lunedì 2 marzo 2009

l’Unità 2.3.09
Se torna l’uomo forte
di Francesco Piccolo


Vi consiglio di leggere il saggio di Ralf Dahrendorf su Internazionale di questa settimana. Ha per titolo «Se torna l’uomo forte» ed è una riflessione sulla fragilità della democrazia in tempo di crisi economica. Come la storia ha già dimostrato, è in questi frangenti che entra in crisi la classe media, che costituisce fondamento del sistema democratico occidentale. Quando entra in crisi, la classe media comincia a chiedere uno stato più attento a ordine e controllo, a pensare che un mondo meno libero ma più sicuro sia più sopportabile. Dahrendorf sostiene che la società può avere tre caratteristiche: essere ricca, essere buona ed essere libera. «Alcune società sono disposte a sacrificare le libertà politiche per raggiungere obiettivi economici e sociali. In questo modo si diffonde la convinzione che il cambiamento sia possibile solo limitando la libertà. Il pericolo di un nuovo autoritarismo è evidente».
E allora viene da chiedersi a che punto è l’Italia. Le conclusioni possibili sono due: o questo Paese è stato precursore del destino europeo, visto che ha già cominciato a lavorare da una quindicina di anni alla questione dell’uomo forte; oppure non è da considerarsi nemmeno in gioco perché la sua classe media, in poco meno di un secolo, ha scelto deliberatamente soltanto tre padroni: Mussolini, la Democrazia Cristiana, Berlusconi. E quindi, a monte, ha eliminato di fatto il dilemma sulla società libera, scegliendo la ricchezza e la bontà. Il che non vuol dire che le abbia ottenute.

l’Unità 2.3.09
Torna «l’ordine» tra i banchi
Tanti 5 in condotta e insufficienze
di G.S.


Cinque in condotta e insufficienze? Una valanga alla fine del primo quadrimestre nelle superiori, peggio dello scorso anno. Maglia nera in entrambe le voci agli studenti di professionali e tecnici, mentre gli iscritti al liceo linguistico superano quelli del classico nei voti. Il 5 in condotta, già contestato dai docenti, si è stampato senza appello sulle pagelle di 34.311 studenti, dei quali 8.151 con la sola insufficienza in comportamento (i più indisciplinati agli istituti professionali, seguono i tecnici). Effetti del clima di rigore che si respira nelle scuole italiane o studenti somari? Si vedrà a fine anno quando, giura qualcuno, con i corsi di recupero da organizzare e i pochi fondi a disposizione, le insufficienze e i 5 in condotta, si potrebbero miracolosamente trasformare in sei.
Boom di insufficienze
Per ora il 2 per cento in più degli studenti della scuola secondaria (le superiori), rispetto al primo quadrimestre dello scorso anno, ha riportato almeno una insufficienza (72 % a fronte del 70,3%). In quali materie? A parimerito gli ostacoli sono sulle lingue straniere e la matematica ognuna col 16 % del totale di brutti voti), al secondo posto ci sono le scienze. Segno che ci si trascinano dietro le difficoltà delle medie. I fratelli più piccoli, infatti, hanno preso il 59,7 % delle insufficienze in matematica e il 54 % in inglese. In quali scuole? Ai professionali l’80 % dei ragazzi è sotto al sei, al linguistico il 60, meno di uno su due.
Segno che, con l’Unione europea più forte e la prospettiva di andare all’estero per lavoro, al linguistico sempre più spesso si iscrivono studenti volenterosi? Probabile, ma non per tutti i dirigenti i dati sono affidabili e il boom di cinque in condotta, desta allarme.
Preoccupa il 5 in condotta
Per Orietta Felici, dirigente dell’istituto tecnico Alberti di Roma, il brutto voto in condotta è la via più breve ma serve a intimorire e non a recuperare. «Agitare spauracchi - dice la preside - non serve. Sono preoccupata del clima rigorista che si sta diffondendo nelle scuole dell’era Gelmini - spiega la dirigente - Io ho indicato la cautela rispetto al 5 in condotta e nella mia scuola nessuno l’ha messo». Capire perché i ragazzi si meritano l’insufficienza, e poi operare con regole condivise, capire le cause di un cattivo comportamento e poi proporre una soluzione: «Il 5 sanziona ma non cura. Bisogna chiedersi, poi, perché la cattiva condotta spopola negli istituti tecnici e professionali. Sono scuole che richiedono attenzione, fondi e impegno. Di certo i tagli del 5 per cento al funzionamento e il tetto troppo alto di 31 alunni per classe, non ci aiuta. Soprattutto quando si tratta di classi che somigliano a caserme, dove spesso non c’è neppure una presenza femminile a frenare comportamenti non buoni che è indubbio possano esserci». Non a caso la scuola Alberti è capofila di progetti contro il bullismo e l’omofobia.
La soglia di sopportabilità
Il ministero, poi, non ha indicato criteri univoci di valutazione del comportamento, che mancano come i regolamenti applicativi del 5 in condotta. Per questo qualche dirigente si è espresso contro: «Bisogna, poi, considerare anche la soglia di sopportabilità del professore - continua la dirigente - Certe volte i ragazzi sfiancano e i docenti fanno piovere note. Il 5 in condotta non è detto che sia il metodo che più spinge alla riflessione i prof». Certo è che in molti hanno preso il 5 soprattutto ai professionali e soprattutto al Sud, proprio là dove servirebbe un lavoro più complesso da parte di tutti.

l’Unità 2.3.09
«Stupro» Il corposo saggio di Joanna Bourke è la prima storia della violenza sessuale
L’autrice smonta molti luoghi comuni, come quello più comune del «è sempre esistito»
Lo stupro non è una fatalità e gli uomini possono cambiare
di Elena Doni


Se vogliamo analizzare il flagello dello stupro dobbiamo puntare uno sguardo gelido sui colpevoli e smontarne i meccanismi emotivi. È quanto fa Joanna Bourke in «Stupro», storia della violenza sessuale.

Chi sono gli stupratori? Perché il loro corpo e la loro testa funzionano in modo deviante? Come si è comportata la società nei loro confronti nell’ultimo secolo e mezzo?
Cinquecento pagine sull’argomento (più altre cento di bibliografia e note) portano, per cominciare, a cancellare tutti i luoghi comuni circolanti su violenze sessuali e violentatori. Le ha scritte una storica inglese, Joanna Bourke docente al Birbeck College di Londra, in un libro ora tradotto in italiano (Stupro, Storia della violenza sessuale).
Il primo luogo comune a cadere sotto i colpi della Bourke è quello sulla costanza storica dello stupro: «è sempre esistito in tutte le società», ciò che ovviamente sottintende «e sempre esisterà, quindi perché agitarsi tanto?». Invece l’asserzione è falsa: esistono società in cui la violenza sessuale è quasi sconosciuta e ci sono invece epoche in cui gli stupri sono in forte aumento. Le società in cui regna l’eguaglianza sessuale, la tranquillità e alti livelli di potere economico femminile hanno basse percentuali di stupri, dice il libro. Noto a tutti è invece l’aumento esponenziale di violenze sessuali che si verifica in tempo di guerra: alcuni studiosi hanno avanzato la peregrina spiegazione che ogni e qualsiasi tipo di arma ricorda il fallo, altri hanno ricordato che spesso in un teatro di guerra dopo una battaglia vittoriosa i comandanti concedono ai soldati 24 ore di vacanza da tutte le regole: è la tradizione del bottino di guerra, in cui sono incluse le donne. Come accadde in Italia nel 1944, dopo la battaglia di Montecassino, a opera delle truppe coloniali inglobate nell’esercito francese, che ebbero dal generale Juin 50 ore di libertà: migliaia di donne italiane furono «marocchinate», parecchie morirono, Pio XII ne scrisse a De Gaulle, ne ebbe una risposta accorata e l’apertura di un provvedimento contro 360 soldati. In Giappone le cose non andarono meglio: nei documenti dell’esercito americano è scritto che in dieci giorni, tra il 10 agosto e il 10 settembre 1945, gli Alleati si resero protagonisti di 1336 stupri nella sola prefettura di Kanagawa. Un ex sergente delle Riserve dell’Esercito che aveva accesso all’archivio delle forze di occupazione del Commonwealth dichiarò che i documenti erano una rassegna di stupri, saccheggi e razzie E conclude con un esempio: «Una sera entriamo in un bordello e forse ci fanno pagare un bicchiere di birra cinque centesimi in più. Così torniamo al campo, reclutiamo 30 compagni e andiamo a distruggere il bordello, lo incendiamo, pestiamo il personale e stupriamo le donne che non ci piacciono. E per tutto questo riceviamo una tiratina d’orecchie». Qualche decennio dopo la «propensione» dei soldati alle violenze sessuali fu cinicamente strumentalizzata in Bosnia dal leader serbo Radovan Karadzic, che era stato psichiatra, per indurre i bosniaci a firmare l’abbandono «volontario» delle loro case e dei loro beni: fu «l’arma dello stupro», che dette il titolo a un instant book pubblicato nel 1993 (E. Doni e C. Valentini , La Luna edizioni).
Il libro di Joanna Bourke sulla storia della violenza sessuale passa in rassegna anche l’accoppiata che viene periodicamente riproposta tra immigrazione e stupri. Negli Stati Uniti l’argomento è stato studiato in particolare per quello che riguarda gli afroamericani e la violenza è stata indicata come prodotto della sottocultura del ghetto: espressione di alienazione e rabbia diffuse, del desiderio di dimostrare la propria aggressività e la capacità di dominio. «Mi deliziava l’idea di sfidare e di calpestare la legge dei bianchi, il loro sistema di valori, di profanare le loro donne», ha scritto Eldridge Cleaver, leader di Potere Nero. Peccato però - nota la Bourke - che sociologi e criminologi concordano nel dire che il 90% degli stupri è interrazziale.
Punizioni
Un altro argomento del giorno in Italia è quello dell’inasprimento delle pene, che sono in molti a chiedere. «L’esperienza insegna - dichiara la storica inglese - che l’aumento delle reazioni punitive è stato inefficace, se non controproducente». E neppure l’approccio medico - lobotomia, castrazione chimica - ha dato risultati sicuri. A volte ha solo modificato l’obbiettivo: è capitato che un pedofilo abbia smesso di molestare i bambini per rivolgere la sua violenza contro donne adulte. E tuttavia, conclude la Bourke, lo stupro non è un male endemico dell’umanità. Gli uomini non sono stupratori: alcuni uomini lo sono e anche alcune donne. Stupratori non si nasce, si diventa: essere crudeli è una scelta. Dalla quale si può tornare indietro, come accadde proprio al leader di Potere Nero, Eldridge Cleaver. La violenza sessuale può essere combattuta e vinta, dice l’autrice di Stupro, con una politica della virilità che si concentri sul corpo dell’uomo come strumento di piacere e non di oppressione e dolore.

l’Unità 2.3.09
Che fastidio il teatro? Ma mi faccia il piacere!
Chi detesta jazz e opera sarà presto accontentato dal governo
di Nicola Piovani


Gli intellettuali italiani non amano il Teatro, non è una novità. Questa considerazione antica è sempre più attuale. Le ultime polemiche sui fondi alla cultura hanno ancora una volta evidenziato questa nostra bella lacuna: la cultura italiana, a differenza di quella anglosassone, ma anche francese, tedesca, statunitense, considera il Teatro non lo spazio principe e imprescindibile di ogni civiltà nazionale, ma una specie di soffitta dove relegare i nostalgici amanti della prosa: un pubblico anzianotto e impellicciato che va a sbadigliare davanti all’ennesimo Tartufo o Zio Vania o Enrico terzo, quarto, quinto che sia.
Solo nostalgici?
In certi ambiti dichiarare «Io a teatro non ci vado mai» è un vanto anziché una confessione, è una frase che suona bene; mentre magari dire «Io non leggo mai libri» suona male, come «Non sento mai concerti classici», «Mi annoio davanti a Caravaggio», «Mai visto Kaurismaki».
Leggendo quello che gira in questi giorni, avverto l’espandersi di questo fastidio diffuso dei pensatori italiani verso il lavoro e la ritualità teatrale. E penso che sia proprio questa la causa dei tanti equivoci che girano in questi giorni sul tema delle sovvenzioni alla cultura. Lo schema del ritornello è più o meno sempre lo stesso, Brunetta o Baricco che sia: «I teatri stabili non funzionano, quindi chiudiamoli». «Gli enti lirici sperperano, quindi chiudiamoli». «Il paziente ha la febbre quindi sopprimiamolo» anziché cercare dei buoni antibiotici. E per spararla più grossa si dice anche: «Siccome i teatri funzionano male, spostiamo quei fondi dedicati allo spettacolo sulla televisione pubblica», che come tutti sanno funziona benissimo culturalmente, senza sprechi e disfunzioni.
Alla Totò
Certo, ha ragione Lucarelli a dire che il tema è serio e merita un dibattito approfondito - che peraltro non è del tutto mancato -, ma ci perdonerà se ogni tanto, di fronte a certe enormità ci scappa una risposta leggera, alla Totò, un sorridente «ma mi faccia il piacere!» Chi ha girato il territorio italiano sa quanta vitalità civile, sociale e perciò culturale si sviluppi attorno agli spettacoli dal vivo, alle attività delle piccole compagnie locali, agli eventi di prosa e di musica. Tante persone entusiaste, dal Veneto alla Sicilia, escono di casa la sera, affrontano anche disagi, spese, freddo, per ritrovarsi in una sala a condividere uno Zio Vania, un Paolo Rossi, una Bohème o anche un Paese dei Campanelli...
Se questa vitalità collettiva vogliamo spegnerla e rimandare questi uomini di buona volontà tutti a casa a vedere la televisione, si fa presto: basta tagliare quel po’ di fondi che ancora l’Italia dedica allo spettacolo dal vivo. Ricordo che sono somme incresciosamente piccole rispetto agli investimenti degli altri paesi europei (le cifre, per chi non le sapesse, sono ufficiali e facilmente consultabili).
La prospettiva
Comunque, quelli che la pensano così, quelli che detestano e vogliono veder scomparire i teatri d’opera o di prosa, i concerti classici o jazz, i musical e i cabaret, possono stare tranquilli: a breve saranno accontentati dal nostro governo.

l’Unità 2.3.09
Scoperta in Kenya la più vecchia orma di un nostro antenato
Ha un milione e mezzo di anni ed era di un Homo erectus
La storia dell’uomo in un convegno su evoluzione e Chiesa
di Pietro Greco


L’orma è la più antica mai rinvenuta di un membro del genere Homo. Appartiene a un essere che ormai si muove agevolmente su due gambe e che ha una dieta di qualità superiore. Proprio come noi.
L’arco plantare è pronunciato. L’alluce, perfettamente allineato, è parallelo alle altre dita. Che sono piccole e corte. L’orma del piede che fa bella mostra di sé sulla copertina della rivista Science di venerdì scorso sembra proprio quella di un uomo dei nostri giorni: piuttosto robusto, alto 1,75 metri, capace di camminare e di correre anche sui terreni più accidentati. Invece risale a 1,5 milioni di anni fa, apparteneva alla specie Homo ergaster/erectus e rappresenta l’orma più antica mia rinvenuta di un membro del genere Homo.
A ritrovarla sono stati l’antropologo inglese Matthew Bennett e i collaboratori, che le hanno individuate a Ileret, a est del Lago Turkana, in Kenya. L’impronta dell’orma di Ileret è stata ricostruita al computer, mostrando che è molto simile a quella di un uomo moderno, che ormai si muove con naturalezza e a largo raggio nella sua postura eretta, che ha una dieta di qualità superiore e ha subito importanti cambiamenti, culturali e adattativi, rispetto agli ominini precedenti.
L’impronta di Ileret entra dunque nell’archivio della storia accanto alla celebre «orma di Laetoli» scoperta in Tanzania nel 1979 da Mary Leakey, attribuita a un essere bipede - un australopiteco - e risalente a 3,6 milioni di anni fa. Malgrado sia molto più giovane di quella Laetoli, l’«orma di Ileret» non è meno importante. Proprio a causa della differenza strutturale dei piedi che l’hanno impressa. Quello dell’australopiteco ha ancora nell’alluce divaricato, nelle dita lunghe e nel plantare piatto, il ricordo di un recente passato arboricolo. La specie cui appartiene l’essere che l’ha impressa, 3,6 milioni di anni fa, era da poco «scesa dagli alberi». La specie cui appartiene l’essere che ha impresso l’orma del suo piede nel fango di Ileret si è ormai completamente adattata al nuovo ambiente e ha una postura eretta molto meno goffa.
Le due orme ci raccontano della lunga - ma non lunghissima - storia dell’uomo. Una «normale» storia evolutiva che si è sviluppata negli ultimi sei o sette milioni di anni come ramo, cespuglioso, della storia delle grandi scimmie antropomorfe in forza delle medesime forze darwiniane che hanno modellato, nel tempo profondo, tutte le specie viventi.
Anche di questa storia si parla nella Conferenza internazionale su L’evoluzione biologica: fatti e teorie che si apre oggi a Roma presso la Pontificia Università Gregoriana, con una relazione introduttiva di un grande biologo evoluzionista, Simon Conway Morris, dedicata proprio alle evidenze paleontologiche. La conferenza - alla quale partecipano studiosi di gran vaglia, cattolici ma anche laici - durerà fino a sabato 7 marzo e ha un grande obiettivo: dimostrare che c’è una reale possibilità di dialogo tra scienza e fede anche nel campo dell’evoluzione biologica. L’intento degli organizzatori, infatti, è dimostrare che nell’ambito della Chiesa cattolica c’è spazio per un confronto critico con le scienze biologiche, senza nessuna concessione a forme antiche e nuove di creazionismo.

l’Unità 2.3.09
Senza azione non ci sarebbe immaginazione e linguaggio
Ascoltando un verbo la corteccia si attiva per compiere movimenti
di Cristiana Pulcinelli


L’azione può aiutarci a capire il mondo e a interagire con i nostri simili? Una ricerca italiana appena pubblicata sulla rivista PlosOne conferma quella che da qualche tempo sembra un’ipotesi realistica. Lo studio, condotto da un’équipe di neuroscienzati della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste, ha analizzato le relazioni tra aree motorie e comprensione del linguaggio.
«Siamo partiti – spiega Raffaella Rumiati che ha guidato il gruppo – dalla teoria secondo cui le aree motorie si attivano in modo necessario e automatico per comprendere il linguaggio. Una teoria, a nostro avviso, troppo generale». I neuroscienziati hanno quindi cercato di chiarire in quali circostanze le aree motorie si attivano durante la comprensione linguistica. Gli scienziati hanno misurato il grado di attivazione delle aree motorie di alcuni volontari posti di fronte a compiti linguistici. Si è visto così che l’attivazione dei neuroni motori in risposta a stimoli linguistici è strategica: non avviene sempre e comunque, ma con parole e compiti specifici. «Le aree motorie si attiverebbero con parole che hanno una qualche relazione con un’azione, verbi o nomi di oggetti di uso quotidiano, quali “prendere” o “bottiglia” - spiega Liuba Papeo, prima autrice dell’articolo – ciò succede, però, solo quando l’informazione motoria contenuta nella parola è necessaria per svolgere un compito». Ad esempio, se qualcuno ci chiede se “accarezzare” descrive un’azione manuale, la strategia cognitiva più efficace per rispondere è quella di immaginare l’azione. Così facendo attiviamo le aree motorie. Se dobbiamo, invece, decidere se la medesima parola ha 4 o 5 sillabe, non è necessario far ricorso a una strategia motoria.
«Le aree motorie - spiega Papeo - non sono al servizio dei processi strettamente linguistici ma di altre operazioni mentali, come l’immaginazione, che rendono la comprensione e quindi l’interazione sociale più fluida ed efficace».

Corriere della Sera 2.3.09
Fronte contrario dopo gli scontri a Padova. «Potenziare i nostri organici, mancano diecimila uomini in divisa»
Carabinieri e poliziotti: le ronde vanno fermate
Cocer, appello a Napolitano: misura impraticabile. Silp e Sap: costretti a fare i badanti
di F. Sar.


ROMA — La definizione non lascia spazio agli equivoci: «Misura impraticabile». Così il Cocer dei carabinieri boccia le ronde e chiede un incontro al capo dello Stato e al presidente del Consiglio «per avere chiarimenti su tematiche che oggi offuscano la serenità dei nostri colleghi».
Fanno sponda i sindacati di polizia, in particolare il Silp Cgil e il Sap (che da Torino denuncia: «I partiti cercano di lottizzare le ronde, per noi un ruolo di badanti»), che al governo si appellano affinché «non sia convertita in legge quella norma».
Il fronte contrario è compatto, soprattutto dopo quanto è avvenuto a Padova con la rissa tra i leghisti di «Veneto Sicuro» e gli antagonisti del centro sociale «Pedro» e la Digos in mezzo a cercare di dividere i contendenti. E tenendo conto di quanto potrebbe avvenire nei prossimi giorni, con le associazioni di cittadini che in molte città si stanno organizzando per pattugliare parchi e strade.
A Napoli, dove gli abitanti del quartiere dove è stato arrestato Pasquale Modestino per lo stupro su un dodicenne avevano già annunciato ronde antipedofili, in tanti hanno chiamato il numero verde della Protezione civile, per chiedere una presenza davanti alle scuole dei propri figli. Oggi il debutto. Favorevole il sindaco di Cicciano, contrario quello di Massa di Somma, i Comuni che sono stati teatro delle ultime violenze.
La rappresentanza dell'Arma è chiara: «Non è così che si risolvono i problemi della sicurezza». Un lungo comunicato entra nel dettaglio di quanto avvenuto nelle ultime ore e poi chiede risorse economiche «assegnate ormai da anni in misura sempre minore dalle varie Finanziarie alle forze dell'ordine», ma anche potenziamento degli organici perché «non si possono istituire ronde di vigilanza quando tra poliziotti e carabinieri mancano quasi 10 mila uomini ». Per il Cocer «l'impianto sicurezza dev'essere basato su due pilastri fondamentali: l'incremento consistente delle risorse economiche al fine di migliorare gli standard operativi, logistici e tecnologici delle forze di polizia; la creazione immediata di nuovi istituti di pena al fine di scongiurare nuovamente l'ipotesi di un indulto, vanificando i notevoli sacrifici di magistrati, poliziotti e carabinieri». Nei giorni scorsi i sindacati di polizia avevano espresso critiche forti sulla scelta di inserire le ronde nel decreto legge. E adesso Claudio Giardullo del Silp-Cgil ribadisce «la necessità di ripensare questa norma, perché bisogna evitare che la gente si faccia male per strada, ma soprattutto impedire che la gestione della sicurezza sia affidata ai partiti. E invece proprio questo sta avvenendo, con ronde politicizzate che non possono garantire né sul piano dell'imparzialità né su quello della professionalità ». In ogni caso «è urgente, visto che il provvedimento è in vigore, varare il regolamento di attuazione in modo da vietare sponsor economici e politici e fissare le regole sugli equipaggiamenti. Bisogna impedire che la gente vada in giro con cani, bastoni, spray urticanti, caschi».
Anche il segretario del Sap Nicola Tanzi evidenzia le difficoltà e sottolinea come «i centralini di questure e comandi dei carabinieri, così come i numeri di emergenza siano intasati dalle chiamate di chi segnala situazioni e chiede l'intervento delle forze dell'ordine. Noi non riusciamo a fare fronte e quando non arriviamo in tempo c'è chi interviene da solo. Una spirale pericolosa che va fermata con la massima urgenza».

Corriere della Sera 2.3.09
Maurizio Zipponi Da Rifondazione agli oratori: mi aspetto molto dalla prossima enciclica
E l'ex leader Fiom applaude il Pontefice «Le chiese? Meglio delle sedi sindacali»
di Enrico Marro


Ci vuole qualcuno che dica che cosa è moralmente accettabile e che cosa non lo è

ROMA — «Sì lo sapevo che sarebbe accaduto». Come, scusi: Maurizio Zipponi sa in anticipo quello che il Papa dirà all'Angelus? Ha delle spie in Vaticano? «No, volevo dire che non mi ha sorpreso, che è normale che Benedetto XVI parlasse in favore del lavoro e dei lavoratori, visto che in piazza San Pietro c'erano gli operai della Fiat di Pomigliano. Queste cose non nascono per caso, vengono preparate. E comunque il Papa e la Chiesa stanno dimostrando un'interesse altissimo al sociale e al tema del lavoro perché loro, sono gli unici, insieme con il sindacato, ad avere terminali diffusi sul territorio: gli oratori e le pastorali del lavoro». E poi, aggiunge il rosso Zipponi, il Papa sta preparando la sua prima enciclica sociale. Sulla quale l'ex leader della Fiom di Brescia e Milano e della sinistra Cgil e poi deputato (nella scorsa legislatura) di Rifondazione comunista ripone molte aspettative. Perché, spiega, «non credo che sarà solo un'enciclica sociale, ma sarà molto, molto incisiva sulla moralità dell'economia e della finanza. Punterà cioè a ristabilire quel confine tra onestà e disonestà che, nel mercato, è saltato ».
E uno come Zipponi aspetta che sia Papa Ratzinger a fissarlo il confine? Sembra proprio di sì. «Ci vuole qualcuno che dica che cosa è moralmente accettabile e che cosa non lo è. Prendiamo il divario tra le retribuzioni tra operai e manager. Può essere mettiamo 1 a 50 o deve essere 1 a 500 come quello che esiste tra il presidente della Fiat, Luca di Montezemolo, e un suo operaio? ». Di queste cose Zipponi — che dice di essere uscito da Rifondazione quando il partito «ha deciso di rifare il comunismo e questo mi ha fatto venire la pelle d'oca» — parla anche negli oratori. Sì, nelle parrocchie. Che spesso sono «molto più vicine alla realtà rispetto alle centrali sindacali che continuano a fare i loro teatrini a Roma, con accordi e accordoni che non parlano a chi è vittima della crisi».
Qualche sera fa, racconta, prima di andare in trasmissione da Michele Santoro, «sono stato all'oratorio del mio paese, Caino, vicino Brescia, con una ventina di ragazzi precari o che stanno per finire l'Università e non sanno quale sarà il loro futuro: a loro la parrocchia offre un luogo di aggregazione. Significa di più dei concetti astratti di destra e sinistra». La Chiesa, continua, «ha capito che il conflitto non è tra capitale e lavoro, ma che il conflitto rischia di essere il risultato della disperazione e quindi è allarmata ». Scusi Zipponi, ma lei appunto più che un ex barricadero sembra un credente. «No, non sono un credente né un praticante, ma ben vengano il Papa e la Chiesa che agiscono in base a quello che vedono e che sentono. Considero la Chiesa un punto di altissima sensibilità».
Insomma, un esempio da seguire. «Perché c'è il Papa che denuncia la situazione e indica i lavoratori come una priorità, ma contemporaneamente c'è la solidarietà concreta sul territorio. A Milano il cardinal Tettamanzi ha aperto un conto corrente per aiutare le famiglie che non reggono il mutuo e non arrivano alla fine del mese. E in molte altre realtà del Nord, che io conosco, si moltiplicano le iniziative di mutualità. Ecco, secondo me, anche i sindacati dovrebbero fare un po' come la Chiesa: ripartire dal basso, ripartire dalla solidarietà».

Corriere della Sera 2.3.09
Le parrocchie anticrisi: prestiti a tasso zero e accordi con le banche
Le diocesi mobilitate in tutta Italia
A Pavia, Vigevano e Tortona vengono concessi duemila euro ai fedeli, senza interessi e con rate personalizzate
di Gian Guido Vecchi


ROMA — Fondi di solidarietà, sottoscrizioni pubbliche, prestiti senza interesse, accordi con le banche, progetti di microcredito sul modello dell'economista e Nobel Muhammad Yunus. Le classiche mense dei poveri restano fondamentali ma non bastano più da un pezzo. Ci sono altre difficoltà, strati sociali e famiglie che non avrebbero mai immaginato di aver bisogno. E le diocesi italiane moltiplicano un impegno peraltro abituale, mobilitano parrocchie fedeli, lavorano di carità e creatività, raccolgono milioni per sostenere chi si trova in difficoltà. Si farebbe prima ad elencare quelli che non stanno facendo nulla, anche perché non ce ne sono.
Certo siamo in Quaresima, per i fedeli tempo di «preghiera, digiuno e obolo». Ma non si tratta solo di questo. A fine mese, tra il 23 e il 26 marzo, il comitato permanente della Cei si riunirà per definire i dettagli di quel «fondo di garanzia per le famiglie in difficoltà » voluto dal cardinale Angelo Bagnasco, una «colletta» che «verrà fatta in tutte le diocesi » e «si aggiunge a ciò che c'è già». Si è parlato di «decine di milioni di euro». Ma l'essenziale, qui, sta nel ruolo di coordinamento dei vertici della Chiesa italiana: alla Cei spiegano che «non si vogliono interventi a pioggia», d'emergenza, la «Chiesa di popolo» conosce la sua gente, è realista e vuole organizzarsi a fronteggiare la crisi «per un lungo periodo». Fermo restando che, se «la Chiesa non si tira indietro», lo Stato «deve fare per intero la sua parte», ha spiegato il presidente della Cei invitando le forze politiche a un «vera coesione » davanti alla crisi.
Intanto molte diocesi si sono mosse. Già prima di Natale il cardinale Bagnasco aveva prospettato il suo piano e la prima risposta è arrivata dalla diocesi più grande, Milano, con il cardinale Dionigi Tettamanzi che la notte della vigilia annunciò la nascita di un fondo per le famiglie da un milione di euro raccolto tra fondi dell'8 per mille, risparmi della diocesi e risorse personali: in queste settimane il fondo è già salito a quasi tre milioni (2.935.335, per la precisione), uno dalla Fondazione Cariplo e il resto grazie alla sottoscrizione della gente ( www.chiesadimilano. it). Lo stesso ha fatto a Bologna il cardinale Carlo Caffarra con il suo «Fondo emergenza famiglie 2009» gestito dalla Caritas. Da Torino a Genova, da Venezia a Napoli le grandi diocesi stanno in prima fila.
Ma sono quelle piccole a dare l'idea di quanto siano capillari le iniziative di diocesi e Caritas diocesane, d'intesa con amministrazioni e banche locali. I vescovi di Pavia, Vigevano e Tortona hanno definito un piano di prestiti da duemila euro, senza interessi e con rate personalizzate. Un po' come il «credito solidale» di Trento, con uno stanziamento iniziale di 40 mila euro. Quello dei microcrediti è in effetti lo strumento più diffuso. A cominciare dai luoghi dove la crisi non è una novità: a Prato, con un fondo di garanzia di 130 mila euro, il microcredito è attivo dal 2005, con prestiti fino a cinquemila euro. Qui nel 2005 è nato il primo fondo anticrisi per le famiglie, in due anni la Caritas ha stanziato 250 mila euro. E c'è anche un «Emporio Caritas» dove i bisognosi fanno la spesa senza soldi: aperto a giugno 2008, ha distribuito merce per 180 mila euro.
Un progetto di «microcredito etico-sociale» è appena stato lanciato dalla diocesi di Chieti e Vasto, guidata dall'arcivescovo- teologo Bruno Forte: la chiesa si farà garante per l'accesso al credito in banca di chi non ha i requisiti. Un'iniziativa simile, tra le tante, si trova anche nella diocesi di Cesena. Un'altra a Potenza e in tutta la Basilicata. Un fondo per microcrediti aperto anche alle piccole imprese sta nascendo nella diocesi di Pitigliano-Sovana- Orbetello. E poi ci sono i fondi veri e propri per le famiglie. A Lucca (120 mila euro stanziati) il fondo si aggiunge a un progetto di microcredito. A Mazara del Vallo è permanente: esiste da otto anni per tutti i 13 Comuni della diocesi. A Lodi — dove è vescovo Giuseppe Merisi, presidente della Caritas italiana — la diocesi inizia con 50 mila euro. A Bergamo e Vicenza con 300 mila. A Siena si parte da 150 mila. Altri se ne annunciano da Frosinone a Molfetta, da Novara a Trani, dove ci sarà una «colletta di solidarietà» come a Cremona o Reggio Calabria. E poi Piacenza, Modena, San Minato... Qualsiasi elenco è inevitabilmente provvisorio e carente. Anche perché per molte parrocchie, evangelicamente, l'importante è che l'iniziativa sia conosciuta in zona: «Quando fai l'elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra...».

Corriere della Sera 2.3.09
Il congresso radicale Il leader: sostituire la classe dirigente corrotta con la nostra
Pannella lancia la sua nuova sfida «Basta con i partiti-sciagura»
La Bonino critica Rutelli: fa il «sapientino» sul testamento biologico
«Se i cittadini fossero correttamente informati, almeno otto-dieci milioni sarebbero al nostro fianco»
di A. Gar.


CHIANCIANO (Siena) — Pannella contro tutti. Ha convocato e guidato questo «Congresso italiano del Partito radicale transnazionale» all'insegna della «liberazione dal regime partitocratico che dura da 60 anni». Liberazione paragonata a quella dal fascismo. Obiettivo: «Sostituire la classe dirigente al governo, espressione dei partiti corrotti, con quella radicale». Un tornado per travolgere maggioranza e opposizione, compreso il Pd che accoglie nove radicali nei suoi gruppi parlamentari. Progetto ai limiti dell'impossibile, ma secondo Pannella la colpa è dei mass media: «Se fossero correttamente informati almeno otto-dieci milioni di cittadini sarebbero al nostro fianco».
Emma Bonino, meno sognatrice e più pratica, riporta il discorso sul testamento biologico. Corregge la polemica con Dorina Bianchi, capogruppo cattolico del Pd in Commissione Sanità al Senato: «L'ho paragonata al mullah Omar, ma non volevo personalizzare la polemica». Puntualizza: «Non è vero che io e lei rappresentiamo due posizioni estremiste: il mio laicismo etico non vuole imporre niente a nessuno, mentre la Chiesa pretende di imporre le sue regole morali a tutti». Prosegue: «Non è nemmeno vero che in mezzo a noi ci sia un sapientino moderato che cerca di fare il mediatore ». Così anche Rutelli, ospite del congresso il giorno prima, è sistemato. Poi, Bonino si chiede: parliamo di liberazione, ma oggi chi sono gli americani che ci daranno una mano? «I laici — si risponde — ovunque siano accasati, anche nell'Udc, nel Pdl, in Rifondazione comunista. E i nostri amici rumeni. E i piccoli e medi imprenditori».
Sullo sfondo, le elezioni europee.
Nella loro trasversalità anti-partiti, i radicali, se vogliono rappresentanti a Strasburgo, devono legarsi a qualche partito. A Chianciano il segretario socialista Riccardo Nencini ha chiesto ai radicali di entrare nell'alleanza fra socialisti, vendoliani, Verdi e Sinistra democratica. Ma Pannella si riserva la possibilità di trattare ancora con il Pd. La decisione, probabilmente, arriverà a fine aprile, ultimo momento utile.
Nencini ha proposto ai radicali uno scambio politico: i socialisti presenteranno le battaglie radicali negli enti locali e i radicali quelle socialiste in Parlamento. Prima idea: «Una legge per uniformare le indennità dei consiglieri regionali a quelle della Toscana, le più basse d'Italia, pari al 65 per cento delle indennità dei parlamentari. In altre regioni gli stipendi sono anche al 110 per cento. Si risparmierebbero 110 milioni di euro da destinare a precari, licenziati, laureati meritevoli».

Corriere della Sera 2.3.09
Ricordi «Lo conobbi che doveva dare la maturità. Condivise tutte le nostre battaglie. La svolta religiosa? Avrà avuto buoni motivi»
Marco: accolsi io Francesco, era molto creativo
di Andrea Garibaldi


CHIANCIANO (Siena) — Allora, Pannella, con Rutelli lei è sembrato un antico padre bonario e affettuoso, nonostante il figliolo sia così discolo... «No, padre no». Fratello maggiore? «Nemmeno. C'è un termine francese che ben ci definisce, me e Francesco: compagnonnage. Vale per chi ha passato assieme gli anni della scuola, della giovinezza, dell'apprendistato ». Rutelli è tornato, sabato, a mettere piede in un congresso radicale. Cautissimo, pareva camminasse sulle uova. Ma il suo scopritore (Pigmalione, dicono) lo ha accolto e se lo è messo seduto alla sua sinistra. Adesso — sarà che Pannella compie 79 anni a maggio pur dimostrandone dieci di meno — è il momento della benevolenza, dell'assoluta non violenza verso il compagnon che ha lasciato la laicità per genuflettersi in chiesa. Non ci sono parole amare di Pannella, per Rutelli.
«La prima volta che vidi Francesco? Bussò alla porta della sede radicale di via di Torre Argentina. Aveva letto una pagina su di me sul Messaggero, ed era venuto. Aprii io la porta, lui quasi non ci credeva. Doveva dare la maturità classica, mi pare. Da quel giorno, era la metà degli anni '70, ho cominciato a vedermelo sempre intorno».
Digiunava? «Eccome! Ha ricordato sul palco la battaglia contro la fame nel mondo. Solo che ha detto che la perdemmo. Ricordi male, Francesco. Riuscimmo a spostare dei fondi, salvammo delle vite». Fumava spinelli? «Era antiproibizionista, come tutti noi». Sabato ha detto: non c'ero quando si combatteva per il divorzio, arrivai a metà per l'aborto... «Condivise tutto, comunque». Si affacciò dal balcone di Montecitorio... «Fu dopo la firma della revisione del Concordato con la Chiesa. Sovrappose la bandiera dello Stato vaticano a quella italiana. Polemico col Vaticano...».
Insomma, Francesco Rutelli, il migliore della nidiata di Pannella. Il preferito. Quello che ha fatto più strada. «Ma no! Tanti hanno fatto strada. Quando ero segretario del partito, avevo quattro vicesegretari. Rutelli. Giovanni Negri. Quagliariello, oggi vicecapogruppo del Popolo delle libertà al Senato, uomo importante! Maria Teresa Di Lascia, che vinse il Premio Strega con un suo romanzo. E citerò Elio Vito, che era mio assistente in consiglio comunale a Napoli, oggi ministro di Berlusconi». E Capezzone... «Capezzone è l'unico che mi ha un po' deluso. C'è chi vive per la politica, e chi vive di politica, come lui».
Parliamo delle qualità di Rutelli. «Capacità, convinzione, intelligenza, cultura. Era molto creativo. Ieri gli abbiamo mostrato un salvadanaio con la rosa nel pugno disegnata sopra.
E' l'ultimo superstite di mille salvadanai che aveva fatto fare lui per raccogliere fondi in tutta Italia, quando fu tesoriere del partito». Nell'89 uscì dal Partito radicale. Verde arcobaleno. Verde. Sindaco di Roma. «Sempre col nostro appoggio. Sempre iscritto radicale».
Gennaio 1996, Rutelli si sposa in chiesa: è lì che si rompe qualcosa? «Oggi dico, con il cardinale di Retz, che solo gli stupidi non cambiano mai opinione. Fra noi radicali esistono sempre il diritto alla pigrizia, il diritto alla conversione, e tanti altri diritti». Ma il matrimonio in chiesa... «Penso a Claudio Martelli, compagno di battaglie. Ebbene al terzo matrimonio si è sposato in chiesa. Sono affari suoi!».
Rutelli ha tradito molte vostre cause, a giudicare dall'esterno. «Mai chiamato nessuno traditore, io». Pannella, pensa che ci sia totale buona fede nella sua scelta religiosa? «Totale buona fede, cosa vuol dire? Diciamo che avrà trovato buoni motivi per farlo...».
Nella sua lunga vicenda di giovani compagni di strada che prendono altre strade, Pannella riconosce a Rutelli una specialità: «Contrariamente ad altri, lui ha detto chiaramente: ho mutato convinzioni. Sabato qui ha dovuto leggere in pubblico la sua storia. Ha fatto un tentativo, premiato, di stabilire con noi attenzione reciproca. Soltanto, a proposito della sua difesa assoluta della vita, gli ho ricordato Pascal: "Disgrazia vuole che chi vuol essere angelo fa la bestia". Sembra lui il vero radicale mentre noi, che non vogliamo imporre nulla a nessuno, siamo i moderati».

Repubblica 2.3.09
Pannella, amarcord su Rutelli "Si è convertito senza tradirci"
Ma la Bonino lo critica: sulla biopolitica è impreparato
Il leader: l’unica delusione è stato Capezzone, vive di politica e non per la politica
di Umberto Rosso


CHIANCIANO - «Bene Rutelli, però di radicali che hanno cambiato idea, e a pieno diritto, ne ho visto tanti sfilare al mio fianco».
Marco Pannella chiude il congresso, lancia l´ennesimo appello per convincere gli italiani a liberarsi dalla partitocrazia, ma è "l´effetto-ritorno" dell´ex vicepremier che resta nell´aria. A riflettori quasi spenti, il vecchio leone non rinnega la commozione, «ringrazio Francesco anche perché ci spinge a riprendere la lotta alla fame nel mondo», ma precisa, circoscrive, corregge, e si riprende il posto del mattatore. «Da radicale a cattolico? Fatti suoi. In casa nostra la categoria del tradimento non esiste. Però non è stato il solo ad andare via, e non mi pare nemmeno il caso più clamoroso. Da segretario, avevo tre vice: Rutelli, Gaetano Quagliarello, Giovanni Negri. E in tre hanno poi imboccato strade diverse dalle mie. Buon viaggio a tutti». O forse non proprio a tutti tutti. Che a farsi raccontare emozioni e amarcord, mentre stanno smontando il palco della kermesse e Bordin lo aspetta per solito filo diretto domenicale con Radio Radicale, da qualcuno dei suoi molti e amati figli sì è sentito colpito al cuore. «Si può vivere per la politica. Si può vivere di politica. Per Daniele Capezzone vale la seconda opzione. Che delusione». Rutelli, no. «Ha fatto scelte diverse, si è sposato in chiesa, è contro l´aborto, si è fatto cattolico dopo le battaglie radicali, ma non per opportunismo. E sono certo che anche qui è venuto a parlare non per meschini calcoli tattici ma perché lo sentiva davvero».
Anche se alla Bonino la "lezioncina" dell´ex presidente della Margherita non è piaciuta. Spiega perché. Rutelli è venuto a presentarsi come «il saggio moderato che media fra opposti estremismi sul testamento biologico: è una caricatura». Perché, dice Emma, in campo non ci sono affatto due squadre di pasdaran.
La Chiesa e i suoi referenti politici («ma non ce l´ho personalmente con Dorina Bianchi») vogliono imporre la propria posizione erga omnes, i radicali e i laici sono per la libertà di scelta. Altro rimprovero a Rutelli: «Per anni ha sostenuto che la politica doveva tenersi alla larga dai temi etici. L´opposto della nostra idea. Magari non è ancora molto preparato in materia».
Travolti da un congresso di insolite emozioni, finisce che lasciano sullo sfondo i nodi politici. Il segretario dei socialisti, Riccardo Nencini, chiede ai radicali di entrare a far parte di «un´alleanza laica e riformista». Il cartello fra Ps, vendoliani, verdi e Sd dovrebbe prendere forma in settimana, Nencini vorrebbe appunto aggiungere un posto in più. Pannella prende tempo. Anche Giovanni Guzzetta, presidente del comitato del referendum elettorale, è latore di una richiesta ai radicali: unitevi alla nostra battaglia dell´election day, per votare il 7 giugno insieme alle europee.
Si vedrà. Perché per ora nel flusso dei pensieri del grande vecchio tiene banco ancora Rutelli, «me lo ricordo quando bussò per la prima volta a Torre Argentina, nemmeno ventenne, studente universitario: andai ad aprire giusto io, e da quel giorno diventò una presenza quotidiana». Segretario regionale, segretario nazionale, capogruppo alla Camera, il filo che poi si spezza. «Ma una rottura vera, quella forse non c´è mai stata. E niente polemiche, rancori personali, magari disagio, questo sì». Come un padre abbandonato dal figlio? «Niente padri e niente figli. Compagni. Fratelli. Compagni che percorrono insieme un pezzo di strada. Come con tanti altri però. Che ne so, Elio Vito che poi diventa il capogruppo di Forza Italia. O Marco Taradash». L´altro giorno, il ritorno. «Mi ha detto, Francesco: neanche un fischio, grazie per aver organizzato la platea. L´ho guardato: macchè, da noi se io dico una cosa, fanno subito il contrario. Lui si è illuminato, e si è ricordato di come son fatti i radicali: hai ragione, io vi conosco bene».

Repubblica 2.3.09
Il Dio del cuore e il Dio del potere
di Nadia Urbinati


LIBERARE lo Stato dalla religione ha significato consentire alla religione di espandersi liberamente nella società, di rafforzare la propria forza attrattiva.
Questo è uno degli insegnamenti che ci offre la storia dell´Europa moderna. E liberare lo Stato dalla religione è stato possibile quando lo stato di diritto ha vinto la propria battaglia sullo stato confessionale. In un libro interessante sull´età del secolarismo, Charles Taylor, forse il filosofo cattolico più noto e rappresentativo del nostro tempo, ha mostrato molto bene come l´età secolare non sia affatto un´età di miscredenza, ma invece un´età di rinascita religiosa proprio per il rispetto affermato della libertà individuale, come libertà di coscienza e libertà religiosa, la quale è sia libertà di credere che libertà di scegliere in che cosa credere. Pre-modernità e modernità denotano secondo Taylor anche due modi di essere della religione: da un lato, una religione nella quale i credenti "appartenevano a Dio" e la loro fede era identificata con riti, pratiche ecclesiastiche, e gerarchie; e dall´altro, una religione che, sorta dalla critica di quella vecchia fede in nome dell´autonomia morale individuale, ha reso possibile l´affermarsi della religione come "fenomeno di fede" – un fenomeno per cui "Dio appartiene a noi", come creature che desiderano l´eternità e la trascendenza e quindi credono per scelta.
In tal senso l´umanesimo ha servito la causa della religione e il secolarismo è stato un lavoro non anti-religioso, ma la condizione affinché la religione tornasse a vivere nel cuore umano, invece che nei riti e nelle gerarchie. Quando la religione costituita fa un passo indietro, la religione come credenza fa un passo avanti: questa è stata fin dal Seicento, l´insegnamento della filosofia della libertà religiosa e della tolleranza, una filosofia grazie alla quale le comunità politiche possono essere luoghi di tranquillità e di reciproco rispetto.
Difendere lo Stato laico – ovvero lo Stato di diritto – è per questo un dovere che i cittadini religiosi dovrebbero avere a cuore in modo particolare, non meno degli altri. Stato laico non è stato secolarista, ma Stato che si dà come criterio per legiferare e giudicare quello della separazione del giusto dal bene. L´arte della separazione non è arte della negazione o dell´ipocrisia: tenere separati i nostri criteri di giudizio quando ragioniamo come cittadini e quando ragioniamo come individui sociali non significa affatto mettere a tacere le ragioni etiche per far trionfare quelle della politica. L´arte della separazione è quell´arte che consente a chi ha una dimensione religiosa di vita di vivere in coerenza a questa sua credenza e che non impone con l´arma della legge la sua visione del bene. E facendo questo non rispetta solo o semplicemente chi non ha particolari credenze religiose, ma prima di tutto chi ha una forte credenza religiosa e quindi anche se stesso. Poiché se è vero che solo chi è libero crede – se è vero che il credere è un atto di libertà personale fondamentale – allora chi crede non può vedere il proprio credo tradotto in un articolo del codice penale. Non è per legge che la nostra credenza avrà la certezza di essere rispettata, ma per nostra personale responsabilità e scelta.
Non è l´assenza di una legge che garantisce alla donna di decidere responsabilmente la propria maternità che libera la donna dell´onere della scelta e la società dall´aborto. Siamo davvero sicuri che avremo messo a tacere il nostro senso del dovere verso la vita qualora alcuni rappresentanti politici abbiano trovato un compromesso su questa o quella procedura? E come può un credente accettare di delegare ad alcuni – in tutto simili a lui – di prendere decisioni che solo egli potrà e dovrà in realtà prendere? In uno Stato di diritto, la legge non impone a tutti quello che alcuni (non importa quanti) pensano che sia bene fare in un campo, quello morale, dove è solo la coscienza dell´individuo che ha l´onere della scelta. È questa legge, non una legge etica, che salvaguardia la dignità del credente. E ciò che è buono per il credente lo è anche per il cittadino in questo caso. Che la democrazia sia un governo di eguali significa infatti niente altro che non si dà un criterio più legittimo per decidere se non la conta dei voti, e questo non perché la democrazia sia dozzinale o volgare, ma perché essa è umanissima. La democrazia presume che nessuno sia infallibile e saggio sopra tutti, tanto da poter decidere indubbiamente e ottimamente per tutti. Nessun mio rappresentante può decidere per me che cosa sia bene che io faccia per difendere la mia dignità morale. È avvilente quando si assiste a un Parlamento che si arroga il diritto di trattarci come fanciulli, che detti le sue massime etiche e che per giunta, e per necessità, le condizioni al compromesso e alla conta dei voti. Il credente religioso e il cittadino hanno qui lo stesso interesse: quello di avere politici che non facciano della vita l´oggetto di un compromesso politico. È proprio la dignità, quella di tutti – ma soprattutto quella dei credenti – che è in giuoco quando si chiede allo Stato di smettere di essere stato di diritto per farsi organo di una dottrina religiosa o etica.

Corriere della Sera 2.3.09
Che sciocchezze sulla mia India
Rushdie contro «The Millionaire», vincitore di otto Oscar «Inverosimile e ridicolo. Persino più banale del romanzo»
di Salman Rushdie


Vikas Swarup ha scritto un raccontone commerciale che sfida la ragione
L'autore dei «Versi satanici» elenca incongruenze ed errori cronologici del film
Una riflessione sul significato della trasposizione cinematografica dei testi letterari

Adattare significa trasformare una cosa in un'altra, un procedimento comunissimo in campo artistico. I libri diventano film o commedie, le opere teatrali a loro volta si trasformano in film o musical, i film vengono adattati per i teatri di Broadway o finiscono «romanzati», un brutto termine per indicare la loro versione libresca. Viviamo in un mondo di infinite trasformazioni e metamorfosi. Vecchi film eccellenti — Lolita, La pantera rosa — ricompaiono in pessimi rifacimenti; film scadenti —
L'incredibile Hulk, Gola profonda — sono girati nuovamente con risultati ancora peggiori.
Nell'adattamento si cela una forza creativa o distruttiva. Rod Stewart che canta Downtown Train è alla pari di Tom Waits, e Joe Cocker, con With a little help from my friends, compie il miracolo di cantare una canzone dei Beatles meglio dei Beatles, ma questo non sorprende più di tanto quando ci si ricorda che il cantante originale era Ringo Starr. In questi giorni insegno un corso su alcuni esempi celebri di ottimi libri trasformati in ottimi film — L'età dell'innocenza, di Edith Wharton, nell'adattamento omonimo di Martin Scorsese; Il gattopardo, di Tomasi di Lampedusa, tramutato nel più celebre film di Luchino Visconti; La saggezza nel sangue (Wise Blood) di Flannery O'Connor, diventato un film meraviglioso grazie alla regia di John Huston; e con la sua versione cinematografica di Grandi speranze, David Lean ha prodotto un classico che merita di essere considerato allo stesso livello del romanzo di Dickens, un film che ha convinto questo cinefilo a perdonargli il tremendo fiasco di Passaggio in India.
«La poesia è quello che si perde nella traduzione», diceva Robert Frost, ma Joseph Brodsky replicava: «La poesia è quello che si guadagna nella traduzione»: l'oggetto del contendere non potrebbe essere meglio definito. Sono sempre stato dell'opinione che se parliamo di una poesia che travalica i confini di una lingua per diventare un'altra poesia in un'altra lingua, o di un libro che passa dalla carta stampata alla celluloide, o di esseri umani che migrano da un mondo all'altro, Frost e Brodsky hanno entrambi ragione. Se qualcosa si perde sempre nella traduzione, si può sempre guadagnare qualcos'altro. Vorrei dare una definizione molto ampia dell'adattamento, che abbracci tanto la traduzione, quanto la migrazione, la metamorfosi, e tutti i mezzi per i quali una cosa diventa un'altra. La questione dell'essenza resta centrale nell'azione dell'adattare: come costruire una seconda versione di una cosa che è venuta prima, di un libro o film o poesia o verdura, o di te stesso, affinché diventi pienamente qualcosa di nuovo eppure conservi l'essenza, lo spirito, l'anima dell'originale, quella cosa che eri tu stesso, o il tuo libro, o poesia, o film. Che dire allora degli adattamenti che abbiamo visto alla cerimonia degli Oscar la scorsa settimana? Che cosa si può dire di Slumdog Millionaire (in italiano The Millionaire, ndr), adattato dal romanzo del diplomatico indiano Vikas Swarup e diretto da Danny Boyle e Loveleen Tandam, che si è aggiudicato otto statuette, tra cui quella di miglior film? Un film di buoni sentimenti sulle tremende bidonville di Bombay, un film dalla fotografia opulenta sulla povertà estrema, uno sguardo romantico, bollywoodizzato, puntato sul ventre putrido e assai poco romantico dell'India — beh, vi sarete sentiti commossi e con gli occhi umidi? Per rincarare la dose, c'è anche uno splendido balletto finale, in puro stile bollywoodiano. (A dire il vero, è una coreografia assai scadente anche per gli standard di Bollywood, ma lasciamo perdere). Sarà difficile remare contro un film talmente popolare, ma ci proverò.
I problemi cominciano con l'opera adattata. Swarup ha scritto un romanzone prettamente commerciale, con un intreccio che sfida la ragione: un ragazzo delle baraccopoli in qualche modo riesce a partecipare alla popolarissima versione indiana di Chi vuol essere milionario
e si aggiudica il massimo premio, perché gli eventi fortunosi della sua vita gli hanno consentito, per una serie di straordinarie coincidenze, di raccogliere le informazioni necessarie per rispondere correttamente alle domande che gli vengono poste, e in modo tale da ripercorrere il suo passato, con una sequela di flashback, per di più in ordine cronologico. È un concetto chiaramente risibile, un genere di fantasticheria capace di screditare il genere letterario del fantasy. Qui diventa un accorgimento narrativo conservato fedelmente dai registi e costituisce il nocciolo di questo film, dallo strano titolo di Slumdog Millionaire. Di conseguenza anche il film sfida ogni credibilità.
Senza contare che le assurdità si accavallano l'una sull'altra, superando persino la banalità del romanzo. Due ragazzini delle baraccopoli di Bombay, che parlano Hindi e Marathi, sfuggono a un incendio e di colpo si impadroniscono della lingua inglese, tanto bene da raggirare i turisti occidentali. Tra l'altro, scappando dall'incendio danno prova di un'agilità sorprendente, perché le inquadrature successive ce li mostrano accanto al Taj Mahal, che si trova nella città di Agra, a centinaia di chilometri di distanza. Un attimo dopo sono di nuovo a Bombay e il ragazzo più grande si è miracolosamente impadronito di una pistola e di alcuni proiettili, per non parlare dell'abilità e del coraggio per utilizzarli. Non si capisce come abbia fatto a ottenere un'arma. L'India non è gli Stati Uniti e non è facile procurarsi armi da fuoco, a meno che non si faccia parte di bande criminali e a questo punto del film la cosa appare del tutto improbabile. Veder scorrere sotto gli occhi la storia della tua città in modo così comicamente assurdo e pacchiano finisce con l'infastidire. Tale è il sentimentalismo di Slumdog Millionaire che se fosse stato girato in qualche località più familiare agli spettatori occidentali, tutti l'avrebbero bollato come una colossale scempiaggine. Crediamo seriamente che la donna di un padrino della mafia possa sottrarsi al suo potere per andare a vivere felice e contenta con il fidanzatino della sua infanzia? Don Corleone avrebbe tollerato forse un simile affronto? No? Beh, nemmeno i padrini della D-Company, o di qualsiasi altra gang criminale di Bombay.
Gli appassionati di cinema sostengono che i film basati su sceneggiature originali siano superiori agli adattamenti di romanzi e opere teatrali. Tra i libri migliori degli ultimi decenni, sottoposti a trasposizione cinematografica, vorrei ricordare — per citarne solo alcuni — The Rachel Papers di Martin Amis, Espiazione di Ian McEwan, Quel che resta del giorno di Ishiguro, Last Orders di Graham Swift, Oscar e Lucinda di Peter Carey, Spider di Patrick McGrath, Il tamburo di latta di Günter Grass, L'amore ai tempi del colera, La candida Erendira e Cronaca di una morte annunciata di Gabriel García Márquez, La macchia umana di Philip Roth e Short Cuts, tratto dai racconti di Raymond Carver.
La tesi a favore della sceneggiatura originale e contraria agli adattamenti mi è stata illustrata con grande fervore da un produttore cinematografico britannico, alquanto alticcio, che asseriva, battendo il pugno sul tavolo, che tutti i film adattati dai romanzi sono uno schifo. È una posizione certamente condivisibile e La macchia umana non è l'unico esempio. Difatti i film estratti da quasi tutti i libri che ho citato qui sopra sono stati tremendi insuccessi, tanto noiosi, fiacchi e poco convincenti, quanto gli originali erano appassionati, intensi e serrati. I film dei capolavori di García Márquez in particolare sono penosi travisamenti e sostituiscono la precisione immaginativa dello scrittore colombiano con un esotismo sgangherato che tradisce profondamente l'originale senza nemmeno rendersene conto.
La proposta del film d'autore fu avanzata inizialmente da François Truffaut nei Cahiers du Cinéma sul finire degli anni Cinquanta, e poi elaborata, dapprima come teoria cinematografica, e successivamente nella produzione di film, da un gruppo di critici destinati a diventare celebri registi: Truffaut, Jean-Luc Godard, Claude Chabrol, Eric Rohmer e Jacques Rivette. Ma sebbene l'idea della superiorità delle sceneggiature originali sugli adattamenti fosse centrale al pensiero della Nouvelle Vague francese, molti dei più grandi successi cinematografici francesi, e addirittura mondiali, degli anni Cinquanta e Sessanta furono in realtà splendidi adattamenti. Godard, sostenitore della sceneggiatura originale, riscosse il suo più grande successo commerciale con Il disprezzo, tratto da un libro di Alberto Moravia. Chabrol realizzò un film fantastico da un thriller scritto da Cecil Day Lewis sotto uno pseudonimo, Que la Bête meurt.
Rohmer girò un film stupendo dal celebre racconto di Heinrich von Kleist,
La marchesa di O... E non dimentichiamo Jules et Jim, tratto dal romanzo di Henri-Pierre Roché.
L'essenza di un'opera da adattare potrebbe trovarsi ovunque — nelle vicende secondarie che ci spiegano, per esempio, come fece Superman a diventare super, perché Batman indossò la maschera di pipistrello e perché il Joker se la ride tanto. Potrebbe trovarsi nella particolarissima atmosfera di una storia — i pregiudizi di una cittadina dell'Alabama durante la Depressione, vista attraverso gli occhi di una ragazza — oppure nell'interiorità del personaggio, la vita intima di Holden Caulfield o di Marcel, il narratore di Proust. Come queste essenze possano essere comprese e catturate nel film ce lo rivela, per esempio, l'eccellente film di Raul Ruiz tratto da Il tempo ritrovato di Proust, o il film di Robert Mulligan Il buio oltre la siepe, o ancora la straordinaria interpretazione di Heath Ledger nei panni del Joker ne Il cavaliere oscuro.
I più difficili da adattare sono quei testi la cui essenza si nasconde nella lingua, e questo potrebbe spiegare come mai tutti i film tratti dai romanzi di García Márquez sono così brutti; perché non sono mai stati fatti dei bei film dai libri di Italo Calvino, Thomas Pynchon o Evelyn Waugh (malgrado le tante versioni altezzose di Brideshead Revisited); perché i film di Hemingway sono tanto deludenti (penso a Il vecchio e il mare, con Spencer Tracy in balia delle onde accanto a un pesce morto), e perché persino un valido tentativo come quello di Joseph Strick nel 1967 di girare un film sul romanzo di Joyce, Ulisse, abbia prodotto un risultato che non è degno dell'originale, malgrado gli eccellenti attori, un ottimo Milo O'Shea nella parte di Leopold Bloom e Maurice Roëves in quella di Stephen Dedalus. Quando il tentativo va a segno, come nel caso di Huston alle prese con I morti, è perché il regista ha saputo fare un passo indietro per lasciar spazio alla parola di Joyce. Nella scena finale dell'Ulisse, quando Barbara Jefford, nei panni di Molly Bloom, si rotola lussuriosamente sul letto matrimoniale e pronuncia, con voce fuori campo, il più bel monologo della narrativa universale, e mentre sì dice sì dice sì, il mondo della lingua di Joyce riacquista finalmente tutta la sua vitalità.
Che cosa è essenziale? È questa una delle grandi domande della vita che si ripresenta, come accennavo prima, in tutti gli adattamenti, e non solo in quelli artistici. Il testo è la società umana e l'essere umano, isolato o in gruppi; l'essenza da preservare è l'essenza umana. Il risultato che ne scaturisce è il mondo confuso, ibrido e pluralistico in cui oggi noi viviamo, dove vige l'adattamento come metafora, per parafrasare Susan Sontag, l'adattamento come traghettamento, significato letterale del termine «metafora, dal greco, e del termine a esso ricollegato di «traduzione», stavolta di derivazione latina, per indicare un'altra forma di trasporto da una sponda all'altra.
Quali sono le cose che reputiamo essenziali nella nostra vita? La risposta potrebbe essere: i figli, la passeggiata quotidiana nel parco, un drink, la lettura, il lavoro, una vacanza, la squadra del cuore, una sigaretta, l'amore. Ma la vita ci costringe a molti ripensamenti. I figli se ne vanno di casa, ci trasferiamo lontano dal nostro amato parco, il dottore ci vieta fumo e alcolici, perdiamo la vista, perdiamo il lavoro, non ci sono più soldi o non c'è più tempo per una vacanza, la nostra squadra è una frana e il cuore va in frantumi. In quei momenti il nostro quadro del mondo penzola di traverso sul muro. Poi, se ce la facciamo, ci adattiamo. E finalmente comprendiamo che l'essenza è qualcosa di molto più profondo, è la forza che ci fa andare avanti. Le dodici specie distinte di fringuelli che Charles Darwin scoprì nelle Isole Galápagos si erano tutte adattate alle condizioni locali, ma quando l'ornitologo John Gould esaminò i campioni di Darwin nel 1837, si rese conto che non si trattava di uccelli di specie diverse, bensì di dodici varietà del medesimo uccello. Nonostante le mutazioni casuali e la selezione naturale, la loro «fringuellità », ovvero la loro essenza, era rimasta intatta.
Come individui, comunità, nazioni, noi ci adattiamo costantemente e siamo costretti a farci la domanda: in che cosa consiste la nostra «fringuellità»? Quali sono le cose alle quali non possiamo rinunciare, pena la perdita dell'identità? Questo lo apprendiamo dai poeti che traducono le poesie altrui, dagli sceneggiatori e registi che trasformano le parole sulla pagina in immagini sullo schermo, da tutti coloro che traghettano qualcosa da una parte all'altra: l'adattamento funziona meglio quando è una vera trasposizione tra il vecchio e il nuovo, eseguita da persone che conoscono profondamente entrambi. In altre parole, per riuscire, il processo dell'adattamento sociale, culturale e individuale, proprio come l'adattamento artistico, deve svolgersi in piena libertà, senza vincoli né costrizioni. Coloro che si aggrappano con eccessivo fervore al vecchio testo, la cosa da adattare, le vecchie usanze, il passato, sono condannati a produrre qualcosa che non funzionerà, infelicità, alienazione, spaccatura, fallimento, perdita.
Intere società rischiano di smarrire la loro strada tramite un errato processo di adattamento. Nel tentativo di salvarsi, rischiano di opprimere gli altri. Nella speranza di difendersi, rischiano di ledere proprio quelle libertà che credevano minacciate. Paladini della libertà, rischiano di erodere la libertà propria e altrui. In tempi di cambiamenti rapidi come quelli attuali, le società in movimento fioriranno — come per tutti gli adattamenti riusciti — se sapranno individuare con esattezza ciò che è essenziale e non negoziabile, ciò che tutti i loro cittadini devono accettare come prezzo della loro partecipazione. Da molti anni ormai, e lo dico con dolore, viviamo in un'era di pessimi adattamenti sociali, di compromessi e di rese da un lato, di eccessi arroganti e coercizioni dall'altro.
Possiamo solo sperare che il peggio sia passato e che il futuro ci riservi film e musical più belli, e giorni migliori.
© 2009, Salman Rushdie (Traduzione di Rita Baldassarre)

Repubblica 2.3.09
Impedire che i soliti se la cantino da soli
di Mario Pirani


È sempre più evidente lo scollamento tra l´elettorato di centro sinistra e chi dovrebbe rappresentarlo. Prevale nella cosiddetta base l´impressione di non contare nulla, premessa di un assenteismo punitivo nelle prossime elezioni locali ed europee. Eppure è paradossale che il fenomeno del distacco si verifichi in un´epoca caratterizzata, come non mai, dalla possibilità, ampiamente realizzata da milioni di individui, di interscambio di massa tra le persone singole e tra queste ed ogni tipo di istituzione. È vero, non esistono quasi più o sono semi deserte le sezioni territoriali, ma quanti milioni di collegamenti si realizzano in rete e si articolano in blog, facebook, e-mail, chat ed altri accessi in Internet?
Il centro sinistra italiano, anchilosato nei suoi riti ormai disseccati, sembra non accorgersi del cambiamento imposto dall´avvento dell´era informatica e ricalcitra di fronte all´idea di farlo proprio. Non si tratta, però, di una idiosincrasia tecnica ma di una resistenza politica. Non si vuole l´irrompere nel gioco interno della nomenklatura di una base messa in grado di manifestare a maggioranza una volontà propria, di sostenere l´emergere di nuovi personaggi, di mandare a casa chi non riscuota più la sua fiducia. Una conferma viene dal riemergere di una sorda ostilità verso le primarie, anche se queste non si svolgono per via telematica come in Francia. Vedi ad esempio l´affermazione di uno degli esponenti più autorevoli del Pd, l´ex presidente del Senato, Franco Marini secondo cui «le primarie rispondono a una idea presidenziale, mentre guidare un partito vuol dire accettare il dibattito e anche il dissenso... le primarie per eleggere un segretario di partito esistono solo in Italia».
La diffidenza per primarie e dibattiti informatici unifica, del resto, i capi ex Margherita ed ex Ds. In una delle interessantissime interviste di Curzio Maltese sui giovani del Pd, il più votato tra i candidati del Pd alla Regione Lombardia, Giuseppe Civati (Repubblica, 24/2) sbotta: «Ho letto che Bersani e Franceschini attaccano chi pretende di far politica coi blog. Pretende? Per la mia generazione è l´unico modo di fare ancora politica. Che dovremmo fare? Andare in sezione? A Milano la sede del Pd non c´è neppure».
La pulsione a riproporre il vecchio copione, per cui i soliti noti se la cantano e se la suonano, non rispondono mai dei loro errori, si autocandidano e si autoassolvono di fronte a una platea assente, tutto questo mi ha spinto a prestare attenzione a chi miri a dar voce all´opinione pubblica di centro sinistra (per Berlusconi il problema non si pone: interpreta alla perfezione il ruolo dell´"unto" dal suo popolo). Per questo dopo aver segnalato il caso delle primarie di Forlì (Repubblica 19/1) mi sono convinto che non è affatto da buttar via il progetto di un appassionato ricercatore del Cnr (studia Scienze e tecnologie della cognizione) Raffaele Calabretta, calabrese di 46 anni, che ripetutamente e invano mi aveva sommerso di e-mail concernenti una sua "invenzione", le doparie.
L´avevo preso per uno degli immancabili "inventori" che incombono da sempre nelle redazioni. Mi sbagliavo anche se l´uomo, come ha scritto di lui Filippo La Porta sul Riformista appare come un «mistico della democrazia», irruente, insistente ed ottimista. Non starò a riassumere i dettagli tecnici (vedi: http://doparie.it) e mi limiterò a dire che le doparie dovrebbero svolgersi nei periodi post elettorali (non servono quindi per scegliere candidati) per prendere decisioni con procedura simile alle primarie su alternative di scelta affidate alla democrazia partecipativa degli elettori: (alimentazione forzata o no? Tav sì o no? ritorno al nucleare o no? ecc.). Secondo il progetto le doparie nazionali e/o locali dovrebbero svolgersi una volta l´anno in seggi predisposti dai partiti o coalizioni dove si recherebbero gli iscritti (e gli elettori simpatizzanti?). In tal modo le decisioni più controverse uscirebbero dalle compromissioni verticistiche e rifletterebbero la volontà maggioritaria dei votanti. Sul fine vita, ad esempio, quanti "cattolici adulti" potrebbero far sentire una voce ben più forte di quella di quattro teodem? Detto questo aggiungo che le votazioni sarebbero più agevoli se si svolgessero in genere col sistema informatico. Anche questo è un nodo politico. Il nuovo statuto del Pd, infatti, prevede, all´art. 28, referendum interni informatici. Non è un caso se quell´articolo sia stato subito dimenticato e Veltroni sia giunto a dimettersi senza che nessuno abbia chiesto un parere ai tre milioni e più che lo avevano eletto.

Repubblica 2.3.09
Parigi, Le porte del cielo. Visioni del mondo nell'Egitto antico
Musée du Louvre. Dal 6 marzo


Nella lingua degli antichi egiziani le «porte del cielo» erano i battenti del tabernacolo che abitava la statua di una divinità. Simbolizzando il punto di passaggio verso l'altro mondo, questo modo di dire si applicava anche ad altri elementi di quella lontana cultura. Una vasta rassegna, curata da Marc Etienne, propone oggi un viaggio d'eccezione attraverso questo universo, di cui le «porte del cielo» segnano l'accesso, essendo il cielo nello stesso tempo spazio sensibile visto dalla terra e dimensione riguardante il divino. Costituito da circa trecentocinquanta pezzi di grande interesse, come la straordinaria Stele della dama Tapéret risalente al terzo periodo intermedio, XXII dinastia, databile tra il X-IX secolo a.C., non a caso scelta come immagine della mostra, il percorso espositivo copre un periodo di tre millenni, a partire dall'Antico Impero e fino all'epoca romana, con l'obiettivo di ricollocare gli oggetti quotidiani nel loro giusto contesto sociale, religioso e artistico. Le opere provenienti dal Louvre sono qui presentate insieme a oggetti di collezioni europee, per documentare la varietà di quest'arte, a torto considerata ripetitiva.

Repubblica 2.3.09
Martigny, Rodin erotico
Fondation Pierre Gianadda. Dal 6 marzo


«A volte il corpo umano curvo all'indietro è come una molla, come un bell'arco sul quale Eros carica le sue frecce invisibili», afferma il maestro. Una mostra, curata da Dominique Viéville, direttore del Musée Rodin di Parigi, prende ora in esame l'interesse del maestro per il nudo femminile, attraverso una trentina di sculture e novanta disegni, dai primi fogli acquerellati degli anni Novanta fino alle grandi matite degli anni Dieci. L'esposizione che ruota idealmente attorno a un gruppo di opere celebri, come Il bacio , Giochi di ninfe , Il torso di Adele e Iris messaggera degli dei , invita a considerare gli slittamenti progressivi dell'ispirazione che dallo studio del nudo portano alla sensualità e in alcuni casi perfino all'oscenità. Dalla fine degli anni '80 Rodin esegue infatti in modo ossessivo disegni erotici, lavorando in presa diretta, per cogliere i movimenti, gli atteggiamenti liberi e spontanei delle modelle. Esistono due tipologie di questi fogli: disegni rapidi, tracciati con grafite dalla punta fine con gli occhi fissi sul soggetto, e lavori ripresi da questi primi «disegni alla cieca» con un intervento che permette di arrivare a un segno semplificato, nella maggior parte dei casi ritoccato con l'acquerello.

il manifesto 27.02.09
Testamento biologico
Prove di epurazione dei senatori ribelli nel Pdl

Appello bipartisan sul ddl: «Fermiamoci e rinviamo»

di Eleonora Martini


«Calma e sangue freddo: rinviamo il voto sul testamento biologico a dopo le elezioni europee». Nove senatori di entrambi gli schieramenti politici lanciano un appello «volto a scongiurare un voto non sufficientemente meditato sul problema del fine vita». Ma la risposta, altrettanto bipartisan, è al momento piuttosto freddina, se non del tutto negativa. I primi risoluti no alla moratoria legislativa vengono dalla presidente dei senatori Pd Anna Finocchiaro, dalla capogruppo in commissione Sanità Dorina Bianchi e, dall'altra parte dell'emiciclo, dallo stesso relatore del ddl, Raffaele Calabrò. I motivi sono diversi ma è chiaro che il lavoro in commissione è giunto ad un momento molto delicato (martedì in seduta notturna si tenterà di mettere ai voti i circa 600 emendamenti e il presidente Tomassini, sperando di portare in Aula il testo modificato, ha già chiesto di far slittare il termine previsto per giovedì 5). La tensione è alle stelle, il Pdl accusa i democratici di ostruzionismo, scoppiano liti in commissione Sanità, ma a tutti in questo momento la battaglia appare più aperta di prima. Intanto, però, con calma e sangue freddo c'è qualcuno nel Popolo della libertà che preme per serrare i ranghi ed epurare i dissenzienti. Tanto da far trapelare la notizia, poi smentita a fine giornata dagli stessi interessati, della sostituzione dalla commissione Affari costituzionali dei due senatori Pdl Lucio Malan e Ferruccio Saro che avevano sollevato dubbi di costituzionalità sul ddl Calabrò. Un avviso ai ribelli, si potrebbe dire con un pizzico di malizia, sul quale il vice capogruppo Pdl Gaetano Quagliariello si è limitato a commentare: «Il gruppo non ha preso in considerazione questo problema perché la commissione si riunisce la settimana prossima». Una notizia, insomma, «vera ma prematura» come la definisce Anna Finocchiaro prendendo in prestito una frase di George Bernard Shaw.
«Noi, credenti e non credenti - scrivono nell'appello bipartisan i democratici Enzo Bianco, Emma Bonino, Pietro Ichino e Stefano Ceccanti, insieme con i senatori Pdl Lamberto Dini, Antonio Paravia, Maurizio Saia, Giuseppe Saro e Rossana Boldi - considerato il clima attuale del dibattito politico in corso sul testamento biologico, rileviamo il rischio che un intervento legislativo non sufficientemente meditato, quale che ne sia il segno e il contenuto, cristallizzi soluzioni rigide, sempre parzialmente inappropriate rispetto all'infinita varietà dei casi reali, come è inevitabile. Per questo chiediamo una moratoria legislativa su questa materia di qualche mese, che permetta di recuperare la serenità necessaria per il migliore e più aperto confronto». Un appello che secondo Saro «ha già aperto un dibattito» tra le coscienze di centrodestra: «Se si riuscisse a superare questo scontro tra schieramenti, si potrebbe arrivare ad una legge più condivisa, non una legge etica da repubblica teocratica». Così però la vorrebbero i 53 senatori Pdl che hanno chiesto di inserire anche la respirazione artificiale tra i trattamenti non rifiutabili. «Sembra che si debba decidere chi vince tra i due schieramenti mentre il vero problema è quale legge verrà fuori», aggiunge Bonino.
Ma la proposta non viene accolta bene nemmeno nel Pd: Anna Finocchiaro e Dorina Bianchi non ci stanno anche se concordano sul bisogno di non legiferare sull'onda emotiva del caso Englaro. «Nel frattempo però potrebbero presentarsi altri casi altrettanto strumentalizzabili e il clima potrebbe addirittura peggiorare», spiega l'ex tedodem Bianchi che ci tiene, dice, «a rispettare gli impegni presi: arrivare a una legge il più presto possibile e portare il testo in Aula il 5 marzo». Chiaro dunque che Dorina Bianchi non lavora per l'«ostruzionismo», un'accusa che il senatore Massidda (Pdl) ha rivolto ieri ai suoi colleghi di commissione scatenando una vera bagarre.
È Piero Fassino invece a ricordare che «il Pd è un partito plurale nella cultura ma laico», e a porre l'accento sulla distinzione «tra le convinzioni religiose di ciascuno di noi e il dovere dello Stato di fornire ai cittadini leggi che consentano a ciascuno di vedere rispettate le proprie scelte di vita». Come a dire: libertà di coscienza per tutti.

il manifesto 27.02.09
Delitto di sciopero
Sacconi se ne frega della Cgil
di Sara Farolfi



Scontro tra Epifani e il ministro del lavoro. «Il governo stia attento a non introdurre forzature», ammonisce il leader sindacale. E oggi la controriforma sul diritto di sciopero approda al consiglio dei ministri
«Il governo stia molto attento perchè in questa materia che riguarda un diritto, una libertà costituzionalmente garantita, bisogna procedere con grande attenzione. E se l'intenzione è quella di ridurre una libertà fondamentale, partendo dal problema del rispetto dei diritti degli utenti, sappia che la Cgil si opporrà, ora e dopo». Le parole di Guglielmo Epifani, segretario generale Cgil, sono state accolte ieri nell'indifferenza del ministro del lavoro. Padre del disegno di legge che oggi arriva sul tavolo del consiglio dei ministri e che, dietro la bandiera del diritto alla circolazione, vuole fare piazza pulita di quello di sciopero (partendo dai trasporti). Se la cava così, Maurizio Sacconi: «Temo che manchi la Cgil. L'unanimità del resto non è di questo mondo, appartiene al mondo del nulla, del non fare».
E infatti della rappresentatività - ossia di chi è titolato a parlare (firmare accordi o proclamare scioperi) a nome di qualcun'altro (i lavoratori) - al governo non importa nulla. Ne è un esempio la firma di un accordo sulle regole della contrattazione, senza quella dell'organizzazione maggiormente rappresentativa. E così è anche per la limitazione del diritto di sciopero - nel settore dei trasporti per ora - dove la soglia minima necessaria per la proclamazione sarebbe portata al 50%, trasformando così un diritto e una libertà individuale in un diritto a maggioranza, per cui il 49% dei lavoratori non avrebbe diritto a scioperare. Una delle ipotesi allo studio di Sacconi, ieri, era l'alternatività tra «un requisito minimo di rappresentatività degli attori proclamanti» - il 50% appunto - e il referendum preventivo tra i lavoratori: se cioè non si raggiunge la maggioranza più uno, si ricorre al referendum tra i lavoratori. Come si dovrebbe certificare questo 50%, e se ci si riferisca ai soli iscritti o a tutti i lavoratori di una certa azienda, non è chiaro. 
Ad ogni modo, non si può dire non essere stata tempisticamente perfetta la relazione al parlamento svolta ieri dalla Commissione di garanzia per gli scioperi (che nel ddl dovrebbe assumere compiti e funzioni di arbitrato). Ha introdotto i dati Gianfranco Fini, cercando di rendere istituzionalmente digeribile il disegno di legge del governo: «Il diritto di sciopero non si può soffocare ma lo si deve armonizzare con l'esercizio degli altri diritti in un'opera di bilanciamento che deve tenere conto dell'evoluzione sociale». «C'è da chiedersi - si domanda Fini se lo sciopero nei diritti essenziali possa configurarsi come un diritto che qualunque soggetto collettivo, anche non adeguatamente rappresentativo, può esercitare allo stesso modo».
E si torna alla rappresentatività, senza mai dire come questa debba essere certificata. Prova a suggerirlo Antonio Martone, presidente della Commissione di garanzia, dopo essersi marcatamente sbilanciato verso la proposta del governo (che stupisce in un organismo che dovrebbe essere terzo e di garanzia appunto). Suggerisce Martone che una verifica sulla rappresentatività delle organizzazioni sindacali potrebbe essere affidata alla Commissione stessa. «La Commissione di garanzia è un organismo che non si presta a questo», trasecola Fabrizio Solari (Cgil), «abbiamo sempre detto che il nostro punto di riferimento erano le regole del pubblico impiego e su questo erano d'accordo anche Cisl e Uil».
Ma ieri Cisl e Uil non hanno fiatato. L'unico punto su cui del resto avevano manifestato una qualche perplessità, due giorni fa, era stata l'obbligo di adesione individuale agli scioperi. «Necessaria perchè consente di dare certezza ai cittadini con riferimento ai mezzi che circoleranno», dice Sacconi. Necessaria soprattutto alle imprese che potranno così coprire programmaticamente le 'assenze', o più comodamente provvedere alla 'dissuasione' degli interessati.
Via libera, da Cisl e Uil, anche allo sciopero virtuale (quella forma di agitazione - in cui il lavoratore resta al lavoro e l'azienda paga una sorta di penale, da contrattare volta per volta, il cui importo va in beneficienza). Una forma di protesta che nei fatti praticamente non esiste - essendo praticamente impossibile trovare un accordo su quanto debbano pesare le sanzioni sull'azienda - e che non a caso le aziende gradiscono assai.
Giorgio Cremaschi (Rete 28 Aprile) non usa mezzi termini: «La legge anti sciopero è autentico fascismo». L'impressione che si stia scivolando verso un accordo politico, sulla scia di quello del 22 gennaio, cresce comunque trasversalmente a corso d'Italia. Insieme a quella che i trasporti non siano che l'apripista di una riforma che si vorrebbe almeno «per i servizi pubblici essenziali» e di qui, come ha già chiesto Confindustria, valida per tutti. «L'impressione è che si voglia fare un po' per volta», dice Fabrizio Solari (Cgil). Il ddl oggi all'esame dei ministri vieta anche tutte le forme di protesta, non solo per i trasporti, che possano ledere la libertà di circolazione (manifestazioni in strade, autostrade, porti e via dicendo). Calca la mano il ministro Brunetta: «Lo sciopero è un diritto tutelato dalla Costituzione ma anche la mobilità, la vita, il lavoro sono valori tutelati dalla Costituzione. Senza la Cgil? «Ce ne faremo una ragione».

il manifesto 27.02.09

Anche stavolta il Pd lascia sola la Cgil

Bindi: vogliono dividere i lavoratori. L'Idv insorge
di Daniela Preziosi



La Cgil pronuncia un altolà sulla legge delega che colpirà - se approvata - il diritto di sciopero nei trasporti pubblici. Il Pd risponde, in teoria dalla stessa parte del fronte e cioè la tutela della Costituzione per la quale è sceso in piazza non più di dieci giorni fa, contestando il metodo, ovvero l'utilizzo dello strumento della delega. Sul merito invece misura i toni. E stavolta non ci sono distinzioni interne fra filo-cgil e filo-cisl, fra operaisti e moderati. Stavolta non c'è area 'riformista' che tenga, complice - ma in fondo neanche troppo - il patto di non belligeranza interno con il neosegretario Dario Franceschini. Che sabato scorso alla Nuova Fiera di Roma ha pronunciato alcune chiare correzioni di linea rispetto al veltronismo, ma sulle questioni del lavoro e sull'attacco ai sindacati ha ripetuto il solito refrain dell'«auspicio» dell'unità sindacale. 
Così ieri la troika economica democratica Letta-Treu-Damiano ha emesso contro il possibile provvedimento del governo un comunicato congiunto e 'bipartisan' (rispetto agli schieramenti interni Pd): «La materia dello sciopero è troppo rilevante, sul piano costituzionale e politico, per essere affrontata con iniziative unilaterali del governo». Nel merito però, la musica è diversa: i tre non arrivano alle altezze di Pietro Ichino, il senatore Pd che quasi rivendica di aver ispirato il provvedimento del governo, ma ammettono l'esigenza di rendere lo sciopero «compatibile con la tutela dei cittadini» e soprattutto la necessità di maggior ordine nel settore dei trasporti «dove la regolamentazione attuale non ha impedito gravi disagi ai cittadini soprattutto per iniziative conflittuali di organizzazioni poco o niente rappresentative». Certo queste regole debbono essere negoziate con le parti sociali, e per questo chiedono la convocazione di un tavolo di confronto. 
Non si distingue dal trio Pierluigi Bersani, candidato segretario dell'area riformista del Pd, che giusto mercoledì aveva rilasciato l'ennesima intervista, stavolta persino al Sole 24 Ore, assumendo su di sé il compito di riportare il suo partito «nelle fabbriche». Nelle fabbriche il Pd deve tornare, ma se parliamo di mettere mano al diritto di sciopero dei trasporti, il responsabile del dipartimento economia Pd dice che «se ne può discutere con le organizzazioni sindacali, purché se ne faccia una discussione seria e non ideologica». Sulla scelta «ideologica» del governo, quel tirare un primo colpo simbolico (ma anche molto concreto) al diritto di sciopero insiste anche Paolo Nerozzi, sinistra Pd: fra l'altro si rischia l'effetto opposto, quello di «aumentare la conflittualità sia nelle modalità tradizionali sia in quelle corporative». 
A parlare più chiaro è Rosi Bindi: il governo sbaglia tempi e modi, nel provvedimento «prevale la volontà politica di sterilizzare il dissenso», «lo sciopero è un diritto costituzionale, limitarne il ricorso in presenza di una situazione economica e sociale assai difficile diventa pericoloso soprattutto se queste norme dovessero configurarsi come il nuovo tassello di una strategia che produce la divisione tra i sindacati e la contrapposizione tra lavoratori». Su questa frequenza si posiziona l'Italia dei valori, nella sua recente veste di partito alla ricerca di consensi fra i lavoratori. Lo sciopero, ricorda il senatore Felice Belisario, serve anche «a informare il paese dei problemi di intere categorie, con le ovvie conseguenze per tutti. Se lo sciopero diventa virtuale, la sua efficacia sarà ridotta». L'obiettivo del governo è chiaro: aumentare «il conflitto tra il diritto dei lavoratori allo sciopero e il diritto sacrosanto dei cittadini alla mobilità, alla salute, alla sicurezza, all'istruzione e alla previdenza sociale». Cittadini contro lavoratori, un'illusione ottica, una guerra allo specchio di ciascuno contro se stesso. «Il governo attacca il diritto di sciopero perché vuole far pagare la crisi ai lavoratori. Parte dai trasporti per ingenerare una guerra tra poveri», dice Paolo Ferrero, segretario Prc. «Sottolineo però che i pendolari non sono penalizzati dai ferrovieri ma dai tagli attuati dai vari governi al trasporto pubblico locale». 
Dall'altra parte il Pdl si gusta lo scenario in cui si appresta a incassare la 'storica' vittoria: i sindacati divisi, l'opposizione parlamentare preoccupata di non scoprire il fianco sinistro (persino Savino Pezzotta, già leader Cisl ora deputato Udc riesce a declinare più chiaramente l'assurdo concetto dello sciopero 'virtuale': «Virtuale è una parola vuota. Accostarla al diritto di sciopero previsto dalla Costituzione è superficiale perché esso è tale quando c'è la sospensione dell'attività lavorativa. Il resto è protesta e propaganda»), la sinistra radicale ridotta al minimo storico e al massimo delle sue divisioni. Lo scenario è così confortante, per le destre, che anche i peones della maggioranza possono permettersi di chiedere se Epifani, che avverte il governo di pensarci bene, prima di toccare un diritto costituzionale, pronuncia «un consiglio o una minaccia». Lo dice tal Francesco Pasquali, sostiene che ad alimentare «l'odio sociale» sarebbe la Cgil.

il manifesto 27.02.09
Tra Stato e Chiesa
Il peso di un aggettivo sull idea di laicità

di Daniele Menozzi



«Sana», «giusta», «legittima». Limitando con un attributo il concetto di laicità, la chiesa cattolica si riserva la facoltà di specificarne il significato politico. Anticipiamo ampi stralci dalla relazione con cui si apre oggi a Torino la quinta giornata della «Settimana della politica»
Il papato odierno propone la «sana laicità» come il criterio decisivo per stabilire la corretta definizione dei rapporti tra le chiese e lo stato. Il contenuto di questa espressione è dato in prima istanza da una differenziazione rispetto al laicismo: questo implicherebbe una separazione ostile tra l'autorità civile e le confessioni religiose, anziché quella distinzione tra i due poteri che viene ritenuta conforme alla dottrina cattolica, anzi direttamente ricondotta a una radice evangelica. Inoltre il ricorso a quel sintagma implica, nell'attuale discorso pontificio, non solo l'accettazione di una presenza del religioso, in particolare della chiesa cattolica, nella sfera del dibattito politico in vista del contributo che esso può dare all'edificazione della città democratica, ma anche la richiesta di un riconoscimento, sul piano costituzionale, delle radici cristiane della civiltà occidentale e, in virtù di tale riconoscimento, di un ruolo pubblico della chiesa. 
Questa concezione di laicità trova talora consenso anche in settori del mondo politico: senza voler insistere sul rumoroso ossequio manifestato dalle correnti degli «atei devoti», occorre osservare che il richiamo alla «laicità positiva» del presidente francese Sarkozy sostanzialmente coincide, come è emerso nel recente viaggio in Francia di Benedetto XVI, con l'auspicio papale di una «sana laicità». Non mi sembra poi un caso che in questi giorni anche il presidente della Camera, l'onorevole Fini, abbia espresso, nel quadro delle celebrazioni della revisione del Concordato del 1984, la sua piena adesione proprio a questa impostazione delle relazioni tra chiesa e stato. (...)
Si tratta dunque di una tematica che merita di essere approfondita. Tanto più che né nel discorso pontificio né del discorso politico sulla «sana laicità» viene con chiarezza specificato cosa implichi concretamente il riconoscimento di quel ruolo pubblico che, tramite essa, si dovrebbe assicurare alla chiesa. Per cercare di capire le effettive questioni che sono in gioco dietro l'odierno uso di questa espressione credo sia indispensabile muoversi in una prospettiva storica. 
La locuzione «sana laicità» appare nel magistero pontificio nel marzo 1958. Pio XII, in occasione di un pellegrinaggio dei marchigiani residenti a Roma, affrontando alcune questioni politiche di attualità, sosteneva che una «sana e legittima laicità dello stato» costituisce uno dei principii della dottrina cattolica. (...) Non abbiamo carte archivistiche che ci aiutino, ma il contesto ci fornisce sufficienti indicazioni: esisteva nel mondo cattolico una contrapposizione tra quanti, ad esempio il cardinal Ottaviani, rifiutavano ogni riferimento alla laicità proponendo come modello esemplare lo stato cattolico che aveva trovato la sua realizzazione nel concordato della Santa Sede con la Spagna franchista; e quanti, come il filosofo Jacques Maritain, presentavano nell'impegno dei cattolici a basare la convivenza civile sui fondamentali diritti umani riconosciuti nella Dichiarazione universale del 1948 la via per giungere alla costruzione di uno stato laico, pur cristianamente costituito. Il tentativo di Ottaviani di far condannare nel 1956 dal Sant'Ufficio le opere del pensatore francese non era riuscito e il dibattito era continuato sia pure in maniera ora più sotterranea ora più esplicita. 
Cosa cambia con il Concilio
In questo contesto l'intervento di Pacelli sembra assumere un preciso significato: il papa intendeva proporre una mediazione tra la linee divergenti presenti nella cultura cattolica. Prendeva infatti le distanze da coloro che volevano far scomparire il termine laicità dal lessico cattolico - in quanto ritenevano ogni forma di indipendenza politica dalla chiesa, soprattutto se rivendicata da credenti, come un attentato laicista allo stato cattolico - per renderla invece una «ipotesi» praticabile almeno in determinate circostanze. Tuttavia l'apposizione degli aggettivi «sana» e «legittima» al sostantivo specificava in maniera assai limitativa la maniera in cui la laicità veniva così accettata. Rinviando alla sfera della morale, delle cui regole la gerarchia si proclamava suprema detentrice, tali aggettivi in effetti indicavano che la laicità era lecita nella misura in cui si riservava all'autorità ecclesiastica la «competenza delle competenze», vale a dire il diritto di determinare i confini del suo potere d'intervento nella direzione della vita pubblica. Ne emergeva una visione della laicità che assicurava la permanenza di una parola a lungo osteggiata nel vocabolario della cultura cattolica - in tal modo, ad esempio, si legittimava il sostegno dell'episcopato francese nel referendum del 1958 alla costituzione che proclamava la Repubblica «indivisibile e laica »; ma al contempo svuotava in realtà il sostantivo del suo concreto contenuto politico, finendo per convergere con le concezioni di Ottaviani. 
Si trattava comunque di una linea che non sembrava incontrare grande successo nell'episcopato italiano: la lettera pastorale collettiva sul laicismo emanata dalla Cei nel 1960 - assai apprezzata anche da Giovanni XXIII, come mostrano le sue agende private da poco pubblicate - mostrava che nella gerarchia del nostro paese continuava a prevalere quella sostanziale identificazione tra laicità e laicismo che gli ambienti cattolici francesi avevano cominciato a distinguere: nella penisola la costruzione di forme di vita associata indipendenti dalle direttive ecclesiastiche veniva qualificata come una aggressione laicista alla chiesa dettata dalla volontà di cancellare il cristianesimo dalla sfera pubblica. Ma, con l'avvento di Roncalli, si apriva l'innovativa stagione conciliare, sicché si può porre la domanda se il Vaticano II modificava o meno questa linea. 
La questione della laicità non emerge direttamente in nessuno dei suoi documenti, ma non va nemmeno dimenticato che la dichiarazione Dignitatis humanae ha mutato uno degli elementi che ostacolavano una valutazione positiva dello stato laico: il riconoscimento della libertà religiosa come uno dei diritti inerenti alla natura dell'uomo e la conseguente proclamazione del dovere dell'autorità civile di garantire il pubblico esercizio del culto ha posto evidentemente fine alla concezione che vedeva nella parificazione delle confessioni la «peste del laicismo» secondo l'espressione usata da Pio XI nel 1925 per caratterizzare l'uguaglianza dei diritti tra le diverse confessioni religiose presenti in uno stato. La dichiarazione conciliare ribadisce l'obbligo per ogni uomo di ricercare la verità, ma abbandona la tesi del magistero precedente secondo cui solo la verità può godere dei diritti civili e politici. Non a caso proprio John Courtney Murray - il gesuita americano che negli anni Cinquanta era stato ridotto al silenzio dal Sant'Ufficio guidato dal cardinal Ottaviani per la sua affermazione della piena coerenza tra dottrina cattolica e diritto alla libertà religiosa - è stato tra i principali periti cui si deve la redazione del documento. 
Tuttavia questo risultato significa che il concilio determinava un superamento dell'insegnamento proposto nell'ultima fase del magistero pacelliano? Ci si può insomma chiedere se, a seguito del riconoscimento del diritto alla libertà religiosa proclamato dal Vaticano II, la laicità non appare più un'ipotesi, accettabile solo nei casi cui il papato la giudica lecita. Credo che una pur rapida analisi del rapporto tra chiesa e stato esposto nella costituzione pastorale Gaudium et spes sulla chiesa nella società contemporanea possa aiutarci a trovare una risposta.
Una presa di distanza
Il documento preparatorio, redatto sotto l'influenza di Ottaviani, riprendeva la concezione tradizionale secondo cui lo stato, avendo fini temporali subordinati a quelli spirituali, doveva svolgere una funzione ministeriale nei confronti della chiesa: vi si ribadiva la visione dello stato cattolico secondo quel modello che il cardinale aveva esaltato nel concordato stipulato con la Spagna franchista. La discussione nell'aula conciliare modificò profondamente questa prospettiva. La redazione finale della costituzione proclamava che la comunità politica e la chiesa sono indipendenti e autonomi, in quanto la loro natura è profondamente diversa: la chiesa - popolo scelto da Dio e riunito dalla sua Parola - è infatti una realtà comunionale e mistica che non entra in concorrenza con gli stati che perseguono finalità temporali. Si auspicava però tra di essi una «sana collaborazione»: per realizzarla la chiesa non chiedeva privilegi - anzi si dichiarava disposta a rinunciare a quelli pur legittimamente acquisiti nel passato se rendevano poco credibile la sua testimonianza -e domandava soltanto la libertà di poter esercitare la propria missione. Tuttavia rivendicava anche un diritto, quello di «dare il suo giudizio morale, anche su cose che riguardano l'ordine politico, quando ciò sia richiesto dai diritti fondamentali della persona e dalla salvezza delle anime. E questo si farà, utilizzando tutti e soli quei mezzi che sono conformi al Vangelo e al bene di tutti».
Se era dunque evidente il rifiuto della tesi dello stato cattolico - che giungeva al punto di mostrare la disponibilità a rinunciare anche ai privilegi legittimamente ottenuti tramite la prassi concordataria - non meno netta risultava la presa di distanza da quel paradigma di laicità che si richiamava al modello separatista. In primo luogo infatti si auspicava una collaborazione tra stato e chiesa, in vista del raggiungimento del bene comune del consorzio umano. Inoltre si stabilivano le ragioni che legittimavano un intervento ecclesiastico nella sfera politica: esso poteva avvenire, oltre che per la tradizionale esigenza di assicurare la salvezza ultraterrena, anche in nome di una nuova istanza di natura temporale e politica: la salvaguardia dei diritti fondamentali della persona. (...)
Le leggi «naturali»
Se dunque dal dettato della Gaudium et spes si ricavava un abbandono della prospettiva dello stato confessionale - e non si può non sottolineare il mutamento notevole così compiuto rispetto alle concezioni presenti in curia all'inizio dei lavori dell'assise ecumenica -, bisogna anche aggiungere che il documento conciliare non cancellava la prospettiva di un intervento sul piano politico della gerarchia, mostrando la distanza tra la concezione cattolica e quella visione della laicità che si incentrava sull'autonomia del politico dal religioso e del religioso dal politico. È però vero che la costituzione sulla chiesa nel mondo contemporaneo ricordava soltanto che la chiesa manifestava in materia un «giudizio» che, per di più, doveva essere espresso servendosi di mezzi poveri, come lasciava intendere il richiamo alla loro conformità con il Vangelo. Quale era dunque il significato di questa formulazione? Si trattava di una valutazione indirizzata a illuminare le coscienze che poi liberamente la traducevano in un concreto e determinato impegno sul piano storico-politico oppure di una direttiva volta a dettare o almeno ispirare le norme regolatrici della comunità? Evidentemente solo nel primo caso si avrebbe un sostanziale rispetto della nozione di laicità così come è stata elaborata dalla cultura occidentale nel corso del Novecento.
Ora gli orientamenti generali fissati nella Gaudium et spes non credo lascino molti dubbi in proposito. In effetti tutte le volte che il testo affronta la questione dell'autonomia del temporale o della libertà dell'uomo, pur affermando che si tratta di valori leciti, cui spesso in passato la chiesa non aveva riservato la debita attenzione, specifica pur sempre tali valori con l'apposizione di un aggettivo - «legittima», «giusta», «ordinata» - che ne circoscrivono la portata, rinviando alla necessità di una valutazione morale sulla loro pratica. In tal modo la chiesa rivendica il possesso di una verità morale in ordine alla società cui le strutture e le istituzioni della collettività devono conformarsi. Del resto il Vaticano II fornisce anche le ragioni di questa concezione. In diversi passi si trova infatti l'asserzione che la convivenza civile si basa sulle leggi naturali di cui la chiesa si proclama depositaria ed interprete in quanto esse sono determinate dall'ordine voluto da Dio per l'universo. 
Mi pare dunque che, in ragione di questa ottica, l'intervento ecclesiastico sulla politica assuma inevitabilmente la forma della prescrizione vincolante quando la chiesa ritenga che sia in gioco una di quelle norme fondamentali che, corrispondendo alla natura dell'uomo, non possono essere violate dall'ordinamento giuridico della vita collettiva. Ritornava la prospettiva pacelliana di apporre un aggettivo a un termine per riservare all'autorità ecclesiastica la facoltà di specificarne il significato politico. A palesare in termini espliciti la continuità di questa impostazione sulla questione della laicità sarebbe stato Paolo VI. Nel corso dell'udienza tenuta il 22 maggio 1968 (la data non è priva di significato, se si tiene presente quanto quel maggio ha rappresentato nell'immaginario collettivo dell'epoca) dapprima il papa si richiamava con una diretta citazione al discorso pronunciato da Pacelli nel marzo 1958 sulla sana e legittima laicità e poi affermava che la chiesa era ormai giunta a distinguere «fra laicità, cioè fra la sfera propria delle realtà temporali, che si reggono con propri principi e con relativa autonomia derivante dalle esigenze intrinseche di tali realtà... e il laicismo (cioè) l'esclusione dell'ordinamento umano dai riferimenti morali e globalmente umani che postulano rapporti imprescrittibili con la religione».
Ma, proseguiva il papa, la laicità si rivelava sana nella misura in cui l'ordinamento civile recepiva dalla chiesa «il duplice lume dei principi e dei fini che devono orientare e sorreggere la vita umana in quanto tale». E il laicato cattolico era tenuto a seguire queste direttive in modo da far «risplendere l'ordine ... voluto da Dio anche nella sfera realtà temporali». In tal modo, pur legittimando la distinzione tra laicità e laicismo che tanti ostacoli aveva incontrato nella cultura cattolica del secondo dopoguerra, Montini ribadiva che l'accettazione cattolica della laicità passava attraverso l'apposizione di un aggettivo che riservava all'autorità ecclesiastica la concreta determinazione dei suoi contenuti.

il manifesto 27.02.09
Nuova edizione del saggio «Per Marx»

La scienza esatta di Louis Althusser
di Cristian Lo Iacono



Louis Althusser non è stato soltanto il filosofo marxista più influente negli anni Settanta. L'anti-umanesimo, la critica del riduzionismo, della categoria di soggetto, di ogni filosofia dell'origine e del fondamento, tutti discorsi marcati da un'appartenenza difficile allo strutturalismo, sopravviveranno anche nelle teorie poststrutturaliste degli anni Ottanta. Il decorso decostruttivo entro il marxismo non ha avuto gran successo in Italia e ciò ci fa apparire erroneamente il filosofo francese come un pensatore «datato». Invece, alcuni saggi di Per Marx - di recente ritradotti a cura di Maria Turchetto - soddisfano esigenze ancora attuali, come quella di pensare l'articolazione delle soggettività e delle istanze strutturali e sovrastrutturali entro un quadro capace di ispirare nuova progettualità politica. Possiamo dire, con una battuta, che Per Marx, a dispetto delle sue intenzioni restauratrici, inaugurò l'ultimo ciclo di crisi del marxismo a noi noto. 
In effetti, l'afflato che attraversa tali scritti pare quello di restaurare il pensiero di Marx contro le deformazioni dei marxisti, di liberare Marx dalle catene dell'hegelismo, ma anche dalle incrostazioni etiche e filosofiche che la riscoperta dei Manoscritti del 1844 aveva contribuito a formare attorno al suo corpus dottrinale. Il concetto di rottura epistemologica permette ad un tempo di pensare il marxismo come scienza, poiché è la rottura costituente una episteme, ma quanto al suo oggetto permette di isolare Marx rispetto a Hegel e allo hegelismo. La tesi storiografica ed epistemologica di Per Marx è quella della doppia distanza di Marx sia dall'antropologia di Feuerbach, sia dall'idealismo assoluto di Hegel. Althusser riteneva strategica questa pars destruens prima di descrivere in termini positivi «la filosofia di Marx» in Leggere il Capitale. Inoltre, dietro la biografia intellettuale del filosofo di Treviri Althusser pare fare i conti con la propria coscienza filosofica precedente, dall'umanesimo a Hegel.
La prevalenza del momento negativo è forse il motivo per cui Per Marx può essere letto come l'inaugurazione di una crisi. Certamente pone una cesura epistemologica mai ricucita. Non che manchino dei concetti davvero nuovi: le tesi sull'ideologia, il concetto di surdeterminazione, la teoria della contingenza, per fare alcuni esempi, rappresentano delle novità assolute nel campo del marxismo. Ma l'impressione è che essi denuncino delle mancanze piuttosto che delle scoperte da parte di Marx e che Althusser li abbia formulati per poi ritrattarli. 
Prendiamo la surdeterminazione, il perno della possibilità di pensare la contraddizione fuori dell'ambito speculativo hegeliano. Ma si tratta di un concetto marxiano? Ammesso che sia vero che in Hegel la contraddizione è contraddizione semplice e mai surdeterminazione complessa, siamo sicuri che in Marx sia presente, anche solo allo stato operativo, un concetto di contraddizione surdeterminata? Forse per questa ragione, già in questo saggio del 1962 i tentennamenti di Althusser sono tali da impedirgli una vera rottura con la metafisica (in questo caso materialistica), perché ciò avrebbe dovuto implicare l'ammettere che un rinnovamento della dialettica sarebbe stato possibile non solo congedandosi da Hegel, ma superando anche Marx. A quel punto però sarebbe crollata anche la tesi della consapevole rottura epistemologica, che si ridurrebbe a un'esigenza sentita da Althusser e solo parzialmente presagita da Marx. Per evitare tutto ciò Althusser è costretto a fare delle petizioni di principio, prive di basi testuali, che non siano la famosa frase sul «rovesciamento» e sul nocciolo mistico della dialettica hegeliana.
Il concetto di surdeterminazione, mutuato da Freud e originalmente introdotto nel linguaggio marxista, possiede una notevole valenza antimetafisica. Ma si ha l'impressione che Althusser temesse di liberarne pienamente le potenzialità, così che il tentativo di articolare «ultima istanza» economica ed «efficacia specifica» sovrastrutturale fallisce. Non si vede poi l'enormità della cesura che il marxismo rappresenterebbe rispetto allo hegelismo, dato che il rapporto hegeliano «essenza-fenomeno-verità di...» non scompare. Althusser ci assicura che la «dialettica economica non gioca mai allo stato puro», che insomma le istanze sovrastrutturali non finiscono mai di concorrere, di interferire con quella economica. Possiamo piuttosto chiederci se non si possa parlare di affinità tra lavoro della surdeterminazione e quello della différance. L'ultima istanza sembra affine a un principio ultimativo che segna il limite oltre il quale nella catena della causalità storica non si discende più. La contraddizione principale sarebbe il «motore» e il principio di intelligibilità dei processi. L'ultima istanza sarebbe l'origine immanente e la surdeterminazione sarebbe il tentativo di liberarsi da questo principio metafisico. Ora, come per Derrida l'essere non scompare ma lascia una traccia come effacement, così per Althusser l'ultima istanza sarebbe conservata leggibile sotto cancellatura. Essa non è espulsa, piuttosto è proiettata ai limiti della temporalità storica. Non vedremo mai la pienezza dei tempi, né risaliremo alla scaturigine pura del divenire storico. La storia è il terreno in cui gli avvenimenti accadono sempre sotto una determinazione multipla e contraddittoria. Il processo di semplificazione fino all'ultima istanza è senza fine né approdo. 

LOUIS ALTHUSSER, PER MARX, MIMESIS, TRADUZIONE DI MARIA TURCHETTO, PP. 225, EURO 18

La Stampa 2.3.09
La Banca dell’eternità
In Italia è vietato custodire le cellule del cordone ombelicale per uso personale. Viaggio nella clinica di San Marino che permette di aggirare la legge
di Bruno Ventavoli


L’immaginario confine di Stato passa lungo l'insegna di un benzinaio. Da una parte c'è l'Italia. Dall'altra San Marino. Di là, conservare a fini di lucro le staminali prelevate dal sangue del cordone ombelicale è un reato. Di qua, è lecito, ed è per questo che nella Repubblica del Titano Giuseppe Mucci ha fondato qualche anno fa il Bioscience Institute, una banca per la crioconservazione autologa di cellule staminali. A pagamento. Mille metri quadrati di tecnologia, otto biologhe a tempo pieno, computer che controllano protocolli di qualità e sterilità. 
Attualmente le staminali possono curare un'ottantina di malattie, dalla leucemia ai linfomi. In futuro, forse, molte altre. Un po' per effetto tv del dottor House, che ha reso la scienza d'Esculapio più miracolosa di Lourdes, un po' per il passaparola, oggi sono di gran moda. Prelevarle dal cordone ombelicale è facile e non è rischioso. Conservarle nel gelo costa relativamente poco, qualche migliaio di euro. E così mamme&babbi vip, ma anche molti anonimi genitori felici del lieto evento, decidono sempre più spesso di mettere in frigorifero quelle cellule per il futuro dei pargoletti, nel caso che un giorno possano averne bisogno per riparare il corpo malato. 
Tutto perfetto? Non proprio. Il miraggio del business, l’umana speranza e la legge, hanno creato un piccolo Far West. Per intercettare l’affare sono nate aziende che, come ha recentemente accusato l’ex ministro Sirchia, «vendono illusioni». «Ma noi siamo chiarissimi - dice Mucci - spieghiamo ai clienti quali sono le attuali certezze della scienza, e quali le semplici speranze del futuro. Su un punto, però, Sirchia ha ragione: in questo settore operano personaggi poco seri. Dato che in Italia non si possono conservare le staminali a pagamento, le società nate in Italia si affidano a banche estere, che magari subappaltano ad altre, e ad altre ancora. E magari per risparmiare sui costi finiscono nell'estremo oriente. Nel giorno in cui i genitori avranno bisogno di quelle cellule, a chi si rivolgeranno? Le banche italiane sono virtuali, semplici sportelli o siti web, non danno nessuna garanzia diretta della conservazione del delicato materiale». 
La visibilità e la solidità, per Bioscience, sono invece una bandiera e un orgoglio. I genitori che vogliono vedere la struttura possono visitarla (l’istituto paga loro una notte in albergo). In ogni stanza dei laboratori è installata una webcam. Come in un grande fratello chiunque, tramite internet, può osservare le biologhe al lavoro. «Quando si parla di salute la trasparenza è fondamentale - dice Mucci -. E noi la pratichiamo fino all'ossessione. Possiamo essere controllati costantemente dai nostri clienti. Facciamo vedere che ci siamo e che lavoriamo bene». 
I genitori che vogliono conservare all’estero le staminali del figlio devono ottenere il nulla osta dal ministero con un modulo. Bioscience fornisce poi un kit per la raccolta del sangue placentare. L’operazione viene fatta dal personale sanitario al momento del parto. E’ una procedura abbastanza semplice, basta un semplice ago, e in teoria è un atto dovuto alla mamma. Ma qualche problema può insorgere. Ci sono ospedali che chiedono ticket e altri che non «sono attrezzati per farlo». E il sangue può anche essere contaminato al momento del prelievo con manovre incaute e non proprio sterili. 
Il sacchetto di sangue viene poi affidato a un corriere e spedito ai laboratori di Bioscience, dove i biologi effettuano i controlli e separano le staminali contenute nel sangue placentare, prima di congelarle in scatolette di metallo quadrate, di sei-sette centimetri per lato. «Dato che la tracciabilità è fondamentale, ogni neonato diventa un codice a barre, recuperabile dal computer in ogni istante». Affidarsi alla Bioscience costa 2000 euro (kit per la raccolta, più caratterizzazione, tipizzazione, congelamento) e 50 l'euro all'anno di canone. Per i prossimi vent’anni. Con l’augurio di non dover mai tirar fuori dai fumi gelati dell’azoto l’astuccio della speranza.

La Stampa 2.3.09
Staminali: "Attenzione ai truffatori"
di B.V.


Alcune sono vip, come Ambra Angiolini o Federica Fontana. Molte invece sono normali. E sono oltre diecimila le mamme italiane che ogni anno decidono di conservare a pagamento le staminali del figlio neonato. Sulla speranza delle staminali, nuova frontiera della medicina, sta nascendo una moda, un business e anche, ovviamente, truffe. Basta un giro su internet per trovare decine di «Cordon Blood Bank» che offrono servizi di ogni genere. Molte sono serie. Altre un po’ meno. In Italia sono proibite (si rischiano multe e anche tre anni di galera). All'estero la conservazione autologa (per se stessi e famigliari) è invece legale. 
L'ex ministro Sirchia è uno dei più veementi nel denunciare il fenomeno. «La conservazione autologa è eticamente discutibile. Costa cara e promette cure che, in alcuni casi, sono al momento scientificamente impossibili. Per questo, quando ero ministro, l'avevo vietata con un'ordinanza. Sono stato, accusato di fascismo e talibanismo, ma per me illudere la gente è un reato. Bisognerebbe invece incentivare la donazione solidaristica, gratuita, utilissima. Le mamme vip che scelgono l’autologa, pur inconsapevolmente, rischiano di diffondere falsi messaggi». 
Nel mondo esistono 100 banche pubbliche. In Italia, 18, tutte con ottimi livelli di qualità. Il problema è che i cordoni sono ancora pochi, 20-25mila, su 560mila parti all’anno. Intanto alcune banche private italiane lanciano un appello al governo per chiedere la fine dei divieti e poter operare in legalità e trasparenza. Anche perché il proibizionismo, il muro contro muro di privato e pubblico, rischia solo di alimentare il Far West. Ne è convinta anche Gloria Pravatà, responsabile comunicazione del Centro nazionale sangue e consigliere dell'onlus Adisco (Associazione Donatrici Italiane Sangue Cordone Ombelicale), auspica invece maggiore buon senso. «La medicina ci dice che è più utile la conservazione allogenica. Ma se una famiglia decide lo stesso di fare una specie di assicurazione sulla vita del figliolo non glielo si può impedire. Se questo bisogno c'è bisogna prenderne atto e aprire ai privati, naturalmente con la massima severità sui controlli».


E-duesse 2.3.09
Cinema: Bellocchio smentisce ‘Left’ e ‘Il Giornale’
Il regista si dice “colpito dall’uso fatto delle mie parole”

Il regista Marco Bellocchio smentisce la rivista ‘Left’ che ha riportato sue dichiarazioni e il quotidiano ‘Il Giornale’ che oggi le ha riprese: «Sono colpito dall’uso che si è fatto delle mie parole nei giornali, estrapolando brani di un ragionamento più ampio. Il discorso nell’intervista rilasciata a ‘Left’ (in cui mi si attribuisce l’affermazione: “Il cinema oggi è totalmente dipendente dalla tv, che ogni tanto elargisce qualcosa, ma pretende, con il suo orrendo conformismo, di imporre il suo linguaggio. Difficile trovare spazi di libertà”), riguardava il linguaggio che la televisione, di tutto il mondo, tende a omologare. Chi poi ci ha voluto leggere qualcosa di critico in merito al mio rapporto con Rai Cinema è in malafede. Tanto è vero che io sono stato libero di scrivere e girare ‘Vincere’ che Rai Cinema, la tv pubblica quindi, ha prodotto con entusiasmo e dandomi il massimo sostegno e libertà d’espressione. Per quanto riguarda ‘L’ora di religione’ – aggiunge Bellocchio – non credo di aver detto letteralmente che “oggi non mi lascerebbero fare questo film” ma mi riferivo a un clima generale nel Paese dove mi sembra più a rischio una visione laica della vita che è necessario assolutamente salvaguardare».
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E-duesse 2.3.09
Cinema: Bellocchio, la tv impone il suo linguaggio
Il regista stigmatizza il potere della televisione sulla “settima arte”
Intervistato dal settimanale ‘Left’, il regista Marco Bellocchio attacca lo stato del cinema in Italia: «Oggi è molto peggio di qualche anno fa. Io, per esempio, oggi non potrei fare ‘L’ora di religione’, non me lo lascerebbero fare». Per il regista che sta ultimando ‘Vincere’ «il cinema oggi è totalmente dipendente dalla tv, che ogni tanto elargisce qualcosa ma pretende, con il suo orrendo conformismo, di imporre il suo linguaggio. Oggi in Italia c’è una dittatura democratica». Contattata dal ‘Giornale’, Caterina d’Amico, amministratore delegato di Rai Cinema che ha coprodotto diversi film del regista, tra cui anche ‘Vincere’, ha dichiarato: «Sono sbalordita. Davvero non mi pare di aver esercitato, né su di lui né su altri registi che lavorano per noi, un “orrendo conformismo”.
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Prima comunicazione on line 2.3.09
CINEMA: BELLOCCHIO, DA TV PUBBLICA MASSIMO SOSTEGNO E LIBERTA’
(AGI) - Roma, 2 mar. - “Sono colpito dall’uso che si e’ fatto delle mie parole nei giornali, estrapolando brani di un ragionamento piu’ ampio”. Lo dice Marco Bellocchio che sottolinea come il discorso di una sua intervista rilasciata a un settimanale e ripresa dalla carta stampata, “in cui mi si attribuisce l’affermazione: ‘Il cinema oggi e’ totalmente dipendente dalla tv, che ogni tanto elargisce qualcosa, ma pretende, con il suo orrendo conformismo, di imporre il suo linguaggio. Difficile trovare spazi di liberta”, riguardava il linguaggio che la televisione, di tutto il mondo, tende a omologare”. Bellocchio continua dicendo che “Chi ci ha voluto leggere qualcosa di critico in merito al mio rapporto con Rai Cinema e’ in malafede. Tanto e’ vero che io sono stato libero di scrivere e girare ‘Vincere’ che Rai Cinema, la tv pubblica quindi, ha prodotto con entusiasmo e dandomi il massimo sostegno e liberta’ d’espressione. Per quanto riguarda ‘L’ora di religione’ non credo di aver detto letteralmente che ‘oggi non mi lascerebbero fare questo film’ ma mi riferivo a un clima generale nel Paese dove mi sembra piu’ a rischio una visione laica della vita che e’ necessario assolutamente salvaguardare”. (AGI) Red/Cau
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Irispress.it 2.3.09
MARCO BELLOCCHIO SMENTISCE INTERVISTA
(IRIS) - ROMA, 2 MAR - Marco Bellocchio smentisce la rivista 'Left' e 'Il Giornale': "Sono colpito
dall’uso che si è fatto delle mie parole nei giornali, estrapolando brani di un ragionamento più ampio. Il discorso nell’intervista rilasciata a 'Left' (in cui mi si attribuisce l’affermazione: “Il cinema oggi è totalmente
dipendente dalla tv, che ogni tanto elargisce qualcosa, ma pretende, con il suo orrendo conformismo, di imporre il suo linguaggio. Difficile trovare spazi di libertà”), riguardava il linguaggio che la televisione, di tutto il mondo, tende a omologare. Chi poi ci ha voluto leggere qualcosa di critico in merito al mio rapporto con Rai Cinema è in malafede. Tanto è vero che io sono stato libero di scrivere e girare 'Vincere' che Rai Cinema, la tv pubblica quindi, ha prodotto con entusiasmo e dandomi il massimo sostegno e libertà d’espressione.
"Per quanto riguarda 'L’ora di religione' - continua Belloccchio - non credo di aver detto letteralmente che 'oggi non mi lascerebbero fare questo film' ma mi riferivo a un clima generale nel Paese dove mi sembra più a rischio una visione laica della vita che è necessario assolutamente salvaguardare".
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