martedì 24 febbraio 2009

l’Unità 24.2.09
Testamento biologico: Rutelli
e i teodem dividono il Pd
di Jolanda Bufalini


Il Pd ha presentato 36 emendamenti unitari. Su “idratazione e nutrizione” si esprime l’orientamento «largamente prevalente» ed è firmato da Finocchiaro e Zanda. Ma non c’è la firma di Dorina Bianchi.

«Cos’è, un biglietto d’auguri per Franceschini?», scappa detto al senatore Lionello Cosentino, quando vede l’emendamento presentato da Rutelli, che esclude dal testamento biologico la possbilità di rifiutare nutrizione e idratazione forzata.
La sequenza dei fatti è questa: la settimana scorsa la neo-presidente del gruppo Pd in commissione sanità Dorina Bianchi si astiene sul testo base (da oggi in discussione con circa 600 emendamenti, sempre in commissione), mentre la maggioranza del gruppo vota contro. A quel punto la presidenza del gruppo Pd al Senato, assume direttamente il coordinamento del lavoro comune. Lavoro al quale sono designati, oltre alla stessa Bianchi, i senatori Ignazio Marino e Daniele Bosone: quest’ultimo è medico, fa di mestiere il neurologo.
I due medici
I due medici, dunque, fanno un lavoro di mediazione cercando di calarsi nella realtà, di superare le posizioni ideologiche. Dice Bosone: «Con l’ideologia non si fa assistenza e senza assistenza non si tutela la vita». È un lavoro che, intanto, guarda alle esigenze reali delle famiglie che si trovano a far fronte alle esigenze dei malati terminali, anche quelle che non hanno possibilità economiche. Un lavoro «di grande disponibilità e apertura», lo definisce Ignazio Marino. Un lavoro di «sintesi culturale, perché la libertà di coscienza non esime dal lavoro politico», dice Bosone. E che fa punto cardine il rispetto dell’articolo 32 della costituzione sull’inviolabile diritto di scelta della persona. Sabato, Dario Franceschini, nel discorso di candidatura a segretario, inserisce un passaggio giudicato di grande importanza sulla necessità che il legislatore si ispiri a una mentalità laica. Anche Massimo D’Alema interviene: «l'idea che la legge obblighi il cittadino a subire determinati trattamenti, perchè la nutrizione forzata attraverso sondini o tubi gastrici è un trattamento, non ha eguali in nessun Paese civile, e speriamo che possa essere evitata agli italiani».
Chi firma e chi non firma
Siamo a ieri mattina alle 11, dead line per la presentazione degli emendamenti. Sul punto più delicato,la posizione del Pd tiene insieme la “tutela della vita” e il “principio di autodeterminazione”. Il compromesso prevede che «nutrizione e idratazione siano sostegno vitale», ma che «nel rispetto della Costituzione «è ammessa l’eccezionalità del caso di sospensione se espressamnente oggetto della dichiarazione anticipata di trattamento». Primi firmatari sono Anna Finocchiaro e Luigi Zanda. Seguono le firme di tutti i componenti della commissione, tranne la presidente e il senatore rutelliano Gustavino. Commenta Donatella Poretti (radicale): quello non è il mio emendamento, lo firmo perché è espressione del lavoro di gruppo. «Sconfortante», commenta Ignazio Marino che vede ancora una volta vanificato l’ennesimo passo in avanti verso una soluzione comune.
«Imbarazzo» è il termine diplomatico che circola nelle stanze della presidenza di gruppo rispetto alla posizione assunta da Dorina Bianchi, vista la sua posizione di capogruppo. In un comunicato Anna Finocchiaro sottolinea il lavoro unitario: «Il Pd ha presentato in Senato, in commissione sanità, 36 emendamenti che riassumono il serio lavoro di sintesi fatto in questi ultimi mesi» e, su idratazione e nutrizione, «è stato presentato un emendamento sottoscritto dalla presidenza del Gruppo, da senatori laici e da senatori cattolici, coerente con la posizione largamente prevalente e in sintonia con quella assunta sabato dal segretario Dario Franceschini». Questa dunque la posizione del Pd, fatta salva la pari dignità politica - ma non numerica - di altri emendamenti. Cosa c’è nel piatto? quali giochi e equilibri politici? Non qli interessi del paese reale, pensa Ignazio Marino. «Mi sembra il terreno meno opportuno per le manovre politiche, soprattutto dopo l’assemblea di sabato», commenta il cattolico Daniele Bosone. E c’è da registare anche il giallo di una riunione dei senatori con il neosegretario Franceschini, che - però - non era prevista né nella sua agenda e né in quella della presidenza del gruppo.
Oggi si ricomincia: 600 gli emendamenti. 100 solo della maggioranza e 250 di Donatella Poretti. Iil fatto che dalla maggioranza sia arrivata quella caterva di correzioni significa che anche nel centro destra le acque non sono tanto tranquille. Chissà se qualcuno andrà a vedere.

l’Unità 24.2.09
Pena di morte se la Chiesa non dice no
di Luigi Manconi


Mercoledì 11 febbraio, Benedetto XVI ha riaffermato l'intangibilità della vita umana "dal momento del suo inizio fino al suo naturale compimento". È la frase più frequentemente utilizzata dalla cultura cattolica, per argomentare il rifiuto di scelte come la sospensione di nutrizione e idratazione artificiali. Ed è stata così tante volte ribadita, da assumere la forza di un dogma irrinunciabile della concezione antropologica della Chiesa cattolica. Ma siamo proprio sicuri che quella frase abbia effettivamente l'assolutezza di una verità irrinunciabile e inderogabile? Per giunta, nei giorni scorsi alcuni cattolici hanno irriso i sostenitori della scelta di Bepino Englaro in questi termini: ma come? siete contro la pena di morte, come lo siamo noi, e poi volete infliggerla alla povera Eluana… L'argomento è già di per sé traballante, ma se preso seriamente può riservare sorprese. La Chiesa cattolica è contro la pena di morte? Vediamo. Nel "Catechismo della Chiesa cattolica" in vigore fino al 1999 si poteva leggere: "Articolo 2266. Difendere il bene comune della società esige che si ponga l'aggressore in stato di non nuocere. A questo titolo, l'insegnamento tradizionale della Chiesa ha riconosciuto fondato il diritto e il dovere della legittima autorità pubblica di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di estrema gravità, la pena di morte". Questo ancora nel 1999. Nella successiva edizione del Catechismo, quella attualmente in vigore, la stessa formula risulta attenuata. Attenzione: non abrogata, bensì solo edulcorata. Eccola: "2267. L'insegnamento tradizionale della Chiesa (…) non esclude, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l'unica via praticabile per difendere efficacemente dall'aggressore ingiusto la vita di esseri umani". Qui emerge un'ambiguità: sembrerebbe che si debba difendere un inerme da un aggressore mentre l'aggressione è in corso. Ma questa è né più né meno che legittima difesa: contraddittoria rispetto all'uso della formula "pena di morte", che richiama inevitabilmente una sentenza comminata da un tribunale. Dunque, si tratta di una vera a propria deroga - ben inteso: in situazioni eccezionali - al principio assoluto. Ma ciò rende meno assoluto quel principio. È inconfutabile che, se si accetta quella possibilità di deroga, l'eccezione può valere anche in altre, e diversissime circostanze (e non siamo stati noi a proporre la comparazione): in presenza, ad esempio, di un caso di stato vegetativo persistente e di un trattamento di nutrizione e idratazione forzate, che prolungano artificialmente una vita ormai esaurita.

Corriere della Sera 24.2.09
Un partito blindato che rischia l'unità sui temi legati all'etica
di Massimo Franco


Dopo l'elezione di Dario Franceschini, il comandamento tacito è di blindare il Pd. La conseguenza più immediata è quella di alzare un muro intorno al partito, rinviando qualunque approccio col centrodestra, si tratti di federalismo o di giustizia; e di offrire un'immagine dura e pura che assecondi la componente di sinistra sui temi etici, ed affili un antiberlusconismo capace di fare concorrenza ad Antonio Di Pietro. Ma le tensioni interne che emergono sul testamento biologico dicono quanto possa essere traumatica l'operazione. E, sebbene prevista, la rinuncia al «governo ombra » veltroniano segna il passaggio ad un'opposizione senza più ambizioni né prospettive di guida.
La visita resa ieri da Franceschini al capo dello Stato, Giorgio Napolitano, conferma la volontà un po' pretenziosa di presentare il Pd come «partito della Costituzione»; e la larvata tentazione di trasformarlo in una sorta di «guardia politica» del Quirinale. Gli accenni ad un pericolo per la democrazia italiana; le uscite di Massimo D'Alema sullo strapotere di Silvio Berlusconi; i complimenti di alcuni dipietristi: sono altrettanti indizi di una deriva che tende a scaricare all'esterno i problemi del Pd. L'operazione ha come primo passaggio le europee; e come tappa successiva il congresso di ottobre.
Ma la sensazione è che molti fra gli ex ds vogliano piegare da subito l'identità del partito, proprio usando l'ex popolare Franceschini. Si intravede la silhouette
di una forza socialdemocratica, ancorata ai gruppi dirigenti locali e decisa a ricondurre alla disciplina ogni anomalia. Le stesse primarie, figlie degli anni prodiani e fonte di legittimazione di Walter Veltroni, oggi sembrano osservate con disincanto: anche perché hanno dato dei dispiaceri alla nomenklatura. Si indovina dunque uno spostamento del potere dal leader a chi gli ha conferito il primato: quella che si definisce collegialità.
I cosiddetti «temi etici» appaiono uno dei terreni privilegiati sui quali misurare il nuovo corso. Dietro le mediazioni cercate disperatamente da Francesco Rutelli affiorano i contorni di un'area politica sempre più in difficoltà nel Pd. E il modo in cui alcuni settori, sostenuti da Idv ed estrema sinistra, considerano Rutelli già in marcia verso l'alleanza con l'Udc, è una forzatura per anticipare il futuro. Il D'Alema che risponde alla jattanza berlusconiana con la propria, mette un sigillo all'operazione. «Berlusconi dice che ha fatto fuori 8 leader del centrosinistra. Non è vero», ribatte D'Alema. «Siamo vivi e in circolazione».
È un protagonismo inedito, per un dirigente che fino a pochi giorni fa ostentava distacco. Ma si tratta della conferma di un rimescolamento del quale Franceschini appare il garante, dopo essere stato il vice-Veltroni. «Ho letto che è tornato l'antiberlusconismo, non capisco cosa voglia dire», sostiene il segretario in tv. Vedendo come si comporta il premier, «anche un moderato alza la voce». La sua ricetta sul Pd è «la più semplice: smettere di litigare». Se centrerà questo obiettivo minimo, sarà già molto. Naturalmente, bisognerà vedere se la blindatura ed una pace interna prodotta dalla disperazione porteranno anche voti.

Corriere della Sera 24.2.09
Lo spauracchio «eutanasia»
di Silvio Viale, comitato scientifico di Exit.Italia


Caro Direttore, Panebianco bluffa quando parla di guelfi e ghibellini, collocandosi dubbiosamente in mezzo. Bluffa, e sbaglia, perché attribuisce ai ghibellini una posizione non loro. Mentre per i neoguelfi la «sacralità della vita» è davvero un valore assoluto non negoziabile da imporre, per i neoghibellini non è affatto vero che vogliono affermare «il principio secondo cui la decisione della morte di un uomo è nell'esclusiva e libera disponibilità di quell'uomo ». I neoghibellini non chiedono la deregulation del suicidio, che peraltro già non è reato, ma solo la possibilità di non essere costretti a prolungare una vita ormai consumata nella sofferenza della malattia in presenza di condizioni precise. Solo in questi casi i neoghibellini chiedono una morte quanto più possibile indolore e senza sofferenza con l'aiuto della medicina. Insomma i neoghibellini sono un po' guelfi perché vogliono dei paletti precisi, mentre i guelfi non sono per niente un po' ghibellini. La vera ipocrisia italiana è quella di temere la parola «eutanasia» e di circoscrivere il dibattito ad un suo surrogato di risulta come è il rifiuto delle terapie, sebbene addolcito da un po' di enfasi sulle cure palliative e appesantito da un po' di confusione sull'accanimento terapeutico.
Infatti, le cure palliative, se ben condotte, non sono così lontane da una terapia eutanasia, mentre l'accanimento terapeutico, che nessuno sa definire, è diventata la litania buona per ogni minestrone. Panebianco sbaglia quando parla di «due torti che si fronteggiano » e la prova del nove sta negli esempi delle leggi sull'eutanasia di Olanda, Belgio ed, ora, Lussemburgo, nonché nella prassi svizzera del «suicidio assistito». Dove sarebbero i torti per i neoguelfi o per i neoghibellini italiani? Ognuno potrebbe continuare a mantenere e propugnare le proprie ragioni. I guelfi potrebbero cercare di persuadere a non ricorrere alla legge. I ghibellini potrebbero accontentarsi di avere un'opportunità in caso di ultima necessità. I guelfi olandesi non sono limitati dalla legge olandese sulla interruzione della vita. Anzi, sia i guelfi e sia i ghibellini olandesi potranno avvalersene se le circostanze, il destino e le convinzioni dovessero farli approdare ad essa. In fondo, noi ghibellini, favorevoli all'eutanasia, siamo solo persone che amano talmente la vita da volerle bene anche nel suo viaggio terminale. Come fu per il divorzio, come fu per l'aborto, non è indifferente per nessuno quale torto finirà per prevalere nel regno dei guelfi.

Liberazione 24.2.09
Il gruppo del Senato si divide anche per gli emendamenti
Testamento biologico,
Il Pd litiga sul sondino
di Laura Eduati


Sai che sorpresa, il Partito democratico litiga sul sondino nasogastrico obbligatorio.
A trentasei ore dalla cosiddetta unità sancita nel nome di Franceschini, il partito si spacca sugli emendamenti al disegno di legge del centrodestra sul testamento biologico.
Secondo l'emendamento firmato da Anna Finocchiaro e Ignazio Marino, idratazione e alimentazione possono essere eccezionalmente sospese se il paziente ha espresso anticipatamente questa volontà. Dorina Bianchi, la capogruppo Pd in commissione sanità al Senato, fa obiezione di coscienza e non firma. Rutelli prova «la terza via»: non sarà possibile inserire nel testamento biologico l'interruzione del nutrimento forzato, tuttavia il nodo verrà eventualmente sciolto dal confronto tra il medico e il fiduciario delle volontà del malato. Una opzione che esclude quasi totalmente la soluzione-Eluana: i pazienti in stato incosciente dovranno subire scelte altrui.
I cosiddetti piddini laici sono furenti con i cosiddetti teo-dem: «Non capiscono che non può esistere una mediazione con il centrodestra che proclama l'indisponibilità della vita umana e obbliga i malati al sondino nasogastrico».
La rottura avviene di primo mattino, quando scade il termine per la presentazione degli emendamenti in commissione sanità al Senato.
Poco meno di cinquecento le modifiche presentate dall'opposizione al ddl Calabrò (Pdl), e tra questi la proposta di intero stralcio di quella parte che dichiara «indisponibile» la vita umana. «E' in contrasto con l'art. 32 della Costituzione, che salvaguarda il diritto ad opporsi alle cure», spiegano quelli del Pd. I radicali sono d'accordo.
Poi la scoperta: Dorina Bianchi, neo-capogruppo Pd in commissione al posto di Marino, non appone la firma ad un secondo emendamento che dovrebbe rappresentare la posizione unitaria e prevalente dei senatori Pd nella commissione stessa. L'emendamento è quello proposto da Finocchiaro, Latorre, Chiaromonte, Zanda e Marino, e propone di considerare il sondino nasogastrico come un «sostegno vitale» che in via «eccezionale» può venire sospeso su richiesta del paziente attraverso le dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat, ovvero testamento biologico ndr).
Soltanto sabato pomeriggio, alla manifestazione contro il ddl Calabrò, Ignazio Marino si era detto certo che Franceschini avrebbe garantito la linea laica senza tentennamenti. Sono passati nemmeno due giorni e l'illusione è finita: il senatore e chirurgo esprime «sconforto» per la posizione assunta da Bianchi. I laici, chiamiamoli così, protestano vivacemente: «Dorina pensa di potere scalfire il ddl Calabrò, purtroppo la maggioranza ha i numeri per approvare il testo così com'è» e cioè con l'imposizione di alimentazione e idratazione senza se e senza ma.
Tanto più che sono in arrivo gli emendamenti della maggioranza tra i quali quello di Laura Bianconi, convinta che bisognerebbe obbligare anche alla ventilazione artificiale: in questo modo Welby non sarebbe potuto morire. Proposta mica peregrina: il ddl Calabrò parla dell'alimentazione e della nutrizione artificiali come «sostegno vitale», dunque ci si avvicina sempre più all'accanimento terapeutico per legge.
Rutelli prova la mediazione tra le due parti una contro l'altra armate: alimentazione e idratazione artificiali non possono far parte del testamento biologico, ma saranno il medico, i famigliari e l'eventuale fiduciario indicato dal paziente a trovare una soluzione anche se la decisione finale spetta al medico. Ciò vale nelle fasi terminali ma anche se il malato è minorenne o incapace di intendere o volere.
A prima vista l'emendamento salva capre e cavoli, tuttavia darebbe al medico il potere di veto annullando o quasi le volontà del malato.
Il pasticcio in salsa democratica richiama una esplicita considerazione di Massimo D'Alema, finora pressoché silente sul tema: obbligare al sondino nasogastrico o alla cannula via stomaco per la nutrizione «è una idea che non ha eguali in nessun paese civile». La stoccata, idealmente contro il centrodestra, è benissimo riferibile all'ala teodem.
Il ministro Maurizio Sacconi legge le agenzie e commenta con gaudio le aperture del piddì alle posizioni della maggioranza ma, sull'emendamento di Marino e Finocchiaro, ritiene incomprensibile «il salto logico per cui "eccezionalmente", sulla base comunque di una volontà espressa dalla persona, sarebbe possibile interrompere acqua e cibo».
Non tardano le reazioni: «Sacconi non capisce che non può obbligare una persona ad un trattamento sanitario non voluto».
La commissione del Senato lavorerà notte e giorno fino a giovedì per esaminare i 585 emendamenti complessivi, poi passerà il testimone all'aula a partire dal 5 marzo. I maldipancia dei cosiddetti laici è forte, la posizione di Rutelli pesa. I senatori del Pd in commissione sanità attendono di vedere come la capogruppo dissidente, Bianchi, esprimerà la posizione del partito nella relazione finale.
Anna Finocchiaro prova a portare ordine tra i ranghi: l'emendamento che propone di sospendere idratazione e alimentazione se il paziente lo desidera, è la «posizione largamente prevalente» nel Pd. E' questa la linea, spiega la capogruppo in Senato, «in sintonia con quella assunta sabato da Dario Franceschini». Come dire: i cosiddetti teodem si pongono sostanzialmente al di fuori delle decisioni maggioritarie.
Con quali conseguenze, lo si vedrà nei prossimi giorni. Epperò esiste già una richiesta potente da parte dell'Italia dei valori: cacciare Rutelli. Lo esprime Donadi: «Le sue posizioni non possono appartenere all'area progressista e riformista del centrosinistra».

Liberazione 24.2.09
Un partito "riformista, non di sinistra"
La fallita rifondazione liberale del Pd
di Paolo Ciofi


Adesso, dopo l'assemblea alla Fiera di Roma, il Pd è una pagina bianca tutta da scrivere. Perché, nonostante gli sforzi di firme illustri per dimostrare che il progetto era ottimo e il suo inventore non all'altezza, le dimissioni di Veltroni sono la conseguenza e la prova provata della fragilità e del fallimento del suo progetto, annunciato come l'unica, vera operazione "riformista" con basi di massa mai tentata nella storia d'Italia. Lo dimostrano i fatti, e anche il discorso di Franceschini, molto distante dal manifesto del Lingotto dell'ottobre 2007.
In effetti, il "sogno" veltroniano non si riduceva alla pura alternanza di governo, come ha ripetuto l'ex segretario nel giorno dell'addio. Era qualcosa di più e di più complesso. Era l'idea di un "riformismo" ispirato al modello americano, orientato alla cancellazione della sinistra e incardinato sul bipartitismo rappresentativo degli interessi dominanti, che esclude per definizione dal sistema politico l'autonoma e libera rappresentanza delle lavoratrici e dei lavoratori eterodiretti. Dunque, una «Grande riforma», «una vera e propria rifondazione democratica», ovvero una compiuta «rivoluzione liberale» come ha tradotto Bettini, volta al superamento del patto costituzionale che fonda la Repubblica sul lavoro.
Proprio nel momento in cui in America si è aperta una riflessione non effimera sulle disfunzioni di quel modello, qui si è proposta un' "innovazione" di sistema che s'incontra con quella su cui lavora Berlusconi perché ad essa è parallela e speculare. In sostanza è l'idea di una politica fondata sulla centralità dell'impresa e tutta interna al potere di comando del capitale, nell'alternanza di quelli che lo stesso Veltroni ha definito un «capitalismo agonistico» e un «capitalismo solidale».
A questo scopo dovrebbe servire un partito neoborghese, nei contenuti moderato e centrista: il Pd appunto, che è «riformista ma non di sinistra», come ha dichiarato l'ex segretario a El Pais e come abbondantemente ha dimostrato la pratica politica di questi mesi.
Non per caso il discorso del Lingotto, che doveva dare il soffio della vita al Pd, è stato esaltato dal Corriere e dal Sole-24 Ore, che ha osservato come finalmente si sia completata la «svolta borghese» dei postcomunisti: «E' stata un'operazione di metabolismo politico di ingredienti che finora erano stati parte del sogno berlusconiano», ovvero del «mito del successo imperniato sul denaro». «E' come se Veltroni avesse intercettato le spore di questo mito e le avesse sistemate in un ordine diverso».
Ma è proprio questo "sogno" che non ha retto alla prova. Innanzitutto perché l'ancoraggio al liberal-liberismo (sia pure mite ma non tanto), esattamente nel momento in cui il medesimo liberal-liberismo viene additato come detonatore della crisi verticale del capitalismo, ha finito per produrre contraddizioni laceranti dentro il Pd. Come si è visto di fronte alle iniziative di lotta e agli scioperi promossi dalla Cgil, che però non hanno trovato il sostegno ufficiale del partito. Una scelta del resto prevedibile, dal momento che l'ex segretario aveva enunciato il principio secondo cui «se l'economia va male, non ci può essere giustizia sociale».
In secondo luogo perché l'idea di un superamento delle culture fondative della Repubblica, come la comunista (del Pci, per la precisione) e la cattolico-democratica, facendo ricorso a operazioni plebiscitarie che mettono il partito al servizio di un capo e non il contrario, si è dimostrata disastrosa, subalterna e distruttiva di ogni principio. Soprattutto sui temi della laicità, della libertà dell'individuo, delle scelte di fine vita, come insegna il caso Englaro. Ma se le culture di riferimento e gli ideali non sono contrattabili come i programmi e i ministeri, allora sorge il dubbio che ex democristiani ed ex comunisti forse possono stare insieme in un governo, difficilmente in un unico partito.
Inoltre perché la borghesia italiana, in assenza di una forte spinta del movimento operaio e di una adeguata rappresentanza politica delle lavoratrici e dei lavoratori, si è dimostrata nei suoi gruppi dirigenti ancora una volta miope, priva di una visione veramente nazionale ed europea, dedita al suo meschino interesse di classe e piuttosto incline a calpestare regole e contenuti della democrazia, come è avvenuto nei passaggi decisivi della storia d'Italia. Nel merito, le posizioni della Confindustria puntualmente documentate da questo giornale costituiscono oggi un'aggravante della crisi.
Ma non solo. Alla resa dei conti, i maggiori rappresentanti del capitalismo italiano convergono con Berlusconi proprio nel momento in cui il capo del governo ha cominciato l'assedio manovrato ai fondamenti della Repubblica e ai principi della Costituzione. Altro che il ritorno alla prima Repubblica perché Berlusconi si appoggerebbe allo stesso blocco sociale della vecchia DC, come ci fanno sapere fior di commentatori che pretendono di guardare avanti con la faccia rivolta all'indietro. E' invece la prova, dopo il fascismo, di un'ulteriore fallimento della borghesia come classe dirigente, che carica la sinistra di una nuova e inedita responsabilità, da esplorare fino in fondo.
Infatti, appare sempre più evidente che questo Paese è destinato a un irreversibile e doloroso declino se non si pone mano, con tempestività e determinazione, alla costruzione di una autonoma e libera rappresentanza politica del lavoro del XXI secolo: da valorizzare non solo come forza produttiva fondamentale della ricchezza della nazione, bensì anche come fattore costitutivo della personalità e dell'incivilimento sociale, oltre che come basamento dell'uguaglianza e della libertà. Ma non è certo rivangando il passato, con datate operazioni di stampo blairiano, denominate socialdemocratiche, ma nella sostanza liberiste e centriste, che si può costruire il futuro.

Liberazione 24.2.09
«La razza non esiste, il razzismo sì
Sarà il meticciato a salvare le generazioni»
intervista a Francesco Cavalli Sforza di Claudio Jampaglia


Razza o pregiudizio? . Se avete una qualsiasi relazione con un giovane questo libro di Luigi Luca e Francesco Cavalli Sforza (con Alberto Pianta, edizioni Einaudi scuola) è quello che vi servirà per affrontare in maniera logica, scientifica e definitiva la questione de L'evoluzione dell'uomo tra natura e storia (il sottotitolo). E la conclusione è molto semplice: le razze non esistono. Il razzismo purtroppo sì. E come è possibile? La risposta spetta a Francesco Cavalli Sforza che di mestiere fa "il divulgatore di conoscenza" - non troviamo altro termine per uno che è passato dal cinema, al video, alla televisione per approdare all'antropologia e alla scrittura scientifica insieme al padre Luca Luigi, uno dei più grandi genetisti. E la risposta inizia come spesso accade nel ragionamento scientifico da una premessa: «Nella nostra specie non esistono le razze perché siamo troppo giovani come specie, non ne abbiamo avuto il tempo. Le grandi differenze sono tra individui mentre quelle tra popolazioni sono una piccola percentuale, per esattezza circa l'11% delle differenze tra uomini. Cose superficiali come la forma del corpo, il colore della pelle... che rispondono a necessità "ambientali". L'unità di misura della evoluzione invece è la generazione e nei batteri ci sono tante generazioni in un anno quante nella specie umana in mezzo milione di anni (per la precisione una generazione umana sono 25 anni per le donne e 27 per gli uomini n.d.r. ). E quindi non è nemmeno vero che ci evolviamo più rapidamente di altri animali. I batteri sono più rapidi ed in un certo senso evoluti di noi, infatti alla lunga vincono sempre loro...».

E quindi la razza cos'è?
Una costruzione ideologica, semplicemente. La parola razza è esistita per definire la selezione delle varie stirpe di animali che gli allevatori ottenevano già dal primo medioevo per determinati animali... cani da riporto, da fiuto oppure cavalli da tiro o da corsa... E la selezione artificiale ha creato in pochi secoli tante razze di animali domestici. Basta pensare al gatto domestico e alle sue centinaia di varietà, tutte figlie dello stesso gatto selvatico che ormai non esiste quasi più...

Qualcuno ha provato però a selezionare la "razza umana"?
E ben prima di Hitler. Dai tempi dei faraoni egizi si è provato a limitare la procreazione in ambiti che si credevano "eletti". Prevalentemente nella stessa famiglia... Ma qualsiasi tentativo di questo tipo è destinato a fallire per una ragione genetica che sancisce anche la fine biologica di qualsiasi razzismo realizzato, e cioè che gli incroci tra geneticamente simili sono molto delicati. Così le cosidette "linee pure" degli allevatori sono spesso sterili e prede di malattie genetiche. Che si tratti di cani o umani la storia è la stessa.

E il contrario? Ovvero incrociarsi, mischiarsi...
L'incrocio funziona meglio. E il meticciato fa bene al corpo e alla mente, in senso evolutivo si intende. E anche qui la motivazione è scientifica. E' il cosiddetto "vigore degli ibridi". L'evoluzione infatti comporta una differenziazione continua che forma tanti "tipi" diversi e migliora in corsa l'adattamento dell'individuo al proprio ambiente. E l'adattamento marcia ad ogni più piccolo mutamento... Ora il numero di combinazioni genetiche possibile tra un maschio e una femmina umani è di un 3 seguito da tre miliardi di zeri ovvero una straordinaria possibilità di variazione ad ogni generazione. Ed è questa varietà prodotta in serie da processi perfettamente casuali la migliore garanzia di sopravvienza delle generazioni future. Si chiama ricombinazione ed è come rimescolare il mazzo di carte per ogni giocatore senza introdurre mutazioni.

Quindi la nostra "resistenza" è dovuta anche dalla ricombinazione genetica?
Oggi l'interpretazione più accreditata dice che la riproduzione di carattere sessuale si è affermata in una varietà così ampia tra tutti gli animali superiori proprio perché rende possibile una straordinaria ricombinazione dei caratteri genetici dei genitori (il sesso spiegato dalla scienza, n.d.r. ). E casuale. Mutazione e ricombinazione, insieme alla cosiddetta deriva genetica (ad ogni generazione cambia la frequenza dei tipi genetici, ad esempio dei gruppi sangugni AB0) sono importantissimi fattori di evoluzione. Poi c'è la selezione naturale che agisce come un setaccio che lascia passare quelli "adatti" per ripordursi. Ma in sostanza la grande varietà di tipi genetici frutto dell'evoluzione, presente ad ogni generazione è la migliore garanzia di sopravvivenza.

E qual è il motore di questa diversità e resistenza umana?
Senza dubbio la cultura che è "la" cosa che caratterizza l'uomo. E sono circa 6mila le popolazioni umane che hanno sviluppato un propria cultura da quando, circa 50mila anni fa, hanno iniziato a divergere, a colonizzare il mondo e sviluppare diversi modi di vita. E questa è la nostra migliore chance di sopravvivenza rispetto alle incognite del futuro... In natura la possibilità di compiere cambiamenti si vede ogni generazione ed è affidata alla rare mutazioni chiamate verticali, invece la cultura ci permette di realizzare dei cambiamenti in linea orizzontale. Vale anche per gli animali dove si trovano culture incredibili, con sistemi di comunicazione molto sofisticati. Basti pensare alle formiche o alle api. Ma nel mondo umano le idee sono l'equivalente delle mutazioni in campo genetico e si possono trasmettere a chiunque sia in grado di comprenderle. Questa è la ragione per cui l'evoluzione culturale è immensamente più veloce di quella genetica. Per adattarci ai climi freddi della Siberia 25-30mila anni fa fu possibile grazie all'innovazione culturale dell'abito da pelliccia e dopo migliaia d'anni i corpi si sono adattati all'ambiente gelido. Basti pensare alle narici lunghe e sottili che servono a riscaldare l'aria gelata prima che arrivi ai polmoni e ai cuscinetti di grasso sotto l'occhio per non far gelare il liquido del globulo oculare e ancora gli occhi sottili tipici delle popolazioni mongole. Adattamenti biologici si trovano ad ogni latitudine e hanno richiesto millenni. Mentre oggi si compra un'attrezzatura adeguata, un buon paio di occhiali antivento e l'adattamento culturale ci permette di fare un salto di 10mila anni di adattamento biologico...

Ma la selezione poi si fa anche sulla diversità culturale tra "umani"?
Ovviamente sì. Ma non ne conosciamo sempre la direzione. Prendiamo un cittadino metropolitano occidentale e un contadino povero che zappa sul Medio Atlante marocchino. Il metropolitano può sembrare il massimo della civiltà e l'altro un povero disgraziato ma metti solo che si produca una crisi energetica da petrolio chi ne uscirà meglio? Il contadino di sicuro continuerà la sua vita. Ma noi? E' il senso biologico della compresenza di culture diverse.

E uno scienziato come si spiega il razzismo?
Non se lo spiega. Se non come lo scontro tra tifosi di diverse squadre: l'appartenenza a un gruppo dà sicurezza, identità fino a inventarsi un nemico per affermarsi. Non c'è spiegazione scientifica.

E la paura? Perché quello che conta nel crescente clima di allarme sociale esagerato, urlato, inventato è la fabbrica della paura...
Credo che la paura nasca semplicemente dal senso di insicurezza del futuro. Non sono i tanti migranti o meno in giro è il fatto di non sapere se avremo un lavoro, se ce la faremo, se riusciremo a mantenere il livello di vita dei nostri figli... Per due generazioni si è affermata la convinzione che fosse possibile per tutti una grande stabilità e sicurezza ai più alti livelli della scala sociale: sanità, istruzione, case, benessere. Questo senso di sicurezza si sta dissipando, soprattutto per la crisi economica e credo che da questo nasca la paura. Lo straniero non c'entra nulla. E' il capro espiatorio. A lui tutti i mali benché sia falso pure statiscamente. Chi commette più delitti? Chi commette più stupri? I numeri dicono gli italiani.

E cosa preoccupa di più uno scienziato?
La preoccupante e scarsissima conoscenza nelle cose più elementari della scienza da parte dei cittadini, ma vale anche per la cronoca, per i fatti, se posso permettermi. Eppure il grande vantaggio che abbiamo oggi è proprio la disponibilità straordinaria di consocenza scientifiche e tecnologiche rispetto al passato. Però sembrano non interessare. Che sia in campo biologico o per trasformare l'Italia in un paese a energie rinnovabili. Si può fare. Invece attendiamo la fine dei fossili, le catastrofi e la natura che deciderà per noi.

l’Unità 24.2.09
Contratto scuola. Referendum Cgil
Il 95% dice «no»
18 marzo sciopero


La Cgil non ha sottoscritto il rinnovo del contratto della scuola. Aveva chiesto a Cisl, Uil, Snals e Gilda prima di indire un referendum tra i lavoratori. E poi, semmai, firmare. Ma nessuno delle altre organizzazioni sindacali ha voluto seguire il «consiglio» di Guglielmo Epifani, leader della Confederazione dei lavoratori. E così ecco i risultati: il 94,65% dei votanti ha «bocciato» il contratto. Quasi 400mila i partecipanti al referendum (376.926), il 40% della categoria. E 250mila persone non erano iscritti alla Cgil. L’84% si è espresso per il «no» anche attraverso un parallelo sondaggio condotto on line. Numeri importanti. «I lavoratori della scuola - ha detto Epifani - vogliono poter decidere su quello che li riguarda». E Mimmo Pantaleo, segretario generale della Flc-Cgil, ha aggiunto: «Non abbiamo sottoscritto l’intesa perché insufficiente a recuperare il potere di acquisto dei salari. Il contratto non propone alcuna soluzione al problema del precariato e non risponde alle attese del mondo della scuola sul versante professionale».
Immediata la replica di Raffaele Bonanni, Cisl: «Il segretario della Cgil non è nè un arbitro nè un notaio. Dico a Epifani che i problemi sono altri e farebbe bene a porseli».
In occasione della conferenza stampa sull’esito del referendum, la Cgil ha anche ufficializzato la decisione di andare ad uno sciopero nazionale per il 18 marzo. A fermarsi insieme alla scuola saranno anche l’università, la ricerca e l’Alta formazione artistica e musicale (Afam). Nel giorno della mobilitazione si terranno anche 18 manifestazioni territoriali in tutta Italia.
E sempre sul fronte scuola si profila una sonora bocciatura per il maestro unico. Le iscrizioni alle prime classi si chiudono questo sabato. Da una prima ricognizione, pare che le famiglie abbiano scelto il tempo pieno invece che l’unico docente voluto dalla Gelmini. Le famiglie però conosceranno l’esito dell’assegnazione in classe solo dopo la dotazione organica. Le scuole stanno facendo salti mortali per accontentare tutti. Ma i tagli restano pesanti.

Repubblica 24.2.09
Un seminario per cinquecento dirigenti in deficit di autostima In cattedra Roberto Re, l´"allenatore dell´anima" dei manager
Ascolta il motivatore ti solleva dalla crisi
di Elena Stancanelli


"Il segreto? Imparare a stare a nostro agio nel nuovo, smettere di avere paura e fidarci di noi stessi"
"Non bastano più i muscoli per reggere le diciotto ore al giorno di lavoro, servono creatività e flessibilità"

«Smettila di incasinarti», «Tempo di risultati», «Leader di te stesso» sono alcuni titoli di libri o dvd di Roberto Re. Vanno a ruba tra i manager che partecipano al seminario di formazione che si tiene in un albergo romano. Cinquecento persone arrivate da tutta Italia, cinquecento persone che da un giorno all´altro rischiano di trovarsi senza lavoro, mi spiega Stefano Cuzzilla presidente del Sindacato Romano Dirigenti Aziende Industriali, promotore del seminario. Nessuno si commuove per noi, lo capisco. Difficile, in questo momento di crisi, provare compassione per chi ha avuto stipendi come i nostri. Ma cadere dall´alto fa più male. Conosco persone che per mesi sono uscite di casa in giacca e cravatta come se niente fosse, e magari venivano da me in ufficio, a far passare la giornata. Per mesi, senza avere il coraggio di dire alla moglie che non avevano più un lavoro. Nel 2008 solo a Roma sono rimasti a piedi 600 manager. Molti di quelli che vedi qui neanche lo sanno che la loro azienda sta per chiudere, ma io sì.
Che fare? La mia risposta, dice Stefano Cuzzilla, è formazione. Le aziende hanno un fondo destinato alla formazione, che non viene quasi mai usato. Fin quando tutto andava bene, i manager lavoravano il più possibile per guadagnare il più possibile, senza tempo da perdere. Ma adesso non bastano più muscoli per reggere le diciotto ore al giorno di lavoro, serve la creatività per rimettersi in gioco, la flessibilità. Il coraggio di cambiare. Se sei costretto a passare da una grande azienda a una più piccola, devi saper fare più cose. Mentre io e Stefano Cuzzilla parliamo, bussano alla porta. Entra un uomo, elegante ma un po´ dimesso. Sembra uscito da un racconto di Pirandello, sorride, risponde composto alle nostre domande impertinenti. Ecco, dice Stefano: lui era vicedirettore di non so cosa e adesso? Adesso, dopo mesi di disoccupazione, gli hanno offerto un contratto di consulenza. Alla metà del suo vecchio stipendio. Un terzo, precisa l´uomo malinconico e esce, facendo segno a Stefano che lo aspetta fuori, con calma. Capisci? Mi dice quando rimaniamo soli.
Roberto Re è l´uomo scelto da Cuzzilla per operare il miracolo della trasformazione. A lui e la sua organizzazione, la HRD Training group, si rivolgono non solo manager ma uomini e donne di tutte le età e delle più varie professioni: atleti in crisi di risultati, casalinghe malinconiche, studenti bocciati, avvocati senza clienti. Isolde Kostner lo ha cercato quando non riusciva più a vincere, Don Mazzi gli affida una volta l´anno i suoi ragazzi. Persone in difficoltà, o persone ambiziose, alla ricerca di un miglioramento.
Sono una specie di allenatore dell´anima, dice Roberto Re. Cerco di tirare fuori il meglio da ognuno, partendo dagli insegnamenti base: sviluppo della memoria e tecniche di apprendimento veloce. Faccio corsi di programmazione neuro-linguistica, insegno a parlare in pubblico o a sedurre l´interlocutore singolo, ho messo a punto un training fisico e una serie di esercizi motivazionali. Con me lavorano persone che insegnano i segreti dell´ipnosi, le buone regole per vivere in un team, come trasformare un fallimento in opportunità. Per capire cos´è il mio lavoro prendi la psicologia e togliendo tutta la lagna dell´inconscio fanne una materia pratica e moderna, utile.
Roberto Re è nato a Genova nel 1967, ha studiato un po´ di economia e un po´ di psicologia e poi è andato negli Stati Uniti. È lì che negli anni Ottanta ha scoperto la filosofia del successo, ha letto «Pensa e arricchisci te stesso» di Napoleon Hill, trenta milioni di copie, la Bibbia dei trainer motivazionali. Lì ha conosciuto il lavoro di Roy Martina, medico olistico, autore, selfness coach e trainer di trainer. E soprattutto Anthony Robbins, il guru dei guru, uno che si è curato il cancro a morsi e ha insegnato a campare a gente come Gorbaciov e Bill Clinton, ha confortato Nelson Mandela e spronato Margaret Thatcher. Anthony Robbins, l´uomo che ha coniato la frase: If you can´t than you must, il mantra di Roberto Re. Il quale, tornato in Italia agli inizi degli anni Novanta, decide che si può fare, i tempi sono maturi. E inizia a proporre i suoi corsi da noi, nella terra dei disillusi. Gli italiani, mi conferma, sono più scettici degli americani. Ho dovuto dare un aggiustatina al programma. Presentarsi come un guru non funziona, meglio spiegare, far riflettere, creare un approccio morbido. Non imporre niente, e infarcire ogni discorso di esempi pratici. La teoria è noiosa e non rimane impressa. Meglio fare che ascoltare. La sua invenzione della camminata sui carboni ardenti come esercizio di affermazione della volontà è diventata subito un cult.
I cinquecento manager che partecipano al seminario «Da manager a leader» lo ascoltano con attenzione. La parola chiave è cambiamento. Per ottenere risultati, bisogna uscire da quella che chiama Zona del comfort, lo spazio che abbiamo arredato intorno a noi, a nostra immagine, nel quale ci possiamo rilassare e non temere. Dobbiamo imparare a stare a nostro agio nel nuovo, nell´improvviso, dobbiamo smettere di avere paura e fidarci di noi stessi. Dice cose semplici, ma innegabili. Il suo segreto è farti vedere come tutto sia a portata di mano. Compreso il successo. Che però è niente senza la felicità. Che cos´è l´infelicità per te, gli chiedo. È la differenza tra ciò che abbiamo e ciò che vorremmo avere. Non molto diversa da uno scompenso ormonale, da una carenza di ferro, dunque. L´infelicità esiste, ma tranquilli: si cura.

Repubblica 24.2.09
In polemica con Bondi se ne andranno altri membri del Consiglio superiore
Beni culturali, Settis si dimette
di Francesco Erbani


Un duro contrasto per la nomina di Mario Resca. Ma anche per i prestiti di Leonardo e per il commissariamento dell´area archeologica di Roma

Il braccio di ferro fra Sandro Bondi e Salvatore Settis ha raggiunto il suo apice. Domani si riunisce il Consiglio superiore dei Beni culturali e ai diciotto suoi membri Settis, che del Consiglio è il presidente, leggerà una lettera di dimissioni. Molto motivata e molto dura, si sente dire. Ma non sarà solo il direttore della Normale di Pisa, storico dell´arte antica e dell´archeologia, ad andarsene. Dalle indiscrezioni che filtrano saranno almeno in quattro, forse in sei a lasciare l´incarico. E a quel punto non si sa quale sarà la sorte del principale organo di consulenza del ministero.
Nel frattempo tornano insistenti le voci che vorrebbero lo stesso Bondi in partenza dal ministero. Lo attende l´incarico di coordinatore del Pdl. Al suo posto si insedierebbe Gaetano Quagliariello, attualmente vicepresidente dei senatori del centrodestra, il quale rinnoverebbe anche molto del personale che affianca Bondi.
Ma fintanto che è al Collegio Romano, Bondi sfodera la sciabola. Il ministro ha reagito con durezza alle ultime dichiarazioni di Settis (una lunga intervista a L´espresso di venerdì, alla quale il titolare del dicastero ha replicato con un articolo sul Giornale). Lo scontro ha però radici antiche, il dissenso sulle linee di conduzione del ministero si è fatto più marcato con il passare del tempo. Qualche volta si è composto, ma ora sembra che non sia più possibile. «Se avesse voluto cercare un espediente per rassegnare le dimissioni», ha scritto il ministro, «il professor Settis non ne avrebbe potuto trovare uno migliore». E quale sarebbe l´espediente? Il sensazionalismo mediatico, l´aver espresso ai giornali le sue critiche. Peggio ancora, secondo il ministro, se si tratta di «stampa di opposizione».
È proprio questo uno dei motivi della rottura. Settis non accetta di mettere il bavaglio. E così come è stato nel luglio scorso, quando denunciò il taglio di oltre un miliardo di euro nei bilanci già dissestati del ministero (il sottosegretario Francesco Giro di fatto lo licenziò, ma poi fu recuperata un´intesa con il ministro), anche stavolta il direttore della Normale non rinuncia a contestare le iniziative più discusse del ministero. Forte del fatto di essere presidente di un organo di consulenza e non un dirigente del ministero, soggetto a vincoli burocratici.
Un duro contrasto si è manifestato con la nomina a direttore generale di Mario Resca, ex amministratore delegato della McDonald´s, al quale Bondi aveva in un primo tempo affidato poteri straordinari sulla gestione dei musei, sulle mostre, sconfinando persino nel campo della tutela. La reazione di tutte le associazioni di salvaguardia, la raccolta di migliaia di firme e una bocciatura netta da parte di tutto il Consiglio superiore, presieduto da Settis, indussero Bondi a una mezza marcia indietro, giudicata insoddisfacente da molti: Resca, che non aveva nessuna competenza in fatto di management culturale, si sarebbe occupato solo della valorizzazione (ma la nomina ancora non è formalizzata). Settis e il Consiglio non avevano taciuto il loro dissenso nei confronti della scelta, per esempio, di prestare a un museo del Nevada alcuni disegni di Leonardo, un´iniziativa fortemente sostenuta da Alain Elkann, consulente di Bondi, ma osteggiata dalla direttrice della Biblioteca reale di Torino che quei disegni custodiva. Anche la decisione di commissariare l´area archeologica romana ha incontrato le perplessità di Settis, oltre che l´opposizione dura di tutti i funzionari delle soprintendenze di Roma e di Ostia e di quattromila fra professori universitari e studiosi italiani e stranieri.
Tutte queste e altre iniziative del ministero andavano nella direzione, agli occhi di Settis, di un progressivo svuotamento delle soprintendenze, per altro verso lasciate a languire, indebolite e delegittimate. Nel giro di pochi anni da quegli uffici andranno via molti funzionari che non verranno sostituiti. Già nei prossimi mesi resteranno scoperti alcuni fra i principali posti di soprintendente. È difficilissimo apporre dei vincoli di tutela e alcuni soprintendenti temono di non essere appoggiati dai vertici del ministero, anzi si sentono sempre in bilico, minacciati di trasferimento. In questa situazione ai limiti del collasso, sono stati istituiti commissari, i cui compiti sono ancora incerti. A Pompei il commissario Renato Profili non ha fondi propri, ma attinge a quelli ordinari della Soprintendenza. A Roma, dai Fori al Palatino, dai Mercati Traianei a Ostia, non è chiaro di che cosa si occuperà Guido Bertolaso, responsabile della Protezione civile. Ma che sia quest´ultima struttura quella che, agli occhi di chi dirige il ministero, fornisce maggiori garanzie lo prova il bando lanciato dal commissario a Pompei per assumere, anche con compiti di custode, volontari della Protezione civile.

il Riformista 24.2.09
Gran Bretagna fonti di Scotland Yard rivelano al "Guardian" scenari inquietanti
Crisi, il Regno attende «L'estate della collera»
di Mauro Bottarelli


LONDRA. L'epicentro della recessione in Europa potrebbe diventare il teatro di una nuova guerriglia urbana. Nel mirino banche, multinazionali e altri istituti giudicati colpevoli per il disastro economico. La prima data a rischio cade ad Aprile, quando Brown riceve mezzo mondo per il G-20.

«La Gran Bretagna affronta un'estate di rabbia. Il malcontento della classe media per la crisi economica potrebbe sfociare in violenza nelle strade». La prima pagina del Guardian di ieri sembra uscita dagli anni Ottanta: guardandola fare capolino dalle rastrelliere dei piccoli empori gestiti da pakistani un po' ovunque a Londra, si poteva chiudere gli occhi e immaginare scontri tra manifestanti e polizia lungo Bayswater su fino a Kensington High Street mentre "White riot" rimandava dalle radio le sue note di ribellione bianca e working class. Forse i Clash, scrivendola, preconizzarono la crisi che sta vivendo oggi il Regno Unito, il paese più finanziarizzato d'Europa - ogni cinque lavoratori, due sono impiegati nel settore - e quello di fatto più esposto ai marosi della crisi globale. Per questo la polizia britannica teme che la situazione socio-economica possa provocare nei prossimi mesi un'ondata di proteste violente: gli agenti addetti alla pubblica sicurezza si stanno preparando alla cosiddetta "estate di collera" e hanno innalzato al massimo il livello di attenzione per evitare incidenti come quelli che si verificarono appunto negli anni ‘80. David Hartshorn, che guida l'ufficio per l'ordine pubblico della polizia metropolitana di Londra, ha dichiarato al Guardian che la classe media potrebbe unirsi alle proteste contro il governo per effetto della crisi economica che sta interessando il paese: secondo il funzionario britannico uno degli «obiettivi principali» delle proteste dei prossimi mesi potrebbero essere le banche. Un pericolo, quello della guerriglia urbana, che è stato già segnalato dall'intelligence: i servizi segreti di Londra, infatti, hanno avvertito che «attivisti già conosciuti» stanno per ritornare in strada. A far drizzare le antenne ai responsabili dell'ordine pubblico, poi, è il fatto che queste possibili manifestazioni violente non sarebbero riconducibili a partiti politici od organizzazioni ben determinate bensì al cosiddetto «spontaneismo della crisi», una fattispecie già vista durante i giorni degli scioperi selvaggi nella raffineria di Lindsey che spiazzarono gli stessi rappresentanti sindacali.
Quindi, potenzialmente devastanti sia per l'impatto sia per la capacità di estendersi a macchia d'olio e senza dare punti di riferimento conosciuti alla polizia. Inoltre, il potenziale mix tra soggetti ad alta pericolosità e cittadini modello pronti a tramutarsi in violenti come risposta all'esasperazione potrebbe dar vita a fenomeni di emulazione e soprattutto di potenziale solidarietà da parte dell'opinione pubblica, disgustata dai "fat cats" della City e dai loro bonus e quindi pronta a giustificare la portata di atti anche violenti. Nonostante i toni trionfali con i quali Gordon Brown ha descritto la riuscita del vertice di Berlino tenutosi la scorsa settimana, la realtà britannica è tutt'altro che rosea: dopo Royal Bank of Scotland, nazionalizzata al 6 per cento e ormai alle soglie della scissione in due rami per consentire la nascita di una bad bank per scaricare i titoli tossici, ora è Llyod Tsb a spaventare il governo, soprattutto in vista della prima trimestrale che sarà un bagno di sangue in virtù delle svalutazioni figlie della disgraziata fusione con Hbos. Ma se i timori di cortei violenti che vedano spalla a spalla operai, no global ed ex colletti bianchi proletarizzati dalla crisi fanno lavorare in anticipo le forze dell'ordine, anche la carta della degenerazione xenofobo preoccupa non poco. La scorsa settimana a Gordon Brown è stato recapitato un memo nel quale si parla chiaro e tondo di "sfondamento" del British National Party nelle roccheforti del Labour a maggioranza di working class bianca: detto fatto, lo scorso weekend ha visto il partito razzista di Nick Griffin vincere per la prima volta un turno suppletivo strappando un seggio proprio al Labour a Sevenoaks District nel Kent.
Alcune rilevazioni dell'ufficio di pianificazione politica parlano del rischio di conquista di due, tre seggi da parte del Bnp alle prossime europee grazie alla disaffezione verso il Labour e al metodo di voto proporzionale. Senza contare che l'estate è da sempre il periodo "dei fuochi" in aree calde come le Midlands, territori ad alto impatto di immigrazione che vedono militanti del Bnp uniti a hooligans calcistici nella caccia al "paki".

l’Unità Lettere 24.2.09
Il testamento biologico
È davvero importante la mobilitazione in corso contro una cattiva legge sul testamento biologico, perché rende esplicito quanto la sempre annunciata, smentita, cercata e respinta unificazione delle sinistre si giochi proprio sulla difesa dei diritti umani e delle libertà individuali. È per questo che è stata importante la manifestazione sul tema a piazza Farnese, sabato scorso.
Paolo Izzo

Liberazione Lettere 24.2.09
Testamento biologico, uniti contro una cattiva legge
Cara "Liberazione", è davvero importante la mobilitazione in corso contro una cattiva legge sul testamento biologico, perché rende esplicito quanto la sempre annunciata, smentita, cercata e respinta unificazione delle sinistre si giochi proprio sulla difesa dei diritti umani e delle libertà individuali. Così come è stata importante la manifestazione sul tema a piazza Farnese, sabato scorso… Dispiace soltanto che la "piovra" Marco Pannella, così come l'ha definito Paolo Flores d'Arcais - direttore di "Micromega", non sia stato invitato a parlare. Quando si "annullano" i principali combattenti e resistenti delle iniziative politiche e civili, la battaglia e la resistenza stessa perdono un po' della loro forza, per essere consegnate a un chiassoso ribellismo, indistinto e scarsamente motivato da solide basi politiche e teoriche, che vieppiù rende vaga e lontana quella unificazione tanto auspicata.
Paolo Izzo radical-socialista, via e-mail

il manifesto Lettere 23.02.09
Dispiace che si "annullino" i veri combattenti
Caro Manifesto, è davvero importante la mobilitazione in corso contro una cattiva legge sul testamento biologico, perché rende esplicito quanto la sempre annunciata, smentita, cercata e respinta unificazione delle sinistre si giochi proprio sulla difesa dei diritti umani e delle libertà individuali. Così come è stata importante la manifestazione sul tema a piazza Farnese, sabato scorso… Dispiace soltanto che la “piovra” Marco Pannella, così come l’ha definito Paolo Flores d’Arcais - direttore di Micromega, non sia stato invitato a parlare. Quando si “annullano” i principali combattenti e resistenti delle iniziative politiche e civili, la battaglia e la resistenza stessa perdono un po’ della loro forza, per essere consegnate a un chiassoso ribellismo, indistinto e scarsamente motivato da solide basi politiche e teoriche, che vieppiù rende vaga e lontana quella unificazione tanto auspicata.
Paolo Izzo, radical-socialista

La Stampa Lettere 24.02.09
Diritti umani e bavaglio
E’ importante la mobilitazione contro una cattiva legge sul testamento biologico: rende esplicito quanto la sempre annunciata e respinta unificazione delle sinistre si giochi proprio sulla difesa dei diritti umani e delle libertà individuali. Così come è stata importante la manifestazione a piazza Farnese, sabato scorso… Dispiace soltanto che la «piovra» Marco Pannella, così come l’ha definito Paolo Flores d’Arcais, non sia stato invitato a parlare. Quando si «annullano» i principali combattenti e resistenti delle iniziative politiche e civili, la battaglia e la resistenza perdono un po’ della loro forza, per essere consegnate a un chiassoso ribellismo scarsamente motivato da solide basi politiche e teoriche.
Paolo Izzo, radical-socialista

Repubblica 19.5.85
Il gay della Fgci
intervista a Nichi Vendola di Stefano Malatesta


ROMA - Nichi Vendola ha 26 anni, è pugliese. Qualche giorno fa è stato eletto membro della segreteria nazionale della Fgci, la Federazione giovanile comunista. Ha un viso gradevole. In testa calza un berretto blu con visiera, da studente svedese. Intorno al collo è annodata una sciarpa di lana bianca. Porta al lobo sinistro un orecchino d' oro. Nichi Vendola è un gay, il primo attivista omosessuale entrato a far parte della dirigenza comunista. Dice senza asprezza polemica: "Sono sicuro che parlerai dell' orecchino d' oro. Ho già dato un' intervista in cui raccontavo un po' di cose, fatti personali e politici. Dopo ho avuto dei timori, credevo che ci fossero reazioni a Roma, nel partito. Invece i compagni sono stati benevoli. Mi hanno però avvertito: stai attento a non farti ingabbiare nel clichè, il gay alle Botteghe Oscure, eccetera. Prima c' erano i funzionari infagottati nei doppipetti grigi tagliati male, con le cravatte stonate in raso. Adesso l' omosessuale con l' orecchino. Al congresso giovanile avevo un magnifico, luminescente papillon sopra una camicia a righe. Dì, vuoi che ti stringa la mano sotto il tavolo?". Rispondo che il passaggio sotto le forche del commento becero è obbligato: cosa si vuole aspettare, finezze anglosassoni? L' umorismo in Italia, e anche altrove, è spesso di genere caserma, dovrebbe esserci abituato. Però mica posso far finta di essere venuto per le sue preclare virtù politiche di cui tutta l' Italia parla. Sono venuto perchè Vendola è il primo dirigente comunista gay dichiarato. Nel 1948 il Pci non ha espulso Pier Paolo Pasolini per indegnità morale? "Sono passati esattamente 37 anni. Sai cosa ho detto al congresso giovanile? Per noi comunisti non si tratta di difendere la grande dignità e i valori dell' omosessualità, ma di acquisire la diversità come elemento di ricchezza per chi vuole ancora trasformare il mondo. E' stato il passo più applaudito nel mio intervento". Mi ricordo di un altro intervento, più volte citato, fatto da Enrico Berlinguer quando era segretario della Fgci, su Maria Goretti: la additava ad esempio per le future generazioni dei comunisti. "Era il dopoguerra. I comunisti venivano descritti come bestie. L' accusa di essere intellettual-frocio-comunista, senza molta distinzione tra i termini, ugualmente vituperati, è stata merce corrente fino a non troppo tempo fa. Da parte del Pci si tentava di difendersi, di proporre dei modelli di moralità sotto quell' alluvione di vituperi. Il difetto stava nel prendere in prestito i modelli dalla cultura cattolico borghese". Ma c' era anche molta grettezza moralistica e bacchettona all' interno del partito. Chi conviveva con una ragazza veniva convocato e avvertito con l' usuale frase: "Compagno, è ora che regoli la tua posizione". E Togliatti ebbe dei problemi quando iniziò la sua relazione con Nilde Jotti. Secchia non scherzava. "Lo stesso Secchia, una volta caduto in disgrazia, fu accusato, non tanto larvatamente, di essere un finocchio, accusa infamante e degradante. Ma erano tempi diversi, il partito continuava a vivere in stato di allarme, non ci si potevano concedere lassismi personali con il nemico o con la sindrome del nemico alle porte. Però Pasolini, tra il ' 60 e il ' 70, già poteva scrivere liberamente anche di omosessualità su "Vie Nuove"". Pasolini era uno scrittore celebre, un poeta, "un' artista". Anche Visconti non venne mai attaccato: Togliatti ne ha fatto sempre grandi elogi. Ma era un' eccezione. L' aristocratico decadente se lo poteva permettere, proprio perchè aristocratico e decadente. L' operaio in fabbrica no. Diciamo la verità: i compagni lo avrebbero preso a calci nel sedere. "Su Visconti posso essere d' accordo. Ma lui non faceva professione di omosessualità, come non la fa Zeffirelli. In questo senso non sono "scandalosi". Invece Pasolini era provocatorio, almeno per quegli anni e il fatto che scrivesse su "Vie Nuove" è significativo. Però è vero che l' omosessuale in fabbrica, tra i compagni, non aveva vita allegra. Mio padre, comunista da sempre, un uomo magnifico, dolce, andava a fare le spedizioni per picchiare "i froci". Una volta mi ha detto: se ti ammazzassi, noi tutti potremmo riacquistare una dignità. Mi ha molto amato, ma per lui, come per tanti altri, gli omosessuali erano solo i turpi individui che adescavano i bambini nei giardinetti. Ma di queste cose non ne voglio più parlare". Non ho l' intenzione di continuare ad insistere su certi ritardi e manchevolezze del Pci. Ma qui, come in altre occasione, l' azione dei radicali mi sembra sia stata decisiva. Gli altri hanno seguito, anche con riluttanza: tutto questo non gli interessava, soprattutto non faceva parte della loro cultura. "I radicali hanno avuto dei meriti, creando movimenti, flussi, attraverso un' ottica garantista. Ma con qualche casella o piccolo spazio in più di libertà non cambi le regole del gioco, che sono rimaste quasi le stesse. Il "Fuori" voleva creare la cittadella gay, dove gli omosessuali si potessero sentir protetti. I comunisti sono sempre stati contro l' ideologia del ghetto: in ritardo, magari, però decisi a risolvere le questioni, non solo a presentarle, che è molto più facile. D' altronde basta andarsi a rileggere le centinaia di lettere che arrivavamo all' "Unità" e a "Rinascita"" durante gli anni 70: un dibattito libero". Mi dicono però che alti dirigenti del partito non siano stati particolarmente soddisfatti dell' elezione di un omosessuale nella segreteria della Fgci: Chiaromonte ad esempio. "Francamente nel Pci non ho mai avuto problemi, come li ho avuti in famiglia. Credo che oggi comunista significhi anche rispetto dell' altro, essere condannati ad una contaminazione attraverso il rapporto umano: un rischio che bisogna accettare. Lo sguardo inquietante di un altro uomo può farti crollare il tuo castello di certezze, ma è inutile e stupido fuggire. Sono i liberali che hanno sguardi paralleli, che non s' incrociano mai: l' idea del rapporto come due monologhi. Questa è mummificazione dell' esistente. Libertà comunista è dinamismo, è contaminazione, con le nostre coscienze e i nostri corpi, è buttarsi nella mischia. Io l' ho fatto, sono diventato coscientemente omosessuale, per poi recuperare l' eterosessualità, per poi trovar la sessualità, senza aggettivi. Vorrei che ci capissimo, non sto parlando di membri e di apparati genitali, altrimenti torniamo alla caserma". Io credo di capire, ma non so quanti siano in grado di farlo nel Pci, non parlo della Fgci... "Giovanni Berlinguer è uno che capisce: aperto, vivace. Anche Natta ci aiuta. Abbiamo avuto un dibattito con lui molto libero. Ripete sempre che bisogna andare fino in fondo, che bisogna parlare, confessarci di più - non dal prete con la cotta - togliersi di dosso tutti i residui di intolleranza. Gli altri non so, sono arrivato da pochi giorni a Roma. Certo l' età conta, ognuno forma la propria cultura in un momento storico preciso. Non è facile affrontare un tema come quello della pedofilia ad esempio, cioè del diritto dei bambini ad avere una loro sessualità, ad avere rapporti tra loro, o con gli adulti - tema ancora più scabroso - e trattarne con chi la sessualità l' ha vista sempre in funzione della famiglia e dalla procreazione. Le donne, da questo punto di vista, sono notevolmente più sensibili. Ma il Pci non è un organismo matriarcale".

lunedì 23 febbraio 2009

l’Unità 23.2.09
Testamento biologico, 150mila firme per l’appello on line di Ignazio Marino
di F. Fan.


Quota 150mila firme per l’appello on line sul testamento biologico promosso dal chirurgo e senatore del Pd Ignazio Marino.
L’appello «per il diritto alla libertà di cura» chiede che sia rispettato l’articolo 32 della Costituzione: «Chiediamo che la legge sul testamento biologico rispetti il diritto di ogni persona a poter scegliere... Dia a chi lo vuole, e solo a chi lo vuole, la possibilità di indicare, quando si è pienamente consapevoli e informati, le terapie alle quali si vuole essere sottoposti, così come quelle che si intendono rifiutare, se un giorno si perderà la coscienza e con essa la possibilità di esprimersi». E ancora, si legge nel testo: «Rifiutiamo che una qualunque terapia o trattamento medico siano imposti dallo Stato contro la volontà espressa del cittadino. Vogliamo una legge che confermi il diritto alla salute ma non il dovere alle terapie».
Tra i primi firmatari della campagna - che ha raggiunto anche Facebook - ci sono l’ex premier Giuliano Amato, Marcello Lippi, Stefano Rodotà, Eugenio Scalfari, il teologo Vito Mancuso, l’oncologo Umberto Veronesi, l’ex presidente della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelski.
Il 5 marzo il disegno di legge (PdL) sul testamento biologico approda nell’aula del Senato. Il neo leader Pd Franceschini ha già detto che i principi che lo ispirano sono inaccettabili, suscitando l’ira della teodem Paola Binetti.

Repubblica 23.2.09
Basta ingerenze della Chiesa
Paolo Ferrero: la linea resta quella di Veltroni
"Una forza di sinistra vera oggi serve ancora di più o moriremo democristiani"
Le ingerenze vaticane sull’etica sono inaccettabili. Ma il Pd fa finta che siano questioni di coscienza
di G.C.


ROMA - «In un modo o nell´altro qui si rischia di morire democristiani...». Paolo Ferrero ironizza sul fatto che «Franceschini è un ex dc» alla guida di un partito fondato anche dagli pci. Perciò, per il segretario di Rifondazione «è più che mai necessaria una forza di sinistra, anche se sarebbe bene che il Pd lavorasse a un´opposizione vera contro il governo e contro la Confindustria che del governo è il principale suggeritore , e quando serve anche contro il Vaticano».
Nulla di nuovo, Ferrero?
«Mi sembra che per la continuità con Veltroni, per le cose che ha detto e per la condizione oggettiva del Pd, a Dario Franceschini non passi nemmeno per l´anticamera del cervello di fare qualcosa di sinistra. È in continuità molto forte con l´9mpronta veltroniana».
Ha fatto un appello all´unità del sindacato, il neo segretario. Non è una cosa di sinistra?
«In un momento in cui il sindacato è spaccato è più un attacco alla Cgil che una cosa di sinistra. Di sinistra oggi è schierarsi con la Cgil in difesa del contratto di lavoro. Sulla contrattazione il governo ha fatto una cosa gravissima, nessun paese al mondo pensa di uscire dalla crisi tagliando i salari reali, perché così si aggrava la crisi economica. Che il Pd neppure su questo riesca a schierarsi la dice lunga sulla sua inutilità dal punto di vista dell´opposizione a Berlusconi».
Neppure la rivendicazione orgogliosa di laicità fatta da Franceschini l´ha convinta?
«Anche Veltroni diceva queste cose, ma poi il Pd lascia libertà di voto. Come se la clamorosa ingerenza vaticana che si è verificata sul testamento di fine-vita, questa cosa pazzesca di dire che l´idratazione e l´alimentazione forzata non sono un accanimento terapeutico per aggirare la Costituzione, sia accettabile. Il Pd fa finta che sia un problema di coscienza e non una delle questioni di civiltà per un paese».
Tuttavia la sinistra procede per scissioni. E alle europee avete da superare la soglia di sbarramento del 4%.
«Il 4%, già. L´ultimo successo veltroniano è stato uccidere la sinistra mentre stava regalando il paese a Berlusconi, che la dice lunga sulla miopia di quel progetto politico».
Forse è la sinistra radicale che non sa bene cosa fare?
«La posizione di Rifondazione è fare una lista di sinistra che sia autonoma dal Pd chiaramente, che abbia come riferimento a Strasburgo il gruppo della Sinistra europea e che parta dal nostro simbolo, che è il più conosciuto, e io spero che ci possano stare anche i compagni che sono usciti, Nichi Vendola e Franco Giordano. È il modo giusto per fare una cosa di sinistra».
Vendola è magari più interessato a un confronto con il Pd e teme le chiusure identitarie?
«Penso che ci vorrebbe un Partito democratico che si metta a fare un´opposizione seria al governo di Berlusconi. Ma per non correre il rischio di morire, ben che vada, democristiani, bisogna costruire una sinistra autonoma dai Democratici, che non sia una corrente esterna del Pd, come pensano invece Vendola e Giordano. Non un cartello in vista delle europee, ma una proposta in quattro punti per uscire dalla crisi: ridistribuzione del reddito; intervento pubblico però non un soldo a banche e imprese; ammortizzatori sociali per chi perde il posto di lavoro; lotta alla speculazione finanziaria».

Corriere della Sera 23.2.09
La legge sul fine vita
I confini della politica
di Angelo Panebianco


La frittata è fatta. Non c'è modo di tornare indietro. Lo scontro sui contenuti della legge che deve, con delicato linguaggio burocratico, «regolamentare il fine vita » dilanierà il Paese per molti anni. Forse era inevitabile. Come poteva un Paese iper politicizzato come il nostro non arrivare, prima o poi, a politicizzare anche la morte? Resta da sapere come verrà, alla fine, regolamentato il fine vita, se con la legge voluta dai neo guelfi o con il referendum contro la legge brandito dai neo ghibellini.
L'aspetto più impressionante della feroce disputa in atto è l'esibizione, da parte dei vari esponenti delle due fazioni, di certezze, oltre che di muscoli. Una volta tolti dal mazzo coloro che sono di tempra troppo debole per essere in grado di coltivare il dubbio, che dire degli altri? Come possono esibire certezze in una materia che per sua natura non le ammette? Pur con le dovute eccezioni, molti, mi sembra, stanno esibendo certezze per ragioni politico- strumentali. Come sempre accade quando una questione viene politicizzata, essa entra nel tritacarne delle logiche di schieramento. La questione del fine vita è ora diventata un'altra posta in gioco nel conflitto fra berlusconiani e antiberlusconiani: un conflitto transitorio, contingente, che tuttavia, nel caso in questione, va a incastrarsi in una divisione antica, quella fra guelfi e ghibellini.
Due madornali errori di valutazione, a me pare, sono stati commessi da chi ha voluto gettare fra i piedi del Paese una questione di tale portata. Il primo è stato di avere sopravvalutato le capacità della democrazia di gestire questo problema. La democrazia può occuparsi di tutto, tranne che dell'essenziale (le questioni della vita e della morte, appunto). Non è attrezzata per fronteggiare un conflitto filosofico radicale fra opposte concezioni della vita.
I fautori della «sacralità della vita», i neo guelfi, sbagliano di grosso a volere imporre per legge a tutti i loro valori (la sacralità della vita è un concetto privo di senso per chi non crede in Dio). Facendo ciò essi attentano a quel pluralismo degli orientamenti di cui solo può vivere una società liberale. Ma sbagliano anche i fautori della «libertà di scelta». Costoro la fanno troppo semplice, banalizzano in maniera inaccettabile il problema. Non è vero che essi si limitano a rivendicare un «diritto» che i credenti sono liberi di non praticare. Perché pretendendo una legge che riconosca quel diritto essi, per ciò stesso, intendono fare prevalere la loro concezione della vita e della morte, imporre il principio secondo cui la decisione sulla morte di un uomo è nell'esclusiva e libera disponibilità di quell'uomo. Un principio che non può non ripugnare ai fautori della diversa e opposta concezione.
Non è un caso che anche nelle società più liberali, dove i diritti di libertà sono più solidi (e più rispettati che da noi), su questi temi possano esplodere conflitti micidiali. Non stiamo parlando di un diritto qualitativamente simile ai più tradizionali diritti di libertà. Proprio perché la democrazia non è fatta per fronteggiare conflitti filosofici di questa portata, sia le prassi ispirate al principio della sacralità della vita sia quelle ispirate al principio opposto della libertà di scelta, dovevano (come si è sempre fatto) rimanere «al di qua» dello spazio pubblico, affidate al silenzio, agli sguardi e alle parole a mezza bocca scambiate fra i medici e gli assistiti o fra i medici e le persone affettivamente vicine agli assistiti. In un precedente intervento («Quel silenzioso terzo partito », Corriere del 9 febbraio) avevo parlato dell'importanza di preservare una zona grigia protetta (così mi ero espresso) da una «necessaria ipocrisia». Qualche amico, pur favorevole alle mie tesi, ha criticato l'uso del termine ipocrisia. Penso invece che fosse appropriato. In queste questioni l'ipocrisia non è, come si suole dire, una manifestazione del vizio che rende omaggio alla virtù. È essa stessa virtù. È la virtù grazie alla quale si possono cercare empiricamente (al riparo dai riflettori) soluzioni atte a ridurre le sofferenze dei malati senza offendere la sensibilità e le credenze delle persone coinvolte. Contemporaneamente, è la virtù che consente di non trasferire nella pubblica piazza ciò che non è assolutamente idoneo ad essere esposto in piazza.
Il secondo micidiale errore è stato quello di credere che solo la «legge» possa salvarci dall'arbitrio, dei medici o di chiunque altro. È un effetto di quell'ideologia italiana che assume che tutti i problemi debbano avere una soluzione «giuridica». È il riflesso di un Paese schizofrenico che, da un lato, ha della legge una visione cinica («la legge si applica ai nemici e si interpreta per gli amici», recita il detto) e, dall'altro, non sa evitare di farne un feticcio. Ma in un ambito come quello qui considerato la legge non riduce l'area dell'arbitrio. Anche ammesso, e non concesso, che possa eliminare le forme di abuso fin qui forse praticate, essa ne genera comunque altre. La legge è uno strumento troppo grossolano, troppo rozzo: pretendendo di imporre uguale trattamento in casi diversissimi, essa crea, più o meno involontariamente, le condizioni per nuovi arbitrii.
Senza contare che la legge, di sicuro, è il luogo più inadatto, più inospitale, per depositarvi visioni ultime della vita. Checché ne pensino i feticisti della legge, ci sono molte più cose in cielo e in terra di quante non ne possano contenere i loro codici e i loro commi. Qui siamo dunque, purtroppo. E non ne usciamo. Due ragioni, o due torti, si fronteggiano. Il problema verrà affrontato a colpi di maggioranza (e nessuno, per favore, se ne lamenti: è la democrazia, bellezza). Vorrà dire che faremo l'alternanza, a seconda di chi vince e di chi perde le elezioni, anche delle concezioni della vita e della morte. Davvero un bel risultato.

Corriere della Sera 23.2.09
Caso Englaro «Seguo le mie idee, non sono una marionetta»
Beppino conteso dalle tv Un invito anche da Vespa
di Grazia Maria Mottola


MILANO — Sotto pressione. Per i recenti interventi su stampa e tv. Ma anche per le critiche, a causa di una promessa di silenzio mai mantenuta.
Eppure nulla lo smuove. Papà Beppino resiste e tira dritto. «Se andrò ancora in tv? Seguo le mie idee come sempre, non sono una marionetta nelle mani di qualcuno». Chiaro e determinato. Ieri, nel cercare la strada della legalità «per fare le volontà di Eluana»; oggi, nel portare avanti la sua battaglia civile. «Forse ci si sarebbe aspettato che uscissi di scena, come ho detto in passato, ma ho fatto una scelta: continuare a battermi come cittadino, mettendo la mia esperienza al servizio della collettività.».
La storia di Eluana. L'ha ripetuta per anni, come «un cagnolino che abbaiava alla luna» cercando disperatamente chi potesse ascoltarla; oggi, invece, ha le porte aperte quasi ovunque. Sabato scorso era ospite da Fabio Fazio; nel pomeriggio, con il cellulare, interveniva alla manifestazione romana sul testamento biologico; oggi sarà in diretta telefonica con «Cominciamo bene» alle 10 (su Rai tre), solo dopo essersi collegato per un breve colloquio con Radio24. Ancora non lo sa, ma Bruno Vespa pensa di invitarlo: «Lo abbiamo sempre seguito — spiega —, dal 2000 in poi è venuto da noi per nove volte. I nostri dissensi in trasmissione erano su un unico punto: per me la volontà di Eluana non era documentabile. Comunque se si impegnerà nel dibattito sul testamento biologico, gli chiederò di essere mio ospite». Non si meraviglierebbe di vederlo ancora sul piccolo schermo o sentirne la parlata veloce dall'accento friulano neppure Antonio Polito, direttore del «Riformista»: «Quella di Englaro è sempre stata una battaglia civile, anche se lo faceva per la figlia. Per questo non mi stupisco che continui a lottare. Su un punto non sono d'accordo: la via del referendum sul testamento biologico è rischiosa, gli italiani non amano pronunciarsi su materie così tecniche ». Tra i suoi «ammiratori» c'è anche Massimo Bordin, direttore di Radio Radicale: «Di lui mi ha colpito il richiamo a Loris Fortuna, alla tradizione socialista e laica. Lui si rivela un socialista, e il fatto che prometta di non candidarsi è importante, mette a tacere chi tenta di screditarlo. Lo vedo come un personaggio positivo di un libro di Sciascia, anche se è friulano».
Critiche o lodi, Beppino va avanti. Come ha sempre fatto. «Seguirò il mio istinto, voglio essere libero». Ma una cosa gli è chiara: quella bozza di legge sul fine vita proprio non gli piace: «Ho già detto che è una barbarie, oggi dico che è una follia: non vorrei che nessuno vivesse l'inferno di Eluana, essere costretto a vivere come lei, contro la sua volontà». Perché se la normativa venisse approvata, per lui sarebbe un paradosso: «Dopo quello che ho passato, potrei trovarmi io stesso a essere idratato e nutrito senza il mio consenso». Dunque la battaglia continua: «Valuterò gli inviti e deciderò volta per volta — sottolinea —, ho bisogno di riflettere su quello che faccio, non voglio rischiare di restare prigioniero di un ingranaggio». Nel suo futuro la fondazione che porta il nome di Eluana: «Ci stanno lavorando i legali, ma non è semplice. Così andrà avanti il mio impegno civile».
Da cittadino, ripete, mai da politico. In ogni caso senza trascurare chi, negli anni, ha dato voce alle sue ragioni: «Non posso dimenticare che se sono giunto a questo punto lo devo anche alla comunicazione: ecco, voglio continuare così, dialogando come ho sempre fatto».

l’Unità 23.2.09
Ronde senza controllo. A Nord trionfa il «fai da te»
di Giuseppe Caruso


Dal Veneto alla Liguria, passando per Milano e la Lombardia. Nel nord Italia ormai da alcuni anni operano le così dette ronde. In alcuni casi in contatto diretto con le amministrazioni locali.

In principio furono i “City Angels”, il gruppo di volontari milanesi che nel 1994, giubba rossa e basco blu, ha dato vita ad un qualcosa di simile ad una ronda. Anche se il loro fondatore, Mario Furlan, preferisce parlare di «volontari di strada», che da quindici anni offrono un contributo di “dissuasione visiva” nei confronti dei malintenzionati e soprattutto di solidarietà per gli emarginati.
I “City Angels” sono stati i primi, iniziando ad operare nella zona della Stazione Centrale, e sono anche il modello a cui si è ispirato il governo nel decreto che è stato approvato venerdì scorso. In questo modo l’esecutivo ha voluto mettere il cappello su fenomeno già molto diffuso nel nord Italia e che in qualche caso ha assunto connotati bipartisan, con la partecipazione di cittadini di differente estrazione politica. Perché la tribù delle ronde nordiste è molto diversificata al suo interno.
ATEI E APOLITICI
L’esperienza dei «City angels» è di sicuro la migliore, ma non la più seguita. Se infatti il fondatore Furlan tiene sempre a precisare che il suo gruppo (con sedi a Torino, Bologna, Roma e Napoli) è «ateo ed apolitico» e che ha bisogno «di cuore, non di muscoli», in alcuni casi limite si può tranquillamente parlare di squadracce più che di volontari.
È il caso di Torino, dove una settimana fa sono stati denunciati a piede libero cinque ventenni. Facevano parte di una ronda (in tutto una ventina di persone) che negli ultimi mesi aveva compiuto decine di aggressioni contro tossicodipendenti al Parco della Stura, ribattezzato in città “Tossic park”.
Si tratta di ragazzi della zona, che avevano deciso di risolvere a modo loro il problema. Attaccavano con spranghe e catene, una delle loro ultime vittime ha riportato una prognosi di 60 giorni: clavicola spezzata a colpi di spranga e un forte trauma cranico. Quando i poliziotti li hanno arrestati, i ragazzi sembravano quasi stupiti: «Abbiamo solo difeso le nostre famiglie e le nostre fidanzate». I genitori erano solidali.
Ma a Torino dal 1998 opera anche il Coordinamento Comitati Spontanei Torinesi, che controlla 7 zone a rischio della città. E che non ha troppo amato il provvedimento varato dal governo. Quelli del Comitato ricordano di «non voler diventare un surrogato della polizia» e che «il cittadino non vuole essere costretto a scendere in strada in sostituzione dello Stato». Il presidente del Coordinamento, Carlo Verra, spiega che le loro armi «sono solo i fischietti», consegnati ai duecento cittadini che hanno deciso di far parte dei comitati. Ci sono anche alcuni militanti di sinistra.
LIGURIA
Il comitato «Genova sicura», diretta emanazione della Lega nord, è uno dei più noti in Liguria. Operano soprattutto nel centro storico, il più degradato della città, a partire dal tardo pomeriggio. Lo fanno su richiesta dei commercianti, che si sentono così più sicuri a chiudere i negozi quando la luce è andata via. Altre ronde sono nate nel quartiere di Sampierdarena per contrastare i «ladri acrobati», vale a dire quei topi di appartamento che salendo lungo i tubi del gas o le grondaie svaligiano gli appartamenti sino ad un’intera scala alla volta. Appartamento dopo appartamento, passando da terrazzo a terrazzo.
LEGA E NON SOLO
In Veneto le ronde fanno soprattutto rima con Lega nord, ma si stanno diffondendo trasversalmente. Il partito di Bossi ha creato da pochi giorni un coordinamento tra tutti i gruppi che operano nel Veneto orientale, con l’obiettivo di coordinare tra poco le ronde di tutta la regione. Nella sola provincia di Treviso il gruppo “Veneto sicuro” conta 500-600 volontari di area leghista.
Il fenomeno è talmente diffuso che addirittura a Padova alcuni gruppi di volontari sono composti cittadini stranieri.
Il comune della città veneta, guidato dal sindaco progressista Flavio Zanonato, paga alcune associazioni per scortare gli anziani a ritirare la pensione e riaccompagnarli a casa.
Tornando in Lombardia, a Caravaggio (cittadina in provincia di Bergamo) da un anno operano ronde di ex carabinieri, a stretto contatto con l’amministrazione locale leghista. Pattugliano il Santuario e la stazione, per prevenire scippi e rapine. La gente di Caravaggio (non proprio il Bronx) dice di sentirsi più sicura, ma forse è soltanto una sensazione. Come quella dell’insicurezza.

l’Unità 23.2.09
«Così lo Stato delegittima le forze dell’ordine»
Il segretario dell’Unione camere penali: «La norma che introduce l’obbligo della custodia cautelare per gli stupratori è anticostituzionale»
Intervista a Lodovica Giorgi di Claudia Fusani


Non può passare il principio per cui un governo decide per decreto chi mandare in galera, per il solo fatto di essere indagati di un tipo di reato. È un precedente gravissimo».
Lodovica Giorgi è avvocato e segretario dell’Unione delle camere penali italiane.
E proprio dai penalisti arriva una bocciatura netta del decreto che venerdì il consiglio dei ministri ha approvato all’unanimità in nome dell’allarme stupri e sicurezza.
Cosa la allarma di più in questo decreto?
«Tutto e prima fra tutto la nascita delle ronde, legalizzate e per decreto. Da non credere».
Sono associazioni di cittadini che rispondono a precisi criteri di selezione e avranno anche la supervisione del prefetto e del sindaco.
«È il principio che non va bene. L’introduzione delle ronde significa due cose. La prima: lo Stato abdica a una sua prerogativa fondamentale come la tutela dei cittadini e della sicurezza.
La seconda: delegittima l’operato delle forze dell’ordine che negli ultimi due anni hanno operato molto bene, e i dati del Ministero dell’Interno sono qui a dircelo».
In effetti le violenze sessuali sono diminuite del 10 per cento. Un dato positivo che Berlusconi ha subito rivendicato. Allora, perché?
«Perché dalla primavera scorsa il governo cavalca la voglia di ordine e autorità che c’è nei cittadini per soddisfare gli istinti più primitivi dell’elettorato. Ecco che introduce per decreto le ronde.
Ma così facendo agevola solo l’intolleranza. Abbiamo visto cosa è successo negli ultimi giorni, le vendette, i raid punitivi. La politica non può permettere questo».
E invece lo fa per decreto.
«Sbagliato il merito. Sbagliato il metodo. Un decreto è legittimo se esistono i presupposti di necessità e urgenza. Quando poi le modifiche legislative vanno ad incidere sui principi di fondo dello stato di diritto, è indispensabile il più ampio dibattito parlamentare».
Il decreto introduce anche l’obbligo della custodia cautelare per chi è accusato di stupri, violenze e abusi.
«Questo è anticostituzionale. La Carta stabilisce che la libertà delle persone può essere limitata per atto del giudice. Invece qui si va in carcere per decreto e perché indagati per un certo tipo di reato. Ma lo sanno che la maggior parte dei conflitti coniugali porta a denunce per violenza sessuale? Cosa facciamo allora: ex mariti e fidanzati tutti in galera? C’è molta confusione e si confonde la certezza delle pena con la certezza della custodia cautelare. Sono due cose diverse».
Per decreto nasce anche il reato di stalking. Su questo le Camere penali sono d’accordo?
«Ben venga il reato, in effetti c’era un vuoto normativo per le molestie persecutorie. Ma anche qui ci sono forzature e fratture col sistema. Si prevede, ad esempio, l’incidente probatorio per le vittime di stalking. Ma questo è istituto eccezionale e qui le ragioni di eccezionalità mancano completamente. Ma soprattutto, la norma era già stata approvata alla Camera, perché hanno dovuto fare un decreto?»
Esercizio del potere?
«La chiamerei autopromozione».
Cosa serve alla sicurezza?
«Più uomini in divisa e più risorse. Il decreto prevede 1.500 agenti in più. Ma nei prossimi tre anni anni ne usciranno dodicimila».

Repubblica 23.2.09
La corsa a creare le ronde di partito
di Renzo Guolo


E COSÌ, a forza di indifferenza verso le trasformazioni indotte nella "costituzione materiale" del tempo, eccoci piombati in piena era di vigilantismo.
L´istituzionalizzazione delle cosiddette "ronde" - mai come questa volta il nome indica la sostanza delle cose, al di là del tentativo della destra di matrice aennina e dello stesso Berlusconi di riconvertirlo nel più burocratese e fintamente rassicurante "sicurezza partecipata" - segna una svolta pericolosa.
Perché, nonostante i correttivi introdotti nel decreto, mina lo storico primato dello Stato in materia di sicurezza, "privatizzandolo" a favore di gruppi che possono diventare una sorta di milizia personale o di partito: come dimostra la corsa in queste ore, in un Nordest sempre più Far East, dei partiti a mettere le mani sulle ronde. Altro che ex-poliziotti o ex-alpini, come ammette senza falsi pudori un Carroccio che si fida solo dei "suoi". Si tratta di pure milizie di partito: "verdi", azzurre, nere. A ciascuno la sua. Un mix di collateralismo di partito utile alla mobilità sociale e di protagonismo locale a varie tinte. Con il rischio che nella nuova società della sorveglianza itinerante, le "telecamere umane" mettano nel loro occhiuto campo visivo non solo i rischi per la sicurezza, politicamente selezionati, ma anche i comportamenti non ritenuti ortodossi. E, perché no?, anche persone a qualsiasi titolo, sessuale, religioso, politico, sgradite ai vigilantes in pettorina.
Una deriva gravida di rischi. Perché produce conseguenze destinate a mettere in discussione proprio quella sicurezza che si vorrebbe tutelare, dal momento che non sempre sarà possibile controllare l´operato dei "volontari", fortunatamente non armati, così come la reazione dei potenziali sorvegliati. Perché tende a fare dell´ordine pubblico mobilitato il terreno prevalente della politica. Mescolando, in una preoccupante confusione di ruoli, istituzioni, organi di governo, milizie private. Con il concreto rischio che si snaturino gli stessi caratteri dello Stato democratico.
Al di là della prevedibile inefficacia delle ronde in quanto produttrici di sicurezza, il vero pericolo è dato dal diffondersi come senso comune della falsa idea del "popolo che si fa Stato" senza mediazioni istituzionali; di una subcultura politica che vive la Costituzione, la magistratura, lo stesso operato delle forze dell´ordine, come orpelli ingessanti, se non come ostacoli da superare. Una novità, quella del vigilantismo, che accanto alla progressiva trasformazione delle polizie municipali in organo di ordine pubblico generale politicamente orientato e in concorrenza con i corpi di polizia nazionale, rischia di alimentare non solo conflitti istituzionali ma anche drammatiche torsioni dei diritti: come ricorda il caso di Parma.
Un percorso che, se sottovalutato perché confuso, come fanno gli eterni sottovalutatori di turno, con il folclore, rischia di accentuare la corsa verso una sorta di "democrazia totalitaria" che ha come fine l´adesione del cittadino a una supposta "volontà generale". Una concezione di "Stato della paura" che mette paura. Non è un caso che il presidente della Repubblica, pur obbligato a dare via libera al provvedimento, ne abbia immediatamente preso le distanze, precisando come i contenuti del decreto siano di "esclusiva responsabilità del governo". Timori che aleggiano in ampi strati della società italiana, consapevoli che, nelle intenzioni dei suoi promotori, il vigilantismo è destinato a mettere sotto controllo le nuove "classi pericolose", immigrati in primo luogo. Timori, nonostante la presa di distanza del Vaticano, diffusi anche in parte rilevante dello stesso mondo cattolico che si riconosce in quanti, pure Oltretevere, hanno definito il rondismo come un´"abdicazione dello Stato di diritto".
Una deriva che le forze più responsabili del Paese, quelle che storicamente lo hanno salvato nei suoi momenti più difficili pur essendo spesso espressioni di "minoranze attive", devono non solo respingere decisamente ma contrastare culturalmente. Mostrandone, senza i complessi dovuti dall´aver colpevolmente sottovalutato in passato il tema sicurezza, i possibili rischi. Magari cercando di far comprendere alla società italiana che il fondamentale diritto all´incolumità e alla protezione fisica delle persone dovrebbe essere accompagnato a quello alla protezione sociale degli individui. Spezzando, così, la spirale che caratterizza questa incerta fase della globalizzazione e riduce a vicende secondarie una crisi economica che si annuncia durissima, lo sgretolamento del welfare, il drammatico collasso del capitale sociale, a partire dalla formazione e dall´istruzione, il degrado di quel bene indisponibile che è l´ambiente. Su questi versanti la destra populista non ha nulla da dire: il cittadino viene mobilitato solo per sorreggerne il progetto carismatico e securitario. Per il resto, che si arrangi: un salto all´indietro di due secoli.

l’Unità 23.2.09
Rihanna e le altre
Quando l’«amore» ti cancella
di Maria Serena Palieri


Un viso umano, quando è tumefatto e sanguinante, perde i suoi tratti: diventa uguale a qualunque altro viso umano tumefatto e sanguinante. È così anche per quello di Rihanna, apparso in Rete nei giorni scorsi, a riprova del pestaggio inflittole dal compagno Chris Brown. Rihanna, cantante barbadiana, è ventunenne da soli tre giorni ma, come informa Wikipedia, è già titolare di molti record: prima voce delle Barbados ad aver vinto un Grammy Award, una delle tre artiste al mondo ad avere avuto otto hit da uno stesso album, e così via. Nelle immagini di scena mostra un volto decisamente grazioso, di quelli che nei romanzi per signorine, quando regnavano le gerarchie generazionali, sarebbe stato definito un «visetto impertinente». Ma, appunto, pugni e schiaffi cancellano l’impertinenza: rendono una faccia di donna uguale a tutte le altre facce di donna sottoposte allo stesso pestaggio, facce belle, brutte, mansuete, spavalde.
È stata ridotta così, Rihanna, dall’ex-fidanzato - la voce maschile con cui duettava in Cinderella under my umbrella - l’8 febbraio, il giorno in cui insieme avrebbero dovuto esibirsi davanti alla platea del Grammy Awards. Invece quella sera lei è finita al pronto soccorso e lui sotto indagine per violenza. Una mano ignota (si ipotizza sia stata la stessa polizia losangelina, al fine di incriminare più rapidamente Brown) ha scattato la fotografia e l’ha inviata al sito web Tmz, specializzato in gossip sui personaggi dello spettacolo. Ora, sembra che in Rete fossero già circolate in precedenza altre immagini della cantante con un occhio nero. Questo, se è vero, farebbe pensare che Robyn Rihanna Fenty, è il nome completo con cui è stata iscritta all’anagrafe di St.Michael il 20 febbraio 1988, fosse abituata a prenderle da Cristopher Maurice Brown, nato a Tappahannock, Virginia, il 5 maggio 1989. Che, quindi, sotto l’identità da pop-star, agisse in lei lo stesso meccanismo psicologico che si mette in moto in tutte le donne - celebri o anonime, abituate a stare sui rotocalchi o effigiate solo alle nozze e sulla carta d’identità - che finiscono al pronto soccorso, o direttamente all’obitorio, per mano dei propri «innamorati». Il meccanismo è questo: lei accetta di essere considerata una «proprietà» da lui, di essere maltrattata e deprezzata, comincia a prenderle ma non denuncia, lui va oltre... È come se la coppia, di fronte a ciò che non è sopportabile: che un uomo si imponga su una donna in virtù della propria maggiore forza fisica, anziché scoppiare si cementasse. Perversamente.
Certo, è un paradosso maggiore che questo avvenga dove ci sono soldi. Soldi per pagarsi avvocati, una casa nuova quando ci si separa, per andare in analisi e capire di più di se stessi: quello che moltissime donne (e moltissimi uomini) non hanno. È un paradosso in apparenza maggiore che avvenga lì dove sembra regnino autoassertività e trionfale sicurezza di sé: nel mondo dello spettacolo.
Ma Rihanna non è il primo volto bello e famoso a diventare per qualche ora emblema di quello che altrove succede tutti i giorni, lontano dai riflettori. La mattina del 12 ottobre 1978 Nancy Spungen, ventenne bionda dal fascino da bambola dark, giaceva con un coltello nell’addome sul pavimento del bagno della stanza numero 100 del Chelsea Hotel, a Manhattan. A trovarla fu il suo fidanzato ventunenne John Simon Ritchie, in arte Sid Vicious, bassista dei Sex Pistols. Emergeva, raccontò, da un trip di droghe (erano eroinomani tutti e due). In realtà, là su quel pavimento, morta, ce l’aveva spedita lui. John Simon Ritchie, qualche mese dopo, fece quello che - stando alle statistiche - fanno poi molti di questi «amorosi assassini»: tentò il suicidio. Fu salvato una prima volta, ci riuscì la seconda, con un’overdose di eroina, il primo febbraio 1979. A dare alla vicenda un tocco ulteriore di perversione fu l’ipotesi circolata allora: che a fornirgli la dose per il viaggio fatale fosse stata sua madre.
La sera del 13 giugno 1994 Nicole Brown venne ritrovata quasi decapitata nel giardino del condominio in cui risiedeva, al numero 875 di South Bundy Drive, a Brentwood. Accanto a lei, coi segni di 17 coltellate, c’era il corpo di Ronald Goldman. Nicole era una tipica bellezza americana - bionda, pelle di pesca, sorriso scintillante - ed era la ex-moglie di O.J.Simpson, l’afroamericano stella del football. A differenza delle altre candidate a una «amorevole» morte violenta lei, dopo la separazione, il marito l’aveva denunciato, per maltrattamenti.
Ma nel suo caso questo stop - che spesso salva la vita - non aveva funzionato. Dopo la spettacolare fuga in macchina di O.J.Simpson, il processo tra il ‘94 e il ‘95 sarebbe diventato una tipica «cause célèbre»: razzista la polizia, bianca? Simpson sarebbe finito in carcere solo nel 2008, condannato a 15 anni, ma per un altro reato, rapina a mano armata.
Il primo agosto 2003 a Vilnius, in Lituania, muore per edema cerebrale una donna quarantunenne con un cognome importante, Marie Trintignant. Del padre, Jean-Louis, ha gli occhi enormi timidi e inquieti. Sembra che nell’infanzia, a seguito della morte di una sorella, fosse divenuta muta. Però era diventata attrice, all’inizio in due pellicole dirette da sua madre Nadine Marquand. Appunto, a Vilnius girava un film. Aveva anche uno stile di vita da jet set: quattro figli con quattro uomini diversi. A ucciderla è il suo ultimo compagno, Bertrand Cantat, voce dei Noir Désir, gruppo rock francese. Come nel caso di Sid Vicious, è un omicidio «dopato»: Cantat l’ha picchiata e uccisa sbronzo e impasticcato.
Un ossimoro. Noir Désir, nero desiderio, quasi un ossimoro. Ed è un ossimoro quello che si cementa in queste unioni: in questi amorosi assassinii. Lontano dai riflettori succede tutti i giorni. Per venire a noi, nel nostro Paese un po’ di più che in altri paesi del Nord-Ovest del mondo. In Italia ogni tre giorni una donna viene uccisa dal marito o dal fidanzato.
Oppure da un ex che non manda giù di essere diventato tale. A volte da un uomo che la coppia se l’è inventata: che, quella donna, l’ha scelta e «sposata» in un suo interiore mondo fantasmatico. Diciamo che in senso percentuale, dopo la morte per cause naturali o per incidente su strada, in Italia per gli uomini viene la morte bianca sul lavoro, per le donne questa sanguinaria «affettiva» fine. Solo che non si nota: c’è chi, delle morti nei cantieri e in fabbrica, tiene i conteggi, nessuno fa altrettanto per la mattanza femminile.
Il volto irriconoscibile di Rihanna ci dice questo: è un drammatico spot online di quanto succede oltre il web, giù, nel buio.

Corriere della Sera 23.2.09
Otto anni fa L'ordinanza del giudice. La famiglia della vittima: «Non deve uscire»
Accoltellò la fidanzatina a scuola «Cure inutili, Roberto è pericoloso»
di Paolo Di Stefano


Il delitto
Il 12 febbraio 2001 Monica, 16 anni, è uccisa dal suo ex fidanzato, un anno più grande di lei. L'aggressione avviene, durante la ricreazione, nel cortile di un istituto magistrale di Sesto San Giovanni
Una coltellata alla gola
I due giovani si erano lasciati da poco. Il racconto delle compagne: «Roberto s'è avvicinato al nostro gruppo, ha afferrato Monica alle spalle, le ha fatto perdere l'equilibrio tirandola per i capelli e le ha sferrato un colpo alla gola con un coltellino svizzero»
L'arresto
Roberto è stato arrestato e portato al carcere minorile.
Riconosciuto affetto da un grave disturbo della personalità, definito narcisistico-schizoide, è stato assolto dall'accusa di omicidio volontario e destinato a seguire un percorso di recupero in comunità

CINISELLO BALSAMO (Milano) — Sono passati otto anni dalla mattina in cui Roberto Giaquinto con un coltellino, durante la ricreazione, uccise l'ex fidanzata Monica, 16 anni, sua compagna di classe nella III CP dell'Istituto Erasmo da Rotterdam di Sesto San Giovanni. Era il 12 febbraio 2001, ma per i genitori di Monica è tutto fermo a quel giorno. Non trovano una spiegazione e forse non la troveranno. L'ultima fotografia di Monica è ancora lì sottovetro, appesa su una parete della sala: una bella ragazza, alta elegante e sorridente, che si preparava a festeggiare il capodanno con mamma Carmen, papà Carmelo e le due sorelline, Letizia e Giada. Sono passati otto anni; nel nome di Monica sono nate delle borse di studio da assegnare a ragazzi della sua età, con le donazioni spontanee sono state acquistate delle ambulanze, Carmen ha fatto di tutto per tenere viva la memoria di sua figlia però non riesce a darsi pace.
Tanto meno da quando un'ordinanza del magistrato di Sorveglianza di Torino, datata 21 novembre 2008, ha fatto chiarezza sul percorso dell'assassino di Monica. Riscontrato nel giovane un grave disturbo della personalità definito narcisistico- schizoide, dopo il processo dell'ottobre 2001 Roberto viene assolto dal delitto di omicidio. Una comunità di recupero è incaricata di ospitarlo: con il proposito di sottoporlo a un trattamento farmacologico e psicoterapeutico che si prevede «inevitabilmente lungo e complesso». E con l'avvertenza che venga preservato da «rapporti non controllati con tutti gli esterni alla comunità e, assolutamente, con soggetti femminili eventualmente ospiti della struttura». La misura di sicurezza viene confermata più volte, consentendo a Roberto di dedicarsi ad attività esterne lavorative e di studio. Nel 2006 però la comunità segnala una seria difficoltà del giovane «ad osservare le regole interne» e ne chiede il trasferimento: Roberto è «lontano dalla percezione del reato commesso, dalla coscienza di infermità, e dalla conseguente necessità di attenersi a limiti esterni». Insomma, come sottolinea il giudice nella sua ordinanza, Roberto resta «soggetto socialmente pericoloso », ancor di più nei confronti delle giovani donne, con le quali alterna comportamenti protettivi e raptus violenti. Roberto, diventato maggiorenne, nel frattempo avrebbe anche maturato «un senso di onnipotenza e di superiorità» tale da renderlo «incompatibile con qualsivoglia struttura comunitaria». Le cose precipitano l'8 febbraio 2008, quando il ragazzo viene sorpreso nel reparto femminile «in una situazione di intimità con un'altra paziente particolarmente problematica ». La quale, di conseguenza, sarà costretta a essere ricoverata in un reparto psichiatrico. La richiesta di trasferimento fallisce. Ben otto strutture si rifiutano di dare ospitalità a Roberto. In realtà a fallire è il proposito di recupero in comunità. Dunque, date queste complicazioni, con l'ordinanza del 21 novembre scorso, il magistrato assegna Giaquinto a una casa di cura per la durata di tre anni. Mamma Carmen e papà Carmelo insistono: «Non c'è rispetto per le vittime. Quel ragazzo non ha pagato per ciò che ha fatto, non ha fatto un solo giorno di carcere: non ha rotto un oggetto, ha ammazzato nostra figlia. E per di più non si è ravveduto, non ha capito la gravità del suo gesto e continua a minacciare altre ragazze. Se non gli sono bastati otto anni, quando uscirà dalla casa di cura sarà ancora più pericoloso di prima». Eppure Roberto era in apparenza un ragazzo tranquillo, unico maschio in una classe con una ventina di compagne. Intorno a Carmen, sedute nel salotto di questo appartamento al quinto piano dove Monica ha vissuto la sua breve vita, ci sono le amiche di un tempo: Laura, Oriana, Veronica, Valentina, e c'è anche Roberto, omonimo del suo fidanzato, che, dice Laura, «la lasciava e la riprendeva come e quando voleva». Valentina ricorda che fino agli ultimi giorni Roberto diceva che amava Monica ma che non potevano più stare insieme: «Sembrava che la percepisse come un pericolo».
Al giudice, durante il processo, disse a occhi bassi di averla uccisa «perché doveva essere mia». Un caos di sentimenti: «I professori di un istituto psico-pedagogico — incalza mamma Carmen — avrebbero dovuto capire che era un ragazzo problematico». E ricorda che nel novembre '99 Roberto scrisse un tema in cui confessava di avere due personalità, una buona e una cattiva: e quando verrà fuori quella cattiva saranno guai... Altro che guai, una tragedia. Veronica ha ancora davanti agli occhi il suo «sguardo assente » di certi momenti: «In genere era un tipo tranquillo, ma a volte — dice — si lasciava prendere dal nervoso, come quando ha spaccato la cattedra rovesciandola per terra». Purtroppo sono tutti flash del senno di poi, come la passione «sfegatata » per il rock satanico di Marilyn Manson o la dolcezza alternata alle minacce rivolte agli altri e a se stesso: «Non posso essere felice, non devo» era una delle sue frasi ricorrenti, ricorda Oriana. Tempo fa, Veronica ha incontrato il fratello di Roberto: «Quando esce, metteremo su insieme una libreria, mi ha detto».

Corriere della Sera 23.2.09
La civiltà dell'Europa: destino comune con l'Islam
Nel Mediterraneo un intreccio inestricabile di conflitti e scambi
di Luciano Canfora


Oggi a Roma viene presentato il nuovo volume della Salerno: un capitolo è dedicato alla schiavitù, fenomeno spesso trascurato dagli storici

Viene presentato oggi a Roma (ore 11), presso il circolo del ministero degli Esteri (lungotevere dell'Acqua Acetosa 42), il decimo volume della «Storia d'Europa e del Mediterraneo» edita da Salerno. Si confronteranno sui contenuti di questo volume, intitolato «Ambiente, popolazione, società» (pp. 832, e
140), Giulio Andreotti, Alessandro Barbero, Luciano Canfora, Lamberto Dini e Vincenzo Scotti. Coordina l'incontro il direttore del «Corriere» Paolo Mieli. Il tomo è compreso nella terza parte, curata da Roberto Bizzocchi, della «Storia d'Europa e del Mediterraneo», dal titolo «L'età moderna (secoli XVI-XVIII)».
Nell'immagine in alto una «mappa» dell'Europa nel 1914 (Corbis)

«Gli storici vagavano nel giardino dell'Eden senza uno straccio di filosofia per coprirsi, nudi e senza vergogna dinanzi al dio della storia ». È il cuore concettuale del primo capitolo di What is History? di Edward Hallett Carr (1961). Dopo di allora — prosegue Carr — «abbiamo conosciuto il Peccato», ed oggi gli storici non possono eludere la domanda capitale e preliminare: cos'è un fatto storico? Alla fine del secolo XIX Charles Seignobos, maestro di ricerca storica positiva alla Sorbonne, ammoniva: «Ben pochi pensieri e atti degli uomini lasciano tracce visibili, basta un accidente per cancellarle. Ogni pensiero o atto di cui s'è persa la traccia è perduto per la storia, è come se non fosse mai esistito. Mancandoci i documenti, la storia di amplissimi periodi del passato risulta inconoscibile per sempre. Non vi è nulla che possa surrogare i documenti: niente documenti, niente storia» ( Introduction aux études historiques, 1898). Seignobos non faceva sconti nemmeno alla Historik
di Droysen, che definiva «pesante, pedantesca e confusa».
Eppure, proprio l'espansione del «territorio dello storico» (espressione cara alle Annales) è stata, grazie all'ampliamento del concetto stesso di fonte e di testimonianza, la conquista della «nuova storia». In tale ampliamento rientrano fenomeni capitali: l'assunzione al rango di «fatti storici» anche di fatti a lungo non considerati tali, nonché, e forse in primo luogo, il tentativo di dare voce ai senza voce della storia. Nessuno oggi scriverebbe più la storia dell'impero inglese alla maniera della Cambridge History of the British Empire
(1929-1963), o almeno ci sentiamo tenuti ad integrarla, per esempio, con la Storia della dominazione europea in Asia
del diplomatico indiano K.M. Panikkar (1956).
La «storia d'Europa» è, da questo punto di vista, un genere letterario particolarmente esposto a tale crescita di consapevolezza, nonché più in generale alle sollecitazioni forti provenienti dalla vicenda politica vivente. Le storie «universali» scritte tra Otto e Novecento (per esempio quella fortunatissima diretta da Pflugk-Harttung) erano di fatto delle storie d'Europa e della conquista europea del mondo: un po' come la storia universale secondo Polibio era, in sostanza, la storia della conquista romana del Mediterraneo. Un capovolgimento di tale prospettiva si può riscontrare in due opere molto diverse tra loro: A Study of History
di Arnold Toynbee e i volumi iniziali della Storia universale dell'Accademia delle Scienze dell'Urss (opera collettiva, che nella seconda parte è soltanto apologetica e quindi si riduce a documento d'epoca e cessa di essere opera di storia). Storie d'Europa (non più del mondo visto e conquistato dall'Europa) si cominciarono a scrivere quando l'Europa aveva ormai perso, con il 1918, la sua posizione centrale ed egemonica; e sempre più quando, dopo il secondo conflitto mondiale, si dissolse quanto restava degli imperi coloniali. Si potrebbe anche dire che la storiografia si è volta a considerare con tenerezza l'Europa e la sua storia — che è in verità una storia di ferocia e di sopraffazione — quando ormai il dominio europeo sul mondo era sfumato e l'umanità intera era stata portata al disastro ben due volte dalle guerre scatenate dalle potenze europee. Insomma come l'«europeismo» nobile post-1945 ci appare come una forma di «contrizione» da parte di un continente che ha nociuto agli altri e a se stesso più di ogni altra potenza al mondo, così lo scrivere storie d'Europa è diventato il corrispettivo «colto» in sede storiografica, di quel definitivo declassamento nonché della consapevolezza di aver perso quella centralità rivelatasi tanto nociva.
Ben venga la contrizione, comprese le foto ricordo di Kohl e Mitterrand che si danno la mano tra le croci dei cimiteri militari. Meno facile è la creazione di una storiografia sull'Europa che non scada nell'autocontemplazione e, soprattutto, che dia conto dell'intreccio coi mondi circostanti con cui l'Europa si è mescolata e scontrata per millenni:
in primis l'intero mondo mediterraneo, ma anche, e non meno, il mondo compreso tra l'Asia Minore e la Mesopotamia. Se la Grecia antica è la «culla», come una consolidata retorica asserisce e ripete, non è male ricordare che tutto parte (filosofia, poesia, arte figurativa) dalla grecità d'Asia: e da molto prima che un fratello del poeta Alceo (nato e vissuto nell'isola di Lesbo) facesse il mercenario dalle parti di Gerusalemme agli ordini di comandanti persiani. Per non parlare della mescolanza greco-iranica voluta da Alessandro, o del fatto ben noto che il faro della cultura antica, cioè la biblioteca di Alessandria, era in terra d'Africa (quantunque i Greci distinguessero tra Egitto e Libia, e adoperassero piuttosto quest'ultima espressione per indicare l'Africa settentrionale).
La Storia d'Europa e del Mediterraneo
che la Salerno Editrice ha intrapreso a pubblicare or sono tre anni, e di cui è appena apparso il decimo volume
(Ambiente, popolazione, società nei secoli XVI-XVIII), pur essendo una «storia d'Europa», infrange sin dal titolo, e poi nell'impianto, la visione eurocentrica: al punto che, nel primo tomo, il racconto parte proprio dall'area mesopotamica e lungamente ne discorre. A giusto titolo i redattori hanno ritenuto, anche nel seguito, inopportuno tenersi all'idea, angusta e difficilmente formalizzabile, di Europa. E hanno avuto chiaro, da subito, che si tratta di un'unica storia che coinvolge anche l'altra sponda del Mediterraneo. Sono studiosi di mente moderna e di competenze non comuni (come ad esempio Giusto Traina), ai quali non sfugge il nesso tra l'Armenia e il mondo greco-romano, o il fatto che l'Africa settentrionale per tutto il tardo antico è uno dei centri motori dell'impero, cioè dell'«Occidente». Settimio Severo e Agostino di Ippona sono nomi che giovano a comprendere la fondatezza di questa considerazione. E anche dopo, per tanta parte del racconto, mondo islamico e mondo cristiano risultano entrambi «protagonisti» di questa originalissima «Storia d'Europa».
Innovativa è anche la scelta di guardare ai fenomeni non propriamente «visibili », nonché ai gruppi sociali che meno di altri hanno avuto la possibilità — per usare le parole di Seignobos — di «lasciare tracce attraverso i documenti ». In quest'ultimo volume ad esempio un ampio capitolo (il quinto), a cura di Salvatore Bono, è dedicato a «La schiavitù in Europa e nel Mediterraneo». È una vera novità, in una storia d'Europa, che ancora una volta documenta l'inestricabilità di Europa e Islam. Di norma, avverte l'autore, quando si parla di «schiavitù » gli storici pensano all'età antica, o alla tratta dei neri, ovvero alla massiccia presenza della schiavitù in America, in particolare negli Stati Uniti, ben oltre la metà del secolo XIX e anche oltre la sanguinosissima «guerra di secessione». In questa scelta c'è la eco di studi recenti. «Da un ventennio almeno — scrive Bono — la storiografia ha reso ben evidente l'esistenza di schiavi anche dopo (e in parte grazie) alle scoperte geografiche nei paesi mediterranei d'Europa e in alcuni non propriamente mediterranei ». E conclude: «Vi fu dunque una continuità del fenomeno servile, dall'età antica a quella medievale e poi sino alla Rivoluzione francese e persino oltre, sia pure con un rilevante variare di dimensioni e caratteristiche». La legittimità della riduzione in schiavitù «derivava presso le due maggiori parti in causa» (cioè cristiani e musulmani) dal fatto che chi veniva catturato — soprattutto in mare e in guerra —, e perciò asservito, apparteneva all'altra fede religiosa. Di conseguenza ebrei, ma anche greci e slavi ortodossi si trovavano nella posizione peggiore fra tutti: infatti venivano catturati e asserviti da entrambi i contendenti. Non deve sfuggire naturalmente la diversità tra schiavitù americana o «delle piantagioni» e schiavitù «mediterranea» (individuale, capillare, e costantemente incrinata dalla possibilità del riscatto). Questo denso capitolo guida il lettore in una materia che non è dato trovare nelle consuete «storie d'Europa».
È quindi una storia conflittuale e lacerante quella che viene fuori da questi volumi. Per fortuna alieni da ogni proposito apologetico, o anche solo consolatorio.

Repubblica 23.2.09
Amsterdam. Van Gogh. I colori della notte
Van Gogh Museum. Fino al 7 giugno


«Spesso mi sembra che la notte sia più viva e ricca di colori del giorno», scrive il maestro olandese nel 1888, durante il soggiorno ad Arles. Opera cardine, di questo suo modo di sentire, è la celeberrima tela intitolata Notte stellata , eseguita dall'artista nell'anno successivo, al tempo del ricovero nell'ospedale di Saint-Rémy, a causa di una profonda crisi seguita alla rottura dell'amicizia con Gauguin. In questo dipinto, oggi conservato al Museum of Modern Art di New York, il maestro mette infatti mano a tutte le sue innovazioni formali ed espressive più importanti: colore, materia, gestualità, segno, portati al massimo della tensione, al massimo dell'energia vitale e tragica. Si vedano, a questo proposito, le stelle ruotanti nel cielo notturno che rinviano alla fragilità dell'esistenza umana. Il museo che conserva gran parte dei lavori del maestro, come I Mangiatori di patate del 1885, propone una esposizione che prende in esame i termini in cui Van Gogh associa aspetti delle ore notturne alle tematiche analizzate nella propria arte, dalla vita contadina al ciclo della natura. La mostra, già allestita al Moma, riunisce dipinti provenienti dalle raccolte del museo olandese e da altre collezioni internazionali.

Repubblica 23.2.09
Londra. Van Dyck e l'Inghilterra
Tate Britain. Fino al 17 maggio


In contemporanea con "Altermodern", la quarta edizione della triennale della Tate, da vedere la rassegna che ripercorre la pittura del maestro fiammingo attraverso centotrenta opere. Formatosi ad Anversa e attivo per alcuni anni anche in Italia, Van Dyck viene nominato nel 1632 cavaliere e pittore ufficiale della corte di Carlo I, carica che mantiene fino alla morte. A Londra la sua produzione è vastissima: si conoscono oltre quattrocento opere, le più tarde eseguite valendosi ampiamente di aiuti di bottega. In questo periodo l'artista esegue quasi esclusivamente ritratti dell'aristocrazia, come quello di Lucy Persy, contessa di Carlisle, scelto come immagine della mostra. Famosi i suoi ritratti di Carlo I a cavallo, conservato alla National Gallery di Londra, o a caccia, oggi al Louvre. La straordinaria ritrattistica di Van Dyck (in mostra, anche il sorprendente autoritratto del 1633), ha una vasta portata europea: a Genova, dove l'artista opera durante il lungo soggiorno italiano, si forma una vera e propria scuola. In Inghilterra i grandi ritrattisti del Settecento vi troveranno ampia materia di riflessione.

Repubblica 23.2.09
Ravenna. L'artista viaggiatore. Da Gauguin a Klee, da Matisse a Ontani
Mar. Fino al 21 giugno


La città che fin dai tempi del porto romano di Classe è stata un punto di riferimento per i viaggiatori ospita una rassegna che intende fare il punto sulla ricerca dell'Altrove da parte degli artisti, dalla seconda metà dell'Ottocento. La mostra, curata da Claudio Spadoni e Tulliola Sparagni, prende avvio dai globi terrestri settecenteschi di Adams, dai libri di Cook, da antiche carte geografiche, dagli oggetti etnografici del Museo Pigorini di Roma, chiamati a fare corona alla celebre Boite en valise di Duchamp, una sorta di museo portatile che contiene le riproduzioni delle sue opere più importanti. Seguono sezioni dedicate ai continenti, in cui sono allestite piccole personali, che illustrano le diverse declinazioni dell'orientalismo e del primitivismo, fondamentali nell'arte europea. Da vedere opere di Nolde, Macke, Kokoschka, Dubuffet e Boetti.