15 anni, ma per un altro reato, rapina a mano armata.
Il primo agosto 2003 a Vilnius, in Lituania, muore per edema cerebrale una donna quarantunenne con un cognome importante, Marie Trintignant. Del padre, Jean-Louis, ha gli occhi enormi timidi e inquieti. Sembra che nell’infanzia, a seguito della morte di una sorella, fosse divenuta muta. Però era diventata attrice, all’inizio in due pellicole dirette da sua madre Nadine Marquand. Appunto, a Vilnius girava un film. Aveva anche uno stile di vita da jet set: quattro figli con quattro uomini diversi. A ucciderla è il suo ultimo compagno, Bertrand Cantat, voce dei Noir Désir, gruppo rock francese. Come nel caso di Sid Vicious, è un omicidio «dopato»: Cantat l’ha picchiata e uccisa sbronzo e impasticcato.
Un ossimoro. Noir Désir, nero desiderio, quasi un ossimoro. Ed è un ossimoro quello che si cementa in queste unioni: in questi amorosi assassinii. Lontano dai riflettori succede tutti i giorni. Per venire a noi, nel nostro Paese un po’ di più che in altri paesi del Nord-Ovest del mondo. In Italia ogni tre giorni una donna viene uccisa dal marito o dal fidanzato.
Oppure da un ex che non manda giù di essere diventato tale. A volte da un uomo che la coppia se l’è inventata: che, quella donna, l’ha scelta e «sposata» in un suo interiore mondo fantasmatico. Diciamo che in senso percentuale, dopo la morte per cause naturali o per incidente su strada, in Italia per gli uomini viene la morte bianca sul lavoro, per le donne questa sanguinaria «affettiva» fine. Solo che non si nota: c’è chi, delle morti nei cantieri e in fabbrica, tiene i conteggi, nessuno fa altrettanto per la mattanza femminile.
Il volto irriconoscibile di Rihanna ci dice questo: è un drammatico spot online di quanto succede oltre il web, giù, nel buio.

Corriere della Sera 23.2.09
Otto anni fa L'ordinanza del giudice. La famiglia della vittima: «Non deve uscire»
Accoltellò la fidanzatina a scuola «Cure inutili, Roberto è pericoloso»
di Paolo Di Stefano


Il delitto
Il 12 febbraio 2001 Monica, 16 anni, è uccisa dal suo ex fidanzato, un anno più grande di lei. L'aggressione avviene, durante la ricreazione, nel cortile di un istituto magistrale di Sesto San Giovanni
Una coltellata alla gola
I due giovani si erano lasciati da poco. Il racconto delle compagne: «Roberto s'è avvicinato al nostro gruppo, ha afferrato Monica alle spalle, le ha fatto perdere l'equilibrio tirandola per i capelli e le ha sferrato un colpo alla gola con un coltellino svizzero»
L'arresto
Roberto è stato arrestato e portato al carcere minorile.
Riconosciuto affetto da un grave disturbo della personalità, definito narcisistico-schizoide, è stato assolto dall'accusa di omicidio volontario e destinato a seguire un percorso di recupero in comunità

CINISELLO BALSAMO (Milano) — Sono passati otto anni dalla mattina in cui Roberto Giaquinto con un coltellino, durante la ricreazione, uccise l'ex fidanzata Monica, 16 anni, sua compagna di classe nella III CP dell'Istituto Erasmo da Rotterdam di Sesto San Giovanni. Era il 12 febbraio 2001, ma per i genitori di Monica è tutto fermo a quel giorno. Non trovano una spiegazione e forse non la troveranno. L'ultima fotografia di Monica è ancora lì sottovetro, appesa su una parete della sala: una bella ragazza, alta elegante e sorridente, che si preparava a festeggiare il capodanno con mamma Carmen, papà Carmelo e le due sorelline, Letizia e Giada. Sono passati otto anni; nel nome di Monica sono nate delle borse di studio da assegnare a ragazzi della sua età, con le donazioni spontanee sono state acquistate delle ambulanze, Carmen ha fatto di tutto per tenere viva la memoria di sua figlia però non riesce a darsi pace.
Tanto meno da quando un'ordinanza del magistrato di Sorveglianza di Torino, datata 21 novembre 2008, ha fatto chiarezza sul percorso dell'assassino di Monica. Riscontrato nel giovane un grave disturbo della personalità definito narcisistico- schizoide, dopo il processo dell'ottobre 2001 Roberto viene assolto dal delitto di omicidio. Una comunità di recupero è incaricata di ospitarlo: con il proposito di sottoporlo a un trattamento farmacologico e psicoterapeutico che si prevede «inevitabilmente lungo e complesso». E con l'avvertenza che venga preservato da «rapporti non controllati con tutti gli esterni alla comunità e, assolutamente, con soggetti femminili eventualmente ospiti della struttura». La misura di sicurezza viene confermata più volte, consentendo a Roberto di dedicarsi ad attività esterne lavorative e di studio. Nel 2006 però la comunità segnala una seria difficoltà del giovane «ad osservare le regole interne» e ne chiede il trasferimento: Roberto è «lontano dalla percezione del reato commesso, dalla coscienza di infermità, e dalla conseguente necessità di attenersi a limiti esterni». Insomma, come sottolinea il giudice nella sua ordinanza, Roberto resta «soggetto socialmente pericoloso », ancor di più nei confronti delle giovani donne, con le quali alterna comportamenti protettivi e raptus violenti. Roberto, diventato maggiorenne, nel frattempo avrebbe anche maturato «un senso di onnipotenza e di superiorità» tale da renderlo «incompatibile con qualsivoglia struttura comunitaria». Le cose precipitano l'8 febbraio 2008, quando il ragazzo viene sorpreso nel reparto femminile «in una situazione di intimità con un'altra paziente particolarmente problematica ». La quale, di conseguenza, sarà costretta a essere ricoverata in un reparto psichiatrico. La richiesta di trasferimento fallisce. Ben otto strutture si rifiutano di dare ospitalità a Roberto. In realtà a fallire è il proposito di recupero in comunità. Dunque, date queste complicazioni, con l'ordinanza del 21 novembre scorso, il magistrato assegna Giaquinto a una casa di cura per la durata di tre anni. Mamma Carmen e papà Carmelo insistono: «Non c'è rispetto per le vittime. Quel ragazzo non ha pagato per ciò che ha fatto, non ha fatto un solo giorno di carcere: non ha rotto un oggetto, ha ammazzato nostra figlia. E per di più non si è ravveduto, non ha capito la gravità del suo gesto e continua a minacciare altre ragazze. Se non gli sono bastati otto anni, quando uscirà dalla casa di cura sarà ancora più pericoloso di prima». Eppure Roberto era in apparenza un ragazzo tranquillo, unico maschio in una classe con una ventina di compagne. Intorno a Carmen, sedute nel salotto di questo appartamento al quinto piano dove Monica ha vissuto la sua breve vita, ci sono le amiche di un tempo: Laura, Oriana, Veronica, Valentina, e c'è anche Roberto, omonimo del suo fidanzato, che, dice Laura, «la lasciava e la riprendeva come e quando voleva». Valentina ricorda che fino agli ultimi giorni Roberto diceva che amava Monica ma che non potevano più stare insieme: «Sembrava che la percepisse come un pericolo».
Al giudice, durante il processo, disse a occhi bassi di averla uccisa «perché doveva essere mia». Un caos di sentimenti: «I professori di un istituto psico-pedagogico — incalza mamma Carmen — avrebbero dovuto capire che era un ragazzo problematico». E ricorda che nel novembre '99 Roberto scrisse un tema in cui confessava di avere due personalità, una buona e una cattiva: e quando verrà fuori quella cattiva saranno guai... Altro che guai, una tragedia. Veronica ha ancora davanti agli occhi il suo «sguardo assente » di certi momenti: «In genere era un tipo tranquillo, ma a volte — dice — si lasciava prendere dal nervoso, come quando ha spaccato la cattedra rovesciandola per terra». Purtroppo sono tutti flash del senno di poi, come la passione «sfegatata » per il rock satanico di Marilyn Manson o la dolcezza alternata alle minacce rivolte agli altri e a se stesso: «Non posso essere felice, non devo» era una delle sue frasi ricorrenti, ricorda Oriana. Tempo fa, Veronica ha incontrato il fratello di Roberto: «Quando esce, metteremo su insieme una libreria, mi ha detto».

Corriere della Sera 23.2.09
La civiltà dell'Europa: destino comune con l'Islam
Nel Mediterraneo un intreccio inestricabile di conflitti e scambi
di Luciano Canfora


Oggi a Roma viene presentato il nuovo volume della Salerno: un capitolo è dedicato alla schiavitù, fenomeno spesso trascurato dagli storici

Viene presentato oggi a Roma (ore 11), presso il circolo del ministero degli Esteri (lungotevere dell'Acqua Acetosa 42), il decimo volume della «Storia d'Europa e del Mediterraneo» edita da Salerno. Si confronteranno sui contenuti di questo volume, intitolato «Ambiente, popolazione, società» (pp. 832, e
140), Giulio Andreotti, Alessandro Barbero, Luciano Canfora, Lamberto Dini e Vincenzo Scotti. Coordina l'incontro il direttore del «Corriere» Paolo Mieli. Il tomo è compreso nella terza parte, curata da Roberto Bizzocchi, della «Storia d'Europa e del Mediterraneo», dal titolo «L'età moderna (secoli XVI-XVIII)».
Nell'immagine in alto una «mappa» dell'Europa nel 1914 (Corbis)

«Gli storici vagavano nel giardino dell'Eden senza uno straccio di filosofia per coprirsi, nudi e senza vergogna dinanzi al dio della storia ». È il cuore concettuale del primo capitolo di What is History? di Edward Hallett Carr (1961). Dopo di allora — prosegue Carr — «abbiamo conosciuto il Peccato», ed oggi gli storici non possono eludere la domanda capitale e preliminare: cos'è un fatto storico? Alla fine del secolo XIX Charles Seignobos, maestro di ricerca storica positiva alla Sorbonne, ammoniva: «Ben pochi pensieri e atti degli uomini lasciano tracce visibili, basta un accidente per cancellarle. Ogni pensiero o atto di cui s'è persa la traccia è perduto per la storia, è come se non fosse mai esistito. Mancandoci i documenti, la storia di amplissimi periodi del passato risulta inconoscibile per sempre. Non vi è nulla che possa surrogare i documenti: niente documenti, niente storia» ( Introduction aux études historiques, 1898). Seignobos non faceva sconti nemmeno alla Historik
di Droysen, che definiva «pesante, pedantesca e confusa».
Eppure, proprio l'espansione del «territorio dello storico» (espressione cara alle Annales) è stata, grazie all'ampliamento del concetto stesso di fonte e di testimonianza, la conquista della «nuova storia». In tale ampliamento rientrano fenomeni capitali: l'assunzione al rango di «fatti storici» anche di fatti a lungo non considerati tali, nonché, e forse in primo luogo, il tentativo di dare voce ai senza voce della storia. Nessuno oggi scriverebbe più la storia dell'impero inglese alla maniera della Cambridge History of the British Empire
(1929-1963), o almeno ci sentiamo tenuti ad integrarla, per esempio, con la Storia della dominazione europea in Asia
del diplomatico indiano K.M. Panikkar (1956).
La «storia d'Europa» è, da questo punto di vista, un genere letterario particolarmente esposto a tale crescita di consapevolezza, nonché più in generale alle sollecitazioni forti provenienti dalla vicenda politica vivente. Le storie «universali» scritte tra Otto e Novecento (per esempio quella fortunatissima diretta da Pflugk-Harttung) erano di fatto delle storie d'Europa e della conquista europea del mondo: un po' come la storia universale secondo Polibio era, in sostanza, la storia della conquista romana del Mediterraneo. Un capovolgimento di tale prospettiva si può riscontrare in due opere molto diverse tra loro: A Study of History
di Arnold Toynbee e i volumi iniziali della Storia universale dell'Accademia delle Scienze dell'Urss (opera collettiva, che nella seconda parte è soltanto apologetica e quindi si riduce a documento d'epoca e cessa di essere opera di storia). Storie d'Europa (non più del mondo visto e conquistato dall'Europa) si cominciarono a scrivere quando l'Europa aveva ormai perso, con il 1918, la sua posizione centrale ed egemonica; e sempre più quando, dopo il secondo conflitto mondiale, si dissolse quanto restava degli imperi coloniali. Si potrebbe anche dire che la storiografia si è volta a considerare con tenerezza l'Europa e la sua storia — che è in verità una storia di ferocia e di sopraffazione — quando ormai il dominio europeo sul mondo era sfumato e l'umanità intera era stata portata al disastro ben due volte dalle guerre scatenate dalle potenze europee. Insomma come l'«europeismo» nobile post-1945 ci appare come una forma di «contrizione» da parte di un continente che ha nociuto agli altri e a se stesso più di ogni altra potenza al mondo, così lo scrivere storie d'Europa è diventato il corrispettivo «colto» in sede storiografica, di quel definitivo declassamento nonché della consapevolezza di aver perso quella centralità rivelatasi tanto nociva.
Ben venga la contrizione, comprese le foto ricordo di Kohl e Mitterrand che si danno la mano tra le croci dei cimiteri militari. Meno facile è la creazione di una storiografia sull'Europa che non scada nell'autocontemplazione e, soprattutto, che dia conto dell'intreccio coi mondi circostanti con cui l'Europa si è mescolata e scontrata per millenni:
in primis l'intero mondo mediterraneo, ma anche, e non meno, il mondo compreso tra l'Asia Minore e la Mesopotamia. Se la Grecia antica è la «culla», come una consolidata retorica asserisce e ripete, non è male ricordare che tutto parte (filosofia, poesia, arte figurativa) dalla grecità d'Asia: e da molto prima che un fratello del poeta Alceo (nato e vissuto nell'isola di Lesbo) facesse il mercenario dalle parti di Gerusalemme agli ordini di comandanti persiani. Per non parlare della mescolanza greco-iranica voluta da Alessandro, o del fatto ben noto che il faro della cultura antica, cioè la biblioteca di Alessandria, era in terra d'Africa (quantunque i Greci distinguessero tra Egitto e Libia, e adoperassero piuttosto quest'ultima espressione per indicare l'Africa settentrionale).
La Storia d'Europa e del Mediterraneo
che la Salerno Editrice ha intrapreso a pubblicare or sono tre anni, e di cui è appena apparso il decimo volume
(Ambiente, popolazione, società nei secoli XVI-XVIII), pur essendo una «storia d'Europa», infrange sin dal titolo, e poi nell'impianto, la visione eurocentrica: al punto che, nel primo tomo, il racconto parte proprio dall'area mesopotamica e lungamente ne discorre. A giusto titolo i redattori hanno ritenuto, anche nel seguito, inopportuno tenersi all'idea, angusta e difficilmente formalizzabile, di Europa. E hanno avuto chiaro, da subito, che si tratta di un'unica storia che coinvolge anche l'altra sponda del Mediterraneo. Sono studiosi di mente moderna e di competenze non comuni (come ad esempio Giusto Traina), ai quali non sfugge il nesso tra l'Armenia e il mondo greco-romano, o il fatto che l'Africa settentrionale per tutto il tardo antico è uno dei centri motori dell'impero, cioè dell'«Occidente». Settimio Severo e Agostino di Ippona sono nomi che giovano a comprendere la fondatezza di questa considerazione. E anche dopo, per tanta parte del racconto, mondo islamico e mondo cristiano risultano entrambi «protagonisti» di questa originalissima «Storia d'Europa».
Innovativa è anche la scelta di guardare ai fenomeni non propriamente «visibili », nonché ai gruppi sociali che meno di altri hanno avuto la possibilità — per usare le parole di Seignobos — di «lasciare tracce attraverso i documenti ». In quest'ultimo volume ad esempio un ampio capitolo (il quinto), a cura di Salvatore Bono, è dedicato a «La schiavitù in Europa e nel Mediterraneo». È una vera novità, in una storia d'Europa, che ancora una volta documenta l'inestricabilità di Europa e Islam. Di norma, avverte l'autore, quando si parla di «schiavitù » gli storici pensano all'età antica, o alla tratta dei neri, ovvero alla massiccia presenza della schiavitù in America, in particolare negli Stati Uniti, ben oltre la metà del secolo XIX e anche oltre la sanguinosissima «guerra di secessione». In questa scelta c'è la eco di studi recenti. «Da un ventennio almeno — scrive Bono — la storiografia ha reso ben evidente l'esistenza di schiavi anche dopo (e in parte grazie) alle scoperte geografiche nei paesi mediterranei d'Europa e in alcuni non propriamente mediterranei ». E conclude: «Vi fu dunque una continuità del fenomeno servile, dall'età antica a quella medievale e poi sino alla Rivoluzione francese e persino oltre, sia pure con un rilevante variare di dimensioni e caratteristiche». La legittimità della riduzione in schiavitù «derivava presso le due maggiori parti in causa» (cioè cristiani e musulmani) dal fatto che chi veniva catturato — soprattutto in mare e in guerra —, e perciò asservito, apparteneva all'altra fede religiosa. Di conseguenza ebrei, ma anche greci e slavi ortodossi si trovavano nella posizione peggiore fra tutti: infatti venivano catturati e asserviti da entrambi i contendenti. Non deve sfuggire naturalmente la diversità tra schiavitù americana o «delle piantagioni» e schiavitù «mediterranea» (individuale, capillare, e costantemente incrinata dalla possibilità del riscatto). Questo denso capitolo guida il lettore in una materia che non è dato trovare nelle consuete «storie d'Europa».
È quindi una storia conflittuale e lacerante quella che viene fuori da questi volumi. Per fortuna alieni da ogni proposito apologetico, o anche solo consolatorio.

Repubblica 23.2.09
Amsterdam. Van Gogh. I colori della notte
Van Gogh Museum. Fino al 7 giugno


«Spesso mi sembra che la notte sia più viva e ricca di colori del giorno», scrive il maestro olandese nel 1888, durante il soggiorno ad Arles. Opera cardine, di questo suo modo di sentire, è la celeberrima tela intitolata Notte stellata , eseguita dall'artista nell'anno successivo, al tempo del ricovero nell'ospedale di Saint-Rémy, a causa di una profonda crisi seguita alla rottura dell'amicizia con Gauguin. In questo dipinto, oggi conservato al Museum of Modern Art di New York, il maestro mette infatti mano a tutte le sue innovazioni formali ed espressive più importanti: colore, materia, gestualità, segno, portati al massimo della tensione, al massimo dell'energia vitale e tragica. Si vedano, a questo proposito, le stelle ruotanti nel cielo notturno che rinviano alla fragilità dell'esistenza umana. Il museo che conserva gran parte dei lavori del maestro, come I Mangiatori di patate del 1885, propone una esposizione che prende in esame i termini in cui Van Gogh associa aspetti delle ore notturne alle tematiche analizzate nella propria arte, dalla vita contadina al ciclo della natura. La mostra, già allestita al Moma, riunisce dipinti provenienti dalle raccolte del museo olandese e da altre collezioni internazionali.

Repubblica 23.2.09
Londra. Van Dyck e l'Inghilterra
Tate Britain. Fino al 17 maggio


In contemporanea con "Altermodern", la quarta edizione della triennale della Tate, da vedere la rassegna che ripercorre la pittura del maestro fiammingo attraverso centotrenta opere. Formatosi ad Anversa e attivo per alcuni anni anche in Italia, Van Dyck viene nominato nel 1632 cavaliere e pittore ufficiale della corte di Carlo I, carica che mantiene fino alla morte. A Londra la sua produzione è vastissima: si conoscono oltre quattrocento opere, le più tarde eseguite valendosi ampiamente di aiuti di bottega. In questo periodo l'artista esegue quasi esclusivamente ritratti dell'aristocrazia, come quello di Lucy Persy, contessa di Carlisle, scelto come immagine della mostra. Famosi i suoi ritratti di Carlo I a cavallo, conservato alla National Gallery di Londra, o a caccia, oggi al Louvre. La straordinaria ritrattistica di Van Dyck (in mostra, anche il sorprendente autoritratto del 1633), ha una vasta portata europea: a Genova, dove l'artista opera durante il lungo soggiorno italiano, si forma una vera e propria scuola. In Inghilterra i grandi ritrattisti del Settecento vi troveranno ampia materia di riflessione.

Repubblica 23.2.09
Ravenna. L'artista viaggiatore. Da Gauguin a Klee, da Matisse a Ontani
Mar. Fino al 21 giugno


La città che fin dai tempi del porto romano di Classe è stata un punto di riferimento per i viaggiatori ospita una rassegna che intende fare il punto sulla ricerca dell'Altrove da parte degli artisti, dalla seconda metà dell'Ottocento. La mostra, curata da Claudio Spadoni e Tulliola Sparagni, prende avvio dai globi terrestri settecenteschi di Adams, dai libri di Cook, da antiche carte geografiche, dagli oggetti etnografici del Museo Pigorini di Roma, chiamati a fare corona alla celebre Boite en valise di Duchamp, una sorta di museo portatile che contiene le riproduzioni delle sue opere più importanti. Seguono sezioni dedicate ai continenti, in cui sono allestite piccole personali, che illustrano le diverse declinazioni dell'orientalismo e del primitivismo, fondamentali nell'arte europea. Da vedere opere di Nolde, Macke, Kokoschka, Dubuffet e Boetti.

domenica 22 febbraio 2009

l’Unità 22.2.09
Fine vita, piazza gremita contro la tortura di Stato
Manifestazione a Roma per una legge giusta sul testamento biologico
Englaro: alt alla legge ingiusta
di Jolanda Bufalini


In piazza Farnese a Roma migliaia di persone senza bandiere e simboli
Ignazio Marino: da Franceschini parole molto chiare. Domani il Senato riprende l’esame

Il marchese del Grillo ispira il cartello più divertente della piazza: la Costituzione secondo Berlusconi? Io so tutto e tu non conti un c...
Qualche minuto prima delle tre piazza Farnese è piena e gli organizzatori spostano le transenne per fare più spazio. La folla deborda verso campo de’ Fiori. Le bandiere gialle e nere degli atei e agnostici sono le uniche, su un lato. Per il resto non ci sono simboli o bandiere di partito. Chi è venuto lo ha fatto per sé: forza e debolezza di un’iniziativa che non vuole essere di parte ma a cui è mancato il sostegno della principale forza di opposizione. Lo noterà, durante la maratona che si prolunga sino alle sette di sera, Furio Colombo: «Come fa la collega di partito Dorina Bianchi a dire che la vita umana appartiene alla collettività? È un’affermazione sovietica». E Emma Bonino: «Ho chiesto a Veltroni, ho chiesto al Pd di mobilitarsi». La parlamentare non pronuncia la parola referendum perché il film che ha davanti è quello della legge sulla procreazione assistita. «Non c’è rispetto delle regole, non c’è stato di diritto nell’informazione». Si devono usare tutti i tempi della discussione parlamentare per raggiungere il maggior numero di cittadini possibile. Ignazio Marino arriva sotto il palco dalla fiera di Roma. È soddisfatto delle parole «molto chiare» di Dario Franceschini: «il legislatore deve avere una mentalità laica e non può mettere in discussione la libertà di scegliere le terapie». Lunedì ci sarà la presentazione degli emendamenti e, dice il medico senatore, «nel gruppo c’è unanimità per l’abrogazione dell’articolo 2 del disegno di legge Calabrò». «Secondo quell’articolo un testimone di Geova non potrebbe rifiutare la trasfusione; quella signora che rifiutò l’amputazione sarebbe obbligata ad accettarla». Sarebbe il contrario della libertà di scelta.
La voce di Beppino Englaro
Il senatore si interrompe perché si sente, dagli altoparlanti, l’inconfondibile accento delle montagne della Carnia di Beppino Englaro. È il momento di maggiore emozione in una piazza che «a Peppino, a Eluana, alla moglie Saturna vuole bene» e lo sottolinea con il calore degli applausi. Beppino ribadisce: «Quella legge sarebbe una barbarie». «La sentenza della Cassazione il 16 ottobre ha stabilito che idratazione e nutrizione forzata sono una terapia». «Non c’è naturalità, Eluana ha cominciato a morire 17 anni fa ma quel processo è stato interrotto». Poi, intervistato a “Che tempo che fa” ha detto di non volersi impegnare in politica, ma «per 6233 giorni ho dovuto affrontare una situazione che potrebbe capitare anche a me, è stato giusto affrontarla insieme ad altri». E ancora: «Dire di no a una terapia salvavita non ha nulla a che vedere con l’eutanasia».
«In un paese civile - aveva detto Paolo Flores d’Arcais dal palco di piazza Farnese - non sarebbe necessario manifestare». «Solo in uno stato totalitario la decisione sulla vita appartiene al governo o alla gerarchia ecclesiastica». Flores sottolinea la differenza fra la gerarchia e «i venti sacerdoti che hanno aderito alla manifestazione; i molti fedeli che non pensano alla religione come a una forma di oppressione ma come carità cristiana».
Gli scrittori
Lidia Ravera: «Che fortuna i cani che non hanno l’anima. La mia anima non sono i valori, la coscienza secondo quale vivo. La mia anima è Aline, avamposto di un esercito straniero perché - a causa sua - non posso decidere se diventare madre, di diventare madre, di aiutare mia madre se soffre troppo e inutilmente».
Andrea Camilleri: «L’illegalità istituzionale inquina le coscienze come le polveri sottili inquinano l’aria che respiriamo».
Habeas Corpus
Stefano Rodotà quasi rimpiange i tempi della Dc - «Un vecchio democristiano mi ha detto, per te è facile ma per me è intollerabile sentire la gerarchia ecclesiastica, questi politici pronunciare la parola assassinio».
Nonostante la campagna televisiva, ricorda il costituzionalista, il 77% della popolazione si è dichiarata vicina alla famiglia Englaro. La maggioranza del paese difende la libertà di scelta. E aggiunge: «Già la Magna carta si impegnava con gli uomini liberi: «Non metterò le mani su di te». Si sta parlando di principi che affondano le loro radici in sette secoli di civiltà e diritto.
E poi, sottolinea Rodotà, il consenso informato nasce al processo di Norimberga, dopo le testimonianze dei medici sugli orrori del nazismo. Solo la scelta degli individui - da non confondersi con l’individualismo - garantisce dall’intervento dello Stato. Questi stessi principi sono nella nostra Costituzione. La più bella del mondo, aveva detto Furio Colombo.

Repubblica 22.2.09
Englaro: così la legge non passerà
Testamento biologico migliaia in piazza
"Con questa legge si torna al medioevo" Fine vita, migliaia in piazza per dire no
di Caterina Pasolini


Roma, manifestazione gremita contro il ddl. "Se passa, referendum"

"Una legge da medioevo" Fine vita, la piazza dice no
Sotto il palco tanta gente comune, giovani, anziani e famiglie senza bandiere di partito

ROMA - «Il commissario Montalbano sarebbe sicuramente qui, anche se è già chiaro chi è il colpevole: una maggioranza, con un Berlusconi prono ai voleri del Vaticano, che ha preparato una legge per impedire a ciascuno di vivere e morire come vuole. Io sono qui perché non voglio avere la vergogna di andarmene lasciando ai miei nipoti un´Italia senza libertà devastata nella morale pubblica e privata. Una qualsiasi legge che limiti la libertà di scelta sarà usata come grimaldello per leggi sempre più restrittive».
Un lungo applauso accoglie lo scrittore Andrea Camilleri in una piazza Farnese stracolma di gente. A migliaia sono venuti alla manifestazione indetta da Micromega contro il disegno di legge sul testamento biologico voluto dal centro destra, un ddl «medievale» spiega il suo direttore Paolo Flores d´Arcais. «Perché la vita non è della chiesa né dello Stato, è di chi la vive. Noi siamo per la libertà di scelta, c´è chi vorrà le macchine staccate come Welby e chi no». E da più parti arriva la promessa, l´impegno: «se passa questo disegno di legge si farà il referendum».
Sotto il palco tanta gente comune. Giovani, pensionati, impiegati, dipendenti di call center, amiche in gruppo, genitori con i figli ancora in carrozzina. Non hanno bandiere di partito, solo qualche cartello in difesa della laicità dello Stato e contro il Vaticano. Sono genitori con bambini, come Roberto Ledda e la moglie convinti di «voler decidere noi della nostra fine perché l´unico comandamento è non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te». Cattolici e pensionati come Angela Vita, professoressa di Lettere persuasa «che l´esistenza non è un valore assoluto senza la dignità e la libertà di scelta». O femministe d´antan come Andreina Andreotti, 60 anni, col suo cartello «giù le mani dalla mia vita e dalla mia morte», che non pensava di ritrovarsi in piazza tanti anni dopo per dire ancora «io sono mia», né della chiesa né dello stato.
E sono forti gli applausi quando il costituzionalista Stefano Rodotà parla di legge truffa «perché non è vincolante il parere del cittadino ed è incostituzionale visto che nega il diritto a rifiutare le cure», quando palesa i suoi timori per «una deriva autoritaria fondamentalista contraria quel 75 % di italiani che vuole decidere di persona o in famiglia sulla propria fine». Il succo del problema lo sottolinea Furio Colombo, senatore Pd: «Il Vaticano parla ma negli altri paesi europei fanno leggi secondo la loro coscienza. Da noi riesce invece ad imporsi grazie al caos nella maggioranza e ad un´ opposizione spaccata». Dal congresso del Pd arriva Marino, ex presidente della commissione sanità. Lunedì presenterà gli emendamenti al ddl «perché ognuno possa decidere, perché ci si occupi di terapie del dolore, aiuti alle persone in difficoltà». E il nuovo segretario Franceschini, assicura, è sulla stessa linea. In piazza Paolo Ferrero di Rifondazione - «no ad una legge che è tortura di stato» e anche Antonio di Pietro, dell´Idv: «Questa manifestazione è la risposta a tanti mister tentenna e ad un governo che anche sulla morte vuole decidere lui sostituendosi ai cittadini. Io sono cattolico e non se se avrei il coraggio di decidere di farmi staccare la spina, ma se c´è qualcuno che vuole farlo io non ho il diritto di decidere per lui. Questo è un momento caldo per la laicità dello stato e va affrontato con gli antibiotici». Poi chiama Beppino Englaro, e quando sente la sua voce la folla lo abbraccia con dieci minuti di applausi.

Repubblica 22.2.09
Beppino Englaro è intervenuto in audio al sit-in romano, poi da Fazio a "Che tempo che fa". "Dobbiamo attenerci alla Costituzione"
"Per Eluana non hanno avuto rispetto lasciarsi morire è un nostro diritto"
"La mia battaglia da cittadino, chiunque potrebbe essere come mia figlia"
di C. P.


ROMA - Lo hanno chiamato boia, assassino. Ma Beppino Englaro ha sopportato in silenzio per mesi quelle accuse violente. «Ci sono riuscito solo perché ero a posto con la mia coscienza, sapevo che finalmente potevo rispettare le indicazioni di mia figlia Eluana. Per lei però mi sarei aspettato più rispetto». Lo ha raccontato ieri sera alla trasmissione «Che tempo che fa» con Fabio Fazio. Alla fine di una lunga giornata densa di parole. Con quei dieci lunghissimi minuti di applausi che da piazza Farnese sono saliti come un forte abbraccio quando si è sentita la sua voce al telefono da Milano. Dopo che il costituzionalista Rodotà lo aveva indicato come un «eroe civile». Con voce pacata ha ripetuto di non voler assolutamente entrare in politica, ma di voler far sì che la sua esperienza, i suoi «6233 giorni» di dolore possano essere utili per gli altri.
Sul disegno di legge Calabrò in discussione al Senato ha pochi dubbi. «Sono sicuro che gli italiani non si faranno imporre questa legge che è incostituzionale e antiscientifica. È una barbarie: considera alimentazione e idratazione non terapie e quindi irrifiutabili. Così si impongono condizioni di vita che praticamente nessuno si sognerebbe di dover subire. Una barbarie, imposta dall´alto. Ci vuole invece una legge semplice che dia voce e garantisca le libertà fondamentali, di dire sì o no alle terapie, in anticipo per quando non potrà farlo».
E con i molti che da piazza Farnese hanno fatto appello alla Costituzione, all´articolo 32 che, come dice il senatore del Pd Marino «ci dà il diritto alla salute ma non all´obbligatorietà delle cure», Beppino è d´accordo. «Noi ci dobbiamo attenere alla Costituzione. Che poi ci siano altre ideologie è chiaro che vanno rispettate, non ci sogneremmo mai di non rispettarle. Quello che loro non riescono a rispettare siamo noi, che abbiamo una concezione diametralmente opposta. Noi non ci sogneremmo mai di imporre a loro questo. Se vogliono essere curati oltre ogni limite vanno curati e nessuno può togliere loro questo diritto. Ma nessuno può togliere agli altri il diritto di non curarsi, di lasciarsi morire». E sull´idratazione? «Una volta che la sentenza della Corte Suprema di Cassazione chiarisce che l´alimentazione e l´idratazione forzata sono una terapia, noi sappiamo che la grande conquista del consenso informato, dell´autodeterminazione, è parte integrante della Costituzione italiana». E sull´eutanasia: «Dire di no ad una terapia salvavita non ha niente a che vedere con l´eutanasia, nella maniera più assoluta. È semplicemente lasciare che la natura faccia il suo corso. È quasi banale non capire questa situazione. Una cosa è chiedere un´iniezione letale, un´altra e chiedere di lasciarsi morire: l´ha chiesto anche Giovanni Paolo II».
(c. p.)

l’Unità 22.2.09
La nuova pillola si chiama sondino
La Chiesa e il bio-testamento
di Maurizio Mori, presidente Consulta di bioetica


Tanti oratori si susseguono nella piazza piena sino alle sette di sera. «La nostra non è una battaglia di parte, riguarda la libertà di tutti». È in difesa della Costituzione che garantisce l’inviolabilità della persona.

Perché i cattolici, in buona parte, insistono tanto nell’affermare che la alimentazione e idratazione artificiale sono solo una forma di “sostegno vitale” contro il parere delle associazioni scientifiche? Come ha dichiarato la Sinpe nel gennaio 2007 (la Sinpe è la Società italiana di nutrizione artificiale - parenterale ed enterale - e metabolismo) la nutrizione artificiale «è un trattamento medico a tutti gli effetti; non è una misura ordinaria di assistenza (come lavare o imboccare il malato non autosufficiente); si configura come la ventilazione meccanica o la emodialisi». La risposta alla domanda iniziale è semplice: se non è un trattamento medico come gli altri, allora non può essere oggetto di testamento biologico, atto che riguarda solo la sospensione di terapie mediche. Anche questa tesi è inconsistente, perché qualsiasi atto sulla persona è illegittimo senza il consenso. Ma perché puntare su un contrasto tanto palese e acuto?
Di solito lo si spiega con l’atteggiamento antiscientifico ancora diffuso. C’è molto di vero in questa spiegazione, che però non considera la mentalità sottesa all’altro modo di ragionare, in cui la nutrizione artificiale non va mai sospesa «per l’immenso valore simbolico» che avrebbe. Chi crede che sia un trattamento medico mette in campo dei fatti, mentre gli altri rimandano a simboli - aspetto che rivela come si parlino due lingue diverse.
L’immenso valore in gioco è la indisponibilità o sacralità della vita umana. Un tempo questo valore era insito nell’esistenza quotidiana, ora va affermato almeno solo a livello simbolico. Ma con determinazione fino all’intransigenza per evitare il ripetersi di ciò che è accaduto negli anni ‘60 con la riproduzione. L’incertezza nel condannare la pillola contraccettiva ha finito per avvallare la tesi che le persone hanno la facoltà di controllare le sorgenti della vita. Per contenere la frana c’è voluto il blocco sull’aborto prima e sull’embrione poi, ma la battaglia è partita in svantaggio per via degli iniziali dubbi.
Per la gerarchia ecclesiastica va evitato un errore analogo sul fine della vita. L’appello alla pietà nelle condizioni tragiche non deve diventare veicolo dell’autodeterminazione. Si può concedere che, in casi eccezionali, quando non c’è più niente da fare e il paziente è ormai uno straccio che non ce la fa proprio più, lo si lasci andare. Ma non deve essere lui a decidere, perché va sempre rispettato il ritmo sacro della vita e della morte. Va riaffermato il valore simbolico della nutrizione artificiale per lasciare il pungiglione della sacralità della vita nella nuova situazione del mondo, nella speranza di tempi migliori per ristabilire l’ordine ora perduto. Come si cerca di fare con la riproduzione.

Repubblica 22.2.09
Il corpo come luogo pubblico
di Stefano Rodotà


Con il passare dei giorni si fa più netta la natura del conflitto intorno al tema del testamento biologico, che nella prossima settimana verrà discusso al Senato. Nel fuoco delle polemiche che hanno accompagnato le ultime giornate della vita di Eluana Englaro sembrava che una legge dovesse avere una finalità precisa, quella di risolvere le due questioni che avevano appassionato e diviso l´opinione pubblica: le modalità del testamento biologico, per eliminare ogni dubbio sull´effettiva volontà della persona; e l´ammissibilità della rinuncia all´idratazione e alla alimentazione forzata. Ma il disegno di legge della maggioranza ha reso manifesta un´intenzione diversa, più generale, e tanto più inquietante perché incide profondamente sui diritti fondamentali della persona, e così altera lo stesso quadro costituzionale.
Ciò di cui si discute è il rapporto della persona con il suo corpo, dunque l´area più intima e segreta dell´esistenza, alla quale la politica e la legge dovrebbero accostarsi con rispetto e prudenza, consapevoli che vi sono aspetti della vita che la Costituzione ha messo al riparo da ogni intervento esterno, che ha voluto intoccabili. Negli ultimi anni, invece, in Italia si è venuto consolidando un orientamento diverso, che descriverei ricorrendo al titolo di un libro di Barbara Duden: Il corpo della donna come luogo pubblico. Sull´abuso del concetto di vita. Del corpo della donna il legislatore si è pesantemente impadronito con l´autoritaria e proibizionista legge sulla procreazione assistita, negando la libertà femminile e creando davvero quel far west legislativo che si diceva di voler combattere. Oggi, infatti, migliaia di donne emigrano ogni anno in altri paesi per sfuggire agli assurdi divieti di quella legge, obbligate a pesanti costi finanziari e umani, mettendo pure a rischio la salute loro e dei figli che nasceranno.
Ora si vuole far diventare "pubblico" il corpo di tutti noi. Il rifiuto di cure, diritto ovunque riconosciuto e caposaldo della stessa soggettività morale, viene sostanzialmente negato dalla proposta della maggioranza. La sorte del corpo nel tempo del morire è sottratta alla libera decisione dell´interessato, viene affidata ad un medico investito del ruolo di funzionario di uno Stato etico che, appunto, ha proceduto alla "pubblicizzazione" del corpo.
Il testamento biologico diviene un simulacro vuoto, una formula che contiene il suo opposto. Si obbligano le persone ad un infinito iter burocratico, con obblighi continui di recarsi dal notaio, di chiedere firme del medico, di effettuare rinnovi periodici. Tutto questo per approdare al nulla. Il delirio formalistico non produce una volontà da rispettare, ma un "orientamento" che il medico può ignorare del tutto. E non solo viene esclusa la possibilità di rinunciare a trattamenti come l´alimentazione e l´idratazione forzata. Si finisce con il sottrarre alla libera scelta delle persone materie nelle quali il rifiuto è stato finora riconosciuto, dalla trasfusione di sangue alla dialisi, all´amputazione di un arto, al ricorso a tecniche meccaniche e farmacologiche.
Non è di una vicenda specifica, sia pur rilevantissima, di cui dobbiamo preoccuparci. Siamo di fronte ad una ideologia riduzionista del senso e della portata dei diritti fondamentali, che vuole impadronirsi dell´intera vita delle persone. Del nascere si è già impadronita, ora vuole farlo per il morire, e pone pesanti ipoteche sul vivere, come accade quando si rifiuta ogni riconoscimento alle unioni di fatto.
Mettendo così le mani sulla vita delle persone, si mettono pure le mani sulla prima parte della Costituzione che, a parole, si continua a proclamare intoccabile. Si manipolano principi fondativi del nostro sistema, che la Corte costituzionale ha dichiarato immodificabili. E tutto questo avviene mentre tutte le rilevazioni ci dicono che la maggioranza dei cittadini interpellati ritiene che proprio le decisioni sulla vita debbano rimanere patrimonio dell´interessato e della sua famiglia. Si apre così non solo una questione di rispetto della Costituzione, ma di rappresentanza politica. Molti, sempre di più e più spesso, si riuniscono, scendono in piazza. In quali luoghi della politica ufficiale arriverà questa voce?

Liberazione 22.2.09
L'iniziativa di Micromega a Roma: la borghesia illuminata stanca di Veltroni promette un referendum. Englaro: «Sono con voi»
Manifestazione per il testamento biologico
La piazza contro i tentennamenti del Pd
di Laura Eduati


Un ddl che dichiara la vita umana «indisponibile» e vieta la sospensione di idratazione e alimentazione artificiale nonostante i medici che si occupano di malati terminali abbiano già diffuso un documento di allarme spiegando che in punto di morte la nutrizione forzata prolunga e acuisce le sofferenze.
«La vita appartiene a chi la vive. Con quale diritto Bagnasco, Formigoni e Roccella decidono sulla nostra vita?» argomenta pacatamente Paolo Flores D'Arcais, uno degli organizzatori, che conclude amaramente: «Inizia la più difficile delle nostre lotte, mai avremo immaginato di dover combattere per impedire di venire espropriati del nostro corpo». Poco dopo Lidia Ravera ricorderà che il dominio del dogma sul corpo è già cominciato con la legge 40 sulla fecondazione assistita.
Promossa dagli ex girotondini Pancho Pardi e Flores D'Arcais con le adesioni illustri di Eco, Garrone, Maraini, Hack e Rodotà, la manifestazione doveva avvenire in piazza Navona, poi non concessa.
E dunque piazza Farnese, salottino pregiato e illuminato dalla elegantissima ambasciata di Francia si riempie di normali cittadini intambarrati, facce silenziose e quiete, molti capelli bianchi e visi rugosi e senza giri di parole una piazza poco popolare, la borghesia illuminata e intellettuale che legge Repubblica e l' Unità , stimati professionisti e studenti, giornalisti in pausa lavoro e signore che torneranno in una casa comoda e calda, a pochi passi. Se ci fosse Berlusconi, fantasma spesso evocato negli interventi e fischiato a più riprese, direbbe: comunisti radical-chic.
Tuttavia questa piazza non vuole definirsi laica in contrapposizione ai cattolici, e piuttosto la sua rabbia trattenuta vuole rivolgerla ad un Pd che non fa opposizione.
Verso la fine, quando ormai fa buio, sale sul palco Ignazio Marino (Pd). Il senatore chirurgo, autore di una proposta di legge sul testamento biologico che piace molto da queste parti, si dice «soddisfatto» delle rassicurazioni ricevute dal neo segretario Dario Franceschini sulla laicità del (nuovo?) Partito democratico, e promette una battaglia per eliminare la parte del ddl Calabrò che vieta la sospensione di ogni terapia che potrebbe provocare la morte del paziente, persino di quei malati coscienti e lucidi come Welby.
Emma Bonino non usa la stessa cortesia e fiducia: Veltroni ha tentennato sulla questione del testamento biologico, e forse anche per questo è caduto dal piedistallo.
Tra gli aderenti all'iniziativa c'è don Franzoni delle comunità cristiane di base, cita un passo dell'Utopia di Tommaso Moro dove viene consigliata la dolce morte in casi di sofferenze terminali insopportabili. Un testo del 1516.
Le uniche bandiere sono quelle degli atei razionalisti dell'Uaar, un vessillo di Rifondazione svetta di primo pomeriggio e poi viene ammainato. Hanno aderito i partiti come il Prc, i radicali, Sinistra democratica e Italia dei Valori. Paolo Ferrero arriva e dice: «Il ddl della maggioranza contiene l'accanimento terapeutico poiché vieta a persone in stato vegetativo da dieci o quindici anni di arrivare ad una morte sacrosanta e questo è chiaramente incostituzionale».
Hanno aderito i partiti, ma Flores D'Arcais vuole ringraziare particolarmene l'Italia dei Valori che ha prestato il palco e le apparecchiature.
Di Pietro è presente e prende la palla al balzo per una stoccata al Pd: «Questa manifestazione è la riposta di tanti mister tentenna e a un governo che anche sulla vita e sulla morte vuole decidere lui sostituendosi al cittadino».
E' Camilleri a parlare, applauditissimo, di «cosiddetta opposizione». Perché qui è chiaro che l'ingerenza del Vaticano avrà passato pure ogni limite, ma la responsabilità ultima resta al governo e specialmente ad un Pd debole e preda dei problemi di coscienza.
«Lotteremo» dice Lidia Ravera «non perché siamo di sinistra, laici o anti-berlusconiani ma perché siamo pietosi e non vogliamo una legge crudele e cinica».

Repubblica 22.2.09
Gli Ordini dei medici: sanzioni a chi segnala i clandestini in cura


ROMA - I medici che segnaleranno all´autorità giudiziaria gli immigrati irregolari potranno essere sanzionati dagli Ordini professionali di appartenenza per aver violato il Codice deontologico. È quanto deciso in un documento, votato all´unanimità dal Consiglio nazionale della Federazione degli Ordini dei medici (Fnomceo), riunito a Roma, nel quale si ribadisce nero su bianco il «forte dissenso all´emendamento al ddl sicurezza», già passato al Senato, «che abroga il divieto per i medici di denunciare alle autorità gli immigrati irregolari che si rivolgono, per essere curati, alle strutture sanitarie pubbliche». Un documento nel quale i camici bianchi italiani lanciano un appello affinché la Camera dei Deputati non lo approvi.

l’Unità 22.2.09
Desaparecidos
Le vittime italiane
di Toni Jop


Il nostro presidente del Consiglio ha il suo modo di articolare la storia: nella sua infinita sensibilità, lui vede barzellette dove c’è tragedia. Poco male se mezzo mondo è inorridito, pochi giorni fa, dopo che il nostro mattacchione se l’è sentita di ripetere una gag che trasformava in macchietta migliaia di desaparecidos inghiottiti negli anni Settanta dai regimi fascisti sudamericani. Molto spesso, questi «indesiderati pericolosi» sono stati «svuotati» sbrigativamente nel Rio della Plata o in mare aperto scaraventandoli fuori da aerei e elicotteri. Su questi voli Berlusconi era riuscito a ironizzare. Tragedia nella tragedia, un numero considerevole di quei desaparecidos era di nazionalità italiana, molte vittime erano nate in Italia o potevano disporre del doppio passaporto. Non servirebbe questo gancio «nazionale» per imporre rispetto e delicatezza a chiunque si affacci su questa pagina delle nostre vicende tutto sommato recenti. Ma c’è, esiste, come esistono i sopravvissuti, i testimoni, i famigliari delle vittime, gente che anche in casa nostra (ma è davvero qualcosa di diverso da «casa nostra» la bellissima e italianissima Argentina, per esempio?) non ha mai smesso di cercare amici, fratelli, parenti spariti nel nulla, perché qualcuno paghi, perché la giustizia non sia ancora la prima «desaparecida» del nostro presente.
Stiamo parlando, allora, di una ferita tutt’ora molto aperta che ci tocca da vicino. Argentina, soprattutto, ma anche Cile, Uruguay, Brasile sono stati terminali di una nostra emigrazione di massa, in varie fasi. Per questo motivo è sempre stato molto difficile quantificare il contributo dato dagli italiani alla mattanza avviata dai regimi dittatoriali. E non di rado quei cognomi italiani non hanno contraddistinto solo le vittime, hanno rubricato anche molti carnefici. Così, il tentativo di precisare il numero relativo ai desaparecidos almeno dotati di passaporto italiano, è sempre stata operazione aleatoria. Ma ci si prova, sulla base di calcoli portati avanti nel corso degli anni dalle varie associazioni che si occupano di questa orrenda «assenza ingiustificata». Per restare in Argentina, dove il regime di Videla avrebbe prodotto almeno 30mila casi di sparizioni, sembra che non sia lontana dal vero l’ipotesi che almeno mille di questi si possano considerare cittadini italiani. In Cile, il regime di Pinochet, mosso da un’ottica concentrazionaria molto meno accorta sotto il profilo dell’immagine, avrebbe eliminato circa tremila cittadini e di questi almeno trecento sarebbero nostri connazionali. Nel più piccolo Urugay verso la fine degli anni Settanta sarebbero spariti una quarantina di italiani.
Questo versante in qualche modo «nazionale» della infinita sofferenza sudamericana si è rivelata una poderosa risorsa messa disposizione della ricerca della verità, nell’accertamento delle responsabilità individuali, nel far emergere a livello processuale le dinamiche criminali messe in opera da quei regimi. Proprio dall’Italia, almeno all’inizio, è partita una tenace iniziativa giudiziaria che ha messo in grande difficoltà omertà, protezioni, presunzioni di intoccabilità nelle file dei killer di regime e dei loro mandanti. «Questo percorso esterno ai paesi teatro di un crimine contro l’umanità è stato per molto tempo - spiega l’avvocato Giancarlo Maniga, affianco ai famigliari delle vittime - il solo squarcio aperto sull’impunità spesso garantita ai colpevoli dagli Stati d’appartenenza». Si può affermare che una semplice «querela», niente più che un sasso, sottoscritta dal famigliare di un desaparecido ha fatto saltare il coperchio protettivo predisposto delle dittature e frequentemente tenuto in vita dai governi succeduti ai regimi con il pretesto di una inverosimile «pacificazione nazionale». Un sasso lanciato dall’Italia e piombato in Argentina come in Cile come in Uruguay. Ma niente di tutto questo sarebbe accaduto se il nostro ordinamento giuridico non avesse messo a disposizione della querela e dell’azione della magistratura italiana un grimaldello concepito per altri fini e in altra epoca. «Nient’altro - ricorda Maniga - che l’articolo 8 del nostro codice di procedura penale; quello che consente all’Italia di aprire un procedimento nei confronti dei responsabili di un crimine commesso all’estero ai danni di un nostro connazionale e laggiù non perseguito»: semplice ed efficace.
Grazie a questa opportunità, il 17 marzo 2003, con la conferma delle condanne pronunciata dalla Corte d’Assise d’Appello, si è chiusa la prima «partita» contro l’impunità. I generali argentini, Guillermo Suarez Mason e Santiago Omar Riveros sono stati ritenuti responsabili di sei omicidi - assieme ad altri militari di grado inferiore - e per questo condannati all’ergastolo. Può considerarsi sostanzialmente concluso anche il processo noto con il nome di «Esma» - la Scuola di Meccanica della Marina, elegante palazzina nel cuore di Buenos Aires, luogo di tortura - che ha posto sul banco degli imputati l’ex ammiraglio Emilio Massera con un gruppo di ex ufficiali - tra cui Alfredo Astiz, l’«angelo biondo» - membri del famigerato «Grupo de tareas», che lì operava. Gli imputati sono stati condannati nel marzo 2007 e la sentenza è stata confermata in appello il 24 aprile 2008. Il quattro marzo a Roma si terrà l’udienza preliminare del processo Massera - la sua posizione era stata stralciata - dopo che una perizia sanitaria ha accertato la capacità piena dell’imputato di stare in giudizio.
Altri due processi sono attualmente in fase istruttoria. Entrambi nelle mani del pm Giancarlo Capaldo. Il primo, attivato nel 1998 dai famigliari, e da alcuni parlamentari, di quattro vittime del regime di Pinochet, tra cui Omar Venturelli, un ex sacerdote fatto sparire dopo che si era consegnato alle autorità cilene nel 73. Per questo omicidio è attualmente in carcere, a Roma, Alfonso Podlech Michaud, ex procuratore militare di Temuco, arrestato nel luglio dell’anno scorso a Madrid e poi consegnato alla giustizia italiana. Nelle mani dello stesso pm anche i fili di un altro grosso processo, più volte titolato con il nome «Condor», sigla del patto di reciproca collaborazione dei regimi militari di Cile, Argentina, Brasile, Uruguay, Paraguay e Bolivia nella eliminazione degli oppositori politici. Anche in questo caso, qualcuno degli imputati era finito in un carcere italiano: si tratta di Jorge Néstor Troccoli Fernandez, ex ufficiale della marina uruguaiana. Troccoli, accusato della sparizione di sei persone, è stato rilasciato dal Tribunale del riesame perché si sostiene che nel fascicolo di Capaldo non ci sarebbero prove a suo carico. Il ministro Alfano ha rifiutato la richiesta di estradizione per Troccoli avanzata dai giudici uruguaiani che indagano su du lui sostenendo che Troccoli era cittadino italiano. Comunque, questo processo vola forse troppo alto: da Roma sono partite le richieste di cattura per 140 golpisti, praticamente i vertici dei regimi militari del Sudamerica. «Stiamo attendendo - lamenta Cristina Mihura, familiare di un desaparecido italo-uruguaiano, Bernardo Arnone - di sapere le conclusioni di Capaldo: dieci anni di indagini sono un tempo sterminato e non abbiamo ancora idea di cosa ci sia in quel fascicolo...».

l’Unità 22.2.09
La banalità del male
di Fernando A. Iglesias


Il male non fa male solo perché è male, ma perché fa della vita una cosa stupida, vuota e priva di senso. Ne sapeva qualcosa Hannah Arendt quando scrisse sulla banalità del male. Ne sa qualcosa Berlusconi, che di essere vuoto e banale non si stanca mai. Le sue scandalose dichiarazioni sui “voli della morte” in Argentina sono un’offesa ai più elementari sentimenti di umanità.
Non c’è nulla di spiritoso
Che una delle massime autorità del governo si riferisca con ironia a quello che è stato uno dei grandi genocidi del XX° secolo è anche una violazione dei rapporti di amicizia che dovrebbero esserci fra paesi così vicini come l’Italia e l’Argentina. Ed è l’ennesima dimostrazione dell’insultante superficialità del suo autore. Invece di fare lo spiritoso con argomenti che niente hanno a che fare con la comicità, Berlusconi dovrebbe ricordarsi che fra i desaparecidos migliaia erano figli e nipoti di immigrati italiani e, dunque, italiani a pieno diritto.
Qualche giudice attento non crede che si tratti di pura e semplice apologia del delitto?
Oscena esibizione
Scusatemi, ma le parole non bastano per ripudiare quest’oscena esibizione. Che va esattamente nella direzione opposta alla sensibilità dimostrata dai tribunali italiani, che hanno invece condannato molti capi militari argentini. È un’esibizione che va contro tutte quelle espressioni italiane di solidarietà nei confronti delle Madres e Abuelas, non ultimo anche attraverso opere artistiche (come l'eccellente film “Garage Olimpo” di Marco Bechis) che dimostrano come i sentimenti degli italiani nulla hanno a che vedere con quelli del loro attuale premier.
Il governo chiarisca
Come deputato nazionale argentino ho chiesto che fosse espresso ripudio per le frasi di Berlusconi; in più, il governo italiano deve fare chiarezza sulle affermazioni del premier: fanno parte della politica ufficiale italiana verso l’Argentina oppure rappresentano l’ennesima esibizione da circo a cui Berlusconi ci ha abituato? Non sono io a dover dire agli italiani di quale responsabilità politica si siano fatti carico permettendo a Berlusconi di diventare capo dell'esecutivo. Lasciatemi però dire quanto mi senta offeso per una tale scelta e quanto desidero che il suo progetto politico venga presto sconfitto elettoralmente, per il bene di tutti i cittadini della mia seconda patria.

l’Unità 22.2.09
Se Israele dimentica Israele
Sicurezza o valori?
di Tania Groppi, Università di Siena


I risultati delle elezioni del 10 febbraio in Israele ci ricordano, ancora una volta, quanto sia ormai lontana nel tempo la fondazione dello Stato «ebraico e democratico» (per citare le parole della Legge fondamentale sui Diritti e le Libertà del 1992), di cui si è da poco celebrato il 60° anniversario. Da un lato il problema di fondo resta immutato, così come creato dalla decisione dell’Onu il 29 Novembre 1947, di dividere il mandato britannico in due Stati, uno ebraico e uno arabo, seguita dal rifiuto arabo e dalla guerra: come conciliare l’innesto del nuovo Stato ebraico con i diritti della popolazione palestinese? Dall’altro lato, però, Israele non è più quello di un tempo: scomparso il sionismo, scomparsi i padri della patria, scomparso il partito laburista che per decenni ne ha caratterizzato il sistema politico. La difficoltà di tenere unita una popolazione con provenienze sempre più varie (e qui non è inutile richiamare il peso dell’immigrazione russa) che manifesta sistemi di valori e stili di vita sempre più diversi. Il compito unificante della religione, della lingua, dell’etnos, ormai stressato all’estremo.
Una unità che pare sempre più affidata alla dialettica amico-nemico, alla necessità di far fronte comune contro l’assedio esterno, e sempre meno, invece, ad un progetto condiviso. Uno Stato, in fondo, sempre più “normale”, con tutte le difficoltà proprie della democrazia pluralista, attraversata da mille cleavages, difficoltà enfatizzate dal sistema elettorale proporzionale e dalla forma di governo parlamentare. Ma chiamato ad affrontare una situazione straordinaria, con territori occupati, il nemico alle porte e spesso anche “in casa”, pronto a farsi esplodere nei luoghi “normali” della vita, con una mobilitazione permanente che trasforma ogni “normale” adolescente in un soldato.
Uno Stato democratico sempre più pluralista, che vive in una guerra permanente per conservare un carattere, la ebraicità, sempre più sfumato: una schizofrenia che forse spiega gli interventi militari più recenti, come quelli a cui abbiamo assistito a Gaza o in Libano, volti soltanto a tamponare pericoli immediati, al di fuori di un quadro di insieme, sprovvisti di una logica e di una prospettiva più ampia. E che spiega forse lo stesso risultato elettorale, in favore di formazioni politiche “di destra”, che paiono assicurare meglio la sicurezza, a prescindere dai valori di fondo a cui si ispirano. Una situazione, schizofrenica appunto, che a lungo andare rischia di minare la stessa democraticità dello Stato israeliano, finora difesa con coraggio dalle Corti, soprattutto dalla Corte suprema, sia pure in mezzo alle esigenze militari imposte dall’emergenza.

Repubblica 22.2.09
Galileo e le chiavi del cielo
Vetro, ferro, cuoio per viaggiare dentro l’universo
di Daniele del Giudice


L´Onu ha proclamato il 2009 Anno internazionale dell´Astronomia per ricordare le grandi scoperte dello scienziato pisano in quel passaggio cruciale che fu il 1609. Ora una mostra a Firenze permetterà di ammirare gli strumenti da lui inventati o perfezionati per potenziare il senso che gli uomini preferiscono: quello della vista, "perché procura più conoscenza e rende manifeste le differenze tra le cose"
A Venezia seppe di un occhiale di produzione olandese "col quale le cose lontane si vedevano come se fussero molto vicine", se lo procurò ma non lo trovò sufficiente: quelle macchine rozze gli sembravano giocattoli. Fu così che cominciò la sua metamorfosi da insegnante di matematica a industriale dell´ottica
Nel 1611 fabbricò un micrometro per misurare la distanza tra Giove e i suoi satelliti. Lo offrì al re di Spagna e per convincerlo che l´osservazione del pianeta era possibile anche in condizioni di instabilità, creò lì per lì un altro attrezzo: il celatone

Galileo Galilei (Pisa 1564-Arcetri 1642) pensava all´universo come a un «concetto immenso e pieno di filosofia, astronomia e geometria», come scrive nella lettera a Belisario Vinta datata 7 maggio 1610. Un immenso che l´esperienza dei sensi, sensata esperienza, può rivelare se non è «cieca» ma illuminata dalle dimostrazioni necessarie e da una teoria sulle cause dei fatti osservabili. L´universo è un immenso che tuttavia, a dispetto di questo nome, è misurabile con strumenti adeguati.
Galileo non apprezzava gli aristotelici dei suoi tempi, filosofi in libris, che davano troppa importanza all´aspetto qualitativo e osservavano la natura controvoglia come se l´osservare fosse un passatempo ozioso e inconcludente. Anziché misurare con il saggiatore, la bilancia di precisione che serve agli orefici per pesare la polvere d´oro, usavano la grossolana libra, la stadera, e con quella pesavano anche le opinioni proprie e altrui. Era il caso del gesuita Orazio Grassi che gli rivolse una Disputatio astronomica sulle comete e poi, sotto lo pseudonimo di Lotario Sarsi, gli indirizzò la Libra astronomica alla quale Galileo rispose appunto con Il Saggiatore, nel quale con bilancia squisita e giusta si ponderano le cose contenute nella Libra. Lotario Sarsi parlava di uova, fionde e Babilonesi. Galileo annotò: «Se il Sarsi vuole ch´io creda che i Babilonii cocesser l´uova col girarle velocemente nella fionda, io lo crederò, ma a noi questo non succede [�]. Ora, a noi non mancano uova, né fionde, né uomini robusti che le girino, e pur non si cuocono [�]. E poiché non ci manca altro che l´esser di Babilonia, adunque l´esser Babilonii è causa dell´indurirsi delle uova, e non l´attrizione dell´aria». Galileo non apprezzava gli aristotelici ma non poté non subire il noto assunto che apre la Metafisica: gli uomini preferiscono il senso della vista perché procura più conoscenza e rende manifeste le molte differenze tra le cose. E Galileo voleva vedere.
In gita a Venezia nel 1609 seppe di un occhiale di produzione olandese «col quale le cose lontane si vedevano come se fussero molto vicine», se lo procurò ma non lo trovò sufficiente, quelle macchine rozze gli sembravano dei giocattoli per bambini, e allora prese contatto con gli occhialai e poi con i maestri vetrai di Murano e imparò a fabbricare lenti e a combinarle tra loro nel modo più utile, sottoponendosi di buon grado ad una metamorfosi abbastanza coerente, da insegnante di matematica nell´Università di Padova - dove rimase diciotto anni, fino al 1608, insegnando con poca convinzione il sistema tolemaico - a industriale dell´ottica. Andava a fare la spesa e nella lista (come quella annotata su una lettera di Ottavio Brenzoni del 23 novembre 1609 conservata nella Biblioteca Centrale di Firenze) scriveva ceci, farro, zucchero, pepe, chiodi di garofano e cannella, e di seguito pezzi di specchio, ferro da spianare e altri materiali utili ad allestire un laboratorio ottico. Si confezionò da sé degli "occhialetti" sempre più raffinati che ingrandivano fino a venti o trenta volte più di quelli olandesi, una lente da miope per oculare e una da presbite per obbiettivo, e il telaio in legno o in pelle.
Ne fabbricò in grandi quantità, così numerosi che qualche esemplare lo esportò; ne inviò uno all´Elettore di Colonia e questi, un uomo molto colto, dopo aver esclamato «Vicisti, Galilaee!» come l´imperatore Giuliano l´Apostata, lo prestò a Keplero. Senza quel cannocchiale Keplero non avrebbe potuto osservare le ultime novità celesti. E anche Giovan Battista della Porta, che dal 1589 tentava di costruire un cannocchiale a Venezia dopo averlo teorizzato nel Magia naturalis, riconobbe la superiorità di Galileo; se il 28 agosto 1609, in una lettera all´insigne naturalista Federico Cesi che si era fatto promotore della nomina di Galileo all´Accademia dei Lincei, aveva scritto del cannocchiale: «L´ho visto, et è una coglionaria, presa dal mio libro De Refractione», l´anno seguente dichiarò ancora a Cesi che l´invenzione era sua ma Galileo «l´have accomodata e ha trovato [�] gran cose che empiscono il mondo di stupore».
Galileo battezzò i suoi nuovi cannocchiali "telescopi" perché gli permettevano di vedere oggetti distanti, li puntò verso il cielo e osservò per la prima volta i crateri lunari, le stelle della Via Lattea, e nel 1610 i primi quattro satelliti di Giove, Cosmica Sidera, nome che in breve gli dispiacque e che sostituì con Medicea Sidera. Queste scoperte, immediatamente divulgate nel Sidereus Nuncius (Venezia 1610), le dedicò a un suo allievo, Cosimo II di Toscana. E Cosimo lo invitò a Firenze come primario matematico e filosofo del granducato, e gli permise la tanto desiderata dispensa dall´insegnamento, che Galileo non amava per nulla. Le lezioni pubbliche o private erano una schiavitù cui si piegava solo per saldare i debiti, e la presenza di dozzine di studenti in casa sua come ospiti paganti lo contrariava, violava la sua intimità.
Tanto più che proprio uno studente, tale Baldassarre Capra discepolo dell´astronomo tedesco Simon Mayr, Simone Mario, forse per compiacere il suo maestro si era dichiarato nel 1607 l´inventore del compasso geometrico e militare, uno strumento efficace in astronomia e in agrimensura come in balistica e topografia (tra l´altro permetteva di determinare con discreta esattezza l´altitudine di monti inaccessibili) al quale Galileo lavorava dal 1597 e che aveva dedicato allo stesso Cosimo II nel 1606. Il compasso sfruttava la proporzionalità tra i lati omologhi di due triangoli ed era composto di due bracci imperniati su un disco detto nocella, un quadrante, e un cursore infilato in uno dei due bracci, detto zanca, che Galileo maneggiava con le dita, ivi compreso il dito medio attualmente visibile nelle sale dell´Istituto e Museo di Storia della Scienza di Firenze; quel dito, esempio della venerazione tributata al Pisano quale eroe della scienza, venne tolto ai suoi resti mortali da Anton Francesco Gori nel 1737, quando la salma fu traslata al sepolcro monumentale nella Basilica di Santa Croce. Galileo pubblicò una Difesa contro alle calunnie et imposture di Baldessar Capra Milanese, gli intentò un processo e lo vinse. Giunto a Firenze, donò la lente oculare del suo miglior cannocchiale a Ferdinando II, figlio di Cosimo, ma il giovane o chissà chi altro la ruppe accidentalmente. Allora gli fece omaggio di qualcosa di più solido, una calamita, per di più "armata" cioè imbrigliata con una fascetta di ferro posizionata in modo tale da moltiplicare la forza di attrazione del magnete; con sole sei once di peso quella calamita sollevava «quindici libbre di ferro lavorato in forma di sepolcro», come riferì il monaco Benedetto Castelli, matematico e fisico, nel suo Discorso sopra la calamita. A Cosimo il dono piacque moltissimo.
Galileo voleva guardare e misurare i triangoli, i cerchi e le altre figure geometriche che formano l´alfabeto del cosmo, tentava di decifrare il libro della natura per imparare la sua lingua e discorrere con l´universo dei rapporti di quantità che sono la sua struttura. Aveva un grande ideale che era quello della misura come criterio dell´oggettività, e non pensava piccolo o grande e vicino o lontano, ma piccolo o grande in relazione a un´unità di misura, vicino o lontano rispetto a un determinato punto, e così andava formulando il metodo della scienza moderna.
A Firenze continuò gli esperimenti sul termoscopio, progenitore dei termometri d´oggi, una piccola macchina che aveva ideato sul finire del Cinquecento, con la quale misurava le variazioni della densità atmosferica prodotte dalle variazioni di temperatura; si trattava di una caraffa di vetro con il collo molto lungo, sottile «come un gambo di grano», che lui riscaldava tra le mani e poi immergeva nell´acqua in posizione rovesciata e quando sottraeva alla caraffa il calore delle mani osservava l´acqua salire nel collo della caraffa. Continuò le osservazioni idrauliche; nel 1594 la Serenissima Repubblica di Venezia gli aveva rilasciato il brevetto per un sistema meccanico capace di azionare quattro pompe grazie al movimento di un solo asse.
Ma soprattutto continuò a studiare i periodi dei satelliti di Giove. Nel 1611 fabbricò un micrometro per misurare l´esatta distanza tra il pianeta e i suoi satelliti; offrì ripetutamente il micrometro insieme ai cannocchiali al re di Spagna (dal 1611 al 1628), e per convincerlo che l´osservazione del pianeta era possibile anche in condizioni di instabilità, ad esempio dal ponte di una nave, inventò lì per lì un altro strumento simile a una celata che per questo è conosciuto come celatone. E poiché il re di Spagna non apprezzò né il micrometro né il celatone provò con gli Stati Generali d´Olanda dove la sua proposta riscosse un certo interesse ma fu nuovamente rifiutata. Sempre osservando i periodi dei satelliti di Giove Galileo mise a punto un proprio metodo per determinare la longitudine, dipendente dall´esatta misurazione del tempo cronologico. Era il 1637, correvano cinque anni dalla pubblicazione del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo che gli avrebbe causato il processo da parte del Sant´Uffizio, quando si accorse che due pendoli di uguale lunghezza oscillano alla medesima frequenza; applicò il pendolo all´orologio e immaginò un sofisticato congegno che illustrò nella Lettera a Lorenzo Realio. Quel congegno lo realizzò ad arte suo figlio Vincenzo Galilei, abile inventore di strumenti musicali, e una ventina d´anni più tardi, nel 1656, l´applicazione del pendolo all´orologio fu rivendicata da Christiaan Huygens, matematico, astronomo e fisico olandese autore del primo libro sulla teoria delle probabilità che non solo brevettò l´orologio a pendolo ma lo perfezionò con un bilanciere a molla, introdusse la molla a spirale negli orologi portatili e nel 1675 inventò l´orologio da taschino.
Nel 1633 fu chiamato a Roma, fu processato, e costretto ad abiurare le sue convinzioni scientifiche. Segregato ad Arcetri, l´anno seguente inviò a Leida i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze e poi si rassegnò a congedarsi poco a poco dalla sensazione che amava di più (come noi tutti, lo ha detto Aristotele) e infine morì cieco. Era stato uno dei pochi fautori di una scienza nuova, e quei pochi avevano ragione a dispetto dei molti. Come scrisse nel Saggiatore: «Poca più stima farei dell´attestazione di molti che di quella di pochi, essendo sicuro che il numero di quelli che nelle cose difficili discorron bene è minore assai che di quei che discorrono male. Se il discorrere circa un problema difficile fusse come il portare pesi, dove molti cavalli porteranno più grano che un cavallo solo, io acconsentirei che i molti discorsi facessero più che uno solo. Ma il discorrere è come il correre, e non come il portare. Ed un solo cavallo barbero correrà più che cento frisoni».

il Riformista 22.2.09
Obama come Bush, niente diritti ai prigionieri afghani
di Luigi Spinola


La Guantanamo di Barack. L'annunciata chiusura della prigione caraibica pareva l'inizio di una nuova era. Con più discrezione, Washington ha deciso venerdì di tenere aperta la prigione di Bagram. Più dura, più popolata e priva di qualsiasi garanzia per i detenuti. La guerra sporca continua.

A Guantanamo non si sta poi tanto male assicura un rapporto del Pentagono, preparato per chiarire le idee al presidente Obama. Certo, alcuni miglioramenti sarebbero auspicabili, e nelle 85 pagine del documento - ancora non ufficiale - non mancano dettagliate raccomandazioni. Ad esempio lasciare che anche i peggiori - incluso il presunto cervello dell'attentato dell'undici settembre Khalid Sheik Mohammed - si incontrino con la comunità dei prigionieri per la preghiera e altri momenti ricreativi. Tutto è perfettibile. Ma lo stile di vita riservato ai prigionieri non viola le prescrizioni della Convenzione di Ginevra. La rivendicazione può sembrare un sussulto d'orgoglio prima della annunciata chiusura. Assume però una certa credibilità se l'enclave caraibica viene messa a confronto con la meno nota prigione di Bagram, vecchia base sovietica trasformata dagli americani nel cuore logistico della guerra in Afghanistan.
A Bagram i prigionieri sono più di 600 - circa tre volte quelli di Guantanamo. E la popolazione carceraria è destinata a crescere in parallelo con l'atteso "surge" statunitense. Mentre a Guantanamo una task force inizierà tra poco a decidere della sorte di ogni prigioniero, il centro di detenzione afghano verrà ampliato e ristrutturato. Pronto ad accogliere nuovi "combattenti nemici" raccolti sul campo di battaglia (e forse anche altrove). A differenza di quelli di Guantanamo, privi di qualsiasi diritto.
La nuova Casa Bianca per quanto riguarda lo status dei prigionieri sul teatro di guerra approva le scelte della vecchia. Venerdì, al giudice John Bates che il mese scorso ha chiesto alla nuova amministrazione se intendeva «rivedere» la posizione dell'amministrazione Bush, il Dipartimento di Giustizia ha risposto sobriamente che «conferma le decisioni articolate in precedenza dall'autorità governativa». Traduzione: i detenuti a Bagram non hanno diritti costituzionali e dunque non potranno appellarsi a un tribunale federale per contestare la loro detenzione. Oltre Guantanamo, utile poster pubblicitario della nuova era, la guerra continua come prima. Bagram rimane un buco nero che ignora il principio dell'habeas corpus.
Del resto fu proprio per sfuggire alle sfide legali a Guantanamo che la vecchia amministrazione decise, già nel 2004, di dirottare i nuovo detenuti a Bagram. I vecchi hangar lasciati dai sovietici fino ad allora funzionavano come prigione provvisoria e centro di smistamento dei presunti terroristi. I prigionieri passavano da lì prima di finire a Guantanamo o - nel quadro delle cosiddette "extraordinary renditions" - in qualche prigione segreta messa in piedi all'estero dalla Cia. Di Bagram si è sempre saputo poco. Perchè a Bagram - con rarissime eccezioni - si entra solo da prigionieri. Coloro che hanno fatto poi il viaggio fino a Guantanamo - prima di essere liberati - hanno definito le condizioni di Bagram molto peggiori. A Bagram nel dicembre del 2002 hanno lasciato la pelle, incatenati a un muro della loro cella, Habibullah e Dilawar, due giovani afghani.
I diritti riconosciuti ai detenuti di Guantanamo - e per ultimo la sentenza della Corte Suprema che lo scorso anno ha aperto loro le porte dei tribunali d'America - hanno indotto quattro detenuti di Bagram a chiedere uguale trattamento. George W. ha detto no. Barack la pensa come lui. Bagram non è Guantanamo perché si trova sul teatro di guerra, fuori dalla giurisdizione dei giudici federali. A Bagram semmai si può applicare la legge marziale. I prigionieri potranno dunque essere detenuti a tempo indeterminato o almeno fino alla fine del conflitto. Senza un'incriminazione formale. Senza aver un accesso garantito a una difesa legale. Senza una qualsiasi forma di supervizione giudiziaria sulle decisioni prese dai militari. O sulle condizioni di detenzione.
La scelta del governo è stata un piccolo shock per gli avvocati dei quattro prigionieri e le organizzazioni umanitarie che sostenevano la loro causa. Grandi aspettative sono andate deluse. «Obama ha deciso di sposare il principio caro a Bush secondo il quale è giusto creare prigioni fuori dalla legge» ha commentato Jonathan Hafetz, avvocato dell'organizzazione "American Civil Liberties Union" che rappresenta alcuni detenuti. Il cambio di passo sul teatro di guerra semmai è un altro.
Secondo una ricostruzione pubblicata ieri dal New York Times, Obama avrebbe ampliato la guerra segreta della Cia contro il network terroristico in Pakistan. E dall'Afghanistan - dove il contingente italiano potrebbe rafforzarsi e spostarsi anche nelle zone più calde come spiegato ieri dal ministro Frattini al Corriere della Sera - il ministro della Ricostruzione al Paìs consegna un messaggio chiaro all'Occidente. «Qui servono soldati, non organizzazioni umanitarie». La guerra continua. E la guerra al terrore rimane - ma è davvero una sorpresa ? - fedele a se stessa.

Liberazione 22.2.09
Un volume di Primo De Lazzari, dirigente Anpi
Giovani, non di Salò
Storie di adolescenti nella Resistenza
di Bianca Bracci Torsi


Una umida mattina di fine ottobre 1943, arriva a Mestre la solita frotta di scolari provenienti dai paesi vicini: insonnoliti, infreddoliti, coi libri sotto il braccio e in tasca la merenda che l'inventiva delle mamme riesce a garantire nonostante i razionamenti alimentari del tempo di guerra, si dividono in gruppi chiassosi diretti verso le rispettive scuole. Nessuno, o quasi, fa caso a un ragazzo dell'Istituto tecnico che a metà strada svolta e sparisce, nessuno lo vede raggiungere, rapido e guardingo, il filobus che va a Treviso. Si chiama Primo De Lazzari, ha 17 anni, vive coi genitori a Marcon dove ha costituito, con amici e compagni di scuola, un gruppo impegnato in azioni di propaganda e di disturbo contro gli occupanti tedeschi e i loro alleati fascisti.
Nonostante l'età che a quel tempo gli procurato l'appellativo "Bocia" (ragazzino, in dialetto veneto) che resterà il suo nome di battaglia, è "bruciato": nel gergo partigiano significa sospettato e sorvegliato dalle milizie repubblichine, per cui la sicurezza sua e dell'organizzazione impone un cambiamento d'aria. Primo sceglie l'aria del Battaglione Garibaldi Ferretto che opera, appunto, nel trevisano. I genitori, che lo pensano a scuola, saranno tempestivamente informati da un messaggio laconico e sommario secondo le regole della clandestinità. Lo rivedranno dopo la Liberazione. Molti anni dopo Primo De Lazzari, dirigente dell'Anpi e autore di alcuni pregevoli volumi sul fascismo e la Resistenza, dedica gran parte del suo tempo alle scuole romane dove spiega e racconta il fascismo, la guerra, l'esperienza partigiana, la Costituzione. Da questi incontri nasce l'idea di far conoscere agli scolari di oggi i loro coetanei che scelsero di combattere per la libertà, affrontando i disagi, il rischio costante della morte, il pianto delle madri, in un'età che li metteva al riparo dal richiamo alle armi della Repubblica di Salò e dai rastrellamenti tedeschi. Nasce così il libro Ragazzi della Resistenza (Teti editore, pp. 165, euro 14), arricchito da una prefazione pensata e sentita di Massimo Rendina, che De Lazzari dedica al suo più caro amico e compagno d'armi, "Dolfino", sedicenne, ferito in combattimento e finito a bastonate dai fascisti della Brigata Cavallini alla vigilia della Liberazione.
Avevano 16 anni anche Ora e Velia, cresciute insieme a Castel Tesino, che il comandante della Brigata Gramsci non riesce a rimandare a casa, fucilate, dopo atroci torture, dalle SS del capitano Hegenbart.
Più piccoli, ancora bambini di 12 e 13 anni, gli scugnizzi delle quattro giornate di Napoli che si calano nelle acque del porto per recuperare fucili e munizioni gettate dall'esercito italiano in fuga, raccolgono bombe a mano abbandonate per strada per fermare i carri armati tedeschi. Hanno 12 anni "Belpasso", rimandato indietro per tre volte dai partigiani del Battaglione garibaldino "Fronte della gioventù" di Udine, morto in seguito a ferite, "Topolino" staffetta del Battaglione Garibaldi Evangelista che riesce, con le sue chiacchiere a ingannare le sentinelle dei posti di blocco, Ugo Forno che nasconde due pistole con le quali partecipa all'ultimo scontro il giorno della liberazione di Roma e cade in combattimento al ponte ferroviario sull'Aniene e Alfredo Luna che porta sulla canna della bicicletta le armi dei gappisti di Osimo e Loreto.
Alcuni di loro venivano da famiglie antifasciste, altri avevano incontrato, a scuola o in fabbrica, compagni poco più grandi ma già militanti, c'era chi aveva raggiunto il padre, il fratello maggiore, il fidanzato partigiani e chi riuscì a nascondere la sua attività alla famiglia. In tutti, in tutte, a volte passati direttamente dalle battaglie fra bande di ragazzini alla guerra vera, c'era la baldanza dell'età, la voglia di essere considerati "grandi" dai partigiani che quasi sempre li respingevano, trattandoli da "bambini". La paura veniva dopo, quando quei bambini, quelle ragazzine avevano conosciuto la durezza della guerra di guerriglia e acquisito la consapevolezza delle proprie responsabilità verso i compagni e verso il compito che si erano assunti, ma si cresceva presto in quegli anni, si diventava adulti in fretta, condividendo con gli adulti rischi e diritti, si imparava anche a reagire alla paura come ogni combattente, di qualsiasi età. Anche con sistemi che fanno sorridere i ragazzi di allora, diventati adulti davvero, come Teresa Vergalli staffetta diciassettenne nella pianura di Reggio Emilia, che ricorda divertita di aver avuto in dono un rivoltella calibro 6, elegante quanto inefficiente, finita chissà come in un deposito di armi, così piccola da poter essere nascosta nel reggiseno dove lei la teneva col proposito di uccidersi in caso di cattura, convinta «che morire di un colpo secco non era niente in confronto di essere torturata» e di quello aveva paura.
E' una delle tante storie che il "Boccia" racconta con le parole dei documenti militari o con quelle di chi allora le visse o ne fu testimone, tante storie diverse che ricostruiscono un pezzo importante di quella "guerra dei cento fronti" che anche la presenza di ragazzi e ragazzine rese "guerre di popolo".

Liberazione 22.2.09
Vi racconto cos’era la Volante rossa
di Tonino Bucci


«Ho avuto una grave condanna, in passato». La voce, tranquilla e bonaria, è quella di un anziano signore. Si conoscono per caso al telefono, lui - l'anziano signore - si chiama Paolo Finardi, mentre dall'altra parte del cavo c'è Massimo Recchioni, responsabile dell'Anpi in Repubblica Ceca. Si incontrano dopo qualche giorno - siamo nel mese di marzo 2006 - al tavolo d'un caffè di Bratislava, «all'ombra dei platani». «Così sono venuto a conoscenza della lunga e incredibile storia che vado a raccontare» e che di fatto Massimo Recchioni ha raccontato nel libro Ultimi fuochi di Resistenza. Storia di un combattente della Volante Rossa , pubblicato da DeriveApprodi in uscita in questi giorni(con prefazione di Cesare Bermani, pp. 160, euro 14).
Andiamo con ordine. Paolo Finardi accetta d'essere intervistato dopo aver taciuto per quasi sessant'anni. E' un racconto in prima persona, senza note aggiuntive, a eccezione del saggio introduttivo di Cesare Bermani, il primo storico che ha ricostruito da sinistra la vicenda della Volante Rossa. Paolo Finardi, alias "Pastecca", comincia dalle origini, dal paese natìo, Castel Rozzone e di quando tutta la famiglia, per sfuggire alle ritorsioni dei fascisti, si trasferisce a Milano. Qui Paolo, poco più che quindicenne, manovale in una ditta di costruzioni, si avvicina alla Resistenza. Entra a far parte della 118ma Brigata Garibaldi. Porta in giro per la città messaggi nascosti nel sellino della bicicletta, fa il palo durante le azioni contro i tedeschi, fino a che non prende a partecipare in prima persona.
Il pensiero vola in particolare a Eugenio Curiel, fisico triestino, ebreo e comunista, chiamato a dirigere l'Unità clandestina e ucciso alla fine del febbraio '45 in un agguato dai repubblichini. «Ricordo che fummo tutti scioccati da quella notizia. Era davvero una brava persona e incuteva coraggio a molti di noi, soprattutto ai più giovani». All'assassinio di Eugenio Curiel, vedremo, saranno in qualche modo legate le scelte e le sorti personali di Paolo Finardi.
Dopo il 25 aprile si apre una fase di incertezza. Tra le diverse forze politiche che hanno animato la Resistenza si generano sospetti reciproci. «Non fummo i soli a non consegnare le armi. Ci arrivavano voci di gruppi di partigiani che se le erano tenute, e in molti casi si trattava di partigiani "bianchi". Se le avevano tenute, un motivo ci doveva pur essere. Ma sicuramente lo scopo per cui loro e noi ce le eravamo tenute non era lo stesso... Morale della favola, a eventuale difesa non consegnammo praticamente nulla». Sono anni di intensa attività politica delle massa, scrive Cesare Bermani nel saggio introduttivo del libro. Le disposizioni dei partiti a riconsegnare le armi furono in grandissima parte disattese. La storiografia di sinistra è stata fin troppo subalterna, scrive Bermani, sulla Volante Rossa perché ha rinunciato a ricostruire la storia sociale di quegli anni. Nel Pci «non esisteva neanche una vera e propria alternativa organizzata alla linea di Salerno, ma vi era in esso un marcato atteggiamento di preoccupazione per quanto poteva accadere in quell'Europa del dopoguerra e nel Paese. C'era allora nell'aria il pericolo di un colpo di Stato monarchico, operavano squadre armate fasciste e qualunquiste, e, anzi, tutti i partiti, in parallelo all'organizzazione politica, disponevano di una struttura militare, non solo per difendersi dai fascisti ma anche perché l'ala conservatrice della Resistenza diffidava di azionisti, comunisti e socialisti, e viceversa». Anche la Dc incamera armi, quelle dei partigiani bianchi e quelle mandate dagli americani a ridosso delle elezioni del 18 aprile 1948.
Ma non c'è quella Gladio rossa di cui gli americani parlano già a partire dal '46 e che servirà da alibi per la creazione dell'unica vera Gladio, la struttura occulta della Nato. «La posizione del Pci - scrive ancora Bermani - in materia di armi può essere così sintetizzata: se la gente per conto proprio e spontaneamente vuole accantonare le armi sono faccende sue, inclusi i rischi che corre e non sono problemi di nessuna organizzazione di massa. E i depositi di armi non debbono avere niente a che vedere direttamente con l'azione politica e il comportamento politico ufficiale né del Partito comunista né delle varie organizzazioni di massa sorte attorno a lui».
Timore di colpi di stato monarchici, gruppi neofascisti in formazione, armi americane e un forte conflitto sociale, nella fattispecie all'interno delle fabbriche del nord. Questo è lo scenario in cui agisce la Volante Rossa. Ufficialmente è un circolo ricreativo-sportivo alla Casa del popolo di Lambrate dove si organizzano gare, balli ed escursioni. «Ma era anche la sede di un gruppo - torniamo al racconto di Paolo Finardi - che vigilava su quanto stava continuando a succedere anche in tempo di pace. Nei tribunali venivano interrogati molti fascisti, ma quasi tutti venivano rilasciati e si contavano sulla punta delle dita i casi in cui erano messe sotto processo personalità di spicco del regime. Ancora meno frequentemente ci si occupava di quelli che si stavano riorganizzando. Eppure lo facevano quasi alla luce del sole e noi li conoscevamo quasi tutti: sapevamo chi erano, dove si incontravano e spesso sapevamo anche quali erano i loro progetti». La Volante Rossa intensifica le azioni nel '47 mentre stanno nascendo i gruppi fascisti delle Sam (squadre d'azione Mussolini) e delle Far (fasci di azione rivoluzionaria), prodromi dell'Msi. Nel gennaio del '49 Finardi partecipa a un doppio agguato: nei confronti di Felice Ghisalberti, responsabile dell'uccisione di Eugenio Curiel, e di Leonardo Massaza, una vecchia spia dell'Ovra, la polizia segreta fascista.
Da questo momento la vita di Finardi cambia. La polizia stringe il cerchio intorno a lui. Non resta che la fuga all'estero, oltre cortina. Il partito si fa vivo nella veste di due funzionari che gli fanno un discorso che più chiaro non si può. «Il partito non è obbligato a darti una via d'uscita, chiaro? Quindi, il partito ci pensa nonostante non abbia chiesto a voi della Volante Rossa di andare in giro a fare i giustizieri. Se qualcuno ti ha detto che c'era un livello di sicurezza non siamo stati certo noi! Il partito sa che queste cose succedono ma non le organizza affatto, anzi non ne sa proprio un cazzo, e questo dovevi averlo chiaro fin dall'inizio». L'alternativa alla fuga all'estero sarebbe il carcere. Paolo Finardi sceglie la Cecoslovacchia. Ci arriverà con un viaggio travagliato, prima attraverso le montagne verso la Svizzera, poi in Austria, infine a Praga. Qui incontrerà altri fuoriusciti per gli stessi motivi politici suoi, anche se in mezzo c'è qualcuno che ne ha approfittato per attuare vendette personali, «ma si riconoscevano subito». E' un lungo dopoguerra. Finardi frequenta scuole di partito e si mette a fare i lavori più svariati, nelle cooperative agricole come in fabbrica. Trascorre anche un periodo nella Cuba rivoluzionaria di Fidel Castro e del Che. E' testimone della Primavera di Praga. «Rivisitando gli episodi accaduti in quei mesi col senno di poi, mi resi conto che molti di quelli che vedevano in Dubcek un innovatore erano davvero comunisti. Ma allora le cose non erano affatto così chiare. C'erano presumibilmente forze reazionarie, e non solo interne, che strumentalizzavano gli eventi. Quella situazione, soprattutto se seguita da altre analoghe, minacciava di diventare una mina vagante, una spirale estremamente destabilizzante». Così le truppe del Patto di Varsavia invasero il paese. Sta di fatto però che «ci accorgemmo che lo strappo tra dirigenza e masse popolari ormai si era consumato. E avremmo capito solo dopo che proprio quello fu l'inizio della parabola discendente del sistema socialista cecoslovacco».
La fine di questo esilio arriverà solo più tardi con l'elezione del partigiano Sandro Pertini a Presidente della Repubblica. Paolo Finardi ottiene la grazia. Proprio quando in Italia la lotta armata è all'apice. E qui si affaccia un altro mito, quello del filo rosso tra l'esperienza della Volante Rossa e la nascita delle Br. E' vero che nel linguaggio delle Brigate rosse torna spesso il motivo della Resistenza interrotta o, di più, della Resistenza tradita, delle aspirazioni a una rivoluzione sociale che non arrivò mai e di cui la Volante Rossa è stata nel tempo trasformata in simbolo. Eppure alle orecchie di chi della Volante Rossa fece parte davvero l'analogia non funziona. «Dall'Italia - racconta ancora Paolo Finardi - ci arrivavano notizie a dir poco sconcertanti. Il paese si trovava immerso fino al collo in quelli che venivano definiti gli anni di piombo. Un clima irrespirabile, non da guerra di liberazione come era stato trent'anni prima. Infatti le condizioni storiche e politiche erano completamente diverse da allora. Noi eravamo nei luoghi di lavoro, lì avevamo le nostre basi, ci vivevamo, eravamo radicati nei quartieri, seduti a ogni muretto, presenti in ogni capannello, in tutte le fabbriche sorgeva il bisogno di trasformazione in senso socialista della società e del superamento delle classi. Invece, dal clima di lotte fratricide che si stavano consumando a trent'anni di distanza, la grande assente sembrava proprio essere la classe operaia». Ma neppure corrisponde a vero nel racconto di Finardi la tesi dei contatti tra brigatisti, vecchi partigiani fuoriusciti e servizi segreti cecoslovacchi. «Io vivo qui dal 1949 e ho sempre mantenuto stretti rapporti con i compagni di Praga. Se ci fosse stata la presenza di brigatisti italiani per esercitazioni paramilitari beh... credo proprio che almeno uno, dico solo uno, tra i compagni più informati e meno scemi di noi se ne sarebbe sicuramente accorto, o comunque ne sarebbe venuto a conoscenza, di persona o anche solamente per sentito dire. E invece no. Nulla del genere».
Concludiamo con le stesse parole di Paolo Finardi. «Chissà, più di una volta ho pensato che se anche l'Italia avesse provato a fare i conti col suo passato con processi veri e condanne esemplari dei colpevoli, molto probabilmente molti di noi non avrebbero fatto le scelte che hanno fatto. Per quello che riguarda me, sono sicuro che non ci sarebbe stato questo Paolo Finardi se coloro che erano preposti avessero fatto giustizia».

Corriere della Sera 22.2.09
Parterre e strategie Il ruggito del popolo delle primarie non si sente. Fassino: Valium? Ha vinto la ragione
E la nomenklatura si salvò «Rischio nuovismo scongiurato»
di Aldo Cazzullo


ROMA — «Riserveremo a Franceschini e alla nomenklatura un trattamento tipo maggiordomo di Giuliano Soria» sibila all'ingresso un bellicoso delegato di Torino. Resterà l'unico acuto, oltre a qualche strillo — «Tutti a casa!» — molto fotografato ma subito spento da un'urlataccia più forte della Finocchiaro donna d'ordine. Per il resto, la «nomenklatura» se l'è cavata. E il nuovo leader, anziché essere multato come il malcapitato mauriziano per ogni cappuccino mal riuscito (almeno secondo l'accusa), viene festeggiato con la prodiana Canzone popolare, riesumata dopo il fallimento del Mi fido di te di Jovanotti-Veltroni. Alla Fiera di Roma era attesa la mitica base in rivolta. L'irruzione della società civile nelle polverose stanze delle oligarchie. Il ruggito del popolo delle primarie, attraverso i loro rappresentanti qui convocati. Invece tutti silenziosi, miti, placidi. «Secondo me li hanno sedati» ipotizza Lucia Annunziata. In realtà il lavorio dei vecchi leader ha convinto quasi tutti che Franceschini è una necessità, per ora. Dopo le Europee si giocherà la partita, tra lui (o un altro candidato della maggioranza popolari-veltroniani-fassiniani) e Bersani, sostenuto da D'Alema e forse da Enrico Letta, se non andrà con Follini e magari Rutelli a fondare con l'Udc il nuovo partito di centro, nome provvisorio Kadima italiana.
Base cloroformizzata, vertice arzillo. Fassino, di ottimo umore: «Ma quale Valium? Ha vinto la ragione». Bersani, lontano da taccuini e telecamere, si lascia andare: «Abbiamo dimostrato che ci siamo ancora. Che siamo un partito. Che noi sappiamo come fare. Le primarie adesso sarebbero state come il festival di Sanremo. O come Miss Italia. Senza piattaforme, senza un congresso, nei gazebo si sarebbe votato come a un concorso di bellezza. Faremo pure i gazebo; ma a suo tempo. Volevate deciderlo voi giornalisti il leader? Già vi vedevo: e i sondaggi, e Internet, e Facebook; quello che vuole la faccia nuova, quello che vuole il trentenne, quello che provoca "il vostro capo ideale è Fini"... Oggi a tutto questo abbiamo detto basta».
All'inizio è previsto un certamen tipo Orazi e Curiazi o lotteria dei rigori: cinque oratori per Franceschini, cinque per le primarie subito. Quando parlano i sostenitori della linea ufficiale, a ogni angolo di ogni settore c'è un peone entusiasta che chiama l'applauso. I ribelli, tutti a braccia conserte. Arturo Parisi è andato dal parrucchiere, ma invano: parlerà a una sala semivuota. Gad Lerner confabula a bassa voce, ma non è cospirazione, sta raccontando agli amici che la sua barbera del Monferrato ha preso i tre bicchieri del Gambero Rosso. Poi sale sul podio a chiedere le primarie. D'Alema sorride: «Bravo, intervento ottimo, Lerner ha perfettamente ragione. I nodi da sciogliere al più presto sono quelli che dice lui: Medio Oriente, laicità... Ci sarebbe solo un dettaglio: le elezioni. Non possiamo montare i gazebo mentre ci sono da decidere le candidature e fare la campagna elettorale ». Riccardo Barenghi ex direttore del manifesto lo incalza, D'Alema risponde con un buffetto: «Barenghi io non mi occupo di organizzazione. A voi non ve ne frega niente», altro buffetto, «ma noi qui abbiamo problemi seri di cui occuparci».
La disposizione in sala riproduce la mappa delle correnti, capi e sottocapi si siedono vicini a comporre pacchetti di mischia: a sinistra D'Alema con Bersani, Latorre e Livia Turco; più distante Minniti ormai emancipato; al centro Fassino tra Marina Sereni e Damiano; a destra Realacci, Enzo Bianco, Gentiloni e altri della Margherita; i veltroniani in giro a ricevere solidarietà; un po' defilato Letta; Rutelli ancora più distante, decima fila, in direzione dell'uscita. «Tutti a casaaa!» ci riprovano gli urlatori, D'Alema si volta a guardare, sul viso una smorfia involontaria come fissasse una mosca su un cuscino di broccato bianco. L'ex ministro Bianchi, che è qui in quota Castro, sciarpa rossa e capelli bianchi lunghi, vaga su e giù da solo, anima in pena.
Si vota. Non in segreto: per alzata di tessera. Le «scrutatrici di settore», come le chiama la Finocchiaro, sono nel pallone: «Compagno siediti te ti ho già contato, amico scusa ti spiace alzare di nuovo la mano?»; Morando, che vorrebbe le primarie adesso, si lamenta: «Ma come si fa a votare così, non si capisce niente, è una presa in giro»; gli dicono di lasciar perdere, ormai è tutto deciso. Barenghi, fuori dal raggio dei buffetti di D'Alema, provoca: sempre bulgari, eh? «Magari. Questa non è la Bulgaria, questo è un suq arabo. A Roma si dice 'na caciara. Io voto segretario il primo che fa piazza pulita: noi chiusi in una saletta riservata, con ogni confort; voi fuori, via, a guardarci sulla tv a circuito chiuso. Al massimo lasciamo aperto l'audio». D'Alema finge di arrabbiarsi, in realtà pare rilassato: Veltroni non c'è più, tutti gli altri sì. Il discorso di Franceschini lancia la parola-chiave «decido io», affronta i temi irrisolti della collocazione europea e del testamento biologico, suscita gli applausi più alti quando evoca con efficacia la Resistenza: la lunga notte del '43, la strage fascista nella sua Ferrara, la corrispondenza in romagnolo tra Boldrini e Zaccagnini, il comunista e il cattolico che considera il suo maestro. Marini, a pipa spenta: «La faccetta sorridente di Dario trae in inganno. Lui sembra buono. In realtà è un duro. Determinato ». Fassino, ormai euforico: «Franceschini c'ha due palle così!». Davanti a Bersani si forma una processione di diessini: «Noi avremmo votato per te...». «Tranquilli: a ottobre». Poi, al cronista: «In questi giorni i quotidiani hanno trattato Franceschini in modo vergognoso. E Franceschiello di qui, e dilettante di là. Il signor nessuno, la mammoletta. Io voglio un partito che reagisca a queste vergogne. Dario ha una figlia piccola, la mia ha quindici anni: dobbiamo nasconderle i giornali?». Di Bersani hanno detto che somiglia a Ferrini, il venditore di pedalò di Quelli della Notte. «Perché no? Ferrini è simpatico, e del resto io dico sempre che Berlusconi è come i pedalò: esce solo con il bel tempo ». Dicono pure che con Bersani finisce il Pd e comincia un partito socialdemocratico. «Dalle mie parti socialdemocratico è quasi un insulto. Io semmai sono stato liberale...».
Chi ha dubbi li esprime a voce bassa. Lerner: «Le primarie sarebbero state un ottimo lancio per le Europee, con il Pd in prima pagina per due mesi. Ma qui ho visto gente spaventata». Vincenzo Cerami, quota Benigni, si avventura nei labirinti della politica: «Allora, oggi hanno votato Franceschini, ma la prossima volta votano Bersani? È così? Ho capito bene? O no?». L'ex ministro Bianchi parlotta da solo. Franceschini raccomanda: «Mai più interviste, gli scontri risolviamoli tra di noi, non sui giornali». Bersani: «Sia chiaro che non ho dato un'intervista». Marini: «C'era un rischio nuovismo». Un rischio che pure ieri è stato evitato.

Corriere della Sera 22.2.09
Un segretario-ponte adottato dalle correnti per salvare il salvabile
di Massimo Franco


Leggere l'elezione di Dario Franceschini a segretario del Pd come la ripresa della sfida a Silvio Berlusconi può portare fuori strada. Per il momento, sebbene confermata con durezza, quella partita per il centrosinistra è chiusa. La chiave interpretativa della scelta compiuta ieri, dopo le dimissioni inaspettate di Walter Veltroni, è tutta interna al Pd. Esprime non ambizioni di espansione, «maggioritarie», come si dice; più drammaticamente, riguarda la sopravvivenza del partito.
Il compito di questo leader-ponte chiamato a gestire una fase disperata è salvare il salvabile. Più che guadagnare voti, deve cercare di perderne il meno possibile. Gli si chiede il miracolo di impedire che l'elettorato deluso del Pd risponda al richiamo truce di Antonio Di Pietro; a quello flautato ed ora più insidioso del centrismo di Pier Ferdinando Casini; ed alle sirene sfiatate dell'estrema sinistra. Ma soprattutto, dovrebbe arginare la tentazione dell'astensionismo alle prossime Europee.
Il quasi plebiscito col quale l'assemblea di Roma gli ha messo in mano il partito conferma queste impressioni. Il fatto che sia gli uomini di Veltroni, sia i suoi avversari interni più caustici gli garantiscano sostegno, sottolinea un'ambiguità irrisolta e per ora inevitabile. Franceschini è insieme l'uomo della continuità e della discontinuità; del dialogo con l'estrema sinistra e con l'Udc; dell'azzeramento dei vertici e del coinvolgimento delle nomenklature locali.
Si tratta di un profilo politico dilatato al massimo proprio per contenere tutte le contraddizioni e sperare che non esplodano. Il Pd sa che significherebbe la scissione, se non la frantumazione; e non è detto che il nuovo segretario riesca ad evitarle, qualora le elezioni andassero male. La sua forza, e insieme la sua debolezza, derivano dal disastro che eredita e del quale non può non essere considerato corresponsabile come numero due di Veltroni; ma anche dalla consapevolezza che l'oligarchia del partito lo è altrettanto.
Nessuno può pensare che le correnti, le quali sono state in grado di tritare la leadership precedente, abbiano deciso di sottomettersi alla sua. Hanno soltanto preso atto dell'uscita di scena veltroniana con un miscuglio di fastidio e di sollievo. Si preparano a seppellire quella fase. E protetti e coperti dalla segreteria di Franceschini manovrano per determinare gli esiti del congresso fissato per l'autunno: un appuntamento nel quale per il momento pochi vedono un rilancio del Pd, e molti la sua metamorfosi in qualcosa di diverso.
Al nuovo leader spetta il compito di garantire tutti; e di rivolgere un ultimo appello ad elettori nauseati dalle faide interne e spiazzati dalla rottura di Veltroni. Comunque vada, nessuno potrà imputare nulla a Franceschini, che ha scritto al capo dello Stato, Giorgio Napolitano, scegliendolo come punto di riferimento. Se gli va bene, sarà ricordato come l'uomo politico che è riuscito a tenere in piedi un Pd barcollante, dato per spacciato. Altrimenti, ne sarà l'ultimo segretario: degno di riconoscenza da parte di quanti hanno preferito assistere ad una probabile sconfitta del partito, nascosti dietro di lui.

Corriere della Sera 22.2.09
Ma gli ex ds sono già all'attacco «Ora ci vuole un riequilibrio»
E Bersani: Dario non mi ha convinto, io correrò per la leadership
di Maria Teresa Meli


ROMA — Qualche mese fa Beppe Fioroni lo aveva profetizzato: «Il Pd sarà veramente un partito nuovo quando avrà un segretario che non proviene dalle file dei Ds, ma che è un ex margheritino ». E ieri questo è proprio quel che è successo. A reggere la malandata baracca del Partito democratico è stato chiamato un esponente che viene dal Ppi.
Una «mini-rivoluzione» a cui gli ex diesse si sono dovuti acconciare pur di mettere la parola fine a un lungo tormentone che rischiava di portare il Pd a un punto di non ritorno. E poco importa se l'autore della profezia dovrà cedere la poltrona a un post-ds. «Dobbiamo riequilibrare», sorride Franco Marini. La guida dell'organizzazione passerà dalle mani di Fioroni a quelle del fassiniano Maurizio Migliavacca. Ma quel che conta è che sulla poltrona del numero uno ora siede uno che con il Pds e con i Ds non ha mai avuto a che fare. «E così — sorride l'ex segretario della Cisl Sergio D'Antoni — è finita la lunga faida dei nostri compagni di strada, che è cominciata nel Pds, è proseguita nei Ds ed è continuata pari pari nel Partito democratico: D'Alema contro Veltroni e viceversa. Finora abbiamo assistito alle loro lotte intestine, ora c'è Franceschini, tutta questa vicenda è finita e un partito veramente nuovo è nato sul serio».
Ma sembrano proprio gli ex ds i primi a rendersi conto che la loro egemonia nel Pd appare come una storia archiviata.
Le città che un tempo venivano definite «rosse» non sono più roba loro. A Bologna si va alle primarie e il candidato che vince non proviene dalle loro file. A Firenze si va alle primarie è l'esito è identico. Di più: nelle fallimentari elezioni regionali sarde gli ex margheritini ottengono tredici consiglieri su diciassette. Quelli che un tempo si chiamavano diessini non avrebbero mai immaginato che finisse così. Sembrano passati anni luce da quando Massimo D'Alema, per convincere i renitenti al Partito democratico, spiegava: poi tanto lo gestiremo noi. Inevitabile allora che si cerchi di riparare in qualche modo a quel che è avvenuto. Lo si fa mandando a difendere le ragioni della scelta di Franceschini il presidente della giunta dell'Emilia Romagna Vasco Errani. O il segretario del Pd di Piombino Matteo Tortolini. È come dire al popolo degli ex ds: siamo sempre noi che «comandiamo». Peccato che così non sia. Lo ammette lo stesso Errani, quando scende giù dal palco: «Il problema del riequilibrio certamente esiste, ma risolviamo ogni cosa a suo tempo». E Massimo D'Alema avverte: «La discussione approfondita la faremo al congresso». Mentre Pierluigi Bersani, per la seconda volta, rinuncia a candidarsi. Lo fece alle primarie del 2007, quando, per difendere le ragioni della «ditta» diessina, rinunciò alla corsa lasciando campo libero a Veltroni. Lo ha rifatto ieri, evitando di confrontarsi subito, come pure lo aveva sfidato a fare Gad Lerner, con l'ex margheritino Franceschini. «Oggi è il suo giorno», si è schermito. Ma ci è rimasto male, si vede, tanto che ha poi insistito nel dire che «il discorso di Dario non mi ha convinto fino in fondo: la mia candidatura resta perché solo io posso portare avanti certi temi».
È chiaro che in queste condizioni Franceschini abbia virato il suo discorso a sinistra. Tanto da far dire all'ultrà dalemiano Roberto Gualtieri: «Mi ha convinto, c'è un cambio di linea rispetto a Veltroni, lo voto». Sicuramente Gualtieri non sapeva che (giusto per fare un esempio) la parte del discorso del neo-segretario dedicata al sindacato era nota al leader della Cisl Raffaele Bonanni, che di Epifani e della Cgil è il nemico numero uno. Ma anche se l'ultrà dalemiano lo avesse saputo non avrebbe agito altrimenti: l'unica chance è quella di cercare di mettere il cappello su Franceschini per evitare di far vedere che ormai la partita non si gioca più tra le quattro mura rassicuranti del Botteghino. Ora agli ex ds non resta che puntare alle poltrone residue. Quella del capo dell'organizzazione, appunto. E poi? C'è chi vuole mettere in discussione anche il posto di capogruppo alla Camera. Adesso c'è Antonello Soro, fedelissimo di Franceschini, ma qualcuno vorrebbe piazzarvi un ex ds. Non è aria, però.
Marini, che fa avanti e indietro dinanzi al palco della presidenza dell'assemblea costituente, sfoggia grande aplomb per evitare di irritare gli alleati diessini: «Per Dario sarà dura, ma questa può essere per lui un'ottima occasione ». E se invece il segretario dovesse fallire perché gli ex Ds non si sentono rappresentati da lui? «Allora — sorride l'ex presidente del Senato, accarezzando la pipa — vorrà dire che ognuno potrà ritenere di avere le mani libere ». Ma questo riguarda il futuro. Nel presente c'è il Fassino che si sbraccia per cercare di convincere tutti che questa è una grande vittoria degli ex ds, salvo ammettere, due minuti dopo, con un compagno di partito, che il problema di un riequilibrio con gli ex della Margherita «andrà affrontato». Prima o poi...

Corriere della Sera 22.2.09
Roma Molotov contro una saracinesca
Negozi romeni presi di mira: oltre dieci attentati
di Rinaldo Frignani


ROMA — Due scoppi nel cuore della notte. Le fiamme che avvolgono la saracinesca, il tappetino, l'insegna di un negozio, «Alimentara Romaneasca », a Torrenova, nell'estrema periferia est. «Io e mia moglie siamo usciti subito dal retrobottega — racconta il titolare, Gheorghe Nedelcu, 48 anni — bruciava tutto...». La coppia di immigrati, che si era trattenuta nel locale per sistemare la merce, si è salvata per miracolo dall'incendio scoppiato dopo il lancio di due bottiglie molotov contro il negozio di via Fabrizio Chiari.
Ormai a Roma è escalation. Quello a Torrenova è solo l'ultimo di una ventina di assalti agli stranieri dall'inizio dell'anno, più della metà contro la comunità romena: il 19 febbraio il pestaggio di tre immigrati a Sacrofano, tre giorni prima il raid in un kebab e in un bar del Tuscolano (5 feriti), il 6 un automobilista ubriaco salvato dal linciaggio dopo aver causato un incidente mortale in via Prenestina.
La tensione è molto alta. Ma c'è chi, come Nedelcu, prova ad andare avanti. «Lavoriamo qui dai primi di febbraio — spiega ancora il negoziante — mai una minaccia. Per 7 anni, prima di aprire qui, ho venduto panini su un furgone, ma non sono mai stato insultato. Non tutti ce l'hanno con noi: sabato notte sono stati due italiani a chiamare la polizia, mentre un altro romeno, che abita qui di fronte, è sceso con l'estintore». A colpire in via Chiari, a poche decine di metri da dove due anni fa un clochard fu massacrato di botte nel parcheggio di un supermercato da una banda di teppisti, sarebbero stati 5-6 ragazzi, molto giovani, fuggiti a piedi. A Torrenova è il terzo lancio di molotov contro negozi romeni. Altre sono state lanciate a Guidonia dove, dopo l'aggressione a una coppietta di fidanzati e lo stupro della ragazza compiuti da 4 romeni, una bomba-carta e una molotov sono state fatte scoppiare davanti a una macelleria e a un bar.
Il giorno prima i carabinieri avevano salvato dal linciaggio i 4 arrestati per violenza sessuale. E ancora a Guidonia, sempre alla fine di gennaio, la caccia al romeno sfociata in due pestaggi. Non è raro che, cavalcando la protesta popolare, i romeni vengano colpiti dopo gravi fatti di cronaca che hanno come protagonisti loro connazionali. È successo ad Acilia, dopo l'incidente provocato da un rom ubriaco (11 feriti), mentre le scritte al Quartaccio sono comparse all'indomani dello stupro di via Andersen. Ma c'è anche chi è stato malmenato per la targa dell'auto con la bandiera del suo Paese.

Corriere della Sera 22.2.09
Mostre a tema. Siena: oltre trecento opere al Complesso museale di Santa Maria della Scala
La follia? Ha un fascino misterioso, anche se amaro
di Giorgio Cortenova


Per Arte, genio, follia, successo di pubblico assicurato. Fra le oltre 300 opere esposte, alcune sono capolavori, altre si lasciano guardare in parete come una conturbante tappezzeria, con qualche strappo qua e là. Il colpo d'occhio è positivo.
Giocano un ruolo determinante il fascino del tema e la sua capacità di proporsi ai visitatori in termini intriganti e al tempo stesso risaputi. Arte, genio e follia? D'accordo, funziona.
Da quando il Romanticismo è esploso e da quando Burke e Kant hanno promosso il predominio dell'emozione rispetto alla bellezza problematica della forma, non ce n'è più per nessuno: perché affascina tanto e piace a tutti pensare l'arte come follia, genialità, intemperanza, magari con un pizzico di eversione ma non troppa, con qualche grammo di «rivolte» ma senza esagerare. Non si sa mai che i cosiddetti folli si mettano a fare sul serio.
La mostra senese, a cura di Vittorio Sgarbi, si apre a fisarmonica, con coraggio e accurata volontà d'analisi, dovunque sia possibile estendere il tema e i percorsi che lo attraversano: ansia, follia, malinconia, depressione, inferni e paradisi dell'anima, della creatività e al tempo stesso delle patologie, quelle drammaticamente vissute e quelle invece soltanto rappresentate.
Van Gogh, Munch, Ligabue, ed altri lungo le piste che incrociano l'universo artistico e non: Kirchner, Dix, Ernst, dalla fiammata espressionista al subconscio dei surrealisti, dai volti di Ghizzardi ai predatori di Ligabue, dalle siringhe a baionetta di Carlo Zinelli alle scene di vita quotidiana nei racconti in terracotta di Paris Morgiani.
È presente l'«Art Brut»; assente, invece, l'atipico Sutter. E fra i surrealisti, perché Max Ernst e nemmeno l'ombra di Salvador Dalí? Non si stava parlando di follia?
D'accordo con la presenza di Mattia Moreni, ma ci sono assenze sulle quali non si può sorvolare: ad esempio i crudeli autoritratti di Artaud, i tormenti di Bacon, le textures di Tancredi, la materia insonne di Leoncillo, le ansie «gotiche» di Wols.
Ampia e ricca di splendide sorprese, la sezione dedicata all'arte «clandestina». La rassegna scorre peraltro attraverso due sensibilità diverse, che a tratti s'incontrano: l'una, rivolta all'arte come specificità dei linguaggi; l'altra, che cammina invece sul filo sottile che separa la squisitezza formale dall'orrore. E quando non si rema in perfetta sintonia anche la barca più robusta arriva in porto con un po' d'acqua a bordo.
Comunque sia, uno dei meriti dell'esposizione consiste proprio nell'avere accostato lo strazio degli artisti consacrati a quello della follia internata, non solo attraverso una vasta rassegna delle opere dei pazienti, ma anche esponendo le macchine storicamente finalizzate alle cure.
Qui la mostra propone un passo riflessivo e struggente, e non par vero che quei congegni, così simili alle «macchine inutili» care a Dada, siano stati invece utilizzati sul corpo e nelle vene dei pazienti. E non sai più dove stia la follia.
ARTE, GENIO, FOLLIA. Siena, Santa Maria della Scala, sino al 25 maggio. Tel. 057/7224811

Corriere della Sera 22.2.09
Caravaggio a zonzo in Sicilia
di B. M.


È un «condannato a morte con una cicatrice alla testa, un'altra alla gola e una terza all'orecchio sinistro» l'uomo che nell'ottobre 1608 sbarca a Siracusa in fuga da Malta. Si chiama Michelangelo Merisi, ha 37 anni, due condanne (una per omicidio) ed è il più grande pittore del suo tempo. Inizia da qui il nuovo Caravaggio in Sicilia di Alvise Spadaro, riveduto e aggiornato, nel 400˚anniversario dell'arrivo dell'artista sull'isola. Ricostruito il percorso fra Caltagirone, Siracusa, Messina e Palermo, mai stato compiutamente indagato. Gli inediti recuperati in otto anni di ricerche hanno permesso di ricostruire luoghi, ambienti e quella committenza laica ed ecclesiastica che in poco meno di un anno permise a Caravaggio di eseguire alcune delle opere come il Seppellimento di Santa Lucia per Siracusa.
CARAVAGGIO IN SICILIA di Alvise Spadaro Bonanno editore, pp. 176, e 40

Corriere della Sera Salute 22.2.09
Violenza. Con un complesso esperimento negli Usa si è tentato di identificare il profilo del maschio potenzialmente aggressivo
Perché gli uomini odiano le donne
Le relazioni più a rischio: lui è un tipo «ipervirile», lei sicura di sé e «in carriera»
di Angelo de' Micheli


Uomini violenti, donne vittime. È «istinto»? È colpa delle famiglie di oggi? O la responsabilità è della società? Non abbiamo mai smesso di chiedercelo e in questi giorni ce lo stiamo chiedendo ancora di più: dove nasce la violenza contro le donne?
Gli studi finora condotti, per tentare una risposta, partivano dall'indagine su uomini che realmente avevano compiuto atti di violenza, ora abbiamo a disposizione anche un'analisi «di laboratorio». Si tratta di una ricerca condotta da Tennis Reidi, del Dipartimento di psicologia dell'Università della Georgia, pubblicata su Psycology of Men & Masculinity. L'originalità della ricerca sta nell'aver cercato di capire non solo quali caratteristiche maschili possono predire una maggiore predisposizione all'aggressività, ma anche se un certo «tipo» di donna può diventare più facilmente oggetto di violenza. Nello studio, dall'aria un po' sadica, almeno per i non addetti ai lavori, sono stati coinvolti 64 studenti universitari, con condizione sociale ed economica sovrapponibile.
Di tutti si è valutato il «grado di mascolinità» ricorrendo all' Ipermasculinity Index, test già noto e utilizzato, che consente di valutare le opinioni nei confronti dell'uso della forza, dell'amore per il rischio e, soprattutto, il modo di rapportarsi alle donne (con domande più che dirette: «Tutte le donne meritano lo stesso rispetto", oppure: «Ci sono alcune donne buone per una sola cosa»). Nella seconda fase dell'esperimento, gli studenti si sono trovati davanti a pulsanti in grado di mandare scosse elettriche con le quali «colpire» una donna nella stanza accanto. La donna, a sua volta, poteva colpirli. La possibilità (non l'obbligo) di far male all'avversaria derivava dall'aver dato risposte giuste a quesiti posti da un computer. In realtà, sul video del computer la parola «vincitore» o «perdente » si illuminava a caso, nella stanza accanto non c'era alcuna donna e le cose erano predisposte in modo che a tutti gli studenti venisse inflitto il medesimo numero di scosse (reali!). Premessa: prima di partire con l'esperimento i ragazzi sentivano l'avversaria raccontare i propri progetti. Le immaginarie avversarie erano impersonate da un'attrice che recitava due copioni: in uno era una ragazza tutta casa, fornelli e figli; nell'altro una tosta studentessa decisa a conquistarsi un posto nel mondo. Conclusione: gli uomini «ipermascolini» sono risultati i più aggressivi e le più aggredite le donne "in carriera" viste come poco "femminili".
«È naturale che la scienza tenti di scoprire indicatori per individuare i soggetti potenzialmente violenti — commenta Ambrogio Pennati, psichiatra e psicoterapeuta milanese — ma le situazioni sperimentali non riflettono le condizioni reali. Nella violenza entrano in gioco molte variabili: le caratteristiche individuali, la storia familiare, il contesto sociale di provenienza, la condizione di vita attuale, ma anche le situazioni di circostanza. Una persona che ha perso il posto di lavoro è più instabile di chi ha un solido conto in banca...».
«La ricerca americana, nata soprattutto con l'intento di chiarire le ragioni della violenza domestica, ritiene determinanti le aspettative del maschio nei confronti delle donne. Con questo non si intende certo dire che "è tutta colpa della donna" se viene picchiata, ma che bisogna ancora fare i conti con un modello di "famiglia" ancestrale duro a morire. Una donna "troppo" indipendente potrebbe decidere di relazionarsi con altri maschi considerati più attraenti, — sostiene Pennati — ma ciò comporterebbe due problemi: il rischio di una perdita di status sociale, cioè di potere, da parte maschio (direttamente correlato alla possibilità di scegliersi, e "tenersi", le partner) e quello che il maschio possa allevare figli non suoi».


Corriere della Sera Salute 22.2.09
Abusi domestici. Ancora tanti silenzi
Se la paura abita dentro casa le mogli tacciono
di A.D.M.


Il grande rilievo dato in questi giorni alle violenze di strada rischia di far dimenticare che la paura abita dentro casa. Maltrattamenti e abusi sono opera nella grande maggioranza dei casi del partner. Per le violenze fisiche si stima una percentuale che oscilla dal 70 al 90%; per gli stupri si arriva a poco meno del 70%. Il fenomeno è difficile da valutare perché, ancor più che nei casi di violenza subita da un estraneo, solo una minoranza delle vittime sporge denuncia.
«A frenare è la paura di ritorsioni e i problemi pratici — sottolinea Isabella Merzagora, della Cattedra di criminologia della facoltà di Medicina dell'Università di Milano —. Molte donne se lasciassero il partner non saprebbero nè dove andare, né come mantenere se stesse e i figli. Ma non va dimenticato il ruolo che gioca l'educazione: ancora molte madri mettono l'accento sull'importanza di forza e coraggio se hanno figli maschi, mentre con le femmine l'accento va su dolcezza, gentilezza, disponibilità. Molte ragazze si forgiano così un "se stessa ideale" che impone loro la mansuetudine, la rassegnazione, la rinuncia».
Donne sottomesse e uomini aggressivi: non è una lettura datata perché le cifre parlano da sole. Praticamente un destino... «No, l'aggressività e la violenza — risponde la professoressa Merzagora — possono essere controllate attraverso una "psicoterapia mirata" sul singolo, ma soprattutto possono essere arginate da un modello educativo familiare e scolastico che ridefinisca e canalizzi l'aggressività in forme socialmente accettabili. Si dovrebbe imparare dai genitori prima e dalla società poi, che si deve mettere un freno alla violenza: non come segno di debolezza ma come scelta di convivenza sociale».
Nell'attesa che il mondo cambi, le donne sappiano che ci sono momenti nella vita in cui rischiano di più. «Come ho scritto nel mio libro "Uomini violenti" (Raffaello Cortina, di prossima pubblicazione) — dice Merzagora — è proprio quando la donna dice "basta" che il pericolo aumenta. Le mogli che si separano dal compagno violento corrono un rischio maggiore del 75% di essere uccise, rispetto a quelle che non abbandonano il partner. Perciò, mai andare all'ultimo appuntamento con chi si intende lasciare o, almeno, non andarci da sole. E ricordiamo che esistono anche "case protette" dove rifugiarsi nei periodi più a rischio».
«Un altro momento pericoloso — conclude Merzagora — è la gravidanza: ci sono uomini bambini cronici che vedono il figlio come un intruso. Sono partner che pretendono un costante e assoluto sostegno narcisistico da parte delle compagne, ogni minima caduta di attenzione provoca ansia, insicurezza, gelosia. Dall'ansia si passa alla rabbia e il resto segue a ruota».

Corriere della Sera Salute 22.2.09
Stupri. Questione di potere più che di sesso
Il violentatore pensa: voglio questa donna, qui ed ora e me la prendo.
Lei non ha nessun diritto
di Daniela Natali


Violenza in generale e violenza sessuale hanno la stessa radice? «La risposta è sì e no — chiarisce Manuela Dell'Anna — psicoterapeuta, consulente dell'Svs, il centro Soccorso violenza sessuale e dell'Svd, Soccorso violenza domestica, al Policlinico di Milano —. Alla base di entrambe c'è l'idea che l'uomo abbia il diritto ad esercitare il proprio potere sulla donna. Una cultura che ha cominciato a incrinarsi nel '78 quando dal nostro Codice è scomparso il delitto d'onore. Se si passa dalla violenza fisica a quella sessuale bisogna però fare dei distinguo. Nella violenza di strada, oltre all'idea di esercitare un "diritto", c'è l'impotenza a gestire la propria frustrazione, non solo sessuale, accompagnata dalla mancata "mentalizzazione" delle conseguenze del gesto. L'unico pensiero, infantile e immaturo, è: io voglio questo, qui ed ora e me lo prendo. Mi prendo una donna che per me non ha nè desideri, nè volontà proprie. La violenza di strada è la più traumatizzante, ma la meno difficile da denunciare perché il nemico, il mostro, non è un partner, un conoscente, un parente, ma uno sconosciuto».
«Altre, ancora, le dinamiche nella violenza di gruppo — prosegue Dell'Anna —. Anche se si è solo spettatori, si vuole soprattutto affermare la propria identità di appartenente al gruppo e questo è molto evidente nei giovanissimi: ragazzi privi di figure realmente educative che trovano negli amici l'unico punto di riferimento. Il fatto che lo stupro sia agito davanti agli altri è anche un modo per affermare il proprio potere e la propria mascolinità non solo rispetto alla donna, ma ai compagni. Caratteristica anche l'assoluta mancanza di empatia con la vittima e l'incapacità di percepire quello che si fa come un "male"».
E la violenza sessuale nella coppia? «Ancora un caso diverso, — risponde Dell'Anna — qui lo stupro è uno dei tanti modi per sopraffare la compagna ed quasi sempre accompagnato da violenza psicologica, economica, fisica. Lo stupro in questi rapporti non è riconosciuto come reato dalle stesse vittime: spesso diventa un male minore rispetto alla paura dei maltrattamenti fisici e psicologici».
In questi ultimi mesi non c'è quasi stato giorno senza la denuncia di un'aggressione sessuale: un'escalation? «Le cifre sono sempre le stesse — rispondono al centro Svs —. Nel 2007 ci sono arrivati 344 casi; nel 2008, 349. Quanto alle vittime giovanissime (tra i 14 e i 17 anni) nel 2077 erano 48; nel 2008, 50. Cifre sovrapponibili».
«La grande maggioranza delle aggressioni — commenta Alessandra Kustermann, responsabile dell'Svs e dell'Svd, oltre che del servizio di Diagnosi prenatale della Mangiagalli- Policlinico — è come sempre opera di persone conosciute. Secondo l'Istat, una donna su tre non parla della violenza con nessuno, nemmeno con la madre o la migliore amica. Ecco perché è così importante che forze dell'ordine, personale ospedaliero e medici di famiglia sappiano riconoscere la violenza e incoraggino la donna a denunciare il colpevole (si procede sempre d'ufficio se la vittima è minorenne o c'è stata violenza di gruppo). Poi bisogna creare intorno a queste donne una "rete" di accoglienza concreta ed è quello che cerchiamo di fare con la Onlus "Donna aiuta donna" che ci affianca e offre sostegno legale». Chi ha bisogno di aiuto può telefonare al numero gratuito 1522, che coordina i centri antiviolenza di tutta Italia.

Corriere della Sera Salute 22.2.09
Disturbo post traumatico Un vecchio antipertensivo sembra agire sui meccanismi del ricordo
Una pastiglia per archiviare il terrore
di Cesare Peccarisi


Ricordi intrusivi e disturbanti dell'esperienza vissuta, sensazione che stia per ripetersi, incubi, evitamento dei luoghi che la ricordano, distacco emotivo, allarme continuo, irritabilità: sono le caratteristiche del disturbo post traumatico da stress che frequentemente colpisce chi ha subito un'aggressione, uno stupro, un grave incidente stradale, un attentato.
Finora era trattabile con farmaci aspecifici e tecniche psicoterapiche, ma d'ora in avanti le cose potrebbero cambiare. Secondo uno studio pubblicato su Nature dai ricercatori dell' Università di Amsterdam, diretti da Merel Kindt, il propranololo, vecchio antipertensivo usato nell'angina, interferirebbe con particolari recettori dei neuroni dell'amigdala (l'area cerebrale che controlla emozioni e ricordi) dove bloccherebbe il consolidamento delle memorie paurose impedendo la sintesi delle proteine necessarie a tale processo. Il ricordo viene così archiviato senza connotati di paura e quando è richiamato non si porta più dietro il suo carico di terrore: è un dato mnemonico lucido e freddo, un po' come rivedere un film senza audio.
Dopo aver notato che animali da laboratorio, tremebondi in situazioni in cui avevano ricevuto una scossa elettrica, non mostravano più paura se trattati con questo farmaco, i ricercatori hanno studiato 60 giovani condizionati alla paura di ricevere una scossa se vedevano l'immagine di un ragno sullo schermo di un computer. Le loro reazioni erano valutate con un sensore applicato alle palpebre per registrare anche il più impercettibile movimento degli occhi che tendevano a spalancarsi per paura della scossa. Dopo alcune prove sono stati formati due gruppi, uno trattato con propranololo e uno con placebo. Nei primi lo sbarramento oculare si è ridotto sia rispetto alle loro stesse prove iniziali, sia rispetto al secondo gruppo. Per vedere se spariva del tutto, il farmaco è stato somministrato a un terzo gruppo prima di iniziare la prova: a distanza di 24 ore non c'era nessuna reazione perché la paura non aveva potuto «consolidarsi». A quasi mezzo secolo dalla sua scoperta, il propanololo — concludono gli autori — potrebbe giovare anche a milioni di persone perseguitate da ricordi traumatizzanti.