giovedì 5 marzo 2009

Repubblica 5.3.09
Bio-testamento, salta il dialogo stop alle cure sproporzionate
Ma resta il divieto di sospendere l´alimentazione. Pd: testo pessimo
di Carmelo Lopapa


ROMA - Testamento biologico, arriva la nuova versione. La maggioranza cambia 4 articoli su 10 del disegno di legge della discordia. Smussa alcuni punti del progetto che porta il nome del relatore Calabrò, ma non quelli più critici. I capisaldi restano immutati. L´emendamento conferma il divieto di interruzione dell´alimentazione anche in casi gravi, vincola l´attività medica alla «esclusiva tutela della vita», con tanto di sanzioni penali in caso di violazione, fa marcia indietro solo sul ricorso al notaio.
L´apertura viene giudicata parziale, comunque insufficiente, addirittura «pessima» a sentire il capogruppo Pd Anna Finocchiaro. Modifiche quasi «irridenti», le bolla Ignazio Marino. Ma i cattolici del partito restano più possibilisti («Comunque un punto di partenza» dice Daniele Bosone). Francesco Rutelli prende tempo e in Transatlantico ironizza: «Non ho letto le modifiche del Pdl. Miei emendamenti? Com´è noto, li presento negli ultimi minuti disponibili». Il Pd comunque si prepara a dare battaglia, ostruzionismo compreso (con qualche perplessità di Dorina Bianchi), a partire da oggi, quando in commissione Sanità si comincerà a fare sul serio con la votazione degli emendamenti. L´opposizione di subemendamenti al nuovo testo ne ha depositati ieri sera 332. Ben 255 portano le firme del Pd e di Idv, la radicale Donatella Poretti, da sola, ne ha siglati altri 77. E da oggi, ciascun gruppo avrà dieci minuti per ogni emendamento. In aula solo il 18 marzo. Ma Antonio Di Pietro, fin da ora, non vede «altra strada che il referendum abrogativo».
Il relatore Raffaele Calabrò presenta i due nuovi emendamenti in commissione Sanità. Con il primo vengono riscritti i primi tre articoli del ddl. Con il secondo si istituisce il «Registro delle dichiarazioni anticipate», un archivio «unico nazionale informatico». Titolare dei dati, il ministero del Lavoro. La dichirazione non si redigerà più davanti al notaio - misura oggetto di critiche - ma «presso il medico» per essere poi registrata alla Asl. Ma è il primo emendamento che riapre la polemica. Dopo le enunciazioni di principio sul valore della vita, il divieto di eutanasia e suicidio assistito (con tanto di sanzioni penali), ecco che in caso di «morte imminente» viene riconosciuto al medico il potere (non il dovere) di «astenersi da trattamenti straordinari non proporzionati, non adeguati al rispetto delle condizioni del paziente». Il riferimento è all´accanimento terapeutico. In commissione anche un giallo. Calabrò apre in un comma alle cure palliative contro il dolore quale «diritto del paziente», come proposto da Marino. Ma il presidente di commissione e collega di partito, Antonio Tomassini, lo dichiara inammissibile. Nel pomeriggio i senatori Pd riuniti concordano la linea. Il capogruppo Finocchiaro boccia le modifiche: «Pessime, l´apertura non esiste, è finta. A questo punto ci si chiede se la dichiarazione anticipata serva ancora a qualcosa oppure no». Gaetano Quagliariello del Pdl li sferza: «Si mettano d´accordo con se stessi».

Repubblica 5.3.09
Abortire nel dolore tra medici obiettori
risponde Corrado Augias


Caro Augias, ho letto qualche giorno fa su Repubblica che la responsabile del servizio Interruzione Volontaria di Gravidanza (Ivg))del S. Camillo di Roma lamentava che gli anestesisti fossero tutti obiettori. Proprio in quella struttura tre anni fa ho effettuato una Ivg a causa di una grave malformazione del feto. Tralascio ogni considerazione sulla sofferenza di una simile scelta; una donna che arriva a 21 settimane il figlio lo voleva proprio. Tralascio infine anche la sofferenza che la scelta mi comporterà per tutta la vita perché l'aborto, a differenza di quanto spesso alcuni raccontano, non è mai un «ripiego» facile. Assolutamente ignobile è che io avevo bisogno di una epidurale per effettuare l'interruzione, ero molto agitata, avevo paura, avevo effettuato meno di un anno prima un cesareo per far nascere la mia prima figlia, ma gli anestesisti erano tutti obiettori. Passavano medici e ostetriche e mi dicevano che stavo facendo la cosa giusta ma, erano tutti obiettori. Non per motivi di coscienza (se mai in una struttura pubblica fosse lecita una simile possibilità) ma di carriera. Ero stata «appoggiata» con il lettino fuori le sale parto in attesa delle contrazioni forti. E' straziante sentire i figli degli altri che nascono mentre tu non vuoi (e dico «vuoi» assumendomi tutte le responsabilità) far nascere il tuo. Avevo dolori terribili, alla fine la dottoressa si è dovuta attaccare al telefono urlando come una pazza che mandassero l'anestesista del reparto dell'Ivg, l'unico in servizio non obiettore. Dopo lunghe ore di attesa mi fa finalmente l'epidurale. L'effetto dura poche ore (per interrompere una gravidanza avanzata ci vogliono a volte anche due giorni), quindi siamo da capo: non si trova un anestesista per ricaricare l'analgesico. Ricordo ancora una anestesista tanto affettuosa che mi è venuta vicina a darmi conforto, ma nemmeno lei poteva fare nulla, era obiettrice. Così le ostetriche: so che poi mi ha aiutato la dottoressa per far finire quel calvario cercando di sostituire le ostetriche latitanti. Finale della storia: un'ostetrica dal cuore buono subito dopo l'espulsione del feto mi si è avvicinata e mi ha chiesto se volevo fargli il funerale: una simile domanda è prevista dalla legge!
Lettera firmata

Questa lettera vale da sola più di un'inchiesta sulle condizioni in cui in Italia si è talvolta costretti per usufruire di un diritto garantito dalla legge. Condizioni orribili, incivili. Ma ancora più orribile è pensare alle motivazioni che spingono tanti medici a dichiararsi obiettori. Non si fa carriera, con gli aborti. Più comodo, in un paese che tende alla teocrazia, dichiararsi obiettori e finirla lì. Lasciando per ore su un lettino nel corridoio una donna che si torce dal dolore.

Repubblica 5.3.09
Se la Russia giustifica Stalin
Quel che resta di un tiranno
Perché la memoria dei crimini è diventata marginale
di Arsenij Roginskij


Di quel periodo andrebbe ricordato il terrore, ma non un responsabile è stato processato, e si glorifica invece la vittoria sul nazismo
Due immagini dell´epoca staliniana si sono scontrate, quella della violenza e quella della guerra a Hitler
Una collettività ha bisogno di spartire i ruoli tra Bene e Male e di identificarsi con una delle due parti

La memoria dello stalinismo è un problema dolente per la Russia. Le librerie rigurgitano di romanzi e saggi pseudostorici che inneggiano a Stalin. Nei sondaggi, Stalin occupa uno dei primi posti fra i "più eminenti dirigenti di tutti i tempi". Nei manuali di storia, la politica staliniana è presentata in chiave giustificatoria. Certo, ci sono anche le fondamentali ricerche fatte in questi anni da storici e archivisti, che però hanno ben poca influenza sulla coscienza collettiva. Perché, anche al di là della politica del Cremlino nei confronti del passato, la nostra memoria dello stalinismo ha delle sue peculiarità. Quali?
Primo. Lo stalinismo fu un sistema di dominio in cui il ricorso al terrore era il principale strumento di governo. La memoria dello stalinismo dovrebbe esser memoria della violenza di Stato. Invece è memoria delle vittime, ma non dei crimini. Per una memoria dei crimini, manca anche una base giuridica: nel nostro paese non c´è nessun atto in cui il terrore di Stato è dichiarato un crimine. Non c´è stato nessun processo, né nessuna condanna, dei responsabili del terrore staliniano.
Secondo. Per accettare le tragedie della storia, una collettività ha bisogno di spartire i ruoli fra il Bene e il Male e identificarsi con una delle parti. La cosa più facile è identificarsi col Bene: con la vittima innocente, o, ancor meglio, con l´eroico combattente contro il Male. Per questo i nostri vicini, dall´Ucraina alla Polonia e al Baltico, non hanno problemi col passato sovietico: si identificano con le vittime o con i combattenti, o con gli uni e gli altri al tempo stesso, con buona pace della verità storica. Ci si può perfino identificare col Male, come hanno fatto i tedeschi, per sottolineare la presa di distanza: "si, purtroppo siamo stati noi, ma non siamo più così, né mai più lo saremo". Ma che dobbiamo fare noi? Nel terrore sovietico è difficile distinguere carnefici e vittime. Prendiamo i segretari dei comitati di Partito. Nell´agosto del 1937, firmarono tutti, da buoni esecutori del terrore scatenato dal Cremlino, pacchi di condanne a morte. Nel novembre 1938, la metà di loro era stata fucilata. Nella memoria nazionale, e ancor più in quella regionale, questi "carnefici" non sono affatto figure univoche di malvagi. Sì, ha firmato la condanna, ma ha costruito asili e ospedali: andava persino alla mensa operaia per assaggiare di persona il vitto! Quanto alla sua sorte successiva, suscita soltanto compassione.
Terzo. A differenza dei nazisti, che uccidevano gli "altri" - polacchi, russi e persino ebrei tedeschi (che non erano proprio dei "loro") - , noi uccidevamo i "nostri". E la coscienza rifiuta di accettarlo. Nella memoria del terrore, noi non siamo in grado di attribuire i ruoli principali, di mettere al posto giusto "noi" e "loro". Quest´impossibilità di rendere il male altro da sé è l´ostacolo principale al costituirsi di una memoria autentica del terrore. Ne aggrava il carattere traumatico, il che fa sì che sia relegata ai margini della coscienza.
Non solo. La memoria del terrore, a livello dei ricordi personali, è una memoria che se ne sta andando. Ci sono ancora testimoni, ma sono gli ultimi. Alla memoria-ricordo si sostituisce una memoria come kit di rappresentazioni collettive del passato che si formano attraverso meccanismi socio-culturali. Fra questi ha un´importanza particolare la politica storica, l´impegno cioè dell´élite politica per forgiare un´immagine del passato che le faccia comodo. Il potere politico si è volto al passato per consolidare la sua tentennante legittimità già negli anni �90. Ragion per cui sia il potere che la popolazione hanno cercato il modo di colmare le rispettive carenze rianimando l´immagine della Grande Russia, di cui la Russia attuale si vuole l´erede. Le rappresentazioni di un "passato radioso" della Russia zarista proposte dal Cremlino negli anni �90 non sono state però interiorizzate dalla popolazione: era un passato troppo lontano. A poco a poco, in modo inconfessato, il periodo sovietico, e in particolare l´epoca staliniana, si è aggiunto all´idea della Grande Russia.
Il gruppo dirigente post-eltsiniano ha colto questa disponibilità e l´ha sfruttata per ricostruire il passato. Non dico che avesse l´intenzione di riabilitare Stalin. Voleva soltanto offrire ai cittadini l´idea di un grande paese che resta grande in ogni epoca e supera con onore tutte le prove. Ma, al di là delle intenzioni, sullo sfondo della Grande Potenza risorta, "accerchiata", oggi come ieri, "da nemici", si stagliava il profilo baffuto del grande capo. Era inevitabile.
Due immagini dell´epoca di Stalin si sono scontrate. L´immagine dello stalinismo, cioè di un regime criminale che ha sulla coscienza decenni di terrore di Stato, e l´immagine dell´epoca staliniana, un´epoca di grandi realizzazioni e gloriose vittorie, con in testa la vittoria sul nazismo. La memoria della guerra è stata l´asse portante su cui è stata ricostruita l´identità nazionale. Semplificando, il conflitto di memorie si può riassumere così. Se il Terrore di Stato era un crimine, chi era il criminale? Lo Stato? Stalin, che ne era a capo? Ma come, non abbiamo vinto la guerra contro il Male Assoluto perché eravamo sudditi di un grande paese, che incarnava tutto il bene che c´è al mondo? Con Stalin abbiamo vinto Hitler. La vittoria è l´epoca di Stalin. Vittoria e terrore erano due immagini inconciliabili. Una delle due andava eliminata, o almeno corretta. E´ quel che è successo. La memoria del terrore è indietreggiata. Non è scomparsa, ma è stata relegata alla periferia della coscienza collettiva. Che cosa la tiene in vita?
I monumenti, sorti per iniziativa locale un po´ in tutto il paese: croci, cappelle e sculture che veicolano la memoria delle vittime, ma non dei crimini, come se fossero vittime di una catastrofe naturale. Senza contare che i monumenti stanno in genere in periferia, sui luoghi del delitto, mentre nelle città le vie del centro sono spesso ancora intestate ai carnefici. Poi ci sono i musei di storia, anche in questo caso locali, perché non c´è un Museo nazionale del terrore di Stato: qui quasi sempre è stata aggiunta una sezione sulle repressioni, che però appaiono come una sorta di flagello locale, staccato dalla storia del paese. Ci sono, infine, i Libri della memoria, pubblicati in quasi tutte le regioni con i nomi delle vittime delle repressioni: anche questi però non propongono l´immagine di una catastrofe nazionale, ma di una disgrazia "locale", anche perché manca un programma federale di pubblicazione che potrebbe dare un quadro unitario. Nonostante la latitanza del potere federale, quindi, la memoria dello stalinismo sopravvive, sì, ma resta una memoria frammentata, che non riesce a tradursi in memoria nazionale. Uno degli obiettivi di Memorial è proprio di unificarla: abbiamo messo in rete i dati di più di 3 milioni di vittime e stiamo lavorando per creare un Museo virtuale del Gulag per riunire le schegge di memoria disperse su tutto il nostro sterminato territorio.

Repubblica 5.3.09
Tutti in corsa verso un futuro che non c’è
Tre storie di ragazzi alla deriva
di Loredana Liperini


Ha sedici anni, sua madre è scappata con un benzinaio, suo padre è un alcolista, sua sorella una cattolica fervente. Oppure. Ha sedici anni e il giorno del suo compleanno scompare con il portatile nello zaino. Oppure ancora. Ha vent´anni, e si uccide sugli scogli di Napoli insieme al fidanzato tunisino.
Tre diverse adolescenze in tre romanzi fra loro lontani per stile e linguaggio, ma decisamente simili per la tematica scelta: Mia sorella è una foca monaca, di Christian Frascella (Fazi, pagg. 291, euro 17,50), Sweet Sixteen, di Birgit Vanderbeke (Del Vecchio, pagg. 116, euro 13,00, traduzione di Paola Del Zoppo) e Quelle stanze piene di vento di Francesca Di Martino (Einaudi Stile Libero, pagg. 190, euro 15,50). Tratti comuni: nessuna strizzata d´occhio agli adolescenti da best seller. Nessuna concessione al romanticismo di maniera. Nessuna indulgenza, infine: le tre storie trovano il loro centro nel momento esatto in cui si concepisce il sogno di onnipotenza che alla giovinezza viene associato. In due casi su tre, quel sogno si infrange subito.
Il protagonista di Mia sorella è una foca monaca, per esempio, ha avuto sedici anni nel 1989: guarda alla televisione le immagini del muro di Berlino che viene smantellato e non capisce. Non pensa e non sogna in grande: vive nell´hinterland torinese assieme a un padre amante della birra e svelto di cinghia. Pestato e umiliato da un compagno di scuola, si sente come il pugile Oscar Moya che sceglie di non infierire sugli avversari. Sdegnato dalle ragazze - e mandato letteralmente al tappeto da un pugno dell´unica donna di cui si innamora - , è certo di possedere una carica erotica che le annichilisce. Assunto in prova come apprendista in una fabbrica, distribuisce bugie agli altri aspiranti operai, fingendosi d volta in volta una stella nascente del calcio o dichiarandosi convinto fascista quando si tratta di conquistare la benevolenza del capo, fanatico mussoliniano. L´adolescente di Frascella è la stralunata incarnazione di tutto quel che c´è di tragico nella giovinezza: che è destinata a perdere.
In quel 1989 che vede il protagonista di Frascella attonito davanti al crollo del Muro, Birgit Vanderbeke scrisse un piccolo libro di culto, La cena delle cozze (vincitore del premio Bachmann). Quel romanzo finiva in rivolta: esattamente come Sweet sixteen. Ma quest´ultima è una rivolta singolare: il giorno del loro sedicesimo compleanno, ragazzi e ragazze di ogni estrazione sociale scompaiono. Non lasciano messaggi, non manifestano segni di depressione, mangiano con gusto gli orsetti di gelatina che i genitori hanno preparato per loro, aprono con gioia i regali. E poi si dissolvono.
Gli adulti non capiscono, naturalmente, e si interrogano: specie l´io narrante, un cinquantenne che lavora in un´agenzia di ricerche sulle tendenze giovanili e che usa come cavia Josha, il fratello quasi-sedicenne di una sua collega. Senza però riuscire a superare l´enigma di un taglio di capelli, di un software, di un manga, di un blog, di un paio di pantaloni a vita bassa. Si convocano esperti, si batte ogni strada, fino all´appello del governo a reti unificate. Ma i giovani non tornano più.
Non tornano neanche Alì e Teresella, i due innamorati suicidi del libro di Francesca Di Martino: che ugualmente prende le mosse dalla totale incomprensione adulta. "Dietro di loro non c´è niente, e il mondo è nato con loro", dice, con insofferenza, una collega della protagonista, una professoressa in pensione che decide di scrivere un saggio sugli adolescenti. Anzi: sulla proiezione che i giovani hanno di sé nel futuro. Raccogliendo dati, incappa in un trafiletto sul suicidio dei due innamorati. Parte per Napoli. Conoscerà le loro famiglie. Conoscerà i segreti che sono dietro quella morte. E conoscerà, attraverso il suo diario, la scelta di Teresella. Sparire, appunto.
Perché l´idea che i tre libri restituiscono, dell´adolescenza, è quella di figure in corsa: verso il futuro, verso il nulla. Verso un mondo che potrebbe domarli: o che potrebbero, infine, piegare ai loro sogni. L´ultima immagine di Sweet Sixteen è quella di un gruppo di pinguini che si gira verso il mare. Poi, arriva l´onda.

Repubblica 5.3.09
Aspiranti suicidi. Ne parla Gustavo Charmet
Quelli che flirtano con la morte
di Luciana Sica


Radicale, lugubre, profondo, inconfessabile: Gustavo Pietropolli Charmet usa questi aggettivi per descrivere il dolore di un ragazzo che decide di togliersi la vita. Un dolore più diffuso di quanto s´immagini, se è vero che il sessanta per cento degli adolescenti "flirta" con l´idea della morte. Quasi sempre sono solo pensieri neri, ma possono diventare ossessivi e trasformarsi in "fantasie suicidarie", secondo la definizione tecnica: si coltivano a lungo e nel segreto più assoluto, si basano su sentimenti poco dicibili come la vergogna dovuta a un´inadeguatezza (reale o immaginaria) o anche la vendetta per qualche forma di risentimento che non lascia tregua.
Gustavo Charmet è uno studioso brillante, un clinico da sempre in trincea. Settant´anni, psichiatra di formazione freudiana, ha insegnato per una vita alla "Bicocca" ed è ancora attivissimo a Milano con i suoi giovanissimi pazienti, quelli che con disarmante semplicità definisce tristi, più rassegnati che nichilisti, spesso enigmatici se non indecifrabili per il mondo adulto. È lui il cantore della generazione senz´altro più mutante rispetto al passato, anche quello recentissimo: I nuovi adolescenti s´intitola il suo volume più importante uscito qualche anno fa da Cortina, e ora è lo stesso editore a pubblicare Uccidersi - sottotitolo "Il tentativo di suicidio in adolescenza" (pagg. 336, euro 24).
È un libro collettaneo che Charmet firma con un terapeuta di formazione filosofica, Antonio Piotti, tracciando il ritratto sorprendente di questi ragazzi a tratti anche spavaldi, in realtà spesso fragilissimi. È una raccolta di saggi che non nascono nel segno dell´astrattezza teorica, ma piuttosto dall´esperienza clinica in un Crisis Center milanese: è durata sette anni, ha interessato circa ottocento adolescenti reduci da un tentato suicidio e comunque attratti dal desiderio di distruggersi.
Il Centro ha una storia di per sé drammatica. Si chiama "L´amico Charly" e la denominazione sembra piuttosto leggera, ma Charly aveva appena sedici anni quando si è ucciso con un colpo di pistola. È stato poi suo padre a volere la nascita dell´associazione, per aiutare altri ragazzi in bilico tra la vita e la morte e per sostenere i loro genitori a volte del tutto ignari, spesso disperati, quasi sempre soli.
Il responsabile scientifico del Centro è stato Charmet, alla guida di un´équipe capace di contenere sentimenti del tutto legittimi come l´ansia o anche la paura. «Nessuno dei nostri giovani pazienti è mai morto», è lui a dirlo con sollievo e una punta d´orgoglio. E in effetti il risultato è straordinario: «Ci siamo ritrovati alle prese con ragazzi che tramavano in continuazione qualcosa di terribile come buttarsi dalla finestra, anche del nostro studio. O tornare a casa per annodarsi una corda al collo... Ci mettevano anche nelle condizioni di prevederlo e quindi nell´obbligo di indovinare come impedirlo, senza nessuna ricetta magica a portata di mano».
Ma come sono questi aspiranti suicidi? A leggere le pagine del libro: abbastanza "normali", quasi tutti, almeno all´apparenza. Non sembrano particolarmente sofferenti, depressi, sconfitti, solitari. Nella grande maggioranza dei casi non presentano sintomi. Il tentativo di considerarli malati, d´infilarli in una casella diagnostica della psichiatria, è destinato a fallire e comunque non spiega nulla della particolare relazione che questi giovanissimi coltivano con la morte.
Charmet: «Sono autorizzati a non dare nell´occhio perché sono dei clandestini all´interno della famiglia, della scuola, della coppia. I ragazzi che aspirano a togliersi la vita si consolano delle frustrazioni e tollerano molto bene le regole perché hanno già preso le loro decisioni. Se poi il progetto non viene attuato, non dipende dal mondo esterno, ma piuttosto dall´evoluzione di alcune complicatissime vicende interiori che chiamano in causa il processo di soggettivazione e il passaggio dalle forme estreme di immaturità narcisistica a modalità più mature».
Narcisismo è la parola chiave per capire quello che c´è dentro la testa di questi ragazzi privi di progetti vitali, orfani non tanto dell´infanzia quanto del futuro, un tempo che non promette niente di buono e in cui si annida la loro mancanza di speranza, quella sensazione allarmante che l´ex bambino prodigio tanto venerato non potrà trasformarsi in un ragazzo miracoloso destinato a essere un vincente. È la cultura ossessiva della celebrità ad avere un impatto devastante sul funzionamento mentale dei più giovani, a diventarne padrona incontrastata e pericolosissima.
"Campo edipico e campo narcisistico" s´intitola non a caso il primo capitolo firmato da Charmet e Piotti. Racconta i giovani di una volta, definiti appunto "edipici", provati dalla colpa, la rinuncia, il castigo. E quelli di oggi, sregolati, immersi in un sistema mediale che ha amplificato a dismisura l´obbligo alla fama e all´esibizione del godimento. «La società del narcisismo - dice ancora Charmet - indubbiamente favorisce la rincorsa spesso affannosa e rischiosa dei ragazzi verso la conquista a tutti i costi di livelli sempre più magici ed elevati di visibilità sociale».
Se il successo è l´unico valore di riferimento, non sentirsi all´altezza di un imperativo categorico così perentorio - per quanto mascherato in forme anche seduttive - diventa uno degli ingredienti del sentimento di vergogna sociale che attanaglia i ragazzi. La morte si presenta allora paradossalmente come una risorsa: una scorciatoia per rinunciare in partenza alla gara e anche un colpo magistrale per diventare famosi.

Repubblica 5.3.09
I giovani giapponesi
Hikikomori e il mondo nascosto
Una generazione che rifiuta la luce del sole: vivono la notte, chiusi dentro casa, senza alcuna relazione sociale
di Massimo Ammaniti


Il giovane Jun a 18 anni fa il test di ammissione in una università ma non lo supera. Cerca di non scoraggiarsi, continua a studiare da solo, ma lentamente va alla deriva, fin quando si chiude nella sua stanza, dorme durante il giorno, di notte legge i testi di filosofia e guarda la televisione. Occasionalmente prende la sua mountain-bike e di notte scorrazza per le strade solitarie della città che dorme. E quando incontra qualcuno dei suoi vicini - racconta ancora Jun - si sente guardato con diffidenza e a volte con ostilità: è troppo diverso dagli altri ragazzi.
In un recente congresso sulla salute mentale in Giappone gli psichiatri hanno discusso la condizione degli hikikomori, i giovani giapponesi, come il giovane Jun, che rifiutano in modo drastico il mondo della scuola e le prospettive offerte dalla società degli adulti, rinchiudendosi nella loro stanza dove si costruiscono un mondo alternativo abitato esclusivamente da loro. La condizione sociale degli hikikomori è molto diversa da quella dei ragazzi e delle ragazze che vivono in occidente, ed è difficilmente riconducibile a una diagnosi psichiatrica nonostante ne parlino soprattutto gli psichiatri, forse perché più attenti a queste forme di disagio sociale. Ancora una volta, come occidentali, ci troviamo disorientati nei confronti di questo fenomeno giapponese, anche perché le categorie psichiatriche di più frequente uso circoscrivono il malessere individuale, ma non possono trasferirsi ai comportamenti collettivi.
La storia emblematica dell´hikikomori Jun è raccontata dal giornalista americano Michael Zielenziger in un importante testo, Non voglio più vivere alla luce del sole (Elliot, pagg. 408, euro 22; sottotitolo, nell´originale "How Japan Created its own Lost Generation") che esplora il mondo nascosto degli hikikomori. Probabilmente l´occhio del ricercatore Zieleziger, che si occupa dei rapporti socio-economici fra occidente e oriente, può farci entrare in questo mondo senza tradurlo nella terminologia psichiatrica. Che sia una sindrome sociale è confermato dal numero di hikikomori: circa 850 mila giovani fra i 14 e i 30 anni che vivono praticamente rinchiusi in casa, a carico della famiglia, incapaci o determinati a non rientrare nel grande flusso sociale. Quando le pressioni della famiglia, della scuola o del mondo della produzione diventano troppo opprimenti e allo stesso tempo ci si sente vittime del conformismo e del rifiuto da parte degli altri, inizia il progressivo distacco dei giovani dal mondo. E infatti nelle storie di molti hikikomori ritorna frequentemente il senso di essere stati rifiutati dal gruppo e di non aver mai trovato nessuna comprensione da parte degli altri nei momenti di difficoltà.
È solo da poco che la società giapponese ha riconosciuto la difficile condizione dei giovani che rimangono ai margini della vita sociale. E anche nella letteratura si riflette il mondo degli hikikomori. Ad esempio nel romanzo La fine del mondo e il paese delle meraviglie (Einaudi), Murakami Haruki crea uno scenario che ricorda le stanze in cui si rinchiudono i giovani hikikomori, una piccola città spettrale, chiusa dentro le sue mura che la separano dal resto del paese, il mondo di qua e il mondo di là, due realtà parallele e distanti. E in questa città gli abitanti si aggirano senza la propria ombra, privi di ogni sentimento in una sorta di distacco che li mette al riparo dai sentimenti. Anche in un altro libro di Murakami, Norwegian Wood (Einaudi), viene esplorato il mondo segreto dei sentimenti e della solitudine degli adolescenti giapponesi. Il protagonista Toru si sente diverso rispetto al mondo intorno a lui, continuamente tormentato dal dubbio di aver sbagliato o di poter sbagliare vincolato a un alto senso di giustizia personale. Toru, come era successo più di cinquanta anni prima al giovane Holden, va all´università di Tokyo per studiare, ma si sente estraneo ai compagni e all´ambiente del suo dormitorio.
Affetti da un´anoressia sociale gli hikikomori rifiutano le suggestioni e le promesse del mondo degli adulti e si costringono a vivere in modo monastico circondandoti dai gadget elettronici, con i quali continuano a comunicare col mondo esterno. In questo modo sfuggono alle pressioni della scuola e dell´università prima e del mondo del lavoro dopo, rimanendo fedeli a se stessi e alle proprie aspirazioni interiori.

l’Unità 5.3.09
Bonanni ed Epifani d’accordo: l’età pensionabile non si tocca
di Laura Matteucci


L’unità sindacale può ripartire dal no secco «nel merito e nel metodo» di Cgil e Cisl all’ultima proposta Sacconi. Che adesso frena. Il 4 aprile a Roma per «un’idea di Italia più moderna, più civile e più democratica».

Inaccettabile. Su un diritto almeno Cgil e Cisl tornano d’accordo: «Non si può accettare di innalzare a 65 anni l’età pensionabile per le donne che lavorano nel pubblico impiego, oltretutto senza discutere e senza aprire un tavolo». Guglielmo Epifani mette un punto all’ultimo affondo del ministro Sacconi, e stavolta non è solo. «Non siamo d’accordo nè nel merito nè nel metodo», gli fa eco il leader Cisl Raffaele Bonanni. E il governo frena, fa sapere di non avere presentato alcun progetto a Bruxelles, promette un incontro con le parti sociali e una discussione in Consiglio dei ministri. Il segretario della Cgil parla a Milano, assemblea dei quadri, delegati e pensionati della Lombardia in preparazione della manifestazione del 4 aprile, mentre oggi, a Roma, c’è la manifestazione nazionale dello Spi Cgil per chiedere interventi per almeno 8 milioni e mezzo di pensionati: tra questi, più di 2 milioni hanno una pensione inferiore ai 500 euro al mese e 2 milioni e mezzo percepiscono tra i 500 e i 750 euro.
CHI PAGA
Il tentativo del governo di fare cassa con la riforma delle pensioni (innalzamento graduale dal 2010 al 2018), è evidente e zeppo di contraddizioni, visto che contestualmente si continua a prepensionare, e che «in questo modo si tagliano fuori dal mondo del lavoro i giovani», come dice Epifani. «Il governo scarica tutti i costi della crisi sui lavoratori - continua - due volte sul mondo del lavoro e tre volte sulle donne». Epifani ricorda anche che le finestre di uscita sono state già ritoccate l’anno scorso (di un semestre circa): «Secondo la vecchia riforma Dini, la flessibilità in uscita è la risposta». Bocciatura secca anche da parte del leader Pd Dario Franceschini, che attacca: «Una classe dirigente seria non dovrebbe confondere e spaventare le persone. Le donne pagano sulla loro pelle la mancanza di servizi, non è possibile far pagare a loro la crisi. Se il tema fosse accompagnato da asili nido, estensione del part-time, allora ci sarebbe per loro un percorso lavorativo diverso e si potrebbe discutere».
Del resto, siamo «l’unico paese al mondo in cui si tartassa chi sta peggio», riprende Epifani. Che torna anche sul tema del diritto di sciopero e della rappresentatività, per mettere un altro punto: «Io non ci sto più a considerare i sindacati tutti uguali, quelli che hanno milioni di iscritti e quelli che ne hanno molti meno», per riproporre il tema del referendum sugli accordi e le piattaforme, e non solo sullo sciopero.
VOCE ROTTA
La crisi, intanto, affonda anche la ricca Lombardia: 250mila i posti in bilico, cassa integrazione cresciuta di oltre il 200% tra gennaio e febbraio, 5mila persone passate dalle liste di mobilità alla disoccupazione nel solo mese di gennaio, come dice il segretario Cgil Lombardia Nino Baseotto.
Ogni delegato che si sussegue sul palco ha il suo bollettino di guerra da annunciare, tra lavoro perso, a rischio, finanziamenti mancanti, pensioni da fame. E la voce si può fare rotta, perchè l’angoscia è forte, come nel caso di Khalid della Fillea, quando ricorda che «non si può accettare l’idea che gli stranieri sono cose, da far lavorare o da cacciare a seconda di come fa più comodo».

Corriere della Sera 5.3.09
Bonino: «Stare a casa? Non ha alcun senso Così ultime in Europa»
intervista di A. Gar.


ROMA — Emma Bonino racconta: «L'altro giorno alla stazione di Milano ho incontrato una donna, Maria, che correva trafelata. "Non vedo l'ora della pensione", mi ha detto. Ma se non dovessi occuparti di tutto il resto — figli, genitori, la spesa — ti piacerebbe lavorare?, ho chiesto. "Certo!", ha detto scappando via».
Emma Bonino, senatrice radicale, la pensione a 65 anni per le donne è una sua battaglia.
«Sì, da molto tempo. Quando ero ministro di Prodi ho provato a farla approvare».
La sinistra radicale si oppose.
«Non c'era entusiasmo da parte di nessuno. Dicevano: aspettiamo la sentenza della Corte europea di giustizia. Così, la situazione delle donne italiane sul mercato del lavoro è sempre più patetica».
Patetica?
«In Italia lavorano 46 donne su cento, mentre la media europea è 60 su cento. In Italia 9 bambini su cento hanno accesso agli asili nido, in Europa 30 su cento».
Andrebbe bene il piano del governo? Arrivare per le donne alla pensione a 65 anni, con gradualità fra il 2010 e il 2018?
«A me interessa che si faccia, con la gradualità che riterranno necessaria. D'altronde sono costretti: la sentenza europea è arrivata e prevede multe salatissime».
Ma la parificazione dell'età pensionabile non basta.
«Con i soldi che si risparmierebbero si debbono equiparare carriere e salari tra uomini e donne, detassare il lavoro femminile, come propone Ichino, e sostenere le donne che non cercano lavoro perché hanno troppi altri lavori da fare a casa».
Pensioni femminili a 65 anni anche per il settore privato?
«Sì, ma si può andare per gradi: questa è una scelta politica ».
Dopo l'equiparazione donne- uomini si dovrà alzare l'età pensionabile di tutti? Ne hanno parlato Enrico Letta, Ciampi...
«Non deve essere un tabù. Il precedente governo Berlusconi fece lo "scalone", ma in modo che lo applicasse il governo successivo. Prodi modificò lo "scalone" in "scalini". Accettai perché contemporaneamente fu data una delega al governo per riformare gli ammortizzatori sociali».
Ma non è successo nulla.
«La delega scadeva a gennaio 2009. Il governo attuale l'ha spostata a luglio. Oggi solo il 30 per cento di chi ha un lavoro ha qualche forma di protezione».
Come si batte per tutto ciò, ora che è fuori dal governo?
«Sta uscendo un mio libro: "Pensionata a chi?"».

Corriere della Sera 5.3.09
Interesse della Lega coop
Unità, arriva Epifani «Sono vicini a noi Proveremo ad aiutarli»
di R. Zuc.


ROMA — Soccorso rosso. Di fronte all'Unità in sciopero contro il rischio, concreto, di una sua chiusura per mancanza di fondi, si assiste a una mobilitazione generale della sinistra. Per ora solo a parole e a promesse, ma che comincia a diventare un vero e proprio fronte. Oggi ci sarà l'incontro decisivo tra la proprietà e il comitato di redazione del giornale, con un piano di risanamento «corretto» rispetto al precedente, ma sempre molto pesante. Ma ieri sera è stata la volta di Guglielmo Epifani ( nella foto), intervistato da Red Tv. Un impegno che, precisa il segretario della Cgil, non riguarderà l'azionariato, per il momento ancora nelle mani del patron di Tiscali, Renato Soru, ma tutte le forme possibili di sostegno, dalla campagna abbonamenti alla pubblicità: «Abbiamo un interesse generale perché si tratta di un giornale da sempre vicino al mondo del lavoro e alle nostre battaglie. Escludo la partecipazione azionaria, ma si possono studiare forme di collaborazione, intervenendo sul versante degli abbonamenti e della pubblicità». Epifani racconta di essersi sentito con il direttore del giornale, Concita De Gregorio, e di avere programmato nelle prossime ore un incontro con il comitato di redazione dell'Unità, che di fronte all'annuncio di tagli radicali (tra cui riduzione della foliazione, numerosi prepensionamenti dei giornalisti, mancato rinnovo dei contratti a termine, riduzione dello stipendio del 7 per cento), ha già previsto un pacchetto di cinque giorni di sciopero.
Il segretario della Cgil non nasconde che avrà contatti anche «con esponenti del Pd».
Perché è ovviamente al partito di Franceschini che si guarda come passaggio obbligato per risolvere la crisi più dura vissuta dal giornale fondato da Antonio Gramsci. E qui si segnala un'intensa attività di Piero Fassino. Ieri, l'ex segretario dei Ds ha incontrato Renato Soru che, alla fine, per la prima volta ha rilasciato un breve commento alla vicenda: «C'è una crisi dell'editoria in tutto il mondo e l'Unità non è da meno. C'è da ristrutturare, gli amministratori stanno lavorando». Dichiarazione che fa sperare chi crede ancora in un possibile intervento dell'ex presidente della giunta sarda.
Anche se sarà molto difficile.
Pochi giorni dopo la sconfitta di Soru alle regionali l'amministratore delegato della società che gestisce il giornale aveva fatto conoscere al comitato di redazione la pesantezza della situazione. E ora si viene a sapere che ci sarebbero in cassa solo i soldi per pagare gli stipendi di marzo, in altre parole la possibilità di andare avanti fino al 30 e poi chiudere, in mancanza di interventi.
Perché dal consuntivo del 2008 viene fuori che il ricavato delle vendite (circa 12 milioni di euro) pareggia il costo del personale, ma non le altre, numerose, uscite. Ecco perché l'attenzione è ora concentrata su possibili nuovi soci in arrivo. Si è già parlato dell'editore Feltrinelli, ma si fa sempre più concreto l'interessamento della Lega delle Cooperative. E ieri Piero Fassino ha incontrato proprio il presidente di Unipol, Pierluigi Stefanini.

Corriere della Sera 5.3.09
Poesia e follia Ritorna il primo ritratto biografico scritto da Wilhelm Waiblinger
Hölderlin mi chiamava maestà
Un'anima schiacciata dalla tensione verso il divino
di Paola Capriolo


In un angolo quieto e appartato della città di Tubinga sorgeva una «casa costruita ad arte», che gli arnesi sistemati davanti all'uscio facevano riconoscere a colpo d'occhio come la dimora di un falegname; qui, il 3 luglio 1822, giunse con un amico il diciottenne Wilhelm Waiblinger, studente di teologia nonché poeta e scrittore in erba. Come altri suoi contemporanei, veniva a compiere una sorta di pellegrinaggio, e possiamo immaginare con quale tesa inquietudine seguisse su per le scale la giovane figlia del falegname che faceva strada a lui e al suo compagno. Infine, eccoli di sopra: «Una porta aperta ci mostrò una piccola stanza imbiancata, a forma di anfiteatro, priva di qualsiasi ornamento, nella quale si trovava un uomo con le mani infilate nei pantaloni abbassati sui fianchi e che non smetteva di salutarci cerimoniosamente. La ragazza sussurrò: "È lui!"» Il «lui» in questione si chiamava Friedrich Hölderlin, benché da tempo sembrasse aver dimenticato il proprio nome, ed era stato uno dei più grandi poeti della Germania prima che la follia gli offuscasse la mente, riducendolo a quella stralunata, compita marionetta che ora si rivolgeva all'ospite con il titolo di «vostra maestà reale» e alternava parole francesi a suoni inarticolati. È vero che i suoi scritti gli avevano procurato scarsi riconoscimenti e ancor più scarsa fortuna (nonostante l'interessamento di Schiller, non era riuscito neppure a ottenere una cattedra di Greco all'Università di Jena); ma il più famoso, il romanzo Iperione, un giorno aveva avuto la ventura di capitare tra le mani di un tale Ernst Zimmer, falegname a Tubinga e proprietario appunto di questa «casa costruita ad arte», trovando in lui un lettore entusiasta. Così, quando aveva appreso che il venerato poeta, ormai pazzo, era ricoverato in una clinica della sua stessa città, Zimmer si era recato a trovarlo e aveva deciso di prenderlo con sé, offrendogli un rifugio in quella stanza a bovindo, appollaiata in cima al torrione e affacciata sulla ridente valle del Neckar, dove Hölderlin sarebbe vissuto per trentasei anni, uscendone solo per passeggiare nella campagna circostante e dove tranquillo, senza agonia, avrebbe chiuso gli occhi il 7 giugno 1843.
In quei trentasei anni furono in molti a visitare l'illustre malato, ma tra loro Waiblinger riveste un'importanza particolare. Scorgendo nel destino del grande poeta un pauroso presagio del proprio, il diciottenne sembra addirittura ossessionato dalla sua figura. «Non posso vivere», annota nel suo diario, «senza descrivere un folle», o più precisamente quel folle, reso tale «dall'amore e dalla tensione verso il divino». Questo senso di sgomenta e affascinata immedesimazione, oltre a trovar sfogo nel romanzo che proprio allora Waiblinger stava scrivendo, gli dettò le pagine di Friedrich Hölderlin. Vita, poesia e follia (traduzione di Elena Polledri, postfazione di Luigi Reitani, Adelphi, pp. 100, € 10), che apparve nel 1831 e rappresenta la prima biografia dedicata all'autore dell'Iperione. L'inizio, forse, della sua postuma fortuna: poiché nulla seduce l'immaginazione degli uomini quanto quell'oscuro connubio di genio e follia in cui già Platone ravvisava il segreto del dire poetico.
«Comprendo l'uomo solo adesso che gli sono lontano e vivo nella solitudine», disse un giorno il pazzo al giovane visitatore; e qualche traccia, sconnessa e commovente, di questa comprensione si trova in quanto ci è rimasto dei versi che egli continuò sempre a scrivere nella sua stanza sulla torre, così dissimili, per semplicità e candore, dalle eccelse poesie con cui la sua mente ancora intatta tentava di dare espressione al «tempo indigente » dell'assenza degli dèi; ma splendenti di un'infantile meraviglia, la stessa, forse, che gli faceva ricercare la compagnia dei bambini e scoppiare in pianto quando quelli fuggivano dinanzi al suo volto sfigurato dalla follia.

Corriere della Sera 5.3.09
Il delitto del 2001. Pubblico diviso sul filmato di Novi Ligure
In onda le bugie choc di Erika E sale l'audience di «Matrix»
di Renato Franco


MILANO — «Mio fratello urlava tantissimo, urlava mamma, papà, Erika»: 48 ore dopo il duplice delitto Erika (proprio lei, quella di Erika & Omar, quella di Novi Ligure, era il 2001) racconta agli inquirenti la sua versione dei fatti, di questi albanesi che sono entrati in casa e alla fine hanno ammazzato sua madre e il suo fratellino di 12 anni. Però siccome tutti sanno come sono andate veramente le cose, siccome tutti sanno che a ucciderli è stata lei con la complicità del suo fidanzatino Omar, il filmato che Matrix ha mandato in onda martedì sera è davvero sconvolgente.
Non si sa se il pubblico a casa abbia gradito, certo è che ha seguito: 1.366.000 telespettatori, share del 18,04%, un po' sotto Bruno Vespa che a Porta a porta parlava di matrimoni misti con risvolti drammatici e ha avuto un seguito di 1.547.000 spettatori, share del 18,42%.
Blog e forum invece bocciano la scelta di Alessio Vinci. Leggere per credere. Sul forum «TeleVisioni» di corriere.it Vincenzo è allibito: «Mi viene da credere che il genere talk show abbia oltrepassato il punto di non ritorno», parla di «volgare pornografia acchiappa pubblico» e chiude dicendo «sono schifato. Ho spento subito».
Altri forum qua e là. Il tenore è sempre lo stesso. Molto sdegno per le condanne miti (16 anni a Erika e 14 a Omar), turbamento per quello che Matrix ha mandato in onda. «Ho i brividi nel vedere la freddezza con cui inventa i fatti consapevole del fatto di aver ucciso la propria madre e il proprio fratellino» (scrive Stainboy). «Vedo le interviste alla ragazza... penso alla mamma... poi al fratellino... e mi viene da piangere» (posta Nostradamus).
La freddezza di Erika è un concetto che ritorna spesso. Le immagini mostrano la ragazza (il volto non è stato oscurato perché lei ora è maggiorenne) che racconta: «Aveva il coltello in mano così, si è girato voleva farmi così». Peccato che il coltello lo avesse in mano lei. All'inizio della puntata Alessio Vinci, il conduttore che ha preso il posto di Mentana, aveva spiegato che era da tempo che Matrix stava lavorando per avere questi filmati e spiegava che poiché si tratta di «atti di un processo concluso, sono dunque pubblicabili». Ma anche no.

l’Unità 5.3.09
Armadio della vergogna: trucidati 356 donne, bambini e anziani dell’appennino tosco emiliano
Sette militari tedeschi alla sbarra, tutti facevano parte della divisione corazzata Goering
Stragi naziste, a giudizio sessantacinque anni dopo
di Claudia Fusani


Il procuratore De Paolis ha concluso le indagini sugli eccidi nazisti, vere e proprie «azioni punitive» verso popolazione inerme. Ora i parenti di quelle centinaia di bambini, donne e anziani avranno forse giustizia

La Storia non fa sconti e prima o poi presenta il conto. Dopo 65 anni la Storia bussa alla porta di Gustav Brandt, Helmut Odenwald, Fritz Olberg, Ferdinand Osterhaus, Hans Georg Winkler, Gunther Heinroth, Wilhelm Stark. Sono i sette ex gerarchi nazisti, tutti con funzioni di comando, che hanno organizzato e pianificato l’eccidio, la tortura, la morte di 156 persone nei paesi dell’Appennino in provincia di Modena e di Reggio Emilia. E poi di altre duecento persone, un mese dopo, nei paesini aggrappati al Monte Falterona. , Morti, per lo più bambini, donne e anziani per cui figli e parenti non hanno mai smesso di pretendere giustizia. Vittime delle stragi naziste. Se lo dice una sentenza è meglio.
Il procuratore militare Marco De Paolis ha concluso le indagini sugli eccidi di Monchio, Susano, Costrignano, Civago, Cervarolo, Villa Minozzo (fronte emiliano dell’Appennino) avvenute tra il 18 e il 20 marzo del 1944. La Divisione corazzata Herman Goering, chiamata dai podestà dei vari paesi «in soccorso e in difesa dall’assedio dei ribelli» che sarebbero stati i partigiani, cominciò proprio a Monchio il suo percorso di sangue e torture lungo la Linea Gotica che attraversa l’Italia da Massa a Forlì dividendola tra le truppe alleate a sud, tedeschi e Repubblica di Salò a nord, i partigiani in mezzo. A fine del ‘44 il bilancio solo in Toscana è di 3.622 vittime. Tra Emilia e Romagna ne vengono uccise negli stessi mesi altre migliaia, 770 solo a Marzabotto.
Tra il 13 e il 18 aprile la Divisione Goring lascia la direzione della Linea Gotica, si addentra nell’Aretino fino al Monte Falterona dove uccide altre 200 persone tra gli abitati di Vallucciole, Stia, Pratovecchio, Moscaio, Castagno d’Andrea, Badia a Prataglia, Caprese Michelangelo, S.Maria Serelli. Anche per questa strage il procuratore De Paolis ha chiuso le indagini chiedendo il giudizio per quei sette gerarchi a cui la Storia è arrivata oggi a presentare il conto.
L’accusa per tutti, secondo il codice militare di guerra è di «concorso in violenza con omicidio contro privati nemici pluriaggravata e continuata». Nessuno di loro, il più anziano è del 1914 e il più giovane è del 1925, durante gli interrogatori ha ammesso qualche responsabilità. Tutti, come quasi sempre in queste inchieste, hanno negato ogni partecipazione alla ricostruzione dei fatti e dei delitti. Con sprezzo, la linea degli indagati è sempre la stessa: «Eravamo in guerra, eseguivamo ordini superiori».
La vede in modo opposto il procuratore De Paolis che parla di vere e proprie «azioni punitive». Nell’avviso di chiusura indagini si parla di «azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso in parte in ossequio alle direttive del comando di appartenenza ma anche di propria iniziativa sempre e comunque aderendo al programma criminale, senza necessità e senza giustificato motivo, per cause estranee alla guerra e anzi nell’ambito e con finalità di ampie operazioni punitive contro i partigiani e la popolazione civile che a quelli si mostrava solidale». Tutto questo «cagionava la morte di numerosi privati cittadini italiani che non prendevano parte alle operazioni militari fra cui donne, anziani e bambini inermi, agendo con crudeltà e premeditazione». Bisogna dare il giusto valore alle parole. Aiuta anche la lettura della lista delle circostanze aggravanti contestate che vanno dal «grado rivestito» ad aver commeso i fatti «per motivi abietti, con sevizie e crudeltà verso le vittime e con premeditazione».
Anche le stragi di Monchio e del Monte Falterona escono dal sottoscala della procura militare di Roma e dagli schedari dell’armadio delle vergogna rimasti sigillati e nascosti dal 1950 al 1994. Ragion di stato, di equilibri post-bellici nell’ambito Nato fu la motivazione. Fogli di carta ingialliti che rischiavano di sbriciolarsi nel tempo senza verità e giustizia. Ancora una volta è stata la pervicacia dei parenti delle vittime e della procura militare a toglierli dalla polvere e a farli parlare.
Fin qui la cronaca giudiziaria. Il resto lo raccontano gli archivi del’Anpi. A Monchio, per esempio, fu il commissario prefettizio di Montefiorino Francesco Bocchi a chiedere l’intervento dei nazisti. «La popolazione - scriveva - è estremamente ostile alle nuove istituzioni (la Repubblica di Salò, ndr) e il clero è con la popolazione». A Vallucciole gli archivi dell’Anpi raccontano di «intere famiglie sterminate», case bruciate con dentro persone vive, tra le vittime 12 bambini «tra i 4 e i 12 anni», un neonato di tre mesi e quattro ragazzini «tra i 14 e i 17 anni». Il resto lo fanno certe immagini di corpi impiccati agli alberi. Adesso il processo. Per per non dimenticare più.

l’Unità 5.3.09
Conversando con Carlo Lucarelli
«L’Italia del G8 il lato oscuro di un paese in eterno debito di verità»
di Oreste Pivetta


Il G8, ancora il G8. Lo si rivedrà, in Italia, alla Maddalena, ma la memoria torna a Genova 2001. Il G8 di Berlusconi, dei limoni in piazza Ducale, della zona rossa, della città vietata, delle inferriate, dei container messi giù a far da muraglia cinese, il G8 delle botte, del sangue, dei black bloc, della Diaz, di Carletto Giuliani. Del G8 si è occupato Carlo Lucarelli, il giallista di Parma bravo a inventare intrighi e personaggi, forse ancora più bravo a ricostruire, con severità e lucidità (da sette anni), le storie nostre più drammatiche, per la televisione, il «lato oscuro» dell’Italia, dall’assassinio di Francesca Alinovi ai casi della mafia, di tangentopoli, delle bombe fasciste, della strategia della tensione, di Piazza Fontana. Anche il G8, che ora si può rivedere (e rileggere), pubblicato da Einaudi nella collana Stile Libero. Anche il G8, come tante altre, una «ferita aperta». E da un primato molto italiano, la sequenza di ferite che restano aperte una dopo l’altra, cominciamo la nostra intervista a Carlo Lucarelli.
Perché, Lucarelli, dobbiamo ancora e sempre parlare di «ferite aperte»?
«Perché si ha paura di fare i conti fino in fondo, perché chi dovrebbe e potrebbe non si rimette in discussione e non rimette in discussione la propria storia, perché l’autocensura è sovrana, perché riflettere sul proprio passato mette paura, perché così gli scheletri negli armadi non finiscono mai...».
Tanto è vero che non ci manca neppure un armadio della vergogna, che stava chiuso con le ante contro un muro e che nascondeva i documenti delle stragi naziste e fasciste. Gli hai dedicato una delle tue inchieste...
«Sì. Vorrei aggiungere: non siamo stati capaci di una riflessione storica e politica, che si fondasse sul rifiuto dell’ideologia. C’era sempre qualcosa da difendere, qualcosa per questo da nascondere».
Uno dei tuoi meriti è di non essere contaminato dell’ideologismo. Vorrei aggiungere che sei, per fortuna, esente da scoopismo. Il tuo scopo è enunciare i fatti, mostrare le contraddizioni, porre domande. Però insisto: perché l’autocensura, gli armadi della vergogna?
«Forse per una semplice condizione storica, perché siamo stati un paese di frontiera, al confine e al centro della guerra fredda. Sta di fatto che c’è sempre qualcuno che ha paura della verità. Per cui anche gli altri, la maggioranza, devono rinunciare alla verità. Prendi piazza Fontana. Una verità processuale esiste, sappiamo come sono andate le cose. Le sentenze, soprattutto quelle passate in giudicato, rivelano una sacco di fatti. Ma manca sempre qualcosa. La verità non si riesce mai a conoscerla fino in fondo, perché c’è sempre uno scheletro nell’armadio. Perché, se andiamo al dopoguerra e alla guerra fredda, si potrebbe sempre scoprire che il Pci aveva qualche filo diretto con lo spionaggio sovietico e la Dc con quello americano. Questa è il lato oscuro...».
Il guaio è che il lato oscuro si ripete. Non succede anche per le Br o per i gruppi fascisti?
«Sì, perché i nostri anni di piombo sono avvelenati da fili remoti che corrono tra i vari fronti».
Pensa all’enorme confusione e alla volgare strumentalizzazione che si sono fatte della guerra e della Resistenza.
«È una storia ormai lontana e una memoria condivisa sarebbe possibile. Invece da anni si batte sui ragazzi di Salò o sul “triangolo rosso”, che dà un esempio interessante, perchè c’è una responsabilità in questo dell’antifascismo: aver occultato i delitti del “triangolo rosso”, che peraltro rappresentano ben poco rispetto a ciò che furono i delitti del fascismo. Quel mascheramento ha lasciato spazio alla propaganda d’oggi. È successo con le foibe, dove la dinamica rimozione-memoria è impressionante. An rivendica la memoria delle foibe, ma rimuove la violenza fascista...».
Dall’incendio della Narodni Dom, la casa della cultura slovena di Trieste, nel 1920, opera delle squadracce nere. Sono stati gli studiosi di sinistra, primi fra tutti, a ripercorerre la vicenda delle foibe. Torniamo al G8: la nostra «ferita aperta». Perché lo dobbiamo ricordare?
«Perché ha rappresentato una rottura rispetto ai decenni precedenti. Perchè i giovani che erano a Genova, i protagonisti del G8, non avevano mai visto nulla del genere, di quella drammaticità. L’importanza la capisco parlando con la gente, scoprendo quanti c’erano, quanti sono stati i testimoni. Le immagini sono indelebili. Quel G8 nella violenza e nel sangue ha scosso le coscienze e proprio questa impressione, di massa, ci consente di dire che sarà irripetibile. Come pensare che si possa ripetere un “assalto alla Diaz”? Come pensare che polizia e carabinieri possano ripetere quei gesti? La nostra polizia e i nostri carabinieri sono altro».
Resta la domanda. Ce la siamo posti allora, ce la poniamo oggi. Come è stato possibile?
«La sensazione è che siano caduti tutti in una trappola».
Chi ha allestito la trappola?
«Questa risposta viene dalla valutazione storica e politica».
Alla fine citi la visita dell’allora vicepresidente del Consiglio Fini alla caserma dei carabinieri, per «stringere la mano» alle forze dell’ordine, come ricorda un parlamentare di An, Ascierto, un altro ospite dei carabinieri.
«Io registro tre cose: dal punto di vista dell’ordine pubblico, è successo un casino; qualcuno l’ha lasciato succedere; qualcuno l’ha organizzato. Con una conseguenza...».
La fine di un movimento?
«La fine di un movimento. A Genova hai visto l’onda nuova, quella vera, grande, di grandi idealità. L’onda dei giovani che gridavano che un altro mondo è possibile. Mi pare che nessuno lo dica più. Mi pare che un corteo come quello dei trecentomila aggrediti dalla polizia, cresciuto quasi spontaneamente, giovani e vecchi, cattolici e no, così variegato, così coeso nell’immaginare una rivoluzione pacifica, non sia più pensabile. Il giorno dopo, è sparito tutto... Sono spariti per fortuna anche i black bloc».
Sono rimasti la morte di Carletto Giuliani, la violenza di Bolzaneto, i processi. Che cosa pensi della morte di Carletto Giuliani?
«Ne abbiamo versioni che lasciano una infinità di dubbi. Come la storia, secondo la ricostruzione di un perito ufficiale, di un proiettile che intercetta in volo una pietra, si spezza e una scheggia uccide Carletto».
Malgrado la documentazione... Genova è stata l’apoteosi delle piccole telecamere...
«Fu una specie di sperimentazione di massa di nuovi strumenti di comunicazione. La prima volta che ti fa dire: certe cose non potranno più succedere».

l’Unità 5.3.09
Libertà di ricerca
Necessario un Forum mondiale
di Marco Cappato


Creare a livello internazionale un Forum permanente che unisca scienziati, politici e cittadini per difendere la libertà di ricerca scientifica dagli attacchi dei fondamentalismi religiosi e dalla manipolazione politica della scienza: è questo l’obiettivo del Secondo Congresso Mondiale per la libertà di ricerca scientifica. Ce n’è davvero bisogno. L'iniziativa del Governo italiano e del Vaticano contro il diritto all'autodeterminazione su testamento biologico e caso Englaro, o il tentativo di alcuni parlamentari italiani di boicottare un farmaco abortivo usato da decenni in tutto il mondo sono due conseguenze – tra le vicende più recenti - di quelli che Marco Pannella chiama “colpi di coda” clericali, tentativi di restaurazione di un potere antropologicamente ostile alla libertà e responsabilità individuale. Le nuove crociate non investono solo l’Italia: educazione civica in Spagna, proposta francese di depenalizzazione dell’omosessualità all’Onu, aborto in Cile, eutanasia in Lussemburgo, staminali e nuova amministrazione Usa. Ricercatori e liberi pensatori sono il primo bersaglio nel mirino del fondamentalismo in ogni parte del mondo. È necessario che le idee di libertà, tolleranza e diritto camminino sulle gambe di donne e uomini a loro volta “organizzati” e attrezzati per difenderle e promuoverle. Il Congresso Mondiale è convocato al Parlamento europeo per dare forza e strumenti a questa ambizione, discutere nuove iniziative transnazionali e rafforzarsi come sede permanente di analisi e sostegno alla libertà di ricerca nel mondo e alla libertà di cura. A Bruxelles si parlerà di diversi temi, dalla manipolazione politica della scienza alla relazione tra scienza e religione; dalla bioetica alla medicina riproduttiva, sempre cercando di collegare l'attualità scientifica e politica con le esigenze delle persone malate o disabili, in coerenza con lo slogan della Associazione Coscioni: “Dal corpo dei malati al cuore della politica”. Tre anni fa, pochi giorni prima di morire, Luca Coscioni aveva aperto a Roma i lavori del primo incontro, che con il suo successo contribuì a rendere possibile il finanziamento da parte della Commissione europea di progetti di ricerca basati su cellule staminali embrionali, a seguito di un appello e di una mobilitazione internazionale lanciata proprio a Roma e sostenuta da 98 Premi Nobel, molti dei quali già avevano appoggiato Luca come capolista radicale alle elezioni del 2001. Già due anni prima, nel 2004, per la sessione costitutiva del Congresso Mondiale, l’Associazione Luca Coscioni e il Pr avevano lanciato una mobilitazione globale che riuscì a bloccare il tentativo di una Risoluzione alle Nazioni unite per la messa al bando della ricerca sulle staminali embrionali. Su questa strada, tracciata da Luca, vogliamo oggi proseguire.

l’Unità 5.3.09
Teatri con l’acqua alla gola
E c’è chi pensa a licenziare
di Luca Del Fra


L’Opera di Roma verso il commissariamento, l’Arena di Verona commissariata lo è già, come il San Carlo di Napoli e il Carlo Felice di Genova. Lo stesso rischio per i teatri di Bologna e Cagliari, il sistema della lirica è al collasso.

I grandi teatri d’opera italiani, con la parziale eccezione della Scala di Milano, navigano in pessime acque a causa dei tagli alla cultura effettuati dal Governo Berlusconi: ma il caso del Maggio Musicale Fiorentino dovrebbe essere studiato, per capire cosa non fare in un teatro. Dopo le dimissioni di Giorgio van Straten, che lasciò la Fondazione lirica toscana nella primavera 2005, il sindaco Leonardo Domenici si trovò ad affrontare un riottoso CdA, che gli affossava tutti i candidati alla sovrintendenza, scelti peraltro con criteri tutt’altro che univoci e quindi facili oggetti di ricatti e veti incrociati.
STALLO SURREALE
Una situazione di stallo surreale in un teatro qualitativamente tra i migliori di Italia per quanto riguarda le sue compagini musicali, per i direttori ospiti e che forse soffriva di un appannamento della sua alta tradizione scenica. L’esito, davvero paradossale, è stato che Domenici chiese e ottenne dal Ministero dei beni culturali il commissariamento del Maggio. La scusa addotta fu il ripianamento del bilancio, ovviamente in anoressia come quello della maggioranza delle fondazioni liriche per i tagli alla cultura del governo Berlusconi 2001 - 2005. Come commissario straordinario arrivò Salvatore Nastasi che, azzerando il Festival, ridotto a uno spettacolo di teatro musicale e qualche concerto di contorno, ma soprattutto alienando una parte del patrimonio del Maggio, ovvero i capannoni Longinotti, riuscì a ripianare il bilancio. Oggi possiamo constatare che fu un’operazione effimera, probabilmente controproducente, e condotta con disinvoltura anche perché Nastasi oltre che commissario era direttore generale dello spettacolo dal vivo del Ministero - dunque controllore e controllato. La diminuzione del patrimonio infatti rende la condizione economica del Maggio assai precaria e i nuovi decurtamenti effettuati dall’attuale governo hanno come possibile ricaduta la chiusura del teatro, e comunque una feroce politica di tagli del personale. Dunque il processo è stato: commissariamento per deficit, ripianamento che indebolisce la struttura teatro, che una volta in carreggiata non riesce più a stare in piedi.
Qualcosa di analogo succede in molte altre fondazioni liriche: Roma, dove la stagione era stata programmata facendo conto sulla previsione degli stanziamenti dello Stato (Fus), si trova con un disavanzo previsionale per il 2009. Lascia perplessi come i dati del deficit futuro forniti dal sindaco Alemanno contraddicano quelli del sovrintendente Francesco Ernani e non si capisce realmente a quanto ammonti. Una storia singolare visto che si tratta di denaro pubblico, ma probabilmente funzionale al commissariamento del teatro in qualche modo chiesto dallo stesso sindaco della capitale e avviato da Ministero. Altro caso è il Comunale di Bologna: in suo soccorso arriveranno i Teatri di Reggio Emilia, coproducendo molti spettacoli in cartellone: la Regione Emilia Romagna dopo anni ritorna interessarsi della fondazione lirica bolognese, una soluzione per mettere una pezza all’attuale gestione ma non strutturale.
La risposta all’endemica crisi finanziaria dei teatri lirici prospettata da più parti è la dismissione delle masse artistiche: corpi di ballo, orchestre, cori e così via. Insieme ai tecnici sono in effetti le vere forze produttive, dunque percorrere questa strada significa spolpare i teatri: già deboli finanziariamente, svuotati artisticamente, sarà ancora più facile disfarsene. Se Infatti l’idea del centro destra e non solo è che in Italia i teatri costino troppo - e non è vero -, a costare meno sono i teatri chiusi: bastano un 50 mila euro di custodia, vedi mai li occupasse qualcuno per farci uno spettacolo.

Liberazione 5.3.09
Biotestamento, diritto irrevocabile
di Luigi Manconi


Se qualcuno ha mai pensato che le questioni dette "di vita e di morte" appartengano esclusivamente alla sfera dei diritti civili; e se, di conseguenza, ha ritenuto che riguardassero una dimensione della vita sociale meno significativa, e meno urgente, di quella connotata dal peso delle condizioni economiche e delle esistenze materiali, ha ricevuto una inequivocabile smentita. Nelle stesse settimane in cui uno dei rami del Parlamento approvava alcune norme in materia di immigrazione profondamente lesive dei diritti fondamentali della persona, la maggioranza di governo elaborava un disegno di legge sul testamento biologico che rappresenta il più aggressivo attacco al principio di autodeterminazione che mai sia stato tentato nella produzione legislativa del nostro Paese. E sono certo di non esagerare. Tra quelle due iniziative esiste un nesso strettissimo che pochi sembrano aver colto. Mi spiego. Obiettivo comune dell'offensiva in corso è il controllo sul corpo dell'individuo. Ovvero: chi ha potestà su di esso? Si tratta di una questione cruciale. La personalità umana e l'identità individuale si fondano, innanzitutto, sulla vita fisica e sull'organismo biologico dell'individuo. E' dal corpo che si sviluppa l'intera attività umana ed è sullo stesso corpo, sulla sua fisicità, che si fondano le prerogative, le facoltà, le capacità e, in particolare, i diritti universali. Questi ultimi nascono tutti da un presupposto: dal fatto, cioè, che ciascun individuo è padrone di sé in quanto padrone in primo luogo della propria identità fisica. Questa padronanza significa, innanzitutto, disponibilità del proprio corpo e, allo stesso tempo, tutela di esso in relazione alle diverse attività umane. Tra queste, la libertà di movimento costituisce diritto primario. Il corpo migrante, il corpo di chi esercita la libertà di movimento, è dunque sommamente meritevole di tutela e incondizionato titolare di diritti irrevocabili. Diritti che, esattamente in questi mesi, vengono sottoposti a pressioni intollerabili dall'attuale governo: fino a qualificare come fattispecie penale l'ingresso e il soggiorno irregolari e fino a disincentivare pesantemente il ricorso a cure mediche. In questa invasione della sfera più sensibile dell'identità individuale da parte dello Stato e dei suoi apparati di controllo e repressione, si manifesta la medesima ideologia che ispira la volontà di imporre - anche a chi lo rifiuti anticipatamente, con dichiarazione certificata, autenticata e depositata - il sondino nasogastrico. Perché questo prevede il disegno di legge della maggioranza: l'impossibilità di decidere, quando si è pienamente coscienti, che non si vuole essere sottoposti a nutrizione e idratazione forzate. Nasce da qui l'iniziativa delle associazioni "A Buon Diritto" e "Luca Coscioni" di elaborare una Carta di vita: un modulo per il testamento biologico per quanti decidano di dichiarare anticipatamente la propria volontà in merito ai trattamenti sanitari. E' un testo ispirato solo ed esclusivamente a principi di responsabilità e di libertà, come previsto dalla Costituzione e dall'ordinamento, dal codice deontologico dei medici, dall'intera giurisprudenza e dalle convenzioni internazionali sottoscritte dal nostro Paese. Si tratta, come si è detto, di dichiarazioni anticipate di volontà che rischiano di non venire riconosciute dalla legislazione italiana o di essere stravolte fino a risultare contrarie al diritto fondamentale all'autodeterminazione del paziente. Se ancora c'è una qualche possibilità di ottenere una buona legge, ciò dipende dai cittadini, che possono far sentire la propria voce e - responsabilmente e liberamente - sottoscrivere questo testamento biologico: il testo si trova nei siti abuondiritto.it e lucacoscioni.it ; e va inviato a: "A Buon Diritto", Via dei Laghi, 12, 00198 Roma Fax 06/8414268 - abuondiritto@abuondiritto.it oppure a "Luca Coscioni", Via di Torre Argentina, 76 00186, Roma Fax 06/68805396 - info@lucacoscioni.it. Provvederemo a fare arrivare le vostre dichiarazioni anticipate di volontà o le vostre adesioni all'iniziativa, manifestate anche solo con una firma o con un messaggio, ai presidenti di Camera e Senato. Come partecipazione a una campagna di libertà, come messaggio da inviare al legislatore, come segnale pubblico della volontà dei cittadini, come espressione di un diritto essenziale di cui si chiede il riconoscimento. Come atto politico.

Liberazione 5.3.09
Direttivo Verdi: ok alla lista con Vendola e Sd, «ma non sia nuovo partito» Manovre elettorali a sinistra
Ferrero: «Fiducioso con Pdci e Sc»


Montecitorio chiuso per "settimana bianca", i partiti si dedicano alla politica guardando alle europee di giugno, sempre più vicine. Centrosinistra in ordine sparso. Sul fronte del Pd, il neosegretario Dario Franceschini approfitta della tranquillità (relativa) finalmente ritrovata dal giorno della sua elezione per fare chiarezza. «Non ho intenzione di ricandidarmi ad ottobre», dice il successore di Veltroni ospite ieri a Matrix. «Il mio è un mandato a termine e di garanzia, per lo statuto finisce a ottobre, io ho un compito importante per gli equilibri del paese e devo garantire lo svolgimento del congresso. Arrivato lì è finito il mio lavoro, non ho assolutamente intenzione di candidarmi», aggiunge. Chiarimenti che servono a rasserenare gli animi di chi nel Pd ha appoggiato l'elezione di Franceschini a patto che fosse a termine (per esempio, gli ex Ds che puntano ad eleggere Bersani al congresso d'autunno). Sul fronte della sinistra estromessa dal Parlamento, il segretario del Prc Paolo Ferrero sul manifesto ribadisce che è «inutile pensare ad una lista unitaria di sinistra se poi ci si divide in Europa», tra Gue e socialisti europei. E' la critica a chi, a sinistra, medita un'alleanza elettorale anche con i socialisti di Nencini (inciso di cronaca: ieri il segretario del Ps è rimasto coinvolto in un incidente stradale, è in prognosi riservata). Ferrero contesta poi alcuni sondaggi, precisamente quello di Ipr Marketing che due giorni fa dava al 3 per cento l'eventuale lista di Rifondazione con il Pdci, mentre prevedeva al 6 per cento la somma dei voti attribuiti a vendoliani fuoriusciti dal Prc (ora Movimento per la sinistra) - 1% -, Sd, 2%, Verdi 1,5% e - appunto - socialisti, 1,5%. Il segretario di Rifondazione cita un altro sondaggio - osservatorio Digis Sky Tg 24 - che assegna al solo Prc il 3,2 per cento mentre mette insieme "altri di centrosinistra", cioè Verdi, Comunisti Italiani e socialisti, cui andrebbe un 2,5 per cento. I sondaggi lasciano il tempo che trovano. Intanto, sabato a Firenze si svolgerà l'assemblea promossa dai firmatari dell'appello pubblicato dal manifesto per una lista unitaria. Ma nel frattempo maturano - molto lentamente - i diversi progetti elettorali. Sembra chiaro infatti che saranno diversi. Ferrero, sempre sul manifesto si dice «fiducioso» su un'alleanza elettorale con Pdci e Sinistra Critica, movimenti e sindacati. Sd, Movimento per la sinistra, socialisti, Verdi, più una parte del Pdci sembrano avviati verso una loro lista comune. Ma i giochi non sono ancora fatti, tantomeno le candidature. Ieri i Verdi hanno riunito il loro direttivo che ha approvato a maggioranza un documento con il quale si dà mandato alla portavoce Grazia Francescato di stringere sull'alleanza a patto che non sia un nuovo partito («che non nasce dalle elezioni ma da processi reali», dice Paolo Cento) e a patto che il simbolo elettorale comprenda il logo del Sole che ride. Domenica si riunisce il consiglio federale dei Verdi e lì si vedrà se ci sono mozioni alternative. Ma, pur mancando l'unanimità nell'accordo interno sulla lista a sinistra (a proposito: dovrebbe chiamarsi Sinistra per le libertà), sembra improbabile che una parte dei Verdi riesca a candidarsi con il Pd: porte chiuse, parrebbe.

il Riformista 5.3.09
Io, l'Unità e la guerra di bande Pd
«Conflitto d'interessi?Soru come Berlusconi»
Parla Travaglio: «Stiamo parlando di imperi quantitativamente diversi, ma il problema resta. Non ho mai pensato che mister Tiscali fosse il salvatore. Ha preso il giornale anche per accreditarsi nella guerra interna al Pd. Unipol? Consiglierei più prudenza»
Intervista di Tommaso Labate


«Prima però devo chiarire una cosa. Io non voglio in alcun modo nuocere all'Unità. È un giornale che mi ospita da sette anni: sono passato attraverso tre direzioni e ho sempre potuto scrivere quello che volevo in libertà».
Esaurita la premessa, Marco Travaglio inizia a raccontare al Riformista il suo "Io e l'Unità, da Furio Colombo a Renato Soru".
Soru perde le elezioni e improvvisamente si apre la crisi all'Unità. Una semplice coincidenza?
Tanto per capirci, io non ho mai creduto alla storia che Soru si fosse improvvisamente innamorato dell'Unità. A storie del genere crederei soltanto in presenza di un editore puro.
E Soru, come (quasi) tutti i suoi colleghi, non lo è.
Direi di no, visto che stiamo parlando di uno che fa il governatore e subito dopo il candidato governatore, e che nel frattempo si è comprato un quotidiano. Sono sicuro che Soru non avrebbe mai comprato l'Unità se l'Unità gli avesse fatto schifo. Ma sono altrettanto sicuro del fatto che, quel giornale, l'ha comprato anche per rafforzarsi nella guerra tra bande in corso nel Pd.
Sia sincero, Travaglio: quanto le piace Soru?
Quando l'ho visto in tv da Fazio mi ha fatto un'ottima impressione. Era molto meglio di quel che pensassi. Mettiamola così: se Soru finge, significa che sa fingere benissimo. Detto questo io non ho mai pensato che l'ex governatore sardo fosse il cavaliere bianco pronto a salvare l'Unità. Anche se stiamo parlando di imperi quantitativamente non paragonabili, Soru ha lo stesso conflitto di interessi di Berlusconi.
Però s'è affidato a un blind trust.
Del blind trust penso quello che ho sempre scritto a proposito delle inutili leggine del centrosinistra in materia di conflitto di interessi nell'editoria. Il fondo è cieco ma i giornalisti, il padrone, lo vedono benissimo. Anche se è schermato dal trust.
In questo caso, però, il padrone sembra volersi disimpegnare. O sbaglio?
Io mi associo alle preoccupazioni espresse dal cdr e dall'assemblea di redazione dell'Unità. A parte che non si possono mettere decine di lavoratori davanti a un aut-aut improvvisato, mi domando: ma cosa si aspettavano i signori editori? Di che si lamentano? Si sono spesi due milioni per una riforma grafica di cui io, per esempio, non sentivo proprio il bisogno. In più, altre centinaia di migliaia di euro sono state destinate a una mega-campagna pubblicitaria mentre, forse, era il caso di dotare il quotidiano di strumenti veri di sostegno alla vendita…
Interventi inutili, secondo lei?
I lettori di quel giornale sono più o meno gli stessi. Certo, il riposizionamento a favore di istanze più filo-piddine e meno «scapigliate» ha prodotto qualche leggero cambio. Ma il numero di copie vendute, quello era con Padellaro e quello più o meno è rimasto.
Anche lei, come Colombo, continua a chiedersi il perché del cambio di direzione?
La domanda sull'allontanamento di Padellaro è rimasta inevasa, anche se a questo punto è inutile impuntarsi come i bambini e insistere… In ogni caso, io non ho ancora capito a quali cifre puntava il nuovo editore dopo il cambio di direzione. Trecentomila copie, forse? E da dove sarebbero dovute arrivare, dal pianeta Marte? Il problema non è il direttore: sia Padellaro che Concita De Gregorio sono bravissimi. Il problema è l'Unità.
In che senso, scusi?
L'Unità è tornato ad essere un giornale fragile, un giornale in cui chi ci lavora è segnato da tanti anni di preoccupazione alle spalle. I notabili di partito sono tornati a sventolarlo come se fosse roba loro. L'ha vista la conferenza stampa di Rutelli l'altro giorno, no? Per non parlare delle lettere che mi ha inviato Rutelli per aver scritto cose verissime.
Ora non è che quanto sta accadendo sia colpa di Rutelli…
Non dico questo. Dico che gerarchi e gerarchetti di partito sono tornati a trattare l'Unità come un loro affare privato. Vedi la cacciata di Colombo. Vedi l'intervista (al Corriere, ndr) con cui Veltroni disegnò l'identikit del nuovo direttore cacciando contestualmente quello che c'era.
L'Unità giornale di partito, dunque. Ma Soru…
Soru non ha sciolto questo nodo. Perché è un imprenditore privato che, contemporaneamente, è in pieno conflitto d'interessi. Poteva togliere quell'ipoteca dell'Unità e invece non l'ha fatto. D'altronde, tra fare il giornale del governatore e il fare il giornale del governatore trombato non passa alcuna differenza. A meno che non si ritiri dalla politica, s'intende.
Le agenzie sostengono che sia Soru sia il presidente di Unipol Stefanini (che però smentisce) hanno avuto incontri con Piero Fassino.
Soru e Fassino hanno il diritto di parlare con chiunque. Quanto a eventuali ritorni di fiamma dell'ex segretario dei Ds nei confronti di Unipol, beh… visti i precedenti gli consiglierei un po' di prudenza. In ogni caso spero che questo giornale riesca a salvarsi.
All'orizzonte ne sta spuntando un altro, di giornale. Il fatto, un progetto di Antonio Padellaro.
Spero che Antonio riesca a raggiungere il suo obiettivo e a far nascere questa nuova avventura. Lo spazio sul mercato, a mio avviso, c'è tutto. Tra l'altro, credo che i lettori appassionati dell'Unità di Colombo e dello stesso Padellaro continuino ad essere interessati a un piccolo giornale di battaglia. La prova? Anche in questi tempi di crisi, c'è un sacco di gente che mi chiede quando fondo un quotidiano. Per carità, io non saprei dirigere neanche il ballatoio di un condominio. Ma resta il fatto che il pubblico potenziale per un certo tipo di prodotto non manca.
Un passo indietro. Come giudica la linea dell'Unità by Concita?
Concita è totalmente in buona fede. L'ho capito dalle prima volte che abbiamo parlato, la scorsa estate. Aveva un grande entusiasmo e credeva davvero in Soru.
Lei ha condiviso l'editoriale che scrisse dopo la sconfitta di Soru, quell'atto di accusa nei confronti di tutto il Pd?
Sì, l'ho condiviso. Credo che se una parte del Pd non avesse remato contro, Soru in Sardegna, ma anche Costantini in Abruzzo, avrebbero potuto vincere. Ho condiviso molto meno alcuni resoconti delle elezioni sarde in cui Soru veniva spacciato per un Talleyrand o per un De Grulle. Ma la questione, in questo caso, è un'altra.
Quale?
Un editoriale pro Soru, quand'anche sacrosanto, non ha forza se finisce sul giornale di proprietà di Soru. Sarebbe stato più efficace scriverlo su un muro.
E torniamo al conflitto d'interessi.
Lo sa che Montanelli impediva che sul Giornale si parlasse male di Rai? Me lo raccontò un giorno Arpino. Mi disse proprio così: "Indro non vuole che si critichi la Rai perché qualcuno potrebbe sospettare fantomatici favori a Fininvest". Altri tempi, direi.

il Riformista 5.3.09
Quel 22 per cento non mi meraviglia. Ed ecco perché
Non credo alla crisi globale come panacea per il futuro del Pd. Non cominciamo a guardarla come una "occasione" per la sinistra e per il lancio di proposte che odorano di demagogia come antidoto al populismo altrui
di Biagio De Giovanni


Se qualcuno si meraviglia che l'ultimo sondaggio (di Repubblica, quindi non sospetto di desideri inconfessati) dia il Pd al 22%, vuol dire che non ha ben compreso il punto cui è giunta la difficoltà storica della sinistra italiana. E dico subito che non credo alla crisi globale come panacea: essa, certo, per il suo carattere distruttivo, può costituire una variabile indipendente, capace di disordinare molte analisi e causare spostamenti nell'opinione pubblica. Questo è sicuro. Ma non cominciamo a guardarla come una "occasione" per la sinistra e per il lancio di proposte che odorano di demagogia da qualunque punto vengano guardate: demagogia contro populismo, il duello continuo del sistema italiano, e bene ha scritto, su alcune note proposte, Nicola Rossi che ha il coraggio di indicare come stanno le cose. È sbagliato, credo, insistere sull'occasione, soprattutto perché difficilmente l'impoverimento di una società rende più facile la strada della sinistra, lastricata in tutta Europa di difficoltà: non saprei fare molti esempi di un simile effetto, guardando indietro nel tempo, salvo che non si pensi all'assalto al Palazzo d'Inverno, ma per fortuna quell'epoca si è chiusa, e ogni eventuale ribellismo sociale non farebbe che rafforzare chi governa e legarlo ancor più alla maggioranza del Paese. Per restare un momento sulla crisi, può accadere quello che Andrea Romano ha scritto qualche giorno fa, di una sinistra riconquistata dal richiamo della foresta, e riportata indietro nel "suo" tempo, con il classico assistenzialismo statalistico di ritorno, ma se ciò avvenisse, a parte qualche momentaneo, possibile vantaggio elettorale, essa avrebbe abbandonato per decenni lo spazio di governo, trasformando il centro-destra nella nuova Dc e la sinistra in una piccola corrente post-cattolico-comunista sempre della Dc e in minoritaria concorrenza con essa.Il fatto vero è che la soglia del 22% mi sembra previsione adeguata a una crisi di cui forse non tutti hanno compreso la gravità. La sinistra si muove fra le macerie del vecchio sistema egemonico, senza riuscire a trarsene fuori. Il sostegno di quel sistema era vasto e coerente: divisione del mondo in due+arco costituzionale+compromesso consociativo+meridionalismo+spesa pubblica+egemonia culturale+storie diventate miti,+corporativismo sindacale… Nessuno di questi pilastri, come tale, regge, e nessuno fra essi è stato rivisitato con un pensiero vivo e capace di diventare cultura politica. In particolare, gli eredi del Pci non hanno saputo fare i conti con la storia dell'Italia e con la propria, immaginando che la confusione di Tangentopoli avrebbe creato un crollo della memoria, e che fra le pieghe di quel crollo ci si sarebbe potuti infilare - come dire? - fischiettando con indifferenza. Oggi, tutta la prima repubblica è all'opposizione di chi governa, e questo non è solo un dato simbolico, ma ben sintomaticamente storico-politico, anche se la cosa non mi sembra in generale valutata nel suo giusto peso.
Proprio l'opposto è avvenuto sull'altro fronte, dove, liberi da vecchie radici, si va cambiando scena su quei "sostegni" all'egemonia, cui mi riferivo prima, e non ho spazio per esemplificare: bisognerà tornarci di proposito, ma ognuno può fare qualche conto da solo. La crisi essenziale è qui, e la gravità del fallimento di Veltroni è proprio nel fatto che egli aveva consapevolezza più di altri che quei vecchi territori non potevano più essere praticati, ma poi non ha avuto le idee e la forza per agire in conseguenza, e non torno sulle ragioni della sua sconfitta. Franceschini - ma potrebbe essere un giudizio ingeneroso: aspettiamo - appare un deciso ritorno indietro, capace anche di ottenere qualche piccola scossa elettorale che subito farebbe gridare al superamento della crisi, ma le cose sono assai più complicate. Un partito non vive senza cultura politica, senza una propria funzione nazionale che non sia solo quella di liberare il Paese da chi governa. Un partito come il Pd, nato più come progetto di ingegneria politica che come risultato profondo di un progetto e di una lotta politica, non vive se non apre un confronto a tutto campo (ma ci voleva tanto a convocare un congresso subito dopo il voto politico?), misurandosi con l'egemonia di una destra penetrata nella pancia e nella sensibilità dell'Italia e contro la quale è inutile continuare a lanciare anatemi (fascismo! razzismo! distruggete la costituzione!) e richiami alla salvezza del Paese, destinati a cadere in una valle senza echi.Certo, può arrivare la crisi, la tempesta perfetta, quando tutto perde la sua fisionomia e lo tsunami travolge tutto. Quando ogni analisi e previsione viene incrinata e falsificata, e tutto si riassume all'improvviso in un dramma generale. Ma siccome nessuno, immagino, può puntare su un simile esito, val la pena di continuare a lavorare come se questo finale (che dipende soprattutto dal mondo) non sia fra le cose possibili. A puntare sulla forza di un progetto per il futuro dell'Italia, e a far lavorare l'intelligenza in questa direzione.

Liberazione 5.3.09
A cent'anni dalla nascita un convegno ricorda il grande studioso. A inaugurare i lavori il presidente Napolitano
Garin il "rinascimentale"la libertà dell'uomo senza dio
di Alberto Burgio


Da domani parte il convegno di tre giorni dedicato a Eugenio Garin. Dal Rinascimento all'Illuminismo" a Firenze (Palazzo Vecchio e Palazzo Strozzi). A inaugurare i lavori anche Michele Ciliberto (presidente dell'Istituto nazionale di studi sul Rinascimento). In anticipazione uno stralcio della relazione di Alberto Burgio "Rousseau: una teodicea post-cristiana"


In un testo molto caro a Garin, Il problema Jean-Jacques Rousseau (1932), Cassirer scrive che Kant «attribuisce a Rousseau nulla di meno che il merito di avere risolto il problema della teodicea». Tradotto in termini storici (etici, sociali, politici), il problema del male (dell'errore, della violenza, dell'ingiustizia, dell'egoismo distruttivo) non ha più nulla di trascendente; si configura come risultato del cattivo uso della libertà, quindi del pervertimento della ragione: della sua scissione dal sentimento morale e della sua conseguente regressione ad astratto raziocinio, a mero intelletto riflettente. 
Per contro, la ricomposizione della razionalità nella sua pienezza e concretezza (ragione e sentimento morale, raison e conscience ) restituisce le condizioni per il buon uso della libertà, nel segno dell'amore dell'ordine e del bello, quindi dell'armonia, della giustizia e dell'unità dell'uomo con se stesso e degli uomini tra loro nella Cité .
Tutto questo Garin riprende riconoscendone il merito all'«illuminante saggio» di Cassirer (quindi a Kant), ma anche ad altri protagonisti della rinascita rousseuaiana negli anni Sessanta (sulla scorta del bicentenario del Contrat e dell' Émile ), a cominciare da Derathé, Starobinski e Gouhier, e, per quel che riguarda Italia, da Paolo Casini. Garin tiene a segnalare altresì un altro tema che si pone lungo questa linea, ma la sviluppa ulteriormente (sempre nel segno della storicità e dell'immanenza assoluta quale sfondo della possibile unità dell'esperienza e del pensiero). È un tema importante, che serve a leggere meglio Rousseau, ma illumina anche la prospettiva dello storico che ne studia l'opera: parla delle sue fonti e, forse, delle sue esigenze più propriamente teoriche (in qualche modo legate alla sua stessa vicenda biografica). Garin vede che in tanto la questione del male può essere (da Rousseau) sottratta all'ipoteca della teologia e riportata sul terreno della storia (quindi sotto la piena giurisdizione dell'uomo e della sua azione razionale e responsabile) in quanto (per Rousseau) semplicemente la natura umana non esiste: l'umano è in tutto e per tutto storico, frutto di artificio e di scelta.
È interessante: proprio in questi anni Garin si trova a svolgere osservazioni del tutto analoghe a proposito di un altro suo autore: il Giovanni Pico del De hominis dignitate , del quale mette in risalto una tesi - l'idea, appunto, «che una natura umana non c'è, […] che il […] destino [dell'uomo] è libero atto di scelta», cha la sola "natura" di cui si possa parlare a proposito dell'uomo è «progetto e non destino» - in tutto simile a quella che scopre in Rousseau.
E si potrebbe aggiungere che Garin legge in Rousseau un tema che a sua volta Gramsci aveva posto in evidenza in Marx, ritenendolo essenziale ai fini della radicalità della sua prospettiva critica: «l'innovazione fondamentale introdotta da Marx nella scienza politica e storica in confronto del Machiavelli - così si esprime Gramsci nei Quaderni - è la dimostrazione che non esiste una "natura umana" fissa e immutabile e che pertanto la scienza politica deve essere concepita nel suo contenuto concreto […] come un organismo in isviluppo».
Vale la pena di riportare il passaggio dell' Introduzione agli Scritti politici di Rousseau nel quale Garin introduce questo elemento, per la forza con cui enuncia l'argomento e ne segnala l'importanza: «Dio non entra, in nessun modo, né nella colpa né nella sventura dell'uomo. Solo che, e questo è il passo decisivo che non emerge né in Kant né in Cassirer, nella prospettiva di Rousseau Dio non entra nel peccato originale, non tanto perché è dalla società che ha origine il male, quanto perché dalle mani di Dio neppure l'uomo è uscito. L'uomo del male e del bene, delle leggi e del diritto, del linguaggio e della cultura, è l'uomo della società, indisgiungibile dalla società: e l'uomo della società è l'homme de l'homme ». Insomma, la geniale soluzione del problema consiste (e Garin lo dichiara con la stessa veemenza con la quale nei primi anni della sua ricerca aveva affermato la centralità del divino) nella totale, assoluta negazione (o estromissione) di Dio in quanto l'uomo di Rousseau è creatore di se stesso.
In questo senso Garin rileva come Rousseau si ponga, trascrivendolo «in termini tutti mondani» (cioè affidandolo a un «rinnovamento» degli uomini e dei loro rapporti reciproci), proprio «quello che era stato per il Cristianesimo il problema della salvezza» - precisamente come si pone, «ridotto in termini integralmente umani», il problema della teodicea e dell'origine del male e del peccato. Nella religione rousseauiana dell'immanenza (una «religione umana e sociale»), la storia è ri-creazione, metamorfosi (de-naturazione e generazione di una natura rinnovata): autopoiesi umana (anche questo, a ben guardare, un tema gramsciano, che circola in molte pagine del quaderno su Americanismo e fordismo ). Per Garin questo riorientamento della prospettiva morale e politica (e persino ontologica) in una chiave di radicale storicità rappresenta la conseguenza più rilevante della secolarizzazione rousseauiana della teodicea.
Storia e politica, dunque, come auto-creazione. Massima libertà e massima responsabilità: termini ricorrenti, come in una endiadi, già nella prima fase della ricerca gariniana, ma ora declinati in univoco riferimento all'orizzonte del mondo storico e dell'agire politico. Un tema ambivalente: nel quale è inscritta anche la solitudine dell'uomo; ma che per il momento Garin declina (ancora) in positivo: di Rousseau mette in risalto l'idea del possibile riscatto, della palingenesi che si compie attraverso l'«alienazione totale» imposta dal contratto e attraverso la «frattura assoluta rispetto al divenire storico» che conduce a un nuovo inizio nel segno dell'armonia e della piena autonomia del corpo sociale. [...]
Garin rilegge Rousseau e si sofferma sulla sua opera (nel testo più importante che ha prodotto sull'argomento) in un momento della sua vita in cui è ancora fiducioso nella possibilità di trovare una via d'uscita dalla rovina, dalla violenza e dall'assenza di senso dell'esistenza. Come Gramsci, anche se, certo, con minore impatto, Rousseau - per la sua «alta e vigorosa ispirazione morale» - è un'àncora. L'importanza di Rousseau consiste nell'indicare una strada per ritrovare (in realtà, per costruire ex novo ) l'unità della persona e della compagine umana: il suo è un pensiero della libertà nel segno dell'operare costruttivo; un pensiero della politica e della storia inscritto nell'umanesimo reale e integrale che Garin viene elaborando sulla scia di Gramsci in una temperie storica (civile e politica) che ancora gli pare consentire uno sguardo fiducioso sul futuro, la fiducia nell'«azione riformatrice della volontà» e della razionalità individuale e collettiva (morale, etica e politica).
Se questo è vero, c'è qui un elemento drammatico: alla fine degli anni Sessanta Garin sembra rivolgersi a Rousseau come per un estremo tentativo: per tenere aperta una prospettiva che sta invece per chiudersi; di lì a poco (già nel corso degli anni Settanta) l'equilibrio dinamico e costruttivo che aveva sostenuto la sua attività nella fase dell'Umanesimo civile si incrinerà, sino a spezzarsi del tutto, per lasciare il campo a una crisi profonda: si affermerà allora una Stimmung segnata dal disincanto e dal nichilismo: la vita parrà senza senso e senza significato, un gioco degli dei, del cui capriccio l'uomo è in balia.
Allora non vi sarà più possibile unità, né ricomposizione: esistere significherà dibattersi in un caos di frammenti. A quel punto Rousseau, nonostante la sua «fede operosa», anzi, forse proprio in ragione di essa, non avrà più nulla da dire.

Liberazione 5.3.09
Incontro alla Gregoriana su iniziativa del "ministro" vaticano della cultura
In casa dei gesuiti si cerca la pace tra Darwin e la Chiesa
di Alessandro Speciale



Il mistero della vita. E' un'espressione che abbiamo sentito ripetere spesso in queste ultime settimane. Un mistero - ci è stato detto - di fronte al quale l'uomo deve arrestarsi rispettoso, perché la vita è un dono che a noi tocca soltanto di conservare e proteggere. Non certo indagare, curare, a volte addirittura rifiutare.
Potrà sembrare strano, allora, che sia proprio la Chiesa cattolica a organizzare un imponente convegno internazionale sulla teoria scientifica che spiega il mistero della vita in termini di mutazioni contingenti e selezione naturale, di caso e necessità, in una dinamica tutta intramondana che non postula - né ne ha bisogno - nessuna finalità ultima, nessun "Amor che move il sole e l'altre stelle", nessun Dio.
La scelta è sicuramente audace: quattro giorni di confronto tra scienziati, filosofi e teologi per discutere di "Evoluzione biologica. Fatti e teorie. Una valutazione critica 150 anni dopo L'origine delle specie ", nella sede della Pontificia Università Gregoriana, storico ateneo dei gesuiti, sotto l'alto patrocinio del Pontificio Consiglio per la Cultura: l'occasione, per filosofi e teologi da una parte, e biologi e altri scienziati dall'altra, di confrontarsi direttamente sulle ultime acquisizioni e sviluppi dell'evoluzione, andando al di là dell'immagine stereotipata e riduttiva che ciascuno si è fatto della disciplina dell'altro.
Per rendere l'idea del tono del convegno, forse il riassunto più efficace è quello offerto da uno degli organizzatori, il prof. Gennaro Auletta, docente di Filosofia delle scienze presso la Pontificia Università Gregoriana e vicedirettore del convegno, in un'intervista all' Osservatore Romano : «Qualsiasi sforzo di recupero o riabilitazione di Darwin da parte della Chiesa cattolica sarebbe "superfluo" perché, "molto semplicemente", né la Chiesa cattolica, né suoi esponenti significativi, hanno mai condannato, né il darwinismo, né la teoria dell'evoluzione».
Persino il sempre misurato responsabile dell'ortodossia vaticana, il card. William Levada, successore di Ratzinger alla guida della Congregazione vaticana per la dottrina della fede, concede che in cielo e in terra c'è uno «spazio sufficientemente ampio» per credere tanto nell'evoluzione quanto nell'esistenza di Dio creatore.
Nessuna condanna, quindi, nessun anatema. Eppure non è sempre stato così. Anche se in Vaticano tengono a ricordare che L'origine delle specie non è mai stata messa all'indice, appena pochi anni fa sembrava che l'evoluzione stesse per diventare il nuovo "caso Galileo" e che una sua sconfessione da parte della Chiesa cattolica fosse imminente. 
Spinto dall'onda potente della destra religiosa Usa, che con i propri grandi mezzi economici e mediatici stava cercando di cacciare l'ateo e materialista Darwin fuori dalle scuole pubbliche statunitensi, il card. Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna e tra i più fidati collaboratori di papa Ratzinger, in un editoriale pubblicato nel 2005 sul New York Times , sembrava aprire le porte all'Intelligent Design, ovvero alla versione ripulita e moderna del creazionismo biblico. Invece di sostenere direttamente che la terra è stata effettivamente creata in sei giorni da Dio, "e il settimo si riposò", i sostenitori dell'Id, riuniti attorno al Discovery Institute di Seattle, si appellano alla complessità e interconnessione dell'universo, troppo perfetto e troppo "adatto" all'uomo per essere frutto del cieco meccanismo della selezione naturale. Dev'esserci - dicono - una mente divina che abbia coordinato il tutto e abbia orchestrato la mirabile sinfonia dell'universo.
Lo stesso Ratzinger, riunendo nel settembre 2006 i suoi ex-studenti, capitanati da Schönborn, nella sua residenza estiva di Castel Gandolfo, aveva puntato il dito contro le «rilevanti lacune nella verificabilità e nella falsificabilità sperimentale» dell'evoluzione, che «non è ancora una teoria completa e scientificamente verificabile». Oggi, invece, Auletta ricorda che «bisogna stare molto attenti a evitare il discorso dell'Intelligent design, che non è una teoria scientifica, anche se si spaccia come tale». 
Se l'operazione di importare la battaglia culturale della destra religiosa americana in Vaticano non è riuscita, e oggi la Chiesa si confronta apertamente e, in buona parte, senza preclusioni con la realtà scientifica dell'evoluzione, il merito è in gran parte di mons. Gianfranco Ravasi, chiamato da Ratzinger alla guida del Pontificio Consiglio della Cultura. Suo è il tentativo di cercare ostinatamente il dialogo con il mondo scientifico, senza cercare "concordismi" automatici o banalizzanti, ma rispettando l'autonomia di ogni singolo campo d'indagine, della biologia come della teologia. 
Compito di scienza e fede, ha detto il vescovo in apertura al convegno, è infatti «incrociare gli sguardi», tanto a livello soggettivo, perché «è necessario che teologi e scienziati si guardino a viso aperto, si ascoltino, abbiano un confronto sereno», quanto a livello oggettivo, perché «questi sguardi esaminano la realtà da angolazioni diverse, sono letture diverse della stessa realtà». L'importante, chiosa severo Levada, è non trarre dalla realtà dell'evoluzione la conseguenza dell'inesistenza "necessaria" di Dio - deduzione, invero, che pochi scienziati fanno.
L'apertura di credito che la Chiesa fa alla scienza è, però, tutt'altro che completa: in molti pronunciamenti recenti di papa Ratzinger, a cominciare dal celebre discorso di Ratisbona, torna la concezione medievale della scientia ancilla theologiae, di una ragione scientifica ristretta, che deve limitarsi al proprio campo di applicazione e lasciare il passo, per le "grandi" domande sul senso dell'uomo e dell'universo, alla filosofia e alla teologia, o - meglio - alla ragione illuminata dalla fede. 
Di fronte a questa concezione, si può ricordare, citando ancora mons. Ravasi, che «l'intelligenza ha percorsi diversi: c'è il rigore scientifico, c'è la logica formale, ma ci sono anche altri percorsi conoscitivi e intellettuali, come la filosofia e la teologia ma anche l'arte e la poesia, ciascuno con i propri statuti, con i propri metodi, con la propria coerenza».

Il manifesto 4.3.09
Pd, testamento cattolico
di Eleonora Martini


La destra non litiga più, i democratici si affidano al pro-life Bosone Mediazione di Franceschini: si fa spazio la linea Rutelli
C'è una notizia buona e una cattiva, per il Pd, sul testamento biologico. Quella buona è che la Commissione Igiene e Sanità del Senato ha due settimane di tempo in più per lavorare sul ddl Calabrò prima di portarlo in Aula (il 19 marzo anziché il 5, come ha deciso ieri la conferenza dei capigruppo recependo l'invito del presidente Schifani). Quella cattiva è che il Pdl è riuscito di nuovo, per il momento, a serrare i ranghi incassando il sì della Commissione Affari costituzionali sul testo (dopo le minacce di sostituzione da parte del Pdl, è rientrato il voto dell'ex dissenziente Malan mentre il senatore Saro pur confermando il suo dissenso ha rinunciato a partecipare alla votazione) sia pure con l'invito a «riformulare in modo meno rigido il comma 2 dell'articolo 2», quello cioè che vieta di sospendere qualsiasi attività medica se ciò comportasse un'accelerazione della morte. Due notizie che hanno convinto il segretario del Pd Dario Franceschini a convocare nella sede del partito, insieme alla capogruppo del Senato Anna Finocchiaro, Ignazio Marino e Dorina Bianchi (rispettivamente ex e attuale capogruppo democratico in commissione Sanità, di opposti orientamenti sul tema), per fare il punto sulla "quarta via" proposta dal cattolico Daniele Bosone che sta lavorando ad un emendamento piuttosto pericoloso per l'unità del Pdl in materia. Anche se, secondo la versione ufficiale, nella riunione «si è parlato d'altro» ma Franceschini avrebbe «strigliato» i due «litiganti» Bianchi e Marino perché, «con una forte esposizione mediatica», continuerebbero «a farsi la guerra in pubblico su un tema così delicato».
In realtà l'emendamento Bosone, che sarà presentato direttamente in Aula e che secondo il suo stesso estensore «non sarà certo un motivo di scontro tra di noi, anzi, la proposta di modifica verrà depositata solo se rappresenterà la posizione dominante nel partito», potrebbe addirittura aumentare i mal di pancia dell'area laica del Pd. Perché la bozza di emendamento - «ci stiamo lavorando insieme con tutti i membri Pd della commissione», afferma una ben disposta Dorina Bianchi - va incontro non poco alla «terza via» di Francesco Rutelli, sempre più apprezzata in casa berlusconiana. In poche parole, Bosone sostiene che la nutrizione e l'idratazione artificiali sono da garantire a tutti tranne che in alcuni eccezionali casi: quando esplicitamente rifiutati nel testamento biologico (come da «orientamento prevalente» nel Pd) e si è in presenza di «morte corticale» (come nel caso di Eluana, ma è un concetto non scientificamente definito). In ogni caso, la decisione finale spetta, secondo la "quarta via" di Bosone, al medico (come vuole Rutelli) ma d'accordo con i familiari. 
E ora in Commissione Sanità - dove i 495 emendamenti accettati verranno messi ai voti verosimilmente giovedì - il Pd aspetterà, come annuncia Dorina Bianchi, di sentire oggi «la replica della maggioranza e del relatore per decidere come comportarci». E già Calabrò ha annunciato per oggi la presentazione di «due miei emendamenti, con cui riscriviamo in modo più ordinato gli articoli 1, 2 e 3 che contengono i principi fondamentali, mentre un altro punto modificato sarà quello relativo al notaio, che pensiamo di sostituire con il medico di medicina generale». Una mossa, quella del relatore di maggioranza, dettata dall'«invito» espresso dalla Commissione Affari costituzionali a riformulare «in modo meno rigido» l'articolo 2 («ci porterà a rileggerlo con attenzione ed eventualmente a precisarlo», è stato il commento dello stesso Calabrò). Anche perché con 15 voti a favore e 12 contrari (10 del Pd e 2 dell'Idv) la Commissione ha concesso infine il suo parere favorevole al ddl. Facile, dopo le minacce di sostituzione che il Pdl aveva rivolto ai due senatori dissenzienti Malan e Saro: il primo ha deciso di votare a favore della costituzionalità del testo e il secondo, sia pure esprimendo il proprio dissenso, ha preferito non partecipare al voto. «Se fosse per me il comma 2 dell'articolo 2 andrebbe abolito, come altri articoli del ddl che sono incostituzionali, - racconta al manifesto Giuseppe Saro - perché è impostato in modo tale che potrebbe portare a vietare perfino la morfina ai malati terminali, e la Commissione ha trovato un modo molto elegante per dire che va modificato profondamente». Dunque, perché il senatore Pdl ha scelto di non votare? «Mi auguro che vengano rimossi in seguito». Altrimenti? «Non è un mistero: voterò contro il ddl Calabrò».

Il manifesto 4.3.09
Padri putativi e coppie gay
Sarkozy sfida gli ultra religiosi
di Anna Maria Merlo



La Francia avrà entro fine mese una legge che precisa i diritti dei genitori putativi, cioè dei nuovi compagni del genitore, a cui Sarkozy vuole «riconoscere diritti e doveri» visto che sono adulti che «allevano dei figli che non sono loro, con lo stesso amore come se lo fossero». Ma la ministra della casa, l'ultrà cattolica Christine Boutin, grida allo scandalo. «Non accetterò che venga riconosciuta l'omoparentalità e l'adozione da parte delle coppie omosessuali in modo surrettizio», ha affermato. Ma la sottosegretaria alla famiglia, Nadine Morano, molto vicina a Sarkozy, ha consigliato alla sua collega di evitare un atteggiamento «passatista e ideologico». Per Morano «si tratta di permettere a colui che alleva un bambino di avere dei diritti nel quadro dell'autorità di genitore condivisa, se c'è un accordo tra i genitori biologici e colui che si occuperà del bambino, attraverso una covenzione omologata dal giudice». In Francia, ha precisato Morano, «ci sono 2 milioni di bambini che vivono in famiglie ricomposte, 3 milioni di famiglie monoparentali e 30mila bambini allevati da due persone dello stesso sesso». La legge «non è sessualizzata» e «concerne tutte le famiglie», ha precisato la sottosegretaria. Il testo riguarda tutti «gli adulti che non sono i genitori biologici»». Per Boutin, che si era distinta nella battaglia contro il Pacs brandendo una Bibbia in parlamento, «il fatto di riconoscere lo statuto legale del genitore putativo rischia di portare al riconoscimento oggettivo dell'omoparentalità e dell'adozione da parte delle coppie omosessuali». In Francia, ci sono già state delle sentenze che hanno riconosciuto i diritti di genitori a entrambi i membri di una coppia omosessuale. L'adozione da parte di una copia omosessuale non è chiaramente permessa dalla legge. Ma tutte le persone di più di 28 anni possono adottare da sole un bambino.
Boutin, che già non è in odore di santità all'Eliseo, con le critiche di ieri potrebbe aver fatto un ulteriore passo verso la porta d'uscita dal governo. È Sarkozy a volere questa legge, che regolamenta situazioni complesse molto diffuse. In Francia, il Pacs, aperto anche agli omosessuali, ha festeggiato i 10 anni: ne erano stati contratti 22mila nel 2000 e sono stati 102.012 nel 2008, in aumento del 33% rispetto all'anno precedente (il 94% sono eterosessuali). In Francia c'è ormai un Pacs ogni due matrimoni, mentre più della metà dei bambini nascono fuori dal matrimonio.

Il manifesto 4.3.09
«Lista unitaria inutile se ci si divide in Europa»
intervista a Paolo Ferrero di Matteo Bartocci



Il segretario di Rifondazione ai promotori dell'appello pubblicato sul manifesto: «Esigenze e critiche pienamente condivisibili ma presentarsi insieme in Italia per poi separarsi nei vari gruppi parlamentari non risponde alla crisi dell'Ue di Maastricht». Con Pdci e Sinistra critica passi avanti per una lista comunista e anticapitalista larga Ferrero (Prc): l'approdo è il Gue. Non andrò a Strasburgo
Condivisibile però... L'unità della sinistra in Italia è inefficace se poi ci si divide in Europa. Paolo Ferrero risponde più o meno così all'appello pubblicato sul manifesto per la lista unitaria alle europee. Unità e rinnovamento della politica, risponde il segretario di Rifondazione, sono condivisibili ma non si può eludere l'approdo, cioè dove e con chi lavorano i possibili eletti a Strasburgo. 
Ferrero, hai appena incontrato alcuni promotori dell'appello pubblicato dal «manifesto». Qual è la tua posizione?
Le esigenze alla base di quel documento sono assolutamente reali e condivisibili. Perché, per esempio, si pone il problema di avere una massa critica in Europa, si esprime il bisogno di aprire i partiti alla società e si fa una critica della politica come attività separata. Però a me pare che sia difficile sfuggire al problema di dove si eleggono le persone in Europa, cioè in quale gruppo vanno a confluire, con chi lavorano. Io ho chiesto ai promotori dell'appello che il punto di riferimento per tutti sia il Gue, il gruppo della sinistra europea. Ci sono la sinistra verde nordica, il Pcf e gli anticapitalisti di Besancenot francesi, la Linke tedesca e Izquierda unida. Mi sembrerebbe assurdo, e va evitato, che in Italia ci sia una lista di sinistra di cui non si sa dove vanno a finire gli eletti. Anche perché quest'ambiguità insieme al meccanismo delle preferenze rischia di innescare comportamenti che invece di unire dividono, e che possono degenerare in una vera balcanizzazione. 
Sabato sarai all'assemblea di Firenze?
Non personalmente perché ho un impegno a Milano con Bisky (Linke) e il segretario del Synaspismos greco. Ma Rifondazione ci sarà sicuramente. Il tema dell'unità della sinistra è reale ma va declinato con la storia del movimento operaio di questo paese. La falce e martello non è un fatto secondario per dire chi sei. Comunque, una volta deciso dove si va, lavorerò perché le liste siano più larghe possibile. 
In questi giorni stai avendo una serie di incontri sulla lista comunista e anticapitalista che il Prc presenterà alle europee. A che punto siete?
Noi abbiamo proposto questa lista unitaria e allargata che ha come riferimento il Gue. E' un progetto che deve rispondere al doppio fallimento di questi anni: quello del neoliberismo e quello dell'Europa dei banchieri così com'è stata costruita finora. Il tema di fondo è l'uscita da sinistra alla crisi. E' chiaro che per far questo lo spazio europeo è decisivo. Noi siamo alternativi alla grande coalizione socialisti-popolari che ha governato disastrosamente l'Europa negli ultimi vent'anni. Ti faccio un esempio solo: la crisi pone chiaramente il tema dell'intervento pubblico nell'economia. Ma è altrettanto chiaro che per me le banche devono essere nazionalizzate perché mettano il credito a disposizione della rivoluzione ambientale. Il comunismo insomma è attuale ma va innovato. Per me la difesa dei consumatori, oggi, va affiancata a quella dei lavoratori.
Nei giorni scorsi sono circolate indiscrezioni su una tua rottura col Pdci.
Non ci sono particolari malumori. E' chiaro che la discussione è appena cominciata. Sono fiducioso che faremo un'operazione vera, insieme a partiti come Pdci o Sinistra critica ma anche a movimenti e sindacati, associazioni di consumatori e comitati territoriali. E' un lavoro unitario e quindi i prossimi passi li faremo assieme.
A proposito di unitarietà. Di sicuro il vostro simbolo sarà quello di Rifondazione. Ma Pdci e Sinistra critica, per esempio, hanno già chiesto modifiche contro possibili «annessioni». Lo cambierete?
Noi abbiamo sempre detto di «partire» dal simbolo di Rifondazione. Di sicuro vanno evitate robe irriconoscibili come un «triciclo». Falce e martello non racchiudono tutto ma smettiamola con la retorica dell'«andare oltre». 
Secondo Grassi e Giannini, due dirigenti del tuo partito, i segretari di Prc e Pdci si dovrebbero candidare alle europee. Accogli questa richiesta?
Guarda, sicuramente io non farò il parlamentare europeo. Anche per un fatto morale, penso che il segretario di un partito nelle condizioni in cui ho ereditato Rifondazione ha il dovere di restare al suo posto senza che alla prima elezione trovi qualche collocazione diciamo così più comoda... però sull'opportunità o meno di candidarsi si vedrà. Dipende dall'efficacia. 
Intanto però mentre l'ex Arcobaleno discute Di Pietro vola nei sondaggi e probabilmente piace anche a sinistra. E' un fenomeno che ti preoccupa?
Di Pietro sfrutta un doppio vantaggio: da un lato è l'unica opposizione parlamentare a Berlusconi, dall'altro ha un partito a conduzione personale con cui riesce a capitalizzare al massimo la crisi del Pd e la delusione di quell'elettorato. Penso però che l'Idv non risponda al tema della crisi. Nel governo Prodi Di Pietro non era certo con noi contro la legge 30 o sulla tassazione delle rendite. Può evitare che la destra si rafforzi ma la verità è che finora il consenso a Berlusconi non è calato di un millimetro. La carta giustizialista è la sua forza ma anche il suo limite.