mercoledì 25 febbraio 2009

Repubblica 25.2.09
Quella scienza che combatte per la pace e i diritti scomodi
di Umberto Veronesi


L´annuncio, ieri a Milano, della nascita in Italia del movimento internazionale "Science for peace ", che ho creato insieme a oltre 20 premi Nobel e molte figure rilevanti della cultura mondiale, ha suscitato allo stesso tempo interesse e stupore.
Pensiamo che il tema della pace debba urgentemente essere riportato al centro del dibattito civile; volgiamo creare una cultura di tolleranza e nonviolenza; chiediamo la progressiva riduzione degli armamenti per destinare parte degli investimenti alle urgenze : nuovi ospedali, scuola, ricerca scientifica. Ma perché gli scienziati si devono occupare della pace, e perché devono farlo proprio adesso, per iniziativa di un medico oncologo? Innanzitutto perché il medico è vicino ai bisogni della gente e sa che la gente, come prima cosa, non vuole il dolore. E la guerra è il più grande dei dolori. Il medico è pacifista per natura perché ha fatto sua la dura missione di curare le malattie che ci affliggono e dunque non riesce ad accettare le ferite, gli scempi, le epidemie e le enormi sofferenze che potremmo evitare se cancellassimo la guerra. Ora questo bisogno di sfuggire alla sofferenza evitabile è reso più forte dalla situazione di crisi mondiale che agita, anche nelle popolazioni occidentali cresciute nel benessere, lo spettro della povertà. La crisi richiede delle risorse aggiuntive per le urgenze sociali, e dove possiamo ricavarle se non dalle spese militari che assorbono fondi molto elevati ? E´ assurdo che non riusciamo più a mantenere le nostre famiglie, che gli ospedali non vengano ristrutturati, che l´accesso alle cure adeguate non sia garantito a tutti, che la ricerca scientifica, che potrebbe dare una nuova spinta al benessere, languisca nei laboratori deserti, per avere più carrarmati lucidi e splendenti e costosissimi aerei supersonici, che, siamo convinti, non utilizzeremo mai. Al di là di questo momento drammatico, la scienza, che dissemina ovunque il pensiero razionale, ha da sempre una funzione civilizzatrice e pacificatrice e può fare molto per la pace. Oggi i tipi di conflitti mondiali che si prospettano sono quello atomico, che al momento sembra un´ipotesi lontana, e quello terroristico. Ebbene, la funzione del pensiero razionale nel combattere il terrorismo è molto significativa, così come lo sono tutte le forme di pensiero e di arte. Per esempio sono convinto che la musica di Barenboim ha avuto un ruolo nella composizione del conflitto fra israeliani e palestinesi. La scienza, così come la musica, rifiuta il principio esasperato dell´identità nazionale o della razza. Anzi, come ha dimostrato il genetista di fama mondiale Luca Cavalli Sforza, la razza dal punto di vista genetico non esiste proprio. Per questo con la diffusione del pensiero scientifico abbiamo assistito ovunque alla promozione della tolleranza e alla riduzione della violenza. Come disse Benedetto Croce " La violenza non è forza, ma debolezza , né mai può essere creatrice di cosa alcuna, ma soltanto distruggerla". Gli ultimi 60 anni di assenza di grandi conflitti mondiali sono stati teatro di avanzamenti scientifici e tecnologici senza precedenti , ma soprattutto di avanzamenti in civiltà , di cui l´abbandono della pena di morte in 62 Paesi è solo un esempio. Viceversa i conflitti di ogni tipo hanno creato disordine, regressione civile e arresto della crescita e del benessere. Viviamo in una società pluralistica multietnica, multiconfessinale e l´Italia di questi giorni percorsa da conflitti etici e da episodi di intolleranza, che minacciano la libertà dei cittadini, è un esempio della nuova realtà che dobbiamo imparare a capire per non esserne travolti. La pace non è solo assenza di guerra ma è composizione pacifica delle conflittualità. La sostituzione di una cultura di pace ad una cultura di guerra non è impensabile ed è questa la finalità di "Science for peace".

l’Unità 25.2.09
Rutelli, rivolta sui siti
«Libertà di coscienza per toglierla a noi...»
Il 90% delle e-mail ai giornali è contro la linea rutelliana
Invocazioni a Franceschini, promesse di non voto al Pd
I messaggi: «Terza via? Per andare al centro...»


Valanga di commenti sui siti dei quotidiani: la stragrande maggioranza critici con l’ultimo strappo di Francesco Rutelli sui temi etici rispetto alla linea del Pd. Migliaia di e-mail che si chiedano come mai l’ex ministro dei Beni Culturali «invoca libertà di coscienza per impedire ad altri di esercitarla», lo invitano «a raggiungere Casini», minacciano di «staccare il voto al Pd».
Sul “Corriere on line” scrive Cirobyke: «Non mi turerò il naso votando Pd finché non si libererà dell’invadenza dei suoi fondamentalisti cattolici». Renato Biondina: «A questo punto meglio che il partito si divida». Lettore 9285: «Ma non c’è stata un’assemblea? Chi impediva a Rutelli di parlare in quella sede naturale?». Geri: «Lui, la Bianchi e la Binetti fondino il partito teocratico». Paolom 97: «Forse che da quando c’è la legge sull’aborto le donne in gravidanza sono costrette a interromperla?». Nero790: «Una volta avevo un partito cui tesserarmi, ora che c’entro con questi sepolcri imbiancati?». Bentler. «Rutelli e compagnia sarebbero capaci di fare una legge per decidere chi va in paradiso, purgatorio e inferno».
Apprezzatissima la citazione, di di Pasquino Indignato, della lettera di Paolo VI: «Non sarebbe un’inutile tortura imporre la rianimazione nella fase terminale di una malattia? Dovere del medico è alleviare la sofferenza, non prolungare, con qualsiasi mezzo e in qualsiasi condizione, una vita che non è più pienamente umana». Gfderiu: «Sono incavolato io con loro, dovrebbero rappresentare una speranza etica nel grigiore illiberale della maggioranza». Rialto: «Un partito non è un raggruppamento di prime donne».
Sarcastico H De Mentis: «Giustamente Rutelli chiede pari dignità per le diverse posizioni. lui ne ha avute tante». Idem Roger81: «Continuate così che oltre al governo ombra avrete pure gli elettori ombra». Bolzmann conia «la logica secondo Rutelli»: «Come si può invocare libertà di coscienza per votare una legge che la abolisca». Massimo: «Prendi la terza via, vattene».
«incavolato lui? pure noi»
Su Repubblica Oldoldold: «Rivendica pari dignità per negare a me di scegliere. Vergogna». Skunk: «È incavolato? Immagini il primo italiano cui verrà infilato un tubo nello stomaco che non voleva». Lafcadio43: «Qual è il pelo nell’uovo che cerca Rutelli? Deve solo scegliere se un cittadino che ragiona può decidere se accettare l’alimentazione forzata o no?». Roby1Kenoby. «Dopo 30 anni interrompo il mio voto al Pd». Tornoanchesubito: «Francesco tra un po’ ti mettono in lista per la successione al Papa». Luciano1001: «Cosa trova di dignitoso nel costringermi a essere ingozzato con l’imbuto?». Ales1: «Come è possibile che il Parlamento si arroghi di decidere per me come devo curare il mio corpo? È esproprio di Stato».
Più dialogante Albauno: «Proposta buona in teoria, ma quale medico si assumere la responsabilità?». Onyric invoca la scissione. Giudivi: «Peccato che non si faccia!». Per Fiordisale sono «prove tecniche di fuga». Pietro35: «Da risorsa è diventato un problema. Vada al centro». Giacomo47: «Chiudetevi la porta alle spalle, chissà che il martoriato Pd non veda un raggio di sole».
Sul sito dell’Unità, Cristiano si chiede: «Che senso ha fare il Pd per allearsi con l’Udc?». Maria Grazia Moroni: «Qui c’è un unico suicidio, quello del Pd». Alberto Ancona: «Leggendo i commenti di 1200 cybernauti emerge che mal si sopporta la mancanza di un progetto di sinistra». Nello: «Siamo appena a martedì e Rutelli deve precisare che non spacca il Pd». Una pattuglia condivide la linea rutelliana. Tradate1942: «Adesione in un partito moderno non significa sudditanza». Barbablu: «Pd non è solo Ds. Accettate le nostre decisioni o uscite voi».

l’Unità 25.2.09
Il testamento biologico e gli spauracchi
di Sergio Bartolommei, Università di Pisa e Consulta di bioetica


Francesco D’Agostino interviene sul Giornale del 17 febbraio a sostegno del progetto di legge Calabrò sul “testamento biologico” che vieta al paziente di esprimersi per sospendere idratazione e nutrizione artificiali. Gli argomenti di D’Agostino sono tre: 1) non sono atti medici (suscettibili di essere rifiutati) come non lo è «mettere un bimbo nato prematuro nell’incubatrice»; 2) sono atti di «immenso valore simbolico» e sarebbe «simbolicamente atroce far morire d’inedia un malato»; 3) la sospensione di questi trattamenti dovrebbe essere accompagnata, come nel caso Englaro, da una sedazione che ha carattere «eutanasico».
Sul primo punto l’esempio è improprio. La possibilità per i neonati fortemente pretermine di essere tenuti in vita oltre i tempi consentiti dalla “natura” è un dato recente legato all’avvento delle tecnologie mediche di rianimazione e sostegno vitale. Non c’è prova più evidente di quanto siano pervasivi gli atti medici delle terapie intensive neonatali. Ed è in corso una discussione se sia lecito mantenere in vita a tutti i costi neonati che presentano gravissime patologie incompatibili con la vita stessa. Ostinarsi in questa direzione, in alcuni casi, serve solo a infliggere crudeltà gratuite.
Sul secondo punto va detto che intorno al tema della “sopravvivenza” umana si mobilitano forti sentimenti che non si registrano in fatto di vita non umana e di materia inorganica. Ciò non impedisce di ritenere il valore assegnato a certi simboli non un fatto naturale, ma il prodotto di tradizioni suscettibili di cambiamento. Inoltre non è possibile sottostimare il carattere atroce (al pari della tortura) che, dal punto di vista simbolico, assume condannare le persone a idratarsi e nutrirsi contro la loro volontà. Infine occorre avanzare qualche dubbio circa la capacità di “presa” simbolica di un sondino nasograstrico che alimenta coercitivamente una persona ridotta a involucro biologico: cosa sia più “sconvolgente”, da un punto di vista simbolico, tra intubazione coatta e morte guadagnata tra cure confortevoli, è tutto da stabilire...
Sul terzo punto l’autore gioca sulle parole. È vero che eutanasia significa “dolce morte” e che la morte di Eluana Englaro è stata (con ogni probabilità) “dolcissima”. Non tutte le dolci morti però sono il prodotto di atti eutanasici, e quello di Eluana non lo è stato. Nel suo caso si è trattato di un “rifiuto delle cure”, al pari di altre decisioni attuate da chi rifiuti di sottoporsi a terapie mediche anche salvavita. La novità del caso sta nell’aver applicato a una persona in stato di incoscienza un principio fatto valere per le persone coscienti. Denominare “eutanasia” l’atto col quale si è conclusa la vita di Eluana è agitare spauracchi che potranno servire forse a mobilitare un legislatore in vena di rivalse, non certo a chiarire la realtà dei fatti.

Corriere della Sera 25.2.09
Legge sul fine vita. Dopo Panebianco
La responsabilità dei medici
di Giuseppe Remuzzi, direttore dipartimento dei trapianti Ospedali riuniti - Istituto Mario Negri Bergamo


L'ipocrisia potrebbe essere una virtù — ha scritto Angelo Panebianco a proposito della legge sul fine vita — per ridurre le sofferenze dei malati senza offendere certe sensibilità ed evitare di «trasferire nella pubblica piazza ciò che non è assolutamente idoneo ad essere esposto in piazza ». È proprio così. «Viene uno con trecento malattie, perché deve morire in rianimazione dopo mesi di ventilazione meccanica? Non è umano. Siamo mortali e dovremmo per un momento poterlo accettare». È un infermiere che parla, hanno buon senso gli infermieri.
Di chi lavora negli ospedali, si parla se fanno qualcosa di straordinario o se sbagliano. Mai di quello che succede tutti i giorni. «Ci sono delle volte che vado via sfatto da questo posto; cerco di non pensarci, ma me lo trascino dietro: non riesco a parlarne a casa, ogni sabato sera che sono di turno, ogni 118 che esce, penso sempre che sia mio figlio che viene qua» è lo sfogo di uno dei medici delle 84 rianimazioni che hanno partecipato allo studio del Mario Negri (ne hanno fatto il libro Scelte sulla vita, che racconta «degli sguardi e delle parole a mezza bocca fra medici, ammalati e persone affettivamente vicine agli assistiti»). È un libro pieno di numeri: quanti si ricoverano, quanti guariscono, quanti muoiono, quando e perché si sospendono le cure e chi decide, se sono coinvolti i familiari. E di storie: storie di tante notti, di quando si è troppo stanchi e c'è troppo silenzio e hai paura di decidere. «Vorrei tornare studente, con qualcuno che decide per me». Certe volte è più facile non decidere. Ho visto persone di più di ottant'anni, con il diabete, l'infarto, già diversi by-pass al cuore, un tumore all'intestino tenuti in vita col respiratore artificiale e la dialisi. Che prospettiva di vita può avere un ammalato così? Nessuna e allora perché si va avanti? Mah, i parenti… Nelle nostre terapie intensive ogni anno vengono ricoverati 150 mila amma-lati, 30 mila muoiono. Le disposizioni di fine vita ce l'hanno solo l'8 %, per gli altri qualche volta — poche — decidono i familiari o il medico. Tutti i giorni i dottori delle nostre rianimazioni si chiedono se il loro è «un intervento a favore del paziente o è un intervento contro il paziente » (è la «zona grigia» di cui parla Panebianco). E devono comunque decidere. «Alla fine cerchiamo di garantire una fine dignitosa, ma a volte garantiamo una cattiva fine». Quando ci sarà una legge deciderà il giudice o il fiduciario, che sarà un familiare. Ma i tempi dei giudici non sono quelli dei medici. Nei tribunali si aspettano mesi e anni. Nelle terapie intensive degli ospedali si deve decidere in fretta, minuti certe volte.
E i familiari? Delle volte non capiscono cosa stia capitando per quanto uno si impegni a spiegarglielo. Succede tutto troppo in fretta; «noi cerchiamo di far partecipare i familiari, però non si vorrebbe neanche caricarli di cose che in quel momento non sono in grado di affrontare ». E i dati raccolti da Guido Bertolini fanno vedere che i familiari il più delle volte preferiscono non decidere, non se la sentono, troppa responsabilità e si affidano alle conoscenze dei medici e al loro buon senso. Ma non è sempre così, ci sono casi («i casi sono diversissimi » scrive sempre Panebianco) in cui sono proprio i familiari a decidere.
Michael De Bakey ha insegnato a tutti i cardiochirurghi del mondo a riparare l'aorta se si rompe. Quando è successo a lui — a 97 anni — non si trovava nessuno che volesse operarlo. Senza chirurgia De Bakey sarebbe morto, solo che aveva firmato un foglio «niente rianimazione se mi capita di essere in coma». Chiedono al comitato etico, ma quelli non sanno che pesci prendere. Così nessuno decide o meglio decide la moglie. Alla fine un chirurgo si trova. «Sono felice che l'abbiano fatto» ha detto poi a proposito dei chirurghi che hanno accettato di operarlo. Il bello è che nemmeno si ricordava di aver firmato il foglio con scritto di non rianimarlo. «I dottori — ha detto — in casi così devono sapere decidere senza bisogno di comitati».
Fare il medico è rianimare certo, ma anche saper sospendere le cure quando sono inutili. Fa parte delle nostre responsabilità. È a tutela di chi non ha più speranza perché non debba subire trattamenti inappropriati (alimentazione e idratazione aiutano a guarire ma ci sono casi in cui farlo aumenta le sofferenze anziché alleviarle). E di tanti che di cure intensive invece hanno bisogno per vivere. «La legge — scrive Panebianco con grande lucidità — è il luogo più inadatto, più inospitale per depositarvi visioni ultime della vita». Quella che si sta discutendo in Italia a proposito di fine vita non è una brutta legge, è una pessima legge. Molto meglio non farla.

Liberazione 25.2.09
Testamento biologico
Franceschini non ce la fa. Pd resta diviso
di Angela Mauro


Se l'obiettivo era convincere la capogruppo in commissione Sanità al Senato, Dorina Bianchi, a firmare gli emendamenti del Pd sul testamento biologico, la missione del neosegretario Democratico, Dario Franceschini, a Palazzo Madama è fallita. Perchè al termine della riunione del gruppo, non solo la cattolica Bianchi conferma che non firmerà le proposte di modifica della presidente dei senatori Democratici Anna Finocchiaro, ma di fatto rafforza, a fine giornata, la linea annunciata in mattinata dal suo leader, Francesco Rutelli, con tanto di conferenza stampa.
Nel Pd del dopo-Veltroni, serrano le fila gli ex dielle rutelliani, via all'offensiva per farsi valere nel partito, pena la scissione.
Il casus belli è, appunto, il ddl sul "fine vita" in discussione in commissione al Senato, calendarizzato in aula per il 5 marzo. Oggi l'organismo presieduto da Antonio Tomassini dovrà esaminare i quasi 600 emendamenti presentati dall'opposizione al testo Calabrò. Prevista una seduta anche notturna per licenziare il provvedimento entro domani. E in mancanza di un accordo con Pd e Italia dei Valori, la maggioranza è comunque intenzionata a portare il proprio ddl in aula senza mediazioni. Verrebbe a quel punto approvato il disegno di legge messo a punto, tra le polemiche, dopo la morte di Eluana Englaro, testo che vieta la sospensione dell'alimentazione e idratazione anche ai pazienti capaci di intendere e di volere. La linea del Pd, confermata dal neoleader Franceschini all'assemblea che lo ha eletto sabato scorso e contenuta negli emendamenti presentati e non firmati dalla Bianchi, prevede che alimentazione e idratazione possano essere sospese se il paziente abbia espresso una volontà in tal senso nella cosiddetta Dat, la dichiarazione anticipata di trattamento. Rispetto garantito a chi nel partito ha idee diverse (libertà di coscienza), ma la linea è questa. Ed è qui che si è inserita la «mediazione» di Rutelli, per lo meno lui la definisce così. L'ex leader dielle e i suoi avevano già approvato la mozione del Pdl nella scorsa votazione in Senato, ora si fanno portavoce di una cosiddetta «terza via» che affida al medico curante ogni decisione sulla sospensione delle cure, escludendo assolutamente la possibilità che il paziente possa dire la sua nella Dat. Il Pdl risponde aprendo spiragli al dialogo, Rutelli da parte sua rincara convocando ieri una conferenza stampa per chiedere «pari dignità» alle diverse posizioni nel Pd sul tema e per negare propositi di scissione. Si dice «incavolato per l'alterazione sistematica della mie posizioni. Qui non si stanno facendo manovre di avvicinamento ad un altro partito (leggi Udc, ndr.), ma si sta discutendo una proposta di legge». Insomma, Rutelli non ci sta a passare «per uno che strappa, rompe, divide e peggio persegue secondi fini e strategie politiche di scissione o che rispondano a poteri esterni alla politica, come il Vaticano. Ogni posizione deve essere legittima».
La conseguenza è che la capogruppo in commissione, Dorina Bianchi, si ostina a non firmare le proposte di modifica del suo partito. «Non firmo e stop», dice al termine della riunione con Franceschini, con la presidente dei Senatori Anna Finocchiaro e gli altri componenti democratici della commissione Sanità. Pensare che fino a due settimane fa al posto della Bianchi c'era il laico, medico, Ignazio Marino, che avrebbe chiesto di essere sostituito per potersi occupare a tempo pieno della presidenza della commissione d'inchiesta su Igiene e Sanità, cui è stato eletto a dicembre. Normale avvicendamento, si sono affrettati a spiegare dal quartier generale del Pd, ma è certo che se oggi il capogruppo in commissione fosse ancora Marino, il neosegretario Franceschini avrebbe meno gatte da pelare.
A riunione in corso, fonti della presidenza del gruppo Pd a Palazzo Madama non facevano mistero del carattere «politico» delle posizioni di Rutelli. «Per noi la sua non è una mediazione, è lui che la spaccia così - veniva sottolineato, non senza veleni - perchè noi partiamo da un altro presupposto, che è quello del valore della Dat, non dal presupposto del Pdl, che non lascia libertà di scelta al paziente». Dunque, nessuno spazio per nessuna "terza via". Il muro alzato dalla Bianchi conferma che i cattolici non abbassano la guardia e che, al di là di quello che dice Rutelli, la scissione centrista non è un'ipotesi marziana. Intanto, è fuori discussione una sostituzione della Bianchi, che non avendo firmato gli emendamenti che non condivide non potrebbe rappresentare tutto il gruppo del Pd in commissione (questione di logica). «Non possiamo scatenare un altro putiferio», spiegavano, sempre a riunione in corso, le stesse fonti piddine. In ogni caso, prima di arrivarci ad un'eventuale scissione, c'è da vedere quanti nel Pd si lasceranno affascinare dalla terza via rutelliana. E' vero che a fine riunione Franceschini parla di «unanime no alla proposta del Pdl», la Finocchiaro parla di «consenso a larga maggioranza per la linea Pd». Ma è anche vero che un senatore come Giorgio Tonini, braccio destro di Veltroni quando era segretario e di estrazione cattolica, non indugia a considerare la proposta di Rutelli una «mediazione per il dialogo con il Pdl, dialogo che su questi temi dovrebbe essere intrapreso». Non solo: Tonini lancia un «appello» al suo partito a «guardare nel merito» gli emendamenti rutelliani, «discutiamone», dice.
Passa Veltroni, arriva Franceschini ma le manovre sottobanco nel Pd non cessano. Nel frattempo, il neosegretario ha eliminato il governo ombra e messo a punto la sua squadra. Nomi presi dal territorio, come promesso, decisioni prese «in solitudine», come annunciato. In segreteria (8 membri cui si aggiungeranno periodicamente i segretari regionali, oggi la prima riunione) entrano il governatore dell'Emilia Romagna Vasco Errani e il sindaco di Torino Sergio Chiamparino; Fabio Melilli, presidente della provincia di Rieti; il segretario del Pd lombardo, Maurizio Martina; Elisa Meloni, segretario provinciale a Siena; la parlamentare Federica Mogherini; Giuseppe Lupo, consigliere del Pd in Sicilia. A Maurizio Migliavacca, il ruolo di responsabile dell'Organizzazione. E anche Pier Luigi Bersani, che resta candidato segretario per il congresso d'autunno, avrà un incarico. «Immagino continuerò a occuparmi di economia», dice.

Repubblica 25.2.09
"Quattro stupri su dieci commessi da stranieri"
I dati del Viminale per il 2008. "Ronde, soldi anche dai privati". Fini: non mi piacciono


ROMA - Mentre il ministero dell´Interno diffonde i dati sulle violenze sessuali - quattro su dieci sono commesse da immigrati che rappresentano il 6% della popolazione - è ancora polemica sulle ronde. Il presidente della Camera ribadisce a Ballarò che il termine ronde non gli piace. Preferisce, invece, «la collaborazione del cittadino con le istituzioni». Il titolare del Viminale, Roberto Maroni, non vuole «dilettanti allo sbaraglio». Annuncia «un controllo fortissimo da parte degli organi di polizia su chi vi partecipa». E attacca i contrari alle ronde: «Chi è contro la proposta del Governo - dichiara Maroni - è a favore della ronda fai da te».
È di dubbia interpretazione, intanto, il decreto legge sui "volontari per la sicurezza" pubblicato ieri sulla Gazzetta Ufficiale. Il testo del dl, infatti, esclude che le ronde possano essere «destinatarie di risorse economiche a carico della finanza pubblica». Secondo alcuni, i "volontari per la sicurezza" potrebbero essere finanziati da privati, persone fisiche o aziende. Secondo altri, invece, dovrebbero svolgere quella funzione come volontari, e cioè senza compensi.
Ma è il Viminale - dopo le reazioni antistranieri seguite agli ultimi stupri di Roma - a rivelare che gli italiani sono autori della maggior parte degli stupri (il 60,9% dei casi). Gli stranieri per - comunitari ed extracomunitari - responsabili di circa il 40% dei reati di violenza sessuale commessi in Italia nel 2008, rappresentano solo il 6% della popolazione residente. Di questi, il 7,8% degli stupratori è di nazionalità romena, il 6,3% marocchina. Le vittime, precisa il Viminale, sono nella gran parte dei casi donne (85,3%) e quasi sempre nate in Italia (68,9%). I dati sono stati diffusi da Simonetta Matone, capo di gabinetto al ministero delle Pari opportunità. Nel 2008 gli stupri sono scesi dell´8,4%. A calare in particolare sono state le violenze di gruppo, ridotte di quasi un quarto (meno 24,6%). La flessione dell´anno passato è seguita a un 2007 terribile, in cui gli abusi erano aumentati del 5% e quelli da "branco" del 10,9%.
A Milano la situazione più drammatica, anche se nel triennio 2006/2008 si era registrato un andamento decrescente, passando da 526 episodi nel 2006 a 480 nel 2008. Nel 41% le violenze sono ad opera di italiani, nell´11% di romeni, nell´8% di egiziani e nel 7% di marocchini. Anche a Bologna un netto calo, da 179 nel 2006 a 139 nel 2008. Italiani sarebbero responsabili nel 47% dei casi, nell´11% marocchini e nel 10 % romeni.
A Roma si è registrato un picco nel 2007, più 13,4% rispetto all´anno precedente, con 339 stupri, e un calo nel 2008, con 317. Gli autori risultano nel 42% dei casi italiani, nel 24% romeni e nel 3% egiziani. Ma in un arco temporale non considerato dal Viminale le violenze nella capitale sarebbero di nuovo in aumento: nei primi due mesi del 2008 ci sono stati 4 stupri, nei primi due di quest´anno sono già 9.

Repubblica 25.2.09
Il rapporto del Viminale: l'8% attribuite a romeni
Nel 2008 le violenze sono calate ma sei su dieci sono di italiani
di Alessandro Oppes


MADRID - «Una sentenza omofoba», tuona la Federazione spagnola dei gay e delle lesbiche. L´assoluzione di un assassino, reo confesso, di una coppia di omosessuali ha provocato enorme clamore in Spagna tanto che lo stesso governo, per bocca del ministro dell´Uguaglianza Bibiana Aído, si è dissociato dalla decisione del tribunale. Non sono bastate né le prove portate dalla pubblica accusa, né le testimonianze dei periti della polizia scientifica, né la confessione dello stesso autore del crimine, avvenuto tre anni fa a Vigo, in Galizia: Jacobo Pioeiro è stato assolto da una giuria popolare composta quasi esclusivamente di donne dalle accuse di omicidio e furto, e condannato solo per l´incendio appiccato nell´appartamento delle vittime per occultare le prove.
Secondo il tribunale, avrebbe agito per «legittima difesa», perché accecato dalla «insostenibile paura» di essere stuprato dopo una notte di alcol e droga: tesi assolutamente bizzarra considerate le 57 pugnalate assestate con estrema ferocia nei corpi di Isaac Pérez Trivioo, 22 anni, (discendente di una famiglia conosciutissima in Galizia: il bisnonno fondò un importante banco, ma altri parenti sono stati pericolosi narcotrafficanti) e il brasiliano Julio Anderson, 32 anni, con il quale Isaac - conosciuto come «Al-Dani» - pensava di sposarsi pochi mesi più tardi.
Durante il processo, l´imputato ha detto di essere «pentito di tutto». Parole sufficienti per muovere a compassione la giuria popolare, mentre l´accusa aveva chiesto una condanna a 60 anni di carcere, accusando Pioeiro di avere «pensato e calcolato freddamente» le proprie azioni.

l’Unità 25.2.09
La rivolta dei Beni culturali
Settis & co, dimissioni a catena
di Stefano Miliani


L’archeologo vuole lasciare la guida del Consiglio superiore. Altri membri lo seguiranno
La protesta. Esperti contro Bondi. Torelli: «Ha un atteggiamento degno del Ventennio»

Dopo l’attacco di Bondi a Settis dalle colonne del «Giornale», nei beni culturali è la rivolta. Il ministro non tollera chi la pensa diversamente da lui. Oggi riunione del consiglio superiore: dimissioni di massa in vista.

Se voi che leggete non siete dentro una soprintendenza o dentro il ministero dei beni culturali probabilmente non potete averne piena percezione. Però per le sorti del nostro patrimonio artistico, dei nostri musei, dei nostri scavi archeologici, archivi e biblioteche - che già soffrono come dannati, hanno una gestione centrale sbrindellata - oggi può essere una giornata gravida di dalle conseguenze pesanti. Che implicano anche il concetto di libertà di pensiero nella pubblica amministrazione, cioè nel Paese.
IL TERREMOTO
Esagerato? Vediamo un po’. Oggi pomeriggio si riunisce il consiglio superiore dei beni culturali: è organismo consultivo di esperti nominati dal ministro, comitati di settore e rappresentanti eletti dai dipendenti del ministero stesso, dalle università. Il suo ruolo è dare pareri su questioni importanti. Oggi ha, tra l’altro, in discussione i piani di spesa delle soprintendenze, e saranno dolori. Lo presiede, forse per l’ultima volta, Salvatore Settis, archeologo, preside della Normale di Pisa. Salvo sorprese si dimetterà. E con lui altri membri del consiglio. Di sicuro ha formalizzato le sue dimissioni via fax alla segreteria ministeriale il professor Andrea Emiliani, esperto che aveva indicato Rutelli e Bondi confermato. Potrebbe lasciare Andreina Ricci. Potrebbe dimettersi Mariella Guercio, altra esperta. «Faccio quel che farà Settis. Abbiamo tenuto una linea condivisa e quindi la mantengo». E questo lo afferma a l’Unità un nome autorevole, culturalmente «pesante», come Antonio Paolucci, già soprintendente, già ministro lui stesso nel 95-96, ora direttore dei Musei Vaticani.
Come altri esperti, Settis lo aveva nominato Rutelli, Bondi l’aveva confermato. Ma Settis, per il ministro, si macchia di un peccato imperdonabile: osa criticare pubblicamente le scelte del ministero. Critica la scelta di affibbiare un commissario alle soprintendenze archeologiche di Roma e Ostia, per di più della protezione civile, Bertolaso. Critica, Settis, la nascita di una direzione per la valorizzazione, slegata dalla tutela per di più affidata a un manager inesperto in materia d’arte o archeologia quale Mario Resca. Settis peraltro ha sempre coltivato il «vizio», se qualcuno lo ritiene un vizio, di criticare anche in pubblico le scelte di un ministro anche se lui ci lavorava a fianco. È successo a Urbani, è successo a Rutelli. Succede con Bondi e Bondi non lo tollera. Il ministro sul Giornale attacca Settis e già, che c’è, il soprintendente di Pompei Guzzo, bravissimo archeologo, ma reo - a suo parere - di non risolvere i guai del sito.
VIA LIBERA AI «BARBARI»?
Ci sono dunque le dimissioni di Settis in ballo. Perché non è soltanto una faccenda di poltrone e travalica i confini dei beni culturali ma di libertà di pensiero? Lo riassume bene Mario Torelli, archeologo di lungo corso, curatore della bella mostra sugli etruschi aperta a Palazzo delle Esposizioni a Roma fino all’8 marzo: «Questo ministro si leva di torno i tecnici perché danno fastidio, è un atteggiamento da ministro del ventennio fascista, per “non disturbate il manovratore”». Secondo l’archeologo il ministro potrebbe avere in mente il sostituto di Settis e indica il collega Carandini. Ma Torelli dà voce a un fatto: nel ministero e nelle soprintendenze si dice poco in pubblico quel che si pensa per paura di ritorsioni.
Cesare De Seta, un altro esperto di nomina direttamente ministeriale, dice al nostro giornale di voler discuterne oggi prima con Settis e poi valutare. Il segretario della Uil Gianfranco Cerasoli mette il dito sul dubbio che arrovella parecchi: Settis non lasci, «le sue dimissioni sarebbero un regalo ai nuovi barbari», cioè «al trio Bondi-Brunetta-Tremonti» che, svitando bullone su bullone le soprintendenze e le loro risorse, affidandole a commissari della protezione civile e quant’altro, stanno smantellando l’impalcatura statale che ha tenuto su dall’unità d’Italia a oggi. E questo dubbio - lasciando non si rischia di non porre più argini a manovre devastanti? - arrovella Marisa Dalai, studiosa designata dal Consiglio universitario nazionale. Un dubbio che investe sempre più persone, nel nostro paese. E non solo per l’arte. Una via d’uscita in mente ce l’ha Vincenzo Vita, parlamentare Pd: invece di Settis «si dimetta Bondi».

Corriere della Sera 25.2.09
Le radici del tracollo del Pd
Una sconfitta cercata a lungo
di Giovanni Sartori


Povera sinistra. Peggio messa di come è non potrebbe. E l'onda lunga che l'ha portata al tracollo viene da lontano, da molto più lontano di quanto i commentatori ricordino.
L'altro giorno l'elezione di Dario Franceschini a nuovo segretario del Pd è stata una decisione sensata e forse l'unica possibile. Ma il salvataggio viene rinviato a elezioni primarie che dovrebbero spazzare via la vecchia nomenklatura e miracolosamente scoprire nuovi leader. Le primarie sono state una fissazione di Prodi; e sinora si sono rivelate un enorme dispendio di energie senza frutto, che non hanno fondato o rifondato un bel nulla. Per carità, riproviamo ancora. Ma non illudiamoci che scoprano ignoti né quello che non c'è. A oggi ogni capopartito ha allevato i suoi e cioè potenziato la sua fazione, la sua corrente, promuovendo gli obbedienti (anche se deficienti) e cacciando gli indipendenti (anche se intelligenti). Pertanto la crisi di leadership della sinistra è una realtà dietro la quale non è detto che si nascondano geni incompresi, geni repressi.
Il guaio risale al fatto che per una trentina di anni abbiamo avuto la più grande sinistra dell'Occidente, che era però egemonizzata dal Pci e forgiata dallo stalinismo di Palmiro Togliatti. Non era una sinistra addestrata a pensare con la sua testa, ma invece ingabbiata nel preconfezionato di un dogmatismo ideologico. Caduta la patria sovietica, quel pensare e pensarsi che altrove ha rifondato la sinistra su basi socialdemocratiche da noi non si è risvegliato. La fede comunista si è semplicemente trasformata in un puro e semplice cinismo di potere; e il non pensare ideologico, il sonno dogmatico del marxismo, si è semplicemente trasformato nella sconnessa brodaglia del «politicamente corretto». Una brodaglia nella quale anche il semplice buonsenso brilla per la sua assenza.
Dunque la malattia è grave e di vecchia data. Una malattia che coinvolge anche — passando al versante pratico del problema — l'erosione dei bacini elettorali tradizionali della sinistra. In passato la sinistra era, in tutta semplicità, il partito del proletariato operaio. Quel proletariato non esiste più. Lo ha sostituito un sindacalismo che in passato obbediva al partito, ma che ora lo condiziona. Domanda: il collateralismo o condizionamento sindacale conviene davvero, oggi, alla «sinistra di governo » (come diceva Veltroni)? Ne dubito. La Cgil è oramai un sindacato antiquato «di piazza e di sciopero», abbandonato dai giovani, che rappresenta i pensionati (la maggioranza dei suoi tesserati), che difende gli sprechi e anche i fannulloni. E siccome siamo al cospetto di una gravissima crisi economica, la sinistra non la può fronteggiare appesantita dalla palla al piede della Cgil. O così mi pare.
Altra domanda, questa volta sul collateralismo (dico così per dire) con la magistratura. Fermo restando che l'indipendenza del potere giudiziario è sacrosanta, il fatto resta che gli italiani sono indignati per la sua lentezza e inefficienza. Prodi si vanta di avere vinto due elezioni. Allora ci spieghi perché, in vittoria, non abbia alzato un dito per aiutare e anche costringere la giustizia a funzionare. La sinistra fa bene a difendere il potere giudiziario dagli assalti interessati di Berlusconi. Ma fa male a non difendere un cittadino così mal servito da una giustizia, diciamolo pure, ingiusta.

il manifesto 24.2.09
Per una lista unica, rispondono i promotori
di Luigi Ferrajoli, Pino Ferraris, Giulio Marcon, Mario Pianta


La richiesta ai partiti della sinistra di fare un passo indietro e di lasciare spazio a una lista unica che esprima un ampio arco di forze e movimenti della società civile sta crescendo con un passaparola tra cittadini e militanti, lontano dai clamori dei media. Nei messaggi di adesione che i promotori hanno ricevuto si trova la consapevolezza della gravità della situazione del paese, la minaccia alla democrazia, il pesante attacco al lavoro e ai diritti sindacali, la necessità di una nuova partecipazione politica, la spinta che viene da esperienze dal basso. Ad aderire sono persone comuni, elettori delusi della sinistra, esponenti del sindacato, attivisti di associazioni e movimenti, studenti e professori, e una manciata di "nomi noti" che hanno avuto responsabilità politiche nei partiti della sinistra.
Sono voci che esprimono un bisogno di discussione, di soggettività politica, di impegno in prima persona di fronte alla deriva dei partiti e della politica italiana.
Le stesse voci che leggiamo in una parte (forse metà) dei 180 commenti che compaiono nella discussione su questo sito. Persone che condividono il senso dell'appello, chiedono un cambiamento alla politica, a cominciare dalla sinistra. L'altra metà dei commenti ricevuti dal sito del manifesto si divide tra chi ha perplessità sul come si potrebbe realizzare la lista unica della sinistra e chi esprime un'aperta ostilità alla proposta, in nome dell'affermazione d'identità del "partito dei comunisti".
La perplessità principale riguarda il rischio che la lista unica della sinistra riproduca l'esperienza negativa del cartello della Sinistra Arcobaleno
presentato alle scorse elezioni politiche. Qui occorre una precisazione. Quello era un cartello di partiti, costruito con un'operazione di vertice, con i leader di partito che ne affollavano le liste. La proposta di una lista unica chiede invece ai partiti di fare un passo indietro, di unirsi a forze e movimenti della società civile per promuovere una lista senza dirigenti di partito, con candidati legati alle realtà locali, in ordine alfabetico e una presenza del 50% di donne.
Un progetto che provi a dare espressione a quel 10% di elettorato che vuole una sinistra in cui riconoscersi. Per di più, viste le derive centriste del Pd di Franceschini, una lista unica della sinistra di questo tipo potrebbe apparire un "voto utile" anche per molti elettori delusi del Pd.
Altre perplessità frequenti - come la questione del gruppo parlamentare in cui potrebbero confluire a Bruxelles gli eletti della sinistra italiana - rimandano a questioni specifiche di realizzazione del progetto, che potrebbero diventare facilmente risolvibili una volta che ci sia l'accordo dei partiti a fare un passo indietro.
Infine le (dure) critiche alla proposta di lista unica della sinistra di chi pensa che il "partito dei comunisti" risolva ogni problema. Molti interventi esprimono un bisogno di identità ideologica e organizzativa che difficilmente può andare oltre i confini di un piccolo gruppo, e dimenticano il misero spettacolo che i partiti hanno dato di sè nei dieci mesi dopo la sconfitta elettorale. Un integralismo identitario di questo tipo rischia di essere parte del problema, più che della soluzione, per il futuro della sinistra in Italia e in Europa.
In questi dieci mesi di governo Berlusconi milioni di persone si sono impegnate in prima persona per fermare le derive autoritarie, cercare alternative alla crisi economica, costruire la democrazia. Lo hanno fatto nelle centinaia di scioperi e manifestazioni del sindacato e dei precari, nelle mille proteste nelle scuole e università, nelle iniziative per i diritti civili e la difesa della Costituzione, nei cortei per la pace in Medio Oriente, nelle iniziative antirazziste, nelle moltissime mobilitazioni locali. E' questo il "popolo della sinistra" che - secondo noi - oggi ha bisogno di una rappresentanza politica, di una sinistra che torni ad affondare le proprie radici nella società e che sia capace di un'iniziativa comune.

Corriere della Sera 25.2.09
Il governatore della Puglia «Io ho vinto con un'alleanza che andava dai dc al Prc: indispensabile aprire varchi nel blocco sociale di Berlusconi»
Vendola: i voti moderati servono, guardiamo all'Udc
di Roberto Zuccolini


ROMA — Nicky Vendola, che cosa cambia, per la sinistra che rappresenta, l'avvento di Franceschini alla guida del Pd?
«L'occultamento delle sconfitte, ultima delle quali in Sardegna, non poteva durare a lungo. Lo dico con rispetto per Veltroni, che ha abbandonato la segreteria con tanta dignità. Ma è evidente che rappresenta anche la sconfitta della sua teoria, cioè quella di un Pd autosufficiente, capace un giorno di governare da solo, secondo un schema bipartitico. Franceschini è molto simpatico e intelligente, ma ciò che conta per noi non è la leadership, bensì il processo politico. Ci attendiamo che il partito non sia più neutrale nei confronti del conflitto sociale e sindacale in atto. È mai possibile restare sulle difensive quando il mondo è in crisi per colpa delle politiche neoliberiste e di destra degli anni passati?».
Un Pd non più autosufficiente, quindi anche vostro alleato?
«Le alleanze non sono giocare a battaglia navale, con le caselle da riempire. Cominciamo a dialogare sui contenuti dell'opposizione in una società che sembra esprimere, come fenomeno più progressista, il Festival di Sanremo. Partiamo dai luoghi di un possibile incontro ».
Ad esempio le amministrative?
«Il livello locale è molto importante. Io ho vinto le elezioni con un'alleanza molto larga, che andava dai dc a Rifondazione, e in quattro anni sono riuscito ad andare d'accordo con tutti».
Quindi anche con l'Udc, magari in futuro a livello nazionale?
«Non andremo a mettere cartelli di divieto di sosta alle forze politiche in una fase così movimentata. All'Udc bisogna guardare consapevoli delle differenze esistenti. Ma al tempo stesso, se si vuole vincere, è indispensabile cercare di aprire varchi nel blocco sociale di centrodestra dominato da Berlusconi. Per questo insisto: per ora guardiamo al livello locale. È lì che maturano le relazioni. Poi si vedrà».
Nel frattempo però ci saranno le europee.
«Per Strasburgo dobbiamo rilanciare l'alleanza a sinistra: se piuttosto che litigare e divergere per ragioni di bottega avessimo il coraggio di mettere insieme tutte le nostre forze faremmo un investimento sul futuro».
Superando lo sbarramento del 4 per cento, imposto dalla nuova legge?
«Ferrero pensa a riunificare i comunisti. Sbaglia. C'è bisogno di una nuova sinistra, il partito del ventunesimo secolo. E c'è bisogno di risollevarsi dal trauma costituito dalla nostra assenza nel Parlamento italiano. Rientrare in quello europeo potrebbe essere un segnale importante. Un evento che darebbe nuovo slancio all'opposizione. Stiamo attenti perché le generazioni future non cercheranno di capire chi aveva ragione al congresso di Chianciano Terme, ma perché i ragazzi di Nettuno andavano a bruciare gli immigrati senza fissa dimora».

martedì 24 febbraio 2009

l’Unità 24.2.09
Testamento biologico: Rutelli
e i teodem dividono il Pd
di Jolanda Bufalini


Il Pd ha presentato 36 emendamenti unitari. Su “idratazione e nutrizione” si esprime l’orientamento «largamente prevalente» ed è firmato da Finocchiaro e Zanda. Ma non c’è la firma di Dorina Bianchi.

«Cos’è, un biglietto d’auguri per Franceschini?», scappa detto al senatore Lionello Cosentino, quando vede l’emendamento presentato da Rutelli, che esclude dal testamento biologico la possbilità di rifiutare nutrizione e idratazione forzata.
La sequenza dei fatti è questa: la settimana scorsa la neo-presidente del gruppo Pd in commissione sanità Dorina Bianchi si astiene sul testo base (da oggi in discussione con circa 600 emendamenti, sempre in commissione), mentre la maggioranza del gruppo vota contro. A quel punto la presidenza del gruppo Pd al Senato, assume direttamente il coordinamento del lavoro comune. Lavoro al quale sono designati, oltre alla stessa Bianchi, i senatori Ignazio Marino e Daniele Bosone: quest’ultimo è medico, fa di mestiere il neurologo.
I due medici
I due medici, dunque, fanno un lavoro di mediazione cercando di calarsi nella realtà, di superare le posizioni ideologiche. Dice Bosone: «Con l’ideologia non si fa assistenza e senza assistenza non si tutela la vita». È un lavoro che, intanto, guarda alle esigenze reali delle famiglie che si trovano a far fronte alle esigenze dei malati terminali, anche quelle che non hanno possibilità economiche. Un lavoro «di grande disponibilità e apertura», lo definisce Ignazio Marino. Un lavoro di «sintesi culturale, perché la libertà di coscienza non esime dal lavoro politico», dice Bosone. E che fa punto cardine il rispetto dell’articolo 32 della costituzione sull’inviolabile diritto di scelta della persona. Sabato, Dario Franceschini, nel discorso di candidatura a segretario, inserisce un passaggio giudicato di grande importanza sulla necessità che il legislatore si ispiri a una mentalità laica. Anche Massimo D’Alema interviene: «l'idea che la legge obblighi il cittadino a subire determinati trattamenti, perchè la nutrizione forzata attraverso sondini o tubi gastrici è un trattamento, non ha eguali in nessun Paese civile, e speriamo che possa essere evitata agli italiani».
Chi firma e chi non firma
Siamo a ieri mattina alle 11, dead line per la presentazione degli emendamenti. Sul punto più delicato,la posizione del Pd tiene insieme la “tutela della vita” e il “principio di autodeterminazione”. Il compromesso prevede che «nutrizione e idratazione siano sostegno vitale», ma che «nel rispetto della Costituzione «è ammessa l’eccezionalità del caso di sospensione se espressamnente oggetto della dichiarazione anticipata di trattamento». Primi firmatari sono Anna Finocchiaro e Luigi Zanda. Seguono le firme di tutti i componenti della commissione, tranne la presidente e il senatore rutelliano Gustavino. Commenta Donatella Poretti (radicale): quello non è il mio emendamento, lo firmo perché è espressione del lavoro di gruppo. «Sconfortante», commenta Ignazio Marino che vede ancora una volta vanificato l’ennesimo passo in avanti verso una soluzione comune.
«Imbarazzo» è il termine diplomatico che circola nelle stanze della presidenza di gruppo rispetto alla posizione assunta da Dorina Bianchi, vista la sua posizione di capogruppo. In un comunicato Anna Finocchiaro sottolinea il lavoro unitario: «Il Pd ha presentato in Senato, in commissione sanità, 36 emendamenti che riassumono il serio lavoro di sintesi fatto in questi ultimi mesi» e, su idratazione e nutrizione, «è stato presentato un emendamento sottoscritto dalla presidenza del Gruppo, da senatori laici e da senatori cattolici, coerente con la posizione largamente prevalente e in sintonia con quella assunta sabato dal segretario Dario Franceschini». Questa dunque la posizione del Pd, fatta salva la pari dignità politica - ma non numerica - di altri emendamenti. Cosa c’è nel piatto? quali giochi e equilibri politici? Non qli interessi del paese reale, pensa Ignazio Marino. «Mi sembra il terreno meno opportuno per le manovre politiche, soprattutto dopo l’assemblea di sabato», commenta il cattolico Daniele Bosone. E c’è da registare anche il giallo di una riunione dei senatori con il neosegretario Franceschini, che - però - non era prevista né nella sua agenda e né in quella della presidenza del gruppo.
Oggi si ricomincia: 600 gli emendamenti. 100 solo della maggioranza e 250 di Donatella Poretti. Iil fatto che dalla maggioranza sia arrivata quella caterva di correzioni significa che anche nel centro destra le acque non sono tanto tranquille. Chissà se qualcuno andrà a vedere.

l’Unità 24.2.09
Pena di morte se la Chiesa non dice no
di Luigi Manconi


Mercoledì 11 febbraio, Benedetto XVI ha riaffermato l'intangibilità della vita umana "dal momento del suo inizio fino al suo naturale compimento". È la frase più frequentemente utilizzata dalla cultura cattolica, per argomentare il rifiuto di scelte come la sospensione di nutrizione e idratazione artificiali. Ed è stata così tante volte ribadita, da assumere la forza di un dogma irrinunciabile della concezione antropologica della Chiesa cattolica. Ma siamo proprio sicuri che quella frase abbia effettivamente l'assolutezza di una verità irrinunciabile e inderogabile? Per giunta, nei giorni scorsi alcuni cattolici hanno irriso i sostenitori della scelta di Bepino Englaro in questi termini: ma come? siete contro la pena di morte, come lo siamo noi, e poi volete infliggerla alla povera Eluana… L'argomento è già di per sé traballante, ma se preso seriamente può riservare sorprese. La Chiesa cattolica è contro la pena di morte? Vediamo. Nel "Catechismo della Chiesa cattolica" in vigore fino al 1999 si poteva leggere: "Articolo 2266. Difendere il bene comune della società esige che si ponga l'aggressore in stato di non nuocere. A questo titolo, l'insegnamento tradizionale della Chiesa ha riconosciuto fondato il diritto e il dovere della legittima autorità pubblica di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di estrema gravità, la pena di morte". Questo ancora nel 1999. Nella successiva edizione del Catechismo, quella attualmente in vigore, la stessa formula risulta attenuata. Attenzione: non abrogata, bensì solo edulcorata. Eccola: "2267. L'insegnamento tradizionale della Chiesa (…) non esclude, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l'unica via praticabile per difendere efficacemente dall'aggressore ingiusto la vita di esseri umani". Qui emerge un'ambiguità: sembrerebbe che si debba difendere un inerme da un aggressore mentre l'aggressione è in corso. Ma questa è né più né meno che legittima difesa: contraddittoria rispetto all'uso della formula "pena di morte", che richiama inevitabilmente una sentenza comminata da un tribunale. Dunque, si tratta di una vera a propria deroga - ben inteso: in situazioni eccezionali - al principio assoluto. Ma ciò rende meno assoluto quel principio. È inconfutabile che, se si accetta quella possibilità di deroga, l'eccezione può valere anche in altre, e diversissime circostanze (e non siamo stati noi a proporre la comparazione): in presenza, ad esempio, di un caso di stato vegetativo persistente e di un trattamento di nutrizione e idratazione forzate, che prolungano artificialmente una vita ormai esaurita.

Corriere della Sera 24.2.09
Un partito blindato che rischia l'unità sui temi legati all'etica
di Massimo Franco


Dopo l'elezione di Dario Franceschini, il comandamento tacito è di blindare il Pd. La conseguenza più immediata è quella di alzare un muro intorno al partito, rinviando qualunque approccio col centrodestra, si tratti di federalismo o di giustizia; e di offrire un'immagine dura e pura che assecondi la componente di sinistra sui temi etici, ed affili un antiberlusconismo capace di fare concorrenza ad Antonio Di Pietro. Ma le tensioni interne che emergono sul testamento biologico dicono quanto possa essere traumatica l'operazione. E, sebbene prevista, la rinuncia al «governo ombra » veltroniano segna il passaggio ad un'opposizione senza più ambizioni né prospettive di guida.
La visita resa ieri da Franceschini al capo dello Stato, Giorgio Napolitano, conferma la volontà un po' pretenziosa di presentare il Pd come «partito della Costituzione»; e la larvata tentazione di trasformarlo in una sorta di «guardia politica» del Quirinale. Gli accenni ad un pericolo per la democrazia italiana; le uscite di Massimo D'Alema sullo strapotere di Silvio Berlusconi; i complimenti di alcuni dipietristi: sono altrettanti indizi di una deriva che tende a scaricare all'esterno i problemi del Pd. L'operazione ha come primo passaggio le europee; e come tappa successiva il congresso di ottobre.
Ma la sensazione è che molti fra gli ex ds vogliano piegare da subito l'identità del partito, proprio usando l'ex popolare Franceschini. Si intravede la silhouette
di una forza socialdemocratica, ancorata ai gruppi dirigenti locali e decisa a ricondurre alla disciplina ogni anomalia. Le stesse primarie, figlie degli anni prodiani e fonte di legittimazione di Walter Veltroni, oggi sembrano osservate con disincanto: anche perché hanno dato dei dispiaceri alla nomenklatura. Si indovina dunque uno spostamento del potere dal leader a chi gli ha conferito il primato: quella che si definisce collegialità.
I cosiddetti «temi etici» appaiono uno dei terreni privilegiati sui quali misurare il nuovo corso. Dietro le mediazioni cercate disperatamente da Francesco Rutelli affiorano i contorni di un'area politica sempre più in difficoltà nel Pd. E il modo in cui alcuni settori, sostenuti da Idv ed estrema sinistra, considerano Rutelli già in marcia verso l'alleanza con l'Udc, è una forzatura per anticipare il futuro. Il D'Alema che risponde alla jattanza berlusconiana con la propria, mette un sigillo all'operazione. «Berlusconi dice che ha fatto fuori 8 leader del centrosinistra. Non è vero», ribatte D'Alema. «Siamo vivi e in circolazione».
È un protagonismo inedito, per un dirigente che fino a pochi giorni fa ostentava distacco. Ma si tratta della conferma di un rimescolamento del quale Franceschini appare il garante, dopo essere stato il vice-Veltroni. «Ho letto che è tornato l'antiberlusconismo, non capisco cosa voglia dire», sostiene il segretario in tv. Vedendo come si comporta il premier, «anche un moderato alza la voce». La sua ricetta sul Pd è «la più semplice: smettere di litigare». Se centrerà questo obiettivo minimo, sarà già molto. Naturalmente, bisognerà vedere se la blindatura ed una pace interna prodotta dalla disperazione porteranno anche voti.

Corriere della Sera 24.2.09
Lo spauracchio «eutanasia»
di Silvio Viale, comitato scientifico di Exit.Italia


Caro Direttore, Panebianco bluffa quando parla di guelfi e ghibellini, collocandosi dubbiosamente in mezzo. Bluffa, e sbaglia, perché attribuisce ai ghibellini una posizione non loro. Mentre per i neoguelfi la «sacralità della vita» è davvero un valore assoluto non negoziabile da imporre, per i neoghibellini non è affatto vero che vogliono affermare «il principio secondo cui la decisione della morte di un uomo è nell'esclusiva e libera disponibilità di quell'uomo ». I neoghibellini non chiedono la deregulation del suicidio, che peraltro già non è reato, ma solo la possibilità di non essere costretti a prolungare una vita ormai consumata nella sofferenza della malattia in presenza di condizioni precise. Solo in questi casi i neoghibellini chiedono una morte quanto più possibile indolore e senza sofferenza con l'aiuto della medicina. Insomma i neoghibellini sono un po' guelfi perché vogliono dei paletti precisi, mentre i guelfi non sono per niente un po' ghibellini. La vera ipocrisia italiana è quella di temere la parola «eutanasia» e di circoscrivere il dibattito ad un suo surrogato di risulta come è il rifiuto delle terapie, sebbene addolcito da un po' di enfasi sulle cure palliative e appesantito da un po' di confusione sull'accanimento terapeutico.
Infatti, le cure palliative, se ben condotte, non sono così lontane da una terapia eutanasia, mentre l'accanimento terapeutico, che nessuno sa definire, è diventata la litania buona per ogni minestrone. Panebianco sbaglia quando parla di «due torti che si fronteggiano » e la prova del nove sta negli esempi delle leggi sull'eutanasia di Olanda, Belgio ed, ora, Lussemburgo, nonché nella prassi svizzera del «suicidio assistito». Dove sarebbero i torti per i neoguelfi o per i neoghibellini italiani? Ognuno potrebbe continuare a mantenere e propugnare le proprie ragioni. I guelfi potrebbero cercare di persuadere a non ricorrere alla legge. I ghibellini potrebbero accontentarsi di avere un'opportunità in caso di ultima necessità. I guelfi olandesi non sono limitati dalla legge olandese sulla interruzione della vita. Anzi, sia i guelfi e sia i ghibellini olandesi potranno avvalersene se le circostanze, il destino e le convinzioni dovessero farli approdare ad essa. In fondo, noi ghibellini, favorevoli all'eutanasia, siamo solo persone che amano talmente la vita da volerle bene anche nel suo viaggio terminale. Come fu per il divorzio, come fu per l'aborto, non è indifferente per nessuno quale torto finirà per prevalere nel regno dei guelfi.

Liberazione 24.2.09
Il gruppo del Senato si divide anche per gli emendamenti
Testamento biologico,
Il Pd litiga sul sondino
di Laura Eduati


Sai che sorpresa, il Partito democratico litiga sul sondino nasogastrico obbligatorio.
A trentasei ore dalla cosiddetta unità sancita nel nome di Franceschini, il partito si spacca sugli emendamenti al disegno di legge del centrodestra sul testamento biologico.
Secondo l'emendamento firmato da Anna Finocchiaro e Ignazio Marino, idratazione e alimentazione possono essere eccezionalmente sospese se il paziente ha espresso anticipatamente questa volontà. Dorina Bianchi, la capogruppo Pd in commissione sanità al Senato, fa obiezione di coscienza e non firma. Rutelli prova «la terza via»: non sarà possibile inserire nel testamento biologico l'interruzione del nutrimento forzato, tuttavia il nodo verrà eventualmente sciolto dal confronto tra il medico e il fiduciario delle volontà del malato. Una opzione che esclude quasi totalmente la soluzione-Eluana: i pazienti in stato incosciente dovranno subire scelte altrui.
I cosiddetti piddini laici sono furenti con i cosiddetti teo-dem: «Non capiscono che non può esistere una mediazione con il centrodestra che proclama l'indisponibilità della vita umana e obbliga i malati al sondino nasogastrico».
La rottura avviene di primo mattino, quando scade il termine per la presentazione degli emendamenti in commissione sanità al Senato.
Poco meno di cinquecento le modifiche presentate dall'opposizione al ddl Calabrò (Pdl), e tra questi la proposta di intero stralcio di quella parte che dichiara «indisponibile» la vita umana. «E' in contrasto con l'art. 32 della Costituzione, che salvaguarda il diritto ad opporsi alle cure», spiegano quelli del Pd. I radicali sono d'accordo.
Poi la scoperta: Dorina Bianchi, neo-capogruppo Pd in commissione al posto di Marino, non appone la firma ad un secondo emendamento che dovrebbe rappresentare la posizione unitaria e prevalente dei senatori Pd nella commissione stessa. L'emendamento è quello proposto da Finocchiaro, Latorre, Chiaromonte, Zanda e Marino, e propone di considerare il sondino nasogastrico come un «sostegno vitale» che in via «eccezionale» può venire sospeso su richiesta del paziente attraverso le dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat, ovvero testamento biologico ndr).
Soltanto sabato pomeriggio, alla manifestazione contro il ddl Calabrò, Ignazio Marino si era detto certo che Franceschini avrebbe garantito la linea laica senza tentennamenti. Sono passati nemmeno due giorni e l'illusione è finita: il senatore e chirurgo esprime «sconforto» per la posizione assunta da Bianchi. I laici, chiamiamoli così, protestano vivacemente: «Dorina pensa di potere scalfire il ddl Calabrò, purtroppo la maggioranza ha i numeri per approvare il testo così com'è» e cioè con l'imposizione di alimentazione e idratazione senza se e senza ma.
Tanto più che sono in arrivo gli emendamenti della maggioranza tra i quali quello di Laura Bianconi, convinta che bisognerebbe obbligare anche alla ventilazione artificiale: in questo modo Welby non sarebbe potuto morire. Proposta mica peregrina: il ddl Calabrò parla dell'alimentazione e della nutrizione artificiali come «sostegno vitale», dunque ci si avvicina sempre più all'accanimento terapeutico per legge.
Rutelli prova la mediazione tra le due parti una contro l'altra armate: alimentazione e idratazione artificiali non possono far parte del testamento biologico, ma saranno il medico, i famigliari e l'eventuale fiduciario indicato dal paziente a trovare una soluzione anche se la decisione finale spetta al medico. Ciò vale nelle fasi terminali ma anche se il malato è minorenne o incapace di intendere o volere.
A prima vista l'emendamento salva capre e cavoli, tuttavia darebbe al medico il potere di veto annullando o quasi le volontà del malato.
Il pasticcio in salsa democratica richiama una esplicita considerazione di Massimo D'Alema, finora pressoché silente sul tema: obbligare al sondino nasogastrico o alla cannula via stomaco per la nutrizione «è una idea che non ha eguali in nessun paese civile». La stoccata, idealmente contro il centrodestra, è benissimo riferibile all'ala teodem.
Il ministro Maurizio Sacconi legge le agenzie e commenta con gaudio le aperture del piddì alle posizioni della maggioranza ma, sull'emendamento di Marino e Finocchiaro, ritiene incomprensibile «il salto logico per cui "eccezionalmente", sulla base comunque di una volontà espressa dalla persona, sarebbe possibile interrompere acqua e cibo».
Non tardano le reazioni: «Sacconi non capisce che non può obbligare una persona ad un trattamento sanitario non voluto».
La commissione del Senato lavorerà notte e giorno fino a giovedì per esaminare i 585 emendamenti complessivi, poi passerà il testimone all'aula a partire dal 5 marzo. I maldipancia dei cosiddetti laici è forte, la posizione di Rutelli pesa. I senatori del Pd in commissione sanità attendono di vedere come la capogruppo dissidente, Bianchi, esprimerà la posizione del partito nella relazione finale.
Anna Finocchiaro prova a portare ordine tra i ranghi: l'emendamento che propone di sospendere idratazione e alimentazione se il paziente lo desidera, è la «posizione largamente prevalente» nel Pd. E' questa la linea, spiega la capogruppo in Senato, «in sintonia con quella assunta sabato da Dario Franceschini». Come dire: i cosiddetti teodem si pongono sostanzialmente al di fuori delle decisioni maggioritarie.
Con quali conseguenze, lo si vedrà nei prossimi giorni. Epperò esiste già una richiesta potente da parte dell'Italia dei valori: cacciare Rutelli. Lo esprime Donadi: «Le sue posizioni non possono appartenere all'area progressista e riformista del centrosinistra».

Liberazione 24.2.09
Un partito "riformista, non di sinistra"
La fallita rifondazione liberale del Pd
di Paolo Ciofi


Adesso, dopo l'assemblea alla Fiera di Roma, il Pd è una pagina bianca tutta da scrivere. Perché, nonostante gli sforzi di firme illustri per dimostrare che il progetto era ottimo e il suo inventore non all'altezza, le dimissioni di Veltroni sono la conseguenza e la prova provata della fragilità e del fallimento del suo progetto, annunciato come l'unica, vera operazione "riformista" con basi di massa mai tentata nella storia d'Italia. Lo dimostrano i fatti, e anche il discorso di Franceschini, molto distante dal manifesto del Lingotto dell'ottobre 2007.
In effetti, il "sogno" veltroniano non si riduceva alla pura alternanza di governo, come ha ripetuto l'ex segretario nel giorno dell'addio. Era qualcosa di più e di più complesso. Era l'idea di un "riformismo" ispirato al modello americano, orientato alla cancellazione della sinistra e incardinato sul bipartitismo rappresentativo degli interessi dominanti, che esclude per definizione dal sistema politico l'autonoma e libera rappresentanza delle lavoratrici e dei lavoratori eterodiretti. Dunque, una «Grande riforma», «una vera e propria rifondazione democratica», ovvero una compiuta «rivoluzione liberale» come ha tradotto Bettini, volta al superamento del patto costituzionale che fonda la Repubblica sul lavoro.
Proprio nel momento in cui in America si è aperta una riflessione non effimera sulle disfunzioni di quel modello, qui si è proposta un' "innovazione" di sistema che s'incontra con quella su cui lavora Berlusconi perché ad essa è parallela e speculare. In sostanza è l'idea di una politica fondata sulla centralità dell'impresa e tutta interna al potere di comando del capitale, nell'alternanza di quelli che lo stesso Veltroni ha definito un «capitalismo agonistico» e un «capitalismo solidale».
A questo scopo dovrebbe servire un partito neoborghese, nei contenuti moderato e centrista: il Pd appunto, che è «riformista ma non di sinistra», come ha dichiarato l'ex segretario a El Pais e come abbondantemente ha dimostrato la pratica politica di questi mesi.
Non per caso il discorso del Lingotto, che doveva dare il soffio della vita al Pd, è stato esaltato dal Corriere e dal Sole-24 Ore, che ha osservato come finalmente si sia completata la «svolta borghese» dei postcomunisti: «E' stata un'operazione di metabolismo politico di ingredienti che finora erano stati parte del sogno berlusconiano», ovvero del «mito del successo imperniato sul denaro». «E' come se Veltroni avesse intercettato le spore di questo mito e le avesse sistemate in un ordine diverso».
Ma è proprio questo "sogno" che non ha retto alla prova. Innanzitutto perché l'ancoraggio al liberal-liberismo (sia pure mite ma non tanto), esattamente nel momento in cui il medesimo liberal-liberismo viene additato come detonatore della crisi verticale del capitalismo, ha finito per produrre contraddizioni laceranti dentro il Pd. Come si è visto di fronte alle iniziative di lotta e agli scioperi promossi dalla Cgil, che però non hanno trovato il sostegno ufficiale del partito. Una scelta del resto prevedibile, dal momento che l'ex segretario aveva enunciato il principio secondo cui «se l'economia va male, non ci può essere giustizia sociale».
In secondo luogo perché l'idea di un superamento delle culture fondative della Repubblica, come la comunista (del Pci, per la precisione) e la cattolico-democratica, facendo ricorso a operazioni plebiscitarie che mettono il partito al servizio di un capo e non il contrario, si è dimostrata disastrosa, subalterna e distruttiva di ogni principio. Soprattutto sui temi della laicità, della libertà dell'individuo, delle scelte di fine vita, come insegna il caso Englaro. Ma se le culture di riferimento e gli ideali non sono contrattabili come i programmi e i ministeri, allora sorge il dubbio che ex democristiani ed ex comunisti forse possono stare insieme in un governo, difficilmente in un unico partito.
Inoltre perché la borghesia italiana, in assenza di una forte spinta del movimento operaio e di una adeguata rappresentanza politica delle lavoratrici e dei lavoratori, si è dimostrata nei suoi gruppi dirigenti ancora una volta miope, priva di una visione veramente nazionale ed europea, dedita al suo meschino interesse di classe e piuttosto incline a calpestare regole e contenuti della democrazia, come è avvenuto nei passaggi decisivi della storia d'Italia. Nel merito, le posizioni della Confindustria puntualmente documentate da questo giornale costituiscono oggi un'aggravante della crisi.
Ma non solo. Alla resa dei conti, i maggiori rappresentanti del capitalismo italiano convergono con Berlusconi proprio nel momento in cui il capo del governo ha cominciato l'assedio manovrato ai fondamenti della Repubblica e ai principi della Costituzione. Altro che il ritorno alla prima Repubblica perché Berlusconi si appoggerebbe allo stesso blocco sociale della vecchia DC, come ci fanno sapere fior di commentatori che pretendono di guardare avanti con la faccia rivolta all'indietro. E' invece la prova, dopo il fascismo, di un'ulteriore fallimento della borghesia come classe dirigente, che carica la sinistra di una nuova e inedita responsabilità, da esplorare fino in fondo.
Infatti, appare sempre più evidente che questo Paese è destinato a un irreversibile e doloroso declino se non si pone mano, con tempestività e determinazione, alla costruzione di una autonoma e libera rappresentanza politica del lavoro del XXI secolo: da valorizzare non solo come forza produttiva fondamentale della ricchezza della nazione, bensì anche come fattore costitutivo della personalità e dell'incivilimento sociale, oltre che come basamento dell'uguaglianza e della libertà. Ma non è certo rivangando il passato, con datate operazioni di stampo blairiano, denominate socialdemocratiche, ma nella sostanza liberiste e centriste, che si può costruire il futuro.

Liberazione 24.2.09
«La razza non esiste, il razzismo sì
Sarà il meticciato a salvare le generazioni»
intervista a Francesco Cavalli Sforza di Claudio Jampaglia


Razza o pregiudizio? . Se avete una qualsiasi relazione con un giovane questo libro di Luigi Luca e Francesco Cavalli Sforza (con Alberto Pianta, edizioni Einaudi scuola) è quello che vi servirà per affrontare in maniera logica, scientifica e definitiva la questione de L'evoluzione dell'uomo tra natura e storia (il sottotitolo). E la conclusione è molto semplice: le razze non esistono. Il razzismo purtroppo sì. E come è possibile? La risposta spetta a Francesco Cavalli Sforza che di mestiere fa "il divulgatore di conoscenza" - non troviamo altro termine per uno che è passato dal cinema, al video, alla televisione per approdare all'antropologia e alla scrittura scientifica insieme al padre Luca Luigi, uno dei più grandi genetisti. E la risposta inizia come spesso accade nel ragionamento scientifico da una premessa: «Nella nostra specie non esistono le razze perché siamo troppo giovani come specie, non ne abbiamo avuto il tempo. Le grandi differenze sono tra individui mentre quelle tra popolazioni sono una piccola percentuale, per esattezza circa l'11% delle differenze tra uomini. Cose superficiali come la forma del corpo, il colore della pelle... che rispondono a necessità "ambientali". L'unità di misura della evoluzione invece è la generazione e nei batteri ci sono tante generazioni in un anno quante nella specie umana in mezzo milione di anni (per la precisione una generazione umana sono 25 anni per le donne e 27 per gli uomini n.d.r. ). E quindi non è nemmeno vero che ci evolviamo più rapidamente di altri animali. I batteri sono più rapidi ed in un certo senso evoluti di noi, infatti alla lunga vincono sempre loro...».

E quindi la razza cos'è?
Una costruzione ideologica, semplicemente. La parola razza è esistita per definire la selezione delle varie stirpe di animali che gli allevatori ottenevano già dal primo medioevo per determinati animali... cani da riporto, da fiuto oppure cavalli da tiro o da corsa... E la selezione artificiale ha creato in pochi secoli tante razze di animali domestici. Basta pensare al gatto domestico e alle sue centinaia di varietà, tutte figlie dello stesso gatto selvatico che ormai non esiste quasi più...

Qualcuno ha provato però a selezionare la "razza umana"?
E ben prima di Hitler. Dai tempi dei faraoni egizi si è provato a limitare la procreazione in ambiti che si credevano "eletti". Prevalentemente nella stessa famiglia... Ma qualsiasi tentativo di questo tipo è destinato a fallire per una ragione genetica che sancisce anche la fine biologica di qualsiasi razzismo realizzato, e cioè che gli incroci tra geneticamente simili sono molto delicati. Così le cosidette "linee pure" degli allevatori sono spesso sterili e prede di malattie genetiche. Che si tratti di cani o umani la storia è la stessa.

E il contrario? Ovvero incrociarsi, mischiarsi...
L'incrocio funziona meglio. E il meticciato fa bene al corpo e alla mente, in senso evolutivo si intende. E anche qui la motivazione è scientifica. E' il cosiddetto "vigore degli ibridi". L'evoluzione infatti comporta una differenziazione continua che forma tanti "tipi" diversi e migliora in corsa l'adattamento dell'individuo al proprio ambiente. E l'adattamento marcia ad ogni più piccolo mutamento... Ora il numero di combinazioni genetiche possibile tra un maschio e una femmina umani è di un 3 seguito da tre miliardi di zeri ovvero una straordinaria possibilità di variazione ad ogni generazione. Ed è questa varietà prodotta in serie da processi perfettamente casuali la migliore garanzia di sopravvienza delle generazioni future. Si chiama ricombinazione ed è come rimescolare il mazzo di carte per ogni giocatore senza introdurre mutazioni.

Quindi la nostra "resistenza" è dovuta anche dalla ricombinazione genetica?
Oggi l'interpretazione più accreditata dice che la riproduzione di carattere sessuale si è affermata in una varietà così ampia tra tutti gli animali superiori proprio perché rende possibile una straordinaria ricombinazione dei caratteri genetici dei genitori (il sesso spiegato dalla scienza, n.d.r. ). E casuale. Mutazione e ricombinazione, insieme alla cosiddetta deriva genetica (ad ogni generazione cambia la frequenza dei tipi genetici, ad esempio dei gruppi sangugni AB0) sono importantissimi fattori di evoluzione. Poi c'è la selezione naturale che agisce come un setaccio che lascia passare quelli "adatti" per ripordursi. Ma in sostanza la grande varietà di tipi genetici frutto dell'evoluzione, presente ad ogni generazione è la migliore garanzia di sopravvivenza.

E qual è il motore di questa diversità e resistenza umana?
Senza dubbio la cultura che è "la" cosa che caratterizza l'uomo. E sono circa 6mila le popolazioni umane che hanno sviluppato un propria cultura da quando, circa 50mila anni fa, hanno iniziato a divergere, a colonizzare il mondo e sviluppare diversi modi di vita. E questa è la nostra migliore chance di sopravvivenza rispetto alle incognite del futuro... In natura la possibilità di compiere cambiamenti si vede ogni generazione ed è affidata alla rare mutazioni chiamate verticali, invece la cultura ci permette di realizzare dei cambiamenti in linea orizzontale. Vale anche per gli animali dove si trovano culture incredibili, con sistemi di comunicazione molto sofisticati. Basti pensare alle formiche o alle api. Ma nel mondo umano le idee sono l'equivalente delle mutazioni in campo genetico e si possono trasmettere a chiunque sia in grado di comprenderle. Questa è la ragione per cui l'evoluzione culturale è immensamente più veloce di quella genetica. Per adattarci ai climi freddi della Siberia 25-30mila anni fa fu possibile grazie all'innovazione culturale dell'abito da pelliccia e dopo migliaia d'anni i corpi si sono adattati all'ambiente gelido. Basti pensare alle narici lunghe e sottili che servono a riscaldare l'aria gelata prima che arrivi ai polmoni e ai cuscinetti di grasso sotto l'occhio per non far gelare il liquido del globulo oculare e ancora gli occhi sottili tipici delle popolazioni mongole. Adattamenti biologici si trovano ad ogni latitudine e hanno richiesto millenni. Mentre oggi si compra un'attrezzatura adeguata, un buon paio di occhiali antivento e l'adattamento culturale ci permette di fare un salto di 10mila anni di adattamento biologico...

Ma la selezione poi si fa anche sulla diversità culturale tra "umani"?
Ovviamente sì. Ma non ne conosciamo sempre la direzione. Prendiamo un cittadino metropolitano occidentale e un contadino povero che zappa sul Medio Atlante marocchino. Il metropolitano può sembrare il massimo della civiltà e l'altro un povero disgraziato ma metti solo che si produca una crisi energetica da petrolio chi ne uscirà meglio? Il contadino di sicuro continuerà la sua vita. Ma noi? E' il senso biologico della compresenza di culture diverse.

E uno scienziato come si spiega il razzismo?
Non se lo spiega. Se non come lo scontro tra tifosi di diverse squadre: l'appartenenza a un gruppo dà sicurezza, identità fino a inventarsi un nemico per affermarsi. Non c'è spiegazione scientifica.

E la paura? Perché quello che conta nel crescente clima di allarme sociale esagerato, urlato, inventato è la fabbrica della paura...
Credo che la paura nasca semplicemente dal senso di insicurezza del futuro. Non sono i tanti migranti o meno in giro è il fatto di non sapere se avremo un lavoro, se ce la faremo, se riusciremo a mantenere il livello di vita dei nostri figli... Per due generazioni si è affermata la convinzione che fosse possibile per tutti una grande stabilità e sicurezza ai più alti livelli della scala sociale: sanità, istruzione, case, benessere. Questo senso di sicurezza si sta dissipando, soprattutto per la crisi economica e credo che da questo nasca la paura. Lo straniero non c'entra nulla. E' il capro espiatorio. A lui tutti i mali benché sia falso pure statiscamente. Chi commette più delitti? Chi commette più stupri? I numeri dicono gli italiani.

E cosa preoccupa di più uno scienziato?
La preoccupante e scarsissima conoscenza nelle cose più elementari della scienza da parte dei cittadini, ma vale anche per la cronoca, per i fatti, se posso permettermi. Eppure il grande vantaggio che abbiamo oggi è proprio la disponibilità straordinaria di consocenza scientifiche e tecnologiche rispetto al passato. Però sembrano non interessare. Che sia in campo biologico o per trasformare l'Italia in un paese a energie rinnovabili. Si può fare. Invece attendiamo la fine dei fossili, le catastrofi e la natura che deciderà per noi.

l’Unità 24.2.09
Contratto scuola. Referendum Cgil
Il 95% dice «no»
18 marzo sciopero


La Cgil non ha sottoscritto il rinnovo del contratto della scuola. Aveva chiesto a Cisl, Uil, Snals e Gilda prima di indire un referendum tra i lavoratori. E poi, semmai, firmare. Ma nessuno delle altre organizzazioni sindacali ha voluto seguire il «consiglio» di Guglielmo Epifani, leader della Confederazione dei lavoratori. E così ecco i risultati: il 94,65% dei votanti ha «bocciato» il contratto. Quasi 400mila i partecipanti al referendum (376.926), il 40% della categoria. E 250mila persone non erano iscritti alla Cgil. L’84% si è espresso per il «no» anche attraverso un parallelo sondaggio condotto on line. Numeri importanti. «I lavoratori della scuola - ha detto Epifani - vogliono poter decidere su quello che li riguarda». E Mimmo Pantaleo, segretario generale della Flc-Cgil, ha aggiunto: «Non abbiamo sottoscritto l’intesa perché insufficiente a recuperare il potere di acquisto dei salari. Il contratto non propone alcuna soluzione al problema del precariato e non risponde alle attese del mondo della scuola sul versante professionale».
Immediata la replica di Raffaele Bonanni, Cisl: «Il segretario della Cgil non è nè un arbitro nè un notaio. Dico a Epifani che i problemi sono altri e farebbe bene a porseli».
In occasione della conferenza stampa sull’esito del referendum, la Cgil ha anche ufficializzato la decisione di andare ad uno sciopero nazionale per il 18 marzo. A fermarsi insieme alla scuola saranno anche l’università, la ricerca e l’Alta formazione artistica e musicale (Afam). Nel giorno della mobilitazione si terranno anche 18 manifestazioni territoriali in tutta Italia.
E sempre sul fronte scuola si profila una sonora bocciatura per il maestro unico. Le iscrizioni alle prime classi si chiudono questo sabato. Da una prima ricognizione, pare che le famiglie abbiano scelto il tempo pieno invece che l’unico docente voluto dalla Gelmini. Le famiglie però conosceranno l’esito dell’assegnazione in classe solo dopo la dotazione organica. Le scuole stanno facendo salti mortali per accontentare tutti. Ma i tagli restano pesanti.

Repubblica 24.2.09
Un seminario per cinquecento dirigenti in deficit di autostima In cattedra Roberto Re, l´"allenatore dell´anima" dei manager
Ascolta il motivatore ti solleva dalla crisi
di Elena Stancanelli


"Il segreto? Imparare a stare a nostro agio nel nuovo, smettere di avere paura e fidarci di noi stessi"
"Non bastano più i muscoli per reggere le diciotto ore al giorno di lavoro, servono creatività e flessibilità"

«Smettila di incasinarti», «Tempo di risultati», «Leader di te stesso» sono alcuni titoli di libri o dvd di Roberto Re. Vanno a ruba tra i manager che partecipano al seminario di formazione che si tiene in un albergo romano. Cinquecento persone arrivate da tutta Italia, cinquecento persone che da un giorno all´altro rischiano di trovarsi senza lavoro, mi spiega Stefano Cuzzilla presidente del Sindacato Romano Dirigenti Aziende Industriali, promotore del seminario. Nessuno si commuove per noi, lo capisco. Difficile, in questo momento di crisi, provare compassione per chi ha avuto stipendi come i nostri. Ma cadere dall´alto fa più male. Conosco persone che per mesi sono uscite di casa in giacca e cravatta come se niente fosse, e magari venivano da me in ufficio, a far passare la giornata. Per mesi, senza avere il coraggio di dire alla moglie che non avevano più un lavoro. Nel 2008 solo a Roma sono rimasti a piedi 600 manager. Molti di quelli che vedi qui neanche lo sanno che la loro azienda sta per chiudere, ma io sì.
Che fare? La mia risposta, dice Stefano Cuzzilla, è formazione. Le aziende hanno un fondo destinato alla formazione, che non viene quasi mai usato. Fin quando tutto andava bene, i manager lavoravano il più possibile per guadagnare il più possibile, senza tempo da perdere. Ma adesso non bastano più muscoli per reggere le diciotto ore al giorno di lavoro, serve la creatività per rimettersi in gioco, la flessibilità. Il coraggio di cambiare. Se sei costretto a passare da una grande azienda a una più piccola, devi saper fare più cose. Mentre io e Stefano Cuzzilla parliamo, bussano alla porta. Entra un uomo, elegante ma un po´ dimesso. Sembra uscito da un racconto di Pirandello, sorride, risponde composto alle nostre domande impertinenti. Ecco, dice Stefano: lui era vicedirettore di non so cosa e adesso? Adesso, dopo mesi di disoccupazione, gli hanno offerto un contratto di consulenza. Alla metà del suo vecchio stipendio. Un terzo, precisa l´uomo malinconico e esce, facendo segno a Stefano che lo aspetta fuori, con calma. Capisci? Mi dice quando rimaniamo soli.
Roberto Re è l´uomo scelto da Cuzzilla per operare il miracolo della trasformazione. A lui e la sua organizzazione, la HRD Training group, si rivolgono non solo manager ma uomini e donne di tutte le età e delle più varie professioni: atleti in crisi di risultati, casalinghe malinconiche, studenti bocciati, avvocati senza clienti. Isolde Kostner lo ha cercato quando non riusciva più a vincere, Don Mazzi gli affida una volta l´anno i suoi ragazzi. Persone in difficoltà, o persone ambiziose, alla ricerca di un miglioramento.
Sono una specie di allenatore dell´anima, dice Roberto Re. Cerco di tirare fuori il meglio da ognuno, partendo dagli insegnamenti base: sviluppo della memoria e tecniche di apprendimento veloce. Faccio corsi di programmazione neuro-linguistica, insegno a parlare in pubblico o a sedurre l´interlocutore singolo, ho messo a punto un training fisico e una serie di esercizi motivazionali. Con me lavorano persone che insegnano i segreti dell´ipnosi, le buone regole per vivere in un team, come trasformare un fallimento in opportunità. Per capire cos´è il mio lavoro prendi la psicologia e togliendo tutta la lagna dell´inconscio fanne una materia pratica e moderna, utile.
Roberto Re è nato a Genova nel 1967, ha studiato un po´ di economia e un po´ di psicologia e poi è andato negli Stati Uniti. È lì che negli anni Ottanta ha scoperto la filosofia del successo, ha letto «Pensa e arricchisci te stesso» di Napoleon Hill, trenta milioni di copie, la Bibbia dei trainer motivazionali. Lì ha conosciuto il lavoro di Roy Martina, medico olistico, autore, selfness coach e trainer di trainer. E soprattutto Anthony Robbins, il guru dei guru, uno che si è curato il cancro a morsi e ha insegnato a campare a gente come Gorbaciov e Bill Clinton, ha confortato Nelson Mandela e spronato Margaret Thatcher. Anthony Robbins, l´uomo che ha coniato la frase: If you can´t than you must, il mantra di Roberto Re. Il quale, tornato in Italia agli inizi degli anni Novanta, decide che si può fare, i tempi sono maturi. E inizia a proporre i suoi corsi da noi, nella terra dei disillusi. Gli italiani, mi conferma, sono più scettici degli americani. Ho dovuto dare un aggiustatina al programma. Presentarsi come un guru non funziona, meglio spiegare, far riflettere, creare un approccio morbido. Non imporre niente, e infarcire ogni discorso di esempi pratici. La teoria è noiosa e non rimane impressa. Meglio fare che ascoltare. La sua invenzione della camminata sui carboni ardenti come esercizio di affermazione della volontà è diventata subito un cult.
I cinquecento manager che partecipano al seminario «Da manager a leader» lo ascoltano con attenzione. La parola chiave è cambiamento. Per ottenere risultati, bisogna uscire da quella che chiama Zona del comfort, lo spazio che abbiamo arredato intorno a noi, a nostra immagine, nel quale ci possiamo rilassare e non temere. Dobbiamo imparare a stare a nostro agio nel nuovo, nell´improvviso, dobbiamo smettere di avere paura e fidarci di noi stessi. Dice cose semplici, ma innegabili. Il suo segreto è farti vedere come tutto sia a portata di mano. Compreso il successo. Che però è niente senza la felicità. Che cos´è l´infelicità per te, gli chiedo. È la differenza tra ciò che abbiamo e ciò che vorremmo avere. Non molto diversa da uno scompenso ormonale, da una carenza di ferro, dunque. L´infelicità esiste, ma tranquilli: si cura.

Repubblica 24.2.09
In polemica con Bondi se ne andranno altri membri del Consiglio superiore
Beni culturali, Settis si dimette
di Francesco Erbani


Un duro contrasto per la nomina di Mario Resca. Ma anche per i prestiti di Leonardo e per il commissariamento dell´area archeologica di Roma

Il braccio di ferro fra Sandro Bondi e Salvatore Settis ha raggiunto il suo apice. Domani si riunisce il Consiglio superiore dei Beni culturali e ai diciotto suoi membri Settis, che del Consiglio è il presidente, leggerà una lettera di dimissioni. Molto motivata e molto dura, si sente dire. Ma non sarà solo il direttore della Normale di Pisa, storico dell´arte antica e dell´archeologia, ad andarsene. Dalle indiscrezioni che filtrano saranno almeno in quattro, forse in sei a lasciare l´incarico. E a quel punto non si sa quale sarà la sorte del principale organo di consulenza del ministero.
Nel frattempo tornano insistenti le voci che vorrebbero lo stesso Bondi in partenza dal ministero. Lo attende l´incarico di coordinatore del Pdl. Al suo posto si insedierebbe Gaetano Quagliariello, attualmente vicepresidente dei senatori del centrodestra, il quale rinnoverebbe anche molto del personale che affianca Bondi.
Ma fintanto che è al Collegio Romano, Bondi sfodera la sciabola. Il ministro ha reagito con durezza alle ultime dichiarazioni di Settis (una lunga intervista a L´espresso di venerdì, alla quale il titolare del dicastero ha replicato con un articolo sul Giornale). Lo scontro ha però radici antiche, il dissenso sulle linee di conduzione del ministero si è fatto più marcato con il passare del tempo. Qualche volta si è composto, ma ora sembra che non sia più possibile. «Se avesse voluto cercare un espediente per rassegnare le dimissioni», ha scritto il ministro, «il professor Settis non ne avrebbe potuto trovare uno migliore». E quale sarebbe l´espediente? Il sensazionalismo mediatico, l´aver espresso ai giornali le sue critiche. Peggio ancora, secondo il ministro, se si tratta di «stampa di opposizione».
È proprio questo uno dei motivi della rottura. Settis non accetta di mettere il bavaglio. E così come è stato nel luglio scorso, quando denunciò il taglio di oltre un miliardo di euro nei bilanci già dissestati del ministero (il sottosegretario Francesco Giro di fatto lo licenziò, ma poi fu recuperata un´intesa con il ministro), anche stavolta il direttore della Normale non rinuncia a contestare le iniziative più discusse del ministero. Forte del fatto di essere presidente di un organo di consulenza e non un dirigente del ministero, soggetto a vincoli burocratici.
Un duro contrasto si è manifestato con la nomina a direttore generale di Mario Resca, ex amministratore delegato della McDonald´s, al quale Bondi aveva in un primo tempo affidato poteri straordinari sulla gestione dei musei, sulle mostre, sconfinando persino nel campo della tutela. La reazione di tutte le associazioni di salvaguardia, la raccolta di migliaia di firme e una bocciatura netta da parte di tutto il Consiglio superiore, presieduto da Settis, indussero Bondi a una mezza marcia indietro, giudicata insoddisfacente da molti: Resca, che non aveva nessuna competenza in fatto di management culturale, si sarebbe occupato solo della valorizzazione (ma la nomina ancora non è formalizzata). Settis e il Consiglio non avevano taciuto il loro dissenso nei confronti della scelta, per esempio, di prestare a un museo del Nevada alcuni disegni di Leonardo, un´iniziativa fortemente sostenuta da Alain Elkann, consulente di Bondi, ma osteggiata dalla direttrice della Biblioteca reale di Torino che quei disegni custodiva. Anche la decisione di commissariare l´area archeologica romana ha incontrato le perplessità di Settis, oltre che l´opposizione dura di tutti i funzionari delle soprintendenze di Roma e di Ostia e di quattromila fra professori universitari e studiosi italiani e stranieri.
Tutte queste e altre iniziative del ministero andavano nella direzione, agli occhi di Settis, di un progressivo svuotamento delle soprintendenze, per altro verso lasciate a languire, indebolite e delegittimate. Nel giro di pochi anni da quegli uffici andranno via molti funzionari che non verranno sostituiti. Già nei prossimi mesi resteranno scoperti alcuni fra i principali posti di soprintendente. È difficilissimo apporre dei vincoli di tutela e alcuni soprintendenti temono di non essere appoggiati dai vertici del ministero, anzi si sentono sempre in bilico, minacciati di trasferimento. In questa situazione ai limiti del collasso, sono stati istituiti commissari, i cui compiti sono ancora incerti. A Pompei il commissario Renato Profili non ha fondi propri, ma attinge a quelli ordinari della Soprintendenza. A Roma, dai Fori al Palatino, dai Mercati Traianei a Ostia, non è chiaro di che cosa si occuperà Guido Bertolaso, responsabile della Protezione civile. Ma che sia quest´ultima struttura quella che, agli occhi di chi dirige il ministero, fornisce maggiori garanzie lo prova il bando lanciato dal commissario a Pompei per assumere, anche con compiti di custode, volontari della Protezione civile.

il Riformista 24.2.09
Gran Bretagna fonti di Scotland Yard rivelano al "Guardian" scenari inquietanti
Crisi, il Regno attende «L'estate della collera»
di Mauro Bottarelli


LONDRA. L'epicentro della recessione in Europa potrebbe diventare il teatro di una nuova guerriglia urbana. Nel mirino banche, multinazionali e altri istituti giudicati colpevoli per il disastro economico. La prima data a rischio cade ad Aprile, quando Brown riceve mezzo mondo per il G-20.

«La Gran Bretagna affronta un'estate di rabbia. Il malcontento della classe media per la crisi economica potrebbe sfociare in violenza nelle strade». La prima pagina del Guardian di ieri sembra uscita dagli anni Ottanta: guardandola fare capolino dalle rastrelliere dei piccoli empori gestiti da pakistani un po' ovunque a Londra, si poteva chiudere gli occhi e immaginare scontri tra manifestanti e polizia lungo Bayswater su fino a Kensington High Street mentre "White riot" rimandava dalle radio le sue note di ribellione bianca e working class. Forse i Clash, scrivendola, preconizzarono la crisi che sta vivendo oggi il Regno Unito, il paese più finanziarizzato d'Europa - ogni cinque lavoratori, due sono impiegati nel settore - e quello di fatto più esposto ai marosi della crisi globale. Per questo la polizia britannica teme che la situazione socio-economica possa provocare nei prossimi mesi un'ondata di proteste violente: gli agenti addetti alla pubblica sicurezza si stanno preparando alla cosiddetta "estate di collera" e hanno innalzato al massimo il livello di attenzione per evitare incidenti come quelli che si verificarono appunto negli anni ‘80. David Hartshorn, che guida l'ufficio per l'ordine pubblico della polizia metropolitana di Londra, ha dichiarato al Guardian che la classe media potrebbe unirsi alle proteste contro il governo per effetto della crisi economica che sta interessando il paese: secondo il funzionario britannico uno degli «obiettivi principali» delle proteste dei prossimi mesi potrebbero essere le banche. Un pericolo, quello della guerriglia urbana, che è stato già segnalato dall'intelligence: i servizi segreti di Londra, infatti, hanno avvertito che «attivisti già conosciuti» stanno per ritornare in strada. A far drizzare le antenne ai responsabili dell'ordine pubblico, poi, è il fatto che queste possibili manifestazioni violente non sarebbero riconducibili a partiti politici od organizzazioni ben determinate bensì al cosiddetto «spontaneismo della crisi», una fattispecie già vista durante i giorni degli scioperi selvaggi nella raffineria di Lindsey che spiazzarono gli stessi rappresentanti sindacali.
Quindi, potenzialmente devastanti sia per l'impatto sia per la capacità di estendersi a macchia d'olio e senza dare punti di riferimento conosciuti alla polizia. Inoltre, il potenziale mix tra soggetti ad alta pericolosità e cittadini modello pronti a tramutarsi in violenti come risposta all'esasperazione potrebbe dar vita a fenomeni di emulazione e soprattutto di potenziale solidarietà da parte dell'opinione pubblica, disgustata dai "fat cats" della City e dai loro bonus e quindi pronta a giustificare la portata di atti anche violenti. Nonostante i toni trionfali con i quali Gordon Brown ha descritto la riuscita del vertice di Berlino tenutosi la scorsa settimana, la realtà britannica è tutt'altro che rosea: dopo Royal Bank of Scotland, nazionalizzata al 6 per cento e ormai alle soglie della scissione in due rami per consentire la nascita di una bad bank per scaricare i titoli tossici, ora è Llyod Tsb a spaventare il governo, soprattutto in vista della prima trimestrale che sarà un bagno di sangue in virtù delle svalutazioni figlie della disgraziata fusione con Hbos. Ma se i timori di cortei violenti che vedano spalla a spalla operai, no global ed ex colletti bianchi proletarizzati dalla crisi fanno lavorare in anticipo le forze dell'ordine, anche la carta della degenerazione xenofobo preoccupa non poco. La scorsa settimana a Gordon Brown è stato recapitato un memo nel quale si parla chiaro e tondo di "sfondamento" del British National Party nelle roccheforti del Labour a maggioranza di working class bianca: detto fatto, lo scorso weekend ha visto il partito razzista di Nick Griffin vincere per la prima volta un turno suppletivo strappando un seggio proprio al Labour a Sevenoaks District nel Kent.
Alcune rilevazioni dell'ufficio di pianificazione politica parlano del rischio di conquista di due, tre seggi da parte del Bnp alle prossime europee grazie alla disaffezione verso il Labour e al metodo di voto proporzionale. Senza contare che l'estate è da sempre il periodo "dei fuochi" in aree calde come le Midlands, territori ad alto impatto di immigrazione che vedono militanti del Bnp uniti a hooligans calcistici nella caccia al "paki".

l’Unità Lettere 24.2.09
Il testamento biologico
È davvero importante la mobilitazione in corso contro una cattiva legge sul testamento biologico, perché rende esplicito quanto la sempre annunciata, smentita, cercata e respinta unificazione delle sinistre si giochi proprio sulla difesa dei diritti umani e delle libertà individuali. È per questo che è stata importante la manifestazione sul tema a piazza Farnese, sabato scorso.
Paolo Izzo

Liberazione Lettere 24.2.09
Testamento biologico, uniti contro una cattiva legge
Cara "Liberazione", è davvero importante la mobilitazione in corso contro una cattiva legge sul testamento biologico, perché rende esplicito quanto la sempre annunciata, smentita, cercata e respinta unificazione delle sinistre si giochi proprio sulla difesa dei diritti umani e delle libertà individuali. Così come è stata importante la manifestazione sul tema a piazza Farnese, sabato scorso… Dispiace soltanto che la "piovra" Marco Pannella, così come l'ha definito Paolo Flores d'Arcais - direttore di "Micromega", non sia stato invitato a parlare. Quando si "annullano" i principali combattenti e resistenti delle iniziative politiche e civili, la battaglia e la resistenza stessa perdono un po' della loro forza, per essere consegnate a un chiassoso ribellismo, indistinto e scarsamente motivato da solide basi politiche e teoriche, che vieppiù rende vaga e lontana quella unificazione tanto auspicata.
Paolo Izzo radical-socialista, via e-mail

il manifesto Lettere 23.02.09
Dispiace che si "annullino" i veri combattenti
Caro Manifesto, è davvero importante la mobilitazione in corso contro una cattiva legge sul testamento biologico, perché rende esplicito quanto la sempre annunciata, smentita, cercata e respinta unificazione delle sinistre si giochi proprio sulla difesa dei diritti umani e delle libertà individuali. Così come è stata importante la manifestazione sul tema a piazza Farnese, sabato scorso… Dispiace soltanto che la “piovra” Marco Pannella, così come l’ha definito Paolo Flores d’Arcais - direttore di Micromega, non sia stato invitato a parlare. Quando si “annullano” i principali combattenti e resistenti delle iniziative politiche e civili, la battaglia e la resistenza stessa perdono un po’ della loro forza, per essere consegnate a un chiassoso ribellismo, indistinto e scarsamente motivato da solide basi politiche e teoriche, che vieppiù rende vaga e lontana quella unificazione tanto auspicata.
Paolo Izzo, radical-socialista

La Stampa Lettere 24.02.09
Diritti umani e bavaglio
E’ importante la mobilitazione contro una cattiva legge sul testamento biologico: rende esplicito quanto la sempre annunciata e respinta unificazione delle sinistre si giochi proprio sulla difesa dei diritti umani e delle libertà individuali. Così come è stata importante la manifestazione a piazza Farnese, sabato scorso… Dispiace soltanto che la «piovra» Marco Pannella, così come l’ha definito Paolo Flores d’Arcais, non sia stato invitato a parlare. Quando si «annullano» i principali combattenti e resistenti delle iniziative politiche e civili, la battaglia e la resistenza perdono un po’ della loro forza, per essere consegnate a un chiassoso ribellismo scarsamente motivato da solide basi politiche e teoriche.
Paolo Izzo, radical-socialista

Repubblica 19.5.85
Il gay della Fgci
intervista a Nichi Vendola di Stefano Malatesta


ROMA - Nichi Vendola ha 26 anni, è pugliese. Qualche giorno fa è stato eletto membro della segreteria nazionale della Fgci, la Federazione giovanile comunista. Ha un viso gradevole. In testa calza un berretto blu con visiera, da studente svedese. Intorno al collo è annodata una sciarpa di lana bianca. Porta al lobo sinistro un orecchino d' oro. Nichi Vendola è un gay, il primo attivista omosessuale entrato a far parte della dirigenza comunista. Dice senza asprezza polemica: "Sono sicuro che parlerai dell' orecchino d' oro. Ho già dato un' intervista in cui raccontavo un po' di cose, fatti personali e politici. Dopo ho avuto dei timori, credevo che ci fossero reazioni a Roma, nel partito. Invece i compagni sono stati benevoli. Mi hanno però avvertito: stai attento a non farti ingabbiare nel clichè, il gay alle Botteghe Oscure, eccetera. Prima c' erano i funzionari infagottati nei doppipetti grigi tagliati male, con le cravatte stonate in raso. Adesso l' omosessuale con l' orecchino. Al congresso giovanile avevo un magnifico, luminescente papillon sopra una camicia a righe. Dì, vuoi che ti stringa la mano sotto il tavolo?". Rispondo che il passaggio sotto le forche del commento becero è obbligato: cosa si vuole aspettare, finezze anglosassoni? L' umorismo in Italia, e anche altrove, è spesso di genere caserma, dovrebbe esserci abituato. Però mica posso far finta di essere venuto per le sue preclare virtù politiche di cui tutta l' Italia parla. Sono venuto perchè Vendola è il primo dirigente comunista gay dichiarato. Nel 1948 il Pci non ha espulso Pier Paolo Pasolini per indegnità morale? "Sono passati esattamente 37 anni. Sai cosa ho detto al congresso giovanile? Per noi comunisti non si tratta di difendere la grande dignità e i valori dell' omosessualità, ma di acquisire la diversità come elemento di ricchezza per chi vuole ancora trasformare il mondo. E' stato il passo più applaudito nel mio intervento". Mi ricordo di un altro intervento, più volte citato, fatto da Enrico Berlinguer quando era segretario della Fgci, su Maria Goretti: la additava ad esempio per le future generazioni dei comunisti. "Era il dopoguerra. I comunisti venivano descritti come bestie. L' accusa di essere intellettual-frocio-comunista, senza molta distinzione tra i termini, ugualmente vituperati, è stata merce corrente fino a non troppo tempo fa. Da parte del Pci si tentava di difendersi, di proporre dei modelli di moralità sotto quell' alluvione di vituperi. Il difetto stava nel prendere in prestito i modelli dalla cultura cattolico borghese". Ma c' era anche molta grettezza moralistica e bacchettona all' interno del partito. Chi conviveva con una ragazza veniva convocato e avvertito con l' usuale frase: "Compagno, è ora che regoli la tua posizione". E Togliatti ebbe dei problemi quando iniziò la sua relazione con Nilde Jotti. Secchia non scherzava. "Lo stesso Secchia, una volta caduto in disgrazia, fu accusato, non tanto larvatamente, di essere un finocchio, accusa infamante e degradante. Ma erano tempi diversi, il partito continuava a vivere in stato di allarme, non ci si potevano concedere lassismi personali con il nemico o con la sindrome del nemico alle porte. Però Pasolini, tra il ' 60 e il ' 70, già poteva scrivere liberamente anche di omosessualità su "Vie Nuove"". Pasolini era uno scrittore celebre, un poeta, "un' artista". Anche Visconti non venne mai attaccato: Togliatti ne ha fatto sempre grandi elogi. Ma era un' eccezione. L' aristocratico decadente se lo poteva permettere, proprio perchè aristocratico e decadente. L' operaio in fabbrica no. Diciamo la verità: i compagni lo avrebbero preso a calci nel sedere. "Su Visconti posso essere d' accordo. Ma lui non faceva professione di omosessualità, come non la fa Zeffirelli. In questo senso non sono "scandalosi". Invece Pasolini era provocatorio, almeno per quegli anni e il fatto che scrivesse su "Vie Nuove" è significativo. Però è vero che l' omosessuale in fabbrica, tra i compagni, non aveva vita allegra. Mio padre, comunista da sempre, un uomo magnifico, dolce, andava a fare le spedizioni per picchiare "i froci". Una volta mi ha detto: se ti ammazzassi, noi tutti potremmo riacquistare una dignità. Mi ha molto amato, ma per lui, come per tanti altri, gli omosessuali erano solo i turpi individui che adescavano i bambini nei giardinetti. Ma di queste cose non ne voglio più parlare". Non ho l' intenzione di continuare ad insistere su certi ritardi e manchevolezze del Pci. Ma qui, come in altre occasione, l' azione dei radicali mi sembra sia stata decisiva. Gli altri hanno seguito, anche con riluttanza: tutto questo non gli interessava, soprattutto non faceva parte della loro cultura. "I radicali hanno avuto dei meriti, creando movimenti, flussi, attraverso un' ottica garantista. Ma con qualche casella o piccolo spazio in più di libertà non cambi le regole del gioco, che sono rimaste quasi le stesse. Il "Fuori" voleva creare la cittadella gay, dove gli omosessuali si potessero sentir protetti. I comunisti sono sempre stati contro l' ideologia del ghetto: in ritardo, magari, però decisi a risolvere le questioni, non solo a presentarle, che è molto più facile. D' altronde basta andarsi a rileggere le centinaia di lettere che arrivavamo all' "Unità" e a "Rinascita"" durante gli anni 70: un dibattito libero". Mi dicono però che alti dirigenti del partito non siano stati particolarmente soddisfatti dell' elezione di un omosessuale nella segreteria della Fgci: Chiaromonte ad esempio. "Francamente nel Pci non ho mai avuto problemi, come li ho avuti in famiglia. Credo che oggi comunista significhi anche rispetto dell' altro, essere condannati ad una contaminazione attraverso il rapporto umano: un rischio che bisogna accettare. Lo sguardo inquietante di un altro uomo può farti crollare il tuo castello di certezze, ma è inutile e stupido fuggire. Sono i liberali che hanno sguardi paralleli, che non s' incrociano mai: l' idea del rapporto come due monologhi. Questa è mummificazione dell' esistente. Libertà comunista è dinamismo, è contaminazione, con le nostre coscienze e i nostri corpi, è buttarsi nella mischia. Io l' ho fatto, sono diventato coscientemente omosessuale, per poi recuperare l' eterosessualità, per poi trovar la sessualità, senza aggettivi. Vorrei che ci capissimo, non sto parlando di membri e di apparati genitali, altrimenti torniamo alla caserma". Io credo di capire, ma non so quanti siano in grado di farlo nel Pci, non parlo della Fgci... "Giovanni Berlinguer è uno che capisce: aperto, vivace. Anche Natta ci aiuta. Abbiamo avuto un dibattito con lui molto libero. Ripete sempre che bisogna andare fino in fondo, che bisogna parlare, confessarci di più - non dal prete con la cotta - togliersi di dosso tutti i residui di intolleranza. Gli altri non so, sono arrivato da pochi giorni a Roma. Certo l' età conta, ognuno forma la propria cultura in un momento storico preciso. Non è facile affrontare un tema come quello della pedofilia ad esempio, cioè del diritto dei bambini ad avere una loro sessualità, ad avere rapporti tra loro, o con gli adulti - tema ancora più scabroso - e trattarne con chi la sessualità l' ha vista sempre in funzione della famiglia e dalla procreazione. Le donne, da questo punto di vista, sono notevolmente più sensibili. Ma il Pci non è un organismo matriarcale".