martedì 3 marzo 2009

l’Unità 3.3.09
Testamento biologico
Ddl del governo contro la Costituzione
di Tania Groppi, Università di Siena


Altro che testamento biologico. Uno dei problemi del disegno di legge all'esame del Senato è che non solo e non tanto di testamento biologico si tratta.
Infatti, con questo testo si pretende di disciplinare, in tutti i suoi aspetti, la fine della vita. E lo si fa determinando un arretramento, incostituzionale, rispetto a principi finora pacifici.
Non è vero che ci sia un vuoto giuridico sul "fine vita" nel nostro ordinamento. Il diritto non coincide per intero con la legge: nel silenzio di questa esistono principi di ordine costituzionale, internazionale, deontologico e giurisprudenziale che hanno raggiunto da anni una serie di punti fermi.
E' ormai riconosciuto il diritto al rifiuto di trattamenti sanitari, anche di sostegno vitale, da parte del soggetto capace di intendere e di volere. In conseguenza del principio del consenso informato. Il fondamento sono gli artt. 13 e 32 della Costituzione e l'art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, trasfusi poi nel Codice di deontologia medica, in pareri del Comitato di bioetica, nella giurisprudenza della Cassazione. Ciò significa che il paziente può rifiutare qualsiasi trattamento, anche necessario a mantenerlo in vita.
Esiste, in definitiva, un principio di "disponibilità condizionata" del bene vita, che esclude sia un generale diritto di morire, sia un'assoluta indisponibilità della propria esistenza.
Ebbene, il disegno di legge rimette in discussione anche questo aspetto. Altro che disciplina del testamento biologico! Qui si pretende di coartare la volontà, attuale e presente, di chi è perfettamente capace.
Il diritto alla vita viene definito "indisponibile" fin dall'art.1 del testo, per stabilire poi che il medico, anche se il paziente rifiuta, debba comunque procedere ai trattamenti necessari a mantenerlo in vita: attaccarlo a un respiratore artificiale, praticare una trasfusione, amputare un arto…
Si tratta di una disciplina che non solo determina un arretramento, ma è palesemente incostituzionale. Essa viola l'art.32, comma 2, della Costituzione, secondo il quale "nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge", legge che non può "in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana". E' difficile negare che imporre a un malato con la forza trattamenti che lo tengono in vita contro la sua volontà, del tutto ingiustificati da istanze di salute pubblica, sia in contrasto con la dignità della persona. Ancora una volta, non resta che prendere atto della lucidità dei Padri Costituenti e della miopia dei nostri attuali legislatori. Se questa è la voce del Parlamento, meglio il silenzio.

Repubblica 3.3.09
Fine-vita, la sfida dei cattolici del Pd
Emendamento per gettare un amo al Pdl. Fioroni: "Va migliorata la linea prevalente"
di Giovanna Casadio


ROMA - I cattolici del Pd si smarcano. Hanno preparato un emendamento al testamento biologico che dovrebbe avere come prima firmataria Dorina Bianchi, la senatrice capogruppo in commissione Sanità. Colloqui, incontri, mail, un grande lavorio per tenere insieme l´ala cattolica dei Democratici � ex Ppi e rutelliani, 36 in tutto, un terzo del gruppo - ma anche per battere un colpo dentro il partito e, sostengono, per gettare un amo dall´altra parte, nel centrodestra. Beppe Fioroni, il leader dei Popolari, afferma: «Cerchiamo di migliorare l´orientamento prevalente del partito». Detto in altri termini, una correzione di rotta.
È sempre la questione della nutrizione e dell´idratazione forzata a scompaginare i fronti. Il "caso Eluana" ha mostrato che quello è il confine estremo delle scelte sul fine-vita. E quindi nel merito, due le ipotesi a cui i cattolici del Pd stanno pensando e che rappresentano una "terza via", vicina (ma non sovrapponibile) alla proposta di Rutelli. Stabilito che alimentazione e idratazione sono sostegno vitale, nelle situazioni gravi terminali la decisione va affidata al paziente (o al fiduciario nel caso non possa più esprimere la sua volontà) e al medico. Oppure, l´emendamento potrebbe «circoscrivere la sospensione di idratazione e alimentazione nei casi in cui ci sia morte corticale». Anche Franco Marini si sta impegnando per cercare una posizione comune nelle file democratiche, dove la linea prevalente è stata quella di prevedere l´obbligo del sondino a meno che nel biotestamento non sia espressa volontà contraria. I cattolici da Rutelli a Marini non ci stanno, con diversa intensità di dissenso. Rutelli è disposto allo strappo nel partito, l´ha già detto e fatto, e punta al confronto con il centrodestra; gli ex Popolari, anche quelli vicini al segretario Dario Franceschini, sono per una strada che isoli i pasdaran del centrodestra - per cui idratazione e alimentazione sono obbligatori qualsiasi sia la volontà della persona - e scompigli il già diviso campo avversario. Daniele Bosone, Popolare del Pd, ha tentato di fare breccia con una proposta di modifica del testo di Raffaele Calabrò, relatore del Pdl. Tentativo già fallito. Calabrò chiude: «Non ci siamo, così si valica il limite oltre il quale per noi c´è il suicidio assistito». Gaetano Quagliariello, il vice capogruppo Pdl è più possibilista e rimanda alle indicazione del Comitato di bioetica del 2005. Emanuela Baio, che a sua volta media tra i cattolici Pd, dà l´alt alla «linea troppo semplificatoria del partito: un modo manicheo con cui si è affrontato il testamento di fine-vita».
Ma oggi il primo atto della partita politica sul biotestamento è in Senato sui tempi di discussione e di voto. Calabrò annuncia che in aula il disegno di legge andrà per metà marzo, non prima. Anna Finocchiaro, presidente dei senatori democratici, avverte: «Il Pdl vuole scappare ma noi non glielo consentiremo». Non consentono i Democratici un rinvio a tempo indeterminato. La riunione dei capigruppo di stamani potrebbe fissare l´aula per il 19 di marzo e intanto oggi cominciare in commissione il voto sugli emendamenti già presentati. Sempre che la commissione Affari costituzionali dia il via libera al testo Calabrò.

il Riformista 3.3.09
Sul fine-vita si va verso il rinvio
di Alessandro Calvi


Oggi con tutta probabilità si deciderà il rinvio. Qualche giorno, non di più. Il ddl sul testamento biologico dovrebbe arrivare in aula entro una, forse due settimane. Se infatti il Pdl ora è orientato a prendersi più tempo del previsto, nel Pd un rinvio non è considerato un dramma ma soltanto se il Pdl fornirà una data certa. Altrimenti non se ne fa niente.
Sul contenuto il Pdl non intende fare passi indietro. Stando alle parole di chi è al lavoro sul dossier, seppure qualche emendamento cambierà il volto del testo Calabrò - cosa che alla fine avverrà - non dovrebbe esserci nessun arretramento sulla linea di trincea: la nutrizione e l'idratazione rimarranno obbligatorie. E questo, nonostante il successo della proposta "terzista" di Francesco Rutelli. Quanto all'emendamento proposto da Daniele Bosone, ultima novità in ordine di tempo, nel Pdl non sembrano avere fretta e, anzi, si minimizza, facendolo rientrare tra le tante proposte che «stanno uscendo fuori in questi giorni in continuazione».
D'altra parte, va detto che la battaglia sul fine-vita in questa fase si combatte su un altro fronte, quello dei tempi dell'arrivo in aula del testo. Il Pdl, dopo essersi mostrato compatto per molto tempo, sta ora facendo i conti con una serie di strappi, come quello dei 53 parlamentari pro-vita o di Giuseppe Pisanu. Per questo, se il Pd chiede tempi rapidi e certi, al Pdl non dispiacerebbero più rilassati. «Una settimana in più o in meno non cambia ma non consentiremo alla maggioranza di scappare», diceva ieri Anna Finocchiaro, prendendosi una serie di risposte piccate dal fronte opposto. Ma, è il ragionamento che si fa nel Pd, il Pdl chiede tempo per discutere ancora e però non può tornare indietro su idratazione e nutrizione. Se dovesse accadere, sarebbe una vittoria per il Pd e una sconfessione del ddl Calabrò. In questa prospettiva, le proposte di Rutelli e Bosone sono politicamente importanti - come tutti hanno riconosciuto - ma potrebbero anche rivelarsi grimaldelli con i quali far esplodere definitivamente le contraddizioni che stanno emergendo nel fronte opposto. Difficile che ciò avvenga, l'ala pro-vita del Pdl fa buona guardia su questo punto. Ma è naturale che il Pd - al quale ieri Pierferdinando Casini ha fornito una sponda - ora chieda una data certa, lasciando il pallino nelle mani del Pdl che deve decidere come giocarlo senza spaccarsi definitivamente né ora né quando il testo arriverà in aula. Davvero una operazione non facile.

il Riformista 3.3.09
Boetica e cornetti
Perché la libertà non è più di moda
di Ritanna Armeni


L'impressione è che quel valore, usato in passato anche con non innocente spregiudicatezza, non sia più apprezzato

L'ultimo disegno di legge promosso dal nostro consiglio dei ministri è stato giudicato da molti un attacco alla libertà di sciopero. Una delle più controverse e difficili leggi degli ultimi anni, quella sul testamento biologico, prevede un intervento dello Stato nel momento della morte ritenuto lesivo della libertà dei singoli. Non si tratta di due leggi qualsiasi, esse riguardano momenti importanti della libertà individuale e di quella collettiva. Ma non sono le sole a porre il problema della limitazione delle libertà. Un esame delle leggi e dei provvedimenti varati o minacciati o, magari, solo in discussione in questi ultimi anni mostra questo segno inequivocabile. Si ha l'impressione che qualunque problema si debba risolvere, da quelli che riguardano la bioetica e quelli inerenti il disagio sociale, l'unica soluzione di chi ci governa è il restringimento delle libertà personali e collettive.
Non credo che sia solo colpa di un governo di centro destra anche se certamente ad esso e a quello schieramento che - ironia della sorte e della politica - si chiama Popolo delle libertà, si devono ovviamente molte di queste leggi e di questi provvedimenti. Mi riferisco a una temperie culturale che il governo interpreta, manifesta e potenzia, ma che ormai riguarda un po' tutti, intellettuali, giornalisti, classe dirigente ampiamente intesa. L'impressione è insomma che il valore della libertà, usato in passato anche con non innocente spregiudicatezza, nei primi anni del terzo millennio non sia più così apprezzato. Potremmo dire un po' frivolamente "non è più di moda".
E come spesso accade la dimostrazione di questo non sta tanto e solo nelle grandi decisioni della vita pubblica, dove pure è evidente, ma nelle migliaia di piccole restrizione della libertà che avvengono nella vita quotidiana. Sono le vessazioni minime, le proibizioni apparentemente insignificanti che danno il segno che un valore perde peso nella società e nella cultura dominante. Che cosa c'è di importante nella proibizione di vendere i cornetti di notte? È un fatto apparentemente insignificante. Ma a questo si aggiunge la proibizione di bere birra in piazza, come tempo fa ha ordinato il sindaco di una importante città, di sostare in più di due di notte in un parco pubblico come dice l'ordinanza di un altro sindaco, si proibisce ai mendicanti di sostare sui marciapiedi, si pensa di proibire il fumo nei parchi se ci sono donne incinte, si vieta ai poveri di frugare nei cassonetti. Decine, forse centinaia di ordinanze, leggi e leggine che mandano un messaggio chiaro: il valore della libertà ha perso peso al punto che può essere calpestato anche a costo di cadere nel ridicolo. A Roma non si può mangiare un panino sotto un albero, scriveva qualche tempo fa il quotidiano britannico The Independent.
Naturalmente i calpestatori non sono così maldestri da affermare che la libertà ha poco o nessun valore. Si preferisce dire che colpendo le libertà di alcuni si difende quella di molti, che essa nella società moderna è diventata spesso arbitrio e che non è un valore assoluto, come altri, la vita per esempio.
Mi stupisce che sia la seconda delle grandi parole della rivoluzione francese, ad essere messa in mora e a perdere valore.
Qualche decennio fa è toccato alla parola "eguaglianza", privata di forza e persino derisa. È degli anni ottanta la grande offensiva contro di essa. Eguaglianza diventò egualitarismo ed appiattimento. Ad essa si contrapposero merito ed efficienza. E - paradossi della storia e delle ideologie - appunto la libertà. Libertà di intraprendere, di cambiare lavoro, di crescere, di essere diversi. Anche allora uno o più governi, uno o più partiti interpretarono e potenziarono una tendenza culturale che invase la società. Anche allora la politica fu ironica così che uno dei più convinti demolitori del valore dell'eguaglianza si chiamava partito socialista. E fu un governo diretto da Bettino Craxi a demolire quello che veniva considerato il moloch della eguaglianza, il sistema di adeguamento automatico dei salari al costo della vita, la scala mobile.
C'è da chiedersi quanto tempo resta a un mondo che cerca di costruire la sua coesione culturale e sociale sulla limitazione della libertà. Quando ci accorgeremo con orrore che dobbiamo fare marcia indietro. Mi auguro fra breve. Le tre parole della rivoluzione francese, libertà, eguaglianza e fraternità, hanno rappresentato in oltre duecento anni della storia del mondo la barra per definire cosa è giusto nella vita pubblica e privata, la base del vivere sociale l'ha definita Giovanni Paolo II, che non aveva paura evidentemente di richiamarsi a quella rivoluzione. Negli ultimi decenni invece è proprio la borghesia che da quella nacque a metterla in discussione. E quella rivoluzione (non quella russa e neppure quella cinese) a fare paura, a non essere più riconosciuta.
Ps. La terza parola, fraternità, la più negletta e trascurata. Oggi tradotta e ridicolizzata in buonismo o solidarismo incosciente. Ad essa si contrappone la parola egoismo. Ma quest'ultimo è molto praticato e, per mancanza di coraggio, poco pronunciato.

l’Unità 3.3.09
Gelmini insiste. Resta il maestro unico nonostante la scelta dei genitori per il tempo prolungato o pieno
I sindacati accusano: «Con i tagli migliaia di licenziamenti»
300mila bimbi non avranno il tempo prolungato
di J.B.


Le scelte delle famiglie per la scuola dei loro figli non saranno soddisfatte dal ministero
I sindacati: la conferma che il governo doveva ascoltare le proteste

Saranno circa 300mila i bambini che non potranno usufruire dell’offerta di 30 ore settimanali nella scuola primaria. È il calcolo fatto dal mensile “Tuttoscuola” sulla base degli organici previsti dal ministero.

Le iscrizioni hanno dimostrato che le esigenze delle famiglie vanno in direzione opposta a quella decisa e imposta dal governo
Il 34% delle famiglie (dunque oltre 170 mila alunni) ha scelto le 40 ore, il 56% (oltre 286 mila) le 30 ore. «Sfiduciata» la riforma Gelmini.
il 3% (oltre 15.000 famiglie) ha optato per le 24 ore, il 7% (più di 35 mila) per le 27, ovvero quello che veniva sponsorizzato dal ministero.
I bambini che verranno iscritti nell’anno 2009 alla prima elementare saranno circa 500mila, per loro i genitori hanno scelto in stragrande maggioranza un tempo medio-lungo. Fin qui il risultato del sondaggio ministeriale sul significativo campione di 900 scuole. Se questo sondaggio sarà confermato circa 300mila di quei bambini non avrebbero l’offerta formativa rischiesta dai loro genitori. Perché? Perché la definizione degli organici è stata tarata su 27 ore settimanali, una media fra il minimo di 24, le 30 ore del tempo medio, le 40 del tempo pieno. Ma solo il 3% delle famiglie ha scelto le 24 ore, il 7% le 27, il 56% le 30 ore e il 34% le 40 ore.
Quindi il 90% delle famiglie vorrebbe un tempo medio e lungo, solo il 10% ha chiesto gli orari ridotti. Il calcolo lo ha fatto il mensile Tuttoscuola: mantenendo fermo ai livelli attuali - ovvero al 27% - il tempo pieno (come dichiara il ministro)resterebbe disponibile solo il 3 per cento di posti a 30 ore settimanali. La gran parte delle famiglie dovrebbe accontentarsi delle 27 ore settimali. Ma non basta, per i sindacati della scuola quelle richieste sono anche la dimostrazione che i genitori apprezzano e vogliono le classi a moduli, che quelle richieste sono la dimostrazione del fallimento della proposta del maestro prevalente. Il maestro prevalente, infatti, significa, sottolinea Mimmo Pantaleo della Flc Cgil «La riduzione delle compresenze, non ci sarebbe più il team degli insegnanti, che ha funzionato e dato buona prova di sé». «Andiamo incontro - sostiene il sindacalista - a migliaia di licenziamenti, soprattutto di precari, la scuola non funzionerà più e i genitori se la prenderanno con gli insegnanti».
E, infatti, il ministro Gelmini - sostenuta dal solo Moige - insiste: «Il maestro unico c'è, indipendentemente dal quadro orario scelto. Esiste nelle 24, 27 e 30 ore. Credo che il cosiddetto modulo, la presenza di più insegnanti nella stessa classe, non abbia portato buoni risultati». Anzi, il ministero ha dato conferma dell’approvazione, da parte del consiglio dei ministri del regolamento che introduce per il prossimo quinquennio il modello a maestro prevalente nelle 24,27, 30 e 40 ore.
Non la pensa così Mimmo Pantaleo per il quale se il ministero non vuole deludere le scelte compiute dalle famiglie «Deve rivedere i regolamenti e la formazione degli organici». I genitori sanno, perché era indicato nel modulo della scelta, che la loro richiesta è subordinata alle possibilità e disponibilità, e tuttavia la richiesta è così massiccia che dovrebbe indurre a un ripensamento, «Gelmini ammetta che è stato un errore» insiste, per esempio rino Di Meglio del Gilda: «Se il ministro avesse ascoltato le centinaia di migliaia di docenti che il 30 ottobre sono scesi in piazza, avrebbe evitato di commettere questo grave errore».
Il ministro Gelmini «rispetti l’autonomia delle scuole», chiede il segretario generale della Cisl scuola, Francesco Scrima. «Incurante del giudizio chiaramente espresso dalle famiglie, il ministro insiste sul maestro unico, e lo vorrebbe estendere a tutti i modelli orari. Siamo alla pseudo pedagogia di Stato».
L’ex ministro all’istruzione Giuseppe Fioroni: «Non servono artifici tecnici o false verità, i genitori si aspettano le 30 ore, con la mensa e la compresenza, e si aspettano il tempo pieno e non il doposcuola». Ma: «Senza soldi e con la demagogia non si educano i nostri figli. tutti sanno che la scuola elementare non sarà più l’espressione di un progetto educativo, ma un ritorno al peggio del nostro passato».
Sul tempo scolastico, ieri, anche le regioni si sono mosse. Maria Stella Gelmini ha dato forfait ad un incontro in Veneto a Abano Terme, con i sindaci e l’assessore regionale Donazzan. «Il vero ministro è Giulio Tremonti - attacca Andrea Ferrazzi, vicepresidente della Provincia di Venezia - Lo stesso Tremonti, aveva detto che questa scuola elementare ai primi posti a livello mondiale, non ce la possiamo permette». Nel Lazio i tagli all'organico previsti saranno tra le 3 mila e le 3.500 unità, di cui 1.300-1.800 solo nella primaria, senza contare i tagli a bidelli e personale di sorveglianza, denuncia l’assessore regionale Silvia Costa. E l’assessore toscano Simoncini: «Una scelta giustificata esclusivamente da una logica di risparmio che impoverisce la scuola e acuisce disparità e disagio».

Corriere della Sera 3.3.09
Scuola Il ministero ridimensiona l'allarme: faremo il possibile
Lite sulle Elementari «A rischio le scelte di 250 mila famiglie»
Tuttoscuola: troppe domande per le 30 ore
di Giulio Benedetti


L'opposizione: la prova del fallimento del maestro unico. Gelmini: modello confermato per ogni scelta dei genitori
ROMA — Diciannovemila posti in più nel tempo pieno, ma impossibilità di accontentare 250 mila genitori che hanno scelto per il proprio bambino l'offerta di 30 ore settimanali. Le due notizie, una buona l'altra meno, provengono da «Tuttoscuola » e riguardano le prime elementari che si formeranno a settembre.
A settembre, per la prima volta, il ministero quasi certamente non sarà in grado di garantire l'offerta di orario da sempre più richiesta alle elementari. In passato il calcolo degli organici, cioè il numero delle maestre, è stato fatto tenendo conto di un orario minimo garantito di 30 ore, anche se non sono mancati casi di 27 ore. Dal prossimo anno le cose cambieranno: il monte ore da garantire alle famiglie, con il nuovo regolamento appena approvato dal governo, è infatti sceso da 30 a 27 ore. Una scuola più europea, piu leggera, come sostengono alcuni indicando la Francia dove i giorni di lezione sono scesi a 4, o una scuola sempre più povera come affermano altri? I genitori, per quanto avvisati (l'accoglimento delle 30 ore e delle 40 dipenderà rispettivamente dalla disponibilità degli organici e di locali per la mensa era scritto nei moduli) hanno esercitato il loro diritto di scelta chiedendo in massa (56 per cento) le 30 ore. Una richiesta chiara di tempi medi e lunghi per i propri figli. Un risultato che l'opposizione legge come la bocciatura del maestro prevalente.
Giudizio respinto dalla Gelmini: «Il modello del maestro unico di riferimento si conferma indipendentemente dalla scelta dei genitori». A questo punto bastano due conti: poiché gli iscritti alle prime classi sono oltre 500 mila, più di 250 mila famiglie, il 56 per cento, secondo «Tuttoscuola», dovranno accontentarsi di un orario settimanale con tre ore in meno: 27 invece di 30.
La previsione di «Tuttoscuola » si basa su un sondaggio del ministero. Su un campione rappresentativo di 900 scuole il 3 per cento delle famiglie ha scelto infatti le 24 ore, il 7 le 27, il 56 le 30 ore e il 34 le 40 ore. Questi dati sono attendibili? Lo sapremo tra alcune settimane. Se lo fossero appare chiaro che si va verso un progressivo alleggerimento del tempo scuola. Inizialmente nelle prime e poi, anno dopo anno, in quelle successive. Al ministero i calcoli di «Tuttoscuola» non vengono smentiti ma ridimensionati. Verrà fatto il possibile per accontentare il maggior numero di famiglie che hanno chiesto le 30 ore, dice una fonte vicina al ministro.
Per quanto riguarda il tempo pieno (40 ore), che secondo il sondaggio è stato richiesto dal 34 per cento dei genitori, «Tuttoscuola» prevede un aumento del 2 per cento delle classi che potrebbero passare dalle attuali 34.317 a 35.000, con 19 mila bambini in più rispetto a quest'anno. «Le risorse per il tempo pieno non solo non sono state tagliate — ha spiegato il ministro — ma sono state confermate. E grazie a un migliore impiego, sono aumentate. Quindi, non ci saranno problemi e sarà possibile rispettare il tempo pieno e la scelta delle famiglie».
La polemica sulle 30 ore però continua. Domenico Pantaleo, segretario generale della Flc-Cgil, è molto scettico sulle rassicurazioni: «Appare difficile — ha dichiarato il leader dei lavoratori della conoscenza Cgil — che si possa assicurare al 90 per cento delle famiglie il tempo prolungato con i tagli previsti». Per Francesco Scrima, segretario Cisl Scuola: «Le famiglie giustamente chiedono un tempo scuola più ricco per una scuola di qualità migliore».

l’Unità 3.3.09
Paolo Ferrero: «Sì all’assegno per chi perde il lavoro ma alt sulle pensioni»
Il leader Prc: «L’idea di Franceschini è ottima ma devono pagare i ricchi, come ha fatto Obama»
di Andrea Carugati


Segretario Ferrero, Franceschini propone un assegno per i disoccupati, Berlusconi lo boccia.
«Non mi stupisce, È una logica gravissima eppure coerente: è lo stesso governo che vuole smontare il contratto nazionale di lavoro con l’accordo separato, che vuole scaricare la crisi sui lavoratori».
E la proposta di Franceschini le piace?
«L’idea è ottima. Il problema è come si realizza: Franceschini è rimasto sulle generali, poi Enrico Letta ne ha offerto una versione che non condivido affatto. Propone un nuovo sistema di ammortizzatori che superi la cassa integrazione. Ma così facendo si rischia di ridurre ulteriormente l’assegno per chi già ha diritto alla cig e di deresponsabilizzare le imprese. Trovare i fondi mettendo mano alle pensioni, come dice Letta, è un’idea criminale: vuol dire riaprire una guerra tra poveri, tra giovani e anziani».
Insomma, anche lei la boccia?
«Una strada per svilupparla c’è: bisogna allargare la cassa integrazione a tutto il mondo del lavoro, fino agli artigiani e alle piccolissime imprese. E introdurre un salario sociale per i disoccupati».
Per tutti i disoccupati?
«Con dei criteri, a partire dai carichi familiari. Per finanziarla serve una grande operazione di redistribuzione del reddito, alla Obama. Penso a 5 proposte: tassa patrimoniale sopra i 500mila euro, ripristino della tassa di successione, tassazione delle rendite finanziarie, aumento delle aliquote sopra i 100mila euro di reddito, lotta all’evasione. Penso a una manovra da 1,5 punti di Pil, 15-20 miliardi di euro».
Che effetto le fa vedere Obama che fa piangere i ricchi come voi volevate fare in Italia?
«Lo spostamento delle ricchezze dal basso in alto, in questi 20 anni, ha alimentato la bolla speculativa, senza sostenere i consumi. Ora, per uscire dalla crisi, è necessario spostare ricchezza in senso opposto. Obama fa una cosa razionale e di sinistra. Invece nel Pd si ripropone la guerra tra poveri. Ma se si vuole davvero spingere il governo a fare qualcosa, bisogna ricostruire un blocco sociale, tenere insieme i giovani precari e i pensionati, non metterli l’uno contro l’altro».
Teme un Pd che punta a sinistra e vi contende i voti alle europee?
«Se il Pd si spostasse a sinistra sul serio io sarei felicissimo perché renderebbe la vita più difficile a Berlusconi. Ma non credo che gli annunci a spot spostino molti voti. Voglio vederli andare dagli operai a dire che gli tagliano la pensione per dare qualcosa in cambio al figlio precario».
Col Pd volete allearvi alle amministrative?
«Se si fanno dei buoni programmi sì. Ma a Firenze è impossibile».
A Bologna vi siete divisi su questo dentro il Prc...
«In realtà alcuni dei nostri non volevano neppure andare a vedere le carte del Pd. Se c’è una discontinuità netta con Cofferati si può ragionare, altrimenti no. Se il Pd fa politiche securitarie noi non ci stiamo».
È sicuro che le politiche di sicurezza siano “il male”?
«No di certo, ma le ronde e la guerra ai lavavetri sono risposte sbagliate. E alla fine Penati sta più a destra di Pisanu e insegue la Lega sul suo terreno».
Con il Pd di Franceschini sarà più facile per voi dialogare?
«Se cominciano a fare opposizione al governo, a Confindustria e, quando serve, anche al Vaticano è possibile. Ma con un Pd più a destra di Obama sarà molto difficile allearsi».

Corriere della Sera 3.3.09
Il leader «movimentista» per farsi preferire a Bersani al congresso e aumentare i consensi
Franceschini e la strategia «cattura ex ds»
di Maria Teresa Meli


ROMA — I sondaggi parlano chiaro. Con le dimissioni di Walter Veltroni il Pd, che nelle settimane precedenti aveva lentamente recuperato, ha perso due punti. E dopo non è che sia andata meglio. La flessione continua e il Partito democratico è ridotto al suo «zoccolo duro». Insomma, veleggia intorno al 22 per cento.
È con queste assai poco gratificanti percentuali che Dario Franceschini deve fare i conti. Per questa ragione il segretario sembra essersi spostato a sinistra. In realtà così non è. O meglio così è solo fino a un certo punto. C'è tutto un elettorato che intende astenersi alle elezioni europee e che è fatto di ulivisti, dipietristi, girotondini, e, naturalmente, di ex diessini delusi. Sono loro che Franceschini vuole coinvolgere. Del resto, lo ha ammesso lui stesso: «Dobbiamo spiegare che non è il momento dell'astensionismo, che adesso non si può fare un passo indietro. Dobbiamo evitare che le prossime Europee diventino una vittoria della destra». Insomma, Franceschini tenta di svegliare l'elettorato del Pd nell'unico modo possibile: presentandosi come il campione dell'antiberlusconismo. E la proposta degli assegni ai disoccupati va in questa direzione: dimostrare che il premier non è assolutamente in grado di gestire una crisi economica di questa gravità.
Dunque, niente accordi con il Cavaliere, anche se la situazione economica è pesante e magari consiglierebbe un tentativo di confronto tra maggioranza e opposizione. D'altra parte, se non si fosse dimesso, Veltroni avrebbe adottato questa identica strategia: era stato già deciso con lui segretario che era l'unica chance per guadagnare qualche voto. L'illusione della corsa al centro è finita ormai da un bel po'. Lo ha lasciato ampiamente intendere anche Massimo D'Alema. E c'è un altro motivo per cui Franceschini si comporta in questo modo: è un ex dc che deve convincere gli ex diessini a votarlo. E, magari, al Congresso di ottobre, a preferirlo a chi viene dalla loro storia, come Pierluigi Bersani, il cui grado di popolarità è il più alto di tutti i leader del Pd. Più di D'Alema, più di Fassino, più di Franceschini. Ma questa è una partita successiva, che il segretario potrà giocarsi solo se il risultato elettorale di giugno glielo consentirà.
Quali reazioni sta suscitando all'interno del Pd il «movimentismo» di Franceschini? Un altro ex dc come lui, Beppe Fioroni, che ha dovuto cedere la guida dell'organizzazione agli ex Ds per riequilibrare i rapporti di forza dentro il partito, fa mostra di non essere preoccupato. Però qualche segnale lo manda: «Non temo che Dario trascuri la nostra area — dice — e del resto noi non ci facciamo trascurare. Nel Pd non può essere trascurata nessuna anima e questa è l'unica carta per riuscire a fare il segretario. Comunque sui temi come l'ingresso nel Pse e il testamento biologico non ho dubbi su Franceschini...». Un atto di fede o un messaggio all'indirizzo del segretario? Per il resto c'è chi approfitta della linea presa dal segretario per «scartare» e ritagliarsi un proprio ruolo. È il caso di Enrico Letta che ha proposto al governo lo scambio «riforma pensioni- riforma ammortizzatori sociali». O di Francesco Rutelli, che spazia dai centristi ai radicali, perché, spiega l'onorevole Gianni Vernetti, «non si vuole far appiattire nel ruolo dell'ultrà cattolico: quel che gli interessa è dimostrare che il Pd è un partito riformista e non socialdemocratico e perciò lui si pone come punto di coagulo di chi non viene dagli ex ds». Comunque sono in tanti a scommettere che a urne chiuse anche Franceschini abbandonerà la linea attuale. D'altra parte non è proprio lui il primo leader del Pd a mettere in segreteria un esponente vicino all'Opus Dei, come Peppino Lupo, sindacalista siciliano della Cisl?

Corriere della Sera 3.3.09
Drammatizzare la crisi. Offensiva democratica per il voto europeo
di Massimo Franco


Obiettivo duplice: recuperare voti e intaccare il consenso del premier

La campagna elettorale del Pd per le Europee di giugno sta cominciando a prendere forma. Scommette su un aggravamento rapido della crisi economica. E lo addita per accusare il governo di sottovalutare i problemi, o addirittura di nasconderli. L'obiettivo è doppio: recuperare un elettorato di centrosinistra sbandato, e scalfire la popolarità più o meno intatta di Silvio Berlusconi. L'offensiva del segretario Dario Franceschini sull'indennità di disoccupazione per tutti nasce da questa sfida sul disastro che starebbe arrivando: una sorta di verità alternativa alle parole rassicuranti del premier e alle scelte del ministro dell'Economia, Giulio Tremonti.
Palazzo Chigi continua a spiegare anche nei vertici internazionali che le difficoltà italiane sono minori rispetto ad altri Paesi; e che le misure predisposte consentiranno di ammortizzare le tensioni sociali. Anche per questo la proposta di un'indennità per chi rimane senza lavoro è stata respinta come demagogica e «impraticabile». Ma l'opposizione contesta la tesi berlusconiana. Elenca le aree di crisi, dall'aeroporto milanese di Malpensa a Prato. «L'operazione di Berlusconi è di impedire che si senta la crisi », protesta Franceschini. «Addirittura di negarne l'esistenza».
Il centrosinistra, invece, la drammatizza. Evoca un deserto occupazionale ed un governo insensibile, che metterebbe a rischio la tenuta non solo economica. Senza rimedi immediati, martella, si va incontro a proteste che sarebbe colpevole sottovalutare. La paura più diffusa e palpabile riguarda ormai la disoccupazione; e le stime più pessimistiche parlano di circa due milioni e mezzo di licenziamenti nel 2009. Ecco, allora, materializzarsi lo spettro di una «sindrome da Est europeo», con manifestazioni di piazza come quelle avvenute, appunto, in alcuni dei Paesi ex comunisti più disastrati.
Si tratta di uno scenario apocalittico, che gli avversari di Berlusconi sembrano considerare probabile, se non inevitabile. L'esecutivo ha stanziato fondi tutt'altro che irrisori: circa 16 miliardi di euro nel 2009, ricorda il ministro Maurizio Sacconi. Ma l'opposizione sembra convinta che i tempi della crisi saranno più veloci di quelli necessari per distribuire gli aiuti; e concentra le sue critiche sull'attesa di un cortocircuito pericoloso. Il tentativo è di attribuirne fin d'ora la responsabilità non ad una situazione finanziaria globale che dà i brividi, ma soprattutto all'inettitudine o alla reticenza del governo: anche se per il momento la manovra non sembra dare i risultati sperati.
Finora, infatti, i sondaggi tendono a mostrare che l'immagine del presidente del Consiglio risente relativamente del peggioramento dell'economia. Al contrario di altri governi, come quello del francese Nicolas Sarkozy, in calo nei sondaggi, il consenso di cui Berlusconi è beneficiario non viene intaccato. La previsione del Pd è che di qui al voto europeo la situazione sia destinata a cambiare sotto la spinta drammatica dei dati economici; e che palazzo Chigi diventerà il parafulmine naturale dell'apprensione dell'opinione pubblica. Il calo del Prodotto interno lordo dell'1 per cento nel 2008 conforta le previsioni più preoccupate. Rimane da vedere se basterà a rendere il Pd più credibile agli occhi dei suoi elettori.

Repubblica 3.3.09
Le profezie di Keynes
in libreria una lezione dell’economista con un commento di guido rossi
Il mondo possibile dei nostri nipoti
di Guido Rossi


Un fronte comune tra Occidente e Oriente contro le disuguaglianze in grado oggi di scongiurare le bolle speculative
Durante la Grande Crisi auspicò una regolamentazione finanziaria mondiale che appianasse gli squilibri

Anticipiamo parte del testo di pubblicato accanto a una lezione di John Maynard Keynes del �28: ambedue intitolati "Possibilità economiche per i nostri nipoti" (Adelphi, pagg. 52, euro 5,50) in questi giorni in libreria
A Keynes si deve sempre tornare - se non alle sue profezie, alle sue terapie. In particolare, la crisi dei subprime mortgages, che ha dato l´avvio a un crollo del sistema finanziario di cui è oggi impossibile definire le esatte dimensioni, o le probabili ripercussioni, fa tornare d´attualità una questione molto importante nel pensiero keynesiano, e cioè la domanda se sia giusto o legittimo pagare un interesse sul denaro preso a prestito. Già nelle ultime pagine della Teoria generale Keynes aveva previsto la possibilità che il venir meno della scarsità del capitale riducesse i tassi di interesse, provocando «l´eutanasia del rentier». E´ un dilemma antico (...) e generalmente ignorato, ma che oggi, improvvisamente, appare irrisolto: oggi, improvvisamente, spostare il centro dell´economia dal capitale al lavoro non sembra più utopico, e nemmeno impossibile. La ricchezza delle nazioni, appare evidente, non si costruisce sul denaro, sugli interessi di mercato o sull´ingegneria azionaria (...): si misura sulla capacità dell´uomo di apprendere, e di applicare le sue conoscenze ai procedimenti di produzioni e di consumo. Di conseguenza il prodotto del denaro, cioè l´interesse, dovrebbe essere commisurato alla produttività del lavoro, anziché a un mercato retto dall´azzardo, e dall´azzardo oggi distrutto.
Fino a pochissimo tempo fa, il feticcio della liquidità come unica fonte di ricchezza avrebbe sbarrato la strada a qualsiasi discorso di questo genere, ma oggi si comincia a capire cosa succederà domani, quando qualcuno (o più di qualcuno) pretenderà di incassare strumenti finanziari come i credit default swaps - per chi non li conoscesse, si tratta di titoli che costituiscono vere e proprie «scommesse» senza regole né rete sull´inadempienza di enti pubblici e privati nel rimborso dei propri debiti - mettendo a rischio un giro di affari virtuale, ma che ammonta a più di 62 trilioni di dollari (...). «Il decadente capitalismo internazionale, eppure individualistico, nelle cui mani siamo finiti, non è un successo. Non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso - e non fornisce nessun bene». Keynes lo scriveva nel 1933 su The New Statesman and The Nation dell´8-15 luglio. E stavolta aveva ragione. (...)
Prima o poi, il fenomeno che ci siamo abituati, in mancanza di meglio, a chiamare globalizzazione richiederà una gestione, un controllo altrettanto globali. (...) Questo postula una sorta di Commonwealth che non sembra alle viste, ma che se venisse istituito in una forma qualsiasi non potrebbe (non potrà) non affrontare precisamente quei problemi (la disoccupazione, lo squilibrio fra Nord e Sud del mondo, l´ambiente) che oggi vengono con sconcertante regolarità accantonati in nome di una superiore ragione economica (...).
E un cambiamento di agenda di queste proporzioni porrebbe il problema (che in effetti comincia a porsi) di rivoluzioni solo in apparenza impensabili, a cominciare dall´avvento di una valuta globale. Non sarebbe in fondo nulla di così diverso dai certificati aurei internazionali che Keynes, durante la tempesta degli anni Trenta, proponeva di emettere e distribuire simultaneamente a tutti i Paesi, a condizioni diverse per ciascuno, con lo scopo di rivitalizzare il potere d´acquisto, consentendo il pagamento dei debiti e la ripresa del commercio internazionale. Se dovesse realizzarsi, questo fronte comune fra Occidente e Oriente contro diseguaglianze e conflitti creerebbe le condizioni per qualcosa di molto, molto simile alla fine dell´economia classica (e, oggi possiamo dirlo, anche moderna, e postmoderna) invocata da Keynes.
Da dove può cominciare, una rivoluzione di queste proporzioni? Senza andare troppo lontano, proprio dalle linee d´intervento proposte da Keynes a Bretton Woods (quella vera, del 1944), che gettavano le basi sia di un nuovo sistema di regolamentazione finanziaria mondiale sia di una politica monetaria internazionale tesa a scongiurare tanto i «credit booms», quanto gli «asset bubbles», cioè l´espansione incontrollata del credito, e più in generale le bolle speculative sui beni, immobiliari, energetici o alimentari che fossero.
La fenice dello sviluppo economico contemporaneo sta bruciando su un rogo che si è accesa da sola. Ciò che nascerà dalle sue ceneri dovrà essere molto diverso dal capitalismo come lo abbiamo fin qui conosciuto (...). Che cosa sarà non è ancora chiaro, ma nel pensarlo possiamo in un certo senso permetterci più utopia di quanta se ne sia concessa Keynes. Dopotutto il suo mondo era più piccolo del nostro, e l´unico risultato che i suoi nipoti - cioè noi - hanno ottenuto è di renderlo più grande e più instabile. Ma anche meno limitato, più aperto. Questa apertura sembra oggi l´unica possibilità economica che i nostri nipoti, essendone capaci, avranno modo di sfruttare.

Repubblica 3.3.09
Non solo un tecnico pragmatico
È ancora lui il terapeuta
di Federico Rampini


E´ un Keynes insolito quello che l´Adelphi rivela pubblicando il discorso Possibilità economiche per i nostri nipoti con un commento di Guido Rossi. Non stupisce solo per l´attualità dei giudizi formulati ottant´anni fa. Siamo ormai costretti a rivisitare la Grande Depressione degli anni Trenta per capire il nostro presente, e il grande economista britannico ne rimane l´analista-terapeuta più autorevole. Sembrano scritti oggi quei passaggi datati 1928-1930: «Ci troviamo a soffrire di una forma virulenta di pessimismo economico. E´ opinione comune che il progresso economico sia finito per sempre; che il miglioramento del tenore di vita abbia imboccato una parabola discendente; che per il prossimo decennio ci si debba aspettare un declino della prosperità».
E´ singolare la preveggenza con cui mette a fuoco la disoccupazione tecnologica («il lettore ne sentirà molto parlare negli anni a venire»). Sorprendente, e poco nota, è la sua dimestichezza con Freud e la psicanalisi, i cui strumenti interpretativi applica con disinvoltura all´economia: Guido Rossi ricorda le affermazioni dell´economista sulla pulsione «sadico-anale» insita nella bramosía capitalistica di profitto. La dimensione più inedita in assoluto è quella del Keynes visionario, sognatore, idealista, che qui viene alla luce. Staccandosi per un attimo dalle preoccupazioni del presente, il grande intellettuale élitario del circolo Bloomsbury e l´ispiratore del New Deal disegna un futuro in cui «l´amore per il denaro sarà, agli occhi di tutti, un´attitudine morbosa e repellente». Immagina una società fondata su valori più solidi, dove cammineremo spediti sui sentieri della virtù e della saggezza. «Dobbiamo tornare a porre i fini avanti ai mezzi, ad anteporre il buono all´utile. Dobbiamo onorare chi può insegnarci a cogliere meglio l´ora e il giorno, quelle deliziose persone capaci di apprezzare le cose fino in fondo».
Per arrivare a quello stadio Keynes pone la barra molto in alto, tra le condizioni dell´avvento di una società ideale elenca la pace universale e un perfetto controllo della crescita demografica. Non si fa illusioni sul breve termine ma spiega che sognare è un obbligo, perché «l´utopia appare oggi l´unica possibilità economica che i nostri nipoti possano, essendone capaci, sfruttare». Più dei singoli dettagli, allora, conta il nocciolo duro di questo pensiero che viene catturato e attualizzato da Rossi: ciò che nascerà dalle ceneri della grande crisi del XXI secolo, «dovrà essere molto diverso dal capitalismo come lo abbiamo fin qui conosciuto».
Sta proprio qui l´interesse di questo Keynes riesumato dall´oblìo. Di lui ricordavamo soprattutto il tecnico pragmatico, capace di rovesciare tutta l´ortodossìa economica pur di trovare ricette efficaci per rimettere in moto la macchina paralizzata dello sviluppo. Fu senza dubbio colui che teorizzando il ruolo benefico della spesa pubblica salvò il capitalismo da se stesso, nonché dalla sfida di movimenti rivoluzionari e modelli alternativi: il comunismo sovietico; i capitalismi autoritari e illiberali nel Giappone militarista, nella Germania nazista, nell´Italia fascista. E´ utile scoprire che dietro la prodigiosa fecondità intellettuale di Keynes c´era la capacità di guardare ben oltre la semplice crescita materiale. Le grandi crisi servono a rimettersi in discussione, costringono a osare là dove il pensiero non si era mai avventurato: quella del XXI secolo è ancora in attesa del suo Keynes.

Repubblica 3.3.09
Lo storico Angelo Del Boca: "E adesso costruiamo laggiù inumani centri di detenzione per immigrati"
"Solo soldi, la memoria non c’entra sui massacri neppure una parola"
di Giampaolo Cadalanu


Non mi aspettavo dal Cavaliere un gesto come quello di Brandt al ghetto di Varsavia
Ma se l’accordo è solo economico, tutti quei dollari dati al colonnello sono davvero troppi

Angelo Del Boca non nasconde la sua delusione. Altro che "giornata della memoria" per le vittime delle imprese imperiali fasciste, come lo storico più importante del colonialismo italiano propone da decenni: nel trattato con la Libia non c´è nemmeno il riconoscimento dei crimini commessi in Africa.
Professor Del Boca, come giudica il trattato di amicizia con Tripoli?
«Ho studiato molto bene il trattato, anche con l´amico Nicola Labanca. Non discuto la parte economica, né quella politica, discuto quella "storica". Ho scoperto che c´è appena un accenno di sfuggita al passato. Insomma, l´Italia versa 5 miliardi di dollari, sostanzialmente come indennizzo per i crimini compiuti in trent´anni di presenza in Libia e per i centomila morti provocati, ma nel Trattato non se ne fa riferimento».
Come mai?
«Non so se sia stata una specifica richiesta di Berlusconi o di chi ha discusso la formulazione del trattato, o piuttosto una dimenticanza. Ma quest´ultima ipotesi è davvero improbabile. Gheddafi ha sempre voluto sottolineare l´esigenza di conservare la memoria delle vittime dei massacri italiani. Se però è solo un´operazione economica, per il gas, cinque miliardi mi sembrano davvero molti, anzi troppi. Se non c´è la richiesta di perdono, che cos´è tutta questa premura, con i regali personali a Gheddafi?».
Professore, lei vorrebbe da Berlusconi un gesto come quello di Willy Brandt al ghetto di Varsavia?
«Figuriamoci! Non lo credo proprio adatto a gesti del genere. Berlusconi non festeggia il 25 aprile, parla della condanna al confino per i dissidenti come di una vacanza... Non mi meraviglio di questa assenza».
Non crede che un obiettivo importante di questo trattato sia l´intesa sull´immigrazione?
«Potrebbe servire ad accontentare i leghisti, che pensano a come fermare i clandestini. Ma per la verità negli ultimi tempi i libici stanno già mettendo le mani avanti, sostengono - ma è una bugia - di avere sul loro territorio sei milioni di migranti, dicono apertamente che sarà difficile per loro riuscire a controllare confini così vasti».
Gli accordi prevedono anche una partecipazione italiana.
«I due paesi dovrebbero organizzare una flottiglia mista per pattugliare le coste libiche e impedire le partenze, si parla anche di radar volti verso il deserto per controllare gli arrivi. Ma ho molti dubbi sull´operazione».
Che cosa pensa dei centri di detenzione in territorio libico, su cui si sono rivolte le critiche durissime di Amnesty International?
«Sono completamente d´accordo con Amnesty. Da quanto si riesce a sapere sono in realtà campi di concentramento. Nel mio ultimo libro (Il mio Novecento, edito da Neri Pozza, ndr) ho riportato diverse testimonianze di chi li ha visitati: Jas Gawronski parla di "inumanità", il prefetto Mori racconta di 650 persone rinchiuse in condizioni terribili dove ne erano previste 100, e così via. Ora mi chiedo: come può l´Italia partecipare alla costruzione di opere del genere?».

Repubblica 3.3.09
Con il ritorno di Borsari e Bodei
Modena il Festival si farà


SEMBRA ormai una certezza: il Festival di Filosofia di Modena si terrà a settembre con il ritorno della storica responsabile scientifica Michelina Borsari, come sempre affiancata da Remo Bodei. In questa vicenda i colpi di scena non sono mancati tanto che molte grandi firme della filosofia sembravano decise a defilarsi dal gran pasticcio emiliano - da Marc Augé a Etienne Balibar, da Cacciari a Galimberti, da Givone a Marramao, da Odifreddi a Perniola, da Rodotà a Veca, da Savater a Viroli, dalla Cantarella alla Cavarero. Ma ora le fratture, almeno per quel che riguarda il Festival, si sono ricomposte e c´è da credere che la rassegna potrà svolgersi secondo lo schema ben collaudato degli anni scorsi, contando sulla crema dell´intellettualità filosofica italiana e internazionale.
Non c´è invece il lieto fine per la Scuola di Alti Studi di Modena. Il Comitato scientifico e Il Consiglio di amministrazione della Fondazione San Carlo non hanno trovato nessun accordo. La direzione della Scuola è stata affidata al professor Carlo Altini, sfilandola di fatto alla Borsari, una decisione irrevocabile che ha reso impossibile ogni tentativo di mediazione. Il risultato è che i membri del Comitato scientifico della Fondazione hanno confermato le dimissioni: si tratta di Remo Bodei, Giovanni Filoramo, Tullio Gregory, Francisco Jarauta, Maurice Olender, Wolfgang Schluchter. È loro convinzione che siano state prese decisioni di carattere culturale con un´ottica esclusivamente amministrativa.

Corriere della Sera 3.3.09
Classi per stranieri, no della Crusca «Così non si aiuta l'integrazione»
«Per imparare l'italiano meglio stare in aula con gli altri» Il consiglio: formare i docenti. Ora la decisione del ministro
di Gianna Fregonara


Nell'anno scolastico 2007-2008 gli studenti non italiani erano 574 mila. Quest'anno, secondo una stima, sono 650 mila
L'Accademia si è fatta portavoce di altre cinque istituzioni che hanno il compito di custodire la nostra lingua

Su «Crusca per voi», il periodico dell'Accademia (a sinistra il logo) sono stati pubblicati due saggi nei quali si commenta la proposta di creare classi differenziate (o ponte) per gli studenti stranieri. «Un metodo incongruente rispetto all'obiettivo di favorire la promozione dell'acquisizione dell'italiano», scrive la Crusca

Confusa. Generica e per lo più impraticabile. In altre parole, inadeguata. L'imprevista bocciatura è dell'Accademia della Crusca, che critica la proposta di formare classi differenziate (le classi di inserimento o classi ponte) per far apprendere l'italiano agli stranieri, presentata dal leghista Roberto Cota e approvata dalla maggioranza lo scorso ottobre. Non serve: funzionerà certo a tranquillizzare genitori italiani e docenti alle prese con problemi di integrazione, ma dal punto di vista scientifico e dell'apprendimento dell'italiano per studiare è del tutto inutile.
Sul periodico dell'Accademia, la «Crusca per voi», si possono leggere due saggi argomentati sul tema. E, come se non bastasse, la rivista si fa portavoce delle impietose osservazioni delle altre istituzioni custodi della nostra lingua: la Società italiana di Glottologia, la Società di linguistica italiana, l'Associazione italiana di linguistica applicata, il Gruppo di intervento e studio nel campo dell'educazione linguistica e l'Associazione per la storia della Lingua italiana, che della proposta Cota scrivono: «La mozione risulta non chiara nelle premesse, poco perspicua nel metodo e inefficace nella soluzione». E ancora: «Il metodo proposto per affrontare il problema è piuttosto incongruente rispetto all'obiettivo di favorire la promozione dell'acquisizione dell'italiano ai fini,almeno dichiarati, di una armonica integrazione».
Replica Cota: «Rispetto la Crusca, ma loro rispettino il problema vissuto da migliaia di famiglie nelle periferie delle grandi città. Temo che vedano più il tarlo del razzismo che altro, ma io spero che al più presto il ministro Gelmini possa varare un provvedimento dettagliato sulle classi ponte, la mozione indica soltanto la linea politica, non le soluzioni tecniche migliori». Per ora il ministro sta studiando la pratica, e i presidi sono in attesa di lumi per le iscrizioni.
I dati innanzitutto. Nello scorso anno scolastico, 2007-2008, secondo le rilevazioni del ministero dell'Istruzione, su dieci milioni di alunni, 574.000 erano stranieri, cioè con «cittadinanza non italiana»: in percentuale il 6,4, il 7 per cento dall'asilo alle medie e il 4 per cento nelle superiori.
Non una cifra spaventosa, in termini assoluti. Ma dieci volte di più degli studenti stranieri inseriti a scuola appena dieci anni prima, nel 1997. Tanto da creare, come riconoscono anche gli studiosi della Crusca, «una situazione di disagio».
Di questo mezzo milione tuttavia, i non-italiofoni, quelli cioè che non parlano l'italiano, entrati per la prima volta nel sistema scolastico italiano, e che avrebbero bisogno di corsi e sostegni non sono più di 50 mila: «Circa il 70 per cento dei bambini stranieri che frequentano la scuola dell'infanzia e la metà di quelli che sono alle elementari — si legge nell'articolo di Silvia Morgana, ordinaria di linguistica italiana alla Statale di Milano — sono nati in Italia, mentre un'altra parte consistente è in Italia da anni e ha già frequentato altri gradi di scuola e quindi è sostanzialmente in grado di comunicare in italiano, anche se con diversi livelli di competenza linguistica».
Dov'è dunque il problema secondo la Crusca? Non è l'italiano di base, quello che si insegnerebbe prima dell'inserimento nelle scuole normali, da verificare con gli ormai famosi test entro dicembre il vero problema: l'apprendimento di queste conoscenze da parte degli stranieri è di solito rapido e «richiede da pochi mesi, all'anno e mezzo dall'inserimento nella scuola "normale"», a contatto con gli studenti italiani. Il problema che può insorgere e creare difficoltà di apprendimento è «la lingua per lo studio», cioè quelle competenze specialistiche che servono per comunicare le proprie conoscenze più avanzate: «Queste risultano spesso ben più difficili da padroneggiare completamente anche per gli studenti italiani e la lingua per lo studio può richiedere fino a cinque anni per essere utilizzata nel modo più efficace», spiega ancora Morgana.
Se le classi di inserimento o differenziali o ponte non servono, allora che fare, per situazioni in cui in una classe ci sono tre quarti di studenti stranieri e gli italiani sono in fuga? Di idee e sperimentazioni, ne sono nate tante in questi ultimi anni. La Crusca suggerisce di puntare sui docenti, preparandoli per la formazione dell'insegnamento dell'italiano come seconda lingua, disponendo una formazione specifica per i docenti che lavorano nei Cpt, e più in generale creando una «vera e propria cultura della valutazione» non solo delle competenze linguistiche, formando gli insegnanti ad una revisione dei curriculum in chiave interculturale.
A provare le classi di inserimento è da qualche mese la Catalogna, in Spagna, in due città vicino a Barcellona, Vic e Reus. Ma il modello, proposto tra mille polemiche, ha una durata di tempo molto limitata: da uno a sei mesi, soltanto per i nuovi entrati. In questo primo periodo di tempo dalle classi separate è passato qualche centinaio di studenti e oltre i due terzi sono già stati inseriti nelle classi normali.
Non che in Italia negli ultimi anni non sia suonata la campanella dell'emergenza. L'osservatorio nazionale per l'integrazione degli alunni stranieri e l'educazione interculturale presso il ministero, ha prodotto diversi documenti di indirizzo, segnalando già due anni fa il problema di quel 20% di alunni stranieri che arrivano ad anno scolastico già iniziato. La linea fin qui seguita nelle zone ad alta concentrazione era quella di lasciare autonomia alle scuole per fare corsi e laboratori di lingua pomeridiani e di sostegno. Ancora non è stato valutato il successo. Ma lo stesso osservatorio aveva messo in guardia «contro i rischi di pregiudizi e preconcetti su base emozionale rispetto ai nuovi arrivati».
Per ora alcuni Comuni si sono arrangiati da sé, trovando nelle raccomandazioni europee e nelle esperienze di altri Paesi, l'ispirazione per le proprie politiche. A Vicenza il sindaco Achille Variati (Pd) ha imposto un tetto di tre alunni che non parlano italiano per ogni classe, gli altri verranno aiutati dal Comune e dai presidi a trovare altre sistemazioni. La Commissione europea non ha censurato l'idea. A Novara succede il contrario. Nelle scuole del quartiere Sant'Agabio, ad alta densità di stranieri, sono gli studenti italiani che sono invitati a iscriversi: per loro mensa e scuolabus gratis. Stesso incentivo per gli stranieri che accettano di spostarsi in altre realtà. Il modello è la Spagna, quella Catalogna che però poi ha deciso di introdurre i corsi di inserimento. A Milano il Comune sta pensando a qualcosa di simile. A Roma l'assessore alle politiche educative Laura Marsilio ha proposto l'obiettivo di avere negli asili non più di cinque stranieri per classe. Tutto questo in attesa di una parola definitiva da parte del ministero.

Corriere della Sera 3.3.09
Esce da Elliot «Chi ha cucinato l'ultima cena?». Le vicende dell'umanità dall'altro punto di vista
Quando le donne persero il potere
Dalla «signora delle caverne» al neomachismo: storia femminile del mondo
di Isabella Bossi Fedrigotti


Non fosse che per il titolo, il libro meriterebbe attenzione. Chi ha cucinato l'ultima cena? è, in effetti, una domanda che nessuno probabilmente si era mai posto prima della saggista inglese Rosalind Miles, fondatrice del Centro per gli studi sulla donna dell'Università di Coventry. Ovvio che risposta non l'ha trovata, ma il paradossale quesito è servito comunque a intitolare la sua ampia e sistematica ricerca sulla storia del mondo al femminile, dalla notte dei tempi fino ai giorni nostri.
Il primo nucleo del libro risale in verità a circa vent'anni fa, mentre la sua versione definitiva, riscritta e corredata del nuovo, brillante titolo è del 2000. Uscito da tempo in tutto il mondo, Cina compresa, Chi ha cucinato l'ultima cena? arriva tuttavia soltanto venerdì in Italia (tradotto da Luisa Pece per Elliot) e chissà se il ritardo è dovuto al feroce sarcasmo che l'autrice dedica al pervicace machismo mediterraneo o, invece, alla denuncia appena un po' più soave del mai davvero tramontato antifemminismo cui è improntata la tradizione religiosa cristiana. Oppure dipenderà dal fatto che Rosalind Miles non nasce come storica ma lo è diventata sulle tracce di un suo particolare interesse in nome del quale ha consultato un numero sterminato di fonti, testimoniate dalla vastissima bibliografia del libro?
Nonostante le frequenti citazioni virgolettate, il lettore e, naturalmente, ancora più la lettrice segue il racconto con interesse e divertimento grazie allo stile poco accademico e allo humour della migliore tradizione inglese che tende a sdrammatizzare anche i contesti più tremendi nei quali si sono trovate le donne nel corso dei secoli, principalmente per opera dei loro peggiori nemici, gli uomini: maggior danno, infatti, a quanto pare, non hanno avuto da cataclismi, inondazioni, incendi o epidemie e tanto meno da animali feroci. Divertimento, dunque, sì, però in qualche caso è inevitabile il raccapriccio di fronte a certe offensive pesanti e sistematiche, oltre che codificate dalle leggi civili e religiose, subite nel tempo dalle donne: offensive in parte già note, però per lo più velocemente e volentieri dimenticate.
L'autrice sostiene che per un lungo periodo, fino all'incirca all'età del ferro, le donne erano rispettate, onorate, riverite e servite, niente affatto — come da sempre illustrano i libri di scuola — chiuse nelle caverne ad attizzare il fuoco o intente alle incombenze più umili nell'attesa che il prode tornasse dalla caccia, e ancora meno erano sottomesse ai voleri di lui. Le signore passavano prima, insomma, come ancora succede in qualche rara tribù primitiva nascosta nelle foreste, ma non solo riesce difficile immaginarlo, anche a scriverlo si fa quasi fatica perché così radicata è l'immagine dell'antica donna asservita in secondo piano che in un certo senso mancano i termini per descrivere la primigenia situazione capovolta.
La signora delle caverne non se ne stava, dunque, affatto rintanata, bensì si occupava della raccolta di frutti e della coltivazione di orti, assicurando in tal modo la sopravvivenza della comunità giorno per giorno. Radunava frasche, costruiva rifugi e difese contro gli animali, istruiva i figli e partecipava alle famose cacce, come testimoniano non pochi graffiti paleolitici. Ovvio, dunque, che venisse tenuta in grande conto. La vera ragione della sua supremazia stava, tuttavia, soprattutto, nel misterioso potere di procreare dal nulla piccoli uomini e piccole donne, nel misterioso e magico scorrere puntuale del suo sangue che, pur essendo impossibile da fermare, non la uccideva come sarebbe stato normale per una simile ripetuta emorragia. La logica conseguenza fu che si venerò la Grande Madre, potente dispensatrice di vita, dio femmina innalzata sugli altari come poi non è — quasi — mai più successo, tranne che per figure divine collaterali, come, per esempio, la nostra Madonna.
La grande svolta che portò in alto gli uomini e in basso — per sempre — le donne storicamente arrivò quando le comunità si fecero più numerose per cui gli orti non bastarono più a nutrire tutti quanti e fu necessario coltivare campi più estesi, con impiego di attrezzi pesanti; campi che bisognò poi anche difendere dagli aggressori esterni: entrambe incombenze ovviamente adatte in particolare ai più muscolosi e prestanti maschi. Filosoficamente il tramonto della supremazia femminile arrivò, invece, secondo la Miles, nel momento in cui gli uomini compresero — non i singoli ma le intere popolazioni — il legame esistente tra atto sessuale e gravidanza, d'un colpo assai meno misteriosa e, soprattutto, impossibile senza il contributo maschile.
Il dio da adorare divenne allora maschio con il suo fallo innalzato alto sugli altari, e, di passo in passo, come se tutti gli uomini insieme fossero stati un solo uomo troppo a lungo umiliato lontano dal potere e smanioso di rivalsa, la donna fu ridotta a figurante di secondo piano, a schiava sottomessa e senza alcun potere, a puro contenitore biologico alla quale neppure i figli appartenevano.
Questa nuova situazione fu, nel corso dei secoli, ampiamente formalizzata anche da firme illustrissime, quali, per esempio, Eschilo che nelle
Eumenidi scrisse: «Colei che viene chiamata madre non è genitrice del figlio, bensì la nutrice dell'embrione appena seminato. È il fecondatore che genera». Oppure Aristotele, secondo il quale «la donna è passiva. Sta a casa come è nella sua natura. È l'incubatrice passiva del seme maschile ». E teorie più o meno identiche sul minor valore delle donne (in qualche caso anche rispetto agli animali domestici) riecheggiarono serenamente concordi dall'una all'altra parte del mondo.
Poi vennero le grandi religioni monoteiste, e, come scrive l'autrice, furono i chiodi della bara delle libertà femminili. Il dio divenne padre e per quello cristiano parlò Sant'Agostino: «La donna non è fatta a immagine di Dio... l'uomo soltanto è l'immagine di Dio». Quello musulmano — si sa — fu ancora più duro e Maometto nel Corano spiegò: «Gli uomini hanno autorità sulle donne perché Dio ha preferito alcune creature ad altre. Perciò le donne buone sono obbedienti. Se poi temete che alcune si ribellino, ammonitele, lasciatele sole nei loro letti e poi frustatele».
Il resto, si può dire è la variegata storia di oggi.

Corriere della Sera 3.3.09
La polemica
Bellocchio: mai censurato da Rai Cinema


ROMA — Marco Bellocchio che accusa di censura Rai Cinema che ha prodotto i suoi ultimi film? Tutto nasce da un'intervista a Left,
ripresa anche dal Giornale. Ma il diretto interessato non ci sta. Alle perse con il mixaggio del suo prossimo film (Vincere!, su Mussolini e Ida Dalser), Bellocchio attacca: «Sono colpito dall'uso che si è fatto delle mie parole nei giornali, estrapolando brani di un ragionamento più ampio». Spiega: «Chi ci ha voluto leggere qualcosa di critico in merito al mio rapporto con Rai Cinema è in malafede, tanto è vero che io sono stato libero di scrivere e girare Vincere! che Rai Cinema, la tv pubblica quindi, ha prodotto con entusiasmo e dandomi il massimo sostegno e libertà d'espressione».

Liberazione 3.3.09
«La memoria per guardare al futuro non solo per ricordare il passato»
Lo scrittore israeliano Aharon Appelfeld.Ebreo polacco scampato alla Shoah, vive dal dopoguerra in Israele
Nei suoi romanzi racconta l'ebraismo dell'Est prima della tragedia
di Guido Caldiron


«La memoria è uno strabiliante strumento dell'anima, che ci mette in comunicazione con ciò che è vicino e ciò che è lontano (...) La Seconda guerra mondiale è stato uno dei conflitti più cruenti che l'umanità abbia mai conosciuto, e per gli ebrei certamente il peggiore. Un terzo del popolo ebraico è stato sterminato. Ogni ebreo sopravvissuto alla guerra, al ghetto e al campo di concentramento serba nella memoria decine, se non centinaia di immagini che hanno per segno la morte. Che fare di quelle immagini? Fissarle? Adottarle? Identificarsi in esse, tentando di tenere a mente i volti degli assassini, per odiarli?».
Questo il quesito centrale della Lectio Magistralis che Aharon Appelfeld terrà questa sera a Milano e che ha per titolo "La memoria e la parola: una speranza per il futuro". Decano degli scrittori israeliani, vive dal 1946 a Gerusalemme e insegna letteratura ebraica all'Università Ben Gurion a Be'er Sheva', Appelfeld è nato nel 1932 a Czernowitz, in Bucovina (Ucraina), e ha costruito attraverso le sue opere, oltre una quarantina di libri (romanzi, raccolte di racconti, saggi), tradotti in più di 30 lingue, una narrazione corale della storia dell'ebraismo dell'Est Europa spazzato via dalla barbarie nazista. Il suo contributo alla memoria della cultura ebraica è perciò fondamentale e riconosciuto a livello internazionale. Negli ultimi anni Guanda ha pubblicato i suoi romanzi Badenheim 1939 (2007), Storia di una vita (2008) e, in questi giorni, Paesaggio con bambina (pp. 148, euro 14,00) una storia che sembra riecheggiare proprio la vicenda di Appelfeld fuggito all'età di otto anni da un campo di concentramento dove era stato deportato con il padre. Protagonista del romanzo è Tsili Kraus, l'ultimogenita di una famiglia di bottegai ebrei dell'Est che sfugge allo sterminio vagando per l'Europa prima di cercare rifugio in Israele. E che trova nel proprio candore una sorta di rifugio all'orrore del mondo che la circonda.
Abbiamo posto alcune domande a Aharon Appelfeld alla vigilia del suo incontro milanese di questa sera.

Il personaggio di Tsili sembra assomigliarle molto: una bambina in fuga tutta sola dallo sterminio, in mezzo a un mondo in frantumi e pieno di pericoli. E' così?
Certo che Tsili rappresenta la mia infanzia, ma attraverso il suo personaggio ho cercato anche di uscire da una prospettiva esclusivamente personale. Ho trasferito la mia esperienza a questa bambina ma ho costruito anche una storia che andasse al di là della semplice ricostruzione di quanto ho vissuto io da bambino. Tsili è molto giovane, ma nonostante ciò è un simbolo, rappresenta l'infanzia perduta, la solitudine, l'innocenza. Infine si può dire che questa bambina rappresenti i sopravvissuti. Questo perché lei possiede qualcosa che le altre persone non possiedono, che è poi la sua innocenza. Lei sembra non pensare troppo a quanto le sta capitando, e questo la mette al riparo dalla disperazione. E' così che riesce a sopravvivere, a trovare una ragione per andare avanti nonostante tutto. Lei non si lamenta del fatto che la vita è così crudele nei suoi confronti, accetta la propria esistenza così com'è. Le persone che ha intorno sono sempre crudeli con lei, ma lei non piange, non maledice, non protesta: assorbe l'umiliazione ma non è una persona umiliata. E, alla fine, ha la forza di superare tutto quello che le è successo.

Il testo che leggerà questa sera a Milano riflette ancora una volta sul valore della memoria, ma anche sul modo in cui si può ricordare attraverso la creazione artistica e la letteratura. Nella sua esperienza in quale rapporto si trovano la scrittura e la memoria?
Per scrivere credo si debba essere in grado di mobilitare tutta la propria personalità, i propri sentimenti, le proprie sensazioni, i proprie pensieri e anche l'immaginazione. E' chiaro che anche la memoria fa parte di ciò, ma la memoria da sola non basta per creare l'arte. La memoria da sola rischia di rimandare al passato, mentre invece la scrittura creativa consiste nel mettere in gioco tutto: il passato, il presente e il futuro. Un'opera d'arte credo debba cercare di contenere tutte queste dimensioni temporali. La memoria non può essere da sola la base di un romanzo. Certo, si possono scrivere memoire o diari, cronaca o storia, ma è un'altra cosa. In un romanzo lo sforzo maggiore sta proprio nell'articolare l'insieme delle diverse dimensioni temporali in ogni paragrafo. Per fare un esempio di quanto dico, proprio in Paesaggio con bambina la dimensione narrativa incrocia la memoria, ma la proietta verso il futuro. La protagonista, Tsili, non è solo una bambina che si è trovata a vivere in un bosco da qualche parte in Ucraina durante la guerra. Lei, si potrebbe dire, vive al di là del tempo in cui è effettivamente vissuta. Tsili rappresenta l'eterna innocenza, l'eterna ragazza perduta. Perciò torniamo alla differenza che esiste tra la memoria e la letteratura: nel primo caso ci si concentra su un tempo e un momento ben preciso, nel secondo si cerca di rendere quell'elemento eterno e universale. Tsili rappresenta infatti l'eternità.

Lei ha detto di aspettare ancora il ritorno dei suoi famigliari scomparsi nella Shoah. La scrittura è perciò lo strumento attraverso cui ritrovare le proprie radici?
Sì, ne sono convinto. Io ho perso i miei genitori quando ero piccolo e ho perso per anni ogni contatto con la mia famiglia d'origine. Quindi scrivere della mia infanzia, tornare a ripercorrere le emozioni e i sentimenti di allora, mi fa ritrovare la mia famiglia e il mio paese. E' un percorso che compio senza nostalgia, guidato dall'amore. E' un modo per ritrovare il senso più profondo della vita, perché la vita di tutti parte proprio dal periodo dell'infanzia. Così, ritrovando la mia famiglia e l'ambiente da cui provengo, credo di poter andare davvero al fondo delle cose.

Al centro di "Paesaggio con bambina" c'è ancora, come nei suoi precedenti romanzi, la storia europea e la fuga degli ebrei dai paesi dell'Est. Lei vive da oltre sessant'anni in Israele però si è spesso definito come "un ebreo che scrive in Israele" e non uno scrittore israeliano. Cosa significa?
Le mie radici restano in Europa, malgrado io viva in Israele da più di sessant'anni. Sono uno scrittore ebreo che vive in Israele, come prima ho vissuto in altre parti del mondo. Come gli ebrei ancora oggi vivono in tutto il mondo. E' di loro che parlo nei miei libri, di quelli che vivono in ogni paese della terra. Non di quelli che vivono in Israele. Mi interessa la più vecchia civiltà del mondo, che è quella ebraica e non uno spazio geografico definito. Mi interessa lo spazio interiore. E' a questo spazio della cultura ebraica che rimanda la mia esperienza di vita. Per questo se devo "definirmi" penso all'Europa: è lì che sono nato ed è a quella cultura che faccio ancora riferimento pur vivendo in Israele.

Alla fine del suo romanzo Tsili cerca rifugio in Israele come hanno fatto tanti ebrei in fuga dall'Europa. Oggi, però, quel paese sembra dominato da una destra xenofoba e pericolosa che ha vinto le recenti elezioni e sembra rifiutare ogni ipotesi di dialogo con i palestinesi. Come valuta la situazione?
E' vero, Tsili alla fine del libro se ne va dall'Europa e in un certo senso rappresenta un po' tutti gli immigrati che dopo la guerra hanno scelto di andare a vivere in Israele. Immigrati che per la maggior parte erano rappresentati da persone perdute, sole, senza una famiglia, persone ferite. Si deve tener presente che ogni due persone immigrate in Israele nel dopoguerra, almeno una era un sopravvissuto direttamente alla Shoah o era figlio o nipote di sopravvissuti. Quando sono arrivato dall'Europa, nel 1946, in quello che sarebbe diventato lo Stato di Israele c'erano meno di un milione di abitanti, poi sono arrivati in pochi anni oltre settecentomila scampati alla Shoah in fuga dall'Europa. Israele è perciò sempre stato, fin dall'inizio della sua storia, un paese di immigrati e ha continuato a conoscere rapidi cambiamenti da questo punto di vista. Israele è tutto fuorché un paese omogeneo; è, da questo punto di vista, una società aperta. Oggi, in effetti, la paura sembra dominare la società israeliana: paura del terrorismo, paura di Hamas, paura della minaccia che arriva dall'Iran e dal suo arsenale militare. All'inizio della sua esistenza, e per molti anni, Israele era uno stato d'ispirazione socialista, ma oggi questo clima di paura ha fatto sì che tanti israeliani si spostassero verso destra, anche verso le posizioni della destra più estrema. Ora il paese mi appare come diviso nettamente in due dal punto di vista politico. Spero davvero che la minaccia iraniana possa passare e Israele possa tornare ad essere com'era e come dovrebbe essere, vale a dire un paese accogliente, democratico e socialista.

Liberazione Lettere 3.3.09
Franco Coppoli, l'aula e il crocifisso

Cara "Liberazione", l'Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno" nell'esprimere tutta la sua solidarietà al prof. Franco Coppoli ("reo", a quanto sembrerebbe, di non aver obbedito all'ordine del Dirigente scolastico di far lezione col crocifisso in classe), ritiene del tutto inaccettabile la sospensiva a cui il docente è stato condannato dal Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione per aver fatto valere appieno il principio della laicità dello Stato costituzionalmente sancito. In base a questo, lo Stato repubblicano, non si può far portatore di una confessione religiosa, imponendo simboli religiosi nei luoghi pubblici, tanto più quando si tratta di un'aula scolastica, dove si educa all'appartenenza alla cittadinanza al di là delle preferenze religiose di singoli o gruppi. Fossero pure maggioritari. Se infatti, anche il 100% degli italiani fosse cattolico, cosa che non è, lo Stato non potrebbe farsi propagatore della confessione della chiesa romana e del suo simbolo. Come hanno abbondantemente ricordato diverse sentenze della Corte Costituzionale (in particolare, 203/1989), e della Corte di Cassazione (in particolare, 439/2000). Nonché quella emessa recentemente dalla Sesta sezione penale della Cassazione il 17 febbraio 2009, che "ha annullato senza rinvio perché il fatto non sussiste" la condanna per il giudice del Tribunale di Camerino, Luigi Tosti, a sette mesi di reclusione per interruzione di pubblico servizio e omissione di atti d'ufficio inflitta dalla Corte d'Appello dell'Aquila nel maggio 2007, perché il magistrato si era rifiutato di svolgere le sue funzioni nell'aula giudiziaria a causa della presenza di un crocifisso.
Maria Mantello vicepresidente della Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno"

l’Unità 3.3.09
l’Unità sciopera, domani non è in edicola


Domani l’Unità non sarà in edicola e oggi il sito on line non verrà aggiornato. È stato proclamato, infatti, il primo dei cinque giorni di sciopero messi a disposizione del cdr. Lo ha deciso all’unanimità l’assemblea delle redazioni di Roma, Bologna, Firenze, Milano e dell’on-line, per respingere l’ipotesi di drastico ridimensionamento aziendale prospettato dall’amministratore delegato. Che provocherebbe gravissime ripercussioni sugli organici e sulla fisionomia stessa del prodotto. Tutto questo malgrado i positivi risultati di vendita e i piani di rilancio della testata messi in atto non più di quattro mesi fa. L’assemblea respinge i tempi, strettissimi, indicati dall’azienda per la trattativa. E, in particolare, ritiene inaccettabile la data ultimativa del 23 marzo, fissata come termine ultimo per scongiurare lo stato di insolvenza. Si ricorda che i tempi e le modalità per dichiarare lo stato di crisi sono indicati dal contratto e che, in ogni caso, la dinamica di una trattativa non può essere condizionata da scadenze ultimative.
La redazione del l’Unità assieme alla Fnsi e alle associazioni di stampa regionali non si sottrarrà ad un confronto di merito sulle prospettive dell’azienda che parta, però, dalla difesa della qualità del prodotto, della sua articolazione territoriale, dei livelli occupazionali e dalla tutela del precariato, dalla salvaguardia della professionalità e delle retribuzioni dei giornalisti.
L’assemblea invita il Pd, le forze di sinistra, il sindacato, l’opinione pubblica democratica, i propri lettori javascript:void(0)ad adoperarsi perché l’Unità possa superare anche questo difficile momento, continuando ad assolvere al suo ruolo e alla sua funzione.
L’ASSEMBLEA DE L’UNITÀ

Repubblica 3.3.09
Le idee Di cosa parla il Vangelo quando parla di vita
di Pietro Citati


Nelle nostre lingue, abbiamo un solo termine per indicare la vita: si tratti di vita animale, umana, quotidiana, materiale, spirituale, celeste, eterna. Il greco classico (e il greco dei Vangeli) conosce tre termini: segno dell´attenzione con cui il pensiero e la lingua antichi osservavano ed esprimevano le forme dell´esistenza – sottigliezza che abbiamo dimenticato. Il primo è bios: che vale vita quotidiana, costume di vita, carattere, durata dell´esistenza, professione, mestiere, proprietà, eredità, ricchezza. Il secondo è zoe, che ha significato prevalentemente religioso. Il terzo, psyche, possiede molti sensi, di cui non posso parlare in un articolo.

Nel Vangelo di Giovanni, «il volatile delle altitudini», come lo chiamò Giovanni Scoto, bios non appare mai. L´autore del Vangelo (forse un «discepolo del discepolo che Gesù amava») non provava il minimo interesse per la esistenza quotidiana, che i nostri cardinali esaltano tanto. Non amava l´esistenza insignificante, nella quale noi nasciamo, diventiamo adulti, abbiamo un carattere, dei sentimenti, lavoriamo, siamo ricchi o poveri, conosciamo il tempo, lo spazio e il numero, abbiamo una famiglia e degli amici, e infine, in modo egualmente insignificante, moriamo. A lui interessava soltanto la zoe ton aionon: la vita eterna.

La vita eterna è, in primo luogo, Dio Padre, il vivente, come dice l´Antico Testamento: egli vive in eterno, porta in sé la vita, dà e toglie l´esistenza, e colma l´universo con una freschezza inesauribile.
Anche il Figlio dispensa vita al mondo; e dà agli uomini un´acqua zampillante che non si esaurisce mai. Il Padre e il Figlio sono «una cosa sola», dice Giovanni, mentre Matteo, Marco e Luca non osano dirlo. Prima della creazione, quando lo spazio è vuoto e le tenebre si allargano sull´abisso, essi sono già una "cosa sola": il Figlio esiste presso Dio; e il Figlio e il Padre si riflettono l´uno nell´altro. Se il Padre ama il Figlio, il Figlio ama il Padre: se il Padre risuscita e vivifica i morti, così fa il Figlio: se il Figlio dona la sua vita per gli uomini, la dona per volontà del Padre: quando il Padre parla, il Figlio parla per lui; quando il Padre insegna, il Figlio ripete il suo insegnamento. «Io non sono mai solo, dice Gesù, perché il Padre è con me».

Questa doppia vita è una luce gloriosa, onnipervasiva, ininterrotta, che caccia da ogni parte le tenebre che non la riconoscono. Non c´è niente nella vita eterna, che non sia zampillo e esplosione di luce. Questa luce sovrannaturale si esprime con le immagini più semplici e fisiche: Giovanni unisce la sublimità tremenda e la semplicità naturale; ecco l´acqua, il pane, la vite, il tralcio, il mietitore, il seminatore, il buon pastore, le pecore. Giovanni tuffa le mani nel mare del linguaggio della religione tardo-giudaica, ellenistica, gnostica, mandea: non teme il contatto con nessuna esperienza; accetta qualsiasi fonte, perché, come tutti i grandi teologi, la impregna col suo respiro.

Lo "scandalo della Croce" aveva inquietato le prime comunità cristiane: quel Cristo disperatamente solo, che prega invano il Padre sul Getsemani e sulla Croce, e non riceve risposta, riempiva d´angoscia i fedeli. Queste inquietudini ed angosce diventano, in Giovanni, un trionfo; e la gloria di Cristo non sta solo nella Resurrezione, come pensano gli altri Vangeli, ma sopratutto nella Croce. Giovanni abolisce la scena notturna del Getsemani, dove Cristo aveva sofferto lacrime di sangue, invocando un´altra possibilità, e un´altra salvezza. Insiste sul fatto che mai, nemmeno per un attimo, durante la passione e la crocefissione, Gesù era rimasto solo: perché il Padre era sempre vicino a lui, e parlava con lui, senza conoscere né il silenzio né il segreto. Dio, per lui, non era mai nascosto. E infine, mentre negli altri Vangeli, la tenebra avvolge per tre ore l´agonia di Cristo, nel racconto di Giovanni c´è sempre luce: Gesù è «la luce vera, che illumina ogni uomo»; e dunque attorno a lui splende forse la stessa fresca aria primaverile che aveva illuminato qualche giorno prima, durante la festa di Gerusalemme, i rami delle palme pasquali. Tutto muta. La terribile umiliazione del Giusto biblico, abbandonato da Dio sulla Croce, rivela in ogni evento, anche il più doloroso, la maestà, l´esaltazione, la dignità regale del vero Re � il cui regno non appartiene a questo mondo, ma giudica e condanna il mondo e i suoi regni. La Croce di Gesù è un trono: il suo trono.

* * *

Secondo Giovanni, anche gli uomini conoscono la vita eterna: non la conoscono solo nel futuro, dopo la morte, dopo il giudizio, come pensano Matteo, Marco e Luca e, dopo di loro, moltitudini di cristiani. Nel Vangelo di Giovanni, come Gesù ripete di continuo, la vita eterna è già qui, davanti agli occhi, a Betania, a Betesda, a Cana, lungo le rive del mare di Galilea, tra le palme di Gerusalemme. Il raccolto è già presente: se i discepoli alzano gli occhi, vedono i campi albeggiare di messi. In nessun altro testo cristiano (e in nessun altro libro che abbia mai letto) le parole di Gesù fanno sentire il respiro e il sapore della vita eterna impregnare la nostra vita, come se tutto ciò che è quotidiano fosse scomparso o fosse stato completamente assorbito dalla gloria della luce. Leggendo Giovanni, senza che egli alzi mai la voce e il tono, l´eterno si insinua in ogni angolo del presente. Non c´è che l´eterno: prossimo, famigliare, confidenziale. Tutto avviene qui: la vita eterna è tra noi, sebbene forse avrà una risonanza più sottile nel cielo. Anche la glorificazione di Cristo avviene in terra, sulla Croce, sul Golgota, non quando egli ascende nell´altro mondo.

Se vogliamo conoscere la vita eterna, basta la fede nel Figlio, che ci viene data dal Padre. «Nessuno può venire a me, dice Gesù, se il Padre che mi ha mandato non lo attrae». Così siamo liberati dalla morte fisica, che non ha più alcun peso, perché viene completamente annullata dalla fede. A questa morte fisica, oggi, noi badiamo a tal punto, che vogliamo evitarla e cancellarla e allontanarla per mezzo di sondine e macchine respiratorie, come se non dovesse più esistere. Secondo Giovanni, morte è soltanto il nome della tenebra � il peccato d´Adamo, l´odio, la malvagità, l´assenza d´amore, l´incredulità, le cattive opere, la mancanza di conoscenza, Satana, il "mondo"�: tenebra che lascia attorno a sé una fascinazione sinistra, turbando anche i primi discepoli, durante e dopo l´ultima cena.

Mentre leggiamo il Vangelo di Giovanni, il Padre è una "cosa sola" col Figlio: il Figlio è "una cosa sola" col Padre: i discepoli presenti e tutti gli altri che in futuro leggeranno il Vangelo di Giovanni sono "una cosa sola" tra loro: essi sono "una cosa sola" col Figlio, come il tralcio e la vite; e sono "una cosa sola" attraverso la mediazione di Gesù Cristo, anche col Padre, come nessun cristiano aveva mai detto. Queste successive identità di amore e di conoscenza, queste fusioni sempre più vaste di cuori e di spiriti, che si allargano come onde nel lago dell´amore cristiano, ripetono l´unità originaria, che, prima della creazione, esisteva tra le due figure divine. Qualsiasi separazione e divisione, nel cielo e nella terra, è caduta. Non c´è che l´Uno celeste e terrestre. Fuori di esso soltanto le tenebre, che non riconoscono e non accolgono il Figlio. 


Cinecittà News 3.3.09
Bellocchio: Rai Cinema non mi ha mai censurato


Marco Bellocchio torna su alcuni passaggi di una sua intervista a 'Left' che, dice il regista, non corrispondeva esattamente alle parole da lui dette. Lamentandosi per l'uso fatto di alcune sue espressioni "estrapolando brani di un ragionamento più ampio", Bellocchio sottolinea che l'affermazione a lui attribuita su cinema e tv ("Il cinema oggi è totalmente dipendente dalla tv, che ogni tanto elargisce qualcosa, ma pretende, con il suo orrendo conformismo, di imporre il suo linguaggio. Difficile trovare spazi di libertà ") riguardava il linguaggio che la televisione, di tutto il mondo, tende a omologare e non dunque una critica a Rai Cinema, che ha prodotto i suoi ultimi film. Tanto è vero, precisa il regista, che proprio da Rai Cinema, dalla tv pubblica dunque, ha ricevuto "il massimo sostegno e libertà d'espressione" per il suo prossimo Vincere, film sul figlio segreto che il Duce ha avuto con Ida Dalser.
Per quanto riguarda L'ora di religione, il suo film del 2002 con Sergio Castellitto, "non credo - sottolinea Bellocchio - di aver detto letteralmente che oggi non mi lascerebbero fare questo film, ma mi riferivo a un clima generale nel Paese dove mi sembra più a rischio una visione laica della vita che è necessario assolutamente salvaguardare".

lunedì 2 marzo 2009

l’Unità 2.3.09
Se torna l’uomo forte
di Francesco Piccolo


Vi consiglio di leggere il saggio di Ralf Dahrendorf su Internazionale di questa settimana. Ha per titolo «Se torna l’uomo forte» ed è una riflessione sulla fragilità della democrazia in tempo di crisi economica. Come la storia ha già dimostrato, è in questi frangenti che entra in crisi la classe media, che costituisce fondamento del sistema democratico occidentale. Quando entra in crisi, la classe media comincia a chiedere uno stato più attento a ordine e controllo, a pensare che un mondo meno libero ma più sicuro sia più sopportabile. Dahrendorf sostiene che la società può avere tre caratteristiche: essere ricca, essere buona ed essere libera. «Alcune società sono disposte a sacrificare le libertà politiche per raggiungere obiettivi economici e sociali. In questo modo si diffonde la convinzione che il cambiamento sia possibile solo limitando la libertà. Il pericolo di un nuovo autoritarismo è evidente».
E allora viene da chiedersi a che punto è l’Italia. Le conclusioni possibili sono due: o questo Paese è stato precursore del destino europeo, visto che ha già cominciato a lavorare da una quindicina di anni alla questione dell’uomo forte; oppure non è da considerarsi nemmeno in gioco perché la sua classe media, in poco meno di un secolo, ha scelto deliberatamente soltanto tre padroni: Mussolini, la Democrazia Cristiana, Berlusconi. E quindi, a monte, ha eliminato di fatto il dilemma sulla società libera, scegliendo la ricchezza e la bontà. Il che non vuol dire che le abbia ottenute.

l’Unità 2.3.09
Torna «l’ordine» tra i banchi
Tanti 5 in condotta e insufficienze
di G.S.


Cinque in condotta e insufficienze? Una valanga alla fine del primo quadrimestre nelle superiori, peggio dello scorso anno. Maglia nera in entrambe le voci agli studenti di professionali e tecnici, mentre gli iscritti al liceo linguistico superano quelli del classico nei voti. Il 5 in condotta, già contestato dai docenti, si è stampato senza appello sulle pagelle di 34.311 studenti, dei quali 8.151 con la sola insufficienza in comportamento (i più indisciplinati agli istituti professionali, seguono i tecnici). Effetti del clima di rigore che si respira nelle scuole italiane o studenti somari? Si vedrà a fine anno quando, giura qualcuno, con i corsi di recupero da organizzare e i pochi fondi a disposizione, le insufficienze e i 5 in condotta, si potrebbero miracolosamente trasformare in sei.
Boom di insufficienze
Per ora il 2 per cento in più degli studenti della scuola secondaria (le superiori), rispetto al primo quadrimestre dello scorso anno, ha riportato almeno una insufficienza (72 % a fronte del 70,3%). In quali materie? A parimerito gli ostacoli sono sulle lingue straniere e la matematica ognuna col 16 % del totale di brutti voti), al secondo posto ci sono le scienze. Segno che ci si trascinano dietro le difficoltà delle medie. I fratelli più piccoli, infatti, hanno preso il 59,7 % delle insufficienze in matematica e il 54 % in inglese. In quali scuole? Ai professionali l’80 % dei ragazzi è sotto al sei, al linguistico il 60, meno di uno su due.
Segno che, con l’Unione europea più forte e la prospettiva di andare all’estero per lavoro, al linguistico sempre più spesso si iscrivono studenti volenterosi? Probabile, ma non per tutti i dirigenti i dati sono affidabili e il boom di cinque in condotta, desta allarme.
Preoccupa il 5 in condotta
Per Orietta Felici, dirigente dell’istituto tecnico Alberti di Roma, il brutto voto in condotta è la via più breve ma serve a intimorire e non a recuperare. «Agitare spauracchi - dice la preside - non serve. Sono preoccupata del clima rigorista che si sta diffondendo nelle scuole dell’era Gelmini - spiega la dirigente - Io ho indicato la cautela rispetto al 5 in condotta e nella mia scuola nessuno l’ha messo». Capire perché i ragazzi si meritano l’insufficienza, e poi operare con regole condivise, capire le cause di un cattivo comportamento e poi proporre una soluzione: «Il 5 sanziona ma non cura. Bisogna chiedersi, poi, perché la cattiva condotta spopola negli istituti tecnici e professionali. Sono scuole che richiedono attenzione, fondi e impegno. Di certo i tagli del 5 per cento al funzionamento e il tetto troppo alto di 31 alunni per classe, non ci aiuta. Soprattutto quando si tratta di classi che somigliano a caserme, dove spesso non c’è neppure una presenza femminile a frenare comportamenti non buoni che è indubbio possano esserci». Non a caso la scuola Alberti è capofila di progetti contro il bullismo e l’omofobia.
La soglia di sopportabilità
Il ministero, poi, non ha indicato criteri univoci di valutazione del comportamento, che mancano come i regolamenti applicativi del 5 in condotta. Per questo qualche dirigente si è espresso contro: «Bisogna, poi, considerare anche la soglia di sopportabilità del professore - continua la dirigente - Certe volte i ragazzi sfiancano e i docenti fanno piovere note. Il 5 in condotta non è detto che sia il metodo che più spinge alla riflessione i prof». Certo è che in molti hanno preso il 5 soprattutto ai professionali e soprattutto al Sud, proprio là dove servirebbe un lavoro più complesso da parte di tutti.

l’Unità 2.3.09
«Stupro» Il corposo saggio di Joanna Bourke è la prima storia della violenza sessuale
L’autrice smonta molti luoghi comuni, come quello più comune del «è sempre esistito»
Lo stupro non è una fatalità e gli uomini possono cambiare
di Elena Doni


Se vogliamo analizzare il flagello dello stupro dobbiamo puntare uno sguardo gelido sui colpevoli e smontarne i meccanismi emotivi. È quanto fa Joanna Bourke in «Stupro», storia della violenza sessuale.

Chi sono gli stupratori? Perché il loro corpo e la loro testa funzionano in modo deviante? Come si è comportata la società nei loro confronti nell’ultimo secolo e mezzo?
Cinquecento pagine sull’argomento (più altre cento di bibliografia e note) portano, per cominciare, a cancellare tutti i luoghi comuni circolanti su violenze sessuali e violentatori. Le ha scritte una storica inglese, Joanna Bourke docente al Birbeck College di Londra, in un libro ora tradotto in italiano (Stupro, Storia della violenza sessuale).
Il primo luogo comune a cadere sotto i colpi della Bourke è quello sulla costanza storica dello stupro: «è sempre esistito in tutte le società», ciò che ovviamente sottintende «e sempre esisterà, quindi perché agitarsi tanto?». Invece l’asserzione è falsa: esistono società in cui la violenza sessuale è quasi sconosciuta e ci sono invece epoche in cui gli stupri sono in forte aumento. Le società in cui regna l’eguaglianza sessuale, la tranquillità e alti livelli di potere economico femminile hanno basse percentuali di stupri, dice il libro. Noto a tutti è invece l’aumento esponenziale di violenze sessuali che si verifica in tempo di guerra: alcuni studiosi hanno avanzato la peregrina spiegazione che ogni e qualsiasi tipo di arma ricorda il fallo, altri hanno ricordato che spesso in un teatro di guerra dopo una battaglia vittoriosa i comandanti concedono ai soldati 24 ore di vacanza da tutte le regole: è la tradizione del bottino di guerra, in cui sono incluse le donne. Come accadde in Italia nel 1944, dopo la battaglia di Montecassino, a opera delle truppe coloniali inglobate nell’esercito francese, che ebbero dal generale Juin 50 ore di libertà: migliaia di donne italiane furono «marocchinate», parecchie morirono, Pio XII ne scrisse a De Gaulle, ne ebbe una risposta accorata e l’apertura di un provvedimento contro 360 soldati. In Giappone le cose non andarono meglio: nei documenti dell’esercito americano è scritto che in dieci giorni, tra il 10 agosto e il 10 settembre 1945, gli Alleati si resero protagonisti di 1336 stupri nella sola prefettura di Kanagawa. Un ex sergente delle Riserve dell’Esercito che aveva accesso all’archivio delle forze di occupazione del Commonwealth dichiarò che i documenti erano una rassegna di stupri, saccheggi e razzie E conclude con un esempio: «Una sera entriamo in un bordello e forse ci fanno pagare un bicchiere di birra cinque centesimi in più. Così torniamo al campo, reclutiamo 30 compagni e andiamo a distruggere il bordello, lo incendiamo, pestiamo il personale e stupriamo le donne che non ci piacciono. E per tutto questo riceviamo una tiratina d’orecchie». Qualche decennio dopo la «propensione» dei soldati alle violenze sessuali fu cinicamente strumentalizzata in Bosnia dal leader serbo Radovan Karadzic, che era stato psichiatra, per indurre i bosniaci a firmare l’abbandono «volontario» delle loro case e dei loro beni: fu «l’arma dello stupro», che dette il titolo a un instant book pubblicato nel 1993 (E. Doni e C. Valentini , La Luna edizioni).
Il libro di Joanna Bourke sulla storia della violenza sessuale passa in rassegna anche l’accoppiata che viene periodicamente riproposta tra immigrazione e stupri. Negli Stati Uniti l’argomento è stato studiato in particolare per quello che riguarda gli afroamericani e la violenza è stata indicata come prodotto della sottocultura del ghetto: espressione di alienazione e rabbia diffuse, del desiderio di dimostrare la propria aggressività e la capacità di dominio. «Mi deliziava l’idea di sfidare e di calpestare la legge dei bianchi, il loro sistema di valori, di profanare le loro donne», ha scritto Eldridge Cleaver, leader di Potere Nero. Peccato però - nota la Bourke - che sociologi e criminologi concordano nel dire che il 90% degli stupri è interrazziale.
Punizioni
Un altro argomento del giorno in Italia è quello dell’inasprimento delle pene, che sono in molti a chiedere. «L’esperienza insegna - dichiara la storica inglese - che l’aumento delle reazioni punitive è stato inefficace, se non controproducente». E neppure l’approccio medico - lobotomia, castrazione chimica - ha dato risultati sicuri. A volte ha solo modificato l’obbiettivo: è capitato che un pedofilo abbia smesso di molestare i bambini per rivolgere la sua violenza contro donne adulte. E tuttavia, conclude la Bourke, lo stupro non è un male endemico dell’umanità. Gli uomini non sono stupratori: alcuni uomini lo sono e anche alcune donne. Stupratori non si nasce, si diventa: essere crudeli è una scelta. Dalla quale si può tornare indietro, come accadde proprio al leader di Potere Nero, Eldridge Cleaver. La violenza sessuale può essere combattuta e vinta, dice l’autrice di Stupro, con una politica della virilità che si concentri sul corpo dell’uomo come strumento di piacere e non di oppressione e dolore.

l’Unità 2.3.09
Che fastidio il teatro? Ma mi faccia il piacere!
Chi detesta jazz e opera sarà presto accontentato dal governo
di Nicola Piovani


Gli intellettuali italiani non amano il Teatro, non è una novità. Questa considerazione antica è sempre più attuale. Le ultime polemiche sui fondi alla cultura hanno ancora una volta evidenziato questa nostra bella lacuna: la cultura italiana, a differenza di quella anglosassone, ma anche francese, tedesca, statunitense, considera il Teatro non lo spazio principe e imprescindibile di ogni civiltà nazionale, ma una specie di soffitta dove relegare i nostalgici amanti della prosa: un pubblico anzianotto e impellicciato che va a sbadigliare davanti all’ennesimo Tartufo o Zio Vania o Enrico terzo, quarto, quinto che sia.
Solo nostalgici?
In certi ambiti dichiarare «Io a teatro non ci vado mai» è un vanto anziché una confessione, è una frase che suona bene; mentre magari dire «Io non leggo mai libri» suona male, come «Non sento mai concerti classici», «Mi annoio davanti a Caravaggio», «Mai visto Kaurismaki».
Leggendo quello che gira in questi giorni, avverto l’espandersi di questo fastidio diffuso dei pensatori italiani verso il lavoro e la ritualità teatrale. E penso che sia proprio questa la causa dei tanti equivoci che girano in questi giorni sul tema delle sovvenzioni alla cultura. Lo schema del ritornello è più o meno sempre lo stesso, Brunetta o Baricco che sia: «I teatri stabili non funzionano, quindi chiudiamoli». «Gli enti lirici sperperano, quindi chiudiamoli». «Il paziente ha la febbre quindi sopprimiamolo» anziché cercare dei buoni antibiotici. E per spararla più grossa si dice anche: «Siccome i teatri funzionano male, spostiamo quei fondi dedicati allo spettacolo sulla televisione pubblica», che come tutti sanno funziona benissimo culturalmente, senza sprechi e disfunzioni.
Alla Totò
Certo, ha ragione Lucarelli a dire che il tema è serio e merita un dibattito approfondito - che peraltro non è del tutto mancato -, ma ci perdonerà se ogni tanto, di fronte a certe enormità ci scappa una risposta leggera, alla Totò, un sorridente «ma mi faccia il piacere!» Chi ha girato il territorio italiano sa quanta vitalità civile, sociale e perciò culturale si sviluppi attorno agli spettacoli dal vivo, alle attività delle piccole compagnie locali, agli eventi di prosa e di musica. Tante persone entusiaste, dal Veneto alla Sicilia, escono di casa la sera, affrontano anche disagi, spese, freddo, per ritrovarsi in una sala a condividere uno Zio Vania, un Paolo Rossi, una Bohème o anche un Paese dei Campanelli...
Se questa vitalità collettiva vogliamo spegnerla e rimandare questi uomini di buona volontà tutti a casa a vedere la televisione, si fa presto: basta tagliare quel po’ di fondi che ancora l’Italia dedica allo spettacolo dal vivo. Ricordo che sono somme incresciosamente piccole rispetto agli investimenti degli altri paesi europei (le cifre, per chi non le sapesse, sono ufficiali e facilmente consultabili).
La prospettiva
Comunque, quelli che la pensano così, quelli che detestano e vogliono veder scomparire i teatri d’opera o di prosa, i concerti classici o jazz, i musical e i cabaret, possono stare tranquilli: a breve saranno accontentati dal nostro governo.

l’Unità 2.3.09
Scoperta in Kenya la più vecchia orma di un nostro antenato
Ha un milione e mezzo di anni ed era di un Homo erectus
La storia dell’uomo in un convegno su evoluzione e Chiesa
di Pietro Greco


L’orma è la più antica mai rinvenuta di un membro del genere Homo. Appartiene a un essere che ormai si muove agevolmente su due gambe e che ha una dieta di qualità superiore. Proprio come noi.
L’arco plantare è pronunciato. L’alluce, perfettamente allineato, è parallelo alle altre dita. Che sono piccole e corte. L’orma del piede che fa bella mostra di sé sulla copertina della rivista Science di venerdì scorso sembra proprio quella di un uomo dei nostri giorni: piuttosto robusto, alto 1,75 metri, capace di camminare e di correre anche sui terreni più accidentati. Invece risale a 1,5 milioni di anni fa, apparteneva alla specie Homo ergaster/erectus e rappresenta l’orma più antica mia rinvenuta di un membro del genere Homo.
A ritrovarla sono stati l’antropologo inglese Matthew Bennett e i collaboratori, che le hanno individuate a Ileret, a est del Lago Turkana, in Kenya. L’impronta dell’orma di Ileret è stata ricostruita al computer, mostrando che è molto simile a quella di un uomo moderno, che ormai si muove con naturalezza e a largo raggio nella sua postura eretta, che ha una dieta di qualità superiore e ha subito importanti cambiamenti, culturali e adattativi, rispetto agli ominini precedenti.
L’impronta di Ileret entra dunque nell’archivio della storia accanto alla celebre «orma di Laetoli» scoperta in Tanzania nel 1979 da Mary Leakey, attribuita a un essere bipede - un australopiteco - e risalente a 3,6 milioni di anni fa. Malgrado sia molto più giovane di quella Laetoli, l’«orma di Ileret» non è meno importante. Proprio a causa della differenza strutturale dei piedi che l’hanno impressa. Quello dell’australopiteco ha ancora nell’alluce divaricato, nelle dita lunghe e nel plantare piatto, il ricordo di un recente passato arboricolo. La specie cui appartiene l’essere che l’ha impressa, 3,6 milioni di anni fa, era da poco «scesa dagli alberi». La specie cui appartiene l’essere che ha impresso l’orma del suo piede nel fango di Ileret si è ormai completamente adattata al nuovo ambiente e ha una postura eretta molto meno goffa.
Le due orme ci raccontano della lunga - ma non lunghissima - storia dell’uomo. Una «normale» storia evolutiva che si è sviluppata negli ultimi sei o sette milioni di anni come ramo, cespuglioso, della storia delle grandi scimmie antropomorfe in forza delle medesime forze darwiniane che hanno modellato, nel tempo profondo, tutte le specie viventi.
Anche di questa storia si parla nella Conferenza internazionale su L’evoluzione biologica: fatti e teorie che si apre oggi a Roma presso la Pontificia Università Gregoriana, con una relazione introduttiva di un grande biologo evoluzionista, Simon Conway Morris, dedicata proprio alle evidenze paleontologiche. La conferenza - alla quale partecipano studiosi di gran vaglia, cattolici ma anche laici - durerà fino a sabato 7 marzo e ha un grande obiettivo: dimostrare che c’è una reale possibilità di dialogo tra scienza e fede anche nel campo dell’evoluzione biologica. L’intento degli organizzatori, infatti, è dimostrare che nell’ambito della Chiesa cattolica c’è spazio per un confronto critico con le scienze biologiche, senza nessuna concessione a forme antiche e nuove di creazionismo.

l’Unità 2.3.09
Senza azione non ci sarebbe immaginazione e linguaggio
Ascoltando un verbo la corteccia si attiva per compiere movimenti
di Cristiana Pulcinelli


L’azione può aiutarci a capire il mondo e a interagire con i nostri simili? Una ricerca italiana appena pubblicata sulla rivista PlosOne conferma quella che da qualche tempo sembra un’ipotesi realistica. Lo studio, condotto da un’équipe di neuroscienzati della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste, ha analizzato le relazioni tra aree motorie e comprensione del linguaggio.
«Siamo partiti – spiega Raffaella Rumiati che ha guidato il gruppo – dalla teoria secondo cui le aree motorie si attivano in modo necessario e automatico per comprendere il linguaggio. Una teoria, a nostro avviso, troppo generale». I neuroscienziati hanno quindi cercato di chiarire in quali circostanze le aree motorie si attivano durante la comprensione linguistica. Gli scienziati hanno misurato il grado di attivazione delle aree motorie di alcuni volontari posti di fronte a compiti linguistici. Si è visto così che l’attivazione dei neuroni motori in risposta a stimoli linguistici è strategica: non avviene sempre e comunque, ma con parole e compiti specifici. «Le aree motorie si attiverebbero con parole che hanno una qualche relazione con un’azione, verbi o nomi di oggetti di uso quotidiano, quali “prendere” o “bottiglia” - spiega Liuba Papeo, prima autrice dell’articolo – ciò succede, però, solo quando l’informazione motoria contenuta nella parola è necessaria per svolgere un compito». Ad esempio, se qualcuno ci chiede se “accarezzare” descrive un’azione manuale, la strategia cognitiva più efficace per rispondere è quella di immaginare l’azione. Così facendo attiviamo le aree motorie. Se dobbiamo, invece, decidere se la medesima parola ha 4 o 5 sillabe, non è necessario far ricorso a una strategia motoria.
«Le aree motorie - spiega Papeo - non sono al servizio dei processi strettamente linguistici ma di altre operazioni mentali, come l’immaginazione, che rendono la comprensione e quindi l’interazione sociale più fluida ed efficace».

Corriere della Sera 2.3.09
Fronte contrario dopo gli scontri a Padova. «Potenziare i nostri organici, mancano diecimila uomini in divisa»
Carabinieri e poliziotti: le ronde vanno fermate
Cocer, appello a Napolitano: misura impraticabile. Silp e Sap: costretti a fare i badanti
di F. Sar.


ROMA — La definizione non lascia spazio agli equivoci: «Misura impraticabile». Così il Cocer dei carabinieri boccia le ronde e chiede un incontro al capo dello Stato e al presidente del Consiglio «per avere chiarimenti su tematiche che oggi offuscano la serenità dei nostri colleghi».
Fanno sponda i sindacati di polizia, in particolare il Silp Cgil e il Sap (che da Torino denuncia: «I partiti cercano di lottizzare le ronde, per noi un ruolo di badanti»), che al governo si appellano affinché «non sia convertita in legge quella norma».
Il fronte contrario è compatto, soprattutto dopo quanto è avvenuto a Padova con la rissa tra i leghisti di «Veneto Sicuro» e gli antagonisti del centro sociale «Pedro» e la Digos in mezzo a cercare di dividere i contendenti. E tenendo conto di quanto potrebbe avvenire nei prossimi giorni, con le associazioni di cittadini che in molte città si stanno organizzando per pattugliare parchi e strade.
A Napoli, dove gli abitanti del quartiere dove è stato arrestato Pasquale Modestino per lo stupro su un dodicenne avevano già annunciato ronde antipedofili, in tanti hanno chiamato il numero verde della Protezione civile, per chiedere una presenza davanti alle scuole dei propri figli. Oggi il debutto. Favorevole il sindaco di Cicciano, contrario quello di Massa di Somma, i Comuni che sono stati teatro delle ultime violenze.
La rappresentanza dell'Arma è chiara: «Non è così che si risolvono i problemi della sicurezza». Un lungo comunicato entra nel dettaglio di quanto avvenuto nelle ultime ore e poi chiede risorse economiche «assegnate ormai da anni in misura sempre minore dalle varie Finanziarie alle forze dell'ordine», ma anche potenziamento degli organici perché «non si possono istituire ronde di vigilanza quando tra poliziotti e carabinieri mancano quasi 10 mila uomini ». Per il Cocer «l'impianto sicurezza dev'essere basato su due pilastri fondamentali: l'incremento consistente delle risorse economiche al fine di migliorare gli standard operativi, logistici e tecnologici delle forze di polizia; la creazione immediata di nuovi istituti di pena al fine di scongiurare nuovamente l'ipotesi di un indulto, vanificando i notevoli sacrifici di magistrati, poliziotti e carabinieri». Nei giorni scorsi i sindacati di polizia avevano espresso critiche forti sulla scelta di inserire le ronde nel decreto legge. E adesso Claudio Giardullo del Silp-Cgil ribadisce «la necessità di ripensare questa norma, perché bisogna evitare che la gente si faccia male per strada, ma soprattutto impedire che la gestione della sicurezza sia affidata ai partiti. E invece proprio questo sta avvenendo, con ronde politicizzate che non possono garantire né sul piano dell'imparzialità né su quello della professionalità ». In ogni caso «è urgente, visto che il provvedimento è in vigore, varare il regolamento di attuazione in modo da vietare sponsor economici e politici e fissare le regole sugli equipaggiamenti. Bisogna impedire che la gente vada in giro con cani, bastoni, spray urticanti, caschi».
Anche il segretario del Sap Nicola Tanzi evidenzia le difficoltà e sottolinea come «i centralini di questure e comandi dei carabinieri, così come i numeri di emergenza siano intasati dalle chiamate di chi segnala situazioni e chiede l'intervento delle forze dell'ordine. Noi non riusciamo a fare fronte e quando non arriviamo in tempo c'è chi interviene da solo. Una spirale pericolosa che va fermata con la massima urgenza».

Corriere della Sera 2.3.09
Maurizio Zipponi Da Rifondazione agli oratori: mi aspetto molto dalla prossima enciclica
E l'ex leader Fiom applaude il Pontefice «Le chiese? Meglio delle sedi sindacali»
di Enrico Marro


Ci vuole qualcuno che dica che cosa è moralmente accettabile e che cosa non lo è

ROMA — «Sì lo sapevo che sarebbe accaduto». Come, scusi: Maurizio Zipponi sa in anticipo quello che il Papa dirà all'Angelus? Ha delle spie in Vaticano? «No, volevo dire che non mi ha sorpreso, che è normale che Benedetto XVI parlasse in favore del lavoro e dei lavoratori, visto che in piazza San Pietro c'erano gli operai della Fiat di Pomigliano. Queste cose non nascono per caso, vengono preparate. E comunque il Papa e la Chiesa stanno dimostrando un'interesse altissimo al sociale e al tema del lavoro perché loro, sono gli unici, insieme con il sindacato, ad avere terminali diffusi sul territorio: gli oratori e le pastorali del lavoro». E poi, aggiunge il rosso Zipponi, il Papa sta preparando la sua prima enciclica sociale. Sulla quale l'ex leader della Fiom di Brescia e Milano e della sinistra Cgil e poi deputato (nella scorsa legislatura) di Rifondazione comunista ripone molte aspettative. Perché, spiega, «non credo che sarà solo un'enciclica sociale, ma sarà molto, molto incisiva sulla moralità dell'economia e della finanza. Punterà cioè a ristabilire quel confine tra onestà e disonestà che, nel mercato, è saltato ».
E uno come Zipponi aspetta che sia Papa Ratzinger a fissarlo il confine? Sembra proprio di sì. «Ci vuole qualcuno che dica che cosa è moralmente accettabile e che cosa non lo è. Prendiamo il divario tra le retribuzioni tra operai e manager. Può essere mettiamo 1 a 50 o deve essere 1 a 500 come quello che esiste tra il presidente della Fiat, Luca di Montezemolo, e un suo operaio? ». Di queste cose Zipponi — che dice di essere uscito da Rifondazione quando il partito «ha deciso di rifare il comunismo e questo mi ha fatto venire la pelle d'oca» — parla anche negli oratori. Sì, nelle parrocchie. Che spesso sono «molto più vicine alla realtà rispetto alle centrali sindacali che continuano a fare i loro teatrini a Roma, con accordi e accordoni che non parlano a chi è vittima della crisi».
Qualche sera fa, racconta, prima di andare in trasmissione da Michele Santoro, «sono stato all'oratorio del mio paese, Caino, vicino Brescia, con una ventina di ragazzi precari o che stanno per finire l'Università e non sanno quale sarà il loro futuro: a loro la parrocchia offre un luogo di aggregazione. Significa di più dei concetti astratti di destra e sinistra». La Chiesa, continua, «ha capito che il conflitto non è tra capitale e lavoro, ma che il conflitto rischia di essere il risultato della disperazione e quindi è allarmata ». Scusi Zipponi, ma lei appunto più che un ex barricadero sembra un credente. «No, non sono un credente né un praticante, ma ben vengano il Papa e la Chiesa che agiscono in base a quello che vedono e che sentono. Considero la Chiesa un punto di altissima sensibilità».
Insomma, un esempio da seguire. «Perché c'è il Papa che denuncia la situazione e indica i lavoratori come una priorità, ma contemporaneamente c'è la solidarietà concreta sul territorio. A Milano il cardinal Tettamanzi ha aperto un conto corrente per aiutare le famiglie che non reggono il mutuo e non arrivano alla fine del mese. E in molte altre realtà del Nord, che io conosco, si moltiplicano le iniziative di mutualità. Ecco, secondo me, anche i sindacati dovrebbero fare un po' come la Chiesa: ripartire dal basso, ripartire dalla solidarietà».

Corriere della Sera 2.3.09
Le parrocchie anticrisi: prestiti a tasso zero e accordi con le banche
Le diocesi mobilitate in tutta Italia
A Pavia, Vigevano e Tortona vengono concessi duemila euro ai fedeli, senza interessi e con rate personalizzate
di Gian Guido Vecchi


ROMA — Fondi di solidarietà, sottoscrizioni pubbliche, prestiti senza interesse, accordi con le banche, progetti di microcredito sul modello dell'economista e Nobel Muhammad Yunus. Le classiche mense dei poveri restano fondamentali ma non bastano più da un pezzo. Ci sono altre difficoltà, strati sociali e famiglie che non avrebbero mai immaginato di aver bisogno. E le diocesi italiane moltiplicano un impegno peraltro abituale, mobilitano parrocchie fedeli, lavorano di carità e creatività, raccolgono milioni per sostenere chi si trova in difficoltà. Si farebbe prima ad elencare quelli che non stanno facendo nulla, anche perché non ce ne sono.
Certo siamo in Quaresima, per i fedeli tempo di «preghiera, digiuno e obolo». Ma non si tratta solo di questo. A fine mese, tra il 23 e il 26 marzo, il comitato permanente della Cei si riunirà per definire i dettagli di quel «fondo di garanzia per le famiglie in difficoltà » voluto dal cardinale Angelo Bagnasco, una «colletta» che «verrà fatta in tutte le diocesi » e «si aggiunge a ciò che c'è già». Si è parlato di «decine di milioni di euro». Ma l'essenziale, qui, sta nel ruolo di coordinamento dei vertici della Chiesa italiana: alla Cei spiegano che «non si vogliono interventi a pioggia», d'emergenza, la «Chiesa di popolo» conosce la sua gente, è realista e vuole organizzarsi a fronteggiare la crisi «per un lungo periodo». Fermo restando che, se «la Chiesa non si tira indietro», lo Stato «deve fare per intero la sua parte», ha spiegato il presidente della Cei invitando le forze politiche a un «vera coesione » davanti alla crisi.
Intanto molte diocesi si sono mosse. Già prima di Natale il cardinale Bagnasco aveva prospettato il suo piano e la prima risposta è arrivata dalla diocesi più grande, Milano, con il cardinale Dionigi Tettamanzi che la notte della vigilia annunciò la nascita di un fondo per le famiglie da un milione di euro raccolto tra fondi dell'8 per mille, risparmi della diocesi e risorse personali: in queste settimane il fondo è già salito a quasi tre milioni (2.935.335, per la precisione), uno dalla Fondazione Cariplo e il resto grazie alla sottoscrizione della gente ( www.chiesadimilano. it). Lo stesso ha fatto a Bologna il cardinale Carlo Caffarra con il suo «Fondo emergenza famiglie 2009» gestito dalla Caritas. Da Torino a Genova, da Venezia a Napoli le grandi diocesi stanno in prima fila.
Ma sono quelle piccole a dare l'idea di quanto siano capillari le iniziative di diocesi e Caritas diocesane, d'intesa con amministrazioni e banche locali. I vescovi di Pavia, Vigevano e Tortona hanno definito un piano di prestiti da duemila euro, senza interessi e con rate personalizzate. Un po' come il «credito solidale» di Trento, con uno stanziamento iniziale di 40 mila euro. Quello dei microcrediti è in effetti lo strumento più diffuso. A cominciare dai luoghi dove la crisi non è una novità: a Prato, con un fondo di garanzia di 130 mila euro, il microcredito è attivo dal 2005, con prestiti fino a cinquemila euro. Qui nel 2005 è nato il primo fondo anticrisi per le famiglie, in due anni la Caritas ha stanziato 250 mila euro. E c'è anche un «Emporio Caritas» dove i bisognosi fanno la spesa senza soldi: aperto a giugno 2008, ha distribuito merce per 180 mila euro.
Un progetto di «microcredito etico-sociale» è appena stato lanciato dalla diocesi di Chieti e Vasto, guidata dall'arcivescovo- teologo Bruno Forte: la chiesa si farà garante per l'accesso al credito in banca di chi non ha i requisiti. Un'iniziativa simile, tra le tante, si trova anche nella diocesi di Cesena. Un'altra a Potenza e in tutta la Basilicata. Un fondo per microcrediti aperto anche alle piccole imprese sta nascendo nella diocesi di Pitigliano-Sovana- Orbetello. E poi ci sono i fondi veri e propri per le famiglie. A Lucca (120 mila euro stanziati) il fondo si aggiunge a un progetto di microcredito. A Mazara del Vallo è permanente: esiste da otto anni per tutti i 13 Comuni della diocesi. A Lodi — dove è vescovo Giuseppe Merisi, presidente della Caritas italiana — la diocesi inizia con 50 mila euro. A Bergamo e Vicenza con 300 mila. A Siena si parte da 150 mila. Altri se ne annunciano da Frosinone a Molfetta, da Novara a Trani, dove ci sarà una «colletta di solidarietà» come a Cremona o Reggio Calabria. E poi Piacenza, Modena, San Minato... Qualsiasi elenco è inevitabilmente provvisorio e carente. Anche perché per molte parrocchie, evangelicamente, l'importante è che l'iniziativa sia conosciuta in zona: «Quando fai l'elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra...».

Corriere della Sera 2.3.09
Il congresso radicale Il leader: sostituire la classe dirigente corrotta con la nostra
Pannella lancia la sua nuova sfida «Basta con i partiti-sciagura»
La Bonino critica Rutelli: fa il «sapientino» sul testamento biologico
«Se i cittadini fossero correttamente informati, almeno otto-dieci milioni sarebbero al nostro fianco»
di A. Gar.


CHIANCIANO (Siena) — Pannella contro tutti. Ha convocato e guidato questo «Congresso italiano del Partito radicale transnazionale» all'insegna della «liberazione dal regime partitocratico che dura da 60 anni». Liberazione paragonata a quella dal fascismo. Obiettivo: «Sostituire la classe dirigente al governo, espressione dei partiti corrotti, con quella radicale». Un tornado per travolgere maggioranza e opposizione, compreso il Pd che accoglie nove radicali nei suoi gruppi parlamentari. Progetto ai limiti dell'impossibile, ma secondo Pannella la colpa è dei mass media: «Se fossero correttamente informati almeno otto-dieci milioni di cittadini sarebbero al nostro fianco».
Emma Bonino, meno sognatrice e più pratica, riporta il discorso sul testamento biologico. Corregge la polemica con Dorina Bianchi, capogruppo cattolico del Pd in Commissione Sanità al Senato: «L'ho paragonata al mullah Omar, ma non volevo personalizzare la polemica». Puntualizza: «Non è vero che io e lei rappresentiamo due posizioni estremiste: il mio laicismo etico non vuole imporre niente a nessuno, mentre la Chiesa pretende di imporre le sue regole morali a tutti». Prosegue: «Non è nemmeno vero che in mezzo a noi ci sia un sapientino moderato che cerca di fare il mediatore ». Così anche Rutelli, ospite del congresso il giorno prima, è sistemato. Poi, Bonino si chiede: parliamo di liberazione, ma oggi chi sono gli americani che ci daranno una mano? «I laici — si risponde — ovunque siano accasati, anche nell'Udc, nel Pdl, in Rifondazione comunista. E i nostri amici rumeni. E i piccoli e medi imprenditori».
Sullo sfondo, le elezioni europee.
Nella loro trasversalità anti-partiti, i radicali, se vogliono rappresentanti a Strasburgo, devono legarsi a qualche partito. A Chianciano il segretario socialista Riccardo Nencini ha chiesto ai radicali di entrare nell'alleanza fra socialisti, vendoliani, Verdi e Sinistra democratica. Ma Pannella si riserva la possibilità di trattare ancora con il Pd. La decisione, probabilmente, arriverà a fine aprile, ultimo momento utile.
Nencini ha proposto ai radicali uno scambio politico: i socialisti presenteranno le battaglie radicali negli enti locali e i radicali quelle socialiste in Parlamento. Prima idea: «Una legge per uniformare le indennità dei consiglieri regionali a quelle della Toscana, le più basse d'Italia, pari al 65 per cento delle indennità dei parlamentari. In altre regioni gli stipendi sono anche al 110 per cento. Si risparmierebbero 110 milioni di euro da destinare a precari, licenziati, laureati meritevoli».

Corriere della Sera 2.3.09
Ricordi «Lo conobbi che doveva dare la maturità. Condivise tutte le nostre battaglie. La svolta religiosa? Avrà avuto buoni motivi»
Marco: accolsi io Francesco, era molto creativo
di Andrea Garibaldi


CHIANCIANO (Siena) — Allora, Pannella, con Rutelli lei è sembrato un antico padre bonario e affettuoso, nonostante il figliolo sia così discolo... «No, padre no». Fratello maggiore? «Nemmeno. C'è un termine francese che ben ci definisce, me e Francesco: compagnonnage. Vale per chi ha passato assieme gli anni della scuola, della giovinezza, dell'apprendistato ». Rutelli è tornato, sabato, a mettere piede in un congresso radicale. Cautissimo, pareva camminasse sulle uova. Ma il suo scopritore (Pigmalione, dicono) lo ha accolto e se lo è messo seduto alla sua sinistra. Adesso — sarà che Pannella compie 79 anni a maggio pur dimostrandone dieci di meno — è il momento della benevolenza, dell'assoluta non violenza verso il compagnon che ha lasciato la laicità per genuflettersi in chiesa. Non ci sono parole amare di Pannella, per Rutelli.
«La prima volta che vidi Francesco? Bussò alla porta della sede radicale di via di Torre Argentina. Aveva letto una pagina su di me sul Messaggero, ed era venuto. Aprii io la porta, lui quasi non ci credeva. Doveva dare la maturità classica, mi pare. Da quel giorno, era la metà degli anni '70, ho cominciato a vedermelo sempre intorno».
Digiunava? «Eccome! Ha ricordato sul palco la battaglia contro la fame nel mondo. Solo che ha detto che la perdemmo. Ricordi male, Francesco. Riuscimmo a spostare dei fondi, salvammo delle vite». Fumava spinelli? «Era antiproibizionista, come tutti noi». Sabato ha detto: non c'ero quando si combatteva per il divorzio, arrivai a metà per l'aborto... «Condivise tutto, comunque». Si affacciò dal balcone di Montecitorio... «Fu dopo la firma della revisione del Concordato con la Chiesa. Sovrappose la bandiera dello Stato vaticano a quella italiana. Polemico col Vaticano...».
Insomma, Francesco Rutelli, il migliore della nidiata di Pannella. Il preferito. Quello che ha fatto più strada. «Ma no! Tanti hanno fatto strada. Quando ero segretario del partito, avevo quattro vicesegretari. Rutelli. Giovanni Negri. Quagliariello, oggi vicecapogruppo del Popolo delle libertà al Senato, uomo importante! Maria Teresa Di Lascia, che vinse il Premio Strega con un suo romanzo. E citerò Elio Vito, che era mio assistente in consiglio comunale a Napoli, oggi ministro di Berlusconi». E Capezzone... «Capezzone è l'unico che mi ha un po' deluso. C'è chi vive per la politica, e chi vive di politica, come lui».
Parliamo delle qualità di Rutelli. «Capacità, convinzione, intelligenza, cultura. Era molto creativo. Ieri gli abbiamo mostrato un salvadanaio con la rosa nel pugno disegnata sopra.
E' l'ultimo superstite di mille salvadanai che aveva fatto fare lui per raccogliere fondi in tutta Italia, quando fu tesoriere del partito». Nell'89 uscì dal Partito radicale. Verde arcobaleno. Verde. Sindaco di Roma. «Sempre col nostro appoggio. Sempre iscritto radicale».
Gennaio 1996, Rutelli si sposa in chiesa: è lì che si rompe qualcosa? «Oggi dico, con il cardinale di Retz, che solo gli stupidi non cambiano mai opinione. Fra noi radicali esistono sempre il diritto alla pigrizia, il diritto alla conversione, e tanti altri diritti». Ma il matrimonio in chiesa... «Penso a Claudio Martelli, compagno di battaglie. Ebbene al terzo matrimonio si è sposato in chiesa. Sono affari suoi!».
Rutelli ha tradito molte vostre cause, a giudicare dall'esterno. «Mai chiamato nessuno traditore, io». Pannella, pensa che ci sia totale buona fede nella sua scelta religiosa? «Totale buona fede, cosa vuol dire? Diciamo che avrà trovato buoni motivi per farlo...».
Nella sua lunga vicenda di giovani compagni di strada che prendono altre strade, Pannella riconosce a Rutelli una specialità: «Contrariamente ad altri, lui ha detto chiaramente: ho mutato convinzioni. Sabato qui ha dovuto leggere in pubblico la sua storia. Ha fatto un tentativo, premiato, di stabilire con noi attenzione reciproca. Soltanto, a proposito della sua difesa assoluta della vita, gli ho ricordato Pascal: "Disgrazia vuole che chi vuol essere angelo fa la bestia". Sembra lui il vero radicale mentre noi, che non vogliamo imporre nulla a nessuno, siamo i moderati».

Repubblica 2.3.09
Pannella, amarcord su Rutelli "Si è convertito senza tradirci"
Ma la Bonino lo critica: sulla biopolitica è impreparato
Il leader: l’unica delusione è stato Capezzone, vive di politica e non per la politica
di Umberto Rosso


CHIANCIANO - «Bene Rutelli, però di radicali che hanno cambiato idea, e a pieno diritto, ne ho visto tanti sfilare al mio fianco».
Marco Pannella chiude il congresso, lancia l´ennesimo appello per convincere gli italiani a liberarsi dalla partitocrazia, ma è "l´effetto-ritorno" dell´ex vicepremier che resta nell´aria. A riflettori quasi spenti, il vecchio leone non rinnega la commozione, «ringrazio Francesco anche perché ci spinge a riprendere la lotta alla fame nel mondo», ma precisa, circoscrive, corregge, e si riprende il posto del mattatore. «Da radicale a cattolico? Fatti suoi. In casa nostra la categoria del tradimento non esiste. Però non è stato il solo ad andare via, e non mi pare nemmeno il caso più clamoroso. Da segretario, avevo tre vice: Rutelli, Gaetano Quagliarello, Giovanni Negri. E in tre hanno poi imboccato strade diverse dalle mie. Buon viaggio a tutti». O forse non proprio a tutti tutti. Che a farsi raccontare emozioni e amarcord, mentre stanno smontando il palco della kermesse e Bordin lo aspetta per solito filo diretto domenicale con Radio Radicale, da qualcuno dei suoi molti e amati figli sì è sentito colpito al cuore. «Si può vivere per la politica. Si può vivere di politica. Per Daniele Capezzone vale la seconda opzione. Che delusione». Rutelli, no. «Ha fatto scelte diverse, si è sposato in chiesa, è contro l´aborto, si è fatto cattolico dopo le battaglie radicali, ma non per opportunismo. E sono certo che anche qui è venuto a parlare non per meschini calcoli tattici ma perché lo sentiva davvero».
Anche se alla Bonino la "lezioncina" dell´ex presidente della Margherita non è piaciuta. Spiega perché. Rutelli è venuto a presentarsi come «il saggio moderato che media fra opposti estremismi sul testamento biologico: è una caricatura». Perché, dice Emma, in campo non ci sono affatto due squadre di pasdaran.
La Chiesa e i suoi referenti politici («ma non ce l´ho personalmente con Dorina Bianchi») vogliono imporre la propria posizione erga omnes, i radicali e i laici sono per la libertà di scelta. Altro rimprovero a Rutelli: «Per anni ha sostenuto che la politica doveva tenersi alla larga dai temi etici. L´opposto della nostra idea. Magari non è ancora molto preparato in materia».
Travolti da un congresso di insolite emozioni, finisce che lasciano sullo sfondo i nodi politici. Il segretario dei socialisti, Riccardo Nencini, chiede ai radicali di entrare a far parte di «un´alleanza laica e riformista». Il cartello fra Ps, vendoliani, verdi e Sd dovrebbe prendere forma in settimana, Nencini vorrebbe appunto aggiungere un posto in più. Pannella prende tempo. Anche Giovanni Guzzetta, presidente del comitato del referendum elettorale, è latore di una richiesta ai radicali: unitevi alla nostra battaglia dell´election day, per votare il 7 giugno insieme alle europee.
Si vedrà. Perché per ora nel flusso dei pensieri del grande vecchio tiene banco ancora Rutelli, «me lo ricordo quando bussò per la prima volta a Torre Argentina, nemmeno ventenne, studente universitario: andai ad aprire giusto io, e da quel giorno diventò una presenza quotidiana». Segretario regionale, segretario nazionale, capogruppo alla Camera, il filo che poi si spezza. «Ma una rottura vera, quella forse non c´è mai stata. E niente polemiche, rancori personali, magari disagio, questo sì». Come un padre abbandonato dal figlio? «Niente padri e niente figli. Compagni. Fratelli. Compagni che percorrono insieme un pezzo di strada. Come con tanti altri però. Che ne so, Elio Vito che poi diventa il capogruppo di Forza Italia. O Marco Taradash». L´altro giorno, il ritorno. «Mi ha detto, Francesco: neanche un fischio, grazie per aver organizzato la platea. L´ho guardato: macchè, da noi se io dico una cosa, fanno subito il contrario. Lui si è illuminato, e si è ricordato di come son fatti i radicali: hai ragione, io vi conosco bene».

Repubblica 2.3.09
Il Dio del cuore e il Dio del potere
di Nadia Urbinati


LIBERARE lo Stato dalla religione ha significato consentire alla religione di espandersi liberamente nella società, di rafforzare la propria forza attrattiva.
Questo è uno degli insegnamenti che ci offre la storia dell´Europa moderna. E liberare lo Stato dalla religione è stato possibile quando lo stato di diritto ha vinto la propria battaglia sullo stato confessionale. In un libro interessante sull´età del secolarismo, Charles Taylor, forse il filosofo cattolico più noto e rappresentativo del nostro tempo, ha mostrato molto bene come l´età secolare non sia affatto un´età di miscredenza, ma invece un´età di rinascita religiosa proprio per il rispetto affermato della libertà individuale, come libertà di coscienza e libertà religiosa, la quale è sia libertà di credere che libertà di scegliere in che cosa credere. Pre-modernità e modernità denotano secondo Taylor anche due modi di essere della religione: da un lato, una religione nella quale i credenti "appartenevano a Dio" e la loro fede era identificata con riti, pratiche ecclesiastiche, e gerarchie; e dall´altro, una religione che, sorta dalla critica di quella vecchia fede in nome dell´autonomia morale individuale, ha reso possibile l´affermarsi della religione come "fenomeno di fede" – un fenomeno per cui "Dio appartiene a noi", come creature che desiderano l´eternità e la trascendenza e quindi credono per scelta.
In tal senso l´umanesimo ha servito la causa della religione e il secolarismo è stato un lavoro non anti-religioso, ma la condizione affinché la religione tornasse a vivere nel cuore umano, invece che nei riti e nelle gerarchie. Quando la religione costituita fa un passo indietro, la religione come credenza fa un passo avanti: questa è stata fin dal Seicento, l´insegnamento della filosofia della libertà religiosa e della tolleranza, una filosofia grazie alla quale le comunità politiche possono essere luoghi di tranquillità e di reciproco rispetto.
Difendere lo Stato laico – ovvero lo Stato di diritto – è per questo un dovere che i cittadini religiosi dovrebbero avere a cuore in modo particolare, non meno degli altri. Stato laico non è stato secolarista, ma Stato che si dà come criterio per legiferare e giudicare quello della separazione del giusto dal bene. L´arte della separazione non è arte della negazione o dell´ipocrisia: tenere separati i nostri criteri di giudizio quando ragioniamo come cittadini e quando ragioniamo come individui sociali non significa affatto mettere a tacere le ragioni etiche per far trionfare quelle della politica. L´arte della separazione è quell´arte che consente a chi ha una dimensione religiosa di vita di vivere in coerenza a questa sua credenza e che non impone con l´arma della legge la sua visione del bene. E facendo questo non rispetta solo o semplicemente chi non ha particolari credenze religiose, ma prima di tutto chi ha una forte credenza religiosa e quindi anche se stesso. Poiché se è vero che solo chi è libero crede – se è vero che il credere è un atto di libertà personale fondamentale – allora chi crede non può vedere il proprio credo tradotto in un articolo del codice penale. Non è per legge che la nostra credenza avrà la certezza di essere rispettata, ma per nostra personale responsabilità e scelta.
Non è l´assenza di una legge che garantisce alla donna di decidere responsabilmente la propria maternità che libera la donna dell´onere della scelta e la società dall´aborto. Siamo davvero sicuri che avremo messo a tacere il nostro senso del dovere verso la vita qualora alcuni rappresentanti politici abbiano trovato un compromesso su questa o quella procedura? E come può un credente accettare di delegare ad alcuni – in tutto simili a lui – di prendere decisioni che solo egli potrà e dovrà in realtà prendere? In uno Stato di diritto, la legge non impone a tutti quello che alcuni (non importa quanti) pensano che sia bene fare in un campo, quello morale, dove è solo la coscienza dell´individuo che ha l´onere della scelta. È questa legge, non una legge etica, che salvaguardia la dignità del credente. E ciò che è buono per il credente lo è anche per il cittadino in questo caso. Che la democrazia sia un governo di eguali significa infatti niente altro che non si dà un criterio più legittimo per decidere se non la conta dei voti, e questo non perché la democrazia sia dozzinale o volgare, ma perché essa è umanissima. La democrazia presume che nessuno sia infallibile e saggio sopra tutti, tanto da poter decidere indubbiamente e ottimamente per tutti. Nessun mio rappresentante può decidere per me che cosa sia bene che io faccia per difendere la mia dignità morale. È avvilente quando si assiste a un Parlamento che si arroga il diritto di trattarci come fanciulli, che detti le sue massime etiche e che per giunta, e per necessità, le condizioni al compromesso e alla conta dei voti. Il credente religioso e il cittadino hanno qui lo stesso interesse: quello di avere politici che non facciano della vita l´oggetto di un compromesso politico. È proprio la dignità, quella di tutti – ma soprattutto quella dei credenti – che è in giuoco quando si chiede allo Stato di smettere di essere stato di diritto per farsi organo di una dottrina religiosa o etica.

Corriere della Sera 2.3.09
Che sciocchezze sulla mia India
Rushdie contro «The Millionaire», vincitore di otto Oscar «Inverosimile e ridicolo. Persino più banale del romanzo»
di Salman Rushdie


Vikas Swarup ha scritto un raccontone commerciale che sfida la ragione
L'autore dei «Versi satanici» elenca incongruenze ed errori cronologici del film
Una riflessione sul significato della trasposizione cinematografica dei testi letterari

Adattare significa trasformare una cosa in un'altra, un procedimento comunissimo in campo artistico. I libri diventano film o commedie, le opere teatrali a loro volta si trasformano in film o musical, i film vengono adattati per i teatri di Broadway o finiscono «romanzati», un brutto termine per indicare la loro versione libresca. Viviamo in un mondo di infinite trasformazioni e metamorfosi. Vecchi film eccellenti — Lolita, La pantera rosa — ricompaiono in pessimi rifacimenti; film scadenti —
L'incredibile Hulk, Gola profonda — sono girati nuovamente con risultati ancora peggiori.
Nell'adattamento si cela una forza creativa o distruttiva. Rod Stewart che canta Downtown Train è alla pari di Tom Waits, e Joe Cocker, con With a little help from my friends, compie il miracolo di cantare una canzone dei Beatles meglio dei Beatles, ma questo non sorprende più di tanto quando ci si ricorda che il cantante originale era Ringo Starr. In questi giorni insegno un corso su alcuni esempi celebri di ottimi libri trasformati in ottimi film — L'età dell'innocenza, di Edith Wharton, nell'adattamento omonimo di Martin Scorsese; Il gattopardo, di Tomasi di Lampedusa, tramutato nel più celebre film di Luchino Visconti; La saggezza nel sangue (Wise Blood) di Flannery O'Connor, diventato un film meraviglioso grazie alla regia di John Huston; e con la sua versione cinematografica di Grandi speranze, David Lean ha prodotto un classico che merita di essere considerato allo stesso livello del romanzo di Dickens, un film che ha convinto questo cinefilo a perdonargli il tremendo fiasco di Passaggio in India.
«La poesia è quello che si perde nella traduzione», diceva Robert Frost, ma Joseph Brodsky replicava: «La poesia è quello che si guadagna nella traduzione»: l'oggetto del contendere non potrebbe essere meglio definito. Sono sempre stato dell'opinione che se parliamo di una poesia che travalica i confini di una lingua per diventare un'altra poesia in un'altra lingua, o di un libro che passa dalla carta stampata alla celluloide, o di esseri umani che migrano da un mondo all'altro, Frost e Brodsky hanno entrambi ragione. Se qualcosa si perde sempre nella traduzione, si può sempre guadagnare qualcos'altro. Vorrei dare una definizione molto ampia dell'adattamento, che abbracci tanto la traduzione, quanto la migrazione, la metamorfosi, e tutti i mezzi per i quali una cosa diventa un'altra. La questione dell'essenza resta centrale nell'azione dell'adattare: come costruire una seconda versione di una cosa che è venuta prima, di un libro o film o poesia o verdura, o di te stesso, affinché diventi pienamente qualcosa di nuovo eppure conservi l'essenza, lo spirito, l'anima dell'originale, quella cosa che eri tu stesso, o il tuo libro, o poesia, o film. Che dire allora degli adattamenti che abbiamo visto alla cerimonia degli Oscar la scorsa settimana? Che cosa si può dire di Slumdog Millionaire (in italiano The Millionaire, ndr), adattato dal romanzo del diplomatico indiano Vikas Swarup e diretto da Danny Boyle e Loveleen Tandam, che si è aggiudicato otto statuette, tra cui quella di miglior film? Un film di buoni sentimenti sulle tremende bidonville di Bombay, un film dalla fotografia opulenta sulla povertà estrema, uno sguardo romantico, bollywoodizzato, puntato sul ventre putrido e assai poco romantico dell'India — beh, vi sarete sentiti commossi e con gli occhi umidi? Per rincarare la dose, c'è anche uno splendido balletto finale, in puro stile bollywoodiano. (A dire il vero, è una coreografia assai scadente anche per gli standard di Bollywood, ma lasciamo perdere). Sarà difficile remare contro un film talmente popolare, ma ci proverò.
I problemi cominciano con l'opera adattata. Swarup ha scritto un romanzone prettamente commerciale, con un intreccio che sfida la ragione: un ragazzo delle baraccopoli in qualche modo riesce a partecipare alla popolarissima versione indiana di Chi vuol essere milionario
e si aggiudica il massimo premio, perché gli eventi fortunosi della sua vita gli hanno consentito, per una serie di straordinarie coincidenze, di raccogliere le informazioni necessarie per rispondere correttamente alle domande che gli vengono poste, e in modo tale da ripercorrere il suo passato, con una sequela di flashback, per di più in ordine cronologico. È un concetto chiaramente risibile, un genere di fantasticheria capace di screditare il genere letterario del fantasy. Qui diventa un accorgimento narrativo conservato fedelmente dai registi e costituisce il nocciolo di questo film, dallo strano titolo di Slumdog Millionaire. Di conseguenza anche il film sfida ogni credibilità.
Senza contare che le assurdità si accavallano l'una sull'altra, superando persino la banalità del romanzo. Due ragazzini delle baraccopoli di Bombay, che parlano Hindi e Marathi, sfuggono a un incendio e di colpo si impadroniscono della lingua inglese, tanto bene da raggirare i turisti occidentali. Tra l'altro, scappando dall'incendio danno prova di un'agilità sorprendente, perché le inquadrature successive ce li mostrano accanto al Taj Mahal, che si trova nella città di Agra, a centinaia di chilometri di distanza. Un attimo dopo sono di nuovo a Bombay e il ragazzo più grande si è miracolosamente impadronito di una pistola e di alcuni proiettili, per non parlare dell'abilità e del coraggio per utilizzarli. Non si capisce come abbia fatto a ottenere un'arma. L'India non è gli Stati Uniti e non è facile procurarsi armi da fuoco, a meno che non si faccia parte di bande criminali e a questo punto del film la cosa appare del tutto improbabile. Veder scorrere sotto gli occhi la storia della tua città in modo così comicamente assurdo e pacchiano finisce con l'infastidire. Tale è il sentimentalismo di Slumdog Millionaire che se fosse stato girato in qualche località più familiare agli spettatori occidentali, tutti l'avrebbero bollato come una colossale scempiaggine. Crediamo seriamente che la donna di un padrino della mafia possa sottrarsi al suo potere per andare a vivere felice e contenta con il fidanzatino della sua infanzia? Don Corleone avrebbe tollerato forse un simile affronto? No? Beh, nemmeno i padrini della D-Company, o di qualsiasi altra gang criminale di Bombay.
Gli appassionati di cinema sostengono che i film basati su sceneggiature originali siano superiori agli adattamenti di romanzi e opere teatrali. Tra i libri migliori degli ultimi decenni, sottoposti a trasposizione cinematografica, vorrei ricordare — per citarne solo alcuni — The Rachel Papers di Martin Amis, Espiazione di Ian McEwan, Quel che resta del giorno di Ishiguro, Last Orders di Graham Swift, Oscar e Lucinda di Peter Carey, Spider di Patrick McGrath, Il tamburo di latta di Günter Grass, L'amore ai tempi del colera, La candida Erendira e Cronaca di una morte annunciata di Gabriel García Márquez, La macchia umana di Philip Roth e Short Cuts, tratto dai racconti di Raymond Carver.
La tesi a favore della sceneggiatura originale e contraria agli adattamenti mi è stata illustrata con grande fervore da un produttore cinematografico britannico, alquanto alticcio, che asseriva, battendo il pugno sul tavolo, che tutti i film adattati dai romanzi sono uno schifo. È una posizione certamente condivisibile e La macchia umana non è l'unico esempio. Difatti i film estratti da quasi tutti i libri che ho citato qui sopra sono stati tremendi insuccessi, tanto noiosi, fiacchi e poco convincenti, quanto gli originali erano appassionati, intensi e serrati. I film dei capolavori di García Márquez in particolare sono penosi travisamenti e sostituiscono la precisione immaginativa dello scrittore colombiano con un esotismo sgangherato che tradisce profondamente l'originale senza nemmeno rendersene conto.
La proposta del film d'autore fu avanzata inizialmente da François Truffaut nei Cahiers du Cinéma sul finire degli anni Cinquanta, e poi elaborata, dapprima come teoria cinematografica, e successivamente nella produzione di film, da un gruppo di critici destinati a diventare celebri registi: Truffaut, Jean-Luc Godard, Claude Chabrol, Eric Rohmer e Jacques Rivette. Ma sebbene l'idea della superiorità delle sceneggiature originali sugli adattamenti fosse centrale al pensiero della Nouvelle Vague francese, molti dei più grandi successi cinematografici francesi, e addirittura mondiali, degli anni Cinquanta e Sessanta furono in realtà splendidi adattamenti. Godard, sostenitore della sceneggiatura originale, riscosse il suo più grande successo commerciale con Il disprezzo, tratto da un libro di Alberto Moravia. Chabrol realizzò un film fantastico da un thriller scritto da Cecil Day Lewis sotto uno pseudonimo, Que la Bête meurt.
Rohmer girò un film stupendo dal celebre racconto di Heinrich von Kleist,
La marchesa di O... E non dimentichiamo Jules et Jim, tratto dal romanzo di Henri-Pierre Roché.
L'essenza di un'opera da adattare potrebbe trovarsi ovunque — nelle vicende secondarie che ci spiegano, per esempio, come fece Superman a diventare super, perché Batman indossò la maschera di pipistrello e perché il Joker se la ride tanto. Potrebbe trovarsi nella particolarissima atmosfera di una storia — i pregiudizi di una cittadina dell'Alabama durante la Depressione, vista attraverso gli occhi di una ragazza — oppure nell'interiorità del personaggio, la vita intima di Holden Caulfield o di Marcel, il narratore di Proust. Come queste essenze possano essere comprese e catturate nel film ce lo rivela, per esempio, l'eccellente film di Raul Ruiz tratto da Il tempo ritrovato di Proust, o il film di Robert Mulligan Il buio oltre la siepe, o ancora la straordinaria interpretazione di Heath Ledger nei panni del Joker ne Il cavaliere oscuro.
I più difficili da adattare sono quei testi la cui essenza si nasconde nella lingua, e questo potrebbe spiegare come mai tutti i film tratti dai romanzi di García Márquez sono così brutti; perché non sono mai stati fatti dei bei film dai libri di Italo Calvino, Thomas Pynchon o Evelyn Waugh (malgrado le tante versioni altezzose di Brideshead Revisited); perché i film di Hemingway sono tanto deludenti (penso a Il vecchio e il mare, con Spencer Tracy in balia delle onde accanto a un pesce morto), e perché persino un valido tentativo come quello di Joseph Strick nel 1967 di girare un film sul romanzo di Joyce, Ulisse, abbia prodotto un risultato che non è degno dell'originale, malgrado gli eccellenti attori, un ottimo Milo O'Shea nella parte di Leopold Bloom e Maurice Roëves in quella di Stephen Dedalus. Quando il tentativo va a segno, come nel caso di Huston alle prese con I morti, è perché il regista ha saputo fare un passo indietro per lasciar spazio alla parola di Joyce. Nella scena finale dell'Ulisse, quando Barbara Jefford, nei panni di Molly Bloom, si rotola lussuriosamente sul letto matrimoniale e pronuncia, con voce fuori campo, il più bel monologo della narrativa universale, e mentre sì dice sì dice sì, il mondo della lingua di Joyce riacquista finalmente tutta la sua vitalità.
Che cosa è essenziale? È questa una delle grandi domande della vita che si ripresenta, come accennavo prima, in tutti gli adattamenti, e non solo in quelli artistici. Il testo è la società umana e l'essere umano, isolato o in gruppi; l'essenza da preservare è l'essenza umana. Il risultato che ne scaturisce è il mondo confuso, ibrido e pluralistico in cui oggi noi viviamo, dove vige l'adattamento come metafora, per parafrasare Susan Sontag, l'adattamento come traghettamento, significato letterale del termine «metafora, dal greco, e del termine a esso ricollegato di «traduzione», stavolta di derivazione latina, per indicare un'altra forma di trasporto da una sponda all'altra.
Quali sono le cose che reputiamo essenziali nella nostra vita? La risposta potrebbe essere: i figli, la passeggiata quotidiana nel parco, un drink, la lettura, il lavoro, una vacanza, la squadra del cuore, una sigaretta, l'amore. Ma la vita ci costringe a molti ripensamenti. I figli se ne vanno di casa, ci trasferiamo lontano dal nostro amato parco, il dottore ci vieta fumo e alcolici, perdiamo la vista, perdiamo il lavoro, non ci sono più soldi o non c'è più tempo per una vacanza, la nostra squadra è una frana e il cuore va in frantumi. In quei momenti il nostro quadro del mondo penzola di traverso sul muro. Poi, se ce la facciamo, ci adattiamo. E finalmente comprendiamo che l'essenza è qualcosa di molto più profondo, è la forza che ci fa andare avanti. Le dodici specie distinte di fringuelli che Charles Darwin scoprì nelle Isole Galápagos si erano tutte adattate alle condizioni locali, ma quando l'ornitologo John Gould esaminò i campioni di Darwin nel 1837, si rese conto che non si trattava di uccelli di specie diverse, bensì di dodici varietà del medesimo uccello. Nonostante le mutazioni casuali e la selezione naturale, la loro «fringuellità », ovvero la loro essenza, era rimasta intatta.
Come individui, comunità, nazioni, noi ci adattiamo costantemente e siamo costretti a farci la domanda: in che cosa consiste la nostra «fringuellità»? Quali sono le cose alle quali non possiamo rinunciare, pena la perdita dell'identità? Questo lo apprendiamo dai poeti che traducono le poesie altrui, dagli sceneggiatori e registi che trasformano le parole sulla pagina in immagini sullo schermo, da tutti coloro che traghettano qualcosa da una parte all'altra: l'adattamento funziona meglio quando è una vera trasposizione tra il vecchio e il nuovo, eseguita da persone che conoscono profondamente entrambi. In altre parole, per riuscire, il processo dell'adattamento sociale, culturale e individuale, proprio come l'adattamento artistico, deve svolgersi in piena libertà, senza vincoli né costrizioni. Coloro che si aggrappano con eccessivo fervore al vecchio testo, la cosa da adattare, le vecchie usanze, il passato, sono condannati a produrre qualcosa che non funzionerà, infelicità, alienazione, spaccatura, fallimento, perdita.
Intere società rischiano di smarrire la loro strada tramite un errato processo di adattamento. Nel tentativo di salvarsi, rischiano di opprimere gli altri. Nella speranza di difendersi, rischiano di ledere proprio quelle libertà che credevano minacciate. Paladini della libertà, rischiano di erodere la libertà propria e altrui. In tempi di cambiamenti rapidi come quelli attuali, le società in movimento fioriranno — come per tutti gli adattamenti riusciti — se sapranno individuare con esattezza ciò che è essenziale e non negoziabile, ciò che tutti i loro cittadini devono accettare come prezzo della loro partecipazione. Da molti anni ormai, e lo dico con dolore, viviamo in un'era di pessimi adattamenti sociali, di compromessi e di rese da un lato, di eccessi arroganti e coercizioni dall'altro.
Possiamo solo sperare che il peggio sia passato e che il futuro ci riservi film e musical più belli, e giorni migliori.
© 2009, Salman Rushdie (Traduzione di Rita Baldassarre)

Repubblica 2.3.09
Impedire che i soliti se la cantino da soli
di Mario Pirani


È sempre più evidente lo scollamento tra l´elettorato di centro sinistra e chi dovrebbe rappresentarlo. Prevale nella cosiddetta base l´impressione di non contare nulla, premessa di un assenteismo punitivo nelle prossime elezioni locali ed europee. Eppure è paradossale che il fenomeno del distacco si verifichi in un´epoca caratterizzata, come non mai, dalla possibilità, ampiamente realizzata da milioni di individui, di interscambio di massa tra le persone singole e tra queste ed ogni tipo di istituzione. È vero, non esistono quasi più o sono semi deserte le sezioni territoriali, ma quanti milioni di collegamenti si realizzano in rete e si articolano in blog, facebook, e-mail, chat ed altri accessi in Internet?
Il centro sinistra italiano, anchilosato nei suoi riti ormai disseccati, sembra non accorgersi del cambiamento imposto dall´avvento dell´era informatica e ricalcitra di fronte all´idea di farlo proprio. Non si tratta, però, di una idiosincrasia tecnica ma di una resistenza politica. Non si vuole l´irrompere nel gioco interno della nomenklatura di una base messa in grado di manifestare a maggioranza una volontà propria, di sostenere l´emergere di nuovi personaggi, di mandare a casa chi non riscuota più la sua fiducia. Una conferma viene dal riemergere di una sorda ostilità verso le primarie, anche se queste non si svolgono per via telematica come in Francia. Vedi ad esempio l´affermazione di uno degli esponenti più autorevoli del Pd, l´ex presidente del Senato, Franco Marini secondo cui «le primarie rispondono a una idea presidenziale, mentre guidare un partito vuol dire accettare il dibattito e anche il dissenso... le primarie per eleggere un segretario di partito esistono solo in Italia».
La diffidenza per primarie e dibattiti informatici unifica, del resto, i capi ex Margherita ed ex Ds. In una delle interessantissime interviste di Curzio Maltese sui giovani del Pd, il più votato tra i candidati del Pd alla Regione Lombardia, Giuseppe Civati (Repubblica, 24/2) sbotta: «Ho letto che Bersani e Franceschini attaccano chi pretende di far politica coi blog. Pretende? Per la mia generazione è l´unico modo di fare ancora politica. Che dovremmo fare? Andare in sezione? A Milano la sede del Pd non c´è neppure».
La pulsione a riproporre il vecchio copione, per cui i soliti noti se la cantano e se la suonano, non rispondono mai dei loro errori, si autocandidano e si autoassolvono di fronte a una platea assente, tutto questo mi ha spinto a prestare attenzione a chi miri a dar voce all´opinione pubblica di centro sinistra (per Berlusconi il problema non si pone: interpreta alla perfezione il ruolo dell´"unto" dal suo popolo). Per questo dopo aver segnalato il caso delle primarie di Forlì (Repubblica 19/1) mi sono convinto che non è affatto da buttar via il progetto di un appassionato ricercatore del Cnr (studia Scienze e tecnologie della cognizione) Raffaele Calabretta, calabrese di 46 anni, che ripetutamente e invano mi aveva sommerso di e-mail concernenti una sua "invenzione", le doparie.
L´avevo preso per uno degli immancabili "inventori" che incombono da sempre nelle redazioni. Mi sbagliavo anche se l´uomo, come ha scritto di lui Filippo La Porta sul Riformista appare come un «mistico della democrazia», irruente, insistente ed ottimista. Non starò a riassumere i dettagli tecnici (vedi: http://doparie.it) e mi limiterò a dire che le doparie dovrebbero svolgersi nei periodi post elettorali (non servono quindi per scegliere candidati) per prendere decisioni con procedura simile alle primarie su alternative di scelta affidate alla democrazia partecipativa degli elettori: (alimentazione forzata o no? Tav sì o no? ritorno al nucleare o no? ecc.). Secondo il progetto le doparie nazionali e/o locali dovrebbero svolgersi una volta l´anno in seggi predisposti dai partiti o coalizioni dove si recherebbero gli iscritti (e gli elettori simpatizzanti?). In tal modo le decisioni più controverse uscirebbero dalle compromissioni verticistiche e rifletterebbero la volontà maggioritaria dei votanti. Sul fine vita, ad esempio, quanti "cattolici adulti" potrebbero far sentire una voce ben più forte di quella di quattro teodem? Detto questo aggiungo che le votazioni sarebbero più agevoli se si svolgessero in genere col sistema informatico. Anche questo è un nodo politico. Il nuovo statuto del Pd, infatti, prevede, all´art. 28, referendum interni informatici. Non è un caso se quell´articolo sia stato subito dimenticato e Veltroni sia giunto a dimettersi senza che nessuno abbia chiesto un parere ai tre milioni e più che lo avevano eletto.

Repubblica 2.3.09
Parigi, Le porte del cielo. Visioni del mondo nell'Egitto antico
Musée du Louvre. Dal 6 marzo


Nella lingua degli antichi egiziani le «porte del cielo» erano i battenti del tabernacolo che abitava la statua di una divinità. Simbolizzando il punto di passaggio verso l'altro mondo, questo modo di dire si applicava anche ad altri elementi di quella lontana cultura. Una vasta rassegna, curata da Marc Etienne, propone oggi un viaggio d'eccezione attraverso questo universo, di cui le «porte del cielo» segnano l'accesso, essendo il cielo nello stesso tempo spazio sensibile visto dalla terra e dimensione riguardante il divino. Costituito da circa trecentocinquanta pezzi di grande interesse, come la straordinaria Stele della dama Tapéret risalente al terzo periodo intermedio, XXII dinastia, databile tra il X-IX secolo a.C., non a caso scelta come immagine della mostra, il percorso espositivo copre un periodo di tre millenni, a partire dall'Antico Impero e fino all'epoca romana, con l'obiettivo di ricollocare gli oggetti quotidiani nel loro giusto contesto sociale, religioso e artistico. Le opere provenienti dal Louvre sono qui presentate insieme a oggetti di collezioni europee, per documentare la varietà di quest'arte, a torto considerata ripetitiva.

Repubblica 2.3.09
Martigny, Rodin erotico
Fondation Pierre Gianadda. Dal 6 marzo


«A volte il corpo umano curvo all'indietro è come una molla, come un bell'arco sul quale Eros carica le sue frecce invisibili», afferma il maestro. Una mostra, curata da Dominique Viéville, direttore del Musée Rodin di Parigi, prende ora in esame l'interesse del maestro per il nudo femminile, attraverso una trentina di sculture e novanta disegni, dai primi fogli acquerellati degli anni Novanta fino alle grandi matite degli anni Dieci. L'esposizione che ruota idealmente attorno a un gruppo di opere celebri, come Il bacio , Giochi di ninfe , Il torso di Adele e Iris messaggera degli dei , invita a considerare gli slittamenti progressivi dell'ispirazione che dallo studio del nudo portano alla sensualità e in alcuni casi perfino all'oscenità. Dalla fine degli anni '80 Rodin esegue infatti in modo ossessivo disegni erotici, lavorando in presa diretta, per cogliere i movimenti, gli atteggiamenti liberi e spontanei delle modelle. Esistono due tipologie di questi fogli: disegni rapidi, tracciati con grafite dalla punta fine con gli occhi fissi sul soggetto, e lavori ripresi da questi primi «disegni alla cieca» con un intervento che permette di arrivare a un segno semplificato, nella maggior parte dei casi ritoccato con l'acquerello.

il manifesto 27.02.09
Testamento biologico
Prove di epurazione dei senatori ribelli nel Pdl

Appello bipartisan sul ddl: «Fermiamoci e rinviamo»

di Eleonora Martini


«Calma e sangue freddo: rinviamo il voto sul testamento biologico a dopo le elezioni europee». Nove senatori di entrambi gli schieramenti politici lanciano un appello «volto a scongiurare un voto non sufficientemente meditato sul problema del fine vita». Ma la risposta, altrettanto bipartisan, è al momento piuttosto freddina, se non del tutto negativa. I primi risoluti no alla moratoria legislativa vengono dalla presidente dei senatori Pd Anna Finocchiaro, dalla capogruppo in commissione Sanità Dorina Bianchi e, dall'altra parte dell'emiciclo, dallo stesso relatore del ddl, Raffaele Calabrò. I motivi sono diversi ma è chiaro che il lavoro in commissione è giunto ad un momento molto delicato (martedì in seduta notturna si tenterà di mettere ai voti i circa 600 emendamenti e il presidente Tomassini, sperando di portare in Aula il testo modificato, ha già chiesto di far slittare il termine previsto per giovedì 5). La tensione è alle stelle, il Pdl accusa i democratici di ostruzionismo, scoppiano liti in commissione Sanità, ma a tutti in questo momento la battaglia appare più aperta di prima. Intanto, però, con calma e sangue freddo c'è qualcuno nel Popolo della libertà che preme per serrare i ranghi ed epurare i dissenzienti. Tanto da far trapelare la notizia, poi smentita a fine giornata dagli stessi interessati, della sostituzione dalla commissione Affari costituzionali dei due senatori Pdl Lucio Malan e Ferruccio Saro che avevano sollevato dubbi di costituzionalità sul ddl Calabrò. Un avviso ai ribelli, si potrebbe dire con un pizzico di malizia, sul quale il vice capogruppo Pdl Gaetano Quagliariello si è limitato a commentare: «Il gruppo non ha preso in considerazione questo problema perché la commissione si riunisce la settimana prossima». Una notizia, insomma, «vera ma prematura» come la definisce Anna Finocchiaro prendendo in prestito una frase di George Bernard Shaw.
«Noi, credenti e non credenti - scrivono nell'appello bipartisan i democratici Enzo Bianco, Emma Bonino, Pietro Ichino e Stefano Ceccanti, insieme con i senatori Pdl Lamberto Dini, Antonio Paravia, Maurizio Saia, Giuseppe Saro e Rossana Boldi - considerato il clima attuale del dibattito politico in corso sul testamento biologico, rileviamo il rischio che un intervento legislativo non sufficientemente meditato, quale che ne sia il segno e il contenuto, cristallizzi soluzioni rigide, sempre parzialmente inappropriate rispetto all'infinita varietà dei casi reali, come è inevitabile. Per questo chiediamo una moratoria legislativa su questa materia di qualche mese, che permetta di recuperare la serenità necessaria per il migliore e più aperto confronto». Un appello che secondo Saro «ha già aperto un dibattito» tra le coscienze di centrodestra: «Se si riuscisse a superare questo scontro tra schieramenti, si potrebbe arrivare ad una legge più condivisa, non una legge etica da repubblica teocratica». Così però la vorrebbero i 53 senatori Pdl che hanno chiesto di inserire anche la respirazione artificiale tra i trattamenti non rifiutabili. «Sembra che si debba decidere chi vince tra i due schieramenti mentre il vero problema è quale legge verrà fuori», aggiunge Bonino.
Ma la proposta non viene accolta bene nemmeno nel Pd: Anna Finocchiaro e Dorina Bianchi non ci stanno anche se concordano sul bisogno di non legiferare sull'onda emotiva del caso Englaro. «Nel frattempo però potrebbero presentarsi altri casi altrettanto strumentalizzabili e il clima potrebbe addirittura peggiorare», spiega l'ex tedodem Bianchi che ci tiene, dice, «a rispettare gli impegni presi: arrivare a una legge il più presto possibile e portare il testo in Aula il 5 marzo». Chiaro dunque che Dorina Bianchi non lavora per l'«ostruzionismo», un'accusa che il senatore Massidda (Pdl) ha rivolto ieri ai suoi colleghi di commissione scatenando una vera bagarre.
È Piero Fassino invece a ricordare che «il Pd è un partito plurale nella cultura ma laico», e a porre l'accento sulla distinzione «tra le convinzioni religiose di ciascuno di noi e il dovere dello Stato di fornire ai cittadini leggi che consentano a ciascuno di vedere rispettate le proprie scelte di vita». Come a dire: libertà di coscienza per tutti.

il manifesto 27.02.09
Delitto di sciopero
Sacconi se ne frega della Cgil
di Sara Farolfi



Scontro tra Epifani e il ministro del lavoro. «Il governo stia attento a non introdurre forzature», ammonisce il leader sindacale. E oggi la controriforma sul diritto di sciopero approda al consiglio dei ministri
«Il governo stia molto attento perchè in questa materia che riguarda un diritto, una libertà costituzionalmente garantita, bisogna procedere con grande attenzione. E se l'intenzione è quella di ridurre una libertà fondamentale, partendo dal problema del rispetto dei diritti degli utenti, sappia che la Cgil si opporrà, ora e dopo». Le parole di Guglielmo Epifani, segretario generale Cgil, sono state accolte ieri nell'indifferenza del ministro del lavoro. Padre del disegno di legge che oggi arriva sul tavolo del consiglio dei ministri e che, dietro la bandiera del diritto alla circolazione, vuole fare piazza pulita di quello di sciopero (partendo dai trasporti). Se la cava così, Maurizio Sacconi: «Temo che manchi la Cgil. L'unanimità del resto non è di questo mondo, appartiene al mondo del nulla, del non fare».
E infatti della rappresentatività - ossia di chi è titolato a parlare (firmare accordi o proclamare scioperi) a nome di qualcun'altro (i lavoratori) - al governo non importa nulla. Ne è un esempio la firma di un accordo sulle regole della contrattazione, senza quella dell'organizzazione maggiormente rappresentativa. E così è anche per la limitazione del diritto di sciopero - nel settore dei trasporti per ora - dove la soglia minima necessaria per la proclamazione sarebbe portata al 50%, trasformando così un diritto e una libertà individuale in un diritto a maggioranza, per cui il 49% dei lavoratori non avrebbe diritto a scioperare. Una delle ipotesi allo studio di Sacconi, ieri, era l'alternatività tra «un requisito minimo di rappresentatività degli attori proclamanti» - il 50% appunto - e il referendum preventivo tra i lavoratori: se cioè non si raggiunge la maggioranza più uno, si ricorre al referendum tra i lavoratori. Come si dovrebbe certificare questo 50%, e se ci si riferisca ai soli iscritti o a tutti i lavoratori di una certa azienda, non è chiaro. 
Ad ogni modo, non si può dire non essere stata tempisticamente perfetta la relazione al parlamento svolta ieri dalla Commissione di garanzia per gli scioperi (che nel ddl dovrebbe assumere compiti e funzioni di arbitrato). Ha introdotto i dati Gianfranco Fini, cercando di rendere istituzionalmente digeribile il disegno di legge del governo: «Il diritto di sciopero non si può soffocare ma lo si deve armonizzare con l'esercizio degli altri diritti in un'opera di bilanciamento che deve tenere conto dell'evoluzione sociale». «C'è da chiedersi - si domanda Fini se lo sciopero nei diritti essenziali possa configurarsi come un diritto che qualunque soggetto collettivo, anche non adeguatamente rappresentativo, può esercitare allo stesso modo».
E si torna alla rappresentatività, senza mai dire come questa debba essere certificata. Prova a suggerirlo Antonio Martone, presidente della Commissione di garanzia, dopo essersi marcatamente sbilanciato verso la proposta del governo (che stupisce in un organismo che dovrebbe essere terzo e di garanzia appunto). Suggerisce Martone che una verifica sulla rappresentatività delle organizzazioni sindacali potrebbe essere affidata alla Commissione stessa. «La Commissione di garanzia è un organismo che non si presta a questo», trasecola Fabrizio Solari (Cgil), «abbiamo sempre detto che il nostro punto di riferimento erano le regole del pubblico impiego e su questo erano d'accordo anche Cisl e Uil».
Ma ieri Cisl e Uil non hanno fiatato. L'unico punto su cui del resto avevano manifestato una qualche perplessità, due giorni fa, era stata l'obbligo di adesione individuale agli scioperi. «Necessaria perchè consente di dare certezza ai cittadini con riferimento ai mezzi che circoleranno», dice Sacconi. Necessaria soprattutto alle imprese che potranno così coprire programmaticamente le 'assenze', o più comodamente provvedere alla 'dissuasione' degli interessati.
Via libera, da Cisl e Uil, anche allo sciopero virtuale (quella forma di agitazione - in cui il lavoratore resta al lavoro e l'azienda paga una sorta di penale, da contrattare volta per volta, il cui importo va in beneficienza). Una forma di protesta che nei fatti praticamente non esiste - essendo praticamente impossibile trovare un accordo su quanto debbano pesare le sanzioni sull'azienda - e che non a caso le aziende gradiscono assai.
Giorgio Cremaschi (Rete 28 Aprile) non usa mezzi termini: «La legge anti sciopero è autentico fascismo». L'impressione che si stia scivolando verso un accordo politico, sulla scia di quello del 22 gennaio, cresce comunque trasversalmente a corso d'Italia. Insieme a quella che i trasporti non siano che l'apripista di una riforma che si vorrebbe almeno «per i servizi pubblici essenziali» e di qui, come ha già chiesto Confindustria, valida per tutti. «L'impressione è che si voglia fare un po' per volta», dice Fabrizio Solari (Cgil). Il ddl oggi all'esame dei ministri vieta anche tutte le forme di protesta, non solo per i trasporti, che possano ledere la libertà di circolazione (manifestazioni in strade, autostrade, porti e via dicendo). Calca la mano il ministro Brunetta: «Lo sciopero è un diritto tutelato dalla Costituzione ma anche la mobilità, la vita, il lavoro sono valori tutelati dalla Costituzione. Senza la Cgil? «Ce ne faremo una ragione».

il manifesto 27.02.09

Anche stavolta il Pd lascia sola la Cgil

Bindi: vogliono dividere i lavoratori. L'Idv insorge
di Daniela Preziosi



La Cgil pronuncia un altolà sulla legge delega che colpirà - se approvata - il diritto di sciopero nei trasporti pubblici. Il Pd risponde, in teoria dalla stessa parte del fronte e cioè la tutela della Costituzione per la quale è sceso in piazza non più di dieci giorni fa, contestando il metodo, ovvero l'utilizzo dello strumento della delega. Sul merito invece misura i toni. E stavolta non ci sono distinzioni interne fra filo-cgil e filo-cisl, fra operaisti e moderati. Stavolta non c'è area 'riformista' che tenga, complice - ma in fondo neanche troppo - il patto di non belligeranza interno con il neosegretario Dario Franceschini. Che sabato scorso alla Nuova Fiera di Roma ha pronunciato alcune chiare correzioni di linea rispetto al veltronismo, ma sulle questioni del lavoro e sull'attacco ai sindacati ha ripetuto il solito refrain dell'«auspicio» dell'unità sindacale. 
Così ieri la troika economica democratica Letta-Treu-Damiano ha emesso contro il possibile provvedimento del governo un comunicato congiunto e 'bipartisan' (rispetto agli schieramenti interni Pd): «La materia dello sciopero è troppo rilevante, sul piano costituzionale e politico, per essere affrontata con iniziative unilaterali del governo». Nel merito però, la musica è diversa: i tre non arrivano alle altezze di Pietro Ichino, il senatore Pd che quasi rivendica di aver ispirato il provvedimento del governo, ma ammettono l'esigenza di rendere lo sciopero «compatibile con la tutela dei cittadini» e soprattutto la necessità di maggior ordine nel settore dei trasporti «dove la regolamentazione attuale non ha impedito gravi disagi ai cittadini soprattutto per iniziative conflittuali di organizzazioni poco o niente rappresentative». Certo queste regole debbono essere negoziate con le parti sociali, e per questo chiedono la convocazione di un tavolo di confronto. 
Non si distingue dal trio Pierluigi Bersani, candidato segretario dell'area riformista del Pd, che giusto mercoledì aveva rilasciato l'ennesima intervista, stavolta persino al Sole 24 Ore, assumendo su di sé il compito di riportare il suo partito «nelle fabbriche». Nelle fabbriche il Pd deve tornare, ma se parliamo di mettere mano al diritto di sciopero dei trasporti, il responsabile del dipartimento economia Pd dice che «se ne può discutere con le organizzazioni sindacali, purché se ne faccia una discussione seria e non ideologica». Sulla scelta «ideologica» del governo, quel tirare un primo colpo simbolico (ma anche molto concreto) al diritto di sciopero insiste anche Paolo Nerozzi, sinistra Pd: fra l'altro si rischia l'effetto opposto, quello di «aumentare la conflittualità sia nelle modalità tradizionali sia in quelle corporative». 
A parlare più chiaro è Rosi Bindi: il governo sbaglia tempi e modi, nel provvedimento «prevale la volontà politica di sterilizzare il dissenso», «lo sciopero è un diritto costituzionale, limitarne il ricorso in presenza di una situazione economica e sociale assai difficile diventa pericoloso soprattutto se queste norme dovessero configurarsi come il nuovo tassello di una strategia che produce la divisione tra i sindacati e la contrapposizione tra lavoratori». Su questa frequenza si posiziona l'Italia dei valori, nella sua recente veste di partito alla ricerca di consensi fra i lavoratori. Lo sciopero, ricorda il senatore Felice Belisario, serve anche «a informare il paese dei problemi di intere categorie, con le ovvie conseguenze per tutti. Se lo sciopero diventa virtuale, la sua efficacia sarà ridotta». L'obiettivo del governo è chiaro: aumentare «il conflitto tra il diritto dei lavoratori allo sciopero e il diritto sacrosanto dei cittadini alla mobilità, alla salute, alla sicurezza, all'istruzione e alla previdenza sociale». Cittadini contro lavoratori, un'illusione ottica, una guerra allo specchio di ciascuno contro se stesso. «Il governo attacca il diritto di sciopero perché vuole far pagare la crisi ai lavoratori. Parte dai trasporti per ingenerare una guerra tra poveri», dice Paolo Ferrero, segretario Prc. «Sottolineo però che i pendolari non sono penalizzati dai ferrovieri ma dai tagli attuati dai vari governi al trasporto pubblico locale». 
Dall'altra parte il Pdl si gusta lo scenario in cui si appresta a incassare la 'storica' vittoria: i sindacati divisi, l'opposizione parlamentare preoccupata di non scoprire il fianco sinistro (persino Savino Pezzotta, già leader Cisl ora deputato Udc riesce a declinare più chiaramente l'assurdo concetto dello sciopero 'virtuale': «Virtuale è una parola vuota. Accostarla al diritto di sciopero previsto dalla Costituzione è superficiale perché esso è tale quando c'è la sospensione dell'attività lavorativa. Il resto è protesta e propaganda»), la sinistra radicale ridotta al minimo storico e al massimo delle sue divisioni. Lo scenario è così confortante, per le destre, che anche i peones della maggioranza possono permettersi di chiedere se Epifani, che avverte il governo di pensarci bene, prima di toccare un diritto costituzionale, pronuncia «un consiglio o una minaccia». Lo dice tal Francesco Pasquali, sostiene che ad alimentare «l'odio sociale» sarebbe la Cgil.

il manifesto 27.02.09
Tra Stato e Chiesa
Il peso di un aggettivo sull idea di laicità

di Daniele Menozzi



«Sana», «giusta», «legittima». Limitando con un attributo il concetto di laicità, la chiesa cattolica si riserva la facoltà di specificarne il significato politico. Anticipiamo ampi stralci dalla relazione con cui si apre oggi a Torino la quinta giornata della «Settimana della politica»
Il papato odierno propone la «sana laicità» come il criterio decisivo per stabilire la corretta definizione dei rapporti tra le chiese e lo stato. Il contenuto di questa espressione è dato in prima istanza da una differenziazione rispetto al laicismo: questo implicherebbe una separazione ostile tra l'autorità civile e le confessioni religiose, anziché quella distinzione tra i due poteri che viene ritenuta conforme alla dottrina cattolica, anzi direttamente ricondotta a una radice evangelica. Inoltre il ricorso a quel sintagma implica, nell'attuale discorso pontificio, non solo l'accettazione di una presenza del religioso, in particolare della chiesa cattolica, nella sfera del dibattito politico in vista del contributo che esso può dare all'edificazione della città democratica, ma anche la richiesta di un riconoscimento, sul piano costituzionale, delle radici cristiane della civiltà occidentale e, in virtù di tale riconoscimento, di un ruolo pubblico della chiesa. 
Questa concezione di laicità trova talora consenso anche in settori del mondo politico: senza voler insistere sul rumoroso ossequio manifestato dalle correnti degli «atei devoti», occorre osservare che il richiamo alla «laicità positiva» del presidente francese Sarkozy sostanzialmente coincide, come è emerso nel recente viaggio in Francia di Benedetto XVI, con l'auspicio papale di una «sana laicità». Non mi sembra poi un caso che in questi giorni anche il presidente della Camera, l'onorevole Fini, abbia espresso, nel quadro delle celebrazioni della revisione del Concordato del 1984, la sua piena adesione proprio a questa impostazione delle relazioni tra chiesa e stato. (...)
Si tratta dunque di una tematica che merita di essere approfondita. Tanto più che né nel discorso pontificio né del discorso politico sulla «sana laicità» viene con chiarezza specificato cosa implichi concretamente il riconoscimento di quel ruolo pubblico che, tramite essa, si dovrebbe assicurare alla chiesa. Per cercare di capire le effettive questioni che sono in gioco dietro l'odierno uso di questa espressione credo sia indispensabile muoversi in una prospettiva storica. 
La locuzione «sana laicità» appare nel magistero pontificio nel marzo 1958. Pio XII, in occasione di un pellegrinaggio dei marchigiani residenti a Roma, affrontando alcune questioni politiche di attualità, sosteneva che una «sana e legittima laicità dello stato» costituisce uno dei principii della dottrina cattolica. (...) Non abbiamo carte archivistiche che ci aiutino, ma il contesto ci fornisce sufficienti indicazioni: esisteva nel mondo cattolico una contrapposizione tra quanti, ad esempio il cardinal Ottaviani, rifiutavano ogni riferimento alla laicità proponendo come modello esemplare lo stato cattolico che aveva trovato la sua realizzazione nel concordato della Santa Sede con la Spagna franchista; e quanti, come il filosofo Jacques Maritain, presentavano nell'impegno dei cattolici a basare la convivenza civile sui fondamentali diritti umani riconosciuti nella Dichiarazione universale del 1948 la via per giungere alla costruzione di uno stato laico, pur cristianamente costituito. Il tentativo di Ottaviani di far condannare nel 1956 dal Sant'Ufficio le opere del pensatore francese non era riuscito e il dibattito era continuato sia pure in maniera ora più sotterranea ora più esplicita. 
Cosa cambia con il Concilio
In questo contesto l'intervento di Pacelli sembra assumere un preciso significato: il papa intendeva proporre una mediazione tra la linee divergenti presenti nella cultura cattolica. Prendeva infatti le distanze da coloro che volevano far scomparire il termine laicità dal lessico cattolico - in quanto ritenevano ogni forma di indipendenza politica dalla chiesa, soprattutto se rivendicata da credenti, come un attentato laicista allo stato cattolico - per renderla invece una «ipotesi» praticabile almeno in determinate circostanze. Tuttavia l'apposizione degli aggettivi «sana» e «legittima» al sostantivo specificava in maniera assai limitativa la maniera in cui la laicità veniva così accettata. Rinviando alla sfera della morale, delle cui regole la gerarchia si proclamava suprema detentrice, tali aggettivi in effetti indicavano che la laicità era lecita nella misura in cui si riservava all'autorità ecclesiastica la «competenza delle competenze», vale a dire il diritto di determinare i confini del suo potere d'intervento nella direzione della vita pubblica. Ne emergeva una visione della laicità che assicurava la permanenza di una parola a lungo osteggiata nel vocabolario della cultura cattolica - in tal modo, ad esempio, si legittimava il sostegno dell'episcopato francese nel referendum del 1958 alla costituzione che proclamava la Repubblica «indivisibile e laica »; ma al contempo svuotava in realtà il sostantivo del suo concreto contenuto politico, finendo per convergere con le concezioni di Ottaviani. 
Si trattava comunque di una linea che non sembrava incontrare grande successo nell'episcopato italiano: la lettera pastorale collettiva sul laicismo emanata dalla Cei nel 1960 - assai apprezzata anche da Giovanni XXIII, come mostrano le sue agende private da poco pubblicate - mostrava che nella gerarchia del nostro paese continuava a prevalere quella sostanziale identificazione tra laicità e laicismo che gli ambienti cattolici francesi avevano cominciato a distinguere: nella penisola la costruzione di forme di vita associata indipendenti dalle direttive ecclesiastiche veniva qualificata come una aggressione laicista alla chiesa dettata dalla volontà di cancellare il cristianesimo dalla sfera pubblica. Ma, con l'avvento di Roncalli, si apriva l'innovativa stagione conciliare, sicché si può porre la domanda se il Vaticano II modificava o meno questa linea. 
La questione della laicità non emerge direttamente in nessuno dei suoi documenti, ma non va nemmeno dimenticato che la dichiarazione Dignitatis humanae ha mutato uno degli elementi che ostacolavano una valutazione positiva dello stato laico: il riconoscimento della libertà religiosa come uno dei diritti inerenti alla natura dell'uomo e la conseguente proclamazione del dovere dell'autorità civile di garantire il pubblico esercizio del culto ha posto evidentemente fine alla concezione che vedeva nella parificazione delle confessioni la «peste del laicismo» secondo l'espressione usata da Pio XI nel 1925 per caratterizzare l'uguaglianza dei diritti tra le diverse confessioni religiose presenti in uno stato. La dichiarazione conciliare ribadisce l'obbligo per ogni uomo di ricercare la verità, ma abbandona la tesi del magistero precedente secondo cui solo la verità può godere dei diritti civili e politici. Non a caso proprio John Courtney Murray - il gesuita americano che negli anni Cinquanta era stato ridotto al silenzio dal Sant'Ufficio guidato dal cardinal Ottaviani per la sua affermazione della piena coerenza tra dottrina cattolica e diritto alla libertà religiosa - è stato tra i principali periti cui si deve la redazione del documento. 
Tuttavia questo risultato significa che il concilio determinava un superamento dell'insegnamento proposto nell'ultima fase del magistero pacelliano? Ci si può insomma chiedere se, a seguito del riconoscimento del diritto alla libertà religiosa proclamato dal Vaticano II, la laicità non appare più un'ipotesi, accettabile solo nei casi cui il papato la giudica lecita. Credo che una pur rapida analisi del rapporto tra chiesa e stato esposto nella costituzione pastorale Gaudium et spes sulla chiesa nella società contemporanea possa aiutarci a trovare una risposta.
Una presa di distanza
Il documento preparatorio, redatto sotto l'influenza di Ottaviani, riprendeva la concezione tradizionale secondo cui lo stato, avendo fini temporali subordinati a quelli spirituali, doveva svolgere una funzione ministeriale nei confronti della chiesa: vi si ribadiva la visione dello stato cattolico secondo quel modello che il cardinale aveva esaltato nel concordato stipulato con la Spagna franchista. La discussione nell'aula conciliare modificò profondamente questa prospettiva. La redazione finale della costituzione proclamava che la comunità politica e la chiesa sono indipendenti e autonomi, in quanto la loro natura è profondamente diversa: la chiesa - popolo scelto da Dio e riunito dalla sua Parola - è infatti una realtà comunionale e mistica che non entra in concorrenza con gli stati che perseguono finalità temporali. Si auspicava però tra di essi una «sana collaborazione»: per realizzarla la chiesa non chiedeva privilegi - anzi si dichiarava disposta a rinunciare a quelli pur legittimamente acquisiti nel passato se rendevano poco credibile la sua testimonianza -e domandava soltanto la libertà di poter esercitare la propria missione. Tuttavia rivendicava anche un diritto, quello di «dare il suo giudizio morale, anche su cose che riguardano l'ordine politico, quando ciò sia richiesto dai diritti fondamentali della persona e dalla salvezza delle anime. E questo si farà, utilizzando tutti e soli quei mezzi che sono conformi al Vangelo e al bene di tutti».
Se era dunque evidente il rifiuto della tesi dello stato cattolico - che giungeva al punto di mostrare la disponibilità a rinunciare anche ai privilegi legittimamente ottenuti tramite la prassi concordataria - non meno netta risultava la presa di distanza da quel paradigma di laicità che si richiamava al modello separatista. In primo luogo infatti si auspicava una collaborazione tra stato e chiesa, in vista del raggiungimento del bene comune del consorzio umano. Inoltre si stabilivano le ragioni che legittimavano un intervento ecclesiastico nella sfera politica: esso poteva avvenire, oltre che per la tradizionale esigenza di assicurare la salvezza ultraterrena, anche in nome di una nuova istanza di natura temporale e politica: la salvaguardia dei diritti fondamentali della persona. (...)
Le leggi «naturali»
Se dunque dal dettato della Gaudium et spes si ricavava un abbandono della prospettiva dello stato confessionale - e non si può non sottolineare il mutamento notevole così compiuto rispetto alle concezioni presenti in curia all'inizio dei lavori dell'assise ecumenica -, bisogna anche aggiungere che il documento conciliare non cancellava la prospettiva di un intervento sul piano politico della gerarchia, mostrando la distanza tra la concezione cattolica e quella visione della laicità che si incentrava sull'autonomia del politico dal religioso e del religioso dal politico. È però vero che la costituzione sulla chiesa nel mondo contemporaneo ricordava soltanto che la chiesa manifestava in materia un «giudizio» che, per di più, doveva essere espresso servendosi di mezzi poveri, come lasciava intendere il richiamo alla loro conformità con il Vangelo. Quale era dunque il significato di questa formulazione? Si trattava di una valutazione indirizzata a illuminare le coscienze che poi liberamente la traducevano in un concreto e determinato impegno sul piano storico-politico oppure di una direttiva volta a dettare o almeno ispirare le norme regolatrici della comunità? Evidentemente solo nel primo caso si avrebbe un sostanziale rispetto della nozione di laicità così come è stata elaborata dalla cultura occidentale nel corso del Novecento.
Ora gli orientamenti generali fissati nella Gaudium et spes non credo lascino molti dubbi in proposito. In effetti tutte le volte che il testo affronta la questione dell'autonomia del temporale o della libertà dell'uomo, pur affermando che si tratta di valori leciti, cui spesso in passato la chiesa non aveva riservato la debita attenzione, specifica pur sempre tali valori con l'apposizione di un aggettivo - «legittima», «giusta», «ordinata» - che ne circoscrivono la portata, rinviando alla necessità di una valutazione morale sulla loro pratica. In tal modo la chiesa rivendica il possesso di una verità morale in ordine alla società cui le strutture e le istituzioni della collettività devono conformarsi. Del resto il Vaticano II fornisce anche le ragioni di questa concezione. In diversi passi si trova infatti l'asserzione che la convivenza civile si basa sulle leggi naturali di cui la chiesa si proclama depositaria ed interprete in quanto esse sono determinate dall'ordine voluto da Dio per l'universo. 
Mi pare dunque che, in ragione di questa ottica, l'intervento ecclesiastico sulla politica assuma inevitabilmente la forma della prescrizione vincolante quando la chiesa ritenga che sia in gioco una di quelle norme fondamentali che, corrispondendo alla natura dell'uomo, non possono essere violate dall'ordinamento giuridico della vita collettiva. Ritornava la prospettiva pacelliana di apporre un aggettivo a un termine per riservare all'autorità ecclesiastica la facoltà di specificarne il significato politico. A palesare in termini espliciti la continuità di questa impostazione sulla questione della laicità sarebbe stato Paolo VI. Nel corso dell'udienza tenuta il 22 maggio 1968 (la data non è priva di significato, se si tiene presente quanto quel maggio ha rappresentato nell'immaginario collettivo dell'epoca) dapprima il papa si richiamava con una diretta citazione al discorso pronunciato da Pacelli nel marzo 1958 sulla sana e legittima laicità e poi affermava che la chiesa era ormai giunta a distinguere «fra laicità, cioè fra la sfera propria delle realtà temporali, che si reggono con propri principi e con relativa autonomia derivante dalle esigenze intrinseche di tali realtà... e il laicismo (cioè) l'esclusione dell'ordinamento umano dai riferimenti morali e globalmente umani che postulano rapporti imprescrittibili con la religione».
Ma, proseguiva il papa, la laicità si rivelava sana nella misura in cui l'ordinamento civile recepiva dalla chiesa «il duplice lume dei principi e dei fini che devono orientare e sorreggere la vita umana in quanto tale». E il laicato cattolico era tenuto a seguire queste direttive in modo da far «risplendere l'ordine ... voluto da Dio anche nella sfera realtà temporali». In tal modo, pur legittimando la distinzione tra laicità e laicismo che tanti ostacoli aveva incontrato nella cultura cattolica del secondo dopoguerra, Montini ribadiva che l'accettazione cattolica della laicità passava attraverso l'apposizione di un aggettivo che riservava all'autorità ecclesiastica la concreta determinazione dei suoi contenuti.

il manifesto 27.02.09
Nuova edizione del saggio «Per Marx»

La scienza esatta di Louis Althusser
di Cristian Lo Iacono



Louis Althusser non è stato soltanto il filosofo marxista più influente negli anni Settanta. L'anti-umanesimo, la critica del riduzionismo, della categoria di soggetto, di ogni filosofia dell'origine e del fondamento, tutti discorsi marcati da un'appartenenza difficile allo strutturalismo, sopravviveranno anche nelle teorie poststrutturaliste degli anni Ottanta. Il decorso decostruttivo entro il marxismo non ha avuto gran successo in Italia e ciò ci fa apparire erroneamente il filosofo francese come un pensatore «datato». Invece, alcuni saggi di Per Marx - di recente ritradotti a cura di Maria Turchetto - soddisfano esigenze ancora attuali, come quella di pensare l'articolazione delle soggettività e delle istanze strutturali e sovrastrutturali entro un quadro capace di ispirare nuova progettualità politica. Possiamo dire, con una battuta, che Per Marx, a dispetto delle sue intenzioni restauratrici, inaugurò l'ultimo ciclo di crisi del marxismo a noi noto. 
In effetti, l'afflato che attraversa tali scritti pare quello di restaurare il pensiero di Marx contro le deformazioni dei marxisti, di liberare Marx dalle catene dell'hegelismo, ma anche dalle incrostazioni etiche e filosofiche che la riscoperta dei Manoscritti del 1844 aveva contribuito a formare attorno al suo corpus dottrinale. Il concetto di rottura epistemologica permette ad un tempo di pensare il marxismo come scienza, poiché è la rottura costituente una episteme, ma quanto al suo oggetto permette di isolare Marx rispetto a Hegel e allo hegelismo. La tesi storiografica ed epistemologica di Per Marx è quella della doppia distanza di Marx sia dall'antropologia di Feuerbach, sia dall'idealismo assoluto di Hegel. Althusser riteneva strategica questa pars destruens prima di descrivere in termini positivi «la filosofia di Marx» in Leggere il Capitale. Inoltre, dietro la biografia intellettuale del filosofo di Treviri Althusser pare fare i conti con la propria coscienza filosofica precedente, dall'umanesimo a Hegel.
La prevalenza del momento negativo è forse il motivo per cui Per Marx può essere letto come l'inaugurazione di una crisi. Certamente pone una cesura epistemologica mai ricucita. Non che manchino dei concetti davvero nuovi: le tesi sull'ideologia, il concetto di surdeterminazione, la teoria della contingenza, per fare alcuni esempi, rappresentano delle novità assolute nel campo del marxismo. Ma l'impressione è che essi denuncino delle mancanze piuttosto che delle scoperte da parte di Marx e che Althusser li abbia formulati per poi ritrattarli. 
Prendiamo la surdeterminazione, il perno della possibilità di pensare la contraddizione fuori dell'ambito speculativo hegeliano. Ma si tratta di un concetto marxiano? Ammesso che sia vero che in Hegel la contraddizione è contraddizione semplice e mai surdeterminazione complessa, siamo sicuri che in Marx sia presente, anche solo allo stato operativo, un concetto di contraddizione surdeterminata? Forse per questa ragione, già in questo saggio del 1962 i tentennamenti di Althusser sono tali da impedirgli una vera rottura con la metafisica (in questo caso materialistica), perché ciò avrebbe dovuto implicare l'ammettere che un rinnovamento della dialettica sarebbe stato possibile non solo congedandosi da Hegel, ma superando anche Marx. A quel punto però sarebbe crollata anche la tesi della consapevole rottura epistemologica, che si ridurrebbe a un'esigenza sentita da Althusser e solo parzialmente presagita da Marx. Per evitare tutto ciò Althusser è costretto a fare delle petizioni di principio, prive di basi testuali, che non siano la famosa frase sul «rovesciamento» e sul nocciolo mistico della dialettica hegeliana.
Il concetto di surdeterminazione, mutuato da Freud e originalmente introdotto nel linguaggio marxista, possiede una notevole valenza antimetafisica. Ma si ha l'impressione che Althusser temesse di liberarne pienamente le potenzialità, così che il tentativo di articolare «ultima istanza» economica ed «efficacia specifica» sovrastrutturale fallisce. Non si vede poi l'enormità della cesura che il marxismo rappresenterebbe rispetto allo hegelismo, dato che il rapporto hegeliano «essenza-fenomeno-verità di...» non scompare. Althusser ci assicura che la «dialettica economica non gioca mai allo stato puro», che insomma le istanze sovrastrutturali non finiscono mai di concorrere, di interferire con quella economica. Possiamo piuttosto chiederci se non si possa parlare di affinità tra lavoro della surdeterminazione e quello della différance. L'ultima istanza sembra affine a un principio ultimativo che segna il limite oltre il quale nella catena della causalità storica non si discende più. La contraddizione principale sarebbe il «motore» e il principio di intelligibilità dei processi. L'ultima istanza sarebbe l'origine immanente e la surdeterminazione sarebbe il tentativo di liberarsi da questo principio metafisico. Ora, come per Derrida l'essere non scompare ma lascia una traccia come effacement, così per Althusser l'ultima istanza sarebbe conservata leggibile sotto cancellatura. Essa non è espulsa, piuttosto è proiettata ai limiti della temporalità storica. Non vedremo mai la pienezza dei tempi, né risaliremo alla scaturigine pura del divenire storico. La storia è il terreno in cui gli avvenimenti accadono sempre sotto una determinazione multipla e contraddittoria. Il processo di semplificazione fino all'ultima istanza è senza fine né approdo. 

LOUIS ALTHUSSER, PER MARX, MIMESIS, TRADUZIONE DI MARIA TURCHETTO, PP. 225, EURO 18

La Stampa 2.3.09
La Banca dell’eternità
In Italia è vietato custodire le cellule del cordone ombelicale per uso personale. Viaggio nella clinica di San Marino che permette di aggirare la legge
di Bruno Ventavoli


L’immaginario confine di Stato passa lungo l'insegna di un benzinaio. Da una parte c'è l'Italia. Dall'altra San Marino. Di là, conservare a fini di lucro le staminali prelevate dal sangue del cordone ombelicale è un reato. Di qua, è lecito, ed è per questo che nella Repubblica del Titano Giuseppe Mucci ha fondato qualche anno fa il Bioscience Institute, una banca per la crioconservazione autologa di cellule staminali. A pagamento. Mille metri quadrati di tecnologia, otto biologhe a tempo pieno, computer che controllano protocolli di qualità e sterilità. 
Attualmente le staminali possono curare un'ottantina di malattie, dalla leucemia ai linfomi. In futuro, forse, molte altre. Un po' per effetto tv del dottor House, che ha reso la scienza d'Esculapio più miracolosa di Lourdes, un po' per il passaparola, oggi sono di gran moda. Prelevarle dal cordone ombelicale è facile e non è rischioso. Conservarle nel gelo costa relativamente poco, qualche migliaio di euro. E così mamme&babbi vip, ma anche molti anonimi genitori felici del lieto evento, decidono sempre più spesso di mettere in frigorifero quelle cellule per il futuro dei pargoletti, nel caso che un giorno possano averne bisogno per riparare il corpo malato. 
Tutto perfetto? Non proprio. Il miraggio del business, l’umana speranza e la legge, hanno creato un piccolo Far West. Per intercettare l’affare sono nate aziende che, come ha recentemente accusato l’ex ministro Sirchia, «vendono illusioni». «Ma noi siamo chiarissimi - dice Mucci - spieghiamo ai clienti quali sono le attuali certezze della scienza, e quali le semplici speranze del futuro. Su un punto, però, Sirchia ha ragione: in questo settore operano personaggi poco seri. Dato che in Italia non si possono conservare le staminali a pagamento, le società nate in Italia si affidano a banche estere, che magari subappaltano ad altre, e ad altre ancora. E magari per risparmiare sui costi finiscono nell'estremo oriente. Nel giorno in cui i genitori avranno bisogno di quelle cellule, a chi si rivolgeranno? Le banche italiane sono virtuali, semplici sportelli o siti web, non danno nessuna garanzia diretta della conservazione del delicato materiale». 
La visibilità e la solidità, per Bioscience, sono invece una bandiera e un orgoglio. I genitori che vogliono vedere la struttura possono visitarla (l’istituto paga loro una notte in albergo). In ogni stanza dei laboratori è installata una webcam. Come in un grande fratello chiunque, tramite internet, può osservare le biologhe al lavoro. «Quando si parla di salute la trasparenza è fondamentale - dice Mucci -. E noi la pratichiamo fino all'ossessione. Possiamo essere controllati costantemente dai nostri clienti. Facciamo vedere che ci siamo e che lavoriamo bene». 
I genitori che vogliono conservare all’estero le staminali del figlio devono ottenere il nulla osta dal ministero con un modulo. Bioscience fornisce poi un kit per la raccolta del sangue placentare. L’operazione viene fatta dal personale sanitario al momento del parto. E’ una procedura abbastanza semplice, basta un semplice ago, e in teoria è un atto dovuto alla mamma. Ma qualche problema può insorgere. Ci sono ospedali che chiedono ticket e altri che non «sono attrezzati per farlo». E il sangue può anche essere contaminato al momento del prelievo con manovre incaute e non proprio sterili. 
Il sacchetto di sangue viene poi affidato a un corriere e spedito ai laboratori di Bioscience, dove i biologi effettuano i controlli e separano le staminali contenute nel sangue placentare, prima di congelarle in scatolette di metallo quadrate, di sei-sette centimetri per lato. «Dato che la tracciabilità è fondamentale, ogni neonato diventa un codice a barre, recuperabile dal computer in ogni istante». Affidarsi alla Bioscience costa 2000 euro (kit per la raccolta, più caratterizzazione, tipizzazione, congelamento) e 50 l'euro all'anno di canone. Per i prossimi vent’anni. Con l’augurio di non dover mai tirar fuori dai fumi gelati dell’azoto l’astuccio della speranza.

La Stampa 2.3.09
Staminali: "Attenzione ai truffatori"
di B.V.


Alcune sono vip, come Ambra Angiolini o Federica Fontana. Molte invece sono normali. E sono oltre diecimila le mamme italiane che ogni anno decidono di conservare a pagamento le staminali del figlio neonato. Sulla speranza delle staminali, nuova frontiera della medicina, sta nascendo una moda, un business e anche, ovviamente, truffe. Basta un giro su internet per trovare decine di «Cordon Blood Bank» che offrono servizi di ogni genere. Molte sono serie. Altre un po’ meno. In Italia sono proibite (si rischiano multe e anche tre anni di galera). All'estero la conservazione autologa (per se stessi e famigliari) è invece legale. 
L'ex ministro Sirchia è uno dei più veementi nel denunciare il fenomeno. «La conservazione autologa è eticamente discutibile. Costa cara e promette cure che, in alcuni casi, sono al momento scientificamente impossibili. Per questo, quando ero ministro, l'avevo vietata con un'ordinanza. Sono stato, accusato di fascismo e talibanismo, ma per me illudere la gente è un reato. Bisognerebbe invece incentivare la donazione solidaristica, gratuita, utilissima. Le mamme vip che scelgono l’autologa, pur inconsapevolmente, rischiano di diffondere falsi messaggi». 
Nel mondo esistono 100 banche pubbliche. In Italia, 18, tutte con ottimi livelli di qualità. Il problema è che i cordoni sono ancora pochi, 20-25mila, su 560mila parti all’anno. Intanto alcune banche private italiane lanciano un appello al governo per chiedere la fine dei divieti e poter operare in legalità e trasparenza. Anche perché il proibizionismo, il muro contro muro di privato e pubblico, rischia solo di alimentare il Far West. Ne è convinta anche Gloria Pravatà, responsabile comunicazione del Centro nazionale sangue e consigliere dell'onlus Adisco (Associazione Donatrici Italiane Sangue Cordone Ombelicale), auspica invece maggiore buon senso. «La medicina ci dice che è più utile la conservazione allogenica. Ma se una famiglia decide lo stesso di fare una specie di assicurazione sulla vita del figliolo non glielo si può impedire. Se questo bisogno c'è bisogna prenderne atto e aprire ai privati, naturalmente con la massima severità sui controlli».


E-duesse 2.3.09
Cinema: Bellocchio smentisce ‘Left’ e ‘Il Giornale’
Il regista si dice “colpito dall’uso fatto delle mie parole”

Il regista Marco Bellocchio smentisce la rivista ‘Left’ che ha riportato sue dichiarazioni e il quotidiano ‘Il Giornale’ che oggi le ha riprese: «Sono colpito dall’uso che si è fatto delle mie parole nei giornali, estrapolando brani di un ragionamento più ampio. Il discorso nell’intervista rilasciata a ‘Left’ (in cui mi si attribuisce l’affermazione: “Il cinema oggi è totalmente dipendente dalla tv, che ogni tanto elargisce qualcosa, ma pretende, con il suo orrendo conformismo, di imporre il suo linguaggio. Difficile trovare spazi di libertà”), riguardava il linguaggio che la televisione, di tutto il mondo, tende a omologare. Chi poi ci ha voluto leggere qualcosa di critico in merito al mio rapporto con Rai Cinema è in malafede. Tanto è vero che io sono stato libero di scrivere e girare ‘Vincere’ che Rai Cinema, la tv pubblica quindi, ha prodotto con entusiasmo e dandomi il massimo sostegno e libertà d’espressione. Per quanto riguarda ‘L’ora di religione’ – aggiunge Bellocchio – non credo di aver detto letteralmente che “oggi non mi lascerebbero fare questo film” ma mi riferivo a un clima generale nel Paese dove mi sembra più a rischio una visione laica della vita che è necessario assolutamente salvaguardare».
BOsm

E-duesse 2.3.09
Cinema: Bellocchio, la tv impone il suo linguaggio
Il regista stigmatizza il potere della televisione sulla “settima arte”
Intervistato dal settimanale ‘Left’, il regista Marco Bellocchio attacca lo stato del cinema in Italia: «Oggi è molto peggio di qualche anno fa. Io, per esempio, oggi non potrei fare ‘L’ora di religione’, non me lo lascerebbero fare». Per il regista che sta ultimando ‘Vincere’ «il cinema oggi è totalmente dipendente dalla tv, che ogni tanto elargisce qualcosa ma pretende, con il suo orrendo conformismo, di imporre il suo linguaggio. Oggi in Italia c’è una dittatura democratica». Contattata dal ‘Giornale’, Caterina d’Amico, amministratore delegato di Rai Cinema che ha coprodotto diversi film del regista, tra cui anche ‘Vincere’, ha dichiarato: «Sono sbalordita. Davvero non mi pare di aver esercitato, né su di lui né su altri registi che lavorano per noi, un “orrendo conformismo”.
BOSr

Prima comunicazione on line 2.3.09
CINEMA: BELLOCCHIO, DA TV PUBBLICA MASSIMO SOSTEGNO E LIBERTA’
(AGI) - Roma, 2 mar. - “Sono colpito dall’uso che si e’ fatto delle mie parole nei giornali, estrapolando brani di un ragionamento piu’ ampio”. Lo dice Marco Bellocchio che sottolinea come il discorso di una sua intervista rilasciata a un settimanale e ripresa dalla carta stampata, “in cui mi si attribuisce l’affermazione: ‘Il cinema oggi e’ totalmente dipendente dalla tv, che ogni tanto elargisce qualcosa, ma pretende, con il suo orrendo conformismo, di imporre il suo linguaggio. Difficile trovare spazi di liberta”, riguardava il linguaggio che la televisione, di tutto il mondo, tende a omologare”. Bellocchio continua dicendo che “Chi ci ha voluto leggere qualcosa di critico in merito al mio rapporto con Rai Cinema e’ in malafede. Tanto e’ vero che io sono stato libero di scrivere e girare ‘Vincere’ che Rai Cinema, la tv pubblica quindi, ha prodotto con entusiasmo e dandomi il massimo sostegno e liberta’ d’espressione. Per quanto riguarda ‘L’ora di religione’ non credo di aver detto letteralmente che ‘oggi non mi lascerebbero fare questo film’ ma mi riferivo a un clima generale nel Paese dove mi sembra piu’ a rischio una visione laica della vita che e’ necessario assolutamente salvaguardare”. (AGI) Red/Cau
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Irispress.it 2.3.09
MARCO BELLOCCHIO SMENTISCE INTERVISTA
(IRIS) - ROMA, 2 MAR - Marco Bellocchio smentisce la rivista 'Left' e 'Il Giornale': "Sono colpito
dall’uso che si è fatto delle mie parole nei giornali, estrapolando brani di un ragionamento più ampio. Il discorso nell’intervista rilasciata a 'Left' (in cui mi si attribuisce l’affermazione: “Il cinema oggi è totalmente
dipendente dalla tv, che ogni tanto elargisce qualcosa, ma pretende, con il suo orrendo conformismo, di imporre il suo linguaggio. Difficile trovare spazi di libertà”), riguardava il linguaggio che la televisione, di tutto il mondo, tende a omologare. Chi poi ci ha voluto leggere qualcosa di critico in merito al mio rapporto con Rai Cinema è in malafede. Tanto è vero che io sono stato libero di scrivere e girare 'Vincere' che Rai Cinema, la tv pubblica quindi, ha prodotto con entusiasmo e dandomi il massimo sostegno e libertà d’espressione.
"Per quanto riguarda 'L’ora di religione' - continua Belloccchio - non credo di aver detto letteralmente che 'oggi non mi lascerebbero fare questo film' ma mi riferivo a un clima generale nel Paese dove mi sembra più a rischio una visione laica della vita che è necessario assolutamente salvaguardare".
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