mercoledì 4 marzo 2009

Repubblica 4.3.09
Umiliati e arrabbati
di Luciano Gallino


Repubblica.it ha svelato il Paese dei senza lavoro, un pezzo d´Italia che diventa sempre più grande e disperato. Le persone che raccontano le loro esperienze di senza lavoro rientrano abbastanza chiaramente in due gruppi diversi. Ci sono quelle ancora giovani, al massimo trentacinquenni, che si interrogano sul perché il mondo della produzione non riesce più a trovar loro un´occupazione; e quelle sui 45-50 anni e oltre, le quali hanno compreso che per lo stesso mondo sono ormai troppo anziane.
Del primo gruppo colpisce soprattutto il fatto che i titoli di studio elevati sembrano servire poco per trovare o mantenere un posto di lavoro qualificato, coerente con gli studi fatti. Hanno due o tre lauree, un paio di master, tre o quattro specializzazioni, significative permanenze all´estero. Speravano di far ricerca in aziende di alto profilo, quelle da cui escono le invenzioni che cambiano il mondo e migliorano la vita. Contavano di guadagnare bene e di fare prima o poi un figlio. Oppure di dedicarsi all´insegnamento. Invece si ritrovano a fare il garzone di cucina in un fast food, la badante o l´addetto alle pulizie sui vagoni delle ferrovie. Con paghe effettive da 6 euro l´ora, quando va bene 800 al mese. Naturalmente con un contratto a breve scadenza. Che alla scadenza non viene rinnovato. Con la precisazione, se si tratta di una donna, che non si può rinnovare il contratto a una che potrebbe addirittura fare un figlio. Esperienze ripetute per tre, cinque, dieci anni. Fino a quando non ci si arrende, e si ritorna a casa dai genitori, senza soldi e senza figli, portando con sé il senso di una sconfitta di cui non si ha colpa, ma che pare irrimediabile. Non è un paese per giovani, l´Italia.
Non è nemmeno un paese per vecchi; laddove vecchio, aziendalmente parlando, significa aver passato i quaranta. In questo secondo gruppo i disoccupati che si raccontano sono in prevalenza dirigenti d´azienda, funzionari della PA, tecnici con una lunga pratica di laboratorio, esperti di informatica. Rappresentano un patrimonio immenso di conoscenze, competenze professionali, abilità accumulate in decenni di lavoro. Però alle imprese non servono più. Perché ai tempi della crisi l´impresa deve dimagrire, cioè tagliare posti, e ovviamente preferisce tenersi i dipendenti più giovani. Oppure perché progetta di trasferirsi da Catania a Belluno, o da Novara a Tallin, e una che ha cinquant´anni, due figli studenti e un padre in cattiva salute magari non è troppo disponibile al trasloco. O semplicemente perché la settimana prossima l´impresa chiude, come ha deciso il proprietario che risiede non si sa bene dove, in Irlanda o in Brasile.
Di conseguenza la dirigente o il tecnico con decenni di prezioso sapere professionale, o l´amministratore che maneggiava miliardi, cominciano a spedire curricula in giro. Decine alla settimana. Centinaia al mese. Con i titoli di studio in evidenza, la carriera in aziende di primo piano, i risultati eccellenti della propria attività. In generale non ricevono nemmeno risposta. Nessun Direttore per le Risorse Umane prende oggi in conto l´assunzione di una persona che oltre ad avere già superato i 45 o i 50 anni, si è pure fatta licenziare.
Un paio di elementi accomunano i due gruppi dei disoccupati più e meno giovani. Il primo è il senso di umiliazione che traspira dai loro scritti, di ingiustizia gratuitamente subita. In una società in cui la sopravvivenza stessa dipende dal lavoro che si fa, ovvero dal reddito che ad esso è collegato, venir privati del lavoro o non riuscire trovarlo, non per demerito proprio ma per incomprensibili vicende dell´economia, è la peggiore offesa che possa colpire un essere umano. Lo rode nel profondo, ferisce la sua stima di sé, pesa sui rapporti con il prossimo. Molti di questi racconti trasmettono con dolente vivezza questo senso di offesa.
L´altro elemento in comune è il risentimento, se non la rabbia, verso chiunque svolga un ruolo in campo economico. La politica, il governo, i partiti, la pubblica amministrazione, gli enti locali, le imprese grandi e piccole, i singoli imprenditori, i manager, lo stato: tutti sono oggetto di sprezzanti giudizi. E´ vero, non si tratta d´un campione rappresentativo, a fronte dei milioni che si trovano in condizioni simili. Ma chi sottovalutasse il significato sociale e politico di questi racconti di ordinaria disoccupazione commetterebbe un madornale errore.

Repubblica 4.3.09
Biotestamento, arrivano le modifiche prove di dialogo tra maggioranza e Pd
Cambia l’accanimento terapeutico. Franceschini: basta liti tra noi
Ieri primo via libera condizionato in commissione. Restano le divisioni nel centrodestra
di Giovanna Casadio


ROMA - Correzione di rotta del centrodestra, cambiano le norme sul biotestamento. Il Pdl si è accorto che così com´era il testo non poteva funzionare, anche se il primo parere di costituzionalità della commissione del Senato ha dato un via libera con riserva. Quindi, stamani Raffaele Calabrò - il senatore cardiologo, tre figli e quattro nipoti, relatore del disegno di legge - presenterà le modifiche che riscrivono i primi tre articoli; che affidano inoltre al medico, e non più al notaio, di certificare la volontà di fine-vita; che prevedono una validità di cinque anni per il biotestamento. Ma è soprattutto la riformulazione dell´articolo 2, a segnalare la novità: non si parla più solo del divieto di eutanasia e di ogni forma di suicidio assistito, ma si ribadisce e precisa il "no" all´accanimento terapeutico. Il contrario del resto, la posizione cioè dei pasdaran pro-life, anche a dispetto della volontà della persona, sconfinava nell´incostituzionalità. Avvio di prove di dialogo con il Pd, dopo lo scontro sul caso Englaro.
Oggi si vedrà se il centrodestra è disposto ad accogliere alcuni emendamenti dei Democratici, in particolare quelli di Daniele Bosone o di Francesco Rutelli sull´obbligo di idratazione e alimentazione nel fine-vita salvo dare al medico e ai familiari l´ultima parola. Calabrò ammette che i cambiamenti al testo «non sono stati fatti nel chiuso di una stanza» e che altre proposte democratiche potrebbero essere esaminate. Quelle dell´ala cattolica del Pd, s´intende. Con l´intenzione, neppure troppo nascosta, di sparigliare nel centrosinistra. I rutelliani del resto stanno lavorando a un´intesa: Luigi Lusi afferma che bisogna fare ogni sforzo per una mediazione. Non è l´opinione prevalente nel Pd, neppure tra i cattolici che stanno sì pensando a un loro testo su idratazione e alimentazione forzata ma sono stati stoppati dal segretario Dario Franceschini. In un vertice nella sede del partito, Franceschini ha strigliato Dorina Bianchi e Ignazio Marino, che si sono passati il testimone alla guida del drappello di senatori Pd in commissione Sanità. Troppe interviste, troppi scontri sui giornali e ansie di visibilità. «Basta liti tra noi», ha avvertito il segretario. «Evitiamo di danneggiarci», ha rincarato Anna Finocchiaro, la presidente dei senatori. Bianchi alla fine si limita a commentare: «Aspettiamo di ragionare sugli emendamenti del relatore». Bosone assicura: «Un emendamento dell´ala cattolica? Solo se sarà di tutto il Pd». Impresa difficile, tenuto conto che la maggioranza del partito si ritrova nelle posizione laica (condivisa anche dal cattolico Marino) per cui è l´autodeterminazione della persona espressa nel bio testamento a prevalere, benché idratazione e alimentazione siano definiti sostegno vitale. L´esame del ddl in aula è slittato a mercoledì 18, ma il centrodestra giura che non c´è intenzione di diluire i tempi e che a fine mese dovrebbe esserci l´ok del Senato per passare alla Camera. Quagliariello ribadisce che i dissensi di Saro e Malan non hanno spaccato il Pdl. Ma le divisioni nel centrodestra ci sono, e il voto sugli emendamenti domani in commissione sarà la prova del nove.

Repubblica 4.3.09
"Se vinciamo fondi alla ricerca"
Englaro fa causa per diffamazione contro politici, medici e cardinali


UDINE - Medici, politici e addirittura cardinali finiscono nel mirino di Beppino Englaro. Il padre di Eluana ha avviato, infatti, una «civil action» contro chi lo ha diffamato e calunniato in questi mesi. Un´azione civile di risarcimento danni in stile americano, ideata dall´avvocato Massimiliano Campeis che assieme al padre tutela gli interessi della famiglia Englaro. «Abbiamo raccolto tutto e coinvolgeremo decine di persone - spiega - Chi ha chiamato papà Beppino assassino risponderà in tribunale», che si tratti di un luminare della neurologia piuttosto che un alto prelato del Vaticano. «Tutti i soldi che riceveremo per i danni subiti dal signor Englaro e dal primario Amato De Monte - aggiunge l´avvocato - saranno trasferiti all´associazione "Per Eluana", che sta per nascere». I fondi, stimati in parecchi milioni, serviranno a finanziare la ricerca, la battaglia sul testamento biologico, borse di studio e cattedre universitarie. Con l´associazione già pronta a raccogliere le firme per un eventuale referendum se il Parlamento varerà la norma sul fine vita senza lo stop all´alimentazione artificiale. Le prime raccomandate sono già state spedite: «Diffide preventive a vendere case e beni - avverte Campeis - fino a quando il giudice non avrà deciso».
(tommaso cerno)

Repubblica 4.3.09
Il quotidiano oggi non è in edicola. E l’ex direttore Padellaro pensa a un nuovo giornale
Sciopero all’Unità, nuovi soci in arrivo. Anche "Il Secolo" tifa per il salvataggio
di Concetto Vecchio


ROMA - Ci sono 19 giorni per salvare "l´Unità", che ieri ha fatto sciopero dopo l´indisponibilità annunciata dall´editore Renato Soru di ricapitalizzare le casse esangui del quotidiano. Servono quattro milioni di euro entro il 23 marzo: nuovi soci d´area democratica sarebbero disposti a entrare nella proprietà, a patto che ci sia un progetto di risanamento. L´amministratore delegato della Nie, Antonio Saracino, ha proposto un piano lacrime e sangue: chiusura delle redazioni locali di Roma e Milano; riduzione della foliazione da 48 a 40 pagine; diminuzione del numero dei giornalisti, che oggi sono 105 (contratti a termine compresi), per mezzo di prepensionamenti, mancato rinnovo dei contratti a tempo determinato; riduzione del 7% dello stipendio. «Ciò provocherebbe – ha scritto ieri il comitato di redazione in una nota sul giornale – gravissime ripercussioni sugli organici e sulla fisionomia del prodotto». Insomma, bisogna dimagrire per attirare nuovi investitori, e salvare così la pelle, ma tagliare troppo, rinunciando ai giovani talenti, vorrebbe dire affossarne la qualità. Equilibrio difficile da raggiungere. Il cdr domani lo dirà a Saracino.
A febbraio "l´Unità" ha diffuso 52 mila copie: ne vendeva 42 mila quando Concita De Gregorio ne ha assunto la direzione, ad agosto. Il nuovo formato – lanciato il 25 ottobre scorso in coincidenza con la grande adunata pd al Circo Massimo, titolo di prima pagina "Ci siamo" - è costato circa un milione e mezzo di euro, dei quali 300mila euro per la riforma grafica e 500 mila per il lancio. Un investimento pienamente ripagato, sostiene De Gregorio, considerata la sensibile crescita del giornale, grazie all´ iniezione di lettori nuovi, giovani e donne, trainati anche da un sito online nuovo di zecca. Bilanci degli ultimi anni alla mano "l´Unità" costa circa 30 milioni di euro, e ne guadagna 19, ai quali vanno aggiunti i 4-5 milioni del finanziamento pubblico. Resta un buco di 7-8 milioni da colmare. Soru, a otto mesi dall´acquisto, non intende farlo e minaccia di portare i libri in tribunale il 23 marzo, data della prossima riunione del cda. La De Gregorio è fiduciosa: «Penso che "l´Unità" sia una buona cosa, e come tutte le cose buone cose vivrà». Ieri ha solidarizzato la Fnsi. Vicinanza è stata espressa anche dal "Secolo d´Italia".
E intanto gli ex direttori esprimono giudizi severi su Soru, il cui disimpegno si è profilato all´indomani della pesante sconfitta alle regionali sarde: «Se finisce così si è trattato di un salvataggio pro tempore», dice Fabio Mussi, condirettore dall´85 all´88. «Sono sbalordito: ridimensiona il giornale dopo una caduta elettorale. Mi pare un grave inganno per i lettori», commenta Emanuele Macaluso, direttore dal 1982 all´86. Il predecessore della De Gregorio, Antonio Padellaro, la cui buonuscita pare sia stata sbandierata nel corso di un´assemblea, pensa di rientrare in scena con «un quotidiano di battaglia politica». Giornale tradizionale, no stile "Foglio". «Al momento è un desiderio, un´idea", conferma, smentendo di avere già avviato i colloqui per le assunzioni. "Il Fatto" sarebbe un bel nome per la nuova testata, perché ricorderebbe la trasmissione di Enzo Biagi».

Repubblica 4.3.09
La rilevazione per Repubblica.It di Ipr-Marketing. Il Pd passerebbe dal 33,2 al 22%. In crescita la Lega
Tonfo dei Democratici, bene Idv e Udc "Sinistra per le libertà" vicina al quorum
Casini passerebbe dal 5.6% all´8. Di Pietro prossimo al raddoppio: è dato all’otto per cento


ROMA - Tonfo del Pd, volano Idv e Udc, lieve flessione del Pdl, crescita per la Lega, sinistra radicale in ripresa e che, con il nascente cartello della "Sinistra per le libertà" potrebbe centrare il quorum. Questa la fotografia che emerge da un sondaggio che per Repubblica. it ha realizzato l´Ipr Marketing (il 26-27 febbraio, su un campione di 1000 cittadini). Se si votasse oggi, secondo l´istituto il Pd avrebbe un vero crollo, passando dal 33,2% delle politiche 2008 al 22% (-11,2%). Il Partito democratico in sostanza subirebbe una emorragia di quasi un terzo dei voti. E se tornassero Ds e Margherita? Il risultato, in questo ipotetico ritorno al passato, sarebbe persino peggiore: quota 20%, data dalla somma del 13% della Quercia e del 7% dei Dl.
Con questi dati resterebbe un sogno l´obiettivo indicato giusto ieri da Linda Lanzillotta, ovvero recuperare l´elettorato che votò Pd nel 2008: «Franceschini - ha detto l´ex ministro a Red Tv - svolge un compito importante in questa fase, ma a termine. Dopo le elezioni abbiamo un congresso con il quale affronteremo il problema dell´asse politico del Pd».
Il sondaggio segnala una certa ripresa della sinistra radicale. Alle elezioni dell´aprile scorso la Sinistra arcobaleno ottenne il 3. Ora, dopo la scissione nel Prc, il Movimento per la sinistra di Nichi Vendola avrebbe l´1%, la Sinistra democratica il 2%, i Verdi l´1,5%. Il cartello di queste forze, insieme ai socialisti di Nencini, sarebbe al 6 per cento, e quindi superando lo sbarramento. Cosa che non riuscirebbe invece alla somma del Prc di Paolo Ferrero (2,5%) e del Pdci di Oliviero Diliberto (0,5%). Ma è l´opposizione di centro che vola. Casini passa dal 5,6% all´8%. Ancora più lusinghiero il risultato per Di Pietro, che quasi raddoppia rispetto alle politiche di aprile scorso, passando dal 4,4% all´8% (+3,6%). Nel centrodestra, il Pdl resta il primo partito con il 36%, pur perdendo rispetto alle politiche l´1,4%, che finisce nelle casse della Lega Nord, che passa dall´8,3% al 9,5%. Lieve calo per il Mpa (dall´1,1% all´1%). Male La Destra di Storace, che porterebbe a casa il 2% (contro il 2,5% delle politiche).

Corriere della Sera 4.3.09
I Democratici si compattano ma corrono il rischio della deriva demagogica
di Massimo Franco


Successo di Franceschini sull'assegno, ma la previdenza resta un tabù

L' offensiva di Dario Franceschini sull'indennità di disoccupazione ha fatto un piccolo miracolo: schierare l'intero Pd a favore di un provvedimento che mira a mettere in difficoltà il governo. Anzi, è riuscita ad ottenere l'appoggio anche di una parte dell'estrema sinistra, che ha rivendicato la paternità della proposta ai tempi di Romano Prodi a palazzo Chigi. «Ma allora fu considerata dal Pd roba da estremisti», ricorda Fabio Mussi. Come giustificazione, il partito di Franceschini può indicare lo scenario drammatico nel quale adesso l'idea riaffiora. La crisi economica legittima «misure d'emergenza».
L'obiettivo immediato è di farne discutere il Parlamento entro fine mese. Ma il centrosinistra capta il potenziale punto debole della maggioranza; e cerca di sfruttarlo al massimo. Così, il tentativo del premier e dei ministri di non indulgere al pessimismo diventa altro, nelle parole degli avversari. Si trasforma nel «delitto» di tacere sulla crisi, di minimizzarne le implicazioni sociali. Qualche dubbio sulla scelta di limitarsi a dare un'indennità a tutti i licenziati dall'autunno scorso al 31 dicembre del 2009, emerge tuttavia anche nel Pd. L'ipotesi di riformare in parallelo le pensioni è stata accennata da esponenti dell'opposizione come Enrico Letta e Linda Lanzillotta.
Franceschini si è dovuto affrettare a precisare che si tratta di due cose distinte. Sa che la prospettiva di toccare il sistema pensionistico dividerebbe il centrosinistra; e riaprirebbe un fronte conflittuale con i sindacati. Per questo l'opposizione punta tutto sull'«assegno di disoccupazione ». Chiede un «sì o un no» a Berlusconi. Gli propone maliziosamente un decreto legge, adducendo i motivi d'urgenza usati nel recente passato da palazzo Chigi su altri temi. Ed accusa il governo di prepararsi a licenziare i precari della pubblica amministrazione.
Ieri sono arrivate risposte rassicuranti e insieme risentite dal ministro del Welfare. Maurizio Sacconi. definisce «ignobili » le voci su un decreto che bloccherebbe la stabilizzazione dei precari. Contesta i numeri della Cgil, secondo la quale sarebbero a rischio 400 mila posti, perché «nessuno sa quanti sono realmente gli atipici in Italia». Si tratta di un filone incandescente, nel quale demagogia e drammi reali si mescolano; ma che diventerà il fronte più esposto per i prossimi mesi. Basta mettere in fila le reazioni della sinistra alla proposta di alzare l'età pensionabile delle donne. È un no alimentato dalla diffidenza, e dall'irrigidimento tipico delle fasi preelettorali.
Segna un muro contro muro sempre più vistoso fra governo e Cgil; e il probabile allineamento dell'opposizione su parole d'ordine dominate dalla paura legittima di perdere il posto di lavoro. Il Pd scansa come pretesti le accuse di assistenzialismo, che gli arrivano dal governo. Assicura che la sua «indennità » potrebbe trovare una copertura finanziaria in una manciata di minuti. Ma palazzo Chigi avverte che quella soluzione rischia di avere effetti paradossali. Più che aiutare i disoccupati, moltiplicherebbe i licenziamenti da parte di imprenditori incoraggiati dalla certezza di un intervento dello Stato.

Repubblica 4.3.09
La follia di sacrificare la Storia dell’Arte
risponde Corrado Augias


Gentile Dottor Augias, faccio parte del direttivo dell'ANISA (Insegnanti di Storia dell'Arte). Sbandieriamo il possesso del maggior patrimonio artistico, e che tale patrimonio costituisce la nostra vera risorsa. Si dovrebbe quindi pensare che un governo così 'pragmatico' punti a incentivare lo studio d'una materia che consente la formazione di futuri «operatori culturali», dalla guida turistica al direttore del grande museo. Invece è prevista una drastica riduzione delle ore di Storia dell'arte. Per il liceo classico un'ora a settimana (con assoluta mortificazione dei docenti, costretti fra l'altro a girare senza posa per 18 diverse classi a settimana!); mentre altri indirizzi potrebbero essere privati del tutto della disciplina. E pensare che l'Italia è stato il primo paese al mondo ad istituire uno studio specifico della storia dell'arte nei licei, e che perciò veniva indicato a modello dagli altri paesi. I fatti che, in questi giorni, hanno portato l'attenzione sulla questione cruciale della gestione dei beni culturali, dovrebbero stimolare una ancor più attenta riflessione sulla posizione assegnata dalla politica all'educazione e all'arte.
Prof. Irene Baldriga irene@irenebaldriga.it

C' è una decisa coerenza tra la progettata riduzione dell'insegnamento di una materia come Storia dell'Arte e la burrasca che ha investito il Consiglio superiore dei Beni Culturali. Si può fare intanto una considerazione generale: i temi della cultura non rientrano tra gli interessi di questo governo. Il presidente del Consiglio non s'è mai, dico mai, occupato di tali argomenti, mai li ha richiamati nemmeno per incidens. La sua idea di Beni Culturali è: opere da esporre per gli ospiti illustri. Esempio i Bronzi di Riace come arredo per il prossimo G-8. Il prof. Settis è stato forzato alle dimissioni, subito sostituito dal prof. Carandini. Sono due studiosi eminenti, profondamente divisi però su almeno due temi. Il primo è il personale delle Sovrintendenze che, lamenta Settis, non viene più assunto. L'anno prossimo vi saranno 23 posti di dirigente archeologo in organico e solo 7 funzionari col grado per ricoprirli. Una volta il personale delle Sovrintendenze rappresentava la crema dell'amministrazione pubblica segnalandosi per preparazione e competenza. Carandini invece ha definito questi funzionari "talebani della tutela", giudizio che suona avventato, o troppo risentito. L'altro punto di dissenso è l'impiego di questo copioso patrimonio. Settis mette l'accento sulla tutela, Carandini preferisce un deciso sfruttamento economico sulla linea del resto di Mario Resca, ex-amministratore della McDonalds, di recente nominato direttore generale per la Valorizzazione dei musei. La coerenza del disegno è evidente, lo sono anche i cattivi presagi.

Repubblica 4.3.09
Un convegno internazionale organizzato dall’Università Gregoriana
Ora anche la Chiesa accoglie Darwin
Ma il Vaticano continua a respingere l´idea di Richard Dawkins secondo la quale l’evoluzionismo possa provare l’inesistenza di Dio
di Marco Politi


ROMA. Scoppia la pace tra Chiesa cattolica e Darwin. Annuncia monsignor Gianfranco Ravasi, presidente del Consiglio pontificio per la Cultura: «Darwin si può conciliare con la Genesi». Al grande congresso internazionale, organizzato dalla pontificia Università Gregoriana sul tema della «Evoluzione biologica», il cardinale William Levada (successore di Ratzinger alla guida dell´ex Sant´Uffizio) proclama che c´è uno «spazio sufficientemente ampio» per credere nella base scientifica dell´evoluzione e al tempo stesso per la fede in un Dio creatore.
Ciò che il Vaticano respinge, spiega Levada, è che l´evoluzionismo provi l´«inesistenza» di Dio, come sostiene il biologo Richard Dawkins. Il Vaticano, soggiunge il porporato, non si oppone «a nessuna realtà scientifica».
Si chiude così la guerriglia che negli ultimi anno aveva contrapposto alcuni settori della gerarchia ecclesiastica - che si sentivano protetti da papa Ratzinger - all´evoluzionismo. Per un certo tempo, infatti, era stata abbandonata la via maestra imboccata da Pio XII e poi sottolineata da Giovanni Paolo II, che non vedeva contraddizione tra la scientificità dell´evoluzionismo e la fede in un Dio animatore della «scintilla» all´origine del creato. Benedetto XVI, in un seminario con i suoi discepoli storici a Castelgandolfo nel settembre del 2006, aveva preferito insistere sulle cosiddette «lacune» del darwinismo, definendo la «teoria dell´evoluzione in gran parte non dimostrabile in modo tanto facile». Mentre il cardinale Schoenborn di Vienna era parso esaltare nel luglio del 2005 (in un articolo sul New York Times) il cosiddetto Disegno Intelligente, agitato dai fondamentalisti protestanti americani in guerra contro il darwinismo.
Ora la musica cambia radicalmente. Scrive sull´Osservatore Romano il vicepresidente del convegno professor Gennaro Auletta che parlare di «recupero o riabilitazione di Darwin» da parte della Chiesa è «superfluo, perché né la Chiesa cattolica né suoi esponenti significativi hanno mai condannato né il darwinismo né la teoria dell´evoluzione». Auletta, direttore scientifico del Progetto Stoq (Scienza, Teologia e Ricerca Ontologica) nell´ambito dell´Accademia pontificia delle Scienze, rimarca che bisogna evitare di rifarsi al «discorso dell´Intelligent Design, che non è una teoria scientifica, anche se si spaccia come tale».
Sullo sfondo di questo approccio, che archivia velleità integraliste, il cardinale Levada afferma sobriamente che per i cristiani «qualunque sia il modo in cui la creazione è venuta in essere e si è evoluta, alla fine crediamo sia comunque Dio il creatore di tutte le cose».
Grande animatore del convegno, promosso con l´università americana di Notre Dame (Indiana), mons. Ravasi - che sta preparando anche un simposio su Galileo - invita teologi e scienziati a «incrociare gli sguardi», rispettando la dignità di ogni scienza. «Non dobbiamo cedere - ammonisce - alla miseria dell´arroganza esclusivistica. L´incrociare gli sguardi esclude la prepotenza, la prevaricazione, la prevalenza esclusiva». Concludendo con una riflessione significativa: «Noi non tanto abbiamo la verità, intesa come possesso oggettivo. Ma siamo nella verità, che è quanto ci trascende, ci supera e ci avvolge».
L´adesione esplicita del Vaticano alla scientificità dell´evoluzionismo potrebbe avere ricadute positive anche sul sistema educativo italiano. Nel 2004 l´allora ministro della Pubblica istruzione Letizia Moratti, fiutando l´ondata integralista anti-darwinista, tolse lo studio dell´evoluzionismo dai programmi della scuola secondaria di primo grado. Insegnamento parzialmente ripristinato soltanto in seguito alla rivolta del mondo scientifico italiano.
Il convegno alla Gregoriana prosegue fino al 7 marzo. Al centro della discussione sta il riconoscimento che Darwin ha soprattutto aperto la strada ad un metodo di ricerca e non va fossilizzato. «La scoperta fondamentale di Darwin - commenta il biologo americano Francisco Ayala - consiste nell´esistenza di un processo naturale, che è creativo anche se non cosciente». Proprio Ayala, un ex domenicano, si era rivolto con due altri scienziati a papa Ratzinger nel 2005, esortandolo a non innalzare nuove «barriere» tra fede religiosa e metodo scientifico.

Repubblica 4.3.09
La natura del nostro sapere
Negli ultimi anni sono state scoperte molte regole che spiegano come funziona l’apprendimento
Che cosa intendiamo per cultura. Che peso hanno i fattori biologici e quale quelli sociali
Gli studi sulla preistoria umana sviluppati grazie a recenti indagini archeologiche
di Luigi e Luca Cavalli Sforza


La parola "cultura" ha significati molteplici e differenti. Fino a poco tempo fa, soprattutto in Italia, indicava una preparazione intellettuale abbastanza raffinata, quale si riflette anche nell´espressione "farsi una cultura". I dizionari hanno però cominciato da qualche tempo ad accorgersi, in Italia come all´estero, di un significato e di una portata assai più generali del termine, ovvero: l´insieme di quanto viene appreso da un individuo nel corso della vita, dal comportamento quotidiano alle conoscenze di qualunque natura, inclusi quegli elementi � come i pregiudizi e le credenze � che precedentemente non venivano compresi nel significato del termine ma, anzi, ne delimitavano la portata dall´esterno. Si tratta di una definizione ancor più generale di quella usata inizialmente dai primi antropologi culturali americani a cavallo fra l´Ottocento e il Novecento, e sembra rispondere a una concezione molto sentita.
Così concepito il concetto di "cultura" può in qualche modo considerarsi alternativo a quello di "natura", purché adottato in senso stretto, cioè riferito a quanto vi è di innato in noi o, più specificamente, di ereditato attraverso la biologia. In questo senso la "cultura" diventa, per opposizione, tutto quanto è appreso durante lo sviluppo.
Ritorneremo su questa distinzione più volte, per la sua importanza e per le forti implicazioni sociali. In queste pagine introduttive vale però la pena di aggiungere che negli ultimi cinquant´anni sono state scoperte molte regolarità � si potrebbe quasi dire "leggi" � e proprietà della cultura intesa in questo senso generale di dominio dell´acquisito.
Questi risultati non hanno ancora avuto il tempo di uscire dall´ambito dei saggi specialistici, ma conquisteranno presto un interesse generale per la loro rilevanza. Gli studi della preistoria umana hanno avuto uno sviluppo straordinario grazie a recentissime indagini archeologiche, genetiche, linguistiche, demografiche e, soprattutto, grazie a un approccio multidisciplinare che ha operato una sintesi fra esse, superando per la prima volta i confini angusti di ciascuna di queste scienze. Si è così dimostrata la possibilità e l´utilità di vedere la specie umana in una prospettiva nuova e più completa.
Le regolarità dell´evoluzione della cultura sono state individuate con maggiore incisività quando il metodo multidisciplinare e sperimentale è stato valorizzato negli studi storici. L´approccio che utilizza i metodi della scienza sperimentale, in questo contesto, è stato un elemento insieme di novità e di conferma: tale scienza infatti deve la sua grande forza alla capacità di controllare e di verificare i propri risultati attraverso la "ripetizione" degli esperimenti. La conferma dei risultati ottenuti attraverso quel metodo garantisce una sicurezza che altre attività umane non raggiungono facilmente se non attraverso l´universalità del consenso, che è raggiunto di rado e può essere di breve durata. La scienza basa la sua forza sulla possibilità di essere continuamente sottoposta a revisione e confermata o smentita. Essa rappresenta quindi un approccio alla conoscenza che trae enorme forza dal fatto di essere una continua approssimazione, sempre più profonda e sempre più affidabile, comunque sempre più vicina alla realtà sfuggevole dell´universo che ci circonda.
Di fronte alla solidità della scienza sperimentale, le scienze storiche � tese alla ricostruzione del passato e all´individuazione delle cause del presente � mancano della possibilità oggettiva di un´identica libertà di controllo dei risultati attraverso la ripetizione e il raffinamento degli esperimenti.
L´approccio multidisciplinare è utile alla scienza sperimentale perché aiuta a superare gli steccati fra le discipline specialistiche, che aumentano velocemente di numero e parlano linguaggi sempre più tecnici, ma ha un´utilità ancora maggiore nelle scienze storiche, perché sopperisce in parte alla loro impossibilità oggettiva di ripetere il processo storico per verificare le proprie ipotesi. Analizzando lo stesso processo storico dal punto di vista di discipline diverse si riesce spesso a riempire lacune e a dimostrare nessi di causa-effetto che un approccio normale, tipico di una singola disciplina specialistica, non avrebbe individuato se non in via del tutto ipotetica.
Abbiamo sentito la necessità di spiegare questi sviluppi recenti e ancora poco noti. (...) In un´opera dal titolo la Cultura Italiana abbiamo scelto di adottare il significato più ampio della parola "cultura" fra i due delineati all´inizio.
L´aggettivo "italiana" può far nascere un dubbio legittimo, che vale la pena discutere subito: ovvero se davvero esistano "culture nazionali". La risposta più semplice è che senza dubbio esistono culture "locali", e la nazione è certamente identificabile con una delle aree, o insiemi di persone, più significative. Certo, anche in Italia vi sono culture sub-nazionali spiccate, talvolta anche più pronunciate delle subculture britanniche: le regioni italiane sono una suddivisione sì geografica, ma anche e soprattutto culturale. Chi conosce bene la propria regione saprà distinguere al suo interno le molte subculture che vi albergano. L´identità personale, poi, è probabilmente riconducibile a radici connesse con porzioni di territorio più ristrette, come la provincia, la città o aree rurali particolari. Infine vi sono importanti differenze individuali che dipendono dalla storia peculiare della propria vita.
Il nostro scopo non è quello di classificare le culture locali o nazionali, di definirne il numero o così via. Ogni carattere o gruppo di caratteri culturali potrebbe portarci a creare una classificazione particolare, anche se alcune diversità stanno rapidamente sparendo. Per esempio, fino a pochi anni fa era possibile delineare diverse aree culturali sul territorio italiano osservando le tecniche di preparazione, di coltivazione e di raccolta delle messi, e le aree così individuate avevano probabilmente in comune anche molti altri caratteri culturali. L´introduzione recente di nuove tecniche agricole di tipo industriale ha quasi completamente cancellato queste differenze, che erano parte del paesaggio, a vantaggio di una globalizzazione che sta rapidamente omogeneizzando buona parte del mondo, provocando la perdita irreversibile di numerose culture locali. Tali perdite sono spesso così gravi da rendere impossibile ricostruire successivamente le ragioni di costumi, di abitudini, di antiche saggezze che hanno reso la vita ricca e piacevole. Allo stesso modo scompaiono modi di dire e comportamenti la cui origine o motivazione può essere difficile da interpretare.
Tutto ciò impone la necessità di uno sforzo di conservazione culturale importante, attraverso archivi approfonditi e studi adeguati. La conservazione delle memorie merita di ricevere un´attenzione maggiore di quanta le viene dedicata, e forse dovremmo imparare queste virtù dagli inglesi che ne sono i maestri.

Corriere della Sera 4.3.09
La violenza alla Caffarella Concluso il lavoro della Scientifica, gli indagati potrebbero venire presto scarcerati
Stupro, tutti i test scagionano i due romeni
Non combaciano le tracce del Dna sulle sigarette, le impronte e l'identikit


Ronde rosa. La vittima ha disegnato i tratti di un giovane sui 20-25 anni con la frangia, quello in cella è meno giovane e stempiato

ROMA — Sono tutti negativi gli esami sui reperti trovati nel parco della Caffarella, a Roma, dopo lo stupro di San Valentino. Sul tavolo del pubblico ministero c'è la relazione finale della polizia Scientifica che scagiona definitivamente Alexandru Isztoika Loyos, 20 anni, e Karol Racz, 36. Anche i prelievi effettuati sui mozziconi delle sigarette fumate dai violentatori e sui fazzolettini usati dopo la brutale aggressione smentiscono la tesi dell'accusa. Il profilo genetico ricavato dagli esperti effettuando queste analisi è uguale a quello rilevato sui tamponi prelevati alla vittima che è già risultato differente da quelli degli indagati. E dunque non ci può essere alcun dubbio: non sono stati i due romeni arrestati il 17 febbraio a violentare la ragazzina di 15 anni e a picchiare il suo fidanzato.
Lunedì prossimo i due indagati dovranno comparire di fronte al tribunale del Riesame, ma è possibile che prima di quella data la stessa procura di Roma decida di chiederne la scarcerazione. In ogni caso il magistrato dovrà mettere a disposizione dei giudici e dei difensori l'esito dei test biologici effettuati, visto che la legge impone la presentazione di tutte le prove a discarico.
Alla biologa Carla Vecchiotti, che spesso collabora con la questura, è stato affidato il compito di «rileggere» i dati già acquisiti. Nessun nuovo prelievo potrà essere effettuato, la consulente si limiterà a verificare le comparazioni per un esito che appare ormai scontato.
Non combacia il Dna e anche l'esito delle verifiche sulle impronte digitali conferma l'estraneità dei due. Si tratta di alcuni frammenti rilevati sulle schede telefoniche che sono stati comparati con le tracce lasciate dalle dita dei due e hanno consentito di escludere qualsiasi grado di compatibilità, come gli esperti della Scientifica hanno spiegato al magistrato.
Frana dunque l'impianto accusatorio, l'indagine affidata alla squadra mobile deve ripartire da zero. Nonostante il riconoscimento in foto da parte della vittima di Alexandru Loyos e la confessione poi ritrattata del giovane, difeso dall'avvocato Giancarlo Di Rosa. La convinzione degli investigatori, ricavata grazie ad un esame accurato del cromosoma «Y» estratto dal Dna, è che bisogna ricominciare a cercare nella comunità romena. Attraverso l'analisi di questo particolare componente si può infatti ricavare l'etnia del profilo genetico e in questo caso il risultato raggiunto conferma che la nazionalità è proprio quella. Ma oltre, al momento, non si riesce ad andare perché i dati relativi ai due Dna non compaiono in alcuna banca dati e dunque si tratterebbe di persone mai finite sotto inchiesta.
Per cercare i colpevoli si riesaminano gli identikit tracciati con le descrizioni fornite dalla ragazzina e dal suo fidanzato. Immagini che non sembrano avere alcuna somiglianza con i due arrestati. In particolare quello attribuito a Racz. «Basta guardarlo — dichiara l'avvocato Lorenzo La Marca che ieri ha potuto visionare il fascicolo processuale — per rendersi conto dell'errore». Disegna il volto di un ragazzo tra i 20 e i 25 anni, con una folta frangia a coprire la fronte. L'uomo finito in carcere è invece completamente stempiato ed è escluso che si sia tagliato i capelli dopo il 14 febbraio visto che nei giorni precedenti fu ripreso in alcuni filmati della polizia che controllava l'accampamento dove viveva, ed era identico al momento dell'arresto. «Inoltre — chiarisce il legale — la vittima ha parlato di un giovane alto circa un metro e 75 mentre il mio assistito non raggiunge il metro e 55». Durante l'interrogatorio seguito alla violenza, alla giovane furono mostrate dodici foto. Lei indicò anche un altro romeno, risultato poi estraneo alla vicenda.
Il quadro emerso complica la ricerca della verità sulla violenza sessuale avvenuta il 21 gennaio a Primavalle, quando una donna di 41 anni raccontò di essere stata aggredita alla fermata dell'autobus e stuprata da due uomini.

il Riformista 4.3.09
Omicidio dell'Unità
Ecco i tre indiziati Veltroni, Soru e Repubblica. Il Perdente di Successo, il Gramsci che sta usando il giornale come un taxi, e il giornale-partito che si mangia il giornale del partito.
di Giampaolo Pansa


È inutile cercare un retroscena canaglia nella crisi dell'Unità. Tutto è chiaro, nei limiti del romanzo giallo. I grandi racconti polizieschi ti mettevano sotto gli occhi i possibili colpevoli di un delitto. Ma sino all'ultima pagina non lasciavano capire chi, tra i sospettati, fosse quello giusto.Anche in questo caso gli indiziati sono tre. Il primo è l'ex leader del Partito democratico, Walter Veltroni. Il secondo è l'attuale padrone del giornale, Renato Soru. Il terzo, non sorprendetevi, è la Repubblica di Ezio Mauro.
Sul primo indiziato si conosce quasi tutto. A cominciare dalla conclusione della sua avventura politica. Il Perdente di Successo ormai è uscito di scena dopo uno tsunami di sconfitte elettorali. Ma era stato lui il padrino dell'ultima rinascita dell'Unità. A cominciare dalla scelta del direttore, Concita De Gregorio. Veltroni l'aveva fermamente voluta, soprattutto perchè era una donna e per di più bella, elegante, spigliata.
Non pensate subito che il sottoscritto sia un vecchio maschio che ritiene certi mestieri adatti più al suo genere che a quello femminile. Anche il grande Corriere della sera, un giorno, forse sarà guidato da una signora provvista di un superbo lato B, per citare un mantra delle attuali sfilate di moda: "L'eros colpisce di spalle". Ma dirigere un quotidiano mi sembra ancora un mestiere per ruvidi maschiacci. Capaci, al momento giusto, di rovesciare le scrivanie. E di fare il braccio di ferro con il più tirchio degli editori.
Ma nel suo breve regno, Walter voleva stupire anche nei dettagli. Per questo suggerì l'avvento di Concita. La bionda inviata di Repubblica non aveva mai diretto nulla. Dal punto di vista professionale, era una single di qualità, però niente di più. Ammetto che rimasi colpito quando si disse di lei: una donna che ha allevato un plotoncino di figli è capace di tutto. Era uno slogan giusto, dal punto di vista umano. Ma purtroppo inadatto sul campo di battaglia della carta stampata.
Al posto di Concita, oggi non sarei grata a Veltroni. Il suo gusto per l'effimero ha messo nei guai anche la nostra collega. E quando dico effimero intendo la noncuranza per l'esperienza professionale di un candidato. Legata al mancato accertamento della sua capacità di guidare una squadra verso un traguardo irraggiungibile: rianimare un vecchio foglio di partito e farne un giornale adatto a questo tempo da lupi. Allo scopo non potevano bastare gli scatti di Oliviero Toscani sull'Unità in jeans. Mostravano una minigonna che fasciavano un bel fondoschiena, quello della direttora. Nient'altro.
Oggi Veltroni non conta nulla. Dunque possiamo al secondo indiziato: Soru, il padrone dell'Unità. La vecchia proprietà era stata felice di venderla all'Uomo di Tiscali perché, diceva lui, «aveva Gramsci nel cuore». Il fondatore del Pci si sarà rivoltato nella tomba. Infatti Soru ha applicato al quotidiano diretto da Concita la stessa regola che Enrico Mattei, il grande capo dell'Eni, applicava ai partiti.
Mattei ringhiava: «Per me i partiti politici sono come i taxi: servono per una corsa, li paghi e scendi». La stessa cosa ha fatto Soru con il giornale ex-Pci. In vista del voto regionale in Sardegna, e nella convinzione di vincere, si è comprato la testata per accreditarsi presso Veltroni. Un accredito costato molto caro, soprattutto per quel che sarebbe avvenuto pochi mesi dopo.
Mesi orribili, di tragedia politica e finanziaria. Segnata da tre eventi che non erano stati messi in conto. La sconfitta elettorale di mr. Tiscali. La fuga di Veltroni dal mattatoio del Pd. Infine l'obbligo di ripianare il passivo dell'Unità con un altro assegno milionario. Obbligo che, fino a oggi, Soru si è ben guardato dall'onorare.
Che cosa dice il nostro romanzo giallo? Dice che, se l'Unità dovesse morire, di certo l'assassino non potrebbe che essere lui. Il vecchio Sherlock Holmes esclamerebbe: «Elementare, Watson». Ma l'astuto poliziotto indicherebbe sullo sfondo anche un altro indiziato: la Repubblica di Ezio Mauro. Qualcuno osserverà: che cosa c'entra, in questo giallo, il giornale di largo Fochetti? C'entra, e come se c'entra! Non per un intervento diretto sulla scena del crimine, bensì per una circostanza esterna. Non voluta né dal direttore né dall'editore repubblicani.
La circostanza è che la squadra dell'Unità ha fatto un giornale rivolto allo stesso lettorato di Repubblica. Come ha spiegato Andrea Romano sul Riformista, il quotidiano di Mauro è l'unico vero giornale di partito rimasto in Italia. Un giornale pensato e prodotto per un pubblico di sinistra, e di quello più convinto. Un pubblico che vuole essere confortato nella propria fede, che non ama farsi domande, che rifiuta i dubbi, che vuole essere incitato a credere e a combattere. Lascio perdere l'obbedire perché l'obbedienza non è più una virtù.
Riassumendo, la buonanima Veltroni, lo sconfitto Soru e la sfortunata De Gregorio sono inciampati nell'errore della loro vita. Quello di mettere sul mercato un sottoprodotto di Repubblica. Meno potente, meno ricco, meno astuto dell'originale. E questo in un'epoca di vacche magre per la carta stampata. Quando a contare, si spera, sono la diversità, la snellezza, l'agilità e la disinvoltura. Qualità che Eugenio Scalfari definiva con un'immagine indimenticabile: il giornale libertino.
Vorrei sbagliarmi, ma l'avventura del foglio creato dal sardo Gramsci, e distrutto dal sardo Soru, rischia di finire male. Ce ne dispiace molto. Chi fa il giornalista non può che dolersi delle sfortune di una testata. Dunque, viva l'Unità! E le colleghe e i colleghi che sino a oggi l'hanno fatta vivere.
Insieme a loro, accendiamo un cero davanti al ritratto di san Dario da Ferrara. Ma nessuno può dire se Franceschini avrà la forza, e i soldi, per accollarsi quest'altro miracolo.

il Riformista 4.3.09
Stupri e media. Sbatti il mostro romeno
Caffarella cosa ci insegna La vicenda di Racz
È un mostro o noi siamo razzisti?
di Piero Sansonetti


Stupratori. Avete mai sentito parlare di stato di diritto? Beh, l'impressione è che sia ormai un ricordo del passato. C'è una campagna contro i romeni: sono quelli che violentano le donne. È insensato dire che in Italia il razzismo non c'è: la verità è che sta dilagando.

Giorni fa, durante una trasmissione televisiva, mi è capitato di dover discutere dello stupro della Caffarella (avvenuto a Roma nel giorno di San Valentino) e della colpevolezza certa, e della perfidia assoluta dei due romeni arrestati per quel delitto. Vi dico la verità, mi sono trovato in gran difficoltà. Era molto complicato mantenere le tradizionali posizioni garantiste («tutti sono innocenti fino alla condanna, non esistono le razze, non ci sono gruppi etnici più propensi al crimine rispetto ad altri, eccetera eccetera…»).
Era complicato perché quelle posizioni sono in contrasto aperto con un evidente orientamento plebiscitario dell'opinione pubblica, colpevolista e favorevole a pene eccezionali, fino alla castrazione e al patibolo.
In questi giorni abbiamo visto su tutti i giornali italiani sempre la stessa foto di quel giovane romeno che si chiama Karol Racz e che ha la sfortuna di avere il naso schiacciato, vistosamente schiacciato, proprio come lo stupratore della Caffarella, descritto dalla giovanissima vittima quindicenne. Abbiamo visto Racz con le mani legate dietro la schiena, mentre lo arrestano. Racz il mostro, Racz che aveva violentato la ragazzina perché le era sembrata bella.
Racz il mostro, Racz che aveva violentata la ragazzina per vendetta, che l'aveva rapinata, l'aveva minacciata di morte, che si era vantato di avere stuprato una quindicenne, che si era gloriato della sua virilità. E poi abbiamo letto che Racz, sicuramente colpevole dello stupro della Caffarella - perché accusato dall'amico ventenne, Loyos anche lui colpevole e reo confesso - era stato riconosciuto anche da un'altra signora che ha detto di essere stata violentata da lui, nel quartiere romano di Primavalle, un mese fa. Racz è il mostro, e nessuno può dubitarne, e chi non chiede punizioni esemplari è semplicemente un pazzo.
Poi ieri abbiamo capito che le cose stanno in maniera diversa: il test del Dna, che è praticamente infallibile, scagiona Racz e a quel che sembra scagiona anche il suo giovane amico Loyos. E abbiamo saputo che Racz aveva un alibi piuttosto solido, e che i ragazzi aggrediti alla Caffarella avevano sentito i violentatori parlare in italiano e Racz non conosce una sola parola di italiano, e avevano descritto i violentatori come persone dai lunghi capelli e Racz ha i capelli molto corti, e li aveva corti anche nei giorni precedenti alla violenza, perché la polizia lo aveva filmato nel campo nomadi. E la signora di Primavalle ha detto di non essere sicura del suo riconoscimento.
Naturalmente non abbiamo ancora la prova definitiva che i due romeni, o almeno uno di loro, sia innocente. Tutti gli indizi però vanno in quella direzione. E quindi è molto probabile che sia stato linciato ed esposto per giorni e giorni al pubblico ludibrio, indicato come l'esempio del male assoluto, un ragazzo (o forse due) che non c'entrava niente con quei delitti. E sappiamo anche che la polizia, con ogni probabilità, ha estorto una confessione falsa al giovane romeno, o comunque ha estorto una chiamata di correo infondata. Come ha fatto? Con quali mezzi? Per quale ragione lo ha fatto? E infine sappiamo che la polizia filma i cittadini innocenti, nei campi nomadi, li scheda, li tratta come potenziali criminali.
Avete mai sentito parlare di stato di diritto? Beh, l'impressione è sia ormai un ricordo del passato. Dopodiché, ogni volta che io parlo di razzismo, reagendo a certi discorsi sui romeni, mi si risponde che sono fuori dal mondo, che sono ideologico, che non capisco, perché accusare i romeni di essere tendenzialmente criminali non c'entra niente col razzismo ma è la semplice e oggettiva constatazione di un dato sociologico. No, non c'è niente di sociologico nella campagna contro i romeni.
Questa campagna si ispira ai principi basilari del razzismo moderno, che consistono nell'individuare un popolo, o un gruppo nazionale o una etnia, nell'attribuirgli caratteristiche e tendenze particolari - specifiche di quel gruppo: di quella razza - e poi nel dichiarare accertata una certa propensione di quel gruppo a delinquere o a commettere un certo tipo di reato. I romeni stuprano le donne, i rom rubano i bambini, gli ebrei tramano, gli arabi mettono le bombe, eccetera eccetera.
Il razzismo non è altro che questo. È insensato dire che in Italia non c'è: in Italia sta dilagando. La vicenda di Racz ne è la prova provata.

Italia Oggi 4.3.09
Il partito di Vendola? Nel palazzo della Cgil...
di Pierre de Nolac


«No, Fausto Bertinotti non ha appeso il cachemire al chiodo», scherzava ieri mattina un vecchio amico dell'ex presidente della Camera dei deputati. Già, perché il subcomandante Fausto si è presentato alla cerimonia inaugurale della sede romana del movimento politico di Nichi Vendola, l'Mps. «Ricorda il nome di una banca che conosco», malignava qualcuno, venuto da Siena per dire la battuta. Gli uffici si trovano a via Goito, in un palazzo caro alla Cgil romana a pochi passi da una delle enoteche più note di Roma, Trimani, dove non pochi «sinistri» si sono poi diretti per bere del vino rosso.
C'erano Gennaro Migliore e Franco Giordano. Con Vendola che invitava a finirla con «le dispute tra riformisti e radicali perché entrambi siamo stati sconfitti». A proposito del sindacato di Guglielmo Epifani, alcuni avevano tra le mani un invito per la prossima presentazione del libro «Ho perso la sinistra», pubblicato da Ediesse, la casa editrice cara alla Cgil, e dove ci sarà Bertinotti. Oltre a Gianni Rinaldini e Aldo Tortorella.

Asca 4.3.09
“Unità” a rischio chiusura ma pronti tre nuovi giornali


(Asca) - Oggi 'l'Unita'' non e' in edicola, causa il primo dei cinque giorni di sciopero annunciati dal Comitato di redazione dopo l'assemblea delle redazioni di Roma, Bologna, Firenze, Milano e della pagina online.
Il quotidiano fondato da Antonio Gramsci e' di nuovo in gravi difficolta' economiche. Lo sciopero - fa presente una nota del Cdr - vuole 'respingere l'ipotesi di drastico ridimensionamento aziendale prospettato dall'amministratore delegato che provocherebbe gravissime ripercussioni sugli organici e sulla fisionomia stessa del prodotto'.
L'annuncio di un drastico ridimensionamento del quotidiano si spiega con la scelta di Renato Soru di non confermare con nuovi investimenti il suo impegno nella proprieta' del giornale che era iniziato la scorsa primavera e aveva portato alla designazione di Concita De Gregorio come nuovo direttore.
'L'Unita'' ha consolidato le sue vendite in questi mesi oltre la barriera delle 50 mila copie ma la crisi politica del Pd (e la sconfitta di Soru nelle elezioni regionali in Sardegna) si sono riversate puntualmente anche sul suo progetto editoriale.
A chiedere un impegno di Soru nella proprieta' del quotidiano era stato Walter Veltroni in persona. L'ex segretario del Pd aveva suggerito pure la soluzione del direttore nella figura professionale di Concita De Gregorio che aveva assunto l'incarico lo scorso 22 agosto. Senza Veltroni alla guida del Pd, Soru si sente evidentemente deresponsabilizzato.
Ora il Cdr cerca affannosamente nuovi interlocutori sul mercato da aggiungere ai proventi della legge sull'editoria politica ('Europa' e 'l'Unita'' si dividono quel finanziamento per il loro apparentamento al Pd, composto da ex Ds ed ex Margherita), mentre si da' per scontato che la cura dimagrante delle spese editoriali non possa essere evitata (prepensionamenti, chiusura delle redazioni locali, forse diminuzione del numero di pagine).
Mentre 'l'Unita'' sciopera, prende quota il progetto di un nuovo quotidiano diretto da Antonio Padellaro, predecessore della De Gregorio alla direzione del giornale fondato da Gramsci. Dovrebbe avere come testata 'Il fatto', contare su una piccola redazione e andare a occupare uno spazio politico in quel settore di opinione pubblica che guarda con simpatia all'Idv di Antonio Di Pietro. Quella con Di Pietro non sarebbe niente di piu' che una affinita' elettiva, perche' l'ex Pm ha annunciato in piu' occasioni di essere contrario ai finanziamenti pubblici che vanno all'editoria di partito e ha chiuso da tempo un foglio che era l'organo dell'Idv preferendo utilizzare ai fini informativi il suo blog.
Anche senza la crisi scoppiata a 'l'Unita'', se Padellaro fosse riuscito a convincere della bonta' del progetto di nuovo quotidiano firme come Marco Travaglio, Furio Colombo e Nicola Tranfaglia il giornale diretto da De Gregorio - secondo stime ipotetiche - avrebbe potuto perdere il 10% dello zoccolo duro dei suoi lettori piu' fedeli.
Pure Piero Sansonetti, ex direttore di 'Liberazione', sta lavorando al progetto di un nuovo quotidiano. La testata, compiendo una piccola rivoluzione rispetto all'immaginario tradizionale della sinistra, dovrebbe essere 'L'altro'. Non piu' il richiamo alla storia del movimento operaio e dei suoi simboli, quanto piuttosto alla curiosita' per i singoli individui e alle tematiche della cittadinanza e delle liberta' (la scelta della testata sembrerebbe richiamarsi alle suggestioni degli ultimi libri di Pietro Ingrao).
Anche in questo caso, si tratterebbe di un quotidiano dalle piccole dimensioni (meno di dieci redattori nello staff) e in vendita solo nelle edicole delle principali citta'. Quanto alla proprieta', si sarebbe dichiarata disponibile una cordata di imprenditori romani che guarda con simpatia a sinistra. Un terzo progetto di quotidiano di sinistra che potrebbe presto andare in edicola riguarda la trasformazione di 'Notizie verdi', il foglio della Federazione dei Verdi.
'Avremmo voluto mandarlo in edicola il 21 marzo, primo giorno di primavera, ma il progetto slittera' al massimo di qualche settimana. La testata si chiamera' 'Terra' o 'Live'. Partiremo con otto pagine per crescere gradualmente. Sara' il primo quotidiano ecologista italiano', annuncia all'Asca l'editore Luca Bonaccorsi. Il quotidiano, diretto da Pino Di Maula, gia' direttore del settimanale 'Left', un passato in Legambiente, avra' una vocazione 'glocal': grande attenzione ai temi della democrazia energetica ma anche molte inchieste sul territorio (discariche, raccolta differenziata dei rifiuti, cementificazione) per indicare cattive e buone pratiche ecologiche da parte di enti locali e cittadini.
Prova invece in questi giorni a ricontrattare il proprio debito con le banche 'il manifesto', altro quotidiano storico della sinistra che ha potuto superare le difficolta' degli ultimi mesi grazie al sostegno della sottoscrizione dei propri lettori e alla conferma dei fondi della legge sull'editoria per i prossimi due anni da parte del governo. Qui per ora e' il probabile cambio di direzione a fare notizia: al tandem Mariuccia Ciotta-Gabriele Polo, ormai a fine mandato, potrebbe subentrare il tandem Norma Rangeri-Marco Bascetta o quello formato da Roberto Tesi-Tommaso Di Francesco. Tocchera' alla redazione, nei prossimi giorni, votare e scegliere.

martedì 3 marzo 2009

l’Unità 3.3.09
Testamento biologico
Ddl del governo contro la Costituzione
di Tania Groppi, Università di Siena


Altro che testamento biologico. Uno dei problemi del disegno di legge all'esame del Senato è che non solo e non tanto di testamento biologico si tratta.
Infatti, con questo testo si pretende di disciplinare, in tutti i suoi aspetti, la fine della vita. E lo si fa determinando un arretramento, incostituzionale, rispetto a principi finora pacifici.
Non è vero che ci sia un vuoto giuridico sul "fine vita" nel nostro ordinamento. Il diritto non coincide per intero con la legge: nel silenzio di questa esistono principi di ordine costituzionale, internazionale, deontologico e giurisprudenziale che hanno raggiunto da anni una serie di punti fermi.
E' ormai riconosciuto il diritto al rifiuto di trattamenti sanitari, anche di sostegno vitale, da parte del soggetto capace di intendere e di volere. In conseguenza del principio del consenso informato. Il fondamento sono gli artt. 13 e 32 della Costituzione e l'art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, trasfusi poi nel Codice di deontologia medica, in pareri del Comitato di bioetica, nella giurisprudenza della Cassazione. Ciò significa che il paziente può rifiutare qualsiasi trattamento, anche necessario a mantenerlo in vita.
Esiste, in definitiva, un principio di "disponibilità condizionata" del bene vita, che esclude sia un generale diritto di morire, sia un'assoluta indisponibilità della propria esistenza.
Ebbene, il disegno di legge rimette in discussione anche questo aspetto. Altro che disciplina del testamento biologico! Qui si pretende di coartare la volontà, attuale e presente, di chi è perfettamente capace.
Il diritto alla vita viene definito "indisponibile" fin dall'art.1 del testo, per stabilire poi che il medico, anche se il paziente rifiuta, debba comunque procedere ai trattamenti necessari a mantenerlo in vita: attaccarlo a un respiratore artificiale, praticare una trasfusione, amputare un arto…
Si tratta di una disciplina che non solo determina un arretramento, ma è palesemente incostituzionale. Essa viola l'art.32, comma 2, della Costituzione, secondo il quale "nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge", legge che non può "in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana". E' difficile negare che imporre a un malato con la forza trattamenti che lo tengono in vita contro la sua volontà, del tutto ingiustificati da istanze di salute pubblica, sia in contrasto con la dignità della persona. Ancora una volta, non resta che prendere atto della lucidità dei Padri Costituenti e della miopia dei nostri attuali legislatori. Se questa è la voce del Parlamento, meglio il silenzio.

Repubblica 3.3.09
Fine-vita, la sfida dei cattolici del Pd
Emendamento per gettare un amo al Pdl. Fioroni: "Va migliorata la linea prevalente"
di Giovanna Casadio


ROMA - I cattolici del Pd si smarcano. Hanno preparato un emendamento al testamento biologico che dovrebbe avere come prima firmataria Dorina Bianchi, la senatrice capogruppo in commissione Sanità. Colloqui, incontri, mail, un grande lavorio per tenere insieme l´ala cattolica dei Democratici � ex Ppi e rutelliani, 36 in tutto, un terzo del gruppo - ma anche per battere un colpo dentro il partito e, sostengono, per gettare un amo dall´altra parte, nel centrodestra. Beppe Fioroni, il leader dei Popolari, afferma: «Cerchiamo di migliorare l´orientamento prevalente del partito». Detto in altri termini, una correzione di rotta.
È sempre la questione della nutrizione e dell´idratazione forzata a scompaginare i fronti. Il "caso Eluana" ha mostrato che quello è il confine estremo delle scelte sul fine-vita. E quindi nel merito, due le ipotesi a cui i cattolici del Pd stanno pensando e che rappresentano una "terza via", vicina (ma non sovrapponibile) alla proposta di Rutelli. Stabilito che alimentazione e idratazione sono sostegno vitale, nelle situazioni gravi terminali la decisione va affidata al paziente (o al fiduciario nel caso non possa più esprimere la sua volontà) e al medico. Oppure, l´emendamento potrebbe «circoscrivere la sospensione di idratazione e alimentazione nei casi in cui ci sia morte corticale». Anche Franco Marini si sta impegnando per cercare una posizione comune nelle file democratiche, dove la linea prevalente è stata quella di prevedere l´obbligo del sondino a meno che nel biotestamento non sia espressa volontà contraria. I cattolici da Rutelli a Marini non ci stanno, con diversa intensità di dissenso. Rutelli è disposto allo strappo nel partito, l´ha già detto e fatto, e punta al confronto con il centrodestra; gli ex Popolari, anche quelli vicini al segretario Dario Franceschini, sono per una strada che isoli i pasdaran del centrodestra - per cui idratazione e alimentazione sono obbligatori qualsiasi sia la volontà della persona - e scompigli il già diviso campo avversario. Daniele Bosone, Popolare del Pd, ha tentato di fare breccia con una proposta di modifica del testo di Raffaele Calabrò, relatore del Pdl. Tentativo già fallito. Calabrò chiude: «Non ci siamo, così si valica il limite oltre il quale per noi c´è il suicidio assistito». Gaetano Quagliariello, il vice capogruppo Pdl è più possibilista e rimanda alle indicazione del Comitato di bioetica del 2005. Emanuela Baio, che a sua volta media tra i cattolici Pd, dà l´alt alla «linea troppo semplificatoria del partito: un modo manicheo con cui si è affrontato il testamento di fine-vita».
Ma oggi il primo atto della partita politica sul biotestamento è in Senato sui tempi di discussione e di voto. Calabrò annuncia che in aula il disegno di legge andrà per metà marzo, non prima. Anna Finocchiaro, presidente dei senatori democratici, avverte: «Il Pdl vuole scappare ma noi non glielo consentiremo». Non consentono i Democratici un rinvio a tempo indeterminato. La riunione dei capigruppo di stamani potrebbe fissare l´aula per il 19 di marzo e intanto oggi cominciare in commissione il voto sugli emendamenti già presentati. Sempre che la commissione Affari costituzionali dia il via libera al testo Calabrò.

il Riformista 3.3.09
Sul fine-vita si va verso il rinvio
di Alessandro Calvi


Oggi con tutta probabilità si deciderà il rinvio. Qualche giorno, non di più. Il ddl sul testamento biologico dovrebbe arrivare in aula entro una, forse due settimane. Se infatti il Pdl ora è orientato a prendersi più tempo del previsto, nel Pd un rinvio non è considerato un dramma ma soltanto se il Pdl fornirà una data certa. Altrimenti non se ne fa niente.
Sul contenuto il Pdl non intende fare passi indietro. Stando alle parole di chi è al lavoro sul dossier, seppure qualche emendamento cambierà il volto del testo Calabrò - cosa che alla fine avverrà - non dovrebbe esserci nessun arretramento sulla linea di trincea: la nutrizione e l'idratazione rimarranno obbligatorie. E questo, nonostante il successo della proposta "terzista" di Francesco Rutelli. Quanto all'emendamento proposto da Daniele Bosone, ultima novità in ordine di tempo, nel Pdl non sembrano avere fretta e, anzi, si minimizza, facendolo rientrare tra le tante proposte che «stanno uscendo fuori in questi giorni in continuazione».
D'altra parte, va detto che la battaglia sul fine-vita in questa fase si combatte su un altro fronte, quello dei tempi dell'arrivo in aula del testo. Il Pdl, dopo essersi mostrato compatto per molto tempo, sta ora facendo i conti con una serie di strappi, come quello dei 53 parlamentari pro-vita o di Giuseppe Pisanu. Per questo, se il Pd chiede tempi rapidi e certi, al Pdl non dispiacerebbero più rilassati. «Una settimana in più o in meno non cambia ma non consentiremo alla maggioranza di scappare», diceva ieri Anna Finocchiaro, prendendosi una serie di risposte piccate dal fronte opposto. Ma, è il ragionamento che si fa nel Pd, il Pdl chiede tempo per discutere ancora e però non può tornare indietro su idratazione e nutrizione. Se dovesse accadere, sarebbe una vittoria per il Pd e una sconfessione del ddl Calabrò. In questa prospettiva, le proposte di Rutelli e Bosone sono politicamente importanti - come tutti hanno riconosciuto - ma potrebbero anche rivelarsi grimaldelli con i quali far esplodere definitivamente le contraddizioni che stanno emergendo nel fronte opposto. Difficile che ciò avvenga, l'ala pro-vita del Pdl fa buona guardia su questo punto. Ma è naturale che il Pd - al quale ieri Pierferdinando Casini ha fornito una sponda - ora chieda una data certa, lasciando il pallino nelle mani del Pdl che deve decidere come giocarlo senza spaccarsi definitivamente né ora né quando il testo arriverà in aula. Davvero una operazione non facile.

il Riformista 3.3.09
Boetica e cornetti
Perché la libertà non è più di moda
di Ritanna Armeni


L'impressione è che quel valore, usato in passato anche con non innocente spregiudicatezza, non sia più apprezzato

L'ultimo disegno di legge promosso dal nostro consiglio dei ministri è stato giudicato da molti un attacco alla libertà di sciopero. Una delle più controverse e difficili leggi degli ultimi anni, quella sul testamento biologico, prevede un intervento dello Stato nel momento della morte ritenuto lesivo della libertà dei singoli. Non si tratta di due leggi qualsiasi, esse riguardano momenti importanti della libertà individuale e di quella collettiva. Ma non sono le sole a porre il problema della limitazione delle libertà. Un esame delle leggi e dei provvedimenti varati o minacciati o, magari, solo in discussione in questi ultimi anni mostra questo segno inequivocabile. Si ha l'impressione che qualunque problema si debba risolvere, da quelli che riguardano la bioetica e quelli inerenti il disagio sociale, l'unica soluzione di chi ci governa è il restringimento delle libertà personali e collettive.
Non credo che sia solo colpa di un governo di centro destra anche se certamente ad esso e a quello schieramento che - ironia della sorte e della politica - si chiama Popolo delle libertà, si devono ovviamente molte di queste leggi e di questi provvedimenti. Mi riferisco a una temperie culturale che il governo interpreta, manifesta e potenzia, ma che ormai riguarda un po' tutti, intellettuali, giornalisti, classe dirigente ampiamente intesa. L'impressione è insomma che il valore della libertà, usato in passato anche con non innocente spregiudicatezza, nei primi anni del terzo millennio non sia più così apprezzato. Potremmo dire un po' frivolamente "non è più di moda".
E come spesso accade la dimostrazione di questo non sta tanto e solo nelle grandi decisioni della vita pubblica, dove pure è evidente, ma nelle migliaia di piccole restrizione della libertà che avvengono nella vita quotidiana. Sono le vessazioni minime, le proibizioni apparentemente insignificanti che danno il segno che un valore perde peso nella società e nella cultura dominante. Che cosa c'è di importante nella proibizione di vendere i cornetti di notte? È un fatto apparentemente insignificante. Ma a questo si aggiunge la proibizione di bere birra in piazza, come tempo fa ha ordinato il sindaco di una importante città, di sostare in più di due di notte in un parco pubblico come dice l'ordinanza di un altro sindaco, si proibisce ai mendicanti di sostare sui marciapiedi, si pensa di proibire il fumo nei parchi se ci sono donne incinte, si vieta ai poveri di frugare nei cassonetti. Decine, forse centinaia di ordinanze, leggi e leggine che mandano un messaggio chiaro: il valore della libertà ha perso peso al punto che può essere calpestato anche a costo di cadere nel ridicolo. A Roma non si può mangiare un panino sotto un albero, scriveva qualche tempo fa il quotidiano britannico The Independent.
Naturalmente i calpestatori non sono così maldestri da affermare che la libertà ha poco o nessun valore. Si preferisce dire che colpendo le libertà di alcuni si difende quella di molti, che essa nella società moderna è diventata spesso arbitrio e che non è un valore assoluto, come altri, la vita per esempio.
Mi stupisce che sia la seconda delle grandi parole della rivoluzione francese, ad essere messa in mora e a perdere valore.
Qualche decennio fa è toccato alla parola "eguaglianza", privata di forza e persino derisa. È degli anni ottanta la grande offensiva contro di essa. Eguaglianza diventò egualitarismo ed appiattimento. Ad essa si contrapposero merito ed efficienza. E - paradossi della storia e delle ideologie - appunto la libertà. Libertà di intraprendere, di cambiare lavoro, di crescere, di essere diversi. Anche allora uno o più governi, uno o più partiti interpretarono e potenziarono una tendenza culturale che invase la società. Anche allora la politica fu ironica così che uno dei più convinti demolitori del valore dell'eguaglianza si chiamava partito socialista. E fu un governo diretto da Bettino Craxi a demolire quello che veniva considerato il moloch della eguaglianza, il sistema di adeguamento automatico dei salari al costo della vita, la scala mobile.
C'è da chiedersi quanto tempo resta a un mondo che cerca di costruire la sua coesione culturale e sociale sulla limitazione della libertà. Quando ci accorgeremo con orrore che dobbiamo fare marcia indietro. Mi auguro fra breve. Le tre parole della rivoluzione francese, libertà, eguaglianza e fraternità, hanno rappresentato in oltre duecento anni della storia del mondo la barra per definire cosa è giusto nella vita pubblica e privata, la base del vivere sociale l'ha definita Giovanni Paolo II, che non aveva paura evidentemente di richiamarsi a quella rivoluzione. Negli ultimi decenni invece è proprio la borghesia che da quella nacque a metterla in discussione. E quella rivoluzione (non quella russa e neppure quella cinese) a fare paura, a non essere più riconosciuta.
Ps. La terza parola, fraternità, la più negletta e trascurata. Oggi tradotta e ridicolizzata in buonismo o solidarismo incosciente. Ad essa si contrappone la parola egoismo. Ma quest'ultimo è molto praticato e, per mancanza di coraggio, poco pronunciato.

l’Unità 3.3.09
Gelmini insiste. Resta il maestro unico nonostante la scelta dei genitori per il tempo prolungato o pieno
I sindacati accusano: «Con i tagli migliaia di licenziamenti»
300mila bimbi non avranno il tempo prolungato
di J.B.


Le scelte delle famiglie per la scuola dei loro figli non saranno soddisfatte dal ministero
I sindacati: la conferma che il governo doveva ascoltare le proteste

Saranno circa 300mila i bambini che non potranno usufruire dell’offerta di 30 ore settimanali nella scuola primaria. È il calcolo fatto dal mensile “Tuttoscuola” sulla base degli organici previsti dal ministero.

Le iscrizioni hanno dimostrato che le esigenze delle famiglie vanno in direzione opposta a quella decisa e imposta dal governo
Il 34% delle famiglie (dunque oltre 170 mila alunni) ha scelto le 40 ore, il 56% (oltre 286 mila) le 30 ore. «Sfiduciata» la riforma Gelmini.
il 3% (oltre 15.000 famiglie) ha optato per le 24 ore, il 7% (più di 35 mila) per le 27, ovvero quello che veniva sponsorizzato dal ministero.
I bambini che verranno iscritti nell’anno 2009 alla prima elementare saranno circa 500mila, per loro i genitori hanno scelto in stragrande maggioranza un tempo medio-lungo. Fin qui il risultato del sondaggio ministeriale sul significativo campione di 900 scuole. Se questo sondaggio sarà confermato circa 300mila di quei bambini non avrebbero l’offerta formativa rischiesta dai loro genitori. Perché? Perché la definizione degli organici è stata tarata su 27 ore settimanali, una media fra il minimo di 24, le 30 ore del tempo medio, le 40 del tempo pieno. Ma solo il 3% delle famiglie ha scelto le 24 ore, il 7% le 27, il 56% le 30 ore e il 34% le 40 ore.
Quindi il 90% delle famiglie vorrebbe un tempo medio e lungo, solo il 10% ha chiesto gli orari ridotti. Il calcolo lo ha fatto il mensile Tuttoscuola: mantenendo fermo ai livelli attuali - ovvero al 27% - il tempo pieno (come dichiara il ministro)resterebbe disponibile solo il 3 per cento di posti a 30 ore settimanali. La gran parte delle famiglie dovrebbe accontentarsi delle 27 ore settimali. Ma non basta, per i sindacati della scuola quelle richieste sono anche la dimostrazione che i genitori apprezzano e vogliono le classi a moduli, che quelle richieste sono la dimostrazione del fallimento della proposta del maestro prevalente. Il maestro prevalente, infatti, significa, sottolinea Mimmo Pantaleo della Flc Cgil «La riduzione delle compresenze, non ci sarebbe più il team degli insegnanti, che ha funzionato e dato buona prova di sé». «Andiamo incontro - sostiene il sindacalista - a migliaia di licenziamenti, soprattutto di precari, la scuola non funzionerà più e i genitori se la prenderanno con gli insegnanti».
E, infatti, il ministro Gelmini - sostenuta dal solo Moige - insiste: «Il maestro unico c'è, indipendentemente dal quadro orario scelto. Esiste nelle 24, 27 e 30 ore. Credo che il cosiddetto modulo, la presenza di più insegnanti nella stessa classe, non abbia portato buoni risultati». Anzi, il ministero ha dato conferma dell’approvazione, da parte del consiglio dei ministri del regolamento che introduce per il prossimo quinquennio il modello a maestro prevalente nelle 24,27, 30 e 40 ore.
Non la pensa così Mimmo Pantaleo per il quale se il ministero non vuole deludere le scelte compiute dalle famiglie «Deve rivedere i regolamenti e la formazione degli organici». I genitori sanno, perché era indicato nel modulo della scelta, che la loro richiesta è subordinata alle possibilità e disponibilità, e tuttavia la richiesta è così massiccia che dovrebbe indurre a un ripensamento, «Gelmini ammetta che è stato un errore» insiste, per esempio rino Di Meglio del Gilda: «Se il ministro avesse ascoltato le centinaia di migliaia di docenti che il 30 ottobre sono scesi in piazza, avrebbe evitato di commettere questo grave errore».
Il ministro Gelmini «rispetti l’autonomia delle scuole», chiede il segretario generale della Cisl scuola, Francesco Scrima. «Incurante del giudizio chiaramente espresso dalle famiglie, il ministro insiste sul maestro unico, e lo vorrebbe estendere a tutti i modelli orari. Siamo alla pseudo pedagogia di Stato».
L’ex ministro all’istruzione Giuseppe Fioroni: «Non servono artifici tecnici o false verità, i genitori si aspettano le 30 ore, con la mensa e la compresenza, e si aspettano il tempo pieno e non il doposcuola». Ma: «Senza soldi e con la demagogia non si educano i nostri figli. tutti sanno che la scuola elementare non sarà più l’espressione di un progetto educativo, ma un ritorno al peggio del nostro passato».
Sul tempo scolastico, ieri, anche le regioni si sono mosse. Maria Stella Gelmini ha dato forfait ad un incontro in Veneto a Abano Terme, con i sindaci e l’assessore regionale Donazzan. «Il vero ministro è Giulio Tremonti - attacca Andrea Ferrazzi, vicepresidente della Provincia di Venezia - Lo stesso Tremonti, aveva detto che questa scuola elementare ai primi posti a livello mondiale, non ce la possiamo permette». Nel Lazio i tagli all'organico previsti saranno tra le 3 mila e le 3.500 unità, di cui 1.300-1.800 solo nella primaria, senza contare i tagli a bidelli e personale di sorveglianza, denuncia l’assessore regionale Silvia Costa. E l’assessore toscano Simoncini: «Una scelta giustificata esclusivamente da una logica di risparmio che impoverisce la scuola e acuisce disparità e disagio».

Corriere della Sera 3.3.09
Scuola Il ministero ridimensiona l'allarme: faremo il possibile
Lite sulle Elementari «A rischio le scelte di 250 mila famiglie»
Tuttoscuola: troppe domande per le 30 ore
di Giulio Benedetti


L'opposizione: la prova del fallimento del maestro unico. Gelmini: modello confermato per ogni scelta dei genitori
ROMA — Diciannovemila posti in più nel tempo pieno, ma impossibilità di accontentare 250 mila genitori che hanno scelto per il proprio bambino l'offerta di 30 ore settimanali. Le due notizie, una buona l'altra meno, provengono da «Tuttoscuola » e riguardano le prime elementari che si formeranno a settembre.
A settembre, per la prima volta, il ministero quasi certamente non sarà in grado di garantire l'offerta di orario da sempre più richiesta alle elementari. In passato il calcolo degli organici, cioè il numero delle maestre, è stato fatto tenendo conto di un orario minimo garantito di 30 ore, anche se non sono mancati casi di 27 ore. Dal prossimo anno le cose cambieranno: il monte ore da garantire alle famiglie, con il nuovo regolamento appena approvato dal governo, è infatti sceso da 30 a 27 ore. Una scuola più europea, piu leggera, come sostengono alcuni indicando la Francia dove i giorni di lezione sono scesi a 4, o una scuola sempre più povera come affermano altri? I genitori, per quanto avvisati (l'accoglimento delle 30 ore e delle 40 dipenderà rispettivamente dalla disponibilità degli organici e di locali per la mensa era scritto nei moduli) hanno esercitato il loro diritto di scelta chiedendo in massa (56 per cento) le 30 ore. Una richiesta chiara di tempi medi e lunghi per i propri figli. Un risultato che l'opposizione legge come la bocciatura del maestro prevalente.
Giudizio respinto dalla Gelmini: «Il modello del maestro unico di riferimento si conferma indipendentemente dalla scelta dei genitori». A questo punto bastano due conti: poiché gli iscritti alle prime classi sono oltre 500 mila, più di 250 mila famiglie, il 56 per cento, secondo «Tuttoscuola», dovranno accontentarsi di un orario settimanale con tre ore in meno: 27 invece di 30.
La previsione di «Tuttoscuola » si basa su un sondaggio del ministero. Su un campione rappresentativo di 900 scuole il 3 per cento delle famiglie ha scelto infatti le 24 ore, il 7 le 27, il 56 le 30 ore e il 34 le 40 ore. Questi dati sono attendibili? Lo sapremo tra alcune settimane. Se lo fossero appare chiaro che si va verso un progressivo alleggerimento del tempo scuola. Inizialmente nelle prime e poi, anno dopo anno, in quelle successive. Al ministero i calcoli di «Tuttoscuola» non vengono smentiti ma ridimensionati. Verrà fatto il possibile per accontentare il maggior numero di famiglie che hanno chiesto le 30 ore, dice una fonte vicina al ministro.
Per quanto riguarda il tempo pieno (40 ore), che secondo il sondaggio è stato richiesto dal 34 per cento dei genitori, «Tuttoscuola» prevede un aumento del 2 per cento delle classi che potrebbero passare dalle attuali 34.317 a 35.000, con 19 mila bambini in più rispetto a quest'anno. «Le risorse per il tempo pieno non solo non sono state tagliate — ha spiegato il ministro — ma sono state confermate. E grazie a un migliore impiego, sono aumentate. Quindi, non ci saranno problemi e sarà possibile rispettare il tempo pieno e la scelta delle famiglie».
La polemica sulle 30 ore però continua. Domenico Pantaleo, segretario generale della Flc-Cgil, è molto scettico sulle rassicurazioni: «Appare difficile — ha dichiarato il leader dei lavoratori della conoscenza Cgil — che si possa assicurare al 90 per cento delle famiglie il tempo prolungato con i tagli previsti». Per Francesco Scrima, segretario Cisl Scuola: «Le famiglie giustamente chiedono un tempo scuola più ricco per una scuola di qualità migliore».

l’Unità 3.3.09
Paolo Ferrero: «Sì all’assegno per chi perde il lavoro ma alt sulle pensioni»
Il leader Prc: «L’idea di Franceschini è ottima ma devono pagare i ricchi, come ha fatto Obama»
di Andrea Carugati


Segretario Ferrero, Franceschini propone un assegno per i disoccupati, Berlusconi lo boccia.
«Non mi stupisce, È una logica gravissima eppure coerente: è lo stesso governo che vuole smontare il contratto nazionale di lavoro con l’accordo separato, che vuole scaricare la crisi sui lavoratori».
E la proposta di Franceschini le piace?
«L’idea è ottima. Il problema è come si realizza: Franceschini è rimasto sulle generali, poi Enrico Letta ne ha offerto una versione che non condivido affatto. Propone un nuovo sistema di ammortizzatori che superi la cassa integrazione. Ma così facendo si rischia di ridurre ulteriormente l’assegno per chi già ha diritto alla cig e di deresponsabilizzare le imprese. Trovare i fondi mettendo mano alle pensioni, come dice Letta, è un’idea criminale: vuol dire riaprire una guerra tra poveri, tra giovani e anziani».
Insomma, anche lei la boccia?
«Una strada per svilupparla c’è: bisogna allargare la cassa integrazione a tutto il mondo del lavoro, fino agli artigiani e alle piccolissime imprese. E introdurre un salario sociale per i disoccupati».
Per tutti i disoccupati?
«Con dei criteri, a partire dai carichi familiari. Per finanziarla serve una grande operazione di redistribuzione del reddito, alla Obama. Penso a 5 proposte: tassa patrimoniale sopra i 500mila euro, ripristino della tassa di successione, tassazione delle rendite finanziarie, aumento delle aliquote sopra i 100mila euro di reddito, lotta all’evasione. Penso a una manovra da 1,5 punti di Pil, 15-20 miliardi di euro».
Che effetto le fa vedere Obama che fa piangere i ricchi come voi volevate fare in Italia?
«Lo spostamento delle ricchezze dal basso in alto, in questi 20 anni, ha alimentato la bolla speculativa, senza sostenere i consumi. Ora, per uscire dalla crisi, è necessario spostare ricchezza in senso opposto. Obama fa una cosa razionale e di sinistra. Invece nel Pd si ripropone la guerra tra poveri. Ma se si vuole davvero spingere il governo a fare qualcosa, bisogna ricostruire un blocco sociale, tenere insieme i giovani precari e i pensionati, non metterli l’uno contro l’altro».
Teme un Pd che punta a sinistra e vi contende i voti alle europee?
«Se il Pd si spostasse a sinistra sul serio io sarei felicissimo perché renderebbe la vita più difficile a Berlusconi. Ma non credo che gli annunci a spot spostino molti voti. Voglio vederli andare dagli operai a dire che gli tagliano la pensione per dare qualcosa in cambio al figlio precario».
Col Pd volete allearvi alle amministrative?
«Se si fanno dei buoni programmi sì. Ma a Firenze è impossibile».
A Bologna vi siete divisi su questo dentro il Prc...
«In realtà alcuni dei nostri non volevano neppure andare a vedere le carte del Pd. Se c’è una discontinuità netta con Cofferati si può ragionare, altrimenti no. Se il Pd fa politiche securitarie noi non ci stiamo».
È sicuro che le politiche di sicurezza siano “il male”?
«No di certo, ma le ronde e la guerra ai lavavetri sono risposte sbagliate. E alla fine Penati sta più a destra di Pisanu e insegue la Lega sul suo terreno».
Con il Pd di Franceschini sarà più facile per voi dialogare?
«Se cominciano a fare opposizione al governo, a Confindustria e, quando serve, anche al Vaticano è possibile. Ma con un Pd più a destra di Obama sarà molto difficile allearsi».

Corriere della Sera 3.3.09
Il leader «movimentista» per farsi preferire a Bersani al congresso e aumentare i consensi
Franceschini e la strategia «cattura ex ds»
di Maria Teresa Meli


ROMA — I sondaggi parlano chiaro. Con le dimissioni di Walter Veltroni il Pd, che nelle settimane precedenti aveva lentamente recuperato, ha perso due punti. E dopo non è che sia andata meglio. La flessione continua e il Partito democratico è ridotto al suo «zoccolo duro». Insomma, veleggia intorno al 22 per cento.
È con queste assai poco gratificanti percentuali che Dario Franceschini deve fare i conti. Per questa ragione il segretario sembra essersi spostato a sinistra. In realtà così non è. O meglio così è solo fino a un certo punto. C'è tutto un elettorato che intende astenersi alle elezioni europee e che è fatto di ulivisti, dipietristi, girotondini, e, naturalmente, di ex diessini delusi. Sono loro che Franceschini vuole coinvolgere. Del resto, lo ha ammesso lui stesso: «Dobbiamo spiegare che non è il momento dell'astensionismo, che adesso non si può fare un passo indietro. Dobbiamo evitare che le prossime Europee diventino una vittoria della destra». Insomma, Franceschini tenta di svegliare l'elettorato del Pd nell'unico modo possibile: presentandosi come il campione dell'antiberlusconismo. E la proposta degli assegni ai disoccupati va in questa direzione: dimostrare che il premier non è assolutamente in grado di gestire una crisi economica di questa gravità.
Dunque, niente accordi con il Cavaliere, anche se la situazione economica è pesante e magari consiglierebbe un tentativo di confronto tra maggioranza e opposizione. D'altra parte, se non si fosse dimesso, Veltroni avrebbe adottato questa identica strategia: era stato già deciso con lui segretario che era l'unica chance per guadagnare qualche voto. L'illusione della corsa al centro è finita ormai da un bel po'. Lo ha lasciato ampiamente intendere anche Massimo D'Alema. E c'è un altro motivo per cui Franceschini si comporta in questo modo: è un ex dc che deve convincere gli ex diessini a votarlo. E, magari, al Congresso di ottobre, a preferirlo a chi viene dalla loro storia, come Pierluigi Bersani, il cui grado di popolarità è il più alto di tutti i leader del Pd. Più di D'Alema, più di Fassino, più di Franceschini. Ma questa è una partita successiva, che il segretario potrà giocarsi solo se il risultato elettorale di giugno glielo consentirà.
Quali reazioni sta suscitando all'interno del Pd il «movimentismo» di Franceschini? Un altro ex dc come lui, Beppe Fioroni, che ha dovuto cedere la guida dell'organizzazione agli ex Ds per riequilibrare i rapporti di forza dentro il partito, fa mostra di non essere preoccupato. Però qualche segnale lo manda: «Non temo che Dario trascuri la nostra area — dice — e del resto noi non ci facciamo trascurare. Nel Pd non può essere trascurata nessuna anima e questa è l'unica carta per riuscire a fare il segretario. Comunque sui temi come l'ingresso nel Pse e il testamento biologico non ho dubbi su Franceschini...». Un atto di fede o un messaggio all'indirizzo del segretario? Per il resto c'è chi approfitta della linea presa dal segretario per «scartare» e ritagliarsi un proprio ruolo. È il caso di Enrico Letta che ha proposto al governo lo scambio «riforma pensioni- riforma ammortizzatori sociali». O di Francesco Rutelli, che spazia dai centristi ai radicali, perché, spiega l'onorevole Gianni Vernetti, «non si vuole far appiattire nel ruolo dell'ultrà cattolico: quel che gli interessa è dimostrare che il Pd è un partito riformista e non socialdemocratico e perciò lui si pone come punto di coagulo di chi non viene dagli ex ds». Comunque sono in tanti a scommettere che a urne chiuse anche Franceschini abbandonerà la linea attuale. D'altra parte non è proprio lui il primo leader del Pd a mettere in segreteria un esponente vicino all'Opus Dei, come Peppino Lupo, sindacalista siciliano della Cisl?

Corriere della Sera 3.3.09
Drammatizzare la crisi. Offensiva democratica per il voto europeo
di Massimo Franco


Obiettivo duplice: recuperare voti e intaccare il consenso del premier

La campagna elettorale del Pd per le Europee di giugno sta cominciando a prendere forma. Scommette su un aggravamento rapido della crisi economica. E lo addita per accusare il governo di sottovalutare i problemi, o addirittura di nasconderli. L'obiettivo è doppio: recuperare un elettorato di centrosinistra sbandato, e scalfire la popolarità più o meno intatta di Silvio Berlusconi. L'offensiva del segretario Dario Franceschini sull'indennità di disoccupazione per tutti nasce da questa sfida sul disastro che starebbe arrivando: una sorta di verità alternativa alle parole rassicuranti del premier e alle scelte del ministro dell'Economia, Giulio Tremonti.
Palazzo Chigi continua a spiegare anche nei vertici internazionali che le difficoltà italiane sono minori rispetto ad altri Paesi; e che le misure predisposte consentiranno di ammortizzare le tensioni sociali. Anche per questo la proposta di un'indennità per chi rimane senza lavoro è stata respinta come demagogica e «impraticabile». Ma l'opposizione contesta la tesi berlusconiana. Elenca le aree di crisi, dall'aeroporto milanese di Malpensa a Prato. «L'operazione di Berlusconi è di impedire che si senta la crisi », protesta Franceschini. «Addirittura di negarne l'esistenza».
Il centrosinistra, invece, la drammatizza. Evoca un deserto occupazionale ed un governo insensibile, che metterebbe a rischio la tenuta non solo economica. Senza rimedi immediati, martella, si va incontro a proteste che sarebbe colpevole sottovalutare. La paura più diffusa e palpabile riguarda ormai la disoccupazione; e le stime più pessimistiche parlano di circa due milioni e mezzo di licenziamenti nel 2009. Ecco, allora, materializzarsi lo spettro di una «sindrome da Est europeo», con manifestazioni di piazza come quelle avvenute, appunto, in alcuni dei Paesi ex comunisti più disastrati.
Si tratta di uno scenario apocalittico, che gli avversari di Berlusconi sembrano considerare probabile, se non inevitabile. L'esecutivo ha stanziato fondi tutt'altro che irrisori: circa 16 miliardi di euro nel 2009, ricorda il ministro Maurizio Sacconi. Ma l'opposizione sembra convinta che i tempi della crisi saranno più veloci di quelli necessari per distribuire gli aiuti; e concentra le sue critiche sull'attesa di un cortocircuito pericoloso. Il tentativo è di attribuirne fin d'ora la responsabilità non ad una situazione finanziaria globale che dà i brividi, ma soprattutto all'inettitudine o alla reticenza del governo: anche se per il momento la manovra non sembra dare i risultati sperati.
Finora, infatti, i sondaggi tendono a mostrare che l'immagine del presidente del Consiglio risente relativamente del peggioramento dell'economia. Al contrario di altri governi, come quello del francese Nicolas Sarkozy, in calo nei sondaggi, il consenso di cui Berlusconi è beneficiario non viene intaccato. La previsione del Pd è che di qui al voto europeo la situazione sia destinata a cambiare sotto la spinta drammatica dei dati economici; e che palazzo Chigi diventerà il parafulmine naturale dell'apprensione dell'opinione pubblica. Il calo del Prodotto interno lordo dell'1 per cento nel 2008 conforta le previsioni più preoccupate. Rimane da vedere se basterà a rendere il Pd più credibile agli occhi dei suoi elettori.

Repubblica 3.3.09
Le profezie di Keynes
in libreria una lezione dell’economista con un commento di guido rossi
Il mondo possibile dei nostri nipoti
di Guido Rossi


Un fronte comune tra Occidente e Oriente contro le disuguaglianze in grado oggi di scongiurare le bolle speculative
Durante la Grande Crisi auspicò una regolamentazione finanziaria mondiale che appianasse gli squilibri

Anticipiamo parte del testo di pubblicato accanto a una lezione di John Maynard Keynes del �28: ambedue intitolati "Possibilità economiche per i nostri nipoti" (Adelphi, pagg. 52, euro 5,50) in questi giorni in libreria
A Keynes si deve sempre tornare - se non alle sue profezie, alle sue terapie. In particolare, la crisi dei subprime mortgages, che ha dato l´avvio a un crollo del sistema finanziario di cui è oggi impossibile definire le esatte dimensioni, o le probabili ripercussioni, fa tornare d´attualità una questione molto importante nel pensiero keynesiano, e cioè la domanda se sia giusto o legittimo pagare un interesse sul denaro preso a prestito. Già nelle ultime pagine della Teoria generale Keynes aveva previsto la possibilità che il venir meno della scarsità del capitale riducesse i tassi di interesse, provocando «l´eutanasia del rentier». E´ un dilemma antico (...) e generalmente ignorato, ma che oggi, improvvisamente, appare irrisolto: oggi, improvvisamente, spostare il centro dell´economia dal capitale al lavoro non sembra più utopico, e nemmeno impossibile. La ricchezza delle nazioni, appare evidente, non si costruisce sul denaro, sugli interessi di mercato o sull´ingegneria azionaria (...): si misura sulla capacità dell´uomo di apprendere, e di applicare le sue conoscenze ai procedimenti di produzioni e di consumo. Di conseguenza il prodotto del denaro, cioè l´interesse, dovrebbe essere commisurato alla produttività del lavoro, anziché a un mercato retto dall´azzardo, e dall´azzardo oggi distrutto.
Fino a pochissimo tempo fa, il feticcio della liquidità come unica fonte di ricchezza avrebbe sbarrato la strada a qualsiasi discorso di questo genere, ma oggi si comincia a capire cosa succederà domani, quando qualcuno (o più di qualcuno) pretenderà di incassare strumenti finanziari come i credit default swaps - per chi non li conoscesse, si tratta di titoli che costituiscono vere e proprie «scommesse» senza regole né rete sull´inadempienza di enti pubblici e privati nel rimborso dei propri debiti - mettendo a rischio un giro di affari virtuale, ma che ammonta a più di 62 trilioni di dollari (...). «Il decadente capitalismo internazionale, eppure individualistico, nelle cui mani siamo finiti, non è un successo. Non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso - e non fornisce nessun bene». Keynes lo scriveva nel 1933 su The New Statesman and The Nation dell´8-15 luglio. E stavolta aveva ragione. (...)
Prima o poi, il fenomeno che ci siamo abituati, in mancanza di meglio, a chiamare globalizzazione richiederà una gestione, un controllo altrettanto globali. (...) Questo postula una sorta di Commonwealth che non sembra alle viste, ma che se venisse istituito in una forma qualsiasi non potrebbe (non potrà) non affrontare precisamente quei problemi (la disoccupazione, lo squilibrio fra Nord e Sud del mondo, l´ambiente) che oggi vengono con sconcertante regolarità accantonati in nome di una superiore ragione economica (...).
E un cambiamento di agenda di queste proporzioni porrebbe il problema (che in effetti comincia a porsi) di rivoluzioni solo in apparenza impensabili, a cominciare dall´avvento di una valuta globale. Non sarebbe in fondo nulla di così diverso dai certificati aurei internazionali che Keynes, durante la tempesta degli anni Trenta, proponeva di emettere e distribuire simultaneamente a tutti i Paesi, a condizioni diverse per ciascuno, con lo scopo di rivitalizzare il potere d´acquisto, consentendo il pagamento dei debiti e la ripresa del commercio internazionale. Se dovesse realizzarsi, questo fronte comune fra Occidente e Oriente contro diseguaglianze e conflitti creerebbe le condizioni per qualcosa di molto, molto simile alla fine dell´economia classica (e, oggi possiamo dirlo, anche moderna, e postmoderna) invocata da Keynes.
Da dove può cominciare, una rivoluzione di queste proporzioni? Senza andare troppo lontano, proprio dalle linee d´intervento proposte da Keynes a Bretton Woods (quella vera, del 1944), che gettavano le basi sia di un nuovo sistema di regolamentazione finanziaria mondiale sia di una politica monetaria internazionale tesa a scongiurare tanto i «credit booms», quanto gli «asset bubbles», cioè l´espansione incontrollata del credito, e più in generale le bolle speculative sui beni, immobiliari, energetici o alimentari che fossero.
La fenice dello sviluppo economico contemporaneo sta bruciando su un rogo che si è accesa da sola. Ciò che nascerà dalle sue ceneri dovrà essere molto diverso dal capitalismo come lo abbiamo fin qui conosciuto (...). Che cosa sarà non è ancora chiaro, ma nel pensarlo possiamo in un certo senso permetterci più utopia di quanta se ne sia concessa Keynes. Dopotutto il suo mondo era più piccolo del nostro, e l´unico risultato che i suoi nipoti - cioè noi - hanno ottenuto è di renderlo più grande e più instabile. Ma anche meno limitato, più aperto. Questa apertura sembra oggi l´unica possibilità economica che i nostri nipoti, essendone capaci, avranno modo di sfruttare.

Repubblica 3.3.09
Non solo un tecnico pragmatico
È ancora lui il terapeuta
di Federico Rampini


E´ un Keynes insolito quello che l´Adelphi rivela pubblicando il discorso Possibilità economiche per i nostri nipoti con un commento di Guido Rossi. Non stupisce solo per l´attualità dei giudizi formulati ottant´anni fa. Siamo ormai costretti a rivisitare la Grande Depressione degli anni Trenta per capire il nostro presente, e il grande economista britannico ne rimane l´analista-terapeuta più autorevole. Sembrano scritti oggi quei passaggi datati 1928-1930: «Ci troviamo a soffrire di una forma virulenta di pessimismo economico. E´ opinione comune che il progresso economico sia finito per sempre; che il miglioramento del tenore di vita abbia imboccato una parabola discendente; che per il prossimo decennio ci si debba aspettare un declino della prosperità».
E´ singolare la preveggenza con cui mette a fuoco la disoccupazione tecnologica («il lettore ne sentirà molto parlare negli anni a venire»). Sorprendente, e poco nota, è la sua dimestichezza con Freud e la psicanalisi, i cui strumenti interpretativi applica con disinvoltura all´economia: Guido Rossi ricorda le affermazioni dell´economista sulla pulsione «sadico-anale» insita nella bramosía capitalistica di profitto. La dimensione più inedita in assoluto è quella del Keynes visionario, sognatore, idealista, che qui viene alla luce. Staccandosi per un attimo dalle preoccupazioni del presente, il grande intellettuale élitario del circolo Bloomsbury e l´ispiratore del New Deal disegna un futuro in cui «l´amore per il denaro sarà, agli occhi di tutti, un´attitudine morbosa e repellente». Immagina una società fondata su valori più solidi, dove cammineremo spediti sui sentieri della virtù e della saggezza. «Dobbiamo tornare a porre i fini avanti ai mezzi, ad anteporre il buono all´utile. Dobbiamo onorare chi può insegnarci a cogliere meglio l´ora e il giorno, quelle deliziose persone capaci di apprezzare le cose fino in fondo».
Per arrivare a quello stadio Keynes pone la barra molto in alto, tra le condizioni dell´avvento di una società ideale elenca la pace universale e un perfetto controllo della crescita demografica. Non si fa illusioni sul breve termine ma spiega che sognare è un obbligo, perché «l´utopia appare oggi l´unica possibilità economica che i nostri nipoti possano, essendone capaci, sfruttare». Più dei singoli dettagli, allora, conta il nocciolo duro di questo pensiero che viene catturato e attualizzato da Rossi: ciò che nascerà dalle ceneri della grande crisi del XXI secolo, «dovrà essere molto diverso dal capitalismo come lo abbiamo fin qui conosciuto».
Sta proprio qui l´interesse di questo Keynes riesumato dall´oblìo. Di lui ricordavamo soprattutto il tecnico pragmatico, capace di rovesciare tutta l´ortodossìa economica pur di trovare ricette efficaci per rimettere in moto la macchina paralizzata dello sviluppo. Fu senza dubbio colui che teorizzando il ruolo benefico della spesa pubblica salvò il capitalismo da se stesso, nonché dalla sfida di movimenti rivoluzionari e modelli alternativi: il comunismo sovietico; i capitalismi autoritari e illiberali nel Giappone militarista, nella Germania nazista, nell´Italia fascista. E´ utile scoprire che dietro la prodigiosa fecondità intellettuale di Keynes c´era la capacità di guardare ben oltre la semplice crescita materiale. Le grandi crisi servono a rimettersi in discussione, costringono a osare là dove il pensiero non si era mai avventurato: quella del XXI secolo è ancora in attesa del suo Keynes.

Repubblica 3.3.09
Lo storico Angelo Del Boca: "E adesso costruiamo laggiù inumani centri di detenzione per immigrati"
"Solo soldi, la memoria non c’entra sui massacri neppure una parola"
di Giampaolo Cadalanu


Non mi aspettavo dal Cavaliere un gesto come quello di Brandt al ghetto di Varsavia
Ma se l’accordo è solo economico, tutti quei dollari dati al colonnello sono davvero troppi

Angelo Del Boca non nasconde la sua delusione. Altro che "giornata della memoria" per le vittime delle imprese imperiali fasciste, come lo storico più importante del colonialismo italiano propone da decenni: nel trattato con la Libia non c´è nemmeno il riconoscimento dei crimini commessi in Africa.
Professor Del Boca, come giudica il trattato di amicizia con Tripoli?
«Ho studiato molto bene il trattato, anche con l´amico Nicola Labanca. Non discuto la parte economica, né quella politica, discuto quella "storica". Ho scoperto che c´è appena un accenno di sfuggita al passato. Insomma, l´Italia versa 5 miliardi di dollari, sostanzialmente come indennizzo per i crimini compiuti in trent´anni di presenza in Libia e per i centomila morti provocati, ma nel Trattato non se ne fa riferimento».
Come mai?
«Non so se sia stata una specifica richiesta di Berlusconi o di chi ha discusso la formulazione del trattato, o piuttosto una dimenticanza. Ma quest´ultima ipotesi è davvero improbabile. Gheddafi ha sempre voluto sottolineare l´esigenza di conservare la memoria delle vittime dei massacri italiani. Se però è solo un´operazione economica, per il gas, cinque miliardi mi sembrano davvero molti, anzi troppi. Se non c´è la richiesta di perdono, che cos´è tutta questa premura, con i regali personali a Gheddafi?».
Professore, lei vorrebbe da Berlusconi un gesto come quello di Willy Brandt al ghetto di Varsavia?
«Figuriamoci! Non lo credo proprio adatto a gesti del genere. Berlusconi non festeggia il 25 aprile, parla della condanna al confino per i dissidenti come di una vacanza... Non mi meraviglio di questa assenza».
Non crede che un obiettivo importante di questo trattato sia l´intesa sull´immigrazione?
«Potrebbe servire ad accontentare i leghisti, che pensano a come fermare i clandestini. Ma per la verità negli ultimi tempi i libici stanno già mettendo le mani avanti, sostengono - ma è una bugia - di avere sul loro territorio sei milioni di migranti, dicono apertamente che sarà difficile per loro riuscire a controllare confini così vasti».
Gli accordi prevedono anche una partecipazione italiana.
«I due paesi dovrebbero organizzare una flottiglia mista per pattugliare le coste libiche e impedire le partenze, si parla anche di radar volti verso il deserto per controllare gli arrivi. Ma ho molti dubbi sull´operazione».
Che cosa pensa dei centri di detenzione in territorio libico, su cui si sono rivolte le critiche durissime di Amnesty International?
«Sono completamente d´accordo con Amnesty. Da quanto si riesce a sapere sono in realtà campi di concentramento. Nel mio ultimo libro (Il mio Novecento, edito da Neri Pozza, ndr) ho riportato diverse testimonianze di chi li ha visitati: Jas Gawronski parla di "inumanità", il prefetto Mori racconta di 650 persone rinchiuse in condizioni terribili dove ne erano previste 100, e così via. Ora mi chiedo: come può l´Italia partecipare alla costruzione di opere del genere?».

Repubblica 3.3.09
Con il ritorno di Borsari e Bodei
Modena il Festival si farà


SEMBRA ormai una certezza: il Festival di Filosofia di Modena si terrà a settembre con il ritorno della storica responsabile scientifica Michelina Borsari, come sempre affiancata da Remo Bodei. In questa vicenda i colpi di scena non sono mancati tanto che molte grandi firme della filosofia sembravano decise a defilarsi dal gran pasticcio emiliano - da Marc Augé a Etienne Balibar, da Cacciari a Galimberti, da Givone a Marramao, da Odifreddi a Perniola, da Rodotà a Veca, da Savater a Viroli, dalla Cantarella alla Cavarero. Ma ora le fratture, almeno per quel che riguarda il Festival, si sono ricomposte e c´è da credere che la rassegna potrà svolgersi secondo lo schema ben collaudato degli anni scorsi, contando sulla crema dell´intellettualità filosofica italiana e internazionale.
Non c´è invece il lieto fine per la Scuola di Alti Studi di Modena. Il Comitato scientifico e Il Consiglio di amministrazione della Fondazione San Carlo non hanno trovato nessun accordo. La direzione della Scuola è stata affidata al professor Carlo Altini, sfilandola di fatto alla Borsari, una decisione irrevocabile che ha reso impossibile ogni tentativo di mediazione. Il risultato è che i membri del Comitato scientifico della Fondazione hanno confermato le dimissioni: si tratta di Remo Bodei, Giovanni Filoramo, Tullio Gregory, Francisco Jarauta, Maurice Olender, Wolfgang Schluchter. È loro convinzione che siano state prese decisioni di carattere culturale con un´ottica esclusivamente amministrativa.

Corriere della Sera 3.3.09
Classi per stranieri, no della Crusca «Così non si aiuta l'integrazione»
«Per imparare l'italiano meglio stare in aula con gli altri» Il consiglio: formare i docenti. Ora la decisione del ministro
di Gianna Fregonara


Nell'anno scolastico 2007-2008 gli studenti non italiani erano 574 mila. Quest'anno, secondo una stima, sono 650 mila
L'Accademia si è fatta portavoce di altre cinque istituzioni che hanno il compito di custodire la nostra lingua

Su «Crusca per voi», il periodico dell'Accademia (a sinistra il logo) sono stati pubblicati due saggi nei quali si commenta la proposta di creare classi differenziate (o ponte) per gli studenti stranieri. «Un metodo incongruente rispetto all'obiettivo di favorire la promozione dell'acquisizione dell'italiano», scrive la Crusca

Confusa. Generica e per lo più impraticabile. In altre parole, inadeguata. L'imprevista bocciatura è dell'Accademia della Crusca, che critica la proposta di formare classi differenziate (le classi di inserimento o classi ponte) per far apprendere l'italiano agli stranieri, presentata dal leghista Roberto Cota e approvata dalla maggioranza lo scorso ottobre. Non serve: funzionerà certo a tranquillizzare genitori italiani e docenti alle prese con problemi di integrazione, ma dal punto di vista scientifico e dell'apprendimento dell'italiano per studiare è del tutto inutile.
Sul periodico dell'Accademia, la «Crusca per voi», si possono leggere due saggi argomentati sul tema. E, come se non bastasse, la rivista si fa portavoce delle impietose osservazioni delle altre istituzioni custodi della nostra lingua: la Società italiana di Glottologia, la Società di linguistica italiana, l'Associazione italiana di linguistica applicata, il Gruppo di intervento e studio nel campo dell'educazione linguistica e l'Associazione per la storia della Lingua italiana, che della proposta Cota scrivono: «La mozione risulta non chiara nelle premesse, poco perspicua nel metodo e inefficace nella soluzione». E ancora: «Il metodo proposto per affrontare il problema è piuttosto incongruente rispetto all'obiettivo di favorire la promozione dell'acquisizione dell'italiano ai fini,almeno dichiarati, di una armonica integrazione».
Replica Cota: «Rispetto la Crusca, ma loro rispettino il problema vissuto da migliaia di famiglie nelle periferie delle grandi città. Temo che vedano più il tarlo del razzismo che altro, ma io spero che al più presto il ministro Gelmini possa varare un provvedimento dettagliato sulle classi ponte, la mozione indica soltanto la linea politica, non le soluzioni tecniche migliori». Per ora il ministro sta studiando la pratica, e i presidi sono in attesa di lumi per le iscrizioni.
I dati innanzitutto. Nello scorso anno scolastico, 2007-2008, secondo le rilevazioni del ministero dell'Istruzione, su dieci milioni di alunni, 574.000 erano stranieri, cioè con «cittadinanza non italiana»: in percentuale il 6,4, il 7 per cento dall'asilo alle medie e il 4 per cento nelle superiori.
Non una cifra spaventosa, in termini assoluti. Ma dieci volte di più degli studenti stranieri inseriti a scuola appena dieci anni prima, nel 1997. Tanto da creare, come riconoscono anche gli studiosi della Crusca, «una situazione di disagio».
Di questo mezzo milione tuttavia, i non-italiofoni, quelli cioè che non parlano l'italiano, entrati per la prima volta nel sistema scolastico italiano, e che avrebbero bisogno di corsi e sostegni non sono più di 50 mila: «Circa il 70 per cento dei bambini stranieri che frequentano la scuola dell'infanzia e la metà di quelli che sono alle elementari — si legge nell'articolo di Silvia Morgana, ordinaria di linguistica italiana alla Statale di Milano — sono nati in Italia, mentre un'altra parte consistente è in Italia da anni e ha già frequentato altri gradi di scuola e quindi è sostanzialmente in grado di comunicare in italiano, anche se con diversi livelli di competenza linguistica».
Dov'è dunque il problema secondo la Crusca? Non è l'italiano di base, quello che si insegnerebbe prima dell'inserimento nelle scuole normali, da verificare con gli ormai famosi test entro dicembre il vero problema: l'apprendimento di queste conoscenze da parte degli stranieri è di solito rapido e «richiede da pochi mesi, all'anno e mezzo dall'inserimento nella scuola "normale"», a contatto con gli studenti italiani. Il problema che può insorgere e creare difficoltà di apprendimento è «la lingua per lo studio», cioè quelle competenze specialistiche che servono per comunicare le proprie conoscenze più avanzate: «Queste risultano spesso ben più difficili da padroneggiare completamente anche per gli studenti italiani e la lingua per lo studio può richiedere fino a cinque anni per essere utilizzata nel modo più efficace», spiega ancora Morgana.
Se le classi di inserimento o differenziali o ponte non servono, allora che fare, per situazioni in cui in una classe ci sono tre quarti di studenti stranieri e gli italiani sono in fuga? Di idee e sperimentazioni, ne sono nate tante in questi ultimi anni. La Crusca suggerisce di puntare sui docenti, preparandoli per la formazione dell'insegnamento dell'italiano come seconda lingua, disponendo una formazione specifica per i docenti che lavorano nei Cpt, e più in generale creando una «vera e propria cultura della valutazione» non solo delle competenze linguistiche, formando gli insegnanti ad una revisione dei curriculum in chiave interculturale.
A provare le classi di inserimento è da qualche mese la Catalogna, in Spagna, in due città vicino a Barcellona, Vic e Reus. Ma il modello, proposto tra mille polemiche, ha una durata di tempo molto limitata: da uno a sei mesi, soltanto per i nuovi entrati. In questo primo periodo di tempo dalle classi separate è passato qualche centinaio di studenti e oltre i due terzi sono già stati inseriti nelle classi normali.
Non che in Italia negli ultimi anni non sia suonata la campanella dell'emergenza. L'osservatorio nazionale per l'integrazione degli alunni stranieri e l'educazione interculturale presso il ministero, ha prodotto diversi documenti di indirizzo, segnalando già due anni fa il problema di quel 20% di alunni stranieri che arrivano ad anno scolastico già iniziato. La linea fin qui seguita nelle zone ad alta concentrazione era quella di lasciare autonomia alle scuole per fare corsi e laboratori di lingua pomeridiani e di sostegno. Ancora non è stato valutato il successo. Ma lo stesso osservatorio aveva messo in guardia «contro i rischi di pregiudizi e preconcetti su base emozionale rispetto ai nuovi arrivati».
Per ora alcuni Comuni si sono arrangiati da sé, trovando nelle raccomandazioni europee e nelle esperienze di altri Paesi, l'ispirazione per le proprie politiche. A Vicenza il sindaco Achille Variati (Pd) ha imposto un tetto di tre alunni che non parlano italiano per ogni classe, gli altri verranno aiutati dal Comune e dai presidi a trovare altre sistemazioni. La Commissione europea non ha censurato l'idea. A Novara succede il contrario. Nelle scuole del quartiere Sant'Agabio, ad alta densità di stranieri, sono gli studenti italiani che sono invitati a iscriversi: per loro mensa e scuolabus gratis. Stesso incentivo per gli stranieri che accettano di spostarsi in altre realtà. Il modello è la Spagna, quella Catalogna che però poi ha deciso di introdurre i corsi di inserimento. A Milano il Comune sta pensando a qualcosa di simile. A Roma l'assessore alle politiche educative Laura Marsilio ha proposto l'obiettivo di avere negli asili non più di cinque stranieri per classe. Tutto questo in attesa di una parola definitiva da parte del ministero.

Corriere della Sera 3.3.09
Esce da Elliot «Chi ha cucinato l'ultima cena?». Le vicende dell'umanità dall'altro punto di vista
Quando le donne persero il potere
Dalla «signora delle caverne» al neomachismo: storia femminile del mondo
di Isabella Bossi Fedrigotti


Non fosse che per il titolo, il libro meriterebbe attenzione. Chi ha cucinato l'ultima cena? è, in effetti, una domanda che nessuno probabilmente si era mai posto prima della saggista inglese Rosalind Miles, fondatrice del Centro per gli studi sulla donna dell'Università di Coventry. Ovvio che risposta non l'ha trovata, ma il paradossale quesito è servito comunque a intitolare la sua ampia e sistematica ricerca sulla storia del mondo al femminile, dalla notte dei tempi fino ai giorni nostri.
Il primo nucleo del libro risale in verità a circa vent'anni fa, mentre la sua versione definitiva, riscritta e corredata del nuovo, brillante titolo è del 2000. Uscito da tempo in tutto il mondo, Cina compresa, Chi ha cucinato l'ultima cena? arriva tuttavia soltanto venerdì in Italia (tradotto da Luisa Pece per Elliot) e chissà se il ritardo è dovuto al feroce sarcasmo che l'autrice dedica al pervicace machismo mediterraneo o, invece, alla denuncia appena un po' più soave del mai davvero tramontato antifemminismo cui è improntata la tradizione religiosa cristiana. Oppure dipenderà dal fatto che Rosalind Miles non nasce come storica ma lo è diventata sulle tracce di un suo particolare interesse in nome del quale ha consultato un numero sterminato di fonti, testimoniate dalla vastissima bibliografia del libro?
Nonostante le frequenti citazioni virgolettate, il lettore e, naturalmente, ancora più la lettrice segue il racconto con interesse e divertimento grazie allo stile poco accademico e allo humour della migliore tradizione inglese che tende a sdrammatizzare anche i contesti più tremendi nei quali si sono trovate le donne nel corso dei secoli, principalmente per opera dei loro peggiori nemici, gli uomini: maggior danno, infatti, a quanto pare, non hanno avuto da cataclismi, inondazioni, incendi o epidemie e tanto meno da animali feroci. Divertimento, dunque, sì, però in qualche caso è inevitabile il raccapriccio di fronte a certe offensive pesanti e sistematiche, oltre che codificate dalle leggi civili e religiose, subite nel tempo dalle donne: offensive in parte già note, però per lo più velocemente e volentieri dimenticate.
L'autrice sostiene che per un lungo periodo, fino all'incirca all'età del ferro, le donne erano rispettate, onorate, riverite e servite, niente affatto — come da sempre illustrano i libri di scuola — chiuse nelle caverne ad attizzare il fuoco o intente alle incombenze più umili nell'attesa che il prode tornasse dalla caccia, e ancora meno erano sottomesse ai voleri di lui. Le signore passavano prima, insomma, come ancora succede in qualche rara tribù primitiva nascosta nelle foreste, ma non solo riesce difficile immaginarlo, anche a scriverlo si fa quasi fatica perché così radicata è l'immagine dell'antica donna asservita in secondo piano che in un certo senso mancano i termini per descrivere la primigenia situazione capovolta.
La signora delle caverne non se ne stava, dunque, affatto rintanata, bensì si occupava della raccolta di frutti e della coltivazione di orti, assicurando in tal modo la sopravvivenza della comunità giorno per giorno. Radunava frasche, costruiva rifugi e difese contro gli animali, istruiva i figli e partecipava alle famose cacce, come testimoniano non pochi graffiti paleolitici. Ovvio, dunque, che venisse tenuta in grande conto. La vera ragione della sua supremazia stava, tuttavia, soprattutto, nel misterioso potere di procreare dal nulla piccoli uomini e piccole donne, nel misterioso e magico scorrere puntuale del suo sangue che, pur essendo impossibile da fermare, non la uccideva come sarebbe stato normale per una simile ripetuta emorragia. La logica conseguenza fu che si venerò la Grande Madre, potente dispensatrice di vita, dio femmina innalzata sugli altari come poi non è — quasi — mai più successo, tranne che per figure divine collaterali, come, per esempio, la nostra Madonna.
La grande svolta che portò in alto gli uomini e in basso — per sempre — le donne storicamente arrivò quando le comunità si fecero più numerose per cui gli orti non bastarono più a nutrire tutti quanti e fu necessario coltivare campi più estesi, con impiego di attrezzi pesanti; campi che bisognò poi anche difendere dagli aggressori esterni: entrambe incombenze ovviamente adatte in particolare ai più muscolosi e prestanti maschi. Filosoficamente il tramonto della supremazia femminile arrivò, invece, secondo la Miles, nel momento in cui gli uomini compresero — non i singoli ma le intere popolazioni — il legame esistente tra atto sessuale e gravidanza, d'un colpo assai meno misteriosa e, soprattutto, impossibile senza il contributo maschile.
Il dio da adorare divenne allora maschio con il suo fallo innalzato alto sugli altari, e, di passo in passo, come se tutti gli uomini insieme fossero stati un solo uomo troppo a lungo umiliato lontano dal potere e smanioso di rivalsa, la donna fu ridotta a figurante di secondo piano, a schiava sottomessa e senza alcun potere, a puro contenitore biologico alla quale neppure i figli appartenevano.
Questa nuova situazione fu, nel corso dei secoli, ampiamente formalizzata anche da firme illustrissime, quali, per esempio, Eschilo che nelle
Eumenidi scrisse: «Colei che viene chiamata madre non è genitrice del figlio, bensì la nutrice dell'embrione appena seminato. È il fecondatore che genera». Oppure Aristotele, secondo il quale «la donna è passiva. Sta a casa come è nella sua natura. È l'incubatrice passiva del seme maschile ». E teorie più o meno identiche sul minor valore delle donne (in qualche caso anche rispetto agli animali domestici) riecheggiarono serenamente concordi dall'una all'altra parte del mondo.
Poi vennero le grandi religioni monoteiste, e, come scrive l'autrice, furono i chiodi della bara delle libertà femminili. Il dio divenne padre e per quello cristiano parlò Sant'Agostino: «La donna non è fatta a immagine di Dio... l'uomo soltanto è l'immagine di Dio». Quello musulmano — si sa — fu ancora più duro e Maometto nel Corano spiegò: «Gli uomini hanno autorità sulle donne perché Dio ha preferito alcune creature ad altre. Perciò le donne buone sono obbedienti. Se poi temete che alcune si ribellino, ammonitele, lasciatele sole nei loro letti e poi frustatele».
Il resto, si può dire è la variegata storia di oggi.

Corriere della Sera 3.3.09
La polemica
Bellocchio: mai censurato da Rai Cinema


ROMA — Marco Bellocchio che accusa di censura Rai Cinema che ha prodotto i suoi ultimi film? Tutto nasce da un'intervista a Left,
ripresa anche dal Giornale. Ma il diretto interessato non ci sta. Alle perse con il mixaggio del suo prossimo film (Vincere!, su Mussolini e Ida Dalser), Bellocchio attacca: «Sono colpito dall'uso che si è fatto delle mie parole nei giornali, estrapolando brani di un ragionamento più ampio». Spiega: «Chi ci ha voluto leggere qualcosa di critico in merito al mio rapporto con Rai Cinema è in malafede, tanto è vero che io sono stato libero di scrivere e girare Vincere! che Rai Cinema, la tv pubblica quindi, ha prodotto con entusiasmo e dandomi il massimo sostegno e libertà d'espressione».

Liberazione 3.3.09
«La memoria per guardare al futuro non solo per ricordare il passato»
Lo scrittore israeliano Aharon Appelfeld.Ebreo polacco scampato alla Shoah, vive dal dopoguerra in Israele
Nei suoi romanzi racconta l'ebraismo dell'Est prima della tragedia
di Guido Caldiron


«La memoria è uno strabiliante strumento dell'anima, che ci mette in comunicazione con ciò che è vicino e ciò che è lontano (...) La Seconda guerra mondiale è stato uno dei conflitti più cruenti che l'umanità abbia mai conosciuto, e per gli ebrei certamente il peggiore. Un terzo del popolo ebraico è stato sterminato. Ogni ebreo sopravvissuto alla guerra, al ghetto e al campo di concentramento serba nella memoria decine, se non centinaia di immagini che hanno per segno la morte. Che fare di quelle immagini? Fissarle? Adottarle? Identificarsi in esse, tentando di tenere a mente i volti degli assassini, per odiarli?».
Questo il quesito centrale della Lectio Magistralis che Aharon Appelfeld terrà questa sera a Milano e che ha per titolo "La memoria e la parola: una speranza per il futuro". Decano degli scrittori israeliani, vive dal 1946 a Gerusalemme e insegna letteratura ebraica all'Università Ben Gurion a Be'er Sheva', Appelfeld è nato nel 1932 a Czernowitz, in Bucovina (Ucraina), e ha costruito attraverso le sue opere, oltre una quarantina di libri (romanzi, raccolte di racconti, saggi), tradotti in più di 30 lingue, una narrazione corale della storia dell'ebraismo dell'Est Europa spazzato via dalla barbarie nazista. Il suo contributo alla memoria della cultura ebraica è perciò fondamentale e riconosciuto a livello internazionale. Negli ultimi anni Guanda ha pubblicato i suoi romanzi Badenheim 1939 (2007), Storia di una vita (2008) e, in questi giorni, Paesaggio con bambina (pp. 148, euro 14,00) una storia che sembra riecheggiare proprio la vicenda di Appelfeld fuggito all'età di otto anni da un campo di concentramento dove era stato deportato con il padre. Protagonista del romanzo è Tsili Kraus, l'ultimogenita di una famiglia di bottegai ebrei dell'Est che sfugge allo sterminio vagando per l'Europa prima di cercare rifugio in Israele. E che trova nel proprio candore una sorta di rifugio all'orrore del mondo che la circonda.
Abbiamo posto alcune domande a Aharon Appelfeld alla vigilia del suo incontro milanese di questa sera.

Il personaggio di Tsili sembra assomigliarle molto: una bambina in fuga tutta sola dallo sterminio, in mezzo a un mondo in frantumi e pieno di pericoli. E' così?
Certo che Tsili rappresenta la mia infanzia, ma attraverso il suo personaggio ho cercato anche di uscire da una prospettiva esclusivamente personale. Ho trasferito la mia esperienza a questa bambina ma ho costruito anche una storia che andasse al di là della semplice ricostruzione di quanto ho vissuto io da bambino. Tsili è molto giovane, ma nonostante ciò è un simbolo, rappresenta l'infanzia perduta, la solitudine, l'innocenza. Infine si può dire che questa bambina rappresenti i sopravvissuti. Questo perché lei possiede qualcosa che le altre persone non possiedono, che è poi la sua innocenza. Lei sembra non pensare troppo a quanto le sta capitando, e questo la mette al riparo dalla disperazione. E' così che riesce a sopravvivere, a trovare una ragione per andare avanti nonostante tutto. Lei non si lamenta del fatto che la vita è così crudele nei suoi confronti, accetta la propria esistenza così com'è. Le persone che ha intorno sono sempre crudeli con lei, ma lei non piange, non maledice, non protesta: assorbe l'umiliazione ma non è una persona umiliata. E, alla fine, ha la forza di superare tutto quello che le è successo.

Il testo che leggerà questa sera a Milano riflette ancora una volta sul valore della memoria, ma anche sul modo in cui si può ricordare attraverso la creazione artistica e la letteratura. Nella sua esperienza in quale rapporto si trovano la scrittura e la memoria?
Per scrivere credo si debba essere in grado di mobilitare tutta la propria personalità, i propri sentimenti, le proprie sensazioni, i proprie pensieri e anche l'immaginazione. E' chiaro che anche la memoria fa parte di ciò, ma la memoria da sola non basta per creare l'arte. La memoria da sola rischia di rimandare al passato, mentre invece la scrittura creativa consiste nel mettere in gioco tutto: il passato, il presente e il futuro. Un'opera d'arte credo debba cercare di contenere tutte queste dimensioni temporali. La memoria non può essere da sola la base di un romanzo. Certo, si possono scrivere memoire o diari, cronaca o storia, ma è un'altra cosa. In un romanzo lo sforzo maggiore sta proprio nell'articolare l'insieme delle diverse dimensioni temporali in ogni paragrafo. Per fare un esempio di quanto dico, proprio in Paesaggio con bambina la dimensione narrativa incrocia la memoria, ma la proietta verso il futuro. La protagonista, Tsili, non è solo una bambina che si è trovata a vivere in un bosco da qualche parte in Ucraina durante la guerra. Lei, si potrebbe dire, vive al di là del tempo in cui è effettivamente vissuta. Tsili rappresenta l'eterna innocenza, l'eterna ragazza perduta. Perciò torniamo alla differenza che esiste tra la memoria e la letteratura: nel primo caso ci si concentra su un tempo e un momento ben preciso, nel secondo si cerca di rendere quell'elemento eterno e universale. Tsili rappresenta infatti l'eternità.

Lei ha detto di aspettare ancora il ritorno dei suoi famigliari scomparsi nella Shoah. La scrittura è perciò lo strumento attraverso cui ritrovare le proprie radici?
Sì, ne sono convinto. Io ho perso i miei genitori quando ero piccolo e ho perso per anni ogni contatto con la mia famiglia d'origine. Quindi scrivere della mia infanzia, tornare a ripercorrere le emozioni e i sentimenti di allora, mi fa ritrovare la mia famiglia e il mio paese. E' un percorso che compio senza nostalgia, guidato dall'amore. E' un modo per ritrovare il senso più profondo della vita, perché la vita di tutti parte proprio dal periodo dell'infanzia. Così, ritrovando la mia famiglia e l'ambiente da cui provengo, credo di poter andare davvero al fondo delle cose.

Al centro di "Paesaggio con bambina" c'è ancora, come nei suoi precedenti romanzi, la storia europea e la fuga degli ebrei dai paesi dell'Est. Lei vive da oltre sessant'anni in Israele però si è spesso definito come "un ebreo che scrive in Israele" e non uno scrittore israeliano. Cosa significa?
Le mie radici restano in Europa, malgrado io viva in Israele da più di sessant'anni. Sono uno scrittore ebreo che vive in Israele, come prima ho vissuto in altre parti del mondo. Come gli ebrei ancora oggi vivono in tutto il mondo. E' di loro che parlo nei miei libri, di quelli che vivono in ogni paese della terra. Non di quelli che vivono in Israele. Mi interessa la più vecchia civiltà del mondo, che è quella ebraica e non uno spazio geografico definito. Mi interessa lo spazio interiore. E' a questo spazio della cultura ebraica che rimanda la mia esperienza di vita. Per questo se devo "definirmi" penso all'Europa: è lì che sono nato ed è a quella cultura che faccio ancora riferimento pur vivendo in Israele.

Alla fine del suo romanzo Tsili cerca rifugio in Israele come hanno fatto tanti ebrei in fuga dall'Europa. Oggi, però, quel paese sembra dominato da una destra xenofoba e pericolosa che ha vinto le recenti elezioni e sembra rifiutare ogni ipotesi di dialogo con i palestinesi. Come valuta la situazione?
E' vero, Tsili alla fine del libro se ne va dall'Europa e in un certo senso rappresenta un po' tutti gli immigrati che dopo la guerra hanno scelto di andare a vivere in Israele. Immigrati che per la maggior parte erano rappresentati da persone perdute, sole, senza una famiglia, persone ferite. Si deve tener presente che ogni due persone immigrate in Israele nel dopoguerra, almeno una era un sopravvissuto direttamente alla Shoah o era figlio o nipote di sopravvissuti. Quando sono arrivato dall'Europa, nel 1946, in quello che sarebbe diventato lo Stato di Israele c'erano meno di un milione di abitanti, poi sono arrivati in pochi anni oltre settecentomila scampati alla Shoah in fuga dall'Europa. Israele è perciò sempre stato, fin dall'inizio della sua storia, un paese di immigrati e ha continuato a conoscere rapidi cambiamenti da questo punto di vista. Israele è tutto fuorché un paese omogeneo; è, da questo punto di vista, una società aperta. Oggi, in effetti, la paura sembra dominare la società israeliana: paura del terrorismo, paura di Hamas, paura della minaccia che arriva dall'Iran e dal suo arsenale militare. All'inizio della sua esistenza, e per molti anni, Israele era uno stato d'ispirazione socialista, ma oggi questo clima di paura ha fatto sì che tanti israeliani si spostassero verso destra, anche verso le posizioni della destra più estrema. Ora il paese mi appare come diviso nettamente in due dal punto di vista politico. Spero davvero che la minaccia iraniana possa passare e Israele possa tornare ad essere com'era e come dovrebbe essere, vale a dire un paese accogliente, democratico e socialista.

Liberazione Lettere 3.3.09
Franco Coppoli, l'aula e il crocifisso

Cara "Liberazione", l'Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno" nell'esprimere tutta la sua solidarietà al prof. Franco Coppoli ("reo", a quanto sembrerebbe, di non aver obbedito all'ordine del Dirigente scolastico di far lezione col crocifisso in classe), ritiene del tutto inaccettabile la sospensiva a cui il docente è stato condannato dal Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione per aver fatto valere appieno il principio della laicità dello Stato costituzionalmente sancito. In base a questo, lo Stato repubblicano, non si può far portatore di una confessione religiosa, imponendo simboli religiosi nei luoghi pubblici, tanto più quando si tratta di un'aula scolastica, dove si educa all'appartenenza alla cittadinanza al di là delle preferenze religiose di singoli o gruppi. Fossero pure maggioritari. Se infatti, anche il 100% degli italiani fosse cattolico, cosa che non è, lo Stato non potrebbe farsi propagatore della confessione della chiesa romana e del suo simbolo. Come hanno abbondantemente ricordato diverse sentenze della Corte Costituzionale (in particolare, 203/1989), e della Corte di Cassazione (in particolare, 439/2000). Nonché quella emessa recentemente dalla Sesta sezione penale della Cassazione il 17 febbraio 2009, che "ha annullato senza rinvio perché il fatto non sussiste" la condanna per il giudice del Tribunale di Camerino, Luigi Tosti, a sette mesi di reclusione per interruzione di pubblico servizio e omissione di atti d'ufficio inflitta dalla Corte d'Appello dell'Aquila nel maggio 2007, perché il magistrato si era rifiutato di svolgere le sue funzioni nell'aula giudiziaria a causa della presenza di un crocifisso.
Maria Mantello vicepresidente della Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno"

l’Unità 3.3.09
l’Unità sciopera, domani non è in edicola


Domani l’Unità non sarà in edicola e oggi il sito on line non verrà aggiornato. È stato proclamato, infatti, il primo dei cinque giorni di sciopero messi a disposizione del cdr. Lo ha deciso all’unanimità l’assemblea delle redazioni di Roma, Bologna, Firenze, Milano e dell’on-line, per respingere l’ipotesi di drastico ridimensionamento aziendale prospettato dall’amministratore delegato. Che provocherebbe gravissime ripercussioni sugli organici e sulla fisionomia stessa del prodotto. Tutto questo malgrado i positivi risultati di vendita e i piani di rilancio della testata messi in atto non più di quattro mesi fa. L’assemblea respinge i tempi, strettissimi, indicati dall’azienda per la trattativa. E, in particolare, ritiene inaccettabile la data ultimativa del 23 marzo, fissata come termine ultimo per scongiurare lo stato di insolvenza. Si ricorda che i tempi e le modalità per dichiarare lo stato di crisi sono indicati dal contratto e che, in ogni caso, la dinamica di una trattativa non può essere condizionata da scadenze ultimative.
La redazione del l’Unità assieme alla Fnsi e alle associazioni di stampa regionali non si sottrarrà ad un confronto di merito sulle prospettive dell’azienda che parta, però, dalla difesa della qualità del prodotto, della sua articolazione territoriale, dei livelli occupazionali e dalla tutela del precariato, dalla salvaguardia della professionalità e delle retribuzioni dei giornalisti.
L’assemblea invita il Pd, le forze di sinistra, il sindacato, l’opinione pubblica democratica, i propri lettori javascript:void(0)ad adoperarsi perché l’Unità possa superare anche questo difficile momento, continuando ad assolvere al suo ruolo e alla sua funzione.
L’ASSEMBLEA DE L’UNITÀ

Repubblica 3.3.09
Le idee Di cosa parla il Vangelo quando parla di vita
di Pietro Citati


Nelle nostre lingue, abbiamo un solo termine per indicare la vita: si tratti di vita animale, umana, quotidiana, materiale, spirituale, celeste, eterna. Il greco classico (e il greco dei Vangeli) conosce tre termini: segno dell´attenzione con cui il pensiero e la lingua antichi osservavano ed esprimevano le forme dell´esistenza – sottigliezza che abbiamo dimenticato. Il primo è bios: che vale vita quotidiana, costume di vita, carattere, durata dell´esistenza, professione, mestiere, proprietà, eredità, ricchezza. Il secondo è zoe, che ha significato prevalentemente religioso. Il terzo, psyche, possiede molti sensi, di cui non posso parlare in un articolo.

Nel Vangelo di Giovanni, «il volatile delle altitudini», come lo chiamò Giovanni Scoto, bios non appare mai. L´autore del Vangelo (forse un «discepolo del discepolo che Gesù amava») non provava il minimo interesse per la esistenza quotidiana, che i nostri cardinali esaltano tanto. Non amava l´esistenza insignificante, nella quale noi nasciamo, diventiamo adulti, abbiamo un carattere, dei sentimenti, lavoriamo, siamo ricchi o poveri, conosciamo il tempo, lo spazio e il numero, abbiamo una famiglia e degli amici, e infine, in modo egualmente insignificante, moriamo. A lui interessava soltanto la zoe ton aionon: la vita eterna.

La vita eterna è, in primo luogo, Dio Padre, il vivente, come dice l´Antico Testamento: egli vive in eterno, porta in sé la vita, dà e toglie l´esistenza, e colma l´universo con una freschezza inesauribile.
Anche il Figlio dispensa vita al mondo; e dà agli uomini un´acqua zampillante che non si esaurisce mai. Il Padre e il Figlio sono «una cosa sola», dice Giovanni, mentre Matteo, Marco e Luca non osano dirlo. Prima della creazione, quando lo spazio è vuoto e le tenebre si allargano sull´abisso, essi sono già una "cosa sola": il Figlio esiste presso Dio; e il Figlio e il Padre si riflettono l´uno nell´altro. Se il Padre ama il Figlio, il Figlio ama il Padre: se il Padre risuscita e vivifica i morti, così fa il Figlio: se il Figlio dona la sua vita per gli uomini, la dona per volontà del Padre: quando il Padre parla, il Figlio parla per lui; quando il Padre insegna, il Figlio ripete il suo insegnamento. «Io non sono mai solo, dice Gesù, perché il Padre è con me».

Questa doppia vita è una luce gloriosa, onnipervasiva, ininterrotta, che caccia da ogni parte le tenebre che non la riconoscono. Non c´è niente nella vita eterna, che non sia zampillo e esplosione di luce. Questa luce sovrannaturale si esprime con le immagini più semplici e fisiche: Giovanni unisce la sublimità tremenda e la semplicità naturale; ecco l´acqua, il pane, la vite, il tralcio, il mietitore, il seminatore, il buon pastore, le pecore. Giovanni tuffa le mani nel mare del linguaggio della religione tardo-giudaica, ellenistica, gnostica, mandea: non teme il contatto con nessuna esperienza; accetta qualsiasi fonte, perché, come tutti i grandi teologi, la impregna col suo respiro.

Lo "scandalo della Croce" aveva inquietato le prime comunità cristiane: quel Cristo disperatamente solo, che prega invano il Padre sul Getsemani e sulla Croce, e non riceve risposta, riempiva d´angoscia i fedeli. Queste inquietudini ed angosce diventano, in Giovanni, un trionfo; e la gloria di Cristo non sta solo nella Resurrezione, come pensano gli altri Vangeli, ma sopratutto nella Croce. Giovanni abolisce la scena notturna del Getsemani, dove Cristo aveva sofferto lacrime di sangue, invocando un´altra possibilità, e un´altra salvezza. Insiste sul fatto che mai, nemmeno per un attimo, durante la passione e la crocefissione, Gesù era rimasto solo: perché il Padre era sempre vicino a lui, e parlava con lui, senza conoscere né il silenzio né il segreto. Dio, per lui, non era mai nascosto. E infine, mentre negli altri Vangeli, la tenebra avvolge per tre ore l´agonia di Cristo, nel racconto di Giovanni c´è sempre luce: Gesù è «la luce vera, che illumina ogni uomo»; e dunque attorno a lui splende forse la stessa fresca aria primaverile che aveva illuminato qualche giorno prima, durante la festa di Gerusalemme, i rami delle palme pasquali. Tutto muta. La terribile umiliazione del Giusto biblico, abbandonato da Dio sulla Croce, rivela in ogni evento, anche il più doloroso, la maestà, l´esaltazione, la dignità regale del vero Re � il cui regno non appartiene a questo mondo, ma giudica e condanna il mondo e i suoi regni. La Croce di Gesù è un trono: il suo trono.

* * *

Secondo Giovanni, anche gli uomini conoscono la vita eterna: non la conoscono solo nel futuro, dopo la morte, dopo il giudizio, come pensano Matteo, Marco e Luca e, dopo di loro, moltitudini di cristiani. Nel Vangelo di Giovanni, come Gesù ripete di continuo, la vita eterna è già qui, davanti agli occhi, a Betania, a Betesda, a Cana, lungo le rive del mare di Galilea, tra le palme di Gerusalemme. Il raccolto è già presente: se i discepoli alzano gli occhi, vedono i campi albeggiare di messi. In nessun altro testo cristiano (e in nessun altro libro che abbia mai letto) le parole di Gesù fanno sentire il respiro e il sapore della vita eterna impregnare la nostra vita, come se tutto ciò che è quotidiano fosse scomparso o fosse stato completamente assorbito dalla gloria della luce. Leggendo Giovanni, senza che egli alzi mai la voce e il tono, l´eterno si insinua in ogni angolo del presente. Non c´è che l´eterno: prossimo, famigliare, confidenziale. Tutto avviene qui: la vita eterna è tra noi, sebbene forse avrà una risonanza più sottile nel cielo. Anche la glorificazione di Cristo avviene in terra, sulla Croce, sul Golgota, non quando egli ascende nell´altro mondo.

Se vogliamo conoscere la vita eterna, basta la fede nel Figlio, che ci viene data dal Padre. «Nessuno può venire a me, dice Gesù, se il Padre che mi ha mandato non lo attrae». Così siamo liberati dalla morte fisica, che non ha più alcun peso, perché viene completamente annullata dalla fede. A questa morte fisica, oggi, noi badiamo a tal punto, che vogliamo evitarla e cancellarla e allontanarla per mezzo di sondine e macchine respiratorie, come se non dovesse più esistere. Secondo Giovanni, morte è soltanto il nome della tenebra � il peccato d´Adamo, l´odio, la malvagità, l´assenza d´amore, l´incredulità, le cattive opere, la mancanza di conoscenza, Satana, il "mondo"�: tenebra che lascia attorno a sé una fascinazione sinistra, turbando anche i primi discepoli, durante e dopo l´ultima cena.

Mentre leggiamo il Vangelo di Giovanni, il Padre è una "cosa sola" col Figlio: il Figlio è "una cosa sola" col Padre: i discepoli presenti e tutti gli altri che in futuro leggeranno il Vangelo di Giovanni sono "una cosa sola" tra loro: essi sono "una cosa sola" col Figlio, come il tralcio e la vite; e sono "una cosa sola" attraverso la mediazione di Gesù Cristo, anche col Padre, come nessun cristiano aveva mai detto. Queste successive identità di amore e di conoscenza, queste fusioni sempre più vaste di cuori e di spiriti, che si allargano come onde nel lago dell´amore cristiano, ripetono l´unità originaria, che, prima della creazione, esisteva tra le due figure divine. Qualsiasi separazione e divisione, nel cielo e nella terra, è caduta. Non c´è che l´Uno celeste e terrestre. Fuori di esso soltanto le tenebre, che non riconoscono e non accolgono il Figlio. 


Cinecittà News 3.3.09
Bellocchio: Rai Cinema non mi ha mai censurato


Marco Bellocchio torna su alcuni passaggi di una sua intervista a 'Left' che, dice il regista, non corrispondeva esattamente alle parole da lui dette. Lamentandosi per l'uso fatto di alcune sue espressioni "estrapolando brani di un ragionamento più ampio", Bellocchio sottolinea che l'affermazione a lui attribuita su cinema e tv ("Il cinema oggi è totalmente dipendente dalla tv, che ogni tanto elargisce qualcosa, ma pretende, con il suo orrendo conformismo, di imporre il suo linguaggio. Difficile trovare spazi di libertà ") riguardava il linguaggio che la televisione, di tutto il mondo, tende a omologare e non dunque una critica a Rai Cinema, che ha prodotto i suoi ultimi film. Tanto è vero, precisa il regista, che proprio da Rai Cinema, dalla tv pubblica dunque, ha ricevuto "il massimo sostegno e libertà d'espressione" per il suo prossimo Vincere, film sul figlio segreto che il Duce ha avuto con Ida Dalser.
Per quanto riguarda L'ora di religione, il suo film del 2002 con Sergio Castellitto, "non credo - sottolinea Bellocchio - di aver detto letteralmente che oggi non mi lascerebbero fare questo film, ma mi riferivo a un clima generale nel Paese dove mi sembra più a rischio una visione laica della vita che è necessario assolutamente salvaguardare".