giovedì 26 febbraio 2009

l’Unità 26.2.09
Ora Sacconi limita il diritto di sciopero
di Giuseppe Vespo


Astenersi dal lavoro svolgendo comunque la propria mansione e senza ricevere alcuna retribuzione.
Eccolo lo sciopero virtuale. Qualche mese fa era solo un’idea, adesso rischia di diventare reale. È la chicca contenuta nel disegno di legge delega sulla riforma dello sciopero nei servizi pubblici, che interviene sulle regole della protesta nel settore dei trasporti.
Il testo arriverà domani in Consiglio dei ministri nella carpetta del ministro Sacconi, primo sostenitore della virtualità della protesta e della riforma delle regole di manifestazione sindacale nel pubblico impiego. L’obiettivo dichiarato è conciliare meglio il diritto di sciopero dei lavoratori dei trasporti con il diritto di mobilità dei cittadini. Secondo la bozza attuale, la retribuzione del lavoratore che ha dichiarato di partecipare alla protesta - continuando a svolgere la propria mansione - verrà destinata, insieme alla somma che deve erogare l’azienda, a fini sociali. In questo modo - nell’intento di chi ha pensato la riforma - non si danneggiano i cittadini e si fa comunque una pressione sull’impresa.
REFERENDUM OBBLIGATORIO
Tra le altre cose, il ddl prevede un referendum consultivo obbligatorio per i sindacati che non rappresentano il 50per cento dei lavoratori pubblici del settore in cui è indetto lo sciopero. In sostanza bisognerà contare le adesioni prima dell’astensione dal lavoro, in modo da poter quantificare la partecipazione. L’obiettivo è evitare che la proclamazione dello sciopero da parte di una sigla poco rappresentativa possa creare più disagi dello sciopero stesso. E nei servizi di particolare rilevanza, servirà anche l’adesione preventiva da parte del singolo lavoratore.
Sempre per evitare che la proclamazione dello sciopero possa creare maggiori disagi della sua stessa manifestazione, col ddl si introdurranno «adeguate procedure per un congruo anticipo della revoca, al fine di eliminare i danni causati dall’effetto annuncio e di una più efficiente disciplina delle procedure di raffreddamento e conciliazione».
La legge conterrà poi anche una «semplificazione delle regole relative agli intervalli minimi tra una proclamazione e la successiva. Nonché una revisione delle regole sulla concomitanza di scioperi che incidano sullo stesso bacino di utenza».
Non bastasse, il governo potrebbe rivedere e «aggiornare il regime sanzionatorio, per tutti i servizi pubblici essenziali». Così da meglio intervenire nel caso di violazione delle regole «da parte dei promotori del conflitto, delle aziende che tengono comportamenti sleali e dei singoli lavoratori con specifico riferimento al fenomeno degli scioperi spontanei».
Nascerà infine una Commissione per le relazioni di lavoro con il compito di «verificare l’incidenza e l’effettivo grado di partecipazione agli scioperi». Questo per fornire al governo, alle parti sociali e ai cittadini utenti dei servizi pubblici «un periodico monitoraggio sull’andamento dei conflitti».
L’ex ministro ministro del Lavoro, Cesare Damiano chiede per il Pd che si apra un tavolo di confronto con le parti sociali. Mentre Donadi dell’Idv parla di sciopero virtuale in democrazia virtuale. Cgil esclusa, il mondo sindacale apre parzialmente alla riforma. «Purché sia solo nei trasporti», dicono Bonanni (Cisl) e Polverini (Ugl), e «senza segnalare le adesioni individuali», aggiunge Angeletti (Uil).
Per Corso d’Italia è intervenuto il segretario confederale Fabrizio Solari: «Mi auguro che a guidare l’iniziativa del governo sul diritto di sciopero non sia, dopo aver favorito la rottura sindacale, il tentativo di impedire che il dissenso possa manifestarsi».
Domani in Consiglio dei ministri il ddl delega sulla riforma dello sciopero nei servizi pubblici. Contiene la protesta virtuale di Sacconi, il referendum consultivo prima delle manifestazioni e nuove sanzioni.

Liberazione 26.2.09
La furia demolitrice di Brunetta
di Carlo Podda, segretario generale FP-Cgil


Dopo mesi di roboanti annunci, di mirabolanti promesse, di piani industriali per ridare efficienza e dignità ai servizi pubblici in questo Paese, il ddl Brunetta di riforma del rapporto del lavoro pubblico è stato definitivamente approvato al Senato. Ha ottenuto una striminzita maggioranza di 4 voti, la dichiarazione di voto contrario e l'abbandono dell'aula da parte della opposizione. Il tutto dopo una prima votazione dove era venuto meno il numero legale.
Per essere un provvedimento che doveva, secondo alcuni, rappresentare il primo fulgido esempio di politica bipartisan, non c'è male davvero. E' stato invece il primo segnale positivo dato dall'opposizione di fronte aduna legge onestamente impresentabile. C'è da pensare che su questo mutato atteggiamento (solo pochi mesi fa il Pd al Senato si era astenuto), un qualche peso l'abbia avuto anche l'opposizione sociale che con forza è tornata a far sentire la sua voce con lo sciopero e la straordinaria manifestazione nazionale del 13 febbraio scorso in Piazza S. Giovanni a Roma.
La crisi che ci attraversa avrebbe bisogno di un sistema di servizi più esteso, efficiente, universalmente accessibile e diffuso in tutto il territorio nazionale. Ma di questo bisogno non c'è traccia nella Riforma Brunetta. Ciò che in effetti risulta dalla furia demolitrice del ministro è un sistema nel quale la privatizzazione del lavoro pubblico e la sua equiparazione nelle regole a quello privato non c'è più. Il lavoro sarà d'ora in avanti regolato dalla legge, dagli statuti e dai regolamenti dei singoli enti ed il contratto potrà derogare da leggi statuti e regolamenti solo per ciò che esplicitamente sia previsto dalle norme emanate.
C'è da chiedersi cosa vi sia davvero dietro questa scelta, oltre all'evidente intenzione di demolire la contrattazione e con essa il sindacato e le Rsu. La vera ragione va ricercata nella volontà di attribuire alla politica la facoltà di intervenire a sua discrezione nella organizzazione e nella gestione degli apparati pubblici a fini di consenso e per finanziare spese che diventano spesso occasioni di incrocio tra gli affari e la cattiva politica. Si provi solo ad immaginare cosa può significare per un ente pubblico, determinare unilateralmente la struttura dell'organizzazione di un servizio, la classificazione del suo personale e la relativa dipendenza funzionale e gerarchica.
Si pensi, ancora, alle occasioni di innesco di spesa clienterale che a ridosso di ogni occasione elettorale si creeranno quando il responsabile del singolo ente potrà con un proprio atto autonomo promuovere questo o quel gruppo di lavoratrici e lavoratori.
In questo quadro il sindacato non serve, anzi è d'intralcio: «La Cgil è il mio vero grande nemico...» ha dichiarato Brunetta. A coloro che credono ancora nelle buone intenzioni di questo ministro chiedo di domandarsi se le scelte adottate miglioreranno o estenderanno i servizi ai cittadini e alle imprese.
Può per questo essere sufficiente un'Autorithy le cui sole certezze sono i compensi eccedenti i tetti massimi previsti per la P.A. (che direbbe Obama che ha disposto un tetto massimo di 500.000 dollari anche per i manager privati?), del tutto svincolati dai risultati che questa Autorithy dovrebbe raggiungere? Quanto agli incentivi al merito sarebbero sufficienti le norme contrattuali se ci fossero risorse per il merito, ma l'accordo non firmato dalla Cgil il 31 ottobre 2008 stabilisce un aumento per il biennio di 40 euro medi procapite per il 2009 e di 8 euro mensili da aprile a dicembre 2008. Del resto, questo accordo, nelle sue strutture portanti, ha solo anticipato l'accordo separato sul modello contrattuale di gennaio ed è stato sonoramente bocciato dal referendum, promosso dalla F. P. Cgil. Il lavoro pubblico fa uno spaventoso salto all'indietro e con esso 60.000 precari quest'anno e circa 200.000 precari nei prossimi due anni si apprestano ad essere licenziati, sprovvisti di qualsiasi tutela e di ammortizzatori sociali e con la conseguente chiusura di servizi reali e necessari ai cittadini. Questo è quello che tiene in piazza il lavoro pubblico ormai da giugno e che ha prodotto la scelta dell'Unità anticrisi fatta dai lavoratori pubblici e meccanici che ha battuto, questo possiamo già dirlo, chi voleva dividerli.
Questo Paese ha bisogno del lavoro: del lavoro pubblico come di quello privato, ma di un lavoro decente e di salari decenti, di una rete diffusa di welfare ed ammortizzatori sociali. Persino il governatore della Banca d'Italia Draghi l'ha capito, mentre la Corte dei Conti, nel silenzio dei media, denuncia la non rispondenza tra le entrate stimate nella legge finanziaria ed il reale gettito fiscale reso noto dall'Agenzia dell'Entrate.
Rovesciare il paradigma di queste politiche economiche è necessario per far ripartire il Paese, attenuare e superare le ingiustizie sociali. La riforma Brunetta va nel segno opposto ed insieme all'accordo separato del 22 gennaio ed alla prospettata manomissione del diritto di sciopero, sostanzia l'idea di una società autoritaria e corporativa. Una prospettiva che una sinistra che non smarrisca almeno il senso delle ragioni della riduzione delle disuguaglianze si deve impegnare a contrastare. Una battaglia, questa, di cui anche la Cgil ha straordinariamente bisogno per non smarrire il suo profilo confederale.

l’Unità 26.2.09
Se è il governo a fomentare l’instabilità sociale
di Nadia Urbinati


Alimentare la rabbiosa reazione contro il diverso puó essere politicamente conveniente per rendere il bisogno di sicurezza inappagato e continuo. Anche per giustificare la propria impotenza

L’Italia, scriveva Giuseppe D’Avanzo su «Repubblica» di alcuni giorni fa, è sull’orlo di una nuova civiltà, quella dell’odio. Possiamo aggiungere che sta avviandosi a diventare una società sempre più autoritaria, per non dire peggio. Molte forze cooperano a questa trasformazione, alcune di esse scientemente, tutte in maniera scellerata: una parte preponderante dei partiti che formano la maggioranza; parrocchie, parroci e gerarchie cattoliche; movimenti sociali e politici rappresentativi soprattutto di alcune aree del paese; bande violente e razziste un po’ dovunque. Assistiamo al fiorire di proposte schizofreniche, che parlano la lingua della carità cristiana quando è in questione la sospensione dell’accanimento terapeutico e la lingua della violenza persecutoria quando è in questione la cura di persone non italiane. Le stesse forze che urlano per la vita urlano per la sua violazione; le stesse che invocano la perenne cura propongono di servirsi del bisogno di cura dei clandestini come mezzo di schedatura persecutoria.
Diverse nel contenuto, queste posizioni sono schizofreniche in apparenza, ma identiche nel tenore e nel significato: la volontà di una parte (anche se larga) di decidere con imperio su tutto e contro tutti: contro i giudici quando mettono in atto la legge; contro la nostra costituzione che con la divisione dei poteri sancisce la sovranità della legge, non della volontà del più forte; contro la libera scelta dei singoli che la costituzione difende; contro la morale umanitaria e universale che guida convezioni e trattati firmati anche dall’Italia e che impegnano l’Italia al rispetto della vita, della dignità e dei diritti fondamentali di ogni essere umano che giunge o vive sul territorio nazionale, che parli o no la lingua della maggioranza (come se gli italiani parlassero un’identica lingua dalle Alpi alla Sicilia!).
Ma un paradosso c’è: con un governo che gode di una così ampia maggioranza ideologica e numerica, la società civile invece di essere in pace è in guerra permanente, ogni giorno scossa da nuovi e radicali conflitti. Si tratta però di paradosso fittizio. E’ ragionevole pensare, gli eventi paradossali di questi giorni istigano a pensare, che sia proprio questa debordante maggioranza a trovar conveniente generare un senso di instabilità sociale e di disordine. Fomentare la rabbiosa reazione contro il diverso può essere politicamente conveniente per rendere il bisogno di sicurezza inappagato e continuo. Fomentare l’odio verso i giudici che hanno “firmato la condanna a morte di Eluana” può essere conveniente per alimentare il discredito dei giudici e sostenere la politica del governo sulla giustizia. La logica è studiata: avendo costruito la propria legittimità ideologica sul bisogno di sicurezza, questo governo è necessariamente interessato ad alimentare la percezione dell’insicurezza. Esso ha bisogno di cittadini impauriti per essere legittimato nel proprio ruolo e, nello stesso tempo, per riuscire a giustificare la propria impotenza quando è necessario.
Creare il bisogno di sicurezza alimentando la paura e l’insicurezza con la moltiplicazione esponenziale delle polizie: rendendo se possibile tutti gli italiani dei poliziotti, dai medici che dovrebbero diventare aguzzini dei pazienti non italiani ai pattugliatori padani in camicia verde.
La cenerentola è la politica, la quale giuoca un ruolo infimo e irrisorio in questo clima permanente e totale di stato d’emergenza, dove ad essere messe in circolo sono le opinioni morali, quelle religiose, quelle razziste, quelle personali di questo o quel ministro - opinioni cioè non politiche perché non mediabili e non traducibili in linguaggio normativo. Dove sia la sfera pubblica in questa giungla di vocabolari nessuno più lo sa. Con gravissimo rischio per tutti.

l’Unità 26.2.09
Bio-testamento: ora si divide il Pdl
Veronesi: una resa le mediazioni Pd
di Jolanda Bufalini


Lede i diritti della persona: dubbi di costituzionalità sul ddl Calabrò. Botta e risposta fra Gasparri e Pisanu. Franceschini a Micromega: «La linea sul testamento biologico la decidono partito e parlamentari».

Maurizio Gasparri dà del distratto al senatore Pisanu, reo di aver detto che non voterà una legge che dà preminanza allo Stato sui diritti della persona. Ribatte il presidente dell’Antimafia: «Sì è vero. A volte sono così distratto che misfuggono persino gli alti pensieri del senatore Gasparri». Parole fra noi leggere: ieri il testimone delle divisioni sul testamento biologico è passato al centro-destra.
Non si aspettava il senatore Antonio Tomassini che la botta sarebbe arrivata dai suoi stessi colleghi di maggioranza. Mentre lui imponeva in commissione sanità tappe forzate (sedute anche in notturna fino a sabato) e accusava l’opposizione di ostruzionismo, lo stop è arrivato dalla commissione Affari costituzionali. Giuseppe Saro(Pdl) ha spiegato: «Ritengo che vi sia un'impostazione che va contro la libertà e l'autodeterminazione del singolo». Per questi motivi «ci vuole una valutazione vera». Dubbi che sono anche del relatore Bascetto e del presidente Vizzini. Donde «un esito non scontato» del voto sulla conformità costituzionale, spiega Stefano Ceccanti. E una riunione dei senatori Pdl con il segretario alla presidenza del consiglio Gianni Letta, che deve fronteggiare anche un documento di 53 parlamentari, fra cui il sottosegretario Mantovano che vorrebbero aggiungere la respirazione (ventilazione) forzata a nutrizione e idratazione.
Lettera aperta
Ignazio Marino, intanto, si è visto respingere come improponibili gli emendamenti sulle cure paliative e le terapie del dolore. «Se non si vuole fare un manifesto ideologico e di burocratizzazione della morte ci devono essere le risorse per aiutare davvero le persone», ha detto Marino, promettendo battaglia. Assurdo, ritiene Francesco Sanna, «impedire a un ramo del Parlamento di discutere dell’argomento in tutta la sua complessità».
In una lettera aperta firmata da Umberto Veronesi, Stefano Rodotà, Paolo Flores d'Arcais e Andrea Camilleri a Dario Franceschini, si contestano gli emendamenti del Pd, «sono una resa», perché «resterebbe intatta la violenza dell’imposizione delle cure. Non parliamo della cosiddetta “mediazione” di Rutelli, benevolmente accolta da Quagliariello» Risponde Dario Franceschini: «Riconosco l’autorevolezza dei firmatari ma non ci facciamo imporre la linea da nessuno». E spiega Donatella Poretti, radicale: «Gli emendamenti ampiamente rappresentativi della posizione del Pd ci hanno permesso di realizzare un'iniziativa politica di estrema contrarietà al testo Calabrò. Grazie a questo, il centrodestra sta mostrando tutte le sue contraddizioni e divisioni».

Repubblica 26.2.09
L'oncologo firma una lettera aperta al segretario con Rodotà, Camilleri e Flores d'Arcais su Micromega
E nel Pd è scontro Veronesi-Franceschini
"Una resa quegli emendamenti". "Nessuno ci può dettare la linea"
La radicale Poretti, vicina alle posizioni del medico, difende le proposte dei Democratici: grazie ad esse il Pdl si sta spaccando
di Francesco Bei


ROMA - Nel Pd, che fatica a trovare una sintesi tra laici e cattolici sui temi etici, si abbatte la lettera aperta di Micromega sul testamento biologico. Un appello rivolto allo «stimato onorevole Franceschini» e firmato da Andrea Camilleri, Paolo Flores d´Arcais, Stefano Rodotà e soprattutto Umberto Veronesi, oncologo di fama mondiale e senatore democratico. Una lettera che giudica gli emendamenti del Pd sul disegno di legge "fine-vita" «una resa» al fronte integralista e suscita così la piccata replica del segretario del partito: «Non ci facciamo dettare la linea dall´esterno».Per i quattro firmatari «il banco di prova» del Pd rispetto alla laicità sarà proprio l´atteggiamento rispetto al ddl Calabrò. «Laicità - precisano Veronesi e gli altri - significa che nessuna convinzione religiosa o morale viene imposta per legge da un gruppo di persone, per quanto ampio, alla totalità dei cittadini. E questo vale più che mai per quanto riguarda ciò che è più proprio di ciascuno, la sua stessa vita e la parte finale di essa». Dopo aver citato l´articolo 32 della Costituzione, la convenzione di Oviedo, «e numerose e univoche sentenze della Cassazione», i quattro proseguono: «Sulla propria vita, insomma, può decidere solo chi la vive, e nessun altro. Questo l´Abc della laicità che l´Europa tutta ha adottato in campo medico. Il disegno di legge Calabrò distrugge tale diritto (...) Il cosiddetto testamento biologico diventa una beffa. Qualsiasi cosa abbia stabilito il cittadino, il sondino gli sarà messo in gola a forza». Nella lettera, dopo aver insistito sul «carattere anticostituzionale e disumano» del ddl, i firmatari affondano il colpo sul Pd: «Purtroppo gli emendamenti proposti dal suo partito (primo firmatario Anna Finocchiaro) lasciano intatta la violenza dell´articolo 2 comma 2, e aprono solo un modesto spiraglio rispetto a quella dell´articolo 5 comma 6. Non parliamo della cosiddetta "mediazione" di Rutelli, praticamente indistinguibile dal ddl della maggioranza, e che non a caso è stata benevolmente accolta dall´on. Quagliariello». Né andrebbe meglio lasciando libertà di coscienza ai teodem: «Se venisse presentato un disegno di legge che stabilisce la religione cattolica come religione di Stato, proibisce il culto ai protestanti valdesi e obbliga gli ebrei a battezzare i propri figli, sarebbe pensabile lasciare i propri parlamentari liberi di votare secondo coscienza? O non sarebbe un elementare dovere, vincolante, opporsi a una legge tanto liberticida?».Le reazioni non si fanno attendere. Anzitutto quella del destinatario della lettera, Dario Franceschini. «Ho letto con molta attenzione la lettera di Veronesi ma, con tutto il rispetto, la linea su questi temi la decide il partito - puntualizza il segretario durante l´assemblea dei parlamentari di Camera e Senato - la decidono i parlamentari e nessuno, anche autorevole, ce la può dettare». Anche la radicale Donatella Poretti, pur sulle stesse posizioni di Veronesi, difende la scelta degli emendamenti del Pd: «Grazie anche a questa iniziativa che ci vede impegnati in commissione Sanità, il centrodestra sta mostrando tutte le sue contraddizioni e divisioni». E il sindaco di Torino Sergio Chiamparino, appena nominato da Franceschini nella segreteria, ammette che «deve ancora palesarsi una linea di partito», ma definisce gli emendamenti della Finocchiaro «un buon passo avanti». Critico con la lettera anche Stefano Ceccanti: «L´appello di Micromega va in una direzione altrettanto sbagliata rispetto a quella del testo Calabrò, opponendo al proibizionismo assoluto una visione di individualismo assoluto».

Liberazione 26.2.09
Giorgio Tonini: «Punti di vista diversi sono una ricchezza»
«Diamo credito a Rutelli o rischiamo la scissione»
di Angela Mauro


Mentre Umberto Veronesi fa sapere a Dario Franceschini che gli emendamenti del Pd sul testamento biologico «sono una resa» e mentre, dall'altra parte, una teodem come Paola Binetti tira la coperta dalla sua sposando in toto la posizione del Pdl («voterò il testo Calabrò»), tra i Democratici c'è chi lancia un appello a non intestardirsi su «posizioni identitarie». Giorgio Tonini, cattolico e senatore veltroniano del Pd, non ci sta a bollare come «strumentale» la proposta di Francesco Rutelli di affidare all'alleanza terapeutica medico-famiglia ogni decisione su alimentazione e idratazione dei pazienti non in grado di provvedere a se stessi. «Ragioniamo nel merito - dice Tonini - perché nel Pd abbiamo bisogno gli uni degli altri, laici e cattolici».
Per i vertici del gruppo Pd in Senato, quella di Rutelli non è una mediazione ma un gioco politico. E così dice pure il neosegretario Franceschini, pur garantendo rispetto per chi la pensa diversamente sulle questioni etiche. Non è così?
Il nostro gruppo ha trovato con fatica e impegno una posizione unificante che va sostenuta e difesa.
E' la mediazione non tra due componenti ma tra due principi, il valore della vita umana e quello della libertà, entrambi sanciti dall'articolo 32 della Costituzione. E' una posizione che respinge le tentazioni di abbandono terapeutico che possono abbattersi soprattutto sui soggetti più svantaggiati. Dice che eventuali volontà di sospensione dell'alimentazione e dell'idratazione devono essere dichiarate nel testamento biologico, la cosiddetta Dat (Dichiarazione anticipata di trattamento, ndr.). Il Pdl ha alzato un muro e in questa situazione si è inserita la proposta di Rutelli. Due settimane fa Rutelli ha votato la mozione della maggioranza e ha compiuto un errore, io l'ho detto. Ma adesso è diverso. Direi che la sua posizione è complementare a quella del gruppo ed è un tentativo di mediazione, che presenta un difetto perchè esclude la Dat, ma dobbiamo anche considerare che probabilmente, almeno per un lungo periodo, gran parte degli italiani non faranno il testamento biologico. Dunque, direi che la proposta di Rutelli offre un margine di flessibilità.
Rutelli e i suoi non sono dunque soli nel Pd?
Dobbiamo guardare all'idea, altrimenti viviamo in un mondo fatto di ombre e sospetti. Se emerge un'idea, seppure in modo tortuoso, perchè non pensarci? Dal punto di vista politico, non vedo divisioni nel Pd. Adesso bisogna capire cos'è più utile dal punto di vista del dialogo in Parlamento.
Il Pdl pare interessato alla proposta Rutelli.
Se è così, è utile.
Ma c'è o no un rischio di scissione centrista nel Pd?
Dobbiamo decidere l'approccio del Pd. Partire da punti di vista diversi è una ricchezza e se ci crediamo non ci sarà mai scissione. Se dovessimo pensare che la soluzione prevalente debba essere esclusivamente il punto di partenza di maggioranza, magari laico e di sinistra, allora ognuno si fa il suo partito e basta. Se invece la soluzione prevalente è frutto di uno sforzo di contaminazione, non ci sciogliamo. Il vero dilemma è questo.
Intanto, ieri prima riunione della nuova segreteria Franceschini con i segretari regionali. Il 21 marzo, assemblea dei circoli del Pd. La candidatura di Bersani per il prossimo congresso sta minando i rapporti interni al Pd?
Sarebbe bene avanzare le candidature quando è il momento. Bersani l'ha fatto quando non era il momento, c'era un segretario in carica ed eravamo alla vigilia del test elettorale in Sardegna. Ora c'è Franceschini al timone e dal suo sforzo dipende il Pd, dobbiamo essere tutti solidali con lui. E al congresso di ottobre, si vedrà. Se la piattaforma programmatica del partito è fatta di orgoglio identitario di sinistra, provocheremmo delle fughe. Se invece nasce dall'incontro tra identità diverse, diventa crescita dialettica. Fare del Pd una competizione tra identità è rischioso, la minoranza potrebbe sentirsi ospite... Dunque, bisognerebbe rinviare le candidature a quando sarà il momento ed evitare quelle identitarie: devono essere democratiche.
Allora un Bersani è troppo identitario? Dovrebbe ritirarsi dalla corsa?
Ha detto di avere delle idee. Spero non siano identitarie, ci porterebbero indietro.
Se così fosse, anche lei si sentirebbe un ospite nel Pd?
Se così fosse, il Pd sarebbe finito e saremmo tutti naufraghi con la colpa storica di aver sprecato un'idea e un'occasione.

Liberazione 26.2.09
Corrado Augias: «Ci sono troppi macigni sulla strada della laicità»
di Valerio Venturi


Corrado Augias il moralizzatore. Giallista, volto-tv, viaggiatore e "racconteur" di città, il giornalista ha deciso in tempi recenti di occuparsi di Cristo e di cristiani: ora è arrivato a Giordano Bruno, ed anche così si è attirato gli strali dei clericali più conservatori. L'hanno attaccato da ogni lato. La sua colpa? Aver parlato in termini terreni di questioni divine.
L'ultimo suo lavoro è uno spettacolo teatrale, Le fiamme e la ragione . Nel testo, viene proposta una delle pagine più tragiche del pensiero scientifico e culturale del nostro paese: l'assassinio, mediante condanna al rogo, di Giordano Bruno, uno dei massimi geni della storia della cultura occidentale. Bruno era un frate domenicano, scrittore e filosofo; venne portato al rogo dalla Santa Inquisizione per le sue teorie poco fedeli alla linea. Parlarne significa occuparsi dei rapporti tra Chiesa e Stato, tra Chiesa e politica; soprattutto tra Chiesa e cultura. La vicenda del filosofo eretico «diventa un momento di riflessione imprescindibile per atei, agnostici e cattolici», secondo quanto scritto nella presentazione dello show.
Non è la prima volta a teatro per Augias. All'inizio degli anni '60 ha partecipato al movimento dell'avanguardia teatrale romana con il "Teatro del 101" diretto da Antonio Calenda, per il quale ha scritto Direzione Memorie e Riflessi di conoscenza - protagonista Luigi Proietti. E a teatro è tornato anche in anni più recenti con L'Onesto Jago , messo in scena dal teatro stabile di Genova.
Ora gira con il monologo su Giordano Bruno, che arriva dopo la pubblicazione dei due fortunati libri: Inchiesta su Gesù e Inchiesta sul Cristianesimo , entrambi editi da Mondadori.
Augias, per quale motivo ha deciso di occuparsi di Giordano Bruno nel suo ultimo show?
L'abbiamo scelto perchè è una grande figura trascurata, perchè pensavamo che valesse la pena di raccontare la sua tragedia. Questo accadde due anni fa, quando iniziammo a lavorare al testo e alla messa in scena. Poi l'attualità di questo nostro povero Paese ci è venuta addosso, e la vicenda di Bruno si è caricata, da sola, di valori che due brevi interventi del Presidente della Corte Costituzionale - che intercalano il racconto - riescono a illustrare benissimo: in un primo contributo viene fatto un elogio del dubbio; nel secondo si dice che una religione come quella cattolica ha due strade davanti: quella della carità e quella della verità. A seconda di cosa sceglie, sta più o meno vicina al Vangelo. ...Poi, io faccio il mio mestiere di cronista. Il racconto, su Giordano e come la pensava, è incentrato sulle vicende terribili che gli sono capitate da quando viene denunciato a Venezia a quando viene ammazzato a Roma nel 1600 e sulle ragioni complesse - che sono anche politiche e tattiche - per le quali quel disgraziato finì al rogo.
Non è la prima volta che si occupa del rapporto fede/ragione e più in generale del cristianesimo. Per quale motivo?
Io non sono cattolico, mai mi sono interessato a questo "problema", mi è venuto addosso da solo. La presenza della Chiesa nella vita pubblica è diventata così assidua che mi è successo di chiedermi: Come mai?... Allora sono andato alle radici, per capire. Ho scritto un libro con uno storico del cristianesimo - Mauro Pesce - e mi sono fatto raccontare Gesù come uomo, non secondo la teologia. Poi, nel mio ultimo libro, ho chiesto a Remo Cacicchi come è nato il cristianesimo, quanto tempo ci ha messo a diventare religione a sé. Alcuni argomenti sono stati "attirati" da altri affrontati. Così siamo arrivati a Giordano Bruno. Nel 2000, al 400° anniversario del martirio, ci fu un tentativo del segretario di Stato della Santa Sede Sodano, che tentò di dire, a mezzabocca, che gli era dispiaciuto un po' per come era andata...
Così andaste avanti decisi. Ma non la disturba il fatto che i suoi lavori suscitino più polemiche e attacchi che mea culpa?
Le polemiche - per Inchiesta su Gesù - arrivarono e furono forti; ci furono attacchi da parte dei gesuiti, dei vescovi, ma credo derivassero dal fatto che certi ambienti - non tutta la Chiesa - si ritengono depositari, in regime di monopolio, della verità rivelata e guardano con ostilita chi affronta certi argomenti privandoli della lettura secondo fede. Lo stesso fenomeno è accaduto con Inchiesta sul Cristianesimo . Testo che ha un primato. In pochi giorni dall'uscita ha ricevuto tre stroncature: su Avvenire , Famiglia Cristiana , Il foglio . Critiche che rispondono sempre allo stesso criterio: fuori le mani dalla nostra materia esclusiva. Ma solo una parte della Chiesa ha reagito così. Da altri il mio lavoro è stato accolto bene: in certi circoli di cristiani, ad Assisi, ho ricevuto persino affetto. Un affetto che ho ricambiato.
Il suo spettacolo e i suoi libri hanno ricevuto per ora grandi riscontri di pubblico. Per quale motivo, secondo lei?
Il successo del libro su Gesù fu inaspettato anche per la casa editrice. Oltre mezzo milione di copie vendute: credo che quel lavoro - come i seguenti - rispondesse alla curiosità diffusa di leggere un personaggio spogliato dal mantello con cui viene solitamente conosciuto e restituito semmai con la drammaticità che lo caratterizza.
Sta parlando di Gesù, ma il discorso vale anche per Bruno. Perchè l'interesse si è esteso in generale al cristianesimo?
Inchiesta sul cristianesimo è un seguito del mio primo lavoro e risponde allo stesso tipo di curiosità. Racconta, in un dialogo, come accadde che una corrente minoritaria del giudaismo si staccò dalla matrice e divenne religione a sè. Questo è l'itinerario che porta fino a Costantino; un percorso sorprendente. Io pongo domande da profano, ingenue; ascoltando le risposte di Cacicchi sono rimasto colpito dalla quantità di informazioni che quella storia può dare.
Che idea si è fatto?
Il guaio del cristianesimo, nato benissimo, si chiama Imperatore Costantino. Lui ha fatto della fede in Gesù, che era tanto bella, una religione di stato. Ha messo insieme due cose che non devono andare insieme: religione e politica. Da allora l'anello non si è sciolto.
Nel suo testo lei scrive: "Gesù non ha mai detto di voler fondare una religione, una Chiesa, che portassero il suo nome"; (…) "non ha mai istituito alcuna gerarchia ecclesiastica finché fu in vita". "Nulla era più lontano da lui di una congerie di leggi, uno stato sovrano dotato di territorio, moneta, esercito" ... Che ora, però, esiste. Il Vaticano. Attore politico anche nel nostro Paese, ascoltato a destra e a sinistra.
La tentazione confessionale sta diventando più pressante. Il testo sul testamento biologico appena approvato dal governo, ad esempio, è spaventoso; è un altro macigno buttato sulla strada dello stato laico. La sinistra dorme, per le complesse ragioni che conosciamo tutti. E' lì che non reagisce.
Qual è la differenza che esiste tra scienza e teologia?
La scienza tende a un instancabile avvicinamento a verità perfettibili, la teologia tende a considerare immutabile la sua verità, perfino quando le scoperte della scienza la rendono palesemente inverosimile. Si muovono su piani distinti Per ognuna delle due ci sono spazio e legittimità nella coscienza e nei sentimenti degli individui. Assai meno nel campo delle attività razionali e pubbliche.

il Riformista 26.2.09
bio-testamento
Se la democrazia debba occuparsi del bio-testamento
Che cosa ha da dire la filosofia
di Biagio De Giovanni


La vita rompe da tutte le parti le frontiere che la politica magari vorrebbe darsi, più che mai oggi che sono in crisi le forme consolidate della rappresentanza. La filosofia può almeno fornirci un orizzonte

La filosofia può aiutarci a rispondere a qualcuna delle questioni che si sono aperte intorno al testamento biologico, o almeno a formulare un orizzonte? A giudizio di Angelo Panebianco, questo possibile aiuto va rifiutato in limine, giacché la democrazia non è attrezzata per rispondere a quesiti filosofici, tesi che così formulata sembra incontestabile. Claudia Mancina, sul Riformista di ieri, sembra accettare questa premessa, anche se spinge il ragionamento in un'altra direzione e verso conclusioni diverse, per me fra l'altro più condivisibili, perché più vicine a una interpretazione del principio di autodeterminazione, ma in un quadro, forse, di agnosticismo "afilosofico" che può essere discusso.
Se ora si torna alla domanda che mi sono posto all'inizio, va detto che si sottovaluta il fatto che la stessa democrazia è un prodotto lungamente elaborato proprio dalla filosofia, e che dunque è possibile che ci siano filosofie della democrazia in grado di aiutare a impostare i quesiti, pure drammatici, che sono davanti agli occhi di tutti, e che queste filosofie non si arrendano all'agnosticismo: «Sono fatti che non mi riguardano proprio perché sono una democrazia», come se quest'ultima potesse a lungo convivere con l'indifferenza rispetto a problemi che stringono da ogni dove la coscienza contemporanea.
Su quest'ultima formulazione bisogna riflettere un momento. Si può muovere, intanto, da una facile previsione. I quesiti emersi a partire dal caso Welby fino a quelli ancora scottanti, si faranno sempre più pressanti nel dibattito pubblico, sospesi fra conquiste tecnologiche, riflessioni etiche, scelte politiche e normative, interventi confessionali. Al tramonto dei grandi racconti storico-apocalittici sul destino del mondo, corrisponde specularmente un più netto ed esplicito ingresso della vita (la vita migliore, la vita assissita, la vita privata, e tante altre "vite" di cui parlano anche le costituzioni) nella cura della politica. La vita rompe da tutte le parti le frontiere che la politica magari vorrebbe darsi, più che mai oggi che sono in crisi le forme consolidate della rappresentanza. Del resto, si può aggiungere, non si è attesa la fine dei grandi racconti sul destino dell'umanità (che anzi sono stati una parentesi tra due fasi diverse della storia del potere) per cogliere la connessione strettissima fra potere e vita.
Credo quindi che sia difficile esorcizzare questo nesso, sostenendo una posizione - come quella di Angelo Panebianco - di rispettabilissima matrice ultraliberale: il potere non si intrometta in ciò che non lo riguarda. Il fatto è che il potere si è formato in un rapporto stretto e drammatico con il tema della vita (e della morte), e non si è mai conosciuto potere, soprattutto nel mondo moderno, e proprio da quando è diventato potere o democratico o totalitario, che non le riguardasse e non si definisse in una relazione con esse. Il potere ha dato vita, fino ad assumere il benessere dell'individuo come proprio fine; e ha dato morte, fino a disciplinare industrialmente la morte collettiva o a chiamare l'individuo a morire per lui. Si è collocato morfologicamente proprio sul crinale di quelle grandi questioni di frontiera che avevano riguardato, in vari modi, il pensiero e l'azione della politica. Ma la democrazia non è essa stessa una forma del potere politico, messa a fuoco nelle congiunture del mondo moderno, a partire dalla formazione dello Stato? E che cosa queste filosofie del potere democratico possono dire anche a noi contemporanei su temi che nessun esorcismo potrà allontanare dal cuore della coscienza pubblica? E proprio su quel crinale decisivo che divide e mette insieme vita e morte? Possibile che debbano restar mute? Possibile che un loro principio fondativo non ci debba orientare?
La filosofia può almeno fornirci un orizzonte, un pensiero, e non intendo andare oltre un'indicazione che non è certo base diretta per una decisione normativa, ma forse sì per una riflessione. Ad esempio, il valore primario della libertà, incoercibile desiderio dell'individuo contemporaneo, forse l'unico finalismo storico che ha retto alle durissime repliche della storia; i kantiani doveri dell'uomo verso se stesso, in un quadro in cui doveri e diritti sono stretti gli uni agli altri, si definiscono oltre l'adesione a un credo religioso che intenda sacralizzarli e valorizzano al massimo quello scrigno della morale che è la volontà libera; quella fulminante definizione di Spinoza che dice: «Ciascuna cosa naturale ha dalla natura tanto diritto quanta potenza ha di vivere e di agire» e aggiunge: «Il fine dello Stato è, nei fatti, la libertà»; e poi l'etica della responsabilità di weberiana memoria. E lo spazio mi ferma qui. Principii, orizzonti, che in modi diversi hanno contribuito alla fondazione di una idea di democrazia costruita a partire proprio da un rapporto politica-vita che si colloca dal punto di vista della libera coscienza e potenza della decisione e dell'agire. Criteri forse meno indeterminati di quanto a prima vista si possa pensare anche per ispirare una decisione possibile.

Corriere della Sera 26.2.09
Paolo Ferrero Il segretario del Prc: puntiamo da soli al 5%. Nichi con Cuffaro sarebbe invotabile
«No a Vendola, vuole una lista guazzabuglio»
di Gianna Fregonara


L'appello di Vendola
In un'intervista al Corriere, il governatore della Puglia Nichi Vendola aveva lanciato un appello a creare un'ampia coalizione capace di includere anche l'Udc, soprattutto in vista delle amministrative

ROMA — Segretario Paolo Ferrero, il suo ex compagno di partito Nichi Vendola vi lancia un appello: per le Europee mettiamo da parte le ragioni di bottega e uniamo tutte le forze di sinistra. Che cosa risponde?
«No grazie, non saprei come fare la campagna elettorale per un cartello che tiene insieme socialisti, verdi, comunisti. E' un guazzabuglio, una scorciatoia per essere eletti. Non vorrei essere offensivo ma rilevo lo scarso profilo politico della proposta di Nichi, che mi pare simile a quella del Pd: alla sconfitta si risponde allargando a destra, si fanno coalizioni fumose, eterogenee, rissose che non sconfiggono nessuno. Un pastrocchio».
Dividere la sinistra non significa rischiare di sprecare i voti, visto che c'è lo sbarramento?
«L'obiettivo è il 5 per cento».
E come pensate di raggiungerlo?
«Abbiamo proposto di lavorare per costruire attorno a Rifondazione un progetto di aggregazione di una sinistra alternativa. Non vedo oggi la possibilità di proporre alleanze».
Vendola sdogana anche l'Udc.
«Allargare a Cuffaro e Buttiglione un'alleanza? Sarebbe invotabile».
Questo isolamento vale anche per le elezioni amministrative?
«A livello locale la tipologia delle decisioni è più ridotta, non si decide sul precariato, sulla guerra o se cambiare la politica economica. Siamo per vedere caso per caso. Se a Torino c'è la Tav nel programma, non faremo l'alleanza. Se a Milano il Pd appoggia le ronde, il nostro è un no».
E a Firenze e Bologna?
«A Firenze siamo fuori, per via del piano regolatore. A Bologna si sta aprendo una discussione, se c'è discontinuità con la gestione Cofferati si aprono spazi per collaborare».
Cosa proponete per le Europee?
«Noi abbiamo proposto una lista i cui eletti vadano tutti nel gruppo della sinistra unita, il Gue. Il simbolo sarà quello di Rifondazione, perché, detta un po' brutalmente, tirare via i simboli del movimento operaio o abbandonare la parola comunismo non è né un obbligo né un'idea utile».
E ci sarà anche Diliberto sotto il vostro simbolo?
«La lista è aperta a tutti quelli che ci staranno. Avremo candidati del mondo politico e sociale, del movimento sindacale e dei consumatori, del movimento ambientalista. Si parla tanto della Linke o di Besancenot in Francia. Questo è il nostro modello».
Non rischiate di rinchiudervi nella testimonianza?
«Fare opposizione, e ci siamo solo noi con il sindacato di base e la Cgil a farla, non è una testimonianza. Il Pci è stato all'opposizione tutta la sua vita e ha pesato più di noi al governo ».
Si capisce l'ambizione, ma le percentuali...
«Lo so, e non voglio essere ridicolo. Ma le coalizioni da allargare fino a Cuffaro distruggono qualsiasi possibilità di crescita fino a sinistra ».
Con l'Udc no, ma con il Pd di Franceschini ?
«Il Pd non fa opposizione su niente. E' uguale a quello di Veltroni».
E in prospettiva, Bersani?
«Le politiche di liberalizzazione le ha fatte anche lui. Vedremo nel concreto. Certo è da apprezzare la proposta per un sistema elettorale alla tedesca, avanzata da D'Alema».

Repubblica 26.2.09
Ecco la lettera delle dimissioni: Bondi non tollera la libertà di pensiero
Cultura, j'accuse di Settis
di Salvatore Settis


Illustre Signor Ministro, sul Giornale del 23 febbraio, Lei mi attribuisce, citando dall´intervista di Enrico Arosio sull´Espresso, affermazioni che non ho fatto, quali la denuncia della "malagestione dei musei" e del "clima di generale frustrazione che si respira nel Collegio Romano". Non sono parole mie, semmai dell´intervistatore: basta badare alle virgolette. Rispondo invece delle cose che ho detto, e che Lei ugualmente mi rimprovera: in particolare, di aver richiamato l´attenzione del governo e dell´opinione pubblica (in un articolo sul Sole-24 Ore del 4 luglio 2008) sui pesanti tagli al Suo Ministero, con cifre incontestabili perché tratte dalla Gazzetta Ufficiale.Nel passato ho criticato anche le scelte di Urbani, di Buttiglione e di Rutelli
Nel gennaio 2010 ci saranno solo 7 dirigenti archeologi su 23 posti in organico
Ho contestato la nomina di un commissario ai Fori romani e al Palatino
"La situazione è gravissima Tagli ai bilanci e soprintendenze svuotate Non mi si può imporre l´obbligo del silenzio"
Mi rimprovera il "dissenso di fondo", in particolare rispetto alla futura nomina del dott. Resca come direttore generale alla valorizzazione dei beni culturali. Inoltre, mi rimprovera «sensazionalismo mediatico» e «richiamo irresponsabile della ribalta», mi etichetta «polemista di riferimento del gruppo La Repubblica-Espresso» che «inforca la polemica sulla stampa di opposizione» e «lavora contro le istituzioni», e infine mi invita a dare le dimissioni («Se avesse voluto cercare un espediente per rassegnare le dimissioni, il professor Settis non avrebbe potuto trovarne uno migliore»).Quando, in seguito all´articolo sul Sole , il sottosegretario Giro ed altri validi esponenti della maggioranza, come l´on. Gabriella Carlucci, mi invitarono alle dimissioni, fu Lei a chiedermi di mantenere il ruolo di presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali. Non mi colpisce il fatto che Lei abbia in merito cambiato idea. Mi colpisce la Sua convinzione (a) che le preoccupazioni che esprimo nascano non da riflessioni di natura istituzionale, ma da uno schieramento politico, e (b) che ogni pubblico dissenso dal Ministro debba esser vietato a chi ricopra la funzione di presidente del Consiglio Superiore. Nessuna di queste due affermazioni risponde al vero. Quanto alla prima, per non citare più remoti esempi, durante il governo Prodi criticai duramente (sulla Repubblica, 11 settembre 2006) la proposta di legge Nicolais sul silenzio-assenso, in termini identici a come lo avevo fatto un anno prima sullo stesso giornale (8 marzo 2005) rispetto a un´identica proposta Baccini (in ambo i casi, la proposta fu ritirata). Quanto alla seconda affermazione, ricordo che il Consiglio Superiore è per legge un organo tecnico-scientifico e non politico. Ciò comporta, per il suo presidente come per gli altri membri, massima discrezione sui documenti riservati sottoposti dal Ministro; non comporta invece l´obbligo del silenzio sugli atti ufficiali del governo né il divieto di citare dati pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale, né tanto meno la proibizione di esprimere opinioni documentate. Non è vero che, come nel Suo articolo si trova scritto, io faccia parte dei "vertici del Ministero", né che io sia un "dirigente dei Beni culturali". E´ vero anzi il contrario: il Consiglio Superiore, in quanto organo tecnico-consultivo e non di amministrazione attiva, ha una funzione extra-burocratica, non è in gerarchia con l´Amministrazione ma rispetto ad essa ha funzione di riflessione e stimolo esterno.Secondo la legge, il presidente è scelto tra le "otto eminenti personalità della cultura" che compongono, con altri membri, il Consiglio Superiore. Tale connotazione non solo implica ma esige piena libertà di coscienza, di parola e d´intervento sui temi generali della politica culturale del Ministero: la definizione tipologica di "eminenti personalità della cultura" non si lascia fuori dalla porta nel momento in cui si entra nel Consiglio Superiore, e anzi impone piena libertà di espressione, al servizio dei cittadini e delle istituzioni. Di fronte a una situazione sempre più grave, che per pesantezza dei tagli e assenza di turn over del personale mette in pericolo lo stesso esercizio della tutela in Italia, il mio auspicio era ed è che il Ministro (chiunque sia) e il Consiglio Superiore (chiunque possa esserne il presidente) esprimano una concorde, grave preoccupazione nelle sedi appropriate (governo e Parlamento), con massima trasparenza rispetto all´opinione pubblica. Sui dati di fatto citati nell´intervista dell´Espresso, signor Ministro, Lei non risponde. Non nega (perché non può farlo) il taglio di oltre un miliardo di euro nel triennio ai fondi del Suo Ministero; non nega (non può farlo) che al 1 gennaio 2010 vi saranno 23 posti di dirigente archeologo in organico in tutta Italia, ma solo 7 funzionari col grado per ricoprirli. A questi ed altri segnali di degrado, Lei sembra reagire con passiva rassegnazione. Quanto alla "malagestione dei musei" (leggi: carenza di fondi e blocco delle assunzioni) e al "clima di generale frustrazione che si respira nel Collegio no", due affermazioni non mie ma Sue, solo il laconico tu dixisti di Matteo 26. 64 può commentarle degnamente. Il Suo articolo, Signor Ministro, mi pone di fronte alla scelta fra la piena libertà di opinione e di parola e il silenzio che Lei, innovando rispetto alla legge, ritiene obbligatorio per il presidente del Consiglio Superiore: duro monito a chiunque ricoprirà in futuro questo ruolo. Eppure non ho lavorato "contro le istituzioni", ma, tutt´al contrario, per le istituzioni quando ne ho difeso le competenze, i campi di azione e l´oggetto stesso dagli incessanti tentativi di erosione e di vanificazione, da ultimo con l´inquietante vicenda del cosiddetto archeocondono e quella incoerente del commissariamento, in mani dotate di altra competenza, dell´area archeologica di Roma. Di fronte alla prospettiva di rinunciare a difendere il Ministero e il patrimonio culturale, che Ella mi addita, la mia è una scelta facile. Senza la minima esitazione, continuo a ritenere incomprimibile la mia libertà di coscienza e di espressione e soprattutto a ritenerla non solo compatibile, ma pienamente convergente con l´ufficio che ricopro. La libertà di parola è la prima delle libertà. Nel recente passato ho potuto esercitarla senza ostacoli esprimendo pubbliche critiche ai governi in carica mentre collaboravo da vicino con i Suoi predecessori Giuliano Urbani, Rocco Buttiglione e Francesco Rutelli e, mi permetto di sottolineare, contribuendo più di una volta a salvaguardare le attribuzioni e le cure del Ministero e del patrimonio culturale. Continuerò a farlo come è mio dovere di cittadino, ma irrevocabilmente rassegno le dimissioni dalla presidenza del Consiglio Superiore. Con i migliori auguri di buon lavoro

Adnkronos 26.2.09
Cinema: Bellocchio, oggi la tv impone un orrendo conformismo al grande schermo

Roma, 26 feb. (Adnkronos) - ''Oggi il cinema e' totalmente dipendente dalla tv che ogni tanto 'elargisce' qualcosa ma pretende, con il suo orrendo conformismo, di imporre il proprio linguaggio''. Il regista Marco Bellocchio intervistato sul settimanale 'Left', in edicola domani, sostiene che oggi e' difficile trovare spazi di liberta' che invece c'erano negli anni '60 e '70. Secondo Bellocchio, la tv vince sul cinema e tende ad essere tutta uguale, gli attori vengono dai reality e i registi s'improvvisano. ''Poiche' la situazione produttiva e' difficile -continua il regista- chi ha voglia di sperimentare dovrebbe utilizzare anche forme molto popolari per proporre format, anche televisivi, piu' rischiosi. Come la fiction, per esempio, cercando tematiche nuove, come quelle sociali. Sul sociale si fanno cose penose e false''. Infine Bellocchio da' alcune anticipazioni sul suo prossimo film dedicato a Benito Mussolini, del quale qualcuno ha parlato come una metafora della sitazione attuale: "A me interessava il rapporto violento di Mussolini con una donna. Forse qualcuno ci vedra' delle coincidenze, ma i paralleli sono molto difficili. Quella era una dittatura sanguinaria, quello attuale e' un regime molto diverso. Il resto e' top secret, tanto lo vedrete presto. Posso solo dire che io sono molto felice di questo film''.

Cinecitta.com 26.2.09
Bellocchio: "Oggi non potrei girare L'ora di religione"
La situazione attuale è peggiore di qualche anno fa, oggi non mi lascerebbero girare un film come L'ora di religione. E' il parere del regista Marco Bellocchio intervistato sul settimanale 'Left', in edicola domani.
"Oggi il cinema - dichiara il regista - è totalmente dipendente dalla tv che ogni tanto 'elargisce' qualcosa ma pretende, con il suo orrendo conformismo, di imporre il proprio linguaggio". La tv vince sul cinema e tende ad essere tutta uguale, sostiene Bellocchio, gli attori vengono dai reality e i registi s'improvvisano. "Poiché la situazione produttiva è difficile - continua il regista su 'Left' - chi ha voglia di sperimentare dovrebbe utilizzare anche forme molto popolari per proporre format, anche televisivi, più rischiosi. Come la fiction, per esempio, cercando tematiche nuove, come quelle sociali. Sul sociale si fanno cose penose e false".
Infine Bellocchio parla del suo prossimo film Vincere che potrebbe sembrare, scrive l'Ansa, una metafora su Silvio Berlusconi, ma lui chiarisce: "A me interessava il rapporto violento di Mussolini con una donna. Forse qualcuno ci vedrà delle coincidenze, ma i paralleli sono molto difficili. Quella era una dittatura sanguinaria, quello attuale è un regime molto diverso".

Apcom 26.2.09
Cinema/ Bellocchio: Oggi è totalmente dipendente dalla tv
"Gli attori vengono dai reality e i registi si improvvisano"
Roma, 26 feb. (Apcom) - Il regista Marco Bellocchio sostiene che oggi è difficile trovare spazi di libertà che invece c'erano negli anni Sessanta e Settanta. "Oggi il cinema è totalmente dipendente dalla tv che ogni tanto 'elargisce' qualcosa ma pretende, con il suo orrendo conformismo, di imporre il proprio linguaggio. La tv vince sul cinema e tende ad essere tutta uguale, gli attori vengono dai reality e i registi s'improvvisano", ha dichiarato il regista intervistato sul settimanale 'left', in edicola domani. "Poiché la situazione produttiva è difficile - continua - chi ha voglia di sperimentare dovrebbe utilizzare anche forme molto popolari per proporre format, anche televisivi, più rischiosi. Come la fiction, per esempio, cercando tematiche nuove, come quelle sociali. Sul sociale si fanno cose penose e false".
Infine Bellocchio conclude parlando del suo prossimo film sul dittatore Mussolini che sembra una metafora su Silvio Berlusconi ma lui chiarisce: "A me interessava il rapporto violento di Mussolini con una donna. Forse qualcuno ci vedrà delle coincidenze, ma i paralleli sono molto difficili. Quella era una dittatura sanguinaria, quello attuale è un regime molto diverso. Il resto è top secret, tanto lo vedrete presto. Posso solo dire che io sono molto felice di questo film".

mercoledì 25 febbraio 2009

Repubblica 25.2.09
Quella scienza che combatte per la pace e i diritti scomodi
di Umberto Veronesi


L´annuncio, ieri a Milano, della nascita in Italia del movimento internazionale "Science for peace ", che ho creato insieme a oltre 20 premi Nobel e molte figure rilevanti della cultura mondiale, ha suscitato allo stesso tempo interesse e stupore.
Pensiamo che il tema della pace debba urgentemente essere riportato al centro del dibattito civile; volgiamo creare una cultura di tolleranza e nonviolenza; chiediamo la progressiva riduzione degli armamenti per destinare parte degli investimenti alle urgenze : nuovi ospedali, scuola, ricerca scientifica. Ma perché gli scienziati si devono occupare della pace, e perché devono farlo proprio adesso, per iniziativa di un medico oncologo? Innanzitutto perché il medico è vicino ai bisogni della gente e sa che la gente, come prima cosa, non vuole il dolore. E la guerra è il più grande dei dolori. Il medico è pacifista per natura perché ha fatto sua la dura missione di curare le malattie che ci affliggono e dunque non riesce ad accettare le ferite, gli scempi, le epidemie e le enormi sofferenze che potremmo evitare se cancellassimo la guerra. Ora questo bisogno di sfuggire alla sofferenza evitabile è reso più forte dalla situazione di crisi mondiale che agita, anche nelle popolazioni occidentali cresciute nel benessere, lo spettro della povertà. La crisi richiede delle risorse aggiuntive per le urgenze sociali, e dove possiamo ricavarle se non dalle spese militari che assorbono fondi molto elevati ? E´ assurdo che non riusciamo più a mantenere le nostre famiglie, che gli ospedali non vengano ristrutturati, che l´accesso alle cure adeguate non sia garantito a tutti, che la ricerca scientifica, che potrebbe dare una nuova spinta al benessere, languisca nei laboratori deserti, per avere più carrarmati lucidi e splendenti e costosissimi aerei supersonici, che, siamo convinti, non utilizzeremo mai. Al di là di questo momento drammatico, la scienza, che dissemina ovunque il pensiero razionale, ha da sempre una funzione civilizzatrice e pacificatrice e può fare molto per la pace. Oggi i tipi di conflitti mondiali che si prospettano sono quello atomico, che al momento sembra un´ipotesi lontana, e quello terroristico. Ebbene, la funzione del pensiero razionale nel combattere il terrorismo è molto significativa, così come lo sono tutte le forme di pensiero e di arte. Per esempio sono convinto che la musica di Barenboim ha avuto un ruolo nella composizione del conflitto fra israeliani e palestinesi. La scienza, così come la musica, rifiuta il principio esasperato dell´identità nazionale o della razza. Anzi, come ha dimostrato il genetista di fama mondiale Luca Cavalli Sforza, la razza dal punto di vista genetico non esiste proprio. Per questo con la diffusione del pensiero scientifico abbiamo assistito ovunque alla promozione della tolleranza e alla riduzione della violenza. Come disse Benedetto Croce " La violenza non è forza, ma debolezza , né mai può essere creatrice di cosa alcuna, ma soltanto distruggerla". Gli ultimi 60 anni di assenza di grandi conflitti mondiali sono stati teatro di avanzamenti scientifici e tecnologici senza precedenti , ma soprattutto di avanzamenti in civiltà , di cui l´abbandono della pena di morte in 62 Paesi è solo un esempio. Viceversa i conflitti di ogni tipo hanno creato disordine, regressione civile e arresto della crescita e del benessere. Viviamo in una società pluralistica multietnica, multiconfessinale e l´Italia di questi giorni percorsa da conflitti etici e da episodi di intolleranza, che minacciano la libertà dei cittadini, è un esempio della nuova realtà che dobbiamo imparare a capire per non esserne travolti. La pace non è solo assenza di guerra ma è composizione pacifica delle conflittualità. La sostituzione di una cultura di pace ad una cultura di guerra non è impensabile ed è questa la finalità di "Science for peace".

l’Unità 25.2.09
Rutelli, rivolta sui siti
«Libertà di coscienza per toglierla a noi...»
Il 90% delle e-mail ai giornali è contro la linea rutelliana
Invocazioni a Franceschini, promesse di non voto al Pd
I messaggi: «Terza via? Per andare al centro...»


Valanga di commenti sui siti dei quotidiani: la stragrande maggioranza critici con l’ultimo strappo di Francesco Rutelli sui temi etici rispetto alla linea del Pd. Migliaia di e-mail che si chiedano come mai l’ex ministro dei Beni Culturali «invoca libertà di coscienza per impedire ad altri di esercitarla», lo invitano «a raggiungere Casini», minacciano di «staccare il voto al Pd».
Sul “Corriere on line” scrive Cirobyke: «Non mi turerò il naso votando Pd finché non si libererà dell’invadenza dei suoi fondamentalisti cattolici». Renato Biondina: «A questo punto meglio che il partito si divida». Lettore 9285: «Ma non c’è stata un’assemblea? Chi impediva a Rutelli di parlare in quella sede naturale?». Geri: «Lui, la Bianchi e la Binetti fondino il partito teocratico». Paolom 97: «Forse che da quando c’è la legge sull’aborto le donne in gravidanza sono costrette a interromperla?». Nero790: «Una volta avevo un partito cui tesserarmi, ora che c’entro con questi sepolcri imbiancati?». Bentler. «Rutelli e compagnia sarebbero capaci di fare una legge per decidere chi va in paradiso, purgatorio e inferno».
Apprezzatissima la citazione, di di Pasquino Indignato, della lettera di Paolo VI: «Non sarebbe un’inutile tortura imporre la rianimazione nella fase terminale di una malattia? Dovere del medico è alleviare la sofferenza, non prolungare, con qualsiasi mezzo e in qualsiasi condizione, una vita che non è più pienamente umana». Gfderiu: «Sono incavolato io con loro, dovrebbero rappresentare una speranza etica nel grigiore illiberale della maggioranza». Rialto: «Un partito non è un raggruppamento di prime donne».
Sarcastico H De Mentis: «Giustamente Rutelli chiede pari dignità per le diverse posizioni. lui ne ha avute tante». Idem Roger81: «Continuate così che oltre al governo ombra avrete pure gli elettori ombra». Bolzmann conia «la logica secondo Rutelli»: «Come si può invocare libertà di coscienza per votare una legge che la abolisca». Massimo: «Prendi la terza via, vattene».
«incavolato lui? pure noi»
Su Repubblica Oldoldold: «Rivendica pari dignità per negare a me di scegliere. Vergogna». Skunk: «È incavolato? Immagini il primo italiano cui verrà infilato un tubo nello stomaco che non voleva». Lafcadio43: «Qual è il pelo nell’uovo che cerca Rutelli? Deve solo scegliere se un cittadino che ragiona può decidere se accettare l’alimentazione forzata o no?». Roby1Kenoby. «Dopo 30 anni interrompo il mio voto al Pd». Tornoanchesubito: «Francesco tra un po’ ti mettono in lista per la successione al Papa». Luciano1001: «Cosa trova di dignitoso nel costringermi a essere ingozzato con l’imbuto?». Ales1: «Come è possibile che il Parlamento si arroghi di decidere per me come devo curare il mio corpo? È esproprio di Stato».
Più dialogante Albauno: «Proposta buona in teoria, ma quale medico si assumere la responsabilità?». Onyric invoca la scissione. Giudivi: «Peccato che non si faccia!». Per Fiordisale sono «prove tecniche di fuga». Pietro35: «Da risorsa è diventato un problema. Vada al centro». Giacomo47: «Chiudetevi la porta alle spalle, chissà che il martoriato Pd non veda un raggio di sole».
Sul sito dell’Unità, Cristiano si chiede: «Che senso ha fare il Pd per allearsi con l’Udc?». Maria Grazia Moroni: «Qui c’è un unico suicidio, quello del Pd». Alberto Ancona: «Leggendo i commenti di 1200 cybernauti emerge che mal si sopporta la mancanza di un progetto di sinistra». Nello: «Siamo appena a martedì e Rutelli deve precisare che non spacca il Pd». Una pattuglia condivide la linea rutelliana. Tradate1942: «Adesione in un partito moderno non significa sudditanza». Barbablu: «Pd non è solo Ds. Accettate le nostre decisioni o uscite voi».

l’Unità 25.2.09
Il testamento biologico e gli spauracchi
di Sergio Bartolommei, Università di Pisa e Consulta di bioetica


Francesco D’Agostino interviene sul Giornale del 17 febbraio a sostegno del progetto di legge Calabrò sul “testamento biologico” che vieta al paziente di esprimersi per sospendere idratazione e nutrizione artificiali. Gli argomenti di D’Agostino sono tre: 1) non sono atti medici (suscettibili di essere rifiutati) come non lo è «mettere un bimbo nato prematuro nell’incubatrice»; 2) sono atti di «immenso valore simbolico» e sarebbe «simbolicamente atroce far morire d’inedia un malato»; 3) la sospensione di questi trattamenti dovrebbe essere accompagnata, come nel caso Englaro, da una sedazione che ha carattere «eutanasico».
Sul primo punto l’esempio è improprio. La possibilità per i neonati fortemente pretermine di essere tenuti in vita oltre i tempi consentiti dalla “natura” è un dato recente legato all’avvento delle tecnologie mediche di rianimazione e sostegno vitale. Non c’è prova più evidente di quanto siano pervasivi gli atti medici delle terapie intensive neonatali. Ed è in corso una discussione se sia lecito mantenere in vita a tutti i costi neonati che presentano gravissime patologie incompatibili con la vita stessa. Ostinarsi in questa direzione, in alcuni casi, serve solo a infliggere crudeltà gratuite.
Sul secondo punto va detto che intorno al tema della “sopravvivenza” umana si mobilitano forti sentimenti che non si registrano in fatto di vita non umana e di materia inorganica. Ciò non impedisce di ritenere il valore assegnato a certi simboli non un fatto naturale, ma il prodotto di tradizioni suscettibili di cambiamento. Inoltre non è possibile sottostimare il carattere atroce (al pari della tortura) che, dal punto di vista simbolico, assume condannare le persone a idratarsi e nutrirsi contro la loro volontà. Infine occorre avanzare qualche dubbio circa la capacità di “presa” simbolica di un sondino nasograstrico che alimenta coercitivamente una persona ridotta a involucro biologico: cosa sia più “sconvolgente”, da un punto di vista simbolico, tra intubazione coatta e morte guadagnata tra cure confortevoli, è tutto da stabilire...
Sul terzo punto l’autore gioca sulle parole. È vero che eutanasia significa “dolce morte” e che la morte di Eluana Englaro è stata (con ogni probabilità) “dolcissima”. Non tutte le dolci morti però sono il prodotto di atti eutanasici, e quello di Eluana non lo è stato. Nel suo caso si è trattato di un “rifiuto delle cure”, al pari di altre decisioni attuate da chi rifiuti di sottoporsi a terapie mediche anche salvavita. La novità del caso sta nell’aver applicato a una persona in stato di incoscienza un principio fatto valere per le persone coscienti. Denominare “eutanasia” l’atto col quale si è conclusa la vita di Eluana è agitare spauracchi che potranno servire forse a mobilitare un legislatore in vena di rivalse, non certo a chiarire la realtà dei fatti.

Corriere della Sera 25.2.09
Legge sul fine vita. Dopo Panebianco
La responsabilità dei medici
di Giuseppe Remuzzi, direttore dipartimento dei trapianti Ospedali riuniti - Istituto Mario Negri Bergamo


L'ipocrisia potrebbe essere una virtù — ha scritto Angelo Panebianco a proposito della legge sul fine vita — per ridurre le sofferenze dei malati senza offendere certe sensibilità ed evitare di «trasferire nella pubblica piazza ciò che non è assolutamente idoneo ad essere esposto in piazza ». È proprio così. «Viene uno con trecento malattie, perché deve morire in rianimazione dopo mesi di ventilazione meccanica? Non è umano. Siamo mortali e dovremmo per un momento poterlo accettare». È un infermiere che parla, hanno buon senso gli infermieri.
Di chi lavora negli ospedali, si parla se fanno qualcosa di straordinario o se sbagliano. Mai di quello che succede tutti i giorni. «Ci sono delle volte che vado via sfatto da questo posto; cerco di non pensarci, ma me lo trascino dietro: non riesco a parlarne a casa, ogni sabato sera che sono di turno, ogni 118 che esce, penso sempre che sia mio figlio che viene qua» è lo sfogo di uno dei medici delle 84 rianimazioni che hanno partecipato allo studio del Mario Negri (ne hanno fatto il libro Scelte sulla vita, che racconta «degli sguardi e delle parole a mezza bocca fra medici, ammalati e persone affettivamente vicine agli assistiti»). È un libro pieno di numeri: quanti si ricoverano, quanti guariscono, quanti muoiono, quando e perché si sospendono le cure e chi decide, se sono coinvolti i familiari. E di storie: storie di tante notti, di quando si è troppo stanchi e c'è troppo silenzio e hai paura di decidere. «Vorrei tornare studente, con qualcuno che decide per me». Certe volte è più facile non decidere. Ho visto persone di più di ottant'anni, con il diabete, l'infarto, già diversi by-pass al cuore, un tumore all'intestino tenuti in vita col respiratore artificiale e la dialisi. Che prospettiva di vita può avere un ammalato così? Nessuna e allora perché si va avanti? Mah, i parenti… Nelle nostre terapie intensive ogni anno vengono ricoverati 150 mila amma-lati, 30 mila muoiono. Le disposizioni di fine vita ce l'hanno solo l'8 %, per gli altri qualche volta — poche — decidono i familiari o il medico. Tutti i giorni i dottori delle nostre rianimazioni si chiedono se il loro è «un intervento a favore del paziente o è un intervento contro il paziente » (è la «zona grigia» di cui parla Panebianco). E devono comunque decidere. «Alla fine cerchiamo di garantire una fine dignitosa, ma a volte garantiamo una cattiva fine». Quando ci sarà una legge deciderà il giudice o il fiduciario, che sarà un familiare. Ma i tempi dei giudici non sono quelli dei medici. Nei tribunali si aspettano mesi e anni. Nelle terapie intensive degli ospedali si deve decidere in fretta, minuti certe volte.
E i familiari? Delle volte non capiscono cosa stia capitando per quanto uno si impegni a spiegarglielo. Succede tutto troppo in fretta; «noi cerchiamo di far partecipare i familiari, però non si vorrebbe neanche caricarli di cose che in quel momento non sono in grado di affrontare ». E i dati raccolti da Guido Bertolini fanno vedere che i familiari il più delle volte preferiscono non decidere, non se la sentono, troppa responsabilità e si affidano alle conoscenze dei medici e al loro buon senso. Ma non è sempre così, ci sono casi («i casi sono diversissimi » scrive sempre Panebianco) in cui sono proprio i familiari a decidere.
Michael De Bakey ha insegnato a tutti i cardiochirurghi del mondo a riparare l'aorta se si rompe. Quando è successo a lui — a 97 anni — non si trovava nessuno che volesse operarlo. Senza chirurgia De Bakey sarebbe morto, solo che aveva firmato un foglio «niente rianimazione se mi capita di essere in coma». Chiedono al comitato etico, ma quelli non sanno che pesci prendere. Così nessuno decide o meglio decide la moglie. Alla fine un chirurgo si trova. «Sono felice che l'abbiano fatto» ha detto poi a proposito dei chirurghi che hanno accettato di operarlo. Il bello è che nemmeno si ricordava di aver firmato il foglio con scritto di non rianimarlo. «I dottori — ha detto — in casi così devono sapere decidere senza bisogno di comitati».
Fare il medico è rianimare certo, ma anche saper sospendere le cure quando sono inutili. Fa parte delle nostre responsabilità. È a tutela di chi non ha più speranza perché non debba subire trattamenti inappropriati (alimentazione e idratazione aiutano a guarire ma ci sono casi in cui farlo aumenta le sofferenze anziché alleviarle). E di tanti che di cure intensive invece hanno bisogno per vivere. «La legge — scrive Panebianco con grande lucidità — è il luogo più inadatto, più inospitale per depositarvi visioni ultime della vita». Quella che si sta discutendo in Italia a proposito di fine vita non è una brutta legge, è una pessima legge. Molto meglio non farla.

Liberazione 25.2.09
Testamento biologico
Franceschini non ce la fa. Pd resta diviso
di Angela Mauro


Se l'obiettivo era convincere la capogruppo in commissione Sanità al Senato, Dorina Bianchi, a firmare gli emendamenti del Pd sul testamento biologico, la missione del neosegretario Democratico, Dario Franceschini, a Palazzo Madama è fallita. Perchè al termine della riunione del gruppo, non solo la cattolica Bianchi conferma che non firmerà le proposte di modifica della presidente dei senatori Democratici Anna Finocchiaro, ma di fatto rafforza, a fine giornata, la linea annunciata in mattinata dal suo leader, Francesco Rutelli, con tanto di conferenza stampa.
Nel Pd del dopo-Veltroni, serrano le fila gli ex dielle rutelliani, via all'offensiva per farsi valere nel partito, pena la scissione.
Il casus belli è, appunto, il ddl sul "fine vita" in discussione in commissione al Senato, calendarizzato in aula per il 5 marzo. Oggi l'organismo presieduto da Antonio Tomassini dovrà esaminare i quasi 600 emendamenti presentati dall'opposizione al testo Calabrò. Prevista una seduta anche notturna per licenziare il provvedimento entro domani. E in mancanza di un accordo con Pd e Italia dei Valori, la maggioranza è comunque intenzionata a portare il proprio ddl in aula senza mediazioni. Verrebbe a quel punto approvato il disegno di legge messo a punto, tra le polemiche, dopo la morte di Eluana Englaro, testo che vieta la sospensione dell'alimentazione e idratazione anche ai pazienti capaci di intendere e di volere. La linea del Pd, confermata dal neoleader Franceschini all'assemblea che lo ha eletto sabato scorso e contenuta negli emendamenti presentati e non firmati dalla Bianchi, prevede che alimentazione e idratazione possano essere sospese se il paziente abbia espresso una volontà in tal senso nella cosiddetta Dat, la dichiarazione anticipata di trattamento. Rispetto garantito a chi nel partito ha idee diverse (libertà di coscienza), ma la linea è questa. Ed è qui che si è inserita la «mediazione» di Rutelli, per lo meno lui la definisce così. L'ex leader dielle e i suoi avevano già approvato la mozione del Pdl nella scorsa votazione in Senato, ora si fanno portavoce di una cosiddetta «terza via» che affida al medico curante ogni decisione sulla sospensione delle cure, escludendo assolutamente la possibilità che il paziente possa dire la sua nella Dat. Il Pdl risponde aprendo spiragli al dialogo, Rutelli da parte sua rincara convocando ieri una conferenza stampa per chiedere «pari dignità» alle diverse posizioni nel Pd sul tema e per negare propositi di scissione. Si dice «incavolato per l'alterazione sistematica della mie posizioni. Qui non si stanno facendo manovre di avvicinamento ad un altro partito (leggi Udc, ndr.), ma si sta discutendo una proposta di legge». Insomma, Rutelli non ci sta a passare «per uno che strappa, rompe, divide e peggio persegue secondi fini e strategie politiche di scissione o che rispondano a poteri esterni alla politica, come il Vaticano. Ogni posizione deve essere legittima».
La conseguenza è che la capogruppo in commissione, Dorina Bianchi, si ostina a non firmare le proposte di modifica del suo partito. «Non firmo e stop», dice al termine della riunione con Franceschini, con la presidente dei Senatori Anna Finocchiaro e gli altri componenti democratici della commissione Sanità. Pensare che fino a due settimane fa al posto della Bianchi c'era il laico, medico, Ignazio Marino, che avrebbe chiesto di essere sostituito per potersi occupare a tempo pieno della presidenza della commissione d'inchiesta su Igiene e Sanità, cui è stato eletto a dicembre. Normale avvicendamento, si sono affrettati a spiegare dal quartier generale del Pd, ma è certo che se oggi il capogruppo in commissione fosse ancora Marino, il neosegretario Franceschini avrebbe meno gatte da pelare.
A riunione in corso, fonti della presidenza del gruppo Pd a Palazzo Madama non facevano mistero del carattere «politico» delle posizioni di Rutelli. «Per noi la sua non è una mediazione, è lui che la spaccia così - veniva sottolineato, non senza veleni - perchè noi partiamo da un altro presupposto, che è quello del valore della Dat, non dal presupposto del Pdl, che non lascia libertà di scelta al paziente». Dunque, nessuno spazio per nessuna "terza via". Il muro alzato dalla Bianchi conferma che i cattolici non abbassano la guardia e che, al di là di quello che dice Rutelli, la scissione centrista non è un'ipotesi marziana. Intanto, è fuori discussione una sostituzione della Bianchi, che non avendo firmato gli emendamenti che non condivide non potrebbe rappresentare tutto il gruppo del Pd in commissione (questione di logica). «Non possiamo scatenare un altro putiferio», spiegavano, sempre a riunione in corso, le stesse fonti piddine. In ogni caso, prima di arrivarci ad un'eventuale scissione, c'è da vedere quanti nel Pd si lasceranno affascinare dalla terza via rutelliana. E' vero che a fine riunione Franceschini parla di «unanime no alla proposta del Pdl», la Finocchiaro parla di «consenso a larga maggioranza per la linea Pd». Ma è anche vero che un senatore come Giorgio Tonini, braccio destro di Veltroni quando era segretario e di estrazione cattolica, non indugia a considerare la proposta di Rutelli una «mediazione per il dialogo con il Pdl, dialogo che su questi temi dovrebbe essere intrapreso». Non solo: Tonini lancia un «appello» al suo partito a «guardare nel merito» gli emendamenti rutelliani, «discutiamone», dice.
Passa Veltroni, arriva Franceschini ma le manovre sottobanco nel Pd non cessano. Nel frattempo, il neosegretario ha eliminato il governo ombra e messo a punto la sua squadra. Nomi presi dal territorio, come promesso, decisioni prese «in solitudine», come annunciato. In segreteria (8 membri cui si aggiungeranno periodicamente i segretari regionali, oggi la prima riunione) entrano il governatore dell'Emilia Romagna Vasco Errani e il sindaco di Torino Sergio Chiamparino; Fabio Melilli, presidente della provincia di Rieti; il segretario del Pd lombardo, Maurizio Martina; Elisa Meloni, segretario provinciale a Siena; la parlamentare Federica Mogherini; Giuseppe Lupo, consigliere del Pd in Sicilia. A Maurizio Migliavacca, il ruolo di responsabile dell'Organizzazione. E anche Pier Luigi Bersani, che resta candidato segretario per il congresso d'autunno, avrà un incarico. «Immagino continuerò a occuparmi di economia», dice.

Repubblica 25.2.09
"Quattro stupri su dieci commessi da stranieri"
I dati del Viminale per il 2008. "Ronde, soldi anche dai privati". Fini: non mi piacciono


ROMA - Mentre il ministero dell´Interno diffonde i dati sulle violenze sessuali - quattro su dieci sono commesse da immigrati che rappresentano il 6% della popolazione - è ancora polemica sulle ronde. Il presidente della Camera ribadisce a Ballarò che il termine ronde non gli piace. Preferisce, invece, «la collaborazione del cittadino con le istituzioni». Il titolare del Viminale, Roberto Maroni, non vuole «dilettanti allo sbaraglio». Annuncia «un controllo fortissimo da parte degli organi di polizia su chi vi partecipa». E attacca i contrari alle ronde: «Chi è contro la proposta del Governo - dichiara Maroni - è a favore della ronda fai da te».
È di dubbia interpretazione, intanto, il decreto legge sui "volontari per la sicurezza" pubblicato ieri sulla Gazzetta Ufficiale. Il testo del dl, infatti, esclude che le ronde possano essere «destinatarie di risorse economiche a carico della finanza pubblica». Secondo alcuni, i "volontari per la sicurezza" potrebbero essere finanziati da privati, persone fisiche o aziende. Secondo altri, invece, dovrebbero svolgere quella funzione come volontari, e cioè senza compensi.
Ma è il Viminale - dopo le reazioni antistranieri seguite agli ultimi stupri di Roma - a rivelare che gli italiani sono autori della maggior parte degli stupri (il 60,9% dei casi). Gli stranieri per - comunitari ed extracomunitari - responsabili di circa il 40% dei reati di violenza sessuale commessi in Italia nel 2008, rappresentano solo il 6% della popolazione residente. Di questi, il 7,8% degli stupratori è di nazionalità romena, il 6,3% marocchina. Le vittime, precisa il Viminale, sono nella gran parte dei casi donne (85,3%) e quasi sempre nate in Italia (68,9%). I dati sono stati diffusi da Simonetta Matone, capo di gabinetto al ministero delle Pari opportunità. Nel 2008 gli stupri sono scesi dell´8,4%. A calare in particolare sono state le violenze di gruppo, ridotte di quasi un quarto (meno 24,6%). La flessione dell´anno passato è seguita a un 2007 terribile, in cui gli abusi erano aumentati del 5% e quelli da "branco" del 10,9%.
A Milano la situazione più drammatica, anche se nel triennio 2006/2008 si era registrato un andamento decrescente, passando da 526 episodi nel 2006 a 480 nel 2008. Nel 41% le violenze sono ad opera di italiani, nell´11% di romeni, nell´8% di egiziani e nel 7% di marocchini. Anche a Bologna un netto calo, da 179 nel 2006 a 139 nel 2008. Italiani sarebbero responsabili nel 47% dei casi, nell´11% marocchini e nel 10 % romeni.
A Roma si è registrato un picco nel 2007, più 13,4% rispetto all´anno precedente, con 339 stupri, e un calo nel 2008, con 317. Gli autori risultano nel 42% dei casi italiani, nel 24% romeni e nel 3% egiziani. Ma in un arco temporale non considerato dal Viminale le violenze nella capitale sarebbero di nuovo in aumento: nei primi due mesi del 2008 ci sono stati 4 stupri, nei primi due di quest´anno sono già 9.

Repubblica 25.2.09
Il rapporto del Viminale: l'8% attribuite a romeni
Nel 2008 le violenze sono calate ma sei su dieci sono di italiani
di Alessandro Oppes


MADRID - «Una sentenza omofoba», tuona la Federazione spagnola dei gay e delle lesbiche. L´assoluzione di un assassino, reo confesso, di una coppia di omosessuali ha provocato enorme clamore in Spagna tanto che lo stesso governo, per bocca del ministro dell´Uguaglianza Bibiana Aído, si è dissociato dalla decisione del tribunale. Non sono bastate né le prove portate dalla pubblica accusa, né le testimonianze dei periti della polizia scientifica, né la confessione dello stesso autore del crimine, avvenuto tre anni fa a Vigo, in Galizia: Jacobo Pioeiro è stato assolto da una giuria popolare composta quasi esclusivamente di donne dalle accuse di omicidio e furto, e condannato solo per l´incendio appiccato nell´appartamento delle vittime per occultare le prove.
Secondo il tribunale, avrebbe agito per «legittima difesa», perché accecato dalla «insostenibile paura» di essere stuprato dopo una notte di alcol e droga: tesi assolutamente bizzarra considerate le 57 pugnalate assestate con estrema ferocia nei corpi di Isaac Pérez Trivioo, 22 anni, (discendente di una famiglia conosciutissima in Galizia: il bisnonno fondò un importante banco, ma altri parenti sono stati pericolosi narcotrafficanti) e il brasiliano Julio Anderson, 32 anni, con il quale Isaac - conosciuto come «Al-Dani» - pensava di sposarsi pochi mesi più tardi.
Durante il processo, l´imputato ha detto di essere «pentito di tutto». Parole sufficienti per muovere a compassione la giuria popolare, mentre l´accusa aveva chiesto una condanna a 60 anni di carcere, accusando Pioeiro di avere «pensato e calcolato freddamente» le proprie azioni.

l’Unità 25.2.09
La rivolta dei Beni culturali
Settis & co, dimissioni a catena
di Stefano Miliani


L’archeologo vuole lasciare la guida del Consiglio superiore. Altri membri lo seguiranno
La protesta. Esperti contro Bondi. Torelli: «Ha un atteggiamento degno del Ventennio»

Dopo l’attacco di Bondi a Settis dalle colonne del «Giornale», nei beni culturali è la rivolta. Il ministro non tollera chi la pensa diversamente da lui. Oggi riunione del consiglio superiore: dimissioni di massa in vista.

Se voi che leggete non siete dentro una soprintendenza o dentro il ministero dei beni culturali probabilmente non potete averne piena percezione. Però per le sorti del nostro patrimonio artistico, dei nostri musei, dei nostri scavi archeologici, archivi e biblioteche - che già soffrono come dannati, hanno una gestione centrale sbrindellata - oggi può essere una giornata gravida di dalle conseguenze pesanti. Che implicano anche il concetto di libertà di pensiero nella pubblica amministrazione, cioè nel Paese.
IL TERREMOTO
Esagerato? Vediamo un po’. Oggi pomeriggio si riunisce il consiglio superiore dei beni culturali: è organismo consultivo di esperti nominati dal ministro, comitati di settore e rappresentanti eletti dai dipendenti del ministero stesso, dalle università. Il suo ruolo è dare pareri su questioni importanti. Oggi ha, tra l’altro, in discussione i piani di spesa delle soprintendenze, e saranno dolori. Lo presiede, forse per l’ultima volta, Salvatore Settis, archeologo, preside della Normale di Pisa. Salvo sorprese si dimetterà. E con lui altri membri del consiglio. Di sicuro ha formalizzato le sue dimissioni via fax alla segreteria ministeriale il professor Andrea Emiliani, esperto che aveva indicato Rutelli e Bondi confermato. Potrebbe lasciare Andreina Ricci. Potrebbe dimettersi Mariella Guercio, altra esperta. «Faccio quel che farà Settis. Abbiamo tenuto una linea condivisa e quindi la mantengo». E questo lo afferma a l’Unità un nome autorevole, culturalmente «pesante», come Antonio Paolucci, già soprintendente, già ministro lui stesso nel 95-96, ora direttore dei Musei Vaticani.
Come altri esperti, Settis lo aveva nominato Rutelli, Bondi l’aveva confermato. Ma Settis, per il ministro, si macchia di un peccato imperdonabile: osa criticare pubblicamente le scelte del ministero. Critica la scelta di affibbiare un commissario alle soprintendenze archeologiche di Roma e Ostia, per di più della protezione civile, Bertolaso. Critica, Settis, la nascita di una direzione per la valorizzazione, slegata dalla tutela per di più affidata a un manager inesperto in materia d’arte o archeologia quale Mario Resca. Settis peraltro ha sempre coltivato il «vizio», se qualcuno lo ritiene un vizio, di criticare anche in pubblico le scelte di un ministro anche se lui ci lavorava a fianco. È successo a Urbani, è successo a Rutelli. Succede con Bondi e Bondi non lo tollera. Il ministro sul Giornale attacca Settis e già, che c’è, il soprintendente di Pompei Guzzo, bravissimo archeologo, ma reo - a suo parere - di non risolvere i guai del sito.
VIA LIBERA AI «BARBARI»?
Ci sono dunque le dimissioni di Settis in ballo. Perché non è soltanto una faccenda di poltrone e travalica i confini dei beni culturali ma di libertà di pensiero? Lo riassume bene Mario Torelli, archeologo di lungo corso, curatore della bella mostra sugli etruschi aperta a Palazzo delle Esposizioni a Roma fino all’8 marzo: «Questo ministro si leva di torno i tecnici perché danno fastidio, è un atteggiamento da ministro del ventennio fascista, per “non disturbate il manovratore”». Secondo l’archeologo il ministro potrebbe avere in mente il sostituto di Settis e indica il collega Carandini. Ma Torelli dà voce a un fatto: nel ministero e nelle soprintendenze si dice poco in pubblico quel che si pensa per paura di ritorsioni.
Cesare De Seta, un altro esperto di nomina direttamente ministeriale, dice al nostro giornale di voler discuterne oggi prima con Settis e poi valutare. Il segretario della Uil Gianfranco Cerasoli mette il dito sul dubbio che arrovella parecchi: Settis non lasci, «le sue dimissioni sarebbero un regalo ai nuovi barbari», cioè «al trio Bondi-Brunetta-Tremonti» che, svitando bullone su bullone le soprintendenze e le loro risorse, affidandole a commissari della protezione civile e quant’altro, stanno smantellando l’impalcatura statale che ha tenuto su dall’unità d’Italia a oggi. E questo dubbio - lasciando non si rischia di non porre più argini a manovre devastanti? - arrovella Marisa Dalai, studiosa designata dal Consiglio universitario nazionale. Un dubbio che investe sempre più persone, nel nostro paese. E non solo per l’arte. Una via d’uscita in mente ce l’ha Vincenzo Vita, parlamentare Pd: invece di Settis «si dimetta Bondi».

Corriere della Sera 25.2.09
Le radici del tracollo del Pd
Una sconfitta cercata a lungo
di Giovanni Sartori


Povera sinistra. Peggio messa di come è non potrebbe. E l'onda lunga che l'ha portata al tracollo viene da lontano, da molto più lontano di quanto i commentatori ricordino.
L'altro giorno l'elezione di Dario Franceschini a nuovo segretario del Pd è stata una decisione sensata e forse l'unica possibile. Ma il salvataggio viene rinviato a elezioni primarie che dovrebbero spazzare via la vecchia nomenklatura e miracolosamente scoprire nuovi leader. Le primarie sono state una fissazione di Prodi; e sinora si sono rivelate un enorme dispendio di energie senza frutto, che non hanno fondato o rifondato un bel nulla. Per carità, riproviamo ancora. Ma non illudiamoci che scoprano ignoti né quello che non c'è. A oggi ogni capopartito ha allevato i suoi e cioè potenziato la sua fazione, la sua corrente, promuovendo gli obbedienti (anche se deficienti) e cacciando gli indipendenti (anche se intelligenti). Pertanto la crisi di leadership della sinistra è una realtà dietro la quale non è detto che si nascondano geni incompresi, geni repressi.
Il guaio risale al fatto che per una trentina di anni abbiamo avuto la più grande sinistra dell'Occidente, che era però egemonizzata dal Pci e forgiata dallo stalinismo di Palmiro Togliatti. Non era una sinistra addestrata a pensare con la sua testa, ma invece ingabbiata nel preconfezionato di un dogmatismo ideologico. Caduta la patria sovietica, quel pensare e pensarsi che altrove ha rifondato la sinistra su basi socialdemocratiche da noi non si è risvegliato. La fede comunista si è semplicemente trasformata in un puro e semplice cinismo di potere; e il non pensare ideologico, il sonno dogmatico del marxismo, si è semplicemente trasformato nella sconnessa brodaglia del «politicamente corretto». Una brodaglia nella quale anche il semplice buonsenso brilla per la sua assenza.
Dunque la malattia è grave e di vecchia data. Una malattia che coinvolge anche — passando al versante pratico del problema — l'erosione dei bacini elettorali tradizionali della sinistra. In passato la sinistra era, in tutta semplicità, il partito del proletariato operaio. Quel proletariato non esiste più. Lo ha sostituito un sindacalismo che in passato obbediva al partito, ma che ora lo condiziona. Domanda: il collateralismo o condizionamento sindacale conviene davvero, oggi, alla «sinistra di governo » (come diceva Veltroni)? Ne dubito. La Cgil è oramai un sindacato antiquato «di piazza e di sciopero», abbandonato dai giovani, che rappresenta i pensionati (la maggioranza dei suoi tesserati), che difende gli sprechi e anche i fannulloni. E siccome siamo al cospetto di una gravissima crisi economica, la sinistra non la può fronteggiare appesantita dalla palla al piede della Cgil. O così mi pare.
Altra domanda, questa volta sul collateralismo (dico così per dire) con la magistratura. Fermo restando che l'indipendenza del potere giudiziario è sacrosanta, il fatto resta che gli italiani sono indignati per la sua lentezza e inefficienza. Prodi si vanta di avere vinto due elezioni. Allora ci spieghi perché, in vittoria, non abbia alzato un dito per aiutare e anche costringere la giustizia a funzionare. La sinistra fa bene a difendere il potere giudiziario dagli assalti interessati di Berlusconi. Ma fa male a non difendere un cittadino così mal servito da una giustizia, diciamolo pure, ingiusta.

il manifesto 24.2.09
Per una lista unica, rispondono i promotori
di Luigi Ferrajoli, Pino Ferraris, Giulio Marcon, Mario Pianta


La richiesta ai partiti della sinistra di fare un passo indietro e di lasciare spazio a una lista unica che esprima un ampio arco di forze e movimenti della società civile sta crescendo con un passaparola tra cittadini e militanti, lontano dai clamori dei media. Nei messaggi di adesione che i promotori hanno ricevuto si trova la consapevolezza della gravità della situazione del paese, la minaccia alla democrazia, il pesante attacco al lavoro e ai diritti sindacali, la necessità di una nuova partecipazione politica, la spinta che viene da esperienze dal basso. Ad aderire sono persone comuni, elettori delusi della sinistra, esponenti del sindacato, attivisti di associazioni e movimenti, studenti e professori, e una manciata di "nomi noti" che hanno avuto responsabilità politiche nei partiti della sinistra.
Sono voci che esprimono un bisogno di discussione, di soggettività politica, di impegno in prima persona di fronte alla deriva dei partiti e della politica italiana.
Le stesse voci che leggiamo in una parte (forse metà) dei 180 commenti che compaiono nella discussione su questo sito. Persone che condividono il senso dell'appello, chiedono un cambiamento alla politica, a cominciare dalla sinistra. L'altra metà dei commenti ricevuti dal sito del manifesto si divide tra chi ha perplessità sul come si potrebbe realizzare la lista unica della sinistra e chi esprime un'aperta ostilità alla proposta, in nome dell'affermazione d'identità del "partito dei comunisti".
La perplessità principale riguarda il rischio che la lista unica della sinistra riproduca l'esperienza negativa del cartello della Sinistra Arcobaleno
presentato alle scorse elezioni politiche. Qui occorre una precisazione. Quello era un cartello di partiti, costruito con un'operazione di vertice, con i leader di partito che ne affollavano le liste. La proposta di una lista unica chiede invece ai partiti di fare un passo indietro, di unirsi a forze e movimenti della società civile per promuovere una lista senza dirigenti di partito, con candidati legati alle realtà locali, in ordine alfabetico e una presenza del 50% di donne.
Un progetto che provi a dare espressione a quel 10% di elettorato che vuole una sinistra in cui riconoscersi. Per di più, viste le derive centriste del Pd di Franceschini, una lista unica della sinistra di questo tipo potrebbe apparire un "voto utile" anche per molti elettori delusi del Pd.
Altre perplessità frequenti - come la questione del gruppo parlamentare in cui potrebbero confluire a Bruxelles gli eletti della sinistra italiana - rimandano a questioni specifiche di realizzazione del progetto, che potrebbero diventare facilmente risolvibili una volta che ci sia l'accordo dei partiti a fare un passo indietro.
Infine le (dure) critiche alla proposta di lista unica della sinistra di chi pensa che il "partito dei comunisti" risolva ogni problema. Molti interventi esprimono un bisogno di identità ideologica e organizzativa che difficilmente può andare oltre i confini di un piccolo gruppo, e dimenticano il misero spettacolo che i partiti hanno dato di sè nei dieci mesi dopo la sconfitta elettorale. Un integralismo identitario di questo tipo rischia di essere parte del problema, più che della soluzione, per il futuro della sinistra in Italia e in Europa.
In questi dieci mesi di governo Berlusconi milioni di persone si sono impegnate in prima persona per fermare le derive autoritarie, cercare alternative alla crisi economica, costruire la democrazia. Lo hanno fatto nelle centinaia di scioperi e manifestazioni del sindacato e dei precari, nelle mille proteste nelle scuole e università, nelle iniziative per i diritti civili e la difesa della Costituzione, nei cortei per la pace in Medio Oriente, nelle iniziative antirazziste, nelle moltissime mobilitazioni locali. E' questo il "popolo della sinistra" che - secondo noi - oggi ha bisogno di una rappresentanza politica, di una sinistra che torni ad affondare le proprie radici nella società e che sia capace di un'iniziativa comune.

Corriere della Sera 25.2.09
Il governatore della Puglia «Io ho vinto con un'alleanza che andava dai dc al Prc: indispensabile aprire varchi nel blocco sociale di Berlusconi»
Vendola: i voti moderati servono, guardiamo all'Udc
di Roberto Zuccolini


ROMA — Nicky Vendola, che cosa cambia, per la sinistra che rappresenta, l'avvento di Franceschini alla guida del Pd?
«L'occultamento delle sconfitte, ultima delle quali in Sardegna, non poteva durare a lungo. Lo dico con rispetto per Veltroni, che ha abbandonato la segreteria con tanta dignità. Ma è evidente che rappresenta anche la sconfitta della sua teoria, cioè quella di un Pd autosufficiente, capace un giorno di governare da solo, secondo un schema bipartitico. Franceschini è molto simpatico e intelligente, ma ciò che conta per noi non è la leadership, bensì il processo politico. Ci attendiamo che il partito non sia più neutrale nei confronti del conflitto sociale e sindacale in atto. È mai possibile restare sulle difensive quando il mondo è in crisi per colpa delle politiche neoliberiste e di destra degli anni passati?».
Un Pd non più autosufficiente, quindi anche vostro alleato?
«Le alleanze non sono giocare a battaglia navale, con le caselle da riempire. Cominciamo a dialogare sui contenuti dell'opposizione in una società che sembra esprimere, come fenomeno più progressista, il Festival di Sanremo. Partiamo dai luoghi di un possibile incontro ».
Ad esempio le amministrative?
«Il livello locale è molto importante. Io ho vinto le elezioni con un'alleanza molto larga, che andava dai dc a Rifondazione, e in quattro anni sono riuscito ad andare d'accordo con tutti».
Quindi anche con l'Udc, magari in futuro a livello nazionale?
«Non andremo a mettere cartelli di divieto di sosta alle forze politiche in una fase così movimentata. All'Udc bisogna guardare consapevoli delle differenze esistenti. Ma al tempo stesso, se si vuole vincere, è indispensabile cercare di aprire varchi nel blocco sociale di centrodestra dominato da Berlusconi. Per questo insisto: per ora guardiamo al livello locale. È lì che maturano le relazioni. Poi si vedrà».
Nel frattempo però ci saranno le europee.
«Per Strasburgo dobbiamo rilanciare l'alleanza a sinistra: se piuttosto che litigare e divergere per ragioni di bottega avessimo il coraggio di mettere insieme tutte le nostre forze faremmo un investimento sul futuro».
Superando lo sbarramento del 4 per cento, imposto dalla nuova legge?
«Ferrero pensa a riunificare i comunisti. Sbaglia. C'è bisogno di una nuova sinistra, il partito del ventunesimo secolo. E c'è bisogno di risollevarsi dal trauma costituito dalla nostra assenza nel Parlamento italiano. Rientrare in quello europeo potrebbe essere un segnale importante. Un evento che darebbe nuovo slancio all'opposizione. Stiamo attenti perché le generazioni future non cercheranno di capire chi aveva ragione al congresso di Chianciano Terme, ma perché i ragazzi di Nettuno andavano a bruciare gli immigrati senza fissa dimora».