domenica 1 marzo 2009

l’Unità 1.3.09
Ronde, come spaccare l’Italia
Bande organizzate dallo Stato contro lo Stato percorrono le nostre strade con poteri incostituzionali di controllo del «territorio»
di Furio Colombo


La secessione di Bossi assomiglia alla minaccia nucleare di Teheran. Il piano è già fatto, ma i pezzi arrivano un po’ per volta. La differenza è che, per ogni passo avanti dell’Iran, anche piccolo, anche simbolico, il mondo trasalisce e alza la voce. In Italia, invece, tutti assistiamo assenti o compiaciuti mentre, con espedienti o modalità diverse, la Lega smantella l’Italia. Non siamo ancora arrivati al federalismo fiscale che segnerà lo smembramento ufficiale e legale del Paese. Ma molti pezzi staccati di ciò che era l’Italia giacciono già, in esibizione penosa, sui prati dei «territori».
I cittadini non sono più uguali. I diritti condivisi sono stati spezzati. I sindaci-sceriffi si sono dotati di poteri che - in uno Stato normale - non hanno nulla a che fare con i compiti e le funzioni dei sindaci. Bande organizzate dallo Stato contro lo Stato (o meglio da un ministro infiltrato dentro lo Stato di cui è avversario) percorrono le nostre strade con il nome civettuolo di “ronde” a cui si danno poteri di controllo del «territorio» che - in condizioni normali, e se vigesse la Costituzione - spetterebbero solo allo Stato.
Tenete conto della parola «territorio». Non esiste nella Costituzione, che infatti recita: «L’Italia è composta di Comuni, Province, Regioni». La Lega Nord ha imposto le parole «territori» e «popoli» perché non sa dire cos’è o dov’è la sua presunta patria, la Padania, e non sa come distinguere i suoi presunti cittadini “padani” da tutti gli altri italiani.
Il colpo di genio è venuto attraverso l’accordo-ricatto di Arcore: invece di svelare le amicizie pericolose di Berlusconi con la mafia (come aveva cominciato a fare «La Padania» nel 1999, pubblicando in prima pagina la foto di Berlusconi accanto a quella di Totò Riina), la Lega viene dotata di tutto il sostegno mediatico e finanziario necessario per sembrare un partito nazionale.
In tal modo un partito locale eletto quasi solo in due regioni italiane conquista punti cruciali di controllo nel governo e dello Stato italiano che era, invece, il nemico (ricordate “Roma ladrona”?).
Ma la strategia della Lega, mentre da un lato ricatta con successo tutto il versante berlusconiano e porta un partito nazionalista come An a sostenere con fervore ogni nuovo atto secessionista, dall’altro affascina e ipnotizza ciò che resta della sinistra. La prova più impressionante sono le «ronde di Penati», ovvero il disorientante sostegno alla cultura della Lega da parte del presidente della Provincia di Milano, già Ds, ora leader Pd, Filippo Penati . «Che c’è di sbagliato nell’associare ai sindaci carabinieri e poliziotti in pensione e mandarli a sorvegliare parchi, scuole, strade? Chiamiamoli presìdi e non ronde e le obiezioni verranno meno». (La Repubblica, 23 febbraio).
Che c’è di male? C’è che salta tutto l’impianto di legalità costituzionale di un Paese democratico. C’è che si nega il compito delle forze dell’ordine regolate dalla legge. C’è che si aboliscono i diritti garantiti dei cittadini. C’è che a Milano l’unico esponente Pd (cioè della normale cultura costituzionale italiana nelle istituzioni) abbraccia in modo pubblico e clamoroso la cultura della Lega che infaticabilmente lavora a divaricare l’Italia.
I governi, centrale e locale, vengono riorganizzati come agenti persecutori degli immigrati e di tutti gli altri cittadini (dai medici ai poliziotti ai giudici) che non intendono prestarsi al brutto gioco della divaricazione morale e della spaccatura fisica del Paese.
Intorno allo slancio della cultura rondista si forma un focoso rapporto plebiscitario e tribale fra sindaco ed elettori, dove tutto avviene al di fuori delle leggi e della Costituzione. I danni sono enormi, da Lampedusa che brucia agli attacchi di natura razziale frequenti, ripetuti, spinti fino all’omicidio e alle persone a cui danno fuoco sulle panchine. Gli ospedali diventano luoghi pericolosi da cui stare alla larga se si è clandestini, anche per chi è portatore di malattie contagiose. Le scuole hanno classi separate per i non italiani e test di «cultura locale» per tenere lontani dall’integrazione i figli degli immigrati, e tenere bassa e umiliante la qualità della scuola italiana.
Devastando con leggi nazionali e arbitrio locale la Costituzione italiana, la Lega ha fatto molto di più della secessione. Ha infettato di cattiveria persecutoria tutto il Paese, aperto la strada ai linciaggi, diffuso disprezzo e odio. La Lega, salita sulla groppa di Berlusconi, governa la Repubblica italiana. È peggio, molto peggio, della minaccia di secessione.

l’Unità 1.3.09
Tre tentati omicidi in poche ore, il triste primato della famiglia
Depressione senza speranza: prime vittime le mogli ma la disperazione è anche delle madri
di Susanna Turco


Aumentano i casi spesso mortali: da Bergamo alla capitale e nella provincia di Roma
Tre tentati omicidi (e due suicidi) in poche ore hanno confermato quel che dicono le statistiche: in Italia, ne ammazza più la famiglia che la mafia. E due volte su tre le vittime sono donne.

In Italia, la famiglia ne uccide più della mafia. Non è un modo di dire, è quel che risulta dalla cronaca e dalle ricerche in materia, come quelle elaborate dall’Eures. Negli ultimi sei anni, le vittime di delitti familiari sono state 1300, in media un morto ogni due giorni. Nel 2006 (ultimi dati disponibili) i delitti compiuti nella cerchia familiare sono risultati al primo posto: il 31,7 per cento del totale, con 195 casi registrati su 621 (+12% rispetto al 2005). Di questi, 134 erano donne (+36,7%).
come negli anni 50
Ieri tre casi in poche ore di tentati omicidi (seguiti o no da suicidio), hanno in qualche modo confermato la tendenza. A Bergamo un pensionato ha ferito la consorte con un coltello e si è ucciso lanciandosi dalla finestra. Vicino a Roma una donna ha sparato alla figlia ferendola e poi si è tolta la vita. Nella Capitale un uomo ha investito la moglie ripassando a retromarcia per cercare di ammazzarla. «I delitti di famiglia sono sempre stati diffusi», dice il criminologo Francesco Bruno. «La novità è che questo “zoccolo duro” negli ultimi anni cresce fin quasi a superare gli altri tipi di delitti. E tornano omicidi, come l’uxoricidio, che negli ultimi decenni non si erano mai presentati con tanta frequenza: come se il rapporto tra maschi e femmine stia diventando conflittuale come lo era negli Anni 50, sia pure in un contesto del tutto cambiato». Così, del resto, racconta anche la cronaca.
Le mogli, le figlie
A Curno, provincia di Bergamo, alle tre della notte tra venerdì e sabato. A.L., 74 anni, pensionato, da tempo in cura per la sua depressione, durante una lite afferra un coltello da cucina e si scaglia contro la moglie, I.F., 67 anni. Lei, ferita alla testa in modo non grave,si rifugia in casa del fratello, che abita poco distante, e viene portata in ospedale per mettersi i punti. Il marito, invece, sale al primo piano della propria abitazione e si lancia giù: un volo di pochi metri, ma nell’impatto il colpo alla testa l’uccide all’istante.
Nella prima mattina di ieri, a Nerola, provincia di Roma. L.C., 55 anni, separata, da tempo depressa e da tempo in cura all’istituto di igiene mentale della Capitale, si volta verso la figlia ventiseienne che le dorme accanto e le spara con la pistola di proprietà dell’ex marito. Subito dopo si punta l’arma contro la gola e preme di nuovo il grilletto. La ragazza viene invece ricoverata all’ospedale di Monterotondo: frattura alla scapola dovuta al passaggio del proiettile che per il resto non ha leso organi vitali. Dice che la madre aveva minacciato più volte d’ammazzarsi, ma mai fatto pensare che volesse nuocere ad altri.
Quartiere Aurelio, Roma, mattinata di ieri. G.F., 57 anni, calabrese, apre la porta alla sua quasi ex moglie che è tornata a casa per riprendersi alcuni vestiti. Litigano sulla separazione, lui urla e lei, spaventata, preferisce scendere in strada. Il quasi ex marito però la segue, la spintona e la fa cadere in terra in mezzo alla via. Quindi sale sulla propria vecchia Fiat tipo, accende il motore e la investe: vedendo che però è ancora viva, inserisce la retromarcia e le passa sopra di nuovo. La donna finisce al Gemelli, con fratture e contusioni per trenta giorni di prognosi. Lui viene arrestato sul posto per tentato omicidio.

l’Unità 1.3.09
«Non parliamo di follia, ma di violenza, rabbia e aggressività»
Intervista di Susanna Turco a Chiara Saraceno


«Basta che non si dica che si tratta di raptus di follia».
E perché no, professoressa Chiara Saraceno?
«Perché sono semmai raptus di violenza, rabbia, aggressività. Dire follia è troppo giustificativo. Si tratta comunque di una decisione: che l’altro non ha il diritto di vivere autonomamente da me».
Da sociologa, non le sarà sfuggito che, anche per i tre di ieri, si tratta di delitti interni alla cerchia familiare.
«È proprio questa la circostanza su cui riflettere. Ci si deve porre il problema che nei rapporti privati c’è qualcosa che, se non tenuto sotto controllo, può sfociare nel sangue. Non a caso, negli Anni 70, c’era chi parlava di “famiglia che uccide”».
E la famiglia uccide?
«Non sempre, però se c’è qualcosa che non va, la famiglia può essere più mortifera di altri rapporti. Perché è il luogo nel quale ci si gioca la propria identità e dove è più difficile prendere le distanze dall’altro, che è riconosciuto come il primo responsabile del proprio benessere e malessere».
Il familiare come un nemico?
«È naturale che sia così: se ho un disagio, se le cose vanno male, me la prendo con chi mi sta vicino, più che con l’estraneo. Per questo la famiglia è un luogo pericoloso».
E quando a uccidere sono persone depresse?
«È una malattia a volte sottovalutata, anche nei suoi effetti. Non se ne vede la pericolosità, non si avverte chi sta intorno dei rischi: in realtà il marito depresso che ammazza la moglie e si uccide è un classico».
E gli uomini uccidono le donne oggi più di prima?
«Il fenomeno non è nuovo, fa parte di un rapporto nel quale l’uomo reagisce così perché non accetta di sentirsi sfidato. La novità è che oggi ci sono più donne che si mettono in condizioni di sfida».

l’Unità 1.3.09
«Lanciamo l’allarme beni culturali»
Intervista a Giovanna Melandri di Stefano Miliani


Nel 2001, quando uscì dal portone dei beni culturali senza più la giacca da ministro perché il governo era passato a Berlusconi, lasciava un paese molto diverso, un mondo della cultura, con problemi, certo, ma non sfibrato e sfiduciato com’è oggi. Giovanna Melandri riprende tra le mani un filo mai – garantisce – spezzato: Dario Franceschini le ha affidato il compito di rilanciare un’azione politica culturale del Pd. E lei entra in gioco in una settimana movimentata dal caso Settis: il professore, da altri, si è dimesso da presidente del Consiglio superiore dei beni culturali perché dissente dalle strategie del governo e rivendica il diritto di poterlo dire pubblicamente. La deputata parte da qui mentre organizza via telefono dal suo ufficio un passaggio per la figlia in un angolo di Roma e premette: «prima voglio ringraziare per quanto ha fatto l’ex ministro ombra Cerami».
Partiamo però dal caso Settis guardando a chi vota a sinistra, o centro sinistra: tra custodi dei musei, funzionari, precari e professori c’è la sensazione che tutto ciò sia avvenuto anche perché non c’è stata una vera opposizione. Tanti si sentono «orfani».
«Lo so ma non è affatto così. Intanto il nostro primo compito è dire no ai tagli alla cultura. Siamo in una crisi e ci sono vincoli di bilancio, però molti paesi rispondono investendo nella scuola, nei saperi, nell’università. Obama ha presentato un piano di rilancio di 780 milioni di dollari usando poche parole: scienza, scienza, scienza, cultura, cultura, cultura…»
La crisi è pesante, esiste.
«Sì, ma i paladini dell’antistatalismo, del liberismo più sfrenato, ora invocano l’intervento dello Stato. Noi abbiamo sempre difeso l’idea dell’intervento pubblico per i beni pubblici».
Per Settis lo Stato sta abdicando al suo dovere di salvaguardare l'arte.
«Ho parlato da poco con il professore, ci vedremo, penso a un appuntamento pubblico. Lui ha tutte le ragioni del mondo nel denunciare il depauperamento delle risorse, disinvestimenti, la mortificazione del ministero che ha funzionari straordinari; ha ragione quando denuncia che ricorrere a un commissario per le aree archeologiche di Roma e Ostia non è una soluzione ed esautora la soprintendenza, ne impoverisce le professionalità. Per inciso, l’ultimo concorso per 10 dirigenti di soprintendenze giunto a conclusione lo feci bandire io nel ’99: era poco, non bastò, dopo…»
Per Bondi la sinistra è conservatrice, non vuole cambiare niente.
«Non è vero. Non siamo affatto per una visione solo contemplativa del patrimonio culturale, tuttavia per valorizzare un luogo d'arte va prima di tutto rispettata la tutela e non mi pare che sia, nei fatti, al primo punto della sua agenda. Si può aprire ad alcune competenze manageriali e gestionali – come sinistra abbiamo fatto dei tentativi – senza confonderle con la tutela e senza abbracciare una visione mercantilistica come invece succede ora. Se un manager affianca, ripeto, affianca, chi ha compiti di tutela va bene, altrimenti no».
E con quali proposte si esce da questa che sembra una strada già decisa.
«Innanzi tutto dovremo rimettere il tema nel cuore del dibattito politico, lanciare l’allarme sui beni culturali. Su come valorizzare la cultura ebbi discussioni, civilissime, non sempre concordi, proprio con Settis. Su un punto non si può transigere: non possiamo pensare a un rientro economico diretto dalla cultura la quale genera invece ricchezza spirituale, civile e anche occupazionale. Sono convinta che un pezzo della risposta italiana alla crisi stia proprio in questo campo».
E qui entra in gioco quanto ha scritto Baricco su Repubblica: di fronte a fenomeni come il Grande Fratello lo Stato investa in scuola e nella cultura in tv, mentre teatro, musica e altro sarebbero a suo parere succhia-soldi senza più soffio vitale, per cui decida il mercato chi sopravvive e chi no.
«Concordo quando lui dice che bisogna allargare il perimetro della domanda culturale e che ci sono effetti collaterali indesiderati nel meccanismo con cui lo Stato eroga i soldi. Qui però finisce il consenso. Lo scrittore colpisce il bersaglio sbagliato. Ricordo le proporzioni: la Rai solo con il canone incamera 1,5 miliardi di euro l’anno ed è ora che il servizio pubblico faccia davvero il servizio pubblico senza omologarsi alla tv commerciale. Nel frattempo il Fondo unico per lo spettacolo, che nel 2001 portammo al suo massimo storico di 510 milioni di euro, ora è sceso a circa 380. Va razionalizzato? Certo, ci provammo già noi. Si potrebbe dare la certezza di fondi per tre anni premiando chi punta sulla formazione dei giovani e di un nuovo pubblico. Invece l’attuale maggioranza vuole smantellare le risorse pubbliche per lo spettacolo dal vivo quando anche fare un referendum in un giorno diverso dalle elezioni europee costa di più. Chiarisco: ci sono attività culturali che il mercato non sostiene e vanno considerate beni pubblici a tutti gli effetti».
Perché sostenere la cultura con soldi pubblici?
«Perché è l’espressione creativa e culturale dell’uomo. Il sostegno non deve necessariamente passare attraverso il trasferimento di risorse pubbliche: per l’industria culturale si possono pensare forme di defiscalizzazione».
Si sente dire a sinistra: ma il centro sinistra al governo cosa ha fatto?
«Dal 2001 a oggi abbiamo governato per poco più di un anno e mezzo e con una maggioranza stretta fra spinte opposte. È stata una legislatura troppo breve per recuperare i 5 devastanti anni dal 2001 al 2006. Voglio ricordare invece che nel 1998-2001 lottai per inserire il ministro dei beni culturali nel comitato interministeriale per la programmazione economica, il Cipe, che gestisce risorse strutturali. Quindi Bondi, se vuole, può contare».
Come controbatterete?
«Prima di tutto con l’azione in parlamento. Fare una battaglia per ripristinare le risorse. Raccoglieremo idee, suggerimenti, bisogna ripensare a come funziona lo spettacolo dal vivo, serrare le fila, rielaborare strategie. Una missione complicata, non lo nego, ma non impossibile».

Repubblica 1.3.09
Il sorpasso sui matrimoni, già avvenuto al Nord, entro il 2015 si estenderà a tutte le città
Mai più sposi, meglio convivere
di Vera Schiavazzi


Il sorpasso delle "coppie light"
Nel 2015 in Italia più convivenze che matrimoni. Oggi le preferisce una donna su tre
Un mondo che non gradisce più i legami "eterni" e convive con precarietà, mobilità e incertezza sempre crescenti

ROMA. Sposarsi? Non è più di moda, anzi è davvero sconsigliato. E molto presto, forse già nel 2015 se la crisi spingerà sull´acceleratore, in tutta Italia le convivenze supereranno i matrimoni, come già avviene nelle grandi città del Nord. Le giovani coppie preferiscono un legame leggero, a tempo, da confermare in seguito, senza i vecchi mobili della nonna, il mutuo da pagare, la festa inutilmente costosa. Segnali in questa direzione arrivano da tutto il mondo: a Manhattan c´è la percentuale di nozze più bassa, 26% sul totale, negli Usa i matrimoni sono scesi complessivamente al 49%, in Gran Bretagna il numero di chi va a vivere insieme ha superato gli sposati.
In Italia, sceglie di vivere insieme al partner senza formalità una donna su tre tra quelle nate alla fine degli anni Settanta, e quando toccherà a quelle che oggi hanno diciotto anni, le figlie degli anni Novanta, la percentuale potrebbe quasi raddoppiare.
Non è soltanto un fatto di costume: gli esperti spiegano che si tratta di una "strategia adattativa" in un mondo che non ama più i legami "eterni" - che richiedono lacrime e denaro per essere cancellati - e convive con precarietà, mobilità, incertezza sempre crescenti. «Le diciottenni di oggi non si sposeranno senza prima aver provato a convivere, in media per due anni - conferma Alessandro Rosina, demografo, docente alla Cattolica di Milano - Ciò non significa che il matrimonio non abbia più valore, al contrario, per molti resta un traguardo. Ma non al primo colpo».
E oggi le mamme e i papà che devono fare i conti, e molto spesso aiutare, le coppie che vanno a vivere insieme sono gli ex ragazzi degli anni Sessanta: più aperti e tolleranti.
«In questo modo - commenta Rosina - si può creare una coppia anche se la casa di proprietà non c´è ancora e se i redditi non sono così stabili». «Il matrimonio si è trasformato da rito di passaggio all´età adulta a rito di conferma - dice Chiara Saraceno, sociologa della famiglia - Perfino la chiesa cattolica si è adattata: nei corsi prematrimoniali si parla ormai pochissimo di sesso, e l´abito bianco viene considerato come il simbolo di un �nuovo inizio´ anziché della verginità della sposa».
Per comprendere il fenomeno, e la rapidità con la quale si sta correndo verso il sorpasso, le cifre assolute sono poco utili: oggi in Italia le coppie conviventi sono meno del 5 per cento (poco più di 630.000 persone), ma occorre confrontare tra loro le diverse generazioni. Qual è il vantaggio, in un paese dove le forme di tutela riguardano solo chi è ufficialmente coniugato? A scegliere la �coppia leggera´ sono soprattutto le giovani che hanno studiato, sono arrivate non senza fatica a cominciare la loro vita di lavoro e non hanno alcuna intenzione di rallentarla per accudire da sole i figli.
Le quarantenni nate alla fine degli anni Sessanta hanno scelto la convivenza in un caso su quattro, chi è nata nella prima metà degli anni Settanta lo ha fatto in un caso su tre, e così via, con percentuali tre volte più basse al Sud, dove convivere resta un escamotage per rinviare le spese della festa di nozze.
«Queste coppie - aggiunge Saraceno - sono assai più paritarie del passato per età e reddito ma anche per condivisione dei lavori domestici. La caratteristica è un confronto continuo che deve confermare o smentire la scelta iniziale. �vediamo come ti comporti, poi decidiamo´, è il messaggio».
A scoraggiare dalle nozze sono anche le banche, sempre più restie a concedere mutui se il reddito non è stabile, e i molti obblighi previsti: non solo il mantenimento del coniuge in caso di separazione, ma anche gli eventuali doveri verso i suoceri.
«La convivenza - conclude Rosina - è una strategia non solo culturale ma anche economica. Per vivere in una grande città due redditi sono meglio di uno, soprattutto quando possono oscillare. E andare a stare insieme è spesso l´unica forma di difesa dalla prospettiva di restare a vita sotto la custodia dei genitori, proprio come prima lo era sposarsi».

Repubblica 1.3.09
L’attrice Valeria Solarino, compagna del regista Veronesi, ha scelto di non sposarsi
"Un figlio insieme conta più di un certificato chi si ama davvero condivide tutto"
di V. Sch.


Non mi piace giurare eterno amore davanti agli altri, quando poi spesso quel giuramento si rompe

ROMA - «Perché non mi sposo? Perché non mi piace l´idea di giurarsi eterno amore davanti agli altri, quando poi spesso e volentieri il giuramento si rompe. Se si ama un persona si ha voglia di condividere tutto, dal caffè del mattino alla gestione di casa fino ai momenti più difficili, ma è molto più importante la nascita di un bambino di un certificato».
Valeria Solarino, la splendida trentenne di ‘Italians´, ‘La febbre´ e ‘Holy Money´ è il simbolo delle giovani donne italiane che preferiscono non dire ‘sì´ né in chiesa né in municipio. Nonostante la lunga unione col regista Giovanni Veronesi, che l´ha scelta (e se ne è innamorato) sul set di ‘Che ne sarà di noi' (2003).
Ma in Italia molti finiscono con lo sposarsi per avere più tutele...
«È vero, ciò dimostra che serve una legge per tutelare sul piano economico e legale tutte le coppie che convivono, etero o omosessuali che siano. Non c´è proprio nulla di romantico nel dover scegliere il matrimonio perché così si avrà la pensione o la casa in eredità».
E quando arriva un figlio?
«Cambia le cose, c´è una persona che è proprio quella e non un´altra e rappresenta il risultato più grande di una storia d´amore. Ma anche in questo caso sposarsi o non deve restare una libera scelta. Io non ci ho mai pensato, ma è giusto che chi ci crede lo faccia senza essere spinto da ragioni materiali».

Repubblica 1.3.09
Il personaggio
Il ritorno di Rutelli commuove Pannella
di Filippo Ceccarelli


Il leader lo promosse segretario giovanissimo: un rapporto complicato sopravvissuto ai divorzi politici
Tutto può averlo spinto a salire su quel palco: nostalgia o piacioneria
Una volta l’ex ministro disse che chi non è stato anarchico a 20 anni è un fesso

Non è facile veder piangere Marco Pannella. Sul serio. Si è travestito, esaurito, dimagrito a pelle e ossa, si è incatenato, ha fumato hashish e bevuto pipì, si è fatto arrestare.Insomma, Pannella ha fatto le cose più strane e anche le meno convenienti, ma certo è difficile farlo commuovere. Ancora più difficile è capire cosa ha portato Rutelli a Chianciano: irriconoscibile e inviso alla platea del suo ex partito; e tuttavia, o forse proprio per questo indissolubilmente legato a Pannella da rapporti così complicati che per cercare di dipanarli, fino a ieri, toccava mettere in causa la mitologia, come dire l´ultima e primaria risorsa di chi scandaglia l´animo umano.
E dunque, tramandava la leggenda che in questi trent´anni Pannella-Saturno non solo non era riuscito a divorare il pupillo, ma una volta sfuggitogli con destrezza dal piatto, tra un passaggio nei verdi e la creazione dell´Arcobaleno, dal Campidoglio alla leadership del centrosinistra fino al Partito democratico, ecco, Pannella se l´era anche visto approdare dalle parti del cardinal Ruini: e marameo. Tragitto per la verità insieme rispettato e rimosso, a cominciare dalle scelte più personali, tipo sposarsi in chiesa, nell´autunno del 1995: «Solamente il tempo - decretò in quell´occasione l´eterno leader del radicalismo italiano - dirà definitivamente se chi vorrei tuttora fosse il primo erede di Ernesto Nathan abbia abbandonato la storia e la schiera di coloro per i quali Parigi (o Roma) non vale una messa, come alcuni temono. O se vive una nuova, autentica, profonda religiosità. Difendo il diritto di sperarlo». E c´era tutto Pannella in questa lunga dichiarazione: solennità, arsenico del tipo «chi non è con me è contro di sé», spirito cavalleresco, più l´appello finale alla speranza. Meno nobili, senz´altro, si erano mostrati i pannelliani, o ex pannelliani gelosi, come testimonia una cospicua libellistica il cui pezzo forte rimane, a firma Lucio Giunio Bruto, Cicciobello del potere, sottotitolo Francesco Rutelli politicante in carriera (Kaos, 1997).
Ma siccome la politica già da anni vive anche di sentimenti, si può aggiungere che il medesimo Rutelli, nonostante una gragnola di degnate e popolaresche messe a punto - "gli manca tensione creativa", "ha detto una stronzata", "l´ho imbeccato io quando aveva 19 anni", "andrà a sbattere il grugno" - ha proposto di nominare il suo rinnegato mentore senatore a vita: con il che in qualche modo già attenuando la favola saturnina che ieri sera ha forse conosciuto il suo inatteso scioglimento. E allora tutto può averlo spinto a salire su quel palco: la nostalgia e la piacioneria, il massimo della buona fede come il culmine della spregiudicatezza, magari ad uso Pd, o perché Casini intenda, o chissà. Tutto, davvero. Ma nulla che possa togliere al Partito radicale il riconoscimento che gli spetta: di essere stato, cioè, una grande scuola politica, tanto più nei suoi esiti più generosi e imprevedibili.
Ardente e bellissimo, Rutelli si affacciò nella vecchia, lurida e vitalissima sede di Torre Argentina poco più che adolescente. «Chi non è stato anarchico a vent´anni è un fesso» ha detto poi. Lui comunque si fece anarchico contro la famiglia e l´educazione borghese da cui proveniva. Battaglie anti-autoritarie, per lo più, anti-militariste e anti-clericali. Dopo un rapido training, Pannella lo fece segretario e in questo modo, a soli 26 anni, un miracolo anagrafico, Rutelli partecipava alle consultazioni del Quirinale. Poi rimase a lungo capogruppo alla Camera. Ma il Pr non è un partito come tutti gli altri. Anche in questo anticipatore, è una comunità che vive anche di sentimenti possessivi, passioni brucianti e visceralità non di rado autodistruttiva. Per farla breve: alla fine degli anni ottanta Pannella disseminò i suoi talenti in vari partiti, e a Rutelli toccarono i verdi. Solo che quando il grande leader fischiò la fine della ricreazione, il figlio lì rimase, ché tra gli ambientalisti ci stava benissimo, anzi era il più bravo di tutti e proprio perché temprato alla pregiatissima scuola di Torre Argentina. Ebbe poi congrui successi e onori, ma poi anche delusioni e incertezze: il tutto occhiutamente seguito dal potenziale divoratore rimasto a bocca asciutta. Ebbene ieri sera, su quel palco, la mitologia s´è dissolta nella commozione e negli abbracci. O forse per una volta si è rivelata, tra Saturno e il suo più svelto figlietto, solo un´utile fantasticheria giornalistica, un mirabile abbaglio nel buio di quella vicenda che per pigrizia si continua a chiamare politica.

Repubblica 1.3.09
Rutelli va a sfidare i Radicali "Imparai da voi che ogni vita vale"
"La vita vale anche se deformata"
La sfida di Rutelli dai Radicali. Il congresso: partitocrazia infame
Ma Pannella insiste: l’eutanasia è un atto d’amore
di Umberto Rosso


"Caro Marco, meglio la Casa dei Risvegli di un illusorio liberismo bioetico"
"Caro Francesco, la difesa della vita come valore assoluto fa di te un radicale"

CHIANCIANO - Finisce che Rutelli si commuove, a capo chino. Pannella piange proprio. E il popolo radicale si lascia andare all´applauso liberatorio. Venti anni dopo, si ritrovano. Non fanno pace, perché anche dopo stasera, i baci e gli abbracci, ognuno per la sua strada. Marco che vuole staccare la spina, «eutanasia come atto d´amore». E Francesco che difende ad ogni costo la vita, anche «la vita imperfetta e deformata», perché - spiega - proprio dai radicali e a vent´anni imparò a combattere per salvare ogni essere umano. All´epoca, fine anni �70, della campagna contro la fame nel mondo, che poi «fu sconfitta, abbandonata», ma fu allora che «da voi appresi a restare sempre con la schiena dritta, anche se si finisce in minoranza». Insomma, la sua battaglia di oggi contro «un illusorio liberismo bioetico» è figlia di quelle lotte per la vita cominciate a largo di Torre Argentina. Perciò, caro Marco, «meglio la Casa dei Risvegli di Bologna che staccare la spina». Non fanno pace, ma almeno dopo due decenni di silenzio e di polemiche si parlano. Riparte il confronto, che era proprio l´obiettivo della missione a sorpresa dell´ex leader della Margherita al congresso di Chianciano, voglioso di scrollarsi da dosso l´etichetta di lunga mano del Vaticano nel Pd, e accreditarsi come cattolico aperto al confronto con tutti.
Quasi puntuale, sbarca alle sei e mezzo del pomeriggio. Pannella e la Bonino hanno già promesso: «Lo accoglieremo con garbo e serietà». Ma questa trentina di metri, dall´ingresso del tendone fino alla tribuna dove troneggiano gli slogan contro la partitocrazia di regime, questa lunga passerella attraverso volti, ricordi e immagini di una vita fa, sono la prova del fuoco per Rutelli. Ecco Spadaccia. Bandinelli. Ecco Emma. Ecco Bordin, il direttore di Radio Radicale. Cappato. E i semplici militanti. Francesco come stai, Francesco ti ricordi di me, Rutelli benvenuto. Temeva fischi e risse. C´è un unico contestatore: «Rutelli tu non sei un radicale, e non hai diritto di parlare». Si chiama Armando Crocicchio, militante milanese antiproibizionista che vuole l´eroina libera per le terapie, e lo contesta perché sostiene di aver un vecchio conto da regolare, «lui quando era segretario non mi faceva mai parlare».
Pannella, in pullover azzurro, scorta Rutelli, in pullover celeste, e lo fa sedere alla presidenza. Il messaggio è chiaro: è una nostra costola, fa parte della nostra storia. «Non sono venuto qui a sputare sentenze. Non sono venuto qui a parlare da cattolico, perché questo riguarda la mia vita interiore. Porto dubbi e interrogativi». Comincia l´amarcord, e si conquista la platea sventolando un giornale dei tempi eroici, Alternativa non violenta, che negli anni ´70 titolava "Una Hiroshima ogni tre giorni e noi restiamo silenziosi". La campagna contro lo sterminio per fame. «Oggi di quella redazione c´è chi sta al Tg1, chi è parlamentare, chi lavora al Giornale. Ma da voi abbiamo imparato tanto, soprattutto il piacere dell´onestà». E quella volta nel �75 a Firenze, il suo primo congresso, quando incontrò Pasolini e gli chiese di partecipare. Lo scrittore non arrivò mai, lo uccisero la domenica prima, e il suo testo fu letto da Gianni Borgna e Goffredo Bettini. «Sì, lo so che oggi voi mi considerate un conservatore, molto diverso da allora. Pure se la tolemaica stabilità dei radicali vi ha portato a fare le liste con Berlusconi, con l´Unione, da soli, con il Pd». Il congresso incassa la frecciata, senza polemiche. Rispetto e considerazione, incalza, per i radicali e per chi difende il testamento biologico.
Però «non posso farmi una ragione del fatto che vengano considerate retrograde, prossime all´apologia della tortura se non mosse esclusivamente dalla volontà di assecondare la gerarchia cattolica, o da convenienze politicanti, le persone che pensano l´opposto». E rilancia la sua terza via sul fine vita, «senza eutanasia e senza accanimento terapeutico», e l´ultima parola sia «l´alleanza tra medico e paziente». Al congresso dei radicali invece l´ultima parola come sempre ce l´ha Pannella. Cita Pascal, per suggellare la strana rimpatriata: «Chi vuol essere angelo è bestia. Francesco, la difesa della vita come valore assoluto, fa di te non un conservatore ma un radicale».

Repubblica 1.3.09
"La Bianchi come il mullah Omar" Bonino accusa, il Pd chiede rispetto
La capogruppo replica: i radicali sono veri ayatollah
Fioroni: se vanno avanti così, poi sarà difficile convivere nello stesso gruppo
di Giovanna Casadio


ROMA - Dorina ha detto che «la vita non è un bene che appartiene a uno solo, al singolo individuo ma alla collettività». Era appena morta Eluana Englaro, e la senatrice Dorina Bianchi, neo capogruppo del Pd in commissione Sanità, marcava così l´intransigenza cattolica. Emma Bonino se l´è segnato. E ieri, dal palco del congresso del partito, la leader storica dei Radicali le ha affibbiato un soprannome: «La mia collega Dorina Bianchi non è diversa dal mullah Omar, che decide lui chi si suicida saltando in aria». Dorina/mullah non ci ride su e non porge l´altra guancia: «Beh, se io sono il mullah Omar, loro sono ayatollah laicisti, talebani. Non me l´aspettavo però, un attacco così duro da Bonino. Dobbiamo abbassare i toni sul testamento biologico, e invece cosa fanno i laicisti? Li alzano, strumentalizzano». Emma e Dorina stanno nello stesso gruppo dei Democratici, su opposte sponde, come appare. Bonino, che è una donna d´acciaio, e i talebani li visti da vicino come osservatrice Onu in Afghanistan nel 2005, sferra l´attacco sul testamento di fine-vita accolto dalle ovazioni della platea radicale: «Capite bene che se una dice così, è forse meglio ritirare fuori l´Habeas Corpus, quella dichiarazione non l´avevo sentita da tanto tempo. In base a quella i peggiori regimi collettivisti si sono imposti in alcuni periodi della storia. Stiamo attenti a dove stiamo andando», avverte gli amici e compagni di strada del Pd.
Non è un accostamento del tutto inedito. Su YouTube circola la foto della bionda Dorina con relativa dichiarazione pro-life paragonata a una frase di Hitler: «La vita è della nazione». Ovvio che la Bianchi sia irritata; lei propone una «terza via, un po´ diversa da quella di Francesco Rutelli», un lodo per risolvere la questione dell´idratazione e dell´alimentazione forzata ai malati terminali: tenere conto della volontà individuale nel testamento ma in modo non perentorio, l´ultima parola sia di medici e familiari. La difende Beppe Fioroni, il leader ex Ppi nella cui corrente si colloca ormai Dorina. «Bonino è superficiale e mi preoccupa, sulla bioetica non può esserci una linea di partito - ribadisce Fioroni - c´è un orientamento prevalente ma la libertà di coscienza ha piena cittadinanza e vale per i Radicali come per i cattolici». Però, è la postilla: «Bonino porti rispetto, del resto se i Radicali presenteranno alle elezioni europee una loro lista non vedo come possano continuare a restare nel Pd. E attenti. perché il testamento biologico è una cartina al tornasole e non va sottovalutato per la tenuta del Pd».
Bonino ha chiesto anche una moratoria sul testamento biologico perché «nella fretta e nell´urgenza si stavano verificando tentativi di mediazione in cui anche l´italiano era rimasto fuori dalla porta, illegibili». E qui, il vice presidente dei senatori Pd, Luigi Zanda conferma l´apertura: «Se il centrodestra chiede un tempo definito, per obiettivi precisi e togliendo di mezzo questioni inaccettabili. non ci irrigidiremo». Si vedrà martedì, in conferenza dei capigruppo. Nel Pd anche la teodem Paola Binetti è per darsi un po´ di tempo e riflettere. «ma prima delle europee bisogna decidere, così a Strasburgo si viene eletti con posizioni chiare e parole nette. L´autodeterminazione sta diventando un totem». E Renzo Lusetti contro Bonino: «Offensivo e indegno paragonare Dorina al mullah Omar. È il momento di rivedere il rapporto con i Radicali».

Corriere della Sera 1.3.09
Il personaggio «Ferito dalle frasi sulla mia fede: prego ogni mattina alle 6.30»
Marino e i «nemici»: la Binetti mi ha offeso Dorina? Da lei una grande delusione
di Margherita De Bac


Sulla Bianchi
«Ci sono rimasto male, un cambio di rotta sconfortante.
Si era impegnata a condividere la nostra posizione»

ROMA — Sarà perché era reduce da una standing ovation tutta per lui all'Università di Genova, inaugurazione dell'anno accademico. Ma ieri sera verso le 18 Ignazio Marino vedeva decisamente positivo: «Ho tenuto una lettura citando anche una frase di Paolo VI. Ho affermato che non è compito del medico usare tutti gli strumenti messi a disposizione dalla scienza. Oltre 500 persone in piedi. Professori, toghe, berretti, divise, prelati. E meno male che dovevano contestarmi», si allaccia la cintura il senatore, di ritorno a Roma.
Eppure di amarezze e delusioni ne avrà incassate, durante la sua battaglia per un testamento biologico che garantisca piena libertà di scelta. Assolve anche Dorina Bianchi, che si è dissociata dalla posizione prevalente del Pd?
«Oddio, con lei devo ancora chiarire. Ci sono rimasto male, un cambio di rotta sconfortante. Si era impegnata a condividere la nostra posizione. Una delusione avere un capogruppo che la pensa diversamente».
La teodem Paola Binetti, non è stata certo tenera con lei.
«Una sua frase in effetti mi ha ferito. "Cattolico, mah lo saprà solo Dio...", ha dubitato. Questo allora deve valere per tutti e due. Provengo da una famiglia cristiana, ho vissuto lo scoutismo degli Anni 70 quando vennero introdotti i campi misti. Per accompagnare il nuovo percorso, a noi giovani vennero affiancati assistenti spirituali.
Con me, nel gruppo Roma 9˚, quartiere Prati, c'era Paolo Romeo, oggi arcivescovo di Palermo. Il cappellano del collegio San Giuseppe De Merode dove ho studiato era il futuro cardinale Pappalardo».
È un cattolico praticante?
«Sì e ogni mattina alle 6 e mezza apro il sito Liturgia della Settimana,
gruppo di preghiera gestito dai monaci benedettini per leggere la scrittura del giorno. Me lo ha consigliato anni fa l'imprenditrice Marina Salamon».
Chi le è stato più vicino in questi mesi?
«Oltre a Giuliano Amato e Anna Finocchiaro, che mi ha sempre sostenuto, sicuramente Massimo D'Alema. Mi telefonò dopo la mia proposta di organizzare un referendum se la legge sul biotestamento fosse passata come la vuole il Pdl. "Ignazio ti sono vicino". E poi Walter Veltroni. Quando è sceso dal palco dopo le dimissioni da segretario del partito è venuto ad abbracciare e baciare me fra i primi. "Ignazio, sii saggio, è un momento importante..."».
Va d'accordo con Rosy Bindi?
«L'ho incontrata fuori dallo studio di Dario Franceschini. Io entravo, lei usciva. Mi ha detto: "Dobbiamo frequentarci di più, quando questo accade diventi bravissimo". Forse era un invito a seguire la sua linea. Siamo su posizioni molto distanti. Guardi il caso Welby. Per Rosy si è trattato di un suicidio assistito».
Ma c'è anche qualcuno che detesta per le posizioni che ha assunto.
«Se così è non lo frequento proprio. Punto».
Insomma, alla fine chi vorrebbe buttare giù dalla torre?
«Non sono un litigioso. Non serbo rancore, una volta che chiarisco. Un buon chirurgo non si adira. Io poi appartengo alla scuola americana. Negli Stati Uniti se tratti male un infermiere o alzi la voce in sala operatoria sei licenziato. Se maltratti un parigrado ricevi un'ammonizione. Inoltre in questo periodo ho tutti i motivi per essere contento, soddisfatto ».
E perché dovrebbe?
«Grazie al mio impegno nella bioetica si è radicata la coesione con i circoli. Il mio sito è passato da un centinaio di contatti al giorno dello scorso dicembre ai 3.500 di oggi. Le adesioni al mio www.appellotestamentobiologico.it sull'autodeterminazione sono raddoppiate in pochi giorni. Molti parlamentari del Pdl mi stringono la mano. Sono con te, Ignazio...».

Corriere della Sera 1.3.09
Il fronte dei «dissidenti» «Non se ne farà niente ma se il ddl di Calabrò arriverà in Aula non lo voterò»
Cossiga: la proposta del Pdl non va, divide i cattolici
di Roberto Zuccolini


ROMA — Scommette Francesco Cossiga: «Ci sono troppe divisioni sia nella maggioranza che nell'opposizione. Credo proprio che alla fine non se me farà un bel niente ». Ma avverte: «Non ho dubbi: se alla fine dovesse arrivare al Senato quel testo io non lo voterei». In altre parole, all'ex Presidente della Repubblica non piace affatto il testo sul testamento biologico che porta la firma di Raffaele Calabrò. Cioè quello a cui fa riferimento la coalizione di centrodestra. Non gli piace da cittadino italiano e non gli piace da cattolico.
L'ideale, spiega, sarebbe stato che il Parlamento «non si occupasse per niente della "fine vita"», come ha invocato Giuseppe Pisanu qualche giorno fa, lasciando quindi le cose così come stanno. Però, a differenza dell'altro ex democristiano sardo, ritiene che, dopo il caso di Eluana, di fronte a quelle che giudica «invadenze di campo della giurisdizione nella legislazione, si rendeva necessario un intervento». Perché è decisamente contrario alla sentenza della Corte di Cassazione che ha offerto a Beppino Englaro la possibilità di interrompere la nutrizione e l'idratazione della figlia Eluana. Fare una legge è quindi d'obbligo. Ma perché, si chiede, redigere un testo che rischia di creare «inutili guerre di religione»?
Il riferimento è alla frattura che si è creata non solo fra cattolici e laici, ma anche fra cattolici di entrambi gli schieramenti. Fino alla lettera dei 53 parlamentari «pro life» alla quale ha aderito egli stesso insieme ad esponenti del Pdl come Alfredo Mantovano. Il relatore del testo in discussione in Parlamento l'ha bollata come espressione di una «corsa » a chi fa di più il cattolico. La risposta di Cossiga è severa. Dice che «non si tratta affatto di concorrenza tra cattolici, anche perché tra i firmatari » del manifesto critico nei confronti del testo Calabrò, «c'è un amico ebreo, deputato del Pdl, che crede nei valori ». Cioè Alessandro Ruben. E continua: «È una questione di realismo nei confronti di una magistratura che, dalla Corte di Cassazione alla Corte Costituzionale, con arzigogoli giuridici ha mandato a morte una ragazza».
E allora, se si vuol fare una legge la si faccia, invita Cossiga, ma «breve», per evitare equivoci nonché possibili forzature interpretative. E, soprattutto, «guerre di religione ». Una mini-legge che stabilisca alcune, precise, strettoie: «l'alimentazione e l'idratazione non costituiscono accanimento terapeutico», «si lasci al medico curante di giudicare se un supporto farmacologico e meccanico costituisca o meno, ad un certo punto della cura, un accanimento terapeutico», comunicandolo «per iscritto ai familiari o al tutore», e «si riservi al giudice il giudizio su ricorsi presentati contro la decisione del medico di interrompere le cure». Ma, soprattutto, «non si preveda alcun testamento biologico», nè dichiarazione anticipata, che possa fungere da anticamera dell'eutanasia.

Repubblica 1.3.09
Gli ex-voto del Pd esuli in Italia
di Ilvo Diamanti


Scomparsi. Molti elettori che un anno fa avevano votato per il Pd: chissà dove sono finiti. I sondaggi condotti dai maggiori istituti demoscopici, infatti, oggi stimano il voto al Pd fra il 22 e il 24%. Alcuni anche di meno.
L´IdV di Antonio di Pietro, parallelamente, ha pressoché raddoppiato i consensi e si attesta intorno al 9%. Le diverse formazioni riunite un anno fa nella Sinistra Arcobaleno, infine, hanno risalito la china, ma di poco. Nell´insieme, queste stime di voto non danno risposta al quesito.
Anzi: lo rilanciano. Dove sono finiti gli elettori che avevano votato per il Pd nel 2008? Rispetto ad allora mancano circa 10 punti percentuali. L´IdV ne ha recuperato qualcuno. Ma non più di 2 o 3, secondo i flussi rilevati dai sondaggi. E gli altri 7-8?
Quasi 3 milioni di elettori: svaniti. O meglio: invisibili a coloro che fanno sondaggi. Perché si nascondono. Non rispondono o si dichiarano astensionisti. Oppure, ancora, non dicono per chi voterebbero: perché non lo sanno.
Certamente, non si tratta di una novità. L´incertezza è una condizione normale, per gli elettori. D´altronde, è da tempo che non si vota più per atto di fede. Inoltre, non si è ancora in campagna elettorale. E di fronte non ci sono elezioni politiche, ma altre consultazioni, nelle quali gli elettori si sentono più liberi dalle appartenenze. Come dimenticare, d´altronde, che il centrodestra ha perduto tutte le elezioni successive al 2001? Amministrative, europee, regionali. Fino al 2006: tutte. Forza Italia, in particolare. Nei mesi seguenti alle regionali del 2005 i sondaggi la stimavano sotto il 20%. Dieci punti in meno rispetto al 2001. Come il Pd oggi. Ridotto al rango del Pds nel 1994. Sappiamo tutti cosa sia successo in seguito. Parte degli elettori di FI sono rientrati a casa, trascinati dal loro leader. Mobilitati dal richiamo anticomunista. Dalla paura del ritorno di Prodi, Visco e D´Alema. Se ne potrebbe desumere che qualcosa del genere possa avvenire, in futuro, anche nella base elettorale del Pd. Ma ne dubitiamo. Non solo perché un richiamo simmetrico, in nome dell´antiberlusconismo, oggi è già largamente espresso � urlato � da altri attori politici. Primo fra tutti: Di Pietro. Non solo perché le elezioni europee � come abbiamo detto � non sono percepite come una sfida decisiva. Visto che sono, appunto, europee. Ma perché la defezione dichiarata nei confronti del Pd ha un significato diverso da quella che colpiva il centrodestra negli anni del precedente governo Berlusconi. Allora, gli astenuti reali (rilevati alle elezioni) e potenziali (stimati dai sondaggi), tra gli elettori di FI, erano semplicemente «delusi». Insoddisfatti dell´andamento dell´economia e dell´azione del governo. Il quale aveva alimentato troppe promesse in campagna elettorale. Difficili da mantenere anche in tempi di crescita globale. Mentre, dopo l´11 settembre del 2001, quindi subito dopo l´insediamento, era esplosa una crisi epocale, destinata in seguito ad aggravarsi. Si trattava, perlopiù, di elettori senza passione. Moderati oppure estranei alla politica. Non antipolitici. Semplicemente impolitici. Non era impossibile risvegliarli. Spingerli ad uscire di nuovo allo scoperto. Il caso degli elettori del Pd è molto diverso, come si ricava da alcuni sondaggi recenti di Demos.
Coloro che, dopo averlo votato un anno fa, oggi si dicono astensionisti, agnostici o molto incerti (circa il 30% della base PD) appaiono elettori consapevoli, istruiti, politicamente coinvolti. Rispetto agli elettori fedeli del PD, si collocano più a sinistra. Si riconoscono nei valori della Costituzione. Sono laici e tolleranti. Ça va sans dire. Oggi nutrono una sfiducia totale nei confronti della politica e dei partiti. Anzitutto verso il Pd, per cui hanno votato. Per questo, non si sentono traditori, ma semmai traditi. Perché hanno creduto molto in questo soggetto politico. Per cui hanno votato: alle elezioni e alle primarie. E oggi non riescono a guardare altrove, a cercare alternative. La loro sfiducia, d´altronde, si rivolge oltre il partito di riferimento. Anzi: oltre i partiti. Oltre la politica. Si allarga al resto della società. Agli altri cittadini. Con-cittadini. Rispetto ai quali, più che delusi, si sentono estranei. Gli ex-democratici. Guardano insofferenti gli italiani che votano per Berlusconi e per Bossi. Quelli che approvano le ronde e vorrebbero che gli immigrati se ne tornassero tutti a casa loro. La sera. Dopo aver lavorato il resto del giorno nei nostri cantieri. Gli ex-democratici. Provano fastidio � neppure indignazione � per gli italiani. Che preferiscono il maggiordomo di Berlusconi a Soru. Che guardano Amici e il Festival di Sanremo, il Grande Fratello. Che non si indignano per le interferenze della Chiesa. Né per gli interventi del governo sulla vicenda di Eluana Englaro. Non sono semplicemente delusi e insoddisfatti, come gli azzurri che, per qualche anno, si allontanarono da Berlusconi. Ma risposero al suo richiamo nel momento della sfida finale. Questi ex-democratici. Vivono da «esuli» nel loro stesso paese. Lo guardano con distacco. Anzi, non lo guardano nemmeno. Per soffrire di meno, per sopire il disgusto: si sono creati un mondo parallelo. Non leggono quasi più i giornali. In tivù evitano i programmi di approfondimento politico, ma anche i tiggì (tutti di regime). Meglio, semmai, le inchieste di denuncia, i programmi di satira. Che ne rafforzano i sentimenti: il disprezzo e l´indignazione.
Questa raffigurazione, un po´ caricata (ma non troppo), potrebbe essere estesa a molti altri elettori di sinistra (cosiddetta "radicale"). Scomparsi anch´essi nel 2008 (2 milioni e mezzo in meno del 2006: chi li ha visti?). Non sarà facile recuperarli. Per Franceschini, Bersani, D´Alema, Letta. Né per Ferrero, Vendola, lo stesso Di Pietro. Perché non si tratta di risvegliare gli indifferenti o di scuotere i delusi. Ma di restituire fiducia nella politica e negli altri. Di far tornare gli esuli. Che vivono da stranieri nella loro stessa patria.

Corriere della Sera 1.3.09
Il Pd e Franceschini
La sinistra e un ex Dc come ultima speranza
di Paolo Franchi


«Ci voleva Dario Franceschini perché diventassimo un partito di sinistra», confessa, chissà se più divertito o più preoccupato, un amico democristiano di lungo corso che da anni ha trovato dimora, chissà quanto fissa, nel Partito democratico. Non è il solo a pensarla così.
Domenica scorsa, nel suo editoriale su Repubblica, Eugenio Scalfari, a proposito dei destini del testamento biologico, ha scritto: «Nessuno meglio di un cattolico democratico può accollarsi la responsabilità di difendere la laicità dello Stato, la libertà dei cittadini e la loro eguaglianza di fronte alla legge, anche se sostenendo questi principi si discosta dalle posizioni dei vescovi e del Vaticano». E mercoledì, su La Stampa, persino il navigato e saggio Emanuele Macaluso, uno che non ha mai nascosto di non credere neanche un po' all'idea stessa del Pd, ha voluto mettere nero su bianco la sua (parziale) apertura di credito al successore di Walter Veltroni: «Dopo Prodi, sembra che nel Pd, così come è stato concepito, una politica di sinistra moderata e moderatamente laica possa essere fatta solo da una personalità che proviene dalla Dc e dal mondo cattolico ». Non è dato sapere se Franceschini riuscirà a mettere un freno alle pulsioni autodistruttive del Pd: chi scrive rispetta più di molti ex democristiani la tradizione e i meriti della Dc, ma si consente di nutrire, in materia, qualcosa di molto più profondo e più radicale di un semplice dubbio. E' certo però, che sia pure con qualche vistosa sbavatura, come il giuramento sulla Costituzione reso nelle mani del papà ex partigiano ed ex deputato dc di osservanza scelbiana, il neosegretario democratico non sembra affatto volersi muovere come un reggente, o un re travicello, nel ruolo cioè che un po' tutti gli avevamo preconizzato. Magari starà «giocando al dottore», come dice con intelligenza perfida Rino Formica. Ma nessuno al momento vuole e può impedirgli di giocare. Tanto meno i democrat di provenienza ds. E' possibile, anzi, persino probabile che domani, o dopodomani, verrà giù come un castello di carte tutto il Pd. Intanto, però, gli sconfitti certi sono loro, i postcomunisti. In futuro forse potranno anche candidare Pierluigi Bersani. Oggi sembrano non avere più alcun titolo per rappresentarsi come il nerbo della sinistra in un partito di centrosinistra, e non sono più in grado, primarie o non primarie, nemmeno di candidare un loro uomo (è un evento senza precedenti) a sindaco di città come Bologna o Firenze, ma anche, per dire, Ferrara o Forlì.
Non ci vuole molto a comprendere perché gli ex diessini siano in vistosa sofferenza. Un percorso, iniziato nell'Ottantanove con la svolta di Achille Occhetto, sembra essersi definitivamente compiuto, e nel peggiore dei modi. Se il Partito democratico si salverà (e, insistiamo, la cosa è tutta da stabilire, perché ci sono ragioni evidenti per essere peggio che pessimisti) non sarà grazie a loro, ma nonostante loro, che, nei fatti se non nelle apparenze, avevano pensato di governarlo, e ne rappresentano invece il più vistoso punto di debolezza e di crisi. Perché? Sostiene Sartori sul Corriere, e ha perfettamente ragione, che questa storia ha origini antiche. E spiega: «Per una trentina d'anni abbiamo avuto la più grande sinistra dell'Occidente, che era però egemonizzata dal Pci e dallo stalinismo di Togliatti. Non era una sinistra abituata a pensare con la sua testa, ma invece ingabbiata nel preconfezionato di un dogmatismo ideologico. Caduta la patria sovietica, quel pensare e quel pensarsi che altrove ha rifondato la sinistra su basi socialdemocratiche da noi non si è risvegliato. La fede comunista si è semplicemente trasformata in un puro e semplice cinismo di potere». Si può non essere d'accordo (è il caso del sottoscritto) sul fatto che il Pci fosse solo stalinismo e dogmatismo ideologico, una setta, insomma, non foss'altro perché una setta stalinista e dogmatica non egemonizza niente e nessuno. Ma è difficile dubitare del «cinismo di potere» con il quale i sopravvissuti hanno immaginato di poter sopperire all'incapacità (o al rifiuto?) di ripensarsi e ripensare in chiave compiutamente socialdemocratica nonostante ormai sedessero nelle poltronissime del Pse e dell'Internazionale socialista. La tragedia della sinistra italiana sta soprattutto nel fatto che un grande partito come il Pci è sopravvissuto (provvedendo a conservare molta acqua sporca dopo essersi accertato di aver gettato via il bambino) per almeno trent'anni all'esaurimento della sua spinta propulsiva, per venti, altro che elaborazione del lutto, addirittura alla sua morte. E, strumentale o no che sia la cosa, il fatto che a incarnare la faccia laica e di sinistra del Pd ci possa essere soltanto un democristiano, come riconoscono tanti e tanto autorevoli commentatori, sembra un'applicazione della legge del contrappasso.

Liberazione 1.3.09
Salario sociale e lista unitaria
di Paolo Ferrero


Lo sprofondo dell'economia statunitense segnala in questi giorni la pesantezza della crisi. Come diciamo da mesi la crisi è profondissima e sarà una crisi "costituente", che cambierà il volto dell'Italia. E' una crisi del sistema capitalistico, ingenerata dalla finanziarizzazione dell'economia e dalla compressione della massa salariale. Non è quindi la crisi della globalizzazione neoliberista ma il frutto legittimo - anche se avvelenato - di quella globalizzazione. Le politiche liberiste praticate per anni hanno portato al blocco del meccanismo di accumulazione capitalistico. E' quindi una crisi di sistema da cui non è possibile uscire senza profondi sconquassi del sistema stesso. Negli Stati Uniti Obama sta dando una risposta che rompe decisamente con le politiche reaganiane e pone alcuni elementi di sinistra. Far pagare più tasse ai ricchi per costruire un sistema sanitario nazionale - per i poveri - non è solo un atto simbolico.
In Italia il governo, riproponendo in pieno il programma della P2, persegue una uscita da destra dalla crisi, sul piano istituzionale, sociale e culturale. Sul piano istituzionale lavora - con contraddizioni - per scardinare la Costituzione: mette in discussione l'autonomia della magistratura e propone l'elezione diretta del Capo dello stato. Sul piano sociale lavora per la distruzione del sindacato di classe, lo smantellamento del diritto di sciopero, la distruzione del contratto di lavoro e la conseguente ulteriore compressione salariale. Sul piano culturale propone un impasto di clericalismo integralista con il razzismo della lega e la guerra tra i poveri come orizzonte quotidiano. L'azione del governo ha contraddizioni al suo stesso interno ma ha il suo punto di forza nella incapacità dell'opposizione parlamentare di avanzare un'alternativa. Al di là della buona proposta di Franceschini sull'indennità di disoccupazione, la dice lunga sulla situazione il fatto che il piano anticrisi del Pd, messo a punto da Bersani, non contenga il tema della redistribuzione del reddito e si collochi così a destra di Obama.
In questo contesto noi abbiamo lavorato alla ripresa del radicamento sociale del partito, con iniziative di lotta, con la generalizzazione delle iniziative contro il carovita, partecipando al complesso delle mobilitazioni nazionali e locali. Detto questo, il motore di queste mobilitazioni è stato sin ora la Cgil, che ha costruito la spina dorsale dell'opposizione e delle lotte. Si tratta ora di fare un salto di qualità su almeno tre piani.
In primo luogo la quantità delle mobilitazioni. Ieri a Torino si è svolta una importante e partecipata manifestazione della Cgil contro la crisi; si tratta di generalizzare iniziative di questo tipo e di renderle più capillari.
Occorre organizzare una discussione sulle cause della crisi e sulle modalità di uscita dalla crisi su tutto il territorio, in ogni comune, sui luoghi di lavoro. Occorre organizzare e coordinare coloro che perdono il lavoro. Occorre costruire risposte collettive a drammi che altrimenti vengono vissuti come individuali. Mi pare che per ora la discussione tocchi soprattutto gli addetti ai lavori. Dobbiamo rapidamente fornire momenti di incontro, discussione, comprensione e organizzazione che tocchino larga parte di coloro che sono colpiti dalla crisi, non solo le persone politicizzate. Occorre estendere l'iniziativa al di fuori dei recinti di chi già fa politica.
In secondo luogo occorre fare un salto di qualità nel conflitto. Posso sbagliarmi, ma alle iniziative di lotta nate dopo l'onda studentesca, partecipano soprattutto i lavoratori organizzati sindacalmente. I giovani, i lavoratori precari, a tempo determinato, che operano nelle piccole e piccolissime imprese, così come i disoccupati, sono sostanzialmente estranei a queste mobilitazioni. Stanno cioè scendendo in piazza coloro che hanno una rete di tutele mentre coloro che sono più esposti alla crisi sono abbandonati a se stessi e alla guerra tra i poveri. Occorre avanzare una proposta unificante, che dentro la crisi ricostruisca l'unità tra lavoratori e disoccupati, tra nord e sud del paese. Fino ad ora abbiamo proposto la generalizzazione della cassa integrazione a tutti coloro che perdono il posto di lavoro. Si tratta di una parola d'ordine giusta ma non sufficiente. Propongo di costruire da subito una campagna di massa per il salario sociale per i disoccupati. Generalizzazione della cassa integrazione e salario sociale per i disoccupati devono diventare una campagna di massa nel nord e nel sud del paese, coinvolgere i lavoratori che rischiano il posto di lavoro, i disoccupati, gli studenti. Il salario sociale ai disoccupati è la principale misura da rivendicare per evitare la guerra tra i poveri e per allargare il fronte di lotta.
In terzo luogo occorre affrettare la costruzione di una lista unitaria per le europee che unifichi la sinistra anticapitalista e comunista su una proposta di uscita da sinistra dalla crisi. Abbiamo sempre detto che il terreno europeo è il terreno su cui agire la proposta dell'alternativa; questo è tanto più vero oggi, nella crisi; per questo diciamo che la lista deve rafforzare la sinistra anticapitalista in Europa e quindi il Gue, il gruppo unitario della sinistra in Europa. Proponiamo di partire dal simbolo di Rifondazione Comunista e vogliamo - nel rispetto della dignità di ogni soggetto - aggregare tutti i partiti, le associazioni, i movimenti che su questa prospettiva anticapitalistica di uscita a sinistra dalla crisi vogliono spendersi. Non si tratta solo di fare un accordo tra partiti; i diversi progetti politici che legittimamente muovono le diverse forze politiche non possono diventare il centro attorno a cui costruire la lista o l'ostacolo per non farla. La costruzione di una lista unitaria della sinistra anticapitalista e comunista, in cui tutti si possano riconoscere, è un progetto necessario e a portata di mano. Occorre farla e Rifondazione Comunista propone di farla rapidamente, evitando ogni settarismo e ogni inutile polemica.

Repubblica 1.3.09
L’allarme della Cgil: il nostro sarebbe l’unico governo a licenziare in piena crisi
E anche nello Stato si rischia in pericolo 100mila posti pubblici
Solo nella scuola non saranno rinnovati 30-40mila contratti
di Roberto Mania


ROMA - Centinaia di migliaia di lavoratori precari perderanno il lavoro nel corso del 2009 e continueranno a non ricevere alcuna indennità di disoccupazione. Nonostante il decreto anti crisi varato dal governo, nonostante gli otto miliardi di euro stanziati per il biennio 2009-2010 per la cassa integrazione in deroga. Per qualcuno, al massimo, arriverà una "mancia", una tantum, pari al 10 per cento del reddito dell´anno precedente che in media non supera gli 8.500 euro. Difficile stimare quanti possano essere questi lavoratori. Al Dipartimento politiche del lavoro della Cgil parlano di almeno 160 mila lavoratori con contratto a progetto nelle aziende private che perderanno il posto. Poi ci sono i contratti a termine che non saranno rinnovati.
Ma il vero paradosso è che potrebbe essere la pubblica amministrazione, nel bel mezzo della più grave recessione degli ultimi decenni, a ricorrere in massa ai licenziamenti: tra il 2009 e 2010 - sempre secondo i calcoli della Cgil - scadono oltre 100 mila contratti precari che, salvo un nuovo intervento normativo, non potranno più essere rinnovati. Solo nella scuola sono intorno ai 30-40 mila. «Il nostro - sostiene Fulvio Fammoni, segretario confederale della Cgil - sarebbe l´unico governo a licenziare in piena crisi».
Per il triennio 2009-2011 e in via sperimentale, il governo ha previsto di erogare ai co.co.pro (collaboratori a progetto) con alcuni requisiti (iscritti in via esclusiva alla gestione separata dell´Inps, con un solo committente e un reddito compreso tra i 5 mila euro e poco più di 11 mila nel 2008) una sorta di indennità risarcitoria per la perdita del lavoro pari al 10 per cento, appunto, del reddito dell´anno precedente. Al di là dell´ammontare che consentirebbe di sopravvivere al massimo per un mese, «non saranno molti» - come ha scritto il Sole 24 Ore - coloro che potranno beneficiare di questo minimo sostegno al reddito. Secondo uno studio dell´Università La Sapienza di Roma sono circa 800 mila i co.co.pro assimilabili di fatto ai lavoratori dipendenti, ma non saranno più di 10 mila quelli che prenderanno l´indennità. I calcoli l´hanno fatti e pubblicati sul sito de Lavoce.info, tre ricercatori del Laboratorio Revelli di Torino. Secondo i quali alla fine l´esborso pubblico non supererà gli otto milioni di euro. «Un bel gesto che non impegna», hanno commentato i tre studiosi, Fabio Berton, Matteo Richiardi e Stefano Sacchi.
La massa critica dei precari è rappresentata dai contratti a termine che, quando scadono, con la crisi, non si rinnovano. Secondo alcune stime già oltre 400 mila lavoratori sono rimasti a casa, escludendo quelli del pubblico impiego. Per chi perde il lavoro nel privato è prevista l´indennità di disoccupazione ma solo per 90 giorni. E il percorso per ottenerla non è lineare. «Ci sono gli sbarramenti», dice Fammoni. Infatti per ricevere l´indennità di disoccupazione ordinaria bisogna essere iscritti all´Inps da almeno due anni e avere versato nel biennio precedente almeno 52 contributi settimanali. Requisiti adatti a chi lavora con i contratti standard, non ai precari. Per chi non ha questi requisiti c´è sempre la possibilità dell´indennità (sempre per 90 giorni) con i requisiti ridotti. Ma qui l´ammontare si aggira intorno al 35-40 per cento dell´ultima retribuzione.
D´accordo con le Regioni il governo ha deciso di destinare 8 miliardi di euro per la cassa integrazione in deroga, cioè per quei settori e quelle aziende (in particolare quelle di piccole dimensioni) che attualmente non ce l´hanno. «Ma da Bruxelles - dice Fammoni - non è ancora arrivato il via libera al decreto. In più checché se ne pensi l´indennità di cassa integrazione non è l´80 per cento dell´ultimo stipendio, ma ha un tetto che è poco più di 800 euro. Da qui il rischio che tra un po´ la questione sociale esploda. Per quanto tempo si può vivere con 800 euro al mese?».

Corriere della Sera 1.3.09
Nel mondo Il cinese mandarino è il più diffuso.
Nelle ultime tre generazioni scomparsi 200 dialetti
Lingue salvate, lingue perdute Il nuovo atlante delle parole
Dei 6 mila idiomi 2.500 rischiano di sparire
di Paolo Salom


Globalizzazione
La scomparsa di certe forme espressive è un fenomeno mondiale.
Ma non si può sostenere che l'inglese e lo spagnolo siano le lingue-killer
In Italia Dalla Valle d'Aosta alla Puglia sono cinque le forme espressive autoctone minacciate di estinzione

Signor Candido Ortiz, lei è accusato di tentato omicidio in stato di ubriachezza». Niente, nessuna risposta. «Lei capisce quello che sto dicendo?». No, Candido Ortiz, 20 anni, non può capire. È uno delle migliaia di immigrati più o meno regolari che sopravvivono in California senza avere mai imparato l'inglese. Il caso di Ortiz ha meritato la prima pagina del Los Angeles Times perché i cancellieri del tribunale distrettuale hanno impiegato tre mesi prima di trovare un interprete in grado di far comprendere all'imputato i suoi diritti costituzionali e, soprattutto, le accuse. Alla fine, con un espediente degno di Hollywood, procuratore e avvocati hanno potuto finalmente interloquire con lui grazie a una triangolazione in teleconferenza con il Messico, suo Paese d'origine. Tanta fatica per un traduttore dallo spagnolo? No, certo: la lingua di Ortiz non è l'idioma di Cervantes nella sua versione americana bensì il ben più raro Quetzaltepec (una variante dialettale india del comunque inconsueto Mixe) parlato da non più di 7 mila anime nella regione montagnosa meridionale di Oaxaca.
Caso da Guinness? Non secondo l'Unesco, che nei giorni scorsi ha presentato l'Atlante internazionale delle lingue in pericolo di estinzione. Cifre da far paura: dei 6 mila idiomi parlati nel mondo, secondo l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'educazione, la scienza e la cultura, almeno 2.500 potrebbero sparire per sempre. A essere «sull'orlo » della scomparsa, o a rischiare una «morte certa — ci spiega l'australiano Christopher Moseley, capo dell'équipe di 30 linguisti che hanno curato il progetto — sono soprattutto le parlate delle regioni a forte diversità linguistica come la Malesia, l'Africa subsahariana e l'America del Sud». Nell'elenco sono citate lingue conosciute (come sonorità) grazie ai film western: per esempio il Nez Perce, la lingua degli indiani Nasi Forati (sono rimasti soltanto 20 in grado di parlarla tra Idaho e Oregon); il Mescalero- Chiricahua Apache (3 parlanti nell'Oklahoma); e il Lakota di Balla coi lupi (25 mila parlanti nel South Dakota). E ovviamente lingue virtualmente sconosciute come il Chulym medio, scoperto solo 5 anni fa, e parlato da 35 persone nella russia siberiana. Sorpresa: nell'atlante la sezione dedicata all'Italia segnala cinque idiomi a rischio estinzione. Sono il Gardiol (340 parlanti), il Griko del Salento (20 mila parlanti) e il Griko della Calabria (2 mila parlanti), il Töitschu (tedesco) della Valle d'Aosta (200 parlanti) e il croato molisano (5 mila parlanti). Considerando i dialetti a basso rischio, l'atlante dell'Unesco fa una lista totale di 31 idiomi italici «in pericolo». «Il nostro lavoro — dice ancora Chris Moseley — è assimilabile a quello di un naturalista che metta in luce la fragilità di una specie animale o vegetale. Perché salvare una lingua che va scomparendo? Intanto perché è parte di una biodiversità che garantisce la ricchezza e la varietà delle culture umane. E poi perché ogni lingua, anche la più rara, è un esempio di una meraviglia, di più, di un miracolo dell'evoluzione che ha prodotto un insieme unico di parole, suoni e architettura grammaticale. Un insieme che è anche una visione del mondo originale, uno specchio delle metafore, del pensiero che una determinata popolazione utilizza per interpretare il mondo. Lasciarla svanire sarebbe un danno irreparabile: ogni lingua è un universo».
Qualcuno, a questo punto, potrebbe farsi l'idea che le lingue «minori» siano in difficoltà (unicamente) per colpa delle lingue dominanti (cinese mandarino, la più parlata, con 1.120 milioni; inglese, 510 milioni; hindi, 490 milioni; spagnolo, 425 milioni; arabo, 255 milioni). Niente di più sbagliato: «La scomparsa delle lingue è un fenomeno universale», spiega ancora Moseley. Aggiungendo come sia «semplicistico affermare che le grandi lingue che sono state lingue coloniali siano dappertutto responsabili dell'estinzione degli altri idiomi. Io non definirei spagnolo e inglese come lingue-killer, anche se è vero che hanno imposto degli standard: ma in Sudamerica, per esempio, molte parlate degli indios sono protette dai governi e stanno rinascendo. Il fenomeno è invece più legato allo sviluppo economico e alla globalizzazione, con le grandi migrazioni e l'abbandono "volontario" delle lingue "minori", alla diffusione di media moderni come televisione, radio e giornali. Poi ci sono fenomeni drammatici: lo tsunami, nel 2004, ha cancellato intere comunità nel Sud-Est asiatico con i loro idiomi». Sottolinea, a questo proposito, sul Monde Cécile Duvelle, capo della sezione del patrimonio immateriale dell'Unesco: «Le lingue sono vive. Certe muoiono, altre nascono».
Ecco dunque che, leggendo l'atlante (on line all'indirizzo www. unesco. org/ culture/ en/ endangeredlanguages), si scopre che 200 lingue si sono estinte nel corso delle ultime tre generazioni, 538 sono in una situazione «critica», 502 «seriamente in pericolo», 632 in «pericolo» e 607 «vulnerabili». Proseguendo con i dati dell'Unesco si vede che 199 lingue sono parlate al momento da meno di dieci persone.
Una tendenza preoccupante, che si può tuttavia contrastare come già accade, per esempio, nel nostro Paese. A Guardia Piemontese, paesino che, a dispetto del nome, si trova in Calabria, in provincia di Cosenza. «Nel centro storico — ci dice il sindaco di Guardia, Gaetano Cistaro — vivono oltre 300 persone la cui lingua madre è il Gardiol, ovvero l'Occitano originario delle valli valdesi del Piemonte». Nella loro lingua potremmo dire, senza bisogno di un interprete: O país de la Gàrdia l'es 'o sol país de la Calàbria aont la se parlla la lenga occitana.
Come è possibile questo miracolo? «I "gardioli" — racconta il sindaco — sono scesi in Calabria tra il XIII e il XIV secolo. Si sono stabiliti su una rocca e hanno resistito alle persecuzioni contro i valdesi durante la Controriforma. Alla fine hanno perso la loro religione: non hanno potuto evitare di convertirsi al cattolicesimo. Ma è stata proprio la lingua occitana, da loro conservata gelosamente, a salvarli dalla scomparsa come comunità culturale». Oggi sono perfettamente bilingue. E hanno, a loro disposizione, una scuola con lettorato occitano, un'amministrazione che fa di tutto per favorire la rinascita del Gardiol offrendo servizi come lo sportello linguistico, mentre la Provincia di Cosenza opera attraverso l'assessorato alle minoranze. «Noi — conclude il sindaco Cistaro — siamo in stretto contatto con le valli occitane del Piemonte. E soprattutto attendiamo con impazienza che l'Unesco riconosca il Gardiol e la cultura legata a questa lingua come patrimonio immateriale dell'umanità».

Corriere della Sera 1.3.09
In tremila anni di storia, nel nostro Paese non c'è mai stata una convergenza verso la stessa lingua forte come oggi
De Mauro: «Ma l'italiano ha vinto. E' un bene»
di P. Sa.


Statistiche. Il 60 per cento della popolazione conosce un dialetto, il 95 per cento parla abitualmente l'italiano

Tullio De Mauro preferisce l'ottimismo della ragione: «Non dobbiamo attenderci una catastrofe», spiega l'ex ministro della Pubblica Istruzione, per decenni docente di linguistica generale.
Eppure, l'Unesco indica 2.500 idiomi in grave pericolo. Ha senso parlare di lingue a rischio di estinzione? «Il numero di lingue con una base demografica assai fragile è perfino superiore a 2.500. Da anni possiamo dirlo grazie al censimento delle lingue parlate nel mondo che venne avviato negli anni Cinquanta a Austin (Texas) da Barbara Grimes e collaboratori. Questo censimento è continuamente aggiornato e disponibile in rete nel sito Ethnologue. Quanto a profezie, certo, mediamente le lingue parlate da piccoli gruppi e prive di uso scritto (lingue bantu o idiomi amazzonici) rischiano molto sotto la pressione di consumismo, devastazioni in Africa e America Latina, migrazioni. Ma le profezie vanno fatte con cautela in questa materia. Cent'anni fa chi avrebbe scommesso sulla straordinaria reviviscenza dell'ebraico? A inizio del IV secolo avanti Cristo a chi sarebbe venuto in mente che il gallico, esteso dalle isole britanniche alla Crimea, si sarebbe ridotto a preziosi, isolati relitti, e la lingua di una cittaduzza di agricoltori sul Tevere saccheggiata per l'appunto da una banda di predoni gallici sarebbe diventata presto la lingua di un grande Impero destinata a durare per millenni in Europa?».
Cosa porta una lingua a scomparire? Sono in genere fatti umani (guerre, stermini, assimilazioni) o anche fatti naturali? «Giulio Cesare fa l'elenco puntuale degli Elvezi uccisi nei Commentarii sulla Guerra Gallica (De Bello Gallico): "238 mila elvezi sterminati...". Uomini, donne e bambini: la lingua degli elvezi è sparita con loro. Per fortuna, per quanto ne abbiamo combinate nella Storia umana, questo è un evento terribile ma secondario rispetto all'assimilazione di popolazioni a lingue egemoni. Nessuno ha eliminato dalla faccia della Terra i Goti o gli Etruschi: sono passati al latino. Buona o cattiva che sia, questa dinamica è meno cruenta dello sterminio. Ma così è successo molteplici volte».
L'Unesco elenca anche alcuni idiomi minori, i cui parlanti si trovano in Italia, come a rischio: sono il Griko (del Salento e della Calabria), il Gardiol, il croato del Molise, il Töitschu (tedesco) della Valle d'Aosta: come sono arrivate a noi queste lingue? Davvero sono in pericolo? «L'Italia, fin dall'antichità preromana, tra le Alpi e i mari ha accolto e poi ospitato stabilmente popolazioni della più diversa provenienza. Molte lingue sono scomparse perché le popolazioni si sono volte all'uso del latino e delle parlate romanze nate dal latino. Altre, dal serbo- croato al greco o all'albanese, hanno resistito all'assimilazione. Ma anche qui ci vuole cautela. Venti anni fa il Griko della Grecia salentina era stato dato per spacciato, e invece ha conosciuto una straordinaria rivitalizzazione. Del resto, anche i dialetti italiani sono stati dati per morti a partire dagli anni Cinquanta e invece sono vivi e in uso per il 60% della popolazione (dati Istat) accanto all'italiano».
Ai tempi dell'Impero romano era il latino la lingua dominante del mondo, come l'inglese oggi. Da secoli è una lingua morta. Al suo posto, le lingue neolatine e, soprattutto, l'italiano: come si spiega questo fenomeno? «Latini diversificati nel parlato si erano affacciati già nei secoli dell'Impero romano. Con la caduta di Roma e con la frammentazione politica dell'Europa quelle diversità sono state il germe da cui si sono sviluppate le parlate dialettali e le lingue letterarie romanze. In condizioni ovviamente diverse qualcosa del genere è andata avvenendo per l'inglese dalle cui due varietà maggiori, britannica e americana, vanno sorgendo formazioni idiomatiche differenziate, come l'inglese indiano o della Namibia, e tanti altri: l'elenco è lungo».
Potrebbe accadere ancora? Il nostro italiano oggi non è considerato a rischio: potrebbe esserlo nel futuro? Insomma, i nostri pronipoti parleranno un'altra lingua? «L'italiano, a metà del Novecento, era parlato abitualmente da meno del 20% della popolazione, oggi lo è dal 95%. Mai, in tre millenni di storia ricostruibile, le popolazioni d'Italia hanno conosciuto un pari grado di convergenza verso una stessa lingua. Perché sessanta milioni di persone cambino idea ci vuole tempo».
In Israele, un'altra lingua morta, l'ebraico biblico, è tornata alla vita all'inizio del Novecento. Potrebbe mai accadere al latino o ad altre lingue scomparse? «La storia linguistica umana è piena di sorprese di vario tipo. Nel Vicino Oriente Antico il sumerico è sopravvissuto per millenni, come lingua scritta, alla scomparsa del popolo che l'aveva usato. L'ebraico era ridotto al rango di lingua sacrale e rituale già ai tempi di Cristo ed è rinato come lingua viva. Lingue parlate in grandi estensioni geografiche e con un incipiente tradizione scritta, come il gotico, sono scomparse e ne restano solo tracce in nomi di luogo come Sgurgola (dal gotico Sculx: Scolta, Guardia) a volte malamente italianizzati come Scorticata, ribattezzata Torriana per volere del Duce in età fascista. Nessuno è profeta nella mutevole patria delle lingue. Il latino continua a essere la lingua ufficiale della Città del Vaticano e, soprattutto, del Missale Romanum
e della Chiesa. Non è stato abbandonato con il Concilio. Potrebbe tornare a essere una lingua praticata da intere popolazioni? E perché no, se i casi della Storia lo consentissero?».

Corriere della Sera 1.3.09
È già un caso il saggio di George Akerlof e Robert Shiller sugli «Animal spirits»
Il «fattore psycho» della crisi
Le ragioni del crollo: quando vengono sottovalutati i comportamenti emotivi
di Daniele Manc


Sentimenti
Riccardo Viale: «Aspetti come fiducia, correttezza, illusione del guadagno sono stati trascurati a vantaggio di comportamenti razionali o presunti tali»

Tra i banchieri d'affari era stata sempre molto popolare una barzelletta. Raccontava di una merchant bank che dovendo fare un'assunzione aveva incaricato il suo più anziano banchiere di una serie di colloqui. Colloqui che si dimostravano sempre molto brevi e basati su una sola domanda: quanto fa due più due? I candidati si succedevano uno dopo l'altro. Nessuna sembrava soddisfare l'anziano banker. Finché una mattina alla solita domanda un ragazzo ebbe l'ardire invece di rispondere con un immediato: quattro, con un «dipende ». Sorridendo il banchiere chiese come dipende? Due più due fa sempre quattro. No — rispose il giovane uomo — dipende se sono venditore o compratore, nel caso può fare cinque o tre. Eppure una verità così semplice è sembrata svanire in questi lunghi anni prima di euforia irrazionale e oggi di crisi la cui fine non si intraved e: persino un'operazione semplice, numeri così rotondi e pieni possono avere significati diversi secondo il contesto. E solo oggi dopo l'abbuffata di modelli matematici che sembravano includere ogni rischio, di mercati efficienti e razionali in grado di misurare con i loro prezzi qualsiasi merce anche la più incomprensibile, fosse essa un barile di petrolio come un mutuo subprime, ebbene solo oggi improvvisamente ci s'inizia a chiedere se aver sottovalutato gli aspetti psicologi dell'economia non ci abbia condotti qui dove siamo.
A dire il vero una corrente di pensiero dell'economia, quella comportamentale, aveva continuato a studiare e a indicare l'importanza di tutto ciò che non è razionale anche nei comportamenti economici. Ma sembrava predicare in un campo ben poco fertile. Erano gli anni del boom; dove chiedersi come poteva accadere che di fronte a una casa del valore di 100 alcune banche dessero il 120% di prestito, era considerato eccentrico. La storia nella quale si era immersi, la fiducia della quale si era dotati, sembrava potere tutto.
Da qualche mese, improvvisamente, con una crisi che incombe senza sosta sul mondo occidentale e non solo, ecco che quegli studi sono sembrati prendersi una sorta di rivincita sul comportamento razionale dell'agente economico. Una riprova è l'attesa che ha circondato l'uscita del libro di George A. Akerlof e Robert J. Shiller, Animal Spirits.
Il sottotitolo è ancora più esplicativo della citazione da John Maynard Keynes che ha dato il titolo al volume: How Human Psychology Drives The Economy, and Why It Matters for Global Capitalism, come la psicologia umana guida l'economia e perché conta nel capitalismo globale. Si tratta di due tra i più noti studiosi del settore, Akerlof, docente a Berkeley in California nel 2001 ha vinto il Nobel per l'Economia, mentre Shiller oltre ad aver dato il nome all'indice dei prezzi delle case negli Stati Uniti è anche quello che nel 2000 spiegò in dettaglio il rischio dell'«euforia irrazionale» che aveva preso i mercati nel corso della penultima bolla finanziaria, quella di Internet. E proprio
Euforia irrazionale si intitola, tra l'altro, il suo libro del 2000 tradotto e appena arrivato in libreria in Italia per i tipi del Mulino (pagine 344, e 12).
«Certo, nel passaggio da Adam Smith a John Stuart Mills ci siamo persi tutta la parte irrazionale dell'uomo a favore dell'agente economico, l'homo economicus che ha occupato la teoria neoclassica», spiega Riccardo Viale, visiting fellow alla Columbia University di New York e direttore della rivista Mind & Society. Mentre — spiega ancora —, sono proprio gli Animal Spirits di Keynes a illustrare e a rendere più evidenti le instabilità del capitalismo. Così come alla stessa maniera l'invisibile mano del mercato era il punto centrale della teoria classica economica. Con un problema, che negli anni Settanta nella teoria di Keynes, o meglio nella sua rilettura e applicazione, gli Animal Spirits hanno pian piano iniziato a perdere di importanza fino ad avere rilevanza quasi nulla in economia.
E così i pensieri, le idee, i sentimenti delle persone hanno perso peso. Aspetti degli Animal Spirits (così viene sottolineato nel libro di Akerlof e Shiller) come la fiducia, la correttezza, l'illusione del guadagno, la corruzione e la malafede e soprattutto le storie che rendono gli uomini tali, hanno finito per essere sovrastati da comportamenti totalmente razionali o presunti tali. Tanto che la crescita abnorme di oltre il 60% dei prezzi delle case tra il 2000 e il 2006 in America è arrivata a essere completamente ignorata. Come pure il fatto che le banche avessero potuto non inserire nei loro bilanci i mutui super sofisticati, i subprime, sembrava anch'essa questione non importante. Il mantra era che il mercato dovesse essere lasciato libero di agire. Un mantra che aveva iniziato a esplicarsi potentemente dagli anni Settanta, dall'elezione di Margareth Thatcher fino a quella di Ronald Reagan per poi diffondersi in tutto il mondo. Con il risultato che oggi, di fronte alla pesantissima crisi, si assiste a un ingresso potente dei governi in territori dai quali erano stati emarginati. Correndo per questo il rischio opposto: che la creatività insita nei comportamenti irrazionali venga soffocata e il mercato ripudiato a favore dell'onnipotenza dei governi.

sabato 28 febbraio 2009

Corriere della Sera 28.2.09
Englaro indagato per omicidio «Me l'aspettavo, sono sereno»
Sotto inchiesta 14 persone. La Procura: atto dovuto
Anche l'anestesista e la moglie nel mirino dei pm di Udine. A Bologna un fascicolo per un esposto di Carlo Taormina
di Grazia Maria Mottola


UDINE — Tutti in procura, a Udine. Dalle 9 alle 13. Per l'elezione di domicilio e la nomina del difensore. Da Beppino Englaro ad Amato De Monte con la moglie Cinzia Gori, in mezzo gli altri 11, finora nell'ombra ma non meno presenti nella triste storia di Eluana. Si incroceranno, ogni venti minuti, negli uffici di polizia giudiziaria, non più volontari chiamati all'appello per i turni nella stanza di Eluana, ma nell'amaro ruolo di indagati in un'inchiesta annunciata e non certo temuta: omicidio volontario. Sfileranno alla luce del sole: Dino Buiatti, Rita Maricchio, Maria Marion (consigliere comunale pd), Erika Mazzoccato, Maria Vendramini, Loris Deffendi, Elena Della Negra, Stela Fejzolli, Teresa Zanier, Caterina Degano, Cinzia Moreale. A testa alta, «perché ognuno di noi sapeva quello che faceva, conoscendo le conseguenze». Ma avrebbero preferito restare in silenzio, non far conoscere nomi e volti, mantenere il segreto su quanto accaduto nei sette giorni più drammatici della loro vita, dal 3 al 9 febbraio, fino alla morte di Eluana. Forse, invece, saranno costretti a parlare, contro se stessi e contro le promesse a papà Beppino. Ma ormai è fatta.
All'iscrizione nel registro degli indagati, seguirà una memoria difensiva dell'avvocato Giuseppe Campeis. Poi arriveranno i risultati completi dell'autopsia; nel frattempo gli interrogatori. Infine la speranza: che tutto finisca, meglio se con un'archiviazione.
Morta Eluana, la vicenda continua in procura. Non che le inchieste non fossero già iniziate (in corso quelle su presunte irregolarità delle stanze a «La Quiete», sulle cause di morte, poi sugli esposti). Eppure mercoledì il procuratore Antonio Biancardi arriva a una svolta. Forse a causa di denunce più dettagliate, come quella di «Verità e vita », forse per l'attenzione della procura di Bologna con un fascicolo aperto in base a un esposto dell'avvocato Carlo Taormina che riguarda anche l'operato dei giudici. Certo è che il gruppo Englaro viene indagato. «Un atto dovuto», precisa Biancardi. Dure le reazioni, in un senso e nell'altro. In prima linea Massimo D'Alema: «La persecuzione nei confronti di Englaro è stato uno degli eventi più incivili del nostro Paese». Di segno opposto il cardinale Barragan, ministro della Salute vaticano: «Secondo il quinto comandamento chi uccide un innocente commette un omicidio. Se Englaro ha ammazzato, è un omicida». Per il ministro Sacconi, che ieri ha ricevuto la notifica del trasferimento degli atti dell'inchiesta per violenza privata che lo riguarda al tribunale dei ministri di Trieste, «la dimensione penale, in questi casi, è molto discutibile. Dovrebbe intervenire la legge a regolare questo ambito sregolato». Tranquillo papà Beppino: «Ho lottato per 17 anni. Se vogliono tenermi in ballo per altri 17, facciamo pure, ma mi devono dimostrare cosa c'è che non va».

Corriere della Sera 28.2.09
Ronde e testamento biologico
Il ricatto della deriva
di Pierluigi Battista


Se si decide di fare una legge ci si dovrebbe attenere agli effetti che quella legge prescrive, non alle eventuali, impalpabili, inverificabili «derive» interpretative che quella legge si immagina debba comportare.

A New York e a San Francisco, a Chicago e Filadelfia — racconta la «Stampa» — non un incidente, un'aggressione, un atto di violenza, una prepotenza ha deturpato la missione dei «Guardian Angels», i volontari armati solo di telefoni cellulari e berretti rossi che aiutano la polizia nella protezione dei quartieri più disagiati delle metropoli americane. Può darsi che negli Stati Uniti siano più fortunati. Oppure che le cose possano funzionare senza necessariamente precipitare nella loro versione degenerata. E' possibile che queste forme di volontariato civico non si perdano nella cupa «deriva» squadristica preconizzata in Italia. Può darsi cioè che almeno una volta sia stato possibile superare il terrore della «deriva», l'angoscia, la premonizione della «deriva»: quella sindrome del peggio (la deriva) che paralizza ogni iniziativa per paura che la normalità si trasformi obbligatoriamente nella sua patologia.
La sindrome della «deriva » appare come il nuovo stato d'animo che attanaglia l'Italia impaurita e frastornata nei nostri giorni. «Deriva», caricato di un significato totalmente diverso da quello che campeggia sul titolo di un libro avvincente e amaro di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, è diventato un termine chiave del lessico politico italiano. Si parla di deriva autoritaria e di deriva plebiscitaria, di deriva xenofoba e di deriva estremista. La deriva dilaga, si insinua negli interstizi del discorso pubblico, si impone come figura dell'allarme e dello sgomento verso l'incognito e l'inedito. Nella discussione sulle «ronde» o in quella sul testamento biologico, la sindrome della deriva autorizza a non fare niente invece di fare qualcosa di ragionevole, di utile e di giusto. Se non si imponesse la paura della deriva, l'idea che dei cittadini di un quartiere o di un rione, avendo a cuore le sorti della comunità, si adoperino per la protezione e la sicurezza di tutti, non dovrebbe essere per forza una cattiva idea. Diventa una pessima idea se prevale l'immagine di squadracce di facinorosi armati che si abbandonano ad atti di linciaggio e di rappresaglia, di giustizieri della notte che si danno a un'immonda caccia allo straniero. Ma se la legge impone tassativamente il disarmo dei cittadini impegnati, la loro rigorosa selezione, il loro controllo da parte delle forze dell'ordine, perché non pensare che le cose possano andare per il verso giusto come con i «Guardian Angels» negli Stati Uniti?
Sempre la paura, l'ansia paralizzante della «deriva ». Che si riaffaccia in modi imperiosi anche nella controversia sul «testamento biologico». Appare del tutto evidente la sproporzione tra una dichiarazione della propria volontà in merito alle cure e alle terapie cui essere sottoposti quando la vita se ne va e l'incubo di una «deriva eutanasica» sbandierato da una parte consistente del mondo cattolico. Basterebbe elencare i Paesi europei che, come la Francia e la Germania, la Spagna e il Belgio, dispongono di una legge sul testamento biologico senza essere scivolati (come l'Olanda) sul piano inclinato dell'eutanasia e del suicidio assistito. Perché noi e soltanto noi dovremmo essere condannati alla «deriva eutanasica »?
Forse sarebbe meglio, come ha autorevolmente argomentato Angelo Panebianco su queste pagine, che lo Stato frenasse la sua smania intrusiva e non invadesse quella fragile «zona grigia» dove la democrazia non dovrebbe decidere a maggioranza sulle questioni ultime della vita e della morte. Ma se si decide di fare una legge, ci si dovrebbe attenere agli effetti che quella legge prescrive o espressamente proibisce, non alle eventuali, impalpabili, inverificabili «derive» interpretative che quella legge si immagina debba comportare. E se una legge consente a un cittadino, con procedure certe e sicure, di formulare anticipatamente la propria volontà di non subire l'accanimento di cure dolorose e vane che avrebbero come unico effetto di deturpare persino la dignità della morte (oltreché della vita), cosa autorizza a equiparare questo diritto all'immagine fosca e apocalittica di un'orgia eutanasica?
Che atroce idea si ha della «deriva» morale di medici e familiari che altro non attenderebbero se non il via libera per la soppressione anticipata di pazienti e congiunti?
La «sindrome della deriva» altera i toni emotivi del dibattito pubblico, descrive esiti tragici per non contemplare nemmeno la possibilità di esiti più «normali», capaci di dare una risposta ragionevolmente efficace a problemi largamente sentiti in una comunità. La «sindrome della deriva» è l'antitesi di un approccio gradualista e riformista alle esigenze che si muovono nel corpo sociale. Ricorda Fabrizio Rondolino sulla «Stampa» che «contro la violenza sessuale, negli anni Settanta gruppi di femministe organizzavano pattugliamenti notturni delle strade, con l'intento di "riprendersi la notte" rendendola, semplicemente, un po' meno buia e deserta». E' davvero pensabile che ciò che di positivo, civicamente ineccepibile, è racchiuso nella voglia di vincere la paura e impegnarsi con gli altri per rendere pacificamente più sicure le città, venga inghiottito nello spettro di una deriva squadristica e addirittura xenofoba? Ed è davvero immaginabile che uomini e donne normali, sinceramente preoccupati per la potenza schiacciante della tecnoscienza e per l'eventualità di trascorrere periodi interminabili della propria vita al tramonto in una condizione di dipendenza assoluta da macchine sempre più sofisticate, possano dare il loro benestare a una pratica selvaggia dell'eutanasia? La «deriva» è un fantasma catastrofista di cui liberarsi. Trasforma il legittimo allarme, che le leggi hanno il compito di prevedere e di neutralizzare, in un allarme globale e incontrollabile: premessa sicura per giustificare, come sempre, l'impotenza e l'immobilismo.

Repubblica 28.2.09
Lavoratori senza diritti
di Luciano Gallino


Il disegno di legge approvato ieri dal Consiglio dei ministri persegue palesemente due finalità: rendere oltremodo difficile l´esercizio del diritto di sciopero nel settore dei trasporti, e in specie far sì che diventi pressoché impossibile per la Cgil indire da sola uno sciopero nel settore; aprire la strada a crescenti limitazioni del diritto di sciopero in altri settori.
Cominciamo da quest´ultimo punto. Tutti parlano (compreso il sito del ministero del Lavoro) del provvedimento in questione come di un disegno di legge delega per la riforma del diritto di sciopero nel settore dei trasporti. In realtà nel testo della legge delega la parola trasporti non esiste. Sia nel titolo che in vari articoli si parla sempre di «libera circolazione delle persone» e di «diritto alla mobilità». È vero che si tratta d´una revisione della legge 146 del 1990, che in tema di tutela della libertà di circolazione menziona esplicitamente i trasporti pubblici autoferrotranviari, ferroviari, aerei, aeroportuali e marittimi. Resta il fatto che insistendo in più punti sul diritto alla mobilità e sulla libertà di circolazione, senza mai far riferimento ai trasporti, la nuova legge amplia di molto il suo ambito di applicazione. Infatti è possibile che libertà di circolazione venga lesa da molte altre attività che con i trasporti pubblici, i treni, gli aerei o le navi hanno poco a che fare.
D´altra parte la legge delega non fa mistero dell´intenzione di andare molto al di là del settore dei trasporti propriamente inteso. L´articolo1, comma 2/j, prevede infatti il «divieto di forme di protesta (sic) o astensione dal lavoro in qualunque attività o settore produttivo (sic) che, per la durata o le modalità di attuazione, possono essere lesive del diritto alla mobilità e alla libertà di circolazione». Questo articolo apre alla volontà repressiva del legislatore oggi, e domani del giudice, spazi sterminati. Gli addetti ai rifornimenti d´una nave in partenza per la Sardegna, che dipendono da una società di catering e non dalla società padrona della nave, sono in sciopero e la fanno ritardare di un giorno o due? Secondo la nuova legge, è chiaro che ledono il diritto alla mobilità dei passeggeri. Sono in sciopero i tecnici dell´Airbus o della Boeing che dovevano fare determinate verifiche o briefing di aggiornamento, senza le quali gli aerei un certo giorno non possono partire? La libertà di circolazione di coloro che avevano acquistato i biglietti per quel giorno risulta evidentemente compromessa. Ergo quei tecnici, pur appartenendo a un altro settore produttivo, hanno violato il divieto dell´articolo in questione (ovvero di quelli che lo trasporranno nei decreti delegati). Può davvero portare molto lontano, l´articolo 1 del ddld sulla libera circolazione delle persone, nel limitare la libertà di sciopero.
Per quanto riguarda il settore specifico dei trasporti, è chiaro che dal momento in cui il disegno di legge delega diventasse legge e poi decreto attuativo, i sindacalisti del settore, nessuno escluso, potrebbero dedicarsi ad altre incombenze. La proclamazione di uno sciopero diventa per chiunque un´impresa improba, oltre che non poco rischiosa per le possibili conseguenze sanzionatorie. Per intanto, se vuol dichiarare uno sciopero un sindacato deve vantare a priori un grado di rappresentatività superiore al 50% «a livello di settore». Il limite pare fatto apposta per tagliar fuori la Cgil, poiché se il limite fosse di qualche punto inferiore in diversi settori dei trasporti forse ce la farebbe. Ma oltre all´ostacolo della percentuale di iscritti sussiste quello di stabilire quale sia il perimetro esatto di un determinato settore; compito diventato difficile per chiunque a causa della frammentazione di tutti i settori dei trasporti in gran numero di aziende aventi statuti differenti.
A norma del disegno di legge delega, quando il grado di rappresentatività sia inferiore al 50%, o non determinabile, è d´obbligo procedere a un referendum preventivo. A una condizione: l´organizzazione che lo indice deve avere un grado di rappresentatività superiore al 20%. Fatta una simile fatica, se mai qualcuno ci riesca, lo sciopero sarebbe sì autorizzato, ma potrebbe anche non essere legittimo. Per ricevere questo riconoscimento bisogna infatti che lo sciopero abbia ricevuto il voto favorevole del 30% almeno dei lavoratori interessati. Non basta. Lo sciopero potrebbe essere magari votato dalla quota richiesta dalla legge, e però configurarsi ancor prima di aver luogo come un solenne fiasco. Questo perché i contratti di lavoro o le regole da emanare in seguito dovranno prevedere nulla meno dell´adesione preventiva allo sciopero stesso del singolo lavoratore. Per cui ecco la sequenza: prima il lavoratore vota pro o contro la proclamazione dello sciopero, oppure si astiene; poi prende atto che lo sciopero si può fare, o no; e a questo punto trasmette a qualcuno, oppure no, una dichiarazione preventiva di adesione allo sciopero stesso. Nell´insieme, visto che l´intento del disegno di legge delega risiede palesemente nel rendere in pratica impossibile proclamare uno sciopero nei trasporti, il Cdm poteva anche risparmiarsi la fatica di varare un testo con cinque articoli e dozzine di commi e paragrafi. Bastava una riga: lo sciopero nei trasporti è vietato.
Questa cosiddetta riforma godrà presumibilmente di un vasto consenso popolare. Vari elementi portano in questa direzione. L´articolo 40 della Costituzione è insolitamente striminzito e lascia tutto lo spazio alla legislazione. La legge che regola gli scioperi nei servizi pubblici è vecchia di vent´anni. Gli scioperi proclamati troppo di frequente da alcune dozzine di autisti di autobus o qualche centinaio di ferrovieri o piloti d´aereo o assistenti di cabina hanno recato innumerevoli disagi a moltissime persone. Però il disegno di legge in questione non ha nello sfondo questi elementi. Ha invece tutta l´aria di prenderli a pretesto per ridurre gli spazi di libertà, di protesta, di manifestazione di gran parte del mondo del lavoro. E´ probabilmente tardi; ma forse bisognerebbe riuscire a dire forte e chiaro al governo che per riformare l´attività sindacale nel settore dei trasporti questa strada è sbagliata.

Repubblica 28.2.09
Il segretario Fiom: il governo tenta l’allungo come sull’articolo 18
"Strappo autoritario vogliono lo scontro"
Rinaldini: proteste già regolamentate
di Francesco Mimmo


Il 4 aprile sarà l´occasione per far sentire la nostra voce. Questo è un attacco al diritto di sciopero che cerca di dividere i lavoratori

ROMA - Uno strappo della democrazia. Un altro tassello, dopo la firma di accordi separati, per dividere il sindacato e arrivare a quel progetto autoritario che ha come obiettivo finale la modifica materiale della Costituzione. La pensa così Gianni Rinaldini, segretario della Fiom, i metalmeccanici della Cgil. Si comincia dal diritto di sciopero nei trasporti e si arriverà a interventi in altre categorie, proprio a partire dai metalmeccanici.
Che ne pensa delle modifiche nelle regole per gli scioperi nei trasporti?
«E´ paradossale che si pensi di farlo dopo aver sottoscritto degli accordi separati. Il governo vuole accordi sindacali sottoscritti solo dalla maggioranza dei lavoratori e poi interviene sul diritto di sciopero. E´ evidente che dietro c´è un progetto, una strategia. Questo disegno di legge è un altro tassello di un´operazione che ha la stessa logica degli accordi separati. E´ un´idea di carattere autoritario, quella di una modifica materiale della Costituzione. E mi pare che anche la situazione politica lo dimostri».
E della soglia minima di rappresentanza che idea si è fatto?
«Si pensa che fissare una soglia minima possa diventare di per sé un deterrente a scioperi proclamati da piccoli gruppi. Ma il vero deterrente sarebbe un altro. Facciano gli accordi con i lavoratori, si discuta delle loro piattaforme, questo sì che sarebbe un deterrente. Come nel caso Alitalia, un accordo con gli stessi lavoratori avrebbe certamente evitato questi meccanismi».
C´è il diritto di sciopero, ma anche il diritto alla mobilità dei cittadini. E´ in nome di questo diritto il governo vuole cambiare le regole nei trasporti.
«I trasporti sono un servizio essenziale. E quindi sono un settore che ha già delle regole di garanzia fissate per legge. Intervenire non serve. La verità è che il governo cerca l´allungo. Come è accaduto a suo tempo per l´articolo 18. E´ un´operazione che cerca l´impatto frontale per fare poi operazioni attraverso passaggi successivi. Ma la specificità dei trasporti, o di altri servizi essenziali che, ripeto, sono già regolamentati, non c´entra nulla».
Lo sciopero virtuale le piace?
«E´ inaccettabile. Almeno in questa formula. Non esiste che abbia il carattere dell´obbligatorietà. Non escludo che lo sciopero virtuale possa essere uno strumento sindacale, ma certo non per legge. E´ uno dei tanti strumenti ma può esistere solo se a decidere questa forma di protesta sono i sindacati».
State organizzando manifestazioni di protesta?
«Ci sarà, è già prevista, un´iniziativa come Cgil ed è la manifestazione del 4 aprile. Certamente quella sarà anche l´occasione per far sentire la nostra voce contro questo attacco al diritto di sciopero. L´obiettivo a questo punto diventa inevitabilmente anche questo. Il disagio sociale sta crescendo, l´aumento del ricorso alla cassa integrazione sta diventando una vera e propria emergenza. E ora io vedo in questa azione del governo un´iniziativa complessiva. Un altro tassello a questo progetto che certamente avrà come obiettivo quello di spezzare l´unità sindacale anche in altri settori. L´ho già detto in passato: il governo cercherà di raggiungere accordi separati anche in alte categorie, proprio a partire dai metalmeccanici».
In passato la Fiom ha avuto forti divergenze con la segreteria confederale Cgil. C´è questo rischio anche per questa vicenda?
«La Cgil non può che considerare irricevibile questa modifica del diritto di sciopero. Su questo punto sono sicuro che non ci saranno differenze di vedute. Siamo di fronte a uno strappo della democrazia».

Corriere della Sera 28.2.09
Multe di 5 mila euro a chi blocca strade e ferrovie
Stretta sugli scioperi, approvato il disegno di legge
di Enrico Marro


Le nuove regole entreranno in vigore entro un anno Sacconi: ci confronteremo con le parti sociali

ROMA — Il disegno di legge delega sulla riforma del diritto di sciopero approvato ieri dal Consiglio dei ministri è limitato al solo settore dei trasporti, ma contiene anche una norma volta a impedire tutte quelle manifestazioni che bloccano strade, autostrade, ferrovie e aeroporti. Questi illeciti, dice l'articolo 2 del provvedimento, saranno puniti con multe a carico dei responsabili da un minimo di 500 a un massimo di 5 mila euro. Non solo, la riscossione delle multe, che verranno decise dalla «commissione per le relazioni di lavoro» (sarà questo il nuovo nome della commissione di garanzia, che si ridurrà da nove a 5 membri), verrà affidata ad Equitalia, la società pubblica di riscossione, che attraverso le cartelle esattoriali garantirà l'efficacia delle sanzioni. Queste norme, ha precisato il ministro del Welfare Maurizio Sacconi, saranno valide anche per l'autotrasporto, che quindi non potrà più mettere in atto le iniziative tipo «Tir selvaggio » o «Tir lumaca» per bloccare la circolazione.
Il provvedimento è passato in Consiglio dei ministri all'unanimità, mentre continua la polemica tra governo e Cgil, con la Cisl che parla invece di testo «equilibrato». Le nuove regole, per entrare in vigore, hanno bisogno di essere tradotte in decreti legislativi, che il governo emanerà dopo una consultazione con le parti sociali e che dovranno ricevere il parere di entrambi i rami del Parlamento. L'iter dovrà concludersi, dice il disegno di legge, entro un anno.
Queste le principali novità che, ripetiamo, saranno limitate ai trasporti. Potranno proclamare lo sciopero solo il sindacato o i sindacati che insieme superano il 50% di rappresentatività. Potranno farlo anche quelli che superano il 20%, ma solo se la loro proposta di sciopero riceverà il 30% di voti in un referendum tra i lavoratori interessati. In alcuni servizi o attività «di particolare rilevanza» i lavoratori dovranno dichiarare in anticipo la loro adesione allo sciopero. La contrattazione disciplinerà lo sciopero virtuale (i dipendenti lavorano, il servizio funziona, ma lavoratori e azienda devolvono il corrispettivo economico dello sciopero).
Per evitare l'effetto annuncio, la revoca dell'agitazione sarà possibile solo con un «congruo anticipo».
Positivo il giudizio del presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia: «Evitare blocchi stradali è una necessità in un Paese civile». Critico invece Massimo D'Alema (Pd) che boccia il ricorso allo strumento della delega mentre il leader di Rifondazione per la Sinistra, Nichi Vendola, parla di «forzatura pericolosa della Costituzione».

Corriere della Sera 28.2.09
Una sfida culturale che divide il sindacato e radicalizza lo scontro
di Massimo Franco


Pd e Di Pietro critici soprattutto sul metodo scelto dal governo

Sta diventando un braccio di ferro culturale fra diritto di sciopero, e limitazione delle astensioni dal lavoro che creano disagi; e un'altra puntata della spaccatura del sindacato. È possibile che la legge delega approvata ieri dal governo per regolare le agitazioni nei trasporti pubblici sia una forzatura. Nel merito, però, si intravede uno schieramento più frastagliato di quello governativo. Comprende anche l'Udc; e include Cisl, Uil e Ugl. Il Pd sembra critico soprattutto sul metodo. Idv, estrema sinistra, Cgil ed estrema destra sono totalmente contro: le prime tre, preoccupate che Silvio Berlusconi stia riducendo la libertà sindacale, se non peggio; l'altra, allarmata dai conflitti sociali.
L'iniziativa di Palazzo Chigi e le reazioni dicono che è stato toccato un tabù. La paura di una limitazione del diritto di scioperare, garantito dalla Costituzione, appare più forte di ogni altra considerazione. Fa passare in secondo piano la rabbia e l'indignazione dell'opinione pubblica per quanto è accaduto nel trasporto aereo e ferroviario nei mesi scorsi: interruzioni selvagge, spesso decise da minoranze che hanno scavalcato le stesse confederazioni. E tende a presentare la Cgil come l'ultima trincea del diritto di sciopero: anche se sindacalisti come Raffaele Bonanni, leader della Cisl, la considerano una ridotta ideologica.
Ma l'opposizione confida nei rischi che la legge può correre dal punto di vista della costituzionalità; e soprattutto sulla gravità della crisi economica e la radicalizzazione della protesta. Antonio Di Pietro ieri ha ammesso che «una regolamentazione ci deve essere», criticando piuttosto la mancanza di discussione in Parlamento. L'Idv, però, va oltre e sostiene che la legge «sequestra e uccide il diritto». Prefigura una «violazione costituzionale » simile a quella che fece fallire il tentativo di modificare l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori sui licenziamenti.
L'avversario più irriducibile, tuttavia, rimane Guglielmo Epifani. La sua Cgil vede nella legge presentata dal ministro Maurizio Sacconi non la voglia di regolamentare gli scioperi nei trasporti pubblici, ma un attacco che prefigurerebbe «svolte autoritarie ». Nel sindacato di sinistra prevale, dunque, una lettura politica e di sistema, che va al di là del provvedimento. Il fantasma evocato è quello di Berlusconi; e la Cgil si appella implicitamente all'opposizione. Il centrodestra chiede al Pd di non essere subalterno alla Cgil. Lo vede come un errore che aumenta le distanze fra sinistra ed opinione pubblica.
Ma la scelta della maggioranza di procedere comunque dà spazio a chi accredita un'offensiva antisindacale dai contorni costituzionali almeno ambigui. E la vicinanza con le elezioni europee azzera i margini di manovra. D'altronde, la strategia del neosegretario del Pd, Dario Franceschini, archivia il dialogo col premier abbozzato all'inizio del 2008 da Walter Veltroni. E insegue un recupero su parole d'ordine radicali, fatte su misura per arginare l'emorragia di voti a favore dell'Idv. La difesa degli scioperi nei trasporti pubblici può essere impopolare nel Paese; ma probabilmente non per l'elettorato che continua a considerare l'antiberlusconismo come una stella polare.

Liberazione 28.2.09
«È incostituzionale legare la protesta alla rappresentatività»
di Roberto Farneti


Fabrizio Tomaselli Coordinatore nazionale di SdL Intercategoriale

Un vero e proprio «attacco alla democrazia», un «colpo di mano che va sventato sul nascere». Questo il duro giudizio dei sindacati di base Cub, Confederazione Cobas e SdL Intercategoriale sulle nuove regole per gli scioperi contenute nel disegno di legge delega varato ieri dal Consiglio dei ministri. Un attacco che ha come obiettivo quello di «imporre per legge la pace sociale» e che necessita di una risposta immediata, a partire dallo sciopero del trasporto aereo del 4 marzo. La difesa del diritto di sciopero e della democrazia sindacale saranno inoltre al centro della manifestazione nazionale del 28 marzo a Roma contro la politica economica del governo e dello sciopero generale indetto dalle tre organizzazioni per il 23 aprile.

Fabrizio Tomaselli, coordinatore nazionale di SdL. La Costituzione tutela il diritto di sciopero «nell'ambito delle leggi che lo regolano». Non è quindi incostituzionale proporre nuove regole. Perché sostenete il contrario?
Perché quando una legge di fatto impedisce l'esercizio del diritto di sciopero, questa è una violazione della Costituzione. Con queste norme in alcuni settori non si potrà più scioperare. Legare la possibilità di indire uno sciopero alla rappresentatività più o meno ampia di chi lo propone, di fatto trasforma il diritto individuale del lavoratore in un diritto esclusivamente prerogativa delle organizzazioni sindacali. Oggi come oggi anche gruppi di lavoratori non inquadrati in una specifica organizzazione sindacale possono promuovere scioperi. E' il caso di tanti coordinamenti di base: basti ricordare l'ultimo sciopero per la sicurezza effettuato dall'assemblea nazionale dei ferrovieri. Queste norme non solo sono incostituzionali ma anche inapplicabili, perché a tutt'oggi non esiste una legge sulla rappresentanza in grado di misurare la rappresentatività delle singole organizzazioni ai vari livelli: aziendale, di settore e nazionale. Nelle aziende dove gli iscritti ai sindacati sono meno del 50% dei lavoratori - e sono tantissime - ogni sciopero dovrebbe essere preceduto da un referendum, mentre in quelle dove la sindacalizzazione fosse più bassa del 20% il diritto di sciopero verrebbe di fatto abolito.

La questione della rappresentatività è stata sollevata anche da Antonio Martone, presidente della Commissione di garanzia. Martone cita l'esempio di uno sciopero Alitalia che avrebbe provocato la cancellazione di oltre 200 voli pur avendo ottenuto poche decine di adesioni...
Quello che dice Martone non è vero. L'equivoco nasce dal fatto che quando c'è uno sciopero nel settore dei trasporti, spesso l'adesione di molti lavoratori non viene conteggiata a causa delle cancellazioni preventive di treni e voli operate dalle aziende, al fine di evitare disagi ai passeggeri.

Misurare in via preventiva il livello di adesione agli scioperi non può essere un modo per venire incontro alle esigenze dei cittadini?
In qualsiasi parte del mondo l'esercizio dello sciopero è libero. Un lavoratore ha il diritto di decidere il giorno stesso se scioperare o meno. Anche perché, dal giorno della proclamazione, lo stato della vertenza può cambiare. L'adesione preventiva individuale espone invece il singolo lavoratore a forme di intimidazione da parte delle aziende, soprattutto in quelle piccole.

Si parla di sciopero virtuale. Ma per quale motivo un lavoratore dovrebbe dichiararsi in sciopero e lavorare gratis?
Parlare di sciopero "virtuale" è una contraddizione in termini. E' evidente che in questo modo si rischia di creare un forte squilibrio tra quello che ci rimetterebbe il lavoratore, pur lavorando, e il danno subito dall'impresa. Inoltre, specie nei trasporti e nei servizi, l'efficacia dello sciopero è legata anche al danno di immagine per le aziende.

Intanto il Codacons si schiera con voi e la Cgil e al governo manda a dire «di non utilizzare la scusa dei consumatori per violare la Costituzione». Una solidarietà inaspettata?
Questa contrapposizione con l'utenza spesso è strumentalizzata. Basti ricordare le battaglie comuni tra pendolari e lavoratori per l'efficienza dei servizi di trasporto ferroviario. Ci sembra che questa volta il Codacons abbia colto correttamente l'incostituzionalità delle norme proposte dal governo.

il Riformista 28.2.09
Troppo e troppo poco
di Giovanni Di Cagno


Se ce ne fosse stato bisogno, gli scioperi dei mesi scorsi nel settore aereo hanno ampiamente dimostrato l'esigenza di una riforma della legge che regola l'esercizio del diritto di sciopero nei servizi essenziali. Esigenza cui, purtroppo, si erano sinora dimostrate sorde le maggiori confederazioni sindacali. Oggi, dopo mesi di annunci, ecco finalmente il disegno di legge-delega del Governo sullo sciopero. Un testo per alcuni versi dirompente, e per altri al di sotto delle necessità, limitato com'è al solo settore dei trasporti.
Un mezzo pasticcio, dunque, cui è facile pronosticare un cammino parlamentare accidentato.
Per cominciare, si porranno problemi di costituzionalità. È corretto modificare attraverso lo strumento della delega una legislazione incidente su diritti costituzionali primari dei cittadini? Il dubbio è lecito. Soprattutto quando si vede che il Governo pretende una sorta di delega in bianco «ad apportare all'ordinamento vigente ogni ulteriore modifica o integrazione». L'eccesso di delega appare macroscopico!
Ulteriori gravi dubbi di costituzionalità pone la norma più rilevante del progetto governativo, secondo cui potranno proclamare uno sciopero nei trasporti solo i sindacati che rappresentino almeno il 50% dei lavoratori interessati (dal testo finale è sparito anche il referendum, che almeno consentiva una chance ai sindacati minori). Una soglia di sbarramento altissima, come si vede, che inibirebbe anche a sindacati fortemente rappresentativi la possibilità di proclamare scioperi, se non in condominio con altri; tanto per fare un esempio, la Ccil, pur essendo il sindacato maggiormente rappresentativo, non potrebbe quasi mai proclamare scioperi da sola. Per essere applicata, peraltro, la norma richiederebbe criteri di misurazione certi del grado di rappresentatività di ciascuna organizzazione; questione su cui il Governo, invece, incredibilmente glissa (forse per non urtare le note "sensibilità" della Cisl sulla materia). In realtà, sarebbe giusto privilegiare i sindacati maggiormente rappresentativi. Ma solo nel senso di attribuire loro una precedenza nell'effettuazione degli scioperi rispetto ai sindacati minori; il che, ridurrebbe sensibilmente il numero delle astensioni senza bisogno di vietare lo sciopero a milioni di lavoratori.
Quanto allo sciopero virtuale, a parole tutti lo vogliono ma nei fatti ne rifuggono. Prova ne sia che oggi l'unico accordo sindacale che lo prevede è quello per il settore dell'elisoccorso. La verità è che i veri nemici dello sciopero virtuale sono non tanto i sindacati quanto le aziende, e segnatamente proprio quelle di trasporto. Aziende che operano in genere in perdita (vedi quasi tutte le aziende di trasporto locale) e a cui, dunque, lo sciopero conviene, visto che risparmiano tanto sulle retribuzioni quanto sul servizio. Con lo sciopero virtuale, che secondo il Governo andrebbe introdotto "per via contrattuale", le aziende dovrebbero sia versare l'equivalente delle retribuzioni a un apposito fondo, sia far circolare i mezzi: un vero salasso economico. Voglio proprio vederli, questi accordi sindacali sullo sciopero virtuale!
Altre norme del disegno di legge, poi, sono assolutamente oscure. Che vuol dire, ad esempio, «divieto di forme di protesta o astensione dal lavoro che, per la durata o le modalità di attuazione, possono essere lesive del diritto alla mobilità»? La durata massima di un "primo sciopero" nel trasporto aereo è già oggi contenuta in quattro ore; comprimerla ancora significherebbe inibire lo sciopero tout-court. Quanto alle modalità di attuazione, par di capire che il Governo intenda riferirsi a blocchi stradali e simili. Ma questi sono comportamenti che non c'entrano nulla con lo sciopero in sè, e che già oggi possono essere repressi sulla base del codice penale. Che significa, allora, questa norma? Si vuole forse reintrodurre la sanzione dello sciopero sul piano penale? Basterebbe questo inquietante interrogativo a sconsigliare l'approvazione di una delega al Governo sul punto.
Ma a non convincere è anche il complessivo impianto del disegno di legge. Il concetto omogeneo di "servizio pubblico essenziale" fa ormai parte della nostra tradizione giuridica e sindacale. E i diritti alla salute o alla sicurezza non sono certo meno importanti di quello alla mobilità. Perché allora, per fare un esempio, la dichiarazione di adesione preventiva allo sciopero dovrebbe concernere solo i trasporti? Comportando un'oggettiva limitazione della possibilità di adesione allo sciopero, la dichiarazione preventiva si giustifica solo in funzione della tutela di categorie di utenti particolarmente deboli. E non v'è dubbio che un bambino, o comunque un minore, sia utente più debole di un vacanziere o di un manager. La dichiarazione preventiva, dunque, andrebbe estesa quanto meno a scuole e asili-nido. La scelta riduttiva del Governo è apparentemente incomprensibile, a meno che non si sia inteso accontentare sindacati fortemente radicati nel pubblico impiego. Come si sa, a pensar male qualche volta ci si azzecca …
Il disegno di legge-delega del Governo, insomma, andrebbe per un verso potato e per altro verso implementato. Non resta che augurarsi che la delicatezza della materia consigli all'Esecutivo di favorire un'ampia riflessione sia in Parlamento sia tra le parti sociali. E che il maggiore sindacato italiano, la Ccil, non si limiti alla condanna ma concorra alla discussione con fattive proposte, nella prospettiva di un effettivo contemperamento tra il diritto di sciopero e gli altri diritti costituzionali dei cittadini.

Corriere della Sera 28.2.09
Il questore: «Non sono i volontari autorizzati da Maroni, dobbiamo vigilare». Il sindaco protesta
Padova, ronde scortate dalla polizia
In strada quattro gruppi, da An alla Lega. Tafferugli con i no global
Agenti e carabinieri controllano i vigilantes Poi alla stazione arrivano gli autonomi e volano schiaffi e pugni
di Marisa Fumagalli


PADOVA — Ormai tutto fa ronda. Ogni occasione è buona per improvvisarsi guardiani del territorio, in nome della sicurezza. Ieri sera, a Padova, i gruppi organizzati scesi per le strade del capoluogo, a presidio delle cosiddette zone calde (leggi spaccio, degrado, clandestini molesti), erano addirittura quattro, dislocati in tre aree della città.
In prima linea, i cittadini leghisti di Veneto sicuro — precursori del «genere», con le ronde padane — alla stazione ferroviaria; poi, gli extracomunitari per la legalità (guidati da un giornalista di colore di Retenova), sostenuti, a quanto pare, da An, nel quartiere caldo della Stanga. Là dove il sindaco Flavio Zanonato fece erigere il muro anti-spaccio.
Anche a Padova, come altrove, i neri rondisti sono un fenomeno emergente, che fa notizia. Nelle vicinanze della Stanga, infine, vigilava il Comitato di cittadini di via del Pescarotto.
Risultato? Per badare ai rondisti, sono stati allertati agenti e carabinieri. «Che avrebbero potuto essere utilizzati meglio altrove — sibila Zanonato —. Stiamo sfiorando il ridicolo: siamo alle guardie dei guardiani».
Sostanzialmente, sulla stessa linea è il questore, Luigi Savina. Dice: «In verità, qui si tratta di manifestazioni autorizzate. Le ronde prospettate dal ministro dell'Interno, Maroni, sono di là da venire. Invece, troviamo persone che si muovono in alcuni punti della città, munite di pettorina gialla, dicendo di voler fare sorveglianza civica. Preavvisato, ho dato il benestare. Non posso permettermi, però, di non tenerle d'occhio. Le provocazioni sono dietro l'angolo».
Com'è successo, ieri sera, dopo l'esordio in sordina. Alla stazione, dove c'erano più cronisti che rondisti (meno di dieci), a un certo punto hanno fatto capolino gli autonomi del Centro sociale Pedro, guidati da Max Gallob. Risultato? Sono volati schiaffi e pugni, ma i tafferugli sono stati sedati sul nascere, con il pronto intervento dei celerini.
«È chiaro — spiega il questore — che la politica c'entra, e subito c'è chi coglie la palla al balzo. «Per inciso — continua — nei giorni scorsi, un gruppetto che fa capo a Rifondazione comunista ha messo su, a mo' di sberleffo, non le ronde bensì le "rondinelle"».
La sicurezza, allora, è un pretesto? A Padova, come in altre città, il problema esiste ed è sentito. «Ma — nota il sindaco, — vedo più speculazione politica che altro. Per quanto mi riguarda, attendo che il decreto Maroni diventi legge. Poi, mi regolerò di conseguenza, secondo le indicazioni chiare e certe. Le ronde, posso assicurarlo, saranno apartitiche».
Il questore Savina ci dà un dato, piuttosto confortante: «Padova ha chiuso il 2008 con il 20 per cento in meno di reati rispetto all'anno precedente ». «Tuttavia — precisa subito —, la sicurezza percepita è un'altra cosa».

l’Unità 28.2.08
Per le ronde il nemico è lo zingaro
di Dijana Pavlocic


Ho ricevuto una telefonata da un Sinto. Mi dice che devo smettere di dire che Rom e Sinti sono lo stesso popolo, che loro non c'entrano nulla con i rom stupratori e che per colpa nostra i gage se la prendono anche con i Sinti. Non capisco. Poi mi arrivano notizie di alcuni amici preoccupati : in diverse città italiane prossime alle elezioni amministrative esponenti del Popolo delle Libertà hanno offerto ai Sinti - cittadini italiani- 50€ per voto in cambio di protezione dopo una eventuale vincita. È già successo - mi dicono - anche con altre formazioni di destra. Gli "zingari" allora non sono proprio tutti da buttare via e da prendere a "calci nel culo"? Ce ne sono che servono per una manciata di voti e così si esporta un po' del proprio razzismo nelle comunità che ne sono anche l'oggetto e scatenare un'altra guerra: Sinti, cittadini italiani, votanti, contro i Rom stranieri, "tutti stupratori e ladri" e non votanti.
Mi chiedo che protezione possono offrire a queste persone terrorizzate? Forse le ronde selezioneranno in che campo andare? E come potranno spiegare questo ai loro elettori che in ogni campo senza distinzione vedono solo zingari e basta? Come la prenderanno quegli elettori che sul Facebook hanno creato un gruppo che si chiama ACCENDI ANCHE TU UN FIAMMIFERO ... PER DARE FUOCO A UN CAMPO ROM!!! e che ha 14400 iscritti che ripetono nella loro chat, le parole i concetti dei vari Borghezio e che non vedono l'ora di iscriversi alle associazioni "civili e innocue" che faranno le ronde "armati solo di telefonini"? Tanto per non lasciare dubbi uno di questi aspiranti rondisti si firma con un nome tragicamente famigerato: Himmler. Questi sono gli allievi di Gentilini che con la stessa camicia verde e dallo stesso palco di Bossi e Maroni invoca l'eliminazione dei bambini zingari. La Lega, come l'apprendista stregone di Paul Dukas (per chi avesse visto Fantasia di Disney) ha innestato con la sua campagna di terrore contro immigrati e rom una deriva razzista che trova nelle norme del pacchetto sicurezza legittimità e giustificazione e soprattutto scava nella coscienza delle persone il solco incolmabile dell'odio. Io vengo da un paese distrutto dall'odio e Ivo Andric, grande scrittore serbo, ci aveva ammonito: "Io so che l'odio e la collera hanno una loro funzione nello sviluppo della società. Ci sono ingiustizie e soprusi che solo i vortici dell'odio e della collera possono annientare. Ma non si tratta dell'odio che rappresenta un momento nel processo di sviluppo della società, la tappa inevitabile di un'evoluzione storica, ma di un odio che si manifesta come una forza autonoma, che trova in se stesso la propria ragione di essere. È l'odio che fa scontrare l'uomo con un suo simile e poi li rigetta entrambi nella miseria e nella disgrazia, o li sotterra."
dijana.pavlovic@fastwebnet.it

Corriere della Sera 28.2.09
Non basta deprecare i tagli alle biblioteche
di Giovanni Belardelli


Qualche giorno fa, in una lettera al Corriere (23 febbraio), alcuni storici hanno denunciato la grave situazione di biblioteche e archivi italiani, dove sta diventando sempre più difficile consultare libri o documenti a causa di limitazioni di vario genere (anzitutto di orario) dovute al taglio delle risorse.
A prima vista è impossibile non associarsi alla denuncia di Andrea Graziosi, presidente della società dei contemporaneisti italiani, e degli altri firmatari della lettera. Eppure in ciò che scrivono c'è qualcosa che non convince. Non certo i fatti, che stanno esattamente come li riferiscono. Quel che non convince, in questa come in altre analoghe denunce dei tagli operati nel campo della cultura, è il tono unicamente deprecatorio. Come se il centro del problema stesse nel ricordare all'esecutivo l'importanza della cultura (così che allarghi i cordoni della borsa) e non nella circostanza che i soldi in realtà non ci sono, o meglio non ci sono più.
Il fatto che in Italia il debito pubblico superi di qualche punto percentuale l'intero ammontare del Pil cos'altro sta a significare, se non che quei soldi un po' tutti abbiamo consentito che venissero spesi con leggerezza? Perché quando in passato si sono prese certe decisioni — che so, mandare tanti cinquantenni in pensione — nessuno o quasi ha ricordato che quell'uso della spesa pubblica avrebbe reso necessari, prima o poi, dei tagli a danno della cultura (e non solo)? Dopodiché, certo, ora dobbiamo cercare di non mandare in malora il nostro patrimonio archivistico e bibliotecario; ma se ci ricordassimo, oltre che degli effetti di oggi, anche delle cause di ieri, la denuncia non suonerebbe più convincente?

l’Unità 28.2.09
Precari della scuola in mobilitazione
Fioroni: «Si ignorano tutti i loro diritti»
di Maristella Iervasi


«Non si presta attenzione ai precari della scuola. Non c’è alcuna tutela, alcun ammortizzatore sociale», dice Bebbe Fioroni, responsabile Educazione del Pd, dopo la storia della prof che ha scelto di fare la bidella.

Gli studenti sono tornati nelle piazze con il «Surging Day», un assaggio dell’Onda anti-Gelmini d’autunno che sta riorganizzandosi. 50 mini cortei in diverse città del Paese. E altre mobilitazioni sono già in calendario perchè sulla scuola tutta, la battaglia non è finita con l’approvazione definitiva dei regolamenti sul primo ciclo e la riorganizzazione scolastica. Proprio su questi provvedimenti di governo pende la spada di Damocle dei ricorsi: del Cidi e della Flc-Cgil, che ha anche impugnato davanti al Tar la circolare sulle iscrizioni. Già la scuola. Proprio oggi i presidi informeranno il ministero di viale Trastevere sull’esito della scelta delle famiglie: maestro unico o tempo pieno? Secondo indiscrezioni, sarebbe stato sconfitto proprio il maestro imposto dalla Gelmini. E non finisce qui. In commissione alla Camera c’è il disegno di legge Aprea con la trasformazione delle scuole in fondazioni, mentre è già sul piatto la partita pesante dei tagli organici: 42mila cattedre in meno nel 2009. E a restare a bocca asciutta saranno almeno 30mila supplenti annuali e 10mila prof di ruolo in esubero.
Il precariato della scuola è diventato un tema sociale. 240mila sono le persone coinvolte. È la drammatica testimonianza a l’Unità di Amalia Perfetti, la prof di italiano che ha deciso di fare domanda per diventare bidella, è solo una delle tante storie ordinarie. Antonio Bucciarelli, ad esempio, sono 25 anni che è precario. Insegna educazione fisica in 2 scuole a Tivoli. Guadagna 1200 euro per 10 mesi l’anno e ne spende 150 al mese di benzina per salire in una «cattedra» a tempo. «Sono un precario preistorico: ho 57 anni, 4 abilitazioni. Non chiedo l’elemosina o una raccomandazione, ma i diritti guadagnati sul campo con il lavoro e la preparazione». Domenica 1° marzo la mobilitazione: a Napoli e Bologna con una assemblea pubblica.
Bebbe Fioroni, neo responsabile Educazione del Pd, è profondamente amareggiato. «Si ignora l’esistenza dei precari. Si ignorano i loro diritti e la loro professionalità per avviare progressivamente un sistema non di razionalizzazione ma di depauperamento sistemantico del nostro sistema di istruzione».
I tagli alle cattedre che la Gelmini ha accettato senza batter ciglio sono pesantissimi: già dal prossimo settembre verranno soppresse 42mila posti docente. «Purtroppo la storia di Amalia a breve rigurderà qualche centinaia di migliaia di docenti e decine di migliaia di Ata - precisa Fioroni -. La cosa che più dispiace è che non c’è alcuna tutela, alcun ammortizzatore sociale per i precari della scuola. Non si presta alcuna attenzione per coloro che hanno svolto da 10-15 anni non un lavoro abusivo, senza capacità e preparazione, ma professionisti che hanno istruito, cresciuto ed educato i nostri figli».
Per i precari della suola non si è presta alcuna tutela, alcuna ammortizzatore sociale, nessuna attenzione per coloreo che da 10-15 anni non hanno svolto lavoro abusivo, senza capacità e preparazione, si tratta di professionisti che hanno istruito cresciuto educato i nostri figli».
Il governo Prodi (Fioroni ministro) ha messo in ruolo 75mila precari. «Nel triennio - sottolinea il responsabile del Pd - avevamo previsto l’assunzione di 150mila. È ingeneroso lo s tudio della Fondazione Agnelli: non si tratta di immissione in ruolo di persone che non hanno mai lavorato. Sostenere che sono anziani quindi poco competenti è inaccettabile. non degno di un paeste civile».

Repubblica 28.2.09
"Accordi con chi accoglie le nostre idee"
Elezioni europee, Pannella guarda anche a destra


CHIANCIANO - Il grande vecchio dei radicali è di nuovo sul mercato. Pronto a tutte le alleanze per le europee. Anche con il centrodestra. Marco Pannella: «Siamo aperti a qualunque accordo sensato. Vedremo chi raccoglie le nostre richieste. A occhio, magari è più difficile che ci tenda la mano un intellettuale organico progressista come Gasparri...». Però il messaggio al Pd parte chiaro e forte: fateci una proposta o guardiamo altrove. I radicali dedicano il loro congresso alla lotta contro la partitocrazia, «regime peggiore del fascismo». Ma fra i delegati non si parla d´altro che di liste. Ieri è arrivato Pierluigi Bersani, a tessere la sua tela "dalemiana" delle alleanze. Grandi aperture di credito a Pannella e alla Bonino, con operazione-simpatia verso i congressisti: «Tutti si mettano in testa che i radicali non sono biodegradabili». E oggi pomeriggio, un arrivo inatteso: Francesco Rutelli, ex vicesegretario del Pr negli anni '70.
Pannella, dopo l´uscita di scena di Veltroni, nutre qualche speranza in più verso il Pd. «Aspetto di capire le intenzioni di quel gran democristiano di Franceschini». Ma si tiene aperta anche la porta dell´accordo con socialisti, verdi e dissidenti del Prc: «Vendola è gay, e va bene, solo che è anche catto-comunista». Se salta tutto? «O soli o non ci presentiamo: siamo abituati a restare fuori dai parlamenti».

Corriere della Sera 28.2.09
Oggi Rutelli al congresso dei Radicali
Pannella tra Pd e «Sinistra delle libertà»
di A. Gar.


CHIANCIANO — Con chi va il Partito radicale alle elezioni europee? Marco Pannella dice che è pronto «a qualsiasi sennato accordo politico-elettorale». Con tutti? No, «solo con chi vuole, dopo 60 anni, la fine del Regime partitocratico». Quindi è possibile un'alleanza con il Partito democratico, come alle ultime politiche?
«Vediamo cosa farà il democristiano Franceschini. Sarà sempre meglio del partito del nulla di Veltroni».
A Chianciano Pannella ha riunito il Partito Radicale transnazionale e ieri è venuto in visita Bersani, area dalemiana, invitato perché oppositore di Veltroni. Bersani è in sintonia con i radicali soprattutto sul tema liberalizzazioni. Ma dice: «Non so nulla di liste». Allora, i radicali faranno una lista con l'area di Nichi Vendola (ex Rifondazione), Sinistra democratica di Mussi e Fava, Verdi e Socialisti? «Può essere — dice Pannella —, Vendola è gay e quindi dovrebbe esserci vicino sui diritti civili, ma è pure cattocomunista, purtroppo...». E' possibile perfino un accordo con la Destra? . C'è pure chi pensa che i radicali potrebbero correre da soli, come Marco Cappato. O che si potrebbe non correre, come Marco Beltrandi.
Deciderà Pannella, all'ultimo momento utile, nel modo più utile per i radicali. Oggi a Chianciano ci sarà un evento, il ritorno davanti a un'assemblea radicale di Francesco Rutelli, che lasciò il partito nel 1990, partendo verso sponde molto meno laiche.
Mentre Pannella valuta le opzioni, la coalizione Vendola-Sd-Verdi e Socialisti ha quasi chiuso il patto elettorale. Sulla scheda si chiameranno Sinistra per le Libertà, con un nome che riecheggia il Popolo delle libertà. «Ma in questo modo facciamo tornare a sinistra la parola libertà», spiega Riccardo Nencini, segretario socialista. Pochi e chiari i temi della campagna: un nuovo statuto del lavoro, diritti civili (testamento biologico e unioni di fatto), no al nucleare. Un sondaggio Nexus, fatto prima delle dimissioni di Veltroni, accredita a questa formazione il 4,6 per cento, senza i radicali.

Corriere della Sera 28.2.09
America Latina E' l'area in cui resistono le maggiori concentrazioni di indios minacciate dal «progresso»
Oriente Dall'India a Papua sono vittime della violenza politica e dello sfruttamento delle risorse naturali
Popoli indigeni, rischio estinzione
Sono ancora 370 milioni in tutto il mondo In Brasile ogni due anni scompare una tribù
di Alessandra Coppola Stefano Rodi


Genocidio. Un titolo di una sola parola a caratteri cubitali tra le pagine del Sunday Times Magazine svela ai lettori britannici una realtà a lungo nascosta: lo sterminio dei popoli indigeni, avviato nei secoli delle conquiste, non si è mai arrestato. Il reporter Norman Lewis si immerge nelle carte di un'inchiesta della procura generale brasiliana e porta a galla uno scenario da incubo: assassinii di massa, torture, morbi atroci come il vaiolo deliberatamente inoculati, veleni, riduzione in schiavitù, abusi sessuali, furti e soprusi di ogni sorta. Una «tropical Gomorrah», scrive in un passaggio Lewis: «La tragedia degli indiani di America si sta ripetendo, ma compressa in un tempo più breve. Dove dieci anni fa c'erano centinaia di indios, ora ce ne sono poche decine».
Era domenica 23 febbraio 1969, avrebbe potuto essere ieri. A quarant'anni esatti da quell'articolo choc che provocò grande reazione e la nascita di una delle maggiori organizzazioni per la difesa dei diritti dei popoli indigeni, «Survival», lo scenario non è cambiato di molto. Francesca Casella, direttrice di «Survival International Italia», fa il punto: «Un progresso importante c'è stato: è cambiato l'atteggiamento dell'opinione pubblica. L'estinzione dei popoli indigeni non è più data per scontata ma gli ostacoli restano tantissimi: violenze, usurpazione delle terre, presunzione che si tratti di popoli rimasti primitivi, che hanno bisogno del nostro aiuto per svilupparsi e cambiare stile di vita. Senza essere consultati».
Le cifre non sfigurerebbero sotto il titolo «Genocidio»: nel secolo scorso in Brasile è scomparsa una tribù ogni due anni, 87 solo tra il 1900 e il 1957. I casi raccontano ancora di una Gomorra nascosta nel fitto della vegetazione. Gli Enawene Nawe, del Mato Grosso, in Brasile. Al principio una storia di speranza: contattati nel 1974 dai missionari gesuiti, erano 97; protetti e lasciati in condizione di prosperare, oggi sono quasi cinquecento. Ma rischiano l'estinzione. La vita della tribù, che ruota intorno al fiume Yuruena, rischia di essere soffocata da un progetto di 77 dighe destinate alla produzione di energia elettrica per i grandi coltivatori della zona, primo tra tutti il magnate della soia Blairo Maggi. Che è anche il governatore dello Stato, cioè colui che firma il via libera al progetto.
La terra usurpata resta il primo problema. Così a Nord del Brasile, nel Marañhao, gli Awà non possono che arretrare davanti alle ruspe e alle motoseghe. In fuga da decenni sono ormai ridotti a trecento, rifugiati ai margini di quella che un tempo era la loro foresta, minacciati dal mondo «civilizzato» che avanza portando malattie, depressione, alcol. Una campagna internazionale era riuscita a vincolare finanziamenti della Banca mondiale destinati allo sviluppo alla demarcazione della loro terra: il Brasile ha eseguito, ma poi non impedisce che la riserva sia costantemente invasa.
Amministrazioni conservatrici o, come nel caso di Lula a Brasilia, progressiste, poco cambia. L'unica differenza la fa la volontà politica. A volte c'è, più spesso manca. Le regole in questi anni sono state fissate; anche l'Onu, il 13 settembre 2007, ha approvato la Dichiarazione sui Diritti dei popoli indigeni. Quanto ai Dongria Kondh, ottomila superstiti asserragliati sulle colline di Niyamgiri, Stato indiano dell'Orissa, più che nel governo puntano sul sostegno della popolazione locale, e sulle campagne internazionali. Da mesi sulle loro terre sono al lavoro gli operai di una delle più grandi compagnie minerarie britanniche, la «Vedanta», che progetta un'immensa miniera di bauxite. Per fermarli «Survival» sta cercando di fare pressione sugli azionisti di «Vedanta».
Sembrano vicende lontane, si scopre che sono anche italiane. Roma, come membro Ue, contribuisce agli aiuti destinati al Botswana (nel 2001 un accordo da 10 milioni di euro) per «salvaguardare le riserve protette». Il governo dello Stato africano però ha un'idea originale della salvaguardia, in particolare del deserto del Kalahari, terra ancestrale dei Boscimani. Una sentenza dell'Alta corte del Botswana riconosce il diritto degli indigeni di vivere in quell'area, ma l'amministrazione li ha ormai sfrattati — con il pretesto di inserirli nella società — e rende impossibile il rientro: cementato l'unico pozzo d'acqua che dava sostentamento all'intera tribù, vietato riaprirlo. Al tempo stesso però è stata autorizzata la perforazione di altri tre pozzi destinati alle attività minerarie, alle strutture turistiche e ad abbeverare gli animali. Una ragione c'è: diamanti. All'inizio offerti (al 50%) alla De Beers, che però dopo la campagna internazionale ha venduto a Gem Diamonds.
A volte è il bisogno di affermare la sovranità, come nel caso dell'Indonesia nella Papua Occidentale, dove gli indigeni sono vittime di una violenta repressione, induritasi nelle ultime settimane. Altre volte ancora è la guerra. In Colombia, per esempio, dove gli indios sono schiacciati negli scontri tra guerriglia, paramilitari ed esercito. È di questi giorni l'allarme per l'uccisione ancora da chiarire di 27 indigeni Awa (nessuna parentela con i brasiliani), secondo una delle ricostruzioni ammazzati dalle Farc perché sospettati di essere collaborazionisti delle forze armate. Il caso colombiano di recente è diventato una lettera preoccupata di 22 europarlamentari al presidente di Bogotá, Álvaro Uribe. Le denunce di violenze e minacce non si contano. Terribile la storia di Aida Quilcue, uccisa il 16 dicembre scorso a un posto di blocco dell'esercito. Laura Greco, una dei fondatori dell'organizzazione italiana «A Sud», lavora anche in Colombia. In particolare è responsabile di un progetto nel Guaviare con il popolo dei Nukak, spinti dal conflitto oltre le proprie terre fino alla periferia della capitale dello Stato, San José. «A Sud» cerca di provvedere a un minima assistenza sanitaria: «Era una popolazione nomade di cacciatori — spiega Laura —. Sedentarizzati in maniera forzata, hanno dovuto radicalmente cambiare abitudini e prima tra tutte l'alimentazione. Il che ha provocato nuove malattie: muoiono anche semplicemente di dissenteria. Di loro non si occupa il governo, né l'amministrazione locale che dice di aver bisogno del via libera da Bogotá. Hanno problemi di integrazione, in pochi sanno lo spagnolo, i bambini non vanno a scuola». Ai margini di tutto, in attesa di estinguersi. Non è molto diverso da quello che Lewis chiamava «genocidio».

Corriere della Sera 28.2.09
Isolati dal resto del mondo, più di cento gruppi etnici difendono le loro tradizioni fuggendo da ogni contatto con la «civiltà»
Gli «invisibili»: una vita sempre in fuga
di A. Co. S. Ro.


Tre anni fa in Rondônia, regione dell'Amazzonia brasiliana al confine con Perù e Bolivia, furono due funzionari governativi a vedere l'ultimo appartenente alla tribù dei Tumaru. Se lo ricordano bene, visto che puntò contro di loro il suo arco, da non più di dieci metri, prima di fuggire. Di lui non si è più saputo nulla. I due uomini del Funai, l'ente governativo per i diritti degli Indios, erano sulle sue tracce da molti giorni all'interno della foresta, da quando una tribù vicina li aveva avvisati che dei Tumaru era rimasto un solo individuo. Lo volevano trovare, per suggerirgli di unirsi a qualche altra tribù della zona. Ma quell'indio non ne ha voluto sapere. La sua scelta è stata quella di puntare l'arco e correre.
La sua è, o era, una delle circa 230 tribù conosciute che abitano nell'Amazzonia brasiliana, per un totale di 460 mila persone. Prima che arrivassero gli occidentali erano circa sette milioni gli Indios che popolavano la foresta brasiliana. Ma dopo secoli di stragi e devastazioni nel loro territorio, operate prima dai coloni, poi dai grandi allevatori e dalle multinazionali che hanno disboscato, costruito strade e dighe, c'è ancora qualcuno che manca all'appello: sono una quarantina di tribù. Sono quelle definite «no contact»: isolati, mai nessun incontro con altri uomini diversi da loro. Un mondo sconosciuto che vuole rimanere tale. Una vita in fuga, in luoghi sempre più remoti. Di loro non si sa nulla, se non il fatto che esistono.
E già questa è un'impresa che riesce solo agli altri indios che vivono nel fitto della foresta e che, volenti o nolenti, hanno invece contatti con il resto del Paese. Sono loro a riferire ritrovamenti di strumenti da caccia sconosciuti, o di aver visto nativi che non parlano la loro lingua darsi alla fuga nella boscaglia. Si sa in che zona vivono, ma non quanti sono o come sono organizzate le loro comunità.
La tribù dell'Amazzonia brasiliana degli Orowari, che nella loro lingua significa «il gruppo », vive nella riserva di Igarapé Laje, in una zona dello stato di Rondônia al confine con quella chiamata Musacanava, dove si sa che vivono tre diverse comunità di indios isolati. Gli Orowari hanno grande venerazione per questi loro vicini misteriosi: li chiamano «Ko Om Tan Krik Nana», «quelli che si nascondono», e che quindi non sono a conoscenza di un progetto ormai in fase di realizzazione che prevede la costruzione di un sistema combinato di dighe sul fiume Rio Madeira, per realizzare centrali elettriche. Il piano prevede che parte dell'area Musacanava diventi un lago artificiale. «Noi possiamo almeno provare a difendere i nostri diritti, farci sentire. Loro no— spiega Jesse Waram Xijeijn, 32 anni, capo di uno dei quattro villaggi Orowari che si trovano nella riserva di Igarapé Laje —. Li ammiriamo, perché continuano a vivere secondo tradizioni che erano anche nostre. Se saranno costretti a uscire da Musacanava, ammesso che sopravvivano alle ma-lattie e all'alcol, saranno uccisi dai grandi proprietari terrieri che sono ai confini della loro zona. E chi anche riuscirà a sopravvivere avrà perso per sempre il suo modo di vivere». Su come difendere quel mondo anche gli stessi Orowari si dividono. C'è chi ritiene giusto avvicinare «quelli che si nascondono», conoscere le loro tribù, il loro numero, le loro abitudini, perché così si può provare a tutelare meglio la loro area, e chi invece, come Waroi Jexian, uno degli insegnanti della scuola del villaggio, la pensa in modo opposto: «Nel momento stesso in cui avviene la conoscenza, anche da parte di altri indios, è l'inizio della fine delle tribù isolate. È accaduto un'infinità di volte e non basta dire che adesso si fanno subito le vaccinazioni e non muoiono più come un tempo per un semplice raffreddore. Molti muoiono lo stesso e poi il problema non si può ridurre semplicemente a quello della sopravvivenza. Loro vogliono continuare a vivere nella foresta come hanno sempre fatto».
A metà degli anni '80 un gruppo di aderenti alla «Missione delle Nuove tribù», un'organizzazione missionaria fondamentalista con sede negli Usa, organizzarono una spedizione non autorizzata dal governo brasiliano, per entrare in contatto con un gruppo allora sconosciuto, gli Zo'è, nello stato del Pará. Una volta individuati dall'aereo i villaggi, distribuirono regali e costruirono una base a pochi giorni di cammino. Poco dopo il primo contatto, avvenuto nel 1987: decine di Zo'è morirono di influenza, malaria e malattie respiratorie. Di casi come questo ce ne sono stati a decine.
A essere convinto che non esista un modo corretto per entrare in contatto con gli indigeni che scelgono di vivere isolati c'è anche Sydney Possuelo, esploratore, antropologo e primo direttore del Funai, responsabilità che lo ha portato per anni nella foresta a seguire tracce di popoli sconosciuti. Ne ha contattati diversi, e si è pentito di averlo fatto: «Anche se si arriva da loro con le migliori intenzioni, li si introduce in una vita che non è loro. Regaliamo coltelli, pentole, forbici, e in questo modo creiamo bisogni che non avevamo mai avuto prima, rompendo un'armonia che è molto delicata. Gli attrezzi che noi abbiamo lasciato nelle loro mani prima o poi si rompono e a quel punto lo sarà anche il loro equilibrio». Del resto questi popoli incontattati, proprio perché privi di tecnologia moderna, sono in grado di vivere in equilibrio in mezzo a una natura dove tutti gli altri non sarebbero in grado di sopravvivere una settimana. La loro storia, ma in generale quella di tutti gli indios, non sta scritta nei libri. Uno di loro, ormai integrato nella società, Daniel Munduruku, che coordina la collezione «memorie ancestrali» per un'importante casa editrice brasiliana, ha spiegato che «per noi scrivere un libro è una novità: le storie vivono dentro di noi. È più facile che avere a che fare con un libro, il libro pesa».

Corriere della Sera 28.2.09
Gli studi di un team del San Raffaele: la prova viene da simboli senza significato che attivano l'area di Broca
Come si parla? Il cervello lo sa già
Il linguaggio è innato: conosciamo la sintassi prima di costruire le frasi
di Edoardo Boncinelli


Nel nostro cervello c'è una regione capace di utilizzare la sintassi anche in assenza di parole. La sintassi, cioè la capacità di disporre le parole secondo una schema definito e significante, è ritenuta il nucleo concettuale fondamentale del linguaggio. Tale capacità appare innata nell'uomo, mentre è assente negli altri animali anche i più vicini a noi ed è codificata in una regione specifica della nostra corteccia cerebrale sinistra: è la famosa area di Broca, necessaria per poter parlare. Questo fatto è noto dall'Ottocento e la sua scoperta è merito del dottor Paul Broca appunto, che localizzò con maestria la lesione cerebrale di un paziente che pur avendo tutte le altre facoltà intatte, quando voleva parlare emetteva solo un monotono «Tantantan».
Funzione superiore
In anni recenti si è mostrato che tale area è coinvolta anche nella retta articolazione del linguaggio dei segni, quello usato dai sordomuti ad esempio, come pure in un particolare sistema di comunicazione, detto silbo gomero, a suon di brevi fischi, tipico dell'isola de La Gomera, una delle Canarie. L'area sovrintende quindi al controllo della corretta disposizione sintattica dei segni, al di là e al di sopra del linguaggio vero e proprio. Un gruppo di ricerca del San Raffaele di Milano ha mostrato adesso che la stessa area può controllare anche un mezzo di espressione astratto costituito di simboli visuospaziali inventati. Si tratta quindi di una vera e propria «sintassi senza parole», di una funzione superiore che si estrinseca soprattutto nel linguaggio, ma che si estende anche ad altri domini funzionali della nostra mente.
Nocciolo fondamentale
L'uomo si è sempre chiesto che cosa caratterizzi il suo linguaggio; che cosa faccia, in altre parole, del linguaggio il linguaggio. Molti ling uisti, sulla scia di Noam Chomsky, hanno indicato nella sintassi il nocciolo fondamentale di questa facoltà e localizzato nel-l'area di Broca la regione cruciale per il suo espletamento. Nelle lingue naturali esiste un'enorme varietà di regole sintattiche, ma non vi sono rappresentate tutte quelle pensabili. Esistono infatti regole che non si trovano in nessun linguaggio naturale. Sono regole per così dire «proibite» dalla nostra facoltà di linguaggio. Un lavoro precedente del gruppo del San Raffaele che si avvale della consulenza linguistica di Andrea Moro, collaboratore di Chomsky, ha mostrato che un cervello che utilizza una regola sintattica «permessa», cioè che si può trovare in una lingua naturale, utilizza per farlo l'area di Broca, mentre quando maneggia regole sintattiche diverse, costruite artificialmente ma non presenti in nessuna lingua naturale, non la usa. Come dire che l'area di Broca può funzionare solamente seguendo certe regole, ma non certe altre. In altre parole, le regole della nostra sintassi sono scritte nel cervello, probabilmente dalla nascita.
Quello che riguarda la lingua sembra adesso vero anche per altri sistemi di combinazione dei segni. In un lavoro di Marco Tettamanti e collaboratori che uscirà sulla rivista
Cortex, il gruppo di ricerca che fa capo ad Andrea Moro per la parte linguistica e a Stefano Cappa per le metodiche di neurovisualizzazione delle aree cerebrali ha mostrato come tale distinzione vale anche per una composizione visuospaziale di pura invenzione.
Prerequisito essenziale
Si tratta di mettere in fila simboli visivi astratti che non hanno alcun significato, ma lo si deve fare rispettando certe regole dettate dallo sperimentatore. Ebbene, quando queste regole corrispondono a quelle che sarebbero permesse in un linguaggio naturale, nel cervello di chi lo fa si attiva l'area di Broca, mentre quando non corrispondono, questa area non si attiva e se ne attivano altre. Come dire che per il nostro cervello la sintassi viene prima del linguaggio e ne costituisce il prerequisito essenziale. Parlare vuol dire scegliere vocaboli, metterli in un ordine locale grammaticale e in un ordine globale sintattico, secondo trame coesive e ricorrenti ma non rigide.

l’Unità 28.2.09
Il segreto dei Della Robbia
Luca, Andrea, Giovanni e Girolamo
Omaggio toscano alla famiglia delle ceramiche «glassate»
di Renato Barilli


Arezzo. È nozione alquanto scolastica e abusata che la Firenze del primo Quattrocento, nella scultura, abbia visto lo scontro tra Donatello (1386-1466), con le sue creazioni aspre, arrembanti, vivacissime, e invece Luca Della Robbia (1400-1482), calmo, pacioso, tranquillizzante. Non che ci fosse un dissidio personale tra i due, anzi, il più giovane crebbe forse alla scuola dell’altro, e anche di quella del Ghiberti e del Brunelleschi, come attesta una mostra scrupolosa ora allestita a Lucca, i cui primi pezzi vedono appunto una collaborazione tra Luca e i suoi maggiori. Ma certi luoghi comuni, anche se sono tali, nondimeno risultano puntualmente verificabili. Proprio tra le prime opere esposte a Lucca c’è una Madonna col Bambino, di non sicura attribuzione a Donatello, sul cui conto però non ci sarebbe da dubitare. Le mani della Madonna si allungano adunche a cingere con stretta possessiva il figlio, che leva il visino in alto aprendo la boccuccia, abbozzando una smorfia che già anticipa i grafismi duri e dolenti del Mantegna. E il manto della Madonna asseconda queste tensioni scattanti descrivendo pieghe contorte. Si veda, sempre di Donatello, La creazione di Eva, in cui il corpo della prima donna attraversa la formella tracciandovi un’obliqua tesa come una lacerazione. Al confronto, Luca viene per smorzare quegli impeti, immobilizzando le figure al centro della composizione, e disegnandone i volti quasi col compasso, in tante versioni statiche, «centriche», gonfie, paffute. Si potrebbe dire, in termini odierni, che Donatello sceglie per sé l’anoressia, mentre il Della Robbia appare favorevole alla bulimia. Ma poi scatta il ben noto segreto tecnico di Luca, che stava nell’invetriare le ceramiche, cioè nel glassarle con un’epidermide lucida, riflettente, inossidabile, quasi in anticipo su certe caratteristiche dei materiali plastici di sintesi dei nostri tempi, con cui gli artisti rendono le immagini «più vere del vero».
GRAZIE ORNAMENTALI
Si pensi alle nature morte di Piero Gilardi, o ai personaggi rifatti a grandezza naturale da Dwane Hanson. Per di più, quelle ceramiche invetriate erano capaci di assorbire e restituire avidamente il colore, certi azzurro cobalto intensi, oppure il giallo dei fiori, il dorato delle aureole, il verde delle piante. E dunque, quello che Luca perdeva nelle sue immagini a livello di carica energetica, di espressione tesa e drammatica, lo acquistava a livello di grazie ornamentali, correndo in avanti fino a rasentare gli esiti che nel Novecento avrebbe conseguito l’Art Déco. A un certo punto, Luca passò la mano a una schiera di discendenti, il nipote Andrea, e i figli di lui, tra i quali si distinsero Giovanni e Girolamo, tutti ben documentati in mostra, ma via via più sterotipati, sempre più lontani dagli ideali intensi degli inizi del secolo. Con la curiosa conseguenza che, pur ormai assestati su una routine così conformista, parteggiarono per la causa del Savonarola, ma forse nel nome di un medesimo culto del tempo antico.
I Della Robbia. Il dialogo tra le arti nel Rinascimento A cura di G. Gentilini
Arezzo, Museo statale d’arte medievale e moderna Fino al 7 giugno - Catalogo: Skira