venerdì 6 marzo 2009

Repubblica 6.3.09
E la donna violentata a Primavalle: non sono più sicura del riconoscimento
Stupro, nuovo test del Dna scagiona i due romeni
di Marino Bisso


ROMA - Un nuovo test del Dna scagiona i due romeni arrestati per lo stupro commesso la sera di San Valentino nel parco romano della Caffarella: il codice genetico dei violentatori è diverso da quello di Karol Racz e Alexandru Isztoika Loyos. E la donna stuprata a Primavalle non è più sicura del riconoscimento di Racz come uno dei suoi aggressori.

Anche le nuove analisi della Procura confermano che il Dna dei violentatori della quattordicenne aggredita con il fidanzatino a San Valentino non corrisponde ai due romeni arrestati quattro giorni dopo lo stupro. L´esito resta dunque negativo e di conseguenza favorevole ad Alexandru Isztoika Loyos, 20 anni, "il bondino", e Karol Racz, 36 anni, "il pugile" entrambi accusati della brutale violenza nel parco della Caffarella. Ma intanto un nuovo ordine di arresto è stato disposto per Racz, il pugile, indagato per un secondo stupro, avvenuto la sera del 21 gennaio, nel quartiere romano di Primavalle. Ad accusarlo è la quarantenne aggredita che, la scorsa settimana, lo ha indicato durante un faccia a faccia. Anche se in serata la donna intervistata da Annozero ha detto di non essere più così sicura: «Racz è molto somigliante ma non potrei giurarci e finché non sarò sicura al 100 per cento non dirò mai che lo sono».
I nuovi test, compiuti da Carla Vecchiotti, genetista della Sapienza, hanno quindi confermato quanto già stabilito dalla scientifica: ossia che il Dna estratto dai tamponi, dai mozziconi di sigarette e da altri oggetti non è di Loyos e di Racz. In procura precisano che l´attività di laboratorio non è ancora conclusa. Gli esperti devono ancora ultimare gli esami sugli indumenti della ragazzina e sul trench beige con una macchia di sangue che la proprietaria di un bar diede alla ragazzina dopo lo stupro. Intanto gli esperti hanno accertato che anche il Dna del fidanzatino è diverso dai due profili genetici identificati.
Restano dunque due "verità" contrapposte contro i due romeni arrestati. Da una parte c´è l´attività investigativa basata sul riconoscimento delle vittime e sulla confessione piena e particolareggiata di Loyos. Dall´altra ci sono invece i riscontri scientifici con i Dna differenti dai due indagati. Nonostante le discordanze, la procura è decisa a ribadire le accuse: sarà dunque il Tribunale a doversi pronunciare. Le indagini comunque vanno avanti: gli investigatori sentiranno un uomo detenuto da tempo in Romania, perché il suo cromosoma Y è compatibile con il Dna rinvenuto alla Caffarella. Non è certo lui l´autore della violenza ma gli inquirenti vogliono capire se un suo familiare possa essere implicato nello stupro della quattordicenne.

il Riformista 6.3.09
Ditemi voi se non è razzismo parlare di «dna romeno»
di Piero Sansonetti


Esagero quando dico che il razzismo, in Italia, è un male che sta dilagando? E quando dico che una parte della stampa favorisce questo dilagare? Mi pare di no. Provo a dimostrarvelo.
Ieri due giornali conservatori - Libero e il Giornale - hanno polemizzato contro chi nei giorni scorsi si era un po' indignato per la vicenda dei due giovani romeni accusati dello stupro della Caffarella (linciati dai mass media e poi scagionati dalla prova del Dna). In particolare i due giornali criticavano un mio articolo, pubblicato ieri l'altro sul Riformista nel quale sostenevo due tesi. La prima è che le Tv e i giornali italiani hanno il linciaggio facile. Basta una parola della polizia o una soffiata di un giudice per emanare la sentenza di condanna ed esporre l'imputato al pubblico ludibrio.
La seconda tesi è che nel nostro paese sta montando il pregiudizio razzista.
La base del pregiudizio è evidente in molti giudizi e cronache sugli accusati dello stupro alla Caffarella. Si è arrivati a parlare di un cromosoma Y che identificherebbe la nazionalità romena. Il concetto è chiaro: hanno un patrimonio genetico diverso dal nostro. Dunque, sono una razza.
Quando dico "pregiudizio razzista" mi riferisco a quell'idea secondo la quale esistono alcuni gruppi etnici, o popoli, o nazionalità, "portati" per propria natura al delitto, o a un particolare tipo di delitto. Sostenevo che questo pregiudizio è la base, il pilastro del razzismo, dai secoli dei secoli (gli ebrei complottano, gli zingari rubano i bambini, i romeni stuprano, i neri sono forti e violenti…); ed è la struttura ideologica sulla quale poi crescono le degenerazioni più feroci (l'antisemitismo, il Ku Klux Klan, o addirittura il nazismo).
Michele Brambilla, sul Giornale, mi fa una contestazione ragionevole. Dice: attenti a non confondere forcaiolismo e razzismo. Giusto, ha ragione. Sono due fenomeni diversi. Anche se spesso - ma non sempre - tendono a sovrapporsi, o ad allearsi. Dice Brambilla: i giornali hanno sbattuto in prima pagina mostri romeni, ma anche mostri italiani o di altri paesi, e li hanno spolpati ben bene prima che giungesse l'assoluzione. E poi non hanno di sicuro dedicato all'assoluzione lo stesso spazio e la stessa enfasi dedicata alle accuse e alle notizie infamanti (e false). Condivido l'obiezione, ma credo che non mi riguardi: ho scritto migliaia e migliaia di righe contro il forcaiolismo, anche contro quello che se la prende coi potenti, e appena qualche giorno fa - abbastanza isolato - mi sono schierato, proprio dalle colonne del Riformista, a favore della legge che vieta la pubblicazione delle intercettazioni.
Fausto Carioti, su Libero, fa invece un ragionamento diverso, e mi offre un argomento formidabile per rispondere a Brambilla del Giornale. Non posso che dire a Brambilla: leggiti l'articolo di Carioti e poi dimmi se non pare anche a te che il razzismo stia dilagando sui nostri giornali. Cosa scrive Carioti?
Diciamo che anche lui ha qualche dubbio sulla colpevolezza dei due romeni. Ma non ha dubbi - sembra di capire, o comunque ne ha pochissimi - sulla colpevolezza "dei romeni". In che senso? Dovrei copiare quasi tutto l'articolo per farvi capire bene il ragionamento, ma mi limito a trascriverne la frase chiave: «Gli investigatori hanno svolto un esame genetico sperimentale sul cromosoma "Y" degli aggressori (della ragazza della Caffarella, ndr). I dati ottenuti confermano che, molto probabilmente, costoro appartengono all'etnia romena».
Non mi sembra che questa affermazione abbia bisogno di spiegazioni. Vuol dire questo: i romeni hanno un patrimonio genetico diverso da quello nostro, di noi "bianchi". Sono una razza.
Ecco, questa è esattamente la base teorica del razzismo. Cos'è il razzismo? La teoria secondo la quale gli esseri umani non sono tutti uguali, ma sono divisi in razze - e naturalmente se le razze sono diverse ce ne saranno di superiori e di inferiori - e queste razze, sulla base della loro diversità biologica hanno anche diversità comportamentali. Dopo la tragedia del fascismo e del nazismo (e l'orrore del manifesto della razza, pubblicato in Italia nel 1939) il razzismo, nel nostro paese, sembrava sostanzialmente sconfitto. Anche perché la scienza aveva accertato e solennemente dichiarato che le razze non esistono. Oggi, purtroppo - è questo l'allarme che lanciavo col mio articolo - il razzismo sta riprendendo piede. Io non uso più questo termine, come facevo 10 anni fa, come insulto. Il razzismo, secondo me, è così diffuso nell'opinione pubblica, da essere diventato un punto di vista. Anche se infondato, anche se antiscientifico, anche se davvero pericolosissimo, è un punto di vista che ad esempio il collega Carioti rivendica puntigliosamente nel suo articolo. Articolo che, con una vecchia battuta, può essere riassunto così: «Non sono io razzista, sono loro che sono rumeni!».

Corriere della Sera 6.3.09
Sentenza a Bolzano
Albanese fu scambiato per pedofilo: condannate le mamme che lo aggredirono
di Toni Visentini


BOLZANO — Aveva rischiato il linciaggio un netturbino albanese scambiato per pedofilo in un quartiere popolare a Bolzano. Ora cinque degli aggressori, un uomo e quattro donne, hanno patteggiato un anno di reclusione ciascuno per l'aggressione.
L'equivoco era nato due anni fa a luglio: l'operaio — sposato e padre di due figli, regolarmente in Italia da quattro anni e addetto alla raccolta dei rifiuti umidi — stava raccogliendo le immondizie quando si era messo a scherzare con un paio di ragazzini, di 10 e di 12 anni. Uno dei due bambini era stato inavvertitamente toccato alla nuca dall'albanese intento a mimare un gioco. Il ragazzino era andato a casa, aveva raccontato la cosa alla madre che si era agitata e l'aveva raccontata ad altre donne, interpretando male quello che invece poi si era rivelato uno scherzo del tutto innocente, amplificato nel racconto degli interessati fino ad ingigantirsi nel passaparola tra le madri. Quasi un centinaio di persone, tra cui molte donne, si erano così fatte attorno all'operaio aggredendolo a calci e sberle. Ad evitare quello che sarebbe potuto risultare un vero e proprio linciaggio era stato l'intervento della polizia. Alla fine l'albanese, terrorizzato, era stato sottratto alla folla ed era stato accompagnato all'ospedale per accertamenti. La vicenda aveva suscitato molto scalpore in una città tutto sommato tranquilla come Bolzano, dove la cittadinanza non è solita cercare di farsi giustizia da sé. Era anche intervenuto il sindaco Luigi Spagnolli, che aveva chiesto ufficialmente scusa al lavoratore straniero a nome di tutta la città. «Occorre riflettere su quanto è accaduto — aveva detto — ma credo che non si tratti di xenofobia vera e propria». «La vicenda — aveva aggiunto— è nata da un equivoco e forse l'uomo non ha potuto spiegarsi a sufficienza a causa della lingua. Non per questo i bolzanini vanno criminalizzati, dato che si tratta di un episodio unico, causato forse dall'isterismo di massa».

Repubblica 6.3.09
Il Grande Fratello a Roma una super-centrale per sorvegliare la città
Gli industriali al sindaco: "Tutte le telecamere in rete"
di Eugenio Occorsio


L´obiettivo è cablare la capitale: "La tecnologia è meglio dei volontari"

ROMA - Telecamere ovunque, a partire dalle zone periferiche ad alto rischio. E un grande network ipertecnologico che le colleghi tutte ad una centrale operativa unica, in Comune o in questura. È il progetto "Roma città sicura" che l´Unione Industriali ha presentato al sindaco Gianni Alemanno. «Si è detto entusiasta, non la finiva più di chiederci dettagli», racconta Aurelio Regina, che dell´Unione è presidente. «Non si può andare avanti con i militari a mitra spianato - dice Regina - e delle ronde non voglio neanche parlare. L´unica soluzione per la sicurezza è la tecnologia». Il piano è la prima parte di un maxiprogetto per il digitale a Roma da 600 milioni di euro di investimenti in cinque anni. Il prossimo appuntamento, il 24 marzo, è con il ministro dell´Interno, Roberto Maroni. «Si tratta di posare centinaia di chilometri di fibre ottiche di nuova generazione che colleghino in una rete le migliaia di telecamere (6.000 solo quelle comunali, ndr) che ci puntano da ogni angolo della città, aggiungendone anche di altre nelle zone più oscure e più periferiche dell´area metropolitana».
Oggi le telecamere inviano le immagini tutt´al più a qualche postazione locale o a qualche gabbiotto di sicurezza senza "dialogare" le une con le altre. «La sfida è di metterle tutte in una rete interattiva, e di creare una vera cabina centralizzata dove personale qualificato, appartenente ad un corpo pubblico, le tenga sott´occhio». Anche le sale operative delle polizie private dovranno essere associate in questo network: la regia sarà al Campidoglio o in una sede del Viminale. Secondo il progetto, dovranno essere razionalizzate e tenute sotto controllo pubblico le immagini provenienti dai ministeri, da strade, banche, negozi, stadi, musei, stazioni della metro. E poi quelle che saranno riprese nei prati più sperduti di periferia. Non saranno più le immagini annebbiate e sfocate di oggi ma quelle nitidissime e sonore che le fibre ottiche potranno trasmettere. Perché la qualità, come la tv ad alta definizione, si ottiene con la velocità di trasmissione: le fibre esistenti garantiscono una capacità di 60 megabyte, quelle future si avvicineranno a 100. Per confronto, l´Adsl che porta Internet nelle case ha una potenza fra i 20 e i 50 megabyte.
«La nuova rete - precisa Regina - servirà innanzitutto per garantire Internet veloce a tutti. Nei tratti dove non sarà possibile arrivare con la fibra ottica, interverranno reti cellulari anch´esse di nuova generazione. Ma il primo utilizzo del network sarà per la sicurezza». Della rete faranno parte i "lampioni intelligenti" equipaggiati con sensori in grado di identificare se ci sono armi in zona, e con display per avvisi di pubblica utilità. I cavi elettrici, opportunamente ammodernati, saranno sufficienti a portare il segnale alla rete ottica. Che sarà realizzata per lo più da Telecom e comprenderà i pochi tratti di fibra "posati" a suo tempo da operatori come Fastweb, Colt e Bt. «Il sindaco ci ha garantito che renderà più rapido, con le opportune modifiche normative, l´iter autorizzativo per realizzare gli scavi, che comunque saranno, ancora grazie alle tecnologie, meno invasivi di quelli cui siamo abituati».

Repubblica 6.3.09
"Un problema per la privacy Più informazioni ai cittadini"
di Vladimiro Polchi


ROMA - «Telecamere private con funzioni di pubblica sicurezza? È un problema enorme ed è già in calendario un nostro provvedimento». Francesco Pizzetti, Garante per la privacy, non cela la preoccupazione di fronte all´ipotesi di un "grande occhio" che controlli tutto e tutti.
Eppure a Roma vogliono mettere in rete telecamere pubbliche e private.
«È un fenomeno già sorto negli ultimi tre anni, con l´introduzione di agevolazioni fiscali per incentivare la messa in collegamento delle telecamere private con sale aventi funzioni di pubblica sicurezza. Il problema si è ora accentuato con il pacchetto sicurezza e il decreto anti-stupri, perché si connette ai maggiori poteri dati ai sindaci e al federalismo sulla sicurezza».
Cosa può fare il Garante?
«Stiamo lavorando a un provvedimento che integri quello del 2004 sulla videosorveglianza. Una cosa è certa: se la telecamera privata è collegata con la questura, questo va detto ai cittadini, con un´informativa davvero esaustiva. Non è tutto. Martedì prossimo in un incontro al ministero dell´Interno vedremo se è possibile convincere il Viminale a segnalare anche le telecamere pubbliche con funzioni di sicurezza».

Repubblica 6.3.09
Bossi al Pd: doveroso l’accordo sul fine-vita
Nuovo rinvio per il ddl. Braccio di ferro su volontà del malato e ruolo del medico
Bianchi: "Se non cambia l’articolo 1 non lo voterò". D’Alema: è una legge mostruosa
di c.l.


ROMA - Nuovo rinvio, questa volta di cinque giorni, per favorire un´intesa sul testamento biologico. Al Senato la commissione Sanità che esamina il ddl e il suo carico di 553 emendamenti prende altro tempo. La maggioranza apre spiragli di confronto su due nodi delicati del testo, il consenso informato e la nutrizione artificiale. Ma il Pd resta cauto, pone le sue condizioni, non giudica quelle delle vere aperture.
E in attesa della ripresa del confronto, martedì prossimo, Umberto Bossi lancia più che un semplice invito ai contendenti: «Bisogna assolutamente trovare un accordo» possibilmente «ragionando». Massimo D´Alema resta scettico: «Se non si corregge questa proposta mostruosa il rischio è fare una norma che ci mette al di fuori dei paesi civili». E, un po´ a sorpresa, anche la cattolica del Pd Dorina Bianchi, reduce dal faccia a faccia di pochi giorni fa col segretario Franceschini, cambia registro: «Se la maggioranza non accoglie le nostre richieste di modifica sull´articolo 1, non sarò più disposta a votare questo testo». Tanto che perfino il suo "avversario" interno, Ignazio Marino, ammette che la collega «ha cambiato atteggiamento, anche se sarebbe stato preferibile come capogruppo qualcuno che condividesse la linea del partito». Il presidente del Senato Renato Schifani si dice fiducioso, l´intesa è possibile e «la concessione di più tempo favorisce il confronto costruttivo».
Si riprenderà con la riunione informale tra i capigruppo che il presidente della commissione Sanità, Antonio Tomassini, ha convocato per martedì. Per l´aula, il 18 marzo, c´è tempo. Ieri mattina il Pd si è presentato in commissione con un emendamento, prima firmataria la Finocchiaro, con cui si precisa che «l´attività medica è esclusivamente finalizzata alla tutela della vita e della salute», come già dispone il testo del Pdl, aggiungendo che quell´attività tuttavia deve essere «sempre subordinata all´espressione del consenso informato». Nessun accanimento, ma rispetto della volontà del malato, in sostanza. Proposta che tuttavia il relatore Calabrò (Pdl) ha giudicato «inaccettabile». Il democratico Marino non esclude il ricorso all´ostruzionismo e la Finocchiaro rincara mette in guardia: «Se si tenta di eludere questo principio, allora non possiamo intenderci. Occorre un cambiamento di filosofia». Il nodo resta. Il Pdl invece apre su idratazione e nutrizione: «Stiamo lavorando per trovare posizioni comuni, credo che arriveremo a un accordo» sostiene Calabrò. E lo spera il senatore valdese del Pdl Lucio Malana, che annuncia che il suo sarà un voto «del tutto libero da vincoli» e spera che nel partito non prevalga la linea «collaterale al Vaticano». I costituzionalisti riuniti da Astrid di Giuliano Amato intravedono già la possibilità di un ricorso alla Consulta dopo il varo della legge.
(c.l.)

Repubblica 6.3.09
Le colpe dell’opposizione
di Nadia Urbinati


La lunga marcia della sinistra italiana verso il nichilismo è cominciata alla Bolognina, poche settimane dopo la caduta del Muro di Berlino � è utile rammentarla per capire in quale grave situazione ci si trova ora. Non ho consultato gli archivi del Pci-Pds per verificare se la decisione di abolire un partito (allora si disse "cambiare nome") fosse stata presa collegialmente dalla Segreteria o dal Comitato Centrale. Ma per noi spettatori lontani, quella fu la decisione di un capo. Il quale dall´alto della sua personale opinione decretò che era tempo di cambiare: era la storia a chiederlo, disse. Molto probabilmente il mutamento era indispensabile; anzi lo era certamente. Ma venne effettuato nel peggiore dei modi possibili. Con un atto discrezionale, senza una deliberazione collettiva e ponderata; senza andare all´origine ideologica e ideale di quel cambiamento, che restò di facciata e vuoto di contenuti. Come un cambiar d´abito si passò dal comunismo di facciata al liberalismo di facciata (spesso al liberismo, naturale vicino di casa dell´economicismo marxista).
E da allora questo fu il metodo accreditato presso i dirigenti del maggiore partito della sinistra. Un metodo decisionista e personalista, che anticipava quello che ora tanto deprechiamo del Presidente del Consiglio. Un metodo anti-deliberativo, tipico di monarchie assolute o reggenti dispotici; un metodo che consiste nel decide d´arbitrio prima, per poi convocare organismi collettivi o congressi straordinari per legittimare post-factum quella decisione e soprattutto farla digerire al popolo subalterno. In questo stesso modo da allora il partito ha deciso-e-digerito altre risoluzioni, quasi tutte improvvide e sbagliate. Tra le peggiori delle quali c´è senza dubbio la famigerata bicamerale, quell´improvvida politica che ha fatto della nostra Costituzione una merce di scambio politico per creare alleanze e che, soprattutto, ha legittimato il patrimonialismo di Forza Italia. Il paese stava assistendo attonito e impotente alla formazione veloce e pericolosa di un potere assoluto � quello mediatico-patrimoniale - e i leader dell´opposizione hanno con grande intelligenza pensato bene di giustificarlo e legittimarlo, invece di imbrigliarlo e contenerlo. Hanno pensato di farvici accordi e usare l´arma del compromesso senza far troppo caso al fatto che solo tra eguali ci si può accordare; perché chi ha un potere sovrastante fa quello che vuole, e non onora gli accordi. Per fare accordi occorreva prima limitarne il potere. Il contrario sarebbe stato, come fu, un assurdo. Avevano mai avuto modo di leggere Locke o Montesquieu nei ritagli di tempo i dirigenti della sinistra?
Come in una giostra medievale, a forza di fendenti e picconate, la sinistra é stata ridotta a un´ombra di se stessa. Ed é ammirevole che i suoi elettori abbiano resistito per tanto tempo, impotenti di fronte alle violenze e improvvide offese dei capi. Da invenzione a invenzione: perfino imitando slogan di altri partiti in altri paesi (come faceva notare il corrispondente dall´Italia per il New Yotk Times dando l´annuncio delle dimissioni di Walter Veltroni) e mettendo insieme cose che non possono stare insieme, come il governo ombra britannico e il partito elettorale americano, un guazzabuglio che è stato degno di un apprendista stregone. Infine, a completare il capolavoro, le primarie: un metodo di selezione dei candidati che prevede un partito consolidato e infine una struttura federale del partito stesso: senza di che diventa guerra fratricida fra le mura delle città e delle contrade; il nemico sta dentro, con grande godimento dell´avversario vero che sta fuori. E poi, si può adottare un metodo che vive di conflitto a fondamento di un partito che ha bisogno di grande unità, almeno per stabilizzarsi? Metodi anti-democratici e rozzi, strutture e procedure sbagliate. E che cosa dire dei contenuti?
Sarebbe interessante sapere in che cosa credono questi dirigenti: sulla rappresentatività del sistema elettorale, sulla scuola pubblica, sulla giustizia sociale, sul conflitto di interesse, sulle politiche per affrontare la crisi economica, sul pluralismo religioso, sulla divisione tra stato e chiesa, sui diritti umani fondamentali, ecc. Non ci è mai stato detto con chiarezza: perché non era possibile fare chiarezza, visto che non c´era davvero un´unità di ideali e prospettive politiche, di alcuni ideali in particolare come quelli relativi all´interpretazione dei diritti individuali o dello stato laico. E infine, una nota dolentissima ma purtroppo realistica: molti dirigenti del Pd "vivono di" politica parlamentare essendo la politica il loro lavoro principale; questo dà loro una naturale disposizione all´inerzia e al rattoppo. Non dal centro potrà venire il rinnovamento. E di un rinnovamento di uomini e di donne c´è urgente bisogno. Senza del quale l´opposizione si consegna all´avversario e ne sancisce un potere già pericolosamente ingombrante e ai margini della costituzionalità. L´opposizione ha una responsabilità enorme, non solo o tanto verso i propri elettori, ma prima ancora e soprattutto verso i cittadini italiani: la responsabilità di contribuire a fare del paese una dittatura eletta.

il Riformista 6.3.09
Nuovo stop lo ha deciso l'assemblea di redazione, anche stamattina il quotidiano non sarà in edicola. Soru non cambia piano
L'Unità sciopera ancora e spera nel piano Epifani
di T. L.


AGLI SGOCCIOLI. Non passa la soluzione "lacrime e sangue" di Mr. Tiscali. Lo stato d'insolvenza è dietro l'angolo. Il leader Cgil, con l'aiuto di Fassino, ha il ruolo del Cavaliere nell'affare Alitalia.

La crisi avanza e la dead line dello «stato di insolvenza» (fissata per ora il 23 marzo) si avvicina. Al momento in cui il Riformista va in stampa, la redazione dell'Unità ha appena deliberato il secondo dei cinque scioperi previsti dal pacchetto votato giorni addietro: a meno di colpi di scena, oggi i giornalisti non lavoreranno per cui domani il quotidiano diretto da Concita De Gregorio non sarà in edicola.
Il piano lacrime e sangue proposto dall'editore Renato Soru - tra cinghie da tirare, collaborazioni da tagliare e prepensionamenti in massa - rimane praticamente intatto sul tavolo. Non a caso, infatti, l'incontro di ieri pomeriggio tra il comitato di redazione e l'amministratore delegato Antonio Saracino è stato sospeso (riprenderà oggi) per consentire al sindacato interno di discutere con i colleghi le (poche) novità. «La situazione è praticamente la stessa degli altri giorni. Segnali rassicuranti da parte dell'azienda non se ne vedono. A questo punto provvederemo ad aprire una vertenza sotto l'egida della Fnsi», dicono dalla redazione. C'è un solo punto che azienda e lavoratori del giornale fondato da Gramsci hanno messo a segno nella giornata di ieri. Come d'improvviso, sul tavolo del negoziato, s'è materializzato un milione e mezzo di euro, una specie di «contributo alla causa» arrivato - pare - da un investitore misterioso.
Renato Soru, quindi, tiene il punto. E conferma, cosa che ha fatto spiegato sia a Dario Franceschini che a Piero Fassino, la sua «non disponibilità» a rimanere il sella come propietario unico della testata. In poche parole, mister Tiscali è disposto a far sopravvivere l'Unità solo nel caso in cui altri investitori si facciano avanti. Non è una cosa facile, soprattutto di questi tempi. L'azienda ha bisogno di denaro liquido da far confluire nelle sue casse ma la pre-condizione per attrarre nuovi investitori è il pareggio dei conti in tempi rapidi. E a quell'obiettivo, ha fatto capire l'ex governatore sardo agli uomini di stretta fiducia, si arriva soltanto con un piano straordinario. Lo stesso contro cui l'assemblea di redazione ha deciso il secondo giorno di sciopero.
L'identikit dei nuovi investitori? La Legacoop s'è chiamata ufficialmente fuori dalla mischia. Con una nota diffusa alle agenzie, l'associazione delle cooperative ha precisato che «non rientra nella sua missione, e peraltro le è vietato dalla legge, partecipare a eventuali cordate o società che dovessero rilevare quote azionarie del capitale della società editrice dell'Unità». Ma, ha aggiunto, «qualora i lavoratori, i giornalisti e i poligrafici decidessero di costituire una cooperativa e di diventare così i proprietari o i gestori della testata, essi potranno sicuramente trovare il supporto e l'assistenza di Mediacoop, come è stato per il manifesto».
L'ultima speranza è Guglielmo Epifani. Il leader della Cgil è davvero intenzionato a cercare imprenditori per una cordata che rilevi il quotidiano. E, come spiegano al partito, il ruolo che il numero uno del sindacato di corso Italia sta cercando di ritagliarsi sul dossier, nel metodo, «è praticamente identico a quello che Berlusconi giocò sulla vendita di Alitalia»: trovare imprenditori affidabili (e amici) per fare dell'Unità il primo, vero, «giornale del lavoro».
L'uomo che sta seguendo la vicenda per conto Epifani è Fulvio Fannoni. Che ieri, in un'intervista all'Adn-kronos, ha escluso nuovamente l'ingresso della Cgil nella compagine azionaria. Ma ha chiarito: «Il sindacato, chiarita nei particolari la situazione di crisi, studierà possibili interventi per aiutare una testata che è tra le poche che tratta le problematiche del mondo del lavoro. Quando sapremo qualcosa di preciso innanzitutto sentiremo la Fnsi. Naturalmente occorre che anche la proprietà si muova con l'attenzione che una testata del genere si merita». È un messaggio a Soru. Della serie: se resisti, gli imprenditori li troviamo. Lo stesso, identico messaggio che il governatore sardo ha sentito dalla viva voce dell'altro protagonista della trattativa per il salvataggio dell'Unità. Che è l'ex segretario dei Ds, Piero Fassino.

il Riformista 6.3.09
il nuovo quotidiano e l'editore "girotondino"
Fazio aspetta "Il fatto", «Padellaro ci sta lavorando»
di Serenella Mattera


Il fatto, in onore di Enzo Biagi. Il nome già c'è. E c'è anche un direttore: Antonio Padellaro. C'è una sfilza di illustri firme pronte a seguirlo: da Furio Colombo a Marco Travaglio, da Oliviero Beha a Nicola Tranfaglia. Perché il predecessore di Concita De Gregorio sta progettando un nuovo quotidiano, che all'Unità vuole rubare firme e anche lettori. Non è un segreto. E Padellaro sminuisce, ma non smentisce: «Per ora è solo un desiderio, un'idea». Manca, a dare concretezza, il nome dell'editore. Ma un editore interessato già c'è. È Lorenzo Fazio, fondatore di Chiarelettere: «Padellaro sta ancora lavorando al progetto - dice - Io per ora non ho in mano niente. Non so. Certo, di un quotidiano o un periodico abbiamo sempre parlato».
Chiarelettere è una piccola casa editrice nata nel 2007, con l'ambizione di creare «uno spazio dove l'informazione e la cultura possano sottrarsi all'influenza sempre più evidente» del potere, «di qualsiasi colore politico». Precisazione importante, quest'ultima, per sgombrare il campo da una delle voci circolate ultimamente: che proprio Chiarelettere potesse finanziare un quotidiano di area dipietrista. E invece Fazio ha sempre seccamente smentito. Lui, che viene da Bur e ancor prima da Einaudi, si è dedicato finora a libri d'inchiesta e saggi politici e ha diversi blog impegnati sullo stesso fronte. Perché «adesso il cuore dell'informazione è sempre più sul web - spiega - Ci stiamo concentrando lì, poi vedremo». E quel «vedremo» potrebbe essere proprio il nuovo quotidiano che Padellaro sogna. L'incognita più grande pare essere la sostenibilità del progetto, i soldi. «Dovremo valutare - dice Fazio - cosa si può fare in un momento come questo, in cui l'editoria è in crisi, l'Unità è in crisi». E proprio a proposito di Unità, i soliti ben informati segnalano un incontro, venerdì scorso, tra l'editore di Chiarelettere e Giandomenico Celata, consigliere d'amministrazione di Nie, la società editrice del giornale fondato da Gramsci. Ma questa, forse, è un'altra storia.
Per ora c'è l'attesa che precede una discesa in campo. Trepidano gli "epurati" della gestione Soru-De Gregorio, come Sandra Amurri e Fulvio Abbate («Va da sé che ci sarò», dice lui). Ma a tifare per il primo degli "epurati", Padellaro appunto, ci sono anche giornalisti ancora in forze all'Unità, come Maurizio Chierici e soprattutto Marco Travaglio, certo di spostare un buon numero di copie e che ha contribuito al nuovo libro di Padellaro. Uscirà per Baldini Castoldi e Dalai editore ad aprile e racconterà il potere e la politica. Anche attraverso le ultime vicende dell'Unità.

Repubblica 6.3.09
Da George Orwell alla Bibbia i classici che fingiamo d’aver letto
L´esperto del settore Giuliano Vigini: "Ora c´è anche lo zapping tra i capitoli"
di Maria Novella De Luca


Secondo un sondaggio realizzato in Gran Bretagna il 65% delle persone millanta letture in realtà mai fatte Tra gli autori più citati anche Tolstoj e Joyce. E in Italia subiscono la stessa sorte molti titoli di Pavese e Svevo

C´è chi dice "Proust", chi sussurra "Musil", chi ammette "Joyce", chi confessa "Tolstoj", chi ancora "Svevo", chi, a mezza voce, aggiunge "Flaubert, Eco, Pavese". E poi: quante sono le case dove non esiste una Bibbia, il libro più venduto al mondo? Poche, almeno nell´universo occidentale, ma dall´acquistarla a leggerla il passo è lunghissimo. Benvenuti nel mondo dei lettori bugiardi, anzi dei "non lettori" che citano però con sicurezza incipit e risvolti di copertina di tomi mai aperti e consumati oltre la prima pagina. Con un bel po´ di cattiveria e di british humour, in vista della giornata mondiale del libro, un sondaggio inglese ha "conteggiato" quanti sono i lettori che confessano di aver mentito dicendo di aver divorato classici in realtà conosciuti soltanto per sentito dire. Una classifica del tutto particolare dove il 65% degli intervistati ammette di aver pronunciato ben più di una bugia, raccontando ad esempio di aver letto "1984" di George Orwell, "Guerra e pace" di Tolstoj (31%), "Ulisse" di James Joyce (25%), o la Bibbia (24%). Motivo della bugia? Vergogna per la propria refrattarietà a capolavori così noti, ma soprattutto così lunghi.
Una lista a cui Giuliano Vigini, direttore dell´Editrice Bibliografica, ma soprattutto grande esperto di mercato editoriale, aggiunge alcuni nomi notissimi dell´universo del "non letto", a cominciare da "L´uomo senza qualità" di Musil, passando per la "Coscienza di Zeno" di Svevo, "Madame Bovary», alcuni «capolavori italiani come "Horcynus Orca" di Stefano D´Arrigo, molto citato, quasi mai aperto». Del resto, dice Vigini, oggi la categoria più diffusa è quella del "lettore zapping", che vuole arrivare velocemente alla fine del libro, e dopo 30 pagine «tende a lasciare lì il romanzo, in un mercato editoriale che propone 160 novità al giorno, come non sentirsi spaventati da volumi che sfiorano le mille pagine?».
In realtà si scopre che qualche bugia qua e là l´hanno detta un po´ tutti. Tranne forse Luciana Littizzetto, che confessa «di aver abbandonato "Anna Karenina" talmente tante volte, da poterne citare a memoria l´inizio: "Tutte le famiglie felici si assomigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo"». Dice Littizzetto: «No, non ho mai peccato in questo senso, anzi tendo ad arrivare fino in fondo ai libri, anche a costo di indigestioni letterarie. Credo però che i lettori-mentitori siano una categoria in crescita. Del resto basta andare su Google, dare una sbirciatina, rubare qualche frase, ed ecco che si riesce a buttare lì quella citazione che ti fa passare da gran sapiente». Si confessa invece "leggermente bugiardo" Paolo Villaggio, che ricorda con ironia «una sera, a casa di Alberto Moravia, mentii sostenendo di aver letto Proust, era troppo ammettere in quel salotto, tra tutti quegli intellettuali, che la Recherche mi aveva sempre annoiato in modo insopportabile, per non parlare dell´Uomo senza qualità». Anni dopo, aggiunge Villaggio, «ho mentito di nuovo spudoratamente, ma questa volta sul film di Spielberg "E.T.", sembrava davvero un delitto non averlo visto...». Ancor più inedita la "confessione" di un famoso industriale, Mario Moretti Polegato, fondatore e presidente di Geox: «È successo poco tempo fa: a una cena ero seduto di fianco a una giornalista di moda che per almeno dieci minuti ha tessuto le lodi del bestseller "I love shopping"… era talmente entusiasta del libro che non ho avuto il coraggio di dirle che non l´ho mai letto, d´altra parte non è proprio il mio genere». E se la bugia fosse invece cultura condivisa? «A volte si mente su libri così famosi, così noti che sembra di averli letti - dice clemente la scrittrice Paola Mastrocola - per quanto mi riguarda sì, credo di aver detto bugie, su Proust ad esempio, mai arrivata in fondo... Mentire sui libri però, affermando di conoscerli, è sempre meglio che negare di essere appassionati di letteratura. È il paradosso che accade tra i giovani: negano di amare la lettura per non passare per secchioni».

Corriere della Sera 6.3.09
A Bruxelles. «Congresso mondiale» su staminali e fine vita Il partito radicale: seguiamo Usa e Spagna
di Luigi Offeddu


BRUXELLES — Si è parlato molto di Barack Obama, ieri a Bruxelles. Se n'è parlato al quartier generale della Nato, dov'è giunta per la sua prima visita ufficiale Hillary Clinton, neo-segretario di Stato degli Usa. E se n'è parlato al Parlamento Europeo, dove in un incontro fra politici e scienziati il nome di Obama è risuonato più volte come simbolo di una «nuova battaglia» a favore della ricerca sulle cellule staminali o del testamento biologico, in contrapposizione al nome di George W. Bush giudicato invece portabandiera del «creazionismo integralista».
L'incontro, che si conclude oggi ed è alla sua seconda edizione annuale, è stato battezzato «Congresso mondiale per la libertà di ricerca scientifica», ed è organizzato dall'Associazione Luca Coscioni (intitolata al giovane studioso ucciso nel 2006 dalla sclerosi laterale amiotrofica) e dal Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito in collaborazione con l'Alde, l'Alleanza dei liberali e democratici.
Nella lista dei partecipanti, diversi i nomi noti: Emma Bonino, Marco Cappato, Giulio Cossu, Elena Cattaneo, Giulio Giorello, Marco Pannella, Ignazio Marino, tre premi Nobel (Martin Evans, medicina; Kary Mullis, chimica; Martin L. Perl, fisica), il commissario europeo alla scienza Janez Potocnik, e così via.
Durante la prima giornata dei lavori, le scintille si sono subito levate intorno al tema della ricerca sulle staminali. «Mentre il ministro della Salute italiano arriva a manipolare il bando per la ricerca sulle staminali escludendo dai finanziamenti la ricerca sulle embrionali — ha detto fra gli altri Marco Cappato — il ministro per la Salute spagnolo interviene qui, al congresso mondiale, proponendo la libertà di ricerca come priorità legislativa e finanziaria, per uscire dalla crisi economica e per aumentare il benessere dei cittadini». Sempre secondo Cappato, vi è oggi «l'urgenza politica della nuova grande questione sociale del nostro tempo: quella della malattia e della disabilità». Ma troppi sono costretti a viaggi drammatici in paesi lontani, per le carenze della legislazione nel loro paese. Per non parlare dei pochi fondi dedicati alla ricerca. Per l'europarlamentare ed ex- commissario Philippe Busquin, «la minaccia più forte per l'Europa sarà la mancanza di ricercatori, visto che ci sono sempre meno potenziali ricercatori. In Europa insomma, la scienza non è considerata attraente».

Corriere della Sera 6.3.09
La sentenza L'autore degli abusi era «dipendente del Papa»
Pedofilia, decisione negli Usa «Si può fare causa al Vaticano»
di Paolo Valentino


Risarcimenti. 774 milioni di dollari
È il risarcimento record pagato dalla sola diocesi di Los Angeles nel 2007 a centinaia di vittime di atti di pedofilia commessi da sacerdoti. La diocesi di Boston versò 157 milioni di dollari, quella di Portland 129, e altre ancora pagarono. In tutto, secondo il New York Times, i risarcimenti superarono il miliardo e mezzo di dollari

Il caso: le molestie di un prete negli anni 60 in Oregon
Il sacerdote Andrew Ronan è morto nel 1992: in precedenza era stato colpevole di altre violenze in Irlanda e a Chicago

WASHINGTON — Sicuramente l'avvocato Jeff Anderson non riuscirà nel suo dichiarato e più ambizioso proposito, quello di far deporre il Papa, Benedetto XVI. Ma qualche problema al Vaticano, la sentenza di una Corte federale d'Appello degli Stati Uniti potrebbe crearlo lo stesso.
In una decisione motivata con ben 59 pagine di argomentazioni, la nona Corte d'Appello degli Stati Uniti — che ha sede a Portland e a cui fanno capo gli Stati del-l'Ovest, dall'Alaska all'Arizona — ha riconosciuto il diritto di un cittadino dell'Oregon a intentare una causa civile contro la Santa Sede, per gli abusi sessuali subiti negli anni Sessanta da un prete di Santa Romana Chiesa.
I tre giudici hanno recepito la tesi dei legali della vittima, John V. Doe, secondo cui al tempo delle sevizie, avvenute in una scuola cattolica, l'uomo lavorava come religioso, quindi era un dipendente del Vaticano.
La sentenza segna una svolta importante per le centinaia di vittime che negli anni scorsi avevano inutilmente cercato di vedere riconosciuta la responsabilità civile della gerarchia cattolica negli abusi da parte di preti pedofili, aprendo così la strada alle richieste d'indennizzo.
«Si schiude una porta — ha commentato Anderson, il legale di Doe —. Fin qui la Chiesa cattolica ha scelto di proteggere i preti e non i bambini. La buona notizia per la comunità dei fedeli è che ora la Santa Sede, come dice la sentenza, non è più immune alle cause di risarcimento ». L'orco della vicenda è il reverendo dell'Ordine servita Andrew Ronan, morto nel 1992, che all'inizio degli anni Sessanta venne mandato a Chicago dopo l'ammissione di aver molestato un minore nella natia Irlanda, dove guidava una parrocchia. Il prelato lavorò alla St.Phillip High School nella città dell'Illinois fino al 1965, ma anche lì fu protagonista di almeno tre atti di pedofilia.
Ronan venne infine trasferito alla St. Albert Church di Portland, nell'Oregon, dove Doe lo conobbe da quindicenne come «prete, tutore e consigliere spirituale». Giusta la denuncia, gli abusi sessuali di Ronan contro il ragazzo furono ripetuti e avvennero «sia nel monastero che nelle zone circostanti».
Secondo uno dei legali del Vaticano, Jeff Lena, la sentenza in realtà ammette che non tutte le azioni possano essere ricondotte alla responsabilità di Roma: «I giudici hanno riconosciuto che dentro la Chiesa cattolica esistano diverse e separate entità legali ». Inoltre, la decisione dei magistrati della Corte d'Appello potrebbe essere rovesciata dalla Corte Suprema.
Ma per Robert Blakey, docente di diritto alla University of Notre Dame, il giudizio potrebbe invece superare anche l'esame costituzionale: «La domanda è: il Vaticano è potenzialmente perseguibile nei casi di molestie da parte di preti? La risposta è si, se si dimostra che il religioso abbia agito in quel modo da dipendente della Santa Sede».

Corriere della Sera 6.3.09
Dal caso Di Bella agli Ogm, Gilberto Corbellini denuncia il trionfo della credulità
Uno spauracchio chiamato scienza
In Italia cresce l'ostilità dettata da pregiudizi ideologici e religiosi
di Sandro Modeo


Tra le poche, profonde cerniere antropologiche di un Paese diviso su tutto, l'avversione per la scienza è senz'altro la più tenace e penalizzante. Come dimostra Gilberto Corbellini nel suo nuovo libro, si tratta infatti di un'avversione incrociata e convergente, che coinvolge la Chiesa cattolica e la sinistra hard e light, lo Stato e il privato, la letteratura e la sociologia.
Fin dal titolo, sarcasticamente didattico ( Perché gli scienziati non sono pericolosi, Longanesi, pp. 250, e 16), il libro cerca di smuovere il pregiudizio marmoreo che vede la scienza — in Italia più che altrove — estranea alla «cultura», nella sua accezione più estesa, e nello stesso tempo insidiosa per la dignità e l'integrità dell'uomo. Da storico qual è, Corbellini risale da un lato all'origine di questo rigetto, cioè all'età vittoriana, quando l'evoluzionismo darwiniano e il metodo sperimentale mettono in crisi una concezione antropocentrica e antropomorfica che aveva resistito persino alla rivoluzione copernicana e alla «nuova fisica» di Galileo: anche oggi, non a caso, nessuno si sogna di invocare «Commissioni di saggi» (come quella istituita nel 2004 dall'allora ministro dell'Istruzione Letizia Moratti per tastare l'opportunità pedagogica dell'evoluzionismo) sulla relatività o la meccanica quantistica, ritenute innocue. Dall'altro lato, Corbellini non trascura la difficoltà a divulgare — o meglio a far metabolizzare — gli aspetti non tanto nozionistici, quanto concettuali della scienza, cioè la «visione del mondo» che ne è sottesa, col risultato di vedere la scienza stessa confusa con le sue applicazioni (bio) tecnologiche (l'hi tech per i teenagers,
le terapie mediche per gli anziani).
Del resto, è proprio una simile divaricazione (con l'insistenza sulla minacciosità della «tecnica») a fondare le opposizioni ideologiche più trasversali, spesso con contraddizioni interne patafisiche.
La Chiesa, per esempio, contrasta con durezza la ricerca biomedica (vedi le staminali embrionali) elevando l'embrione a «persona », ma non è in grado di spiegare perché la Divinità consenta l'eliminazione «naturale » di due terzi degli embrioni concepiti, in quanto difettosi; oppure avversa la hybris
— la sfida «innaturale» di certe pratiche mediche — e poi finge di non sapere che è a grazie a tale hybris che il corpo di Eluana Englaro può essere «tenuto in vita». Quanto al veteroumanesimo di sinistra, accusa la genetica di spiegazioni totalizzanti, tributandole un «determinismo» che nessun biologo serio si sognerebbe di sottoscrivere, in quanto consapevole dell'incidenza ambientale. E in generale, il mix di ignoranza e calcolo politico-elettorale ha portato in questi decenni il nostro Paese a battaglie autolesionistiche contro l'impiego degli Ogm (esemplare, al proposito, il paragrafo di Corbellini sulla comune strategia contraria in ministri come Alfonso Pecoraro Scanio e Gianni Alemanno), la fecondazione assistita e la stessa ricerca sulle staminali.
Certo, in questa distanza — a tratti siderale — della scienza dall'opinione pubblica, c'è un concorso di colpa degli scienziati: è innegabile, per esempio, che il gelido paternalismo nel rapporto medico-paziente getti a volte fasce disorientate e disinformate nell'abbraccio della para o pseudoscienza (vedi la ricostruzione dedicata da Corbellini al caso Di Bella, in cui hanno trionfato la credulità e il cinismo mediatico di opposte aree culturali). Ma non c'è dubbio che il vero snodo consista nel carattere «controintuitivo» del sapere scientifico.
Fondata su congetture e confutazioni, sull'onere della prova e dell'oggettività, la scienza non è — con buona pace di tanti sociologi, filosofi e teologi — una «costruzione sociale» come un'altra, in un'ingannevole e consolatoria parificazione relativistica. Le sue acquisizioni — a volte definitive a volte rivedibili — comportano un'alfabetizzazione specifica e un notevole sforzo di apprendimento, spesso contromano rispetto al senso comune e all'esperienza quotidiana. L'esempio più provocatorio è il cortocircuito tra spiegazione evoluzionistica e visione religiosa: è proprio la teoria darwiniana a mostrare come più adattativa un'elaborazione trascendente del mondo da parte del cervello, e meno adattativa — cioè appunto controintuitiva — un'elaborazione immanente e materialistica.
Non solo. Nella conclusione- sintesi del libro, Corbellini insiste sull'enorme contributo della scienza in rapporto al progresso sociale della specie; contributo di cui abbiamo usufruito in Occidente e che sarà decisivo (vedi malattie e arretratezza economica) nei Paesi in via di sviluppo. Separando invece — ancora una volta — aspetti applicativi e conoscitivi (la tecnologia dalle acquisizioni che la rendono possibile), la vulgata addebita alla scienza tutte le ombre apocalittiche in avvicinamento, a partire dai disastri ambientali. Proprio una prospettiva scientifica, al contrario, aiuterebbe a inquadrare diversamente la «natura umana», emancipandola sia dalla sovradeterminazione divina sia dall'«infinita malleabilità » di ogni utopia socio-politica: a capire una volta per tutte come l'Homo sapiens
(meno stupido ma anche meno libero di quanto non si creda) sia insieme egoista e altruista, creativo e (auto)distruttivo.

Corriere della Sera 6.3.09
L'esposizione La prima sul pittore a settantadue anni da quella allestita agli Uffizi
Giotto. Il mito e l'anima
Venti i capolavori del maestro in mezzo a sculture, codici e tavole trecentesche
Roma celebra il rivoluzionario dell'arte che con Dante fondò l'identità nazionale
di Lauretta Colonnelli


Fu il protagonista della rivoluzione della pittura attorno all'anno 1300. Dopo di lui gli artisti hanno preso a guardare il mondo in modo moderno, imparando a narrare con le immagini, a introdurre nella pittura una dimensione affettiva, a rappresentare lo spazio in maniera tridimensionale, a riscoprire l'amore per la natura. L'originalità della mostra «Giotto e il Trecento», che si apre da oggi nel Complesso del Vittoriano a Roma, consiste proprio in questo: nel voler documentare con strumenti critici contemporanei e nella sua interezza il percorso figurativo del «più Sovrano Maestro stato in dipintura», delineando al tempo stesso le caratteristiche del contesto culturale da cui prese le mosse e si sviluppò.
La rassegna, che è la prima a Roma sul maestro fiorentino, viene presentata a oltre settant'anni dall'ultima mostra su Giotto e la pittura in Italia tra fine Duecento e prima metà del Trecento, allestita alla Galleria degli Uffizi nel 1937 per celebrare il sesto centenario della sua morte. Questa volta non ci sono intenti commemorativi ma la volontà di una rilettura complessiva di un grande maestro, popolare e celebrato, eppure non conosciuto nella sua complessità.
«A partire dal Giotto architetto, perché in mostra ci saranno spunti interessanti per studi futuri », annuncia Roberto Cecchi, direttore generale per i beni architettonici, il quale fa parte del comitato scientifico internazionale che ha selezionato e fatto arrivare in prestito oltre 150 opere tra sculture lignee, codici miniati, oreficerie, ma soprattutto le fragili tavole trecentesche, alcune delle quali sono state restaurate per l'occasione.
La raccolta, che include maestri come Cimabue, Giovanni Baronzio, Ambrogio Lorenzetti, Arnolfo di Cambio, vuole dar conto di tutte le ramificazioni dell'influsso di Giotto sull'arte italiana del tempo. Ma soprattutto presenta venti capolavori eseguiti dal maestro di Firenze, oggi molto difficili da spostare per ragioni di conservazione.
Arrivano da Firenze la «Madonna con il Bambino in trono e due angeli» e la «Madonna col bambino e i santi Nicola di Bari, Giovanni Evangelista, Pietro e Benedetto». Un maestoso Polittico a tempera e foglia d'oro su tavola è stato concesso dal North Carolina Museum of Art di Raleigh, mentre la cimasa del Polittico Baroncelli arriva da San Diego, California. Opere che affrontano i temi della formazione, del rapporto con l'antico e con il mondo gotico, focalizzando in particolare i legami con la Francia.
«La mostra — aggiunge il curatore Alessandro Tomei — analizza anche la presenza del maestro nelle maggiori città italiane, da Roma a Firenze, da Napoli a Milano. Qui le testimonianze sono scomparse, ma gli storici le hanno ricostruite attraverso la documentazione e le influenze nelle opere dei contemporanei. Dove è passato Giotto l'espressione artistica è cambiata, adeguandosi ai modelli elaborati dal maestro». Ecco dunque, dopo la dimensione europea, quella nazionale, il suo ruolo di assoluta supremazia, in quanto, come Dante, «Giotto è il primo a fondare la struttura linguistica della pittura del Trecento».
A ribadire questa teoria, condivisa dai maggiori studiosi, è stata organizzata al Vittoriano una mostra nella mostra, intitolata «L'altro Giotto». Si tratta di una postazione virtuale che consente di ammirare i più celebri cicli pittorici del maestro di Firenze e di scoprire gli itinerari giotteschi nelle città che lo ospitarono, attraverso otto regioni: oltre alla Toscana, l'Umbria, le Marche, l'Emilia Romagna, il Veneto, la Lombardia, il Lazio, la Campania. In una sala al pianterreno i visitatori possono inoltre seguire un percorso che attraverso tecnologie molto sofisticate consente di vedere da vicino e in primo piano i particolari dei più famosi affreschi giotteschi, dalla basilica di San Francesco ad Assisi alla cappella degli Scrovegni a Padova.

il Riformista 6.3.09
Reportage viaggio nell'isola su cui approdano le speranze dei dannati del pianeta
Vi racconto chi sono quei 19.820 fantasmi sbarcati a Lampedusa
di Navid Kermani da Die Zeit


Questo reportage è apparso nel settembre del 2008 sul settimanale tedesco "Die Zeit". L'autore è un orientalista e scrittore tedesco di origine iraniana. Per i suoi studi accademici e le sue opere letterarie ha ricevuto numerosi riconoscimenti in Germania. È membro dell'Accademia tedesca della lingua e della letteratura e della Conferenza tedesca sull'Islam. Di recente ha vinto una borsa di studio dall'Accademia tedesca di Villa Massimo e ha trascorso un anno a Roma.

Profughi. Scappano dai loro Paesi in guerra, vagano per mesi, sopravvivono per miracolo ai loro viaggi, stipati nella pancia delle navi. Scendere a terra ricevendo i primi aiuti per loro è un'autentica rinascita. Ma i politici locali (e non solo) vorrebbero che non ci fossero e i vacanzieri nemmeno sanno che esistono.

La porta della cancellata in ferro, che deve sbarrare il molo, è soltanto accostata. Il funzionario della dogana, che dapprima mi vuole mandare via, dal momento che non ho nessun permesso, dopo un breve diverbio si accontenta che io retroceda di due, tre metri. Oggi hanno una visita ufficiale, spiega, e fa cenno con il capo in direzione di due uomini in abito scuro. I giovani arabi che sono rannicchiati sul pavimento sono i primi profughi arrivati su un barcone dopo giorni in cui il mare è stato in burrasca, probabilmente l'avanguardia, perché più veloci degli altri. Dicono di aver sgraffignato un peschereccio e di essere salpati ieri, nove amici, tutti sulla ventina, pettinature alla moda, jeans lunghi alle caviglie come li indossano gli Hip Hopper, uno pensieroso con gli occhiali, un altro belloccio con i capelli lunghi, un portavoce che ostenta tranquillità.
Qui i profughi li chiamano i «gitanti della domenica», che tentano di propria iniziativa, spesso spontaneamente, e contro ogni aspettativa riescono a non andare alla deriva e a non essere intercettati. Salpano dalla Tunisia e neppure ventiquattr'ore più tardi calcano il suolo europeo. Sui loro visi si legge lo sbalordimento. Non danno nemmeno l'impressione di essere esausti, come fossero davvero dei gitanti. La maggior parte degli altri profughi resta in viaggio per giorni, perché fanno giri molto larghi per sfuggire alle navi di pattugliamento dell'Agenzia Europea Frontex, che cerca di intercettare le barche dei profughi prima che raggiungano le acque territoriali europee. I Medici senza Frontiere, che attendono al porto, sovente provano l'orrore puro, quando le barche arrivano: trenta, quaranta uomini che hanno letteralmente dato la loro ultima camicia per accaparrarsi un angusto posto sotto il sole infuocato, mezzi o del tutto morti per la sete, lo sfinimento, la nausea. E loro, i nove amici, partono senza rifletterci troppo, come per una gita mordi e fuggi, niente maltempo, niente malattie, nessun danno ai motori, nemmeno troppo stretti, nemmeno il sole, dal momento che ci stanno tutti sotto alla coperta del cutter, e sgusciano attraverso le maglie del Paradiso, come in Africa chiamano Schengen.
I funzionari conducono i giovanotti nel centro di accoglienza, dove regna, già con un'occupazione regolare con 700 profughi, una densità di popolazione come nemmeno in un grattacielo giapponese. Dell'espanso tagliato grossolanamente, come quello utilizzato quale isolante nelle costruzioni, funge da materasso, della carta come biancheria da letto, tutte le stoviglie sono usa e getta.
Se si definisce il criterio di umanità non secondo gli standard minimi di un carcere europeo, bensì come lo sfamarsi, l'avere un posto per dormire, di che vestirsi, niente pestaggi, niente parole sgarbate, un medico in caso di bisogno e perfino una psicologa, allora sì, il centro è umano. I tunisini ozieranno lì per una o due settimane prima di venire trasferiti in un altro centro sulla terraferma. Con la Tunisia non esiste ancora alcuna convenzione di rimpatrio, perciò essi hanno delle buone probabilità, dopo altri tre, quattro o anche otto mesi di disperazione, di essere buttati sulla strada con un avviso di espulsione, che getteranno via. Tutti lo sanno, anche lo Stato. La maggior parte di loro proseguirà in ogni caso verso il nord, gli italiani da quelle parti non fanno molto caso a loro e chi resta viene utilizzato: senza la manodopera illegale in Italia, che guadagna due, tre euro l'ora, in Germania non vi sarebbero pesche a due, tre euro al kg. Solo in Sicilia si dice che lavorino nei campi da trenta a quarantamila clandestini.
La tranquillità con cui i nove tunisini vengono interrogati e allontanati dopo nemmeno venti minuti fa dimenticare che la loro situazione è tuttavia esistenziale. Tagliano i ponti con tutto ciò che la loro vita è stata fino a quel momento, iniziano una vita i cui contorni non riescono neppure a delineare; vivono in Europa, nella Terra Promessa, ma senza diritti, senza assicurazione malattia, senza previdenza sociale, lontani dalla famiglia e sempre con la paura della polizia. Tra i drammi che normalmente si consumano nel Mediterraneo o sul molo effettivamente sbarrato nel porto di Lampedusa, la svolta del loro destino dà l'impressione di essere un caso normale, quasi inesistente.
I funzionari della dogana e i Medici senza Frontiere fino alla fine di settembre hanno già accolto a Lampedusa 19.820 uomini, già 19.820 uomini solo quest'anno, più i nove tunisini di oggi. Ma in paese non si sa nulla di loro. Il loro centro - che si trova un paio di chilometri fuori città, dietro una collina - non è segnato su alcuna cartina, non è segnalato da alcun cartello ed è accessibile soltanto con un permesso speciale, per ottenere il quale le domande complete devono essere presentate per iscritto con una settimana di anticipo. Soltanto al porto si potrebbero intravedere i profughi, nel breve lasso di tempo tra l'approdo e l'allontanamento, ma solo dall'alto della collina che sovrasta il porto, dal momento che, dal molo stesso, dei blocchi di cemento sbarrano la vista. Come detto, il cancello è aperto, tutti potrebbero passeggiare fino al punto di approdo, però questo lo fanno soltanto i cronisti come me, che si erano immaginati Lampedusa come chissà quale inferno. Come riferiscono i Medici senza Frontiere, prima i profughi potevano scappare dal campo, perché il filo spinato aveva alcuni buchi, ma che cosa potevano mai fare senza soldi su un'isola dove non possono nemmeno scomparire sott'acqua? Tre, quattro neri una volta si erano guardati un po' attorno sul posto e avevano perfino ordinato una birra, senza poterla pagare, allora il sindaco aveva sparso la voce che i profughi bighellonavano nei bar, che si ubriacavano senza pagare e che apostrofavano volgarmente i turisti. A sentir lui, l'isola sta andando a rotoli. In realtà, quasi tutti gli uomini con i quali sono venuto a colloquio a malapena notano qualche cosa dei profughi. La maggior parte da anni non ne ha mai incontrato nessuno. E coloro che trascorrono le vacanze a Lampedusa vengono per il mare: vogliono abbronzarsi, nuotare o fare immersioni, e niente li distrae da questo.
In tutto il mondo i ricchi hanno perfezionato i metodi con i quali chiudono fuori la realtà, si sono costruiti recinti, muri, spauracchi, in modo da non vedere la miseria, ma che questo riesca loro perfino a Lampedusa, con 5mila abitanti e 19.829 profughi solo quest'anno, mette in ombra qualsiasi comunità blindata. Non che essi non sarebbero un argomento valido. Anzi: con loro come quasi unico argomento, il sindaco ha vinto le ultime elezioni. Già prima delle elezioni, l'ospedale non era stato costruito, ma non viene costruito neanche adesso perché i profughi vengono favoriti. Però, se il loro destino sta così tanto a cuore al Vaticano, sono le chiese a doverli accogliere, impreca il sindaco. Si devono allestire centri di prima accoglienza galleggianti, lontano dalla costa, rivendica la sua vice. Devono essere fucilati, consiglia il leader della Lega Nord, Umberto Bossi, che ha detto testualmente: «Dopo il secondo o il terzo avvertimento, boom. Si spara, senza discutere ancora tanto. Li si uccide. Altrimenti non ne verremo mai a capo».
Tutti fissano la nave illuminata con nel ventre le persone tratte in salvo. C'è stata tempesta. Con lo scooter, attraverso pozzanghere grandi come stagni, di notte percorro avanti e indietro il lungomare deserto ma ben illuminato sino a che, all'estremità del vecchio porto, scopro degli uomini davanti a una nave da guerra francese. Probabilmente è troppo grande per il molo sbarrato predisposto per i profughi. 65 somali sono stati tratti in salvo nella tempesta, afferro, tra questi tredici donne, una in stato di gravidanza, al quinto mese. Che sia una nave della Frontex, che abbia raccolto i profughi, e così vicino alla costa libica, stupisce i Medici senza Frontiere. Nessuno sa niente di preciso, ma tutti credono, anche la signora dell'Opera per i Profughi delle Nazioni Unite, che la Frontex sia lì per tenere lontano dall'Europa i profughi, non per portarveli.
E i profughi, chiedo io, dove sono? Dal momento che l'autobus non è ancora arrivato, sono seduti all'interno della nave, dove stanno più al caldo. Il numero dei somali lo conoscevo già: probabilmente appartengono a un'unica famiglia o a un unico clan, la loro fuga è iniziata mesi fa, a casa avevano la guerra, può essere che siano stati cacciati, certamente ci sono stati dei morti. Da mesi in fuga, in circostanze drammatiche. Altro che gitanti della domenica. Dal ponte i soldati passano grossi sacchetti di plastica rossa, che sono quasi vuoti, uno per ciascun profugo, i loro averi, presumo. Tutti sul molo parlano a voce più smorzata, bisbigliano quasi e parlano pochissimo, se ne stanno lì a fissare la nave illuminata con i 65 tratti in salvo nella pancia, come se attendessero Gesù Bambino. Se ora tutti si prendessero per mano, per cantare una canzone di Natale non sarei nemmeno sorpreso, tanto riconoscenti sono per la benedizione, che vuol dire salvezza. Le Organizzazioni per i Profughi stimano che, su tre profughi che raggiungono le coste europee, uno annega.
Ancora prima che l'autobus entri, percepisco l'inquietudine che coglie tutti, una silenziosa eccitazione, nonostante solo tre soldati sulla nave si siano messi in movimento. Attraverso un boccaporto entrano all'interno della nave e dopo un attimo fuoriescono nuovamente con i primi profughi che sorreggono al braccio. Prima un uomo più anziano, ferito alla gamba, poi la donna incinta: proprio come Giuseppe e Maria, due persone incredibilmente estranee, non solo per via della loro pelle scura e per l'abito largo ed esotico della donna con il foulard rosso in testa, che, secondo la foggia somala, scende fino alla pancia, ma molto di più per i loro sguardi stravolti, timidi, impauriti eppure grati alla vita, giacché l'hanno conservata. Dietro a Maria la processione degli altri profughi, prima le donne, per la maggior parte ragazze giovani, molto più magre e sottili delle europee o delle africane nere del campo profughi nel pomeriggio, poi gli uomini, altrettanto smilzi, che posano sulla terra i loro primi passi con tale circospezione come fosse la prima volta. E davvero, per loro, è come una rinascita.

il Riformista 6.3.09
Dieci anni senza il genio del «gigante» Stanley Kubrick
di Luca Mastrantonio


Assoluto. Dalla sua morte sembra passata un'eternità. Con Poe, è uno dei moderni "grandi" dell'Occidente. Ha dettato nuove regole nell'arte, e costretto tutti a misurarsi con lui.

Domani moriva l'ultimo genio del cinema, l'unico vero e indiscutibile. Dieci anni fa, che fa il paio con l'altro genio in senso stretto della storia della cultura moderna occidentale, Edgar Allan Poe, (nato nel gennaio di 200 anni fa). Prima che il termine "geni" venga totalmente ricondotto al Dna, all'ingegneria genetica, alla determinazione del carattere di una persona, oppure annacquato nel sensazionalismo acritico, per una pubblicistica che ogni giorno battezza un capolavoro, conviene soffermarsi sul perché il genio di Kubrick, scomparso solo 10 anni fa, il 7 marzo 1999, sembri così remoto, sideralmente remoto e cioè splendido, morto ma vivo, come una stella che brilli ancora nell'universo. Anche le intelligenze terra-terra, come quelle dei Simpson, devono molto a Kubrick - e Poe - artista fondamentale per Matt Groening (persino Sylvester Stallone sta per lavorare al film sulla sua misteriosa morte).
Il genio, puro, autentico, è colui che dà la regola all'arte, che inventa una nuova tradizione, rinnova quella precedente, diventa misura di tutti gli altri che lo seguiranno più di quanto lui non si sia misurato con quelli che l'hanno preceduto. Unico scopo la sua creazione: se ha un paio di pantaloni e cento registratori per il suo lavoro è contento (Kubrick), se la sua opera non gli fornisce grande sostentamento continua a nutrirla (Poe). Il genio dà autenticità alla fantasia, corpo all'orrore, sa fabbricare da sé il destino della propria arte, ed essere triste nella comicità come ilare nella tristezza. Così è stato per Poe, che ha di fatto inventato il genere poliziesco, il giallo, dato impulso al romanzo di formazione e d'avventura (Le avventure di Artur Gordon Pym), al viaggio psichedelico (Una discesa al Maelstrom), alle short stories che hanno il respiro esatto di un incubo, di una tortura, un'ossessione o una vendetta.
Oggi si fa troppo presto a dire genio. E ci sono, invece, gli artisti seriali, registi che fanno sempre lo stesso film, band che ripetono il loro sound senza soluzione di continuità, autori che si preoccupano di non tradire un pubblico fidelizzato e targhettizzato, su cui vengono costruiti non opere ma format: tv, editoriali, musicali. L'industria culturale dà poco spazio alla creatività pura perché dà molto spazio alla creatività secondaria. Era così anche a Hollywood, prima che arrivasse il ciclone Kubrick, poi emigrato in Inghilterra, dove ha vissuto in un castello. Lui che si guadagnava da vivere come giocatore di scacchi d'azzardo a New York, a Washington square, si è arroccato in un maniero. Il cinema come stile di vita, come il gioco degli scacchi, giocato per soldi. Scacchi e fotografia, questa sembra la miscela esplosiva di Kubrick, nato nel 1928 nel Bronx, da una famiglia di origine ebraica, qualche matrimonio sulle spalle, molti film e tanti progetti, tra cui uno celebre su Napoleone.
Kubrick nasce come cineasta indipendente, ha l'aria da «poeta romeno» e «cupo Arlecchino», è un'autodidatta radicale e sfrenato. Impara a fare film facendo film. Divora i film del Moma, non si ispira a nessuno, è un «lupo solitario», e pochi sembrano assomigliargli. Non ha grande stima di Ejzenštejn e gli preferisce Max Ophüls. Sostiene di aver iniziato a fare film perché sosteneva di averne visti di così brutti da non poter far peggio. Anzi, meglio. Sempre di più, grazie ai budget che aumentavano di film in film, passando dall'autofinanziamento al sodale Harris, azionista di una casa di distribuzione televisiva, fino poi alle Major di Hollywood. «Fosse nato dieci anni prima magari Kubrick avrebbe fatto la fine di Orson Welles, e quarant'anni dopo, forse non avrebbe nemmeno pensato di fare il regista e sarebbe diventato un ottimo fotografo», scrive Emiliano Morreale nella prefazione a Non ho risposte semplici. Kubrick è stato il frutto del suo genio e del suo tempo, che ha trovato spazio vitale ed è diventato universale. Perché ogni film può venire considerato un capolavoro se stiamo parlando dello stesso regista? Perché, come Kubrick sapeva benissimo, tutti si aspettavano di vedere sempre l'ultimo film di Kubrick, «the ultimate trip», come 2001. Lui re-inventava, scopriva, sperimentava, controllava la produzione dall'inizio alla fine, esorcizzava nei dettagli il demone della bellezza autentica, della verità estetica che ha nella sua compiutezza l'etica migliore su piazza, quella stupefacente verosimiglianza che può essere storica, in Barry Lyndon, autobiografica-antropologica, come in Full Metal Jacket con il ricorso all'esperienza sul campo dell'addestratore di marine, o futurologa, con 2001.
Rapina a mano armata, del 1956, è la svolta. Welles, dopo aver visto film, dirà che Kubrick, tra i giovani cineasti americani, è un «gigante». Kubrick instaura un rapporto dialettico con le major, dalla United Artists alla Mgm, infine, per 30 anni, la Warner Bros. Si incunea, negli anni 60, in uno spazio di libertà che Hollywood lascerà sempre di più ai cineasti, che diventeranno star. Non c'è genere cinematografico che non sia stato re-inventato da Kubrick e costretto a misurarsi con un masterpiece. Il film visivo per eccellenza 2001: Odissea nello spazio è diventato la pietra di paragone di tutti film di fantascienza. Il film tutto dialogo del Dottor Stranamore è la black comedy che mescola il riso al ghigno, regalandoci un'opera che è la Gioconda cinematografica (e Duschamp allo stesso tempo) della civiltà umana della bomba atomica, dove l'apocalisse è immanente più che imminente. Lolita è un dramma psicologico che rende volgare qualsiasi altra opera che provi sedurre con l'erotismo morboso (ma rappreso) della ninfetta con gli occhiali a forma di cuore, un'immagine che ha fuorviato anche il coltissimo Roberto Calasso che ha pubblicato il romanzo di Nabokov, dove Lo-li-ta non ha quegli occhiali. Full metal Jacket è il racconto perfetto della Genesi domestica dell'Inferno chiamato Vietnam, dove la schizofrenia dell'io è rappresentata in maniera icastica da un Joker che si mangia anche il colonnello Kurtz. Arancia meccanica, oggi, come lo definiremmo? Una boy gang? Il manifesto del bullismo? Una distopia sull'autorità che vuole controllare la violenza umana? E l'epopea moderna di Barry Lyndon, titanico romanzo di formazione, affrescone storico e il dramma psicologico di Eyes wide shut, nella cui ultima parola leggiamo l'ambiguo testamento di Kubrick: fuck!
Kubrick era impermeabile ad ogni etichetta. Preso per autore di sinistra, o comunque impegnato per i primi film, dopo 2001 svela il suo lato anti-umanistico, o post-umanistico, uno sguardo alieno, da marziano - Flaiano fece una recensione entusiastica, perché entrambi erano convinti che un eventuale arrivo degli alieni sulla Terra sarebbe stato trasformato dal circolo mediatico in routine - e più interessato all'autenticità, alla credibilità e alla sospensione dell'incredulità dello spettatore che non al realismo, al messaggio, al valore politico. Kubrick è tutto estetico, nel pieno rispetto dell'etica del cinema. Anche quando ha fatto un film spiccatamente di genere, come Shining, dal libro di Stephen King, l'ha rispettato molto, inventandosi accorgimenti tecnici per spaventare al massimo lo spettatore, come il ricorso alla steadicam. Persino sul pacifismo, Kubrick ha da eccepire contro le semplificazioni politiche: «Non sono sicuro di cosa significhi veramente pacifismo. Sarebbe un atto moralmente superiore sottomettersi a Hitler per evitare la guerra? Non credo. Ma ci sono state guerre tragicamente insensate, come la prima guerra mondiale e l'attuale pasticcio in Vietnam, e la pletora di guerre religiose di cui è costellata la nostra storia», dichiarava a Playboy nel '68, anno di 2001. Era altresì attento a non venire frainteso o strumentalizzato, al punto da far ritirare dalle sale inglesi Arancia meccanica dopo alcuni drammatici casi di emulazione dei drughi di Alex.
Come nasce un genio? Tra i libri più interessanti da leggere, c'è Non ho risposte semplici, uscito da Minimumfax qualche anno fa, raccolta di interviste e profili sul grande attore - fantastici l'intervista di Playboy e il profilo di Bernstein, con partita a scacchi incorporata - che permette di comprendere Kubrick attraverso chi l'ha conosciuto e visto da vicino e, soprattutto, attraverso Kubrick stesso, che nelle interviste costruisce un puzzle, o intaglia una scacchiera, in cui prendono posto tutte le pedine (a volte rimpiazzava i pezzi mancanti, per le partite a scacchi, con altri oggetti): gli aspetti tecnici, i dettagli di lavorazione, l'ispirazione, il rapporto con la letteratura, che è un capitolo forse tra i più fecondi.
Per Kubrick le opere letterarie sono i frutti da cui trarre i semi per i propri film. Poteva prendere opere classiche, come Le memorie di Barry Lyndon di Thackeray, e riportarle in vita. Si misurava con libri di genere come Shining di King portandolo dentro il grande cinema senza tradire il genere. Affrontava senza pruderia un libro scandaloso come Lolita e rendeva scandaloso Doppio sogno di Schnitzler portandolo da Vienna a New York, sviluppava dal racconto La Sentinella di Clarke un'immensa epopea dell'uomo nello spazio. I film, diceva, servono a fare soldi per poter comprare i soggetti migliori per film migliori. Il successo serviva a garantire l'autofinanziamento per il genio autodidatta, in una completa e perfetta autonomia di gusto, espressione, libertà. Lo scopo del genio è affermarsi, le opere sono un mezzo per celebrare il fine, cioè la necessaria ricerca della perfezione.

Liberazione 6.3.09
Slitta a martedì l’esame degli emendamenti in commissione al Senato. Scontro sul consenso informato
Bio-etica, braccio di ferro Pd-Pdl. Ma Bossi: «Urge trovare l’intesa»


Slitta a martedì prossimo il voto in commissione Sanità al Senato sugli emendamenti al testo Calabrò in materia di fine vita, che approderà in Aula il 18 marzo. Lo ha stabilito l’ufficio di presidenza riunito nel pomeriggio a Palazzo Madama. Di fatto, continua il braccio di ferro con l’opposizione che ieri ha presentato i suoi 352 sub-emendamenti e si dichiara insoddisfatta delle aperture del Pdl. «No alle furbizie - dice la presidente dei senatori del Pd Anna Finocchiaro - va cambiata la filosofia del testo proposto dalla maggioranza ». L’ex capogruppo del Pd in commissione, il medico e laico Ignazio Marino, minaccia: «Se la maggioranza non chiarirà che tipo di legge vuole e pensa di impedire alle persone di poter togliere il proprio consenso a una terapia, allora farò ostruzionismo». Ma anche la cattolica Dorina Bianchi, che di recente ha preso il posto di Marino in commissione, non è più tenera e ammette che se non si supera il nodo del cosiddetto “consenso informato” da parte del paziente «non ci sono possibilità di dialogo» tra maggioranza e opposizione. La radicale Donatella Poretti: «Gli emendamenti del relatore Calabrò lasciano intatto il concetto che stabilisce sostanzialmente l’indisponibilità della vita per la persona, ma non per lo Stato e il medico». Interviene anche Massimo D’Alema sottolineando che «imporre la nutrizione forzata quando una persona si è espressa in altra direzione, magari con il testamento biologico, è incostituzionale. Si tocca il principio di libertà di cura. Rischiamo di fare una legge mostruosa, che ci mette fuori dai Paesi civili». L’Italia dei Valori è convinta che il Pdl voglia «lo scontro» e continua ad appellarsi al referendum che «demolirà la legge». Per il momento, dunque, non sortisce effetti l’appello di Umberto Bossi a trovare «assolutamente un accordo» sulla legge sul testamento biologico. Ciononostante, Il presidente del Senato Renato Schifani si dice «fiducioso» sul buon esito del dibattito tra maggioranza e opposizione perchè «ci sono i primi segnali positivi, ritengo che in questa occasione la concessione di più tempo per discutere sul provvedimento non sia una mossa dilatoria, ma ubbidisca all’esigenza di favorire momenti di confronto costruttivo». Il riferimento è alla decisione, presa la settimana scorsa, di far slittare i tempi del dibattito, causa le divisioni che si sono palesate anche nello stesso centrodestra (in testa, le critiche di Beppe Pisanu). Sul bio-testamento interviene anche il presidente della Pontificia Accademia per la vita, monsignor Rino Fisichella, invitando alla calma: le parti politiche impegnate nel dibattito non abbiano «nessuna fretta determinata da strumentalizzazioni, il confronto tra le diverse istanze» porti a una soluzione «condivisa». A questo punto, bisognerà aspettare la prossima settimana per capire come evolverà la situazione. Scontro sul consenso informato a parte, rimane l’incognita Francesco Rutelli che - si ricorderà - si era fatto promotore di una “terza via” molto apprezzata dal Pdl, ovvero l’affidamento delle scelte su idratazione e alimentazione all’alleanza terapeutica tra medico e paziente e non alle volontà del paziente espresse nella Dat (dichiarazione anticipata di trattamento). E’ prevedibile che l’ex leader dielle decida le sue mosse in prossimità del dibattito in aula. Spingere per la “terza via” potrebbe risultare conveniente per forzare in senso centrista gli equilibri interni al Pd, se ce ne sarà bisogno. E magari sarà così, visto che la “svolta a sinistra” del neosegretario Dario Franceschini (non gradita ai centristi Democratici) non accenna a raddrizzarsi. Non c’è solo il referendum invocato da Di Pietro a gettare ombre sulla futura legge sul fine vita. Dubbi vengono sollevati anche dai costituzionalisti, secondo i quali è facile immaginare un intervento della Consulta in materia. Il testo al vaglio del Senato, spiega Federico Pizzetti, docente di Istituzioni di diritto pubblico all’Università di Milano, «tende a fissare parametri oggettivi che sembrano prescindere dalla persona», stabilendo ad esempio che alimentazione e idratazione siano forme di sostentamento finalizzate ad alleviare la sofferenza. Ma la sofferenza va valutata «in base all’identità della persona» non in assoluto. Anche rimanere in vita in modo artificiale, come nel caso di «Piergiorgio Welby - aggiunge Pizzetti - può essere causa di sofferenza». Il caso Englaro, comunque, ragionano alcuni costituzionalisti nel corso di un seminario organizzato dall’Associazione Astrid di Giuliano Amato, è stato un caso «difficile » che ha sollevato molti dubbi dal punto di vista istituzionale, a partire dall’attribuzione dei poteri. «Il quesito - sottolinea Amato - è se il governo poteva sovrapporre la propria volontà a quella della magistratura». Domanda che ha suscitato risposte diverse, ma su un punto gli esperti sono d’accordo: «Il sistema delle garanzie ha tenuto - rileva Tania Groppi, ordinario di diritto pubblico all’Università di Siena - davanti agli “assalti” del potere politico». La politica ha avuto «una reazione abnorme» in mancanza di una legge. E proprio per la mancanza di una legge, aggiunge Groppi, «la Corte costituzionale» è stata ai margini del caso, anche se sarebbe stata quella più competente visto che si trattava di «diritti».

Liberazione 6.3.09
Un saggio-pamphlet dell'economista Eduardo Aldo Carra presentato oggi a Roma
Sinistra hai perso ma la crisi ti dà ragione
di Tonino Bucci


Magari fosse solo questione di numeri. La crisi della sinistra italiana non è una semplice sconfitta elettorale. Non perché la scomparsa dal parlamento per la prima volta nella storia dell'Italia repubblicana sia una cosa di poco conto. Ma il fatto inedito, oggi, dopo una lenta erosione politica durata decenni, è che si è consumata la frattura fra la sinistra e la società. L'antica sua forza di sapersi calare nella concretezza dei conflitti sociali, si è dissolta. Come l'improvvisa emersione di un fiume carsico si scopre incapace di leggere la mappa dei territori, dei lavori, dei mutamenti della società.
Eppure proprio ora che la sinistra si trova al minimo storico dei consensi, fuori dai luoghi della rappresentanza politica, paradossalmente la realtà conferma le sue analisi teoriche. Si può perdere politicamente e avere ragione in teoria? La crisi economica non dà ragione alla critica sostenuta dalla sinistra anticapitalista? Sembrerà strano ma è proprio questa l'impressione che si ricava dalla lettura di Ho perso la sinistra , un libro a metà strada tra il pamphlet e il saggio di Eduardo Aldo Carra, economista e direttore dell'Osservatorio congiunturale dell'Ires Cgil (Ediesse, prefazione di Aldo Tortorella, pp. 144, euro 8). Il volume sarà presentato oggi a Roma con Fausto Bertinotti, Laura Pennacchi, Gianni Rinaldini, Aldo Tortorella e Aldo Garzia, oltre che con l'autore stesso (ore 17,30, libreria Melbookstore, via Nazionale 254/255).
Si potrebbe dirla così: la sinistra non c'è, la sua soggettività politica al momento è scarsamente visibile, però c'è un bisogno oggettivo della sua visione culturale, delle sue analisi, del suo modo di intendere il rapporto tra stato ed economia, tra programmazione e mercato, tra politica e conflitti sociali. Non c'è quando ce ne sarebbe bisogno. Per puntualizzare: non è che nel libro ci sia la tentazione di risolvere la crisi della sinistra radicale con la fuga nelle architetture di immaginari nuovi partiti. Carra non è interessato all'ingegneria delle sigle o alle fusioni dei gruppi dirigenti dei partiti della sinistra radicale e di ciò che ne resta. Da buon economista dirige piuttosto lo sguardo sui fenomeni strutturali.
Con ordine. La sconfitta alle ultime elezioni politiche non ha toccato soltanto la Sinistra arcobaleno, ma ha riguardato il centro-sinistra nel suo insieme. Cosa è accaduto di imprevisto e massiccio nel corpo elettorale di sinistra nelle sue diverse anime? E' successo un fenomeno inedito. Per la prima volta la proverbiale fedeltà degli elettori di sinistra ai propri partiti si è infranta. Gli argini si sono rotti. Oggi non è più vero che l'astensionismo è di destra e che chi si astiene è qualunquista. «L'equazione si è invertita e a molti elettori astenersi è apparso come un comportamento di sinistra, l'unico modo per costringere la sinistra a cambiare». Non si finirà mai di sottolineare l'effetto catastrofico dei due anni di governo Prodi sugli elettori di centro-sinistra. Le aspettative dell'elettorato sono state tradite non per qualche deroga qui e là al programma che i partiti della coalizione avevano sottoscritto, ma perché stato violato lo spirito di quel programma, perché sono state disattese le speranze che il governo Prodi intervenisse sulle due grandi questioni del paese, quella sociale e quella democratica. Non solo non si è intervenuto, cancellandole, sulle leggi berlusconiane varate negli anni precedenti, ma neppure si è messo in atto la redistribuzione di ricchezza dai redditi alti verso quelli bassi. «Queste due scelte politiche insieme hanno prodotto una rottura della sintonia del governo di centro sinistra con la sua base sociale e la sinistra più radicale, inebriata dai tanti posti di governo e dai ruoli istituzionali strappati, ha stentato a cogliere in tempo il fatto che si imboccava una china pericolosa». Sarà un'analisi impietosa, ma sta di fatto che la sconfitta elettorale non c'entra nulla con la litigiosità della coalizione. Essa è figlia esclusiva della «rottura di sintonia» del governo Prodi con i suoi elettori.
Qualche incongruenza, invece, si rischia nel libro nella lettura della diaspora della sinistra radicale. Dove sono andati a finire i voti dei suoi elettori? Da quasi quattro milioni che ne aveva, quasi tre sono andati persi per strada. Sconfitta innegabile, certo, a vedere i numeri, ma ben altra questione è l'interpretazione politica.Come va letta, ad esempio, la scelta di oltre metà dell'elettorato della sinistra radicale di votare il Pd, nonostante la svolta moderata di quest'ultimo e per effetto del richiamo del "voto utile"? E' possibile attribuire la sconfitta della sinistra radicale al fatto che essa non ha interpretato la «volontà di governo» di molta parte del suo elettorato? «Forse - scrive Carra - gli elettori hanno capito meglio dei loro dirigenti che in un sistema bipolare o non si vota o si vota per vincere e per chi ha qualche speranza di vincere». Ma le cose non sembrano così facili. Se pure il tema della governabilità ha toccato una metà degli elettori che non hanno votato Sinistra arcobaleno, è vero anche che un'altra metà è finita nell'astensionismo o nel voto ad altre liste comuniste in conseguenza del motivo opposto a quello della governabilità , cioè per l'incapacità della sinistra radicale a rappresentare i bisogni sociali. Che la questione sia complicata e che le due istanze, la governabilità e la rappresentanza, siano mescolate nell'immaginario politico dell'elettorato di sinistra, è dimostrato da quello che sostiene poco più in là lo stesso Carra. Non è un caso che tanto nello schieramento di Berlusconi quanto in quello di Veltroni siano state premiate la Lega e l'Italia dei valori. «Un aumento straordinario grazie al fatto che il voto ai due partiti è apparso un voto utile ed insieme critico e identitario». La crisi della sinistra è tutta qui: nell'essere stata incapace, alla prova dei fatti, di governare ed essere se stessa, di fare alleanze senza rinunciare alla propria vocazione critica.
Secondo punto: lo scollamento della sinistra radicale dal proprio elettorato significa anche che è venuto meno il legame tra partiti e quella che una volta si chiamava classe operaia - e, viceversa, gli operai non si percepiscono più come "classe" anche per via della crisi della forma-partito. Da più parti si è detto che il voto operaio avrebbe preferito la Lega, l'unico partito che può vantare un «reale radicamento nel territorio». Vero, ma solo in minima parte. Il grosso del voto operaio è andato nell'astensionismo. «Anzi, diciamocela tutta, il partito del non voto è tra gli operai il primo partito» e «la sinistra, invece di vedere il fuscello del voto operaio alla Lega, farebbe bene a vedere la trave del non voto operaio».
Che fare? L'indicazione più interessante del libro è che vale la pena solo fino a un certo punto scervellarsi sulle anomalie italiane, sugli effetti nefasti del bipolarismo, sulla "strutturale" inclinazione a destra dell'elettorato italiano occultata per oltre quarant'anni dalla Dc. Tutte cose sacrosante, per carità. Ma il fatto è che la sinistra non può risollevarsi dal declino se non si mette sul terreno internazionale. «Nel mondo globalizzato in cui vivamo una forzache voglia cambiare la società deve essere radicata ed agire nel suo locale, ma deve anche agire in sintonia ed in parallelo con forze che perseguano lo stesso obiettivo in altre parti del mondo».
Qui incontriamo il paradosso di una sinistra sconfitta nella propria soggettività politica proprio quando la crisi della new economy dimostra la fondatezza delle sue critiche al capitalismo. La sinistra - quella anticapitalista e comunista, almeno - aveva capito, ad esempio, il conflitto tra stati nazionali e i capitali investiti nel loro territorio, appartenenti a persone, società e istituzioni bancarie che obbediscono a regole "esterne". E, ancora, la sinistra aveva capito che nella new economy il valore dei titoli azionari si sarebbe sganciato dal capitale reale, dall'attività economica reale, e che, come in una catena di Sant'Antonio, si sarebbe generata una bolla di sopravvalutazione fondata sulla semplice scommessa sul futuro. Ma la crisi non basta. Non saranno i suoi effetti a generare automaticamente la fine di questo modello di società. Non sarà sufficiente per la sinistra dire "l'avevamo detto" né andare dietro alle «corbellerie» di moda tipo il socialismo bancario - che poi significa dare denaro pubblico alle banche responsabili della più grande truffa finanziaria di tutti i tempi. E' ora, invece, che si metta al lavoro per dire qual è la sua diversa idea di sviluppo economico, per cambiare quello che si produce, come e quanto si produce. Perché questa, se non si fosse capito, è la crisi del capitalismo.

Liberazione 6.3.09
Il volume della Minimum fax sarà presentato domenica a Roma
Angela Davis ci spiega come si può abolire il carcere
di Vincenzo Guagliardo


"Aboliamo le prigioni?" sarà presentato domenica a Roma al Volturnoccupato, via Volturno 37 alle ore 19 nell'ambito di una "giornata sulla prigionia femminile" organizzata da Scarceranda e Ora d'aria

Che fine ha fatto la famosa compagna afroamericana Angela Davis, per la cui liberazione ci si mobilitò in tanti, e con successo, sia in America che in Europa nei primissimi anni Settanta? E' rimasta al suo posto: sempre idealmente vicina ai suoi vecchi "maestri", il filosofo Marcuse e il detenuto ammazzato in carcere George Jackson, da studiosa e militante ha continuato ad approfondire certi temi, e, mutando e migliorando sempre il suo approccio, propone ora come approdo la lotta per l'abolizione delle prigioni. Così come si è fatto prima per la schiavitù e, ormai in molti paesi, per la pena di morte. (Angela Davis, Aboliamo le prigioni? , minimum fax, 270 pagine, euro 14,50).
Le prigioni sono un cancro nel cuore della democrazia che, così, non è più tale. Il carcere infatti non è solo la prigione, è una vasta intricata e ignorata rete di interessi e conseguenze, è un «complesso carcerario-industriale». «Le strategie di abolizione del carcere riflettono una comprensione dei nessi tra istituzioni che di solito concepiamo come diverse e slegate (…) La povertà persistente nel cuore del capitalismo globale porta a un aumento della popolazione carceraria, che a sua volta rafforza le condizioni che perpetuano la povertà».
I carcerati sono gli eredi degli schiavi, persone senza diritti (e gli ergastolani gli eredi dei condannati a morte). La vecchia pena visibile si occulta dietro i muri, e grazie all'invisibilità viene accettata come cosa normale. Ma da questo laboratorio-memoria ogni tanto le sue tecniche devono fuoriuscire. Mica sono lì per niente. Quando ciò avviene, a Guantanamo o ad Abu Ghraib in Iraq, magari sotto forma di tortura filmata, il progressista scende in campo in difesa della "democrazia", cui tali aspetti sarebbero estranei: in realtà continua a ignorare la fonte, "il cancro" della cosiddetta democrazia, la sua realtà quotidiana. Ma ora in America ci sono più di due milioni di reclusi. Come nascondersi con tali numeri che il carcere è ormai un ghetto dove buttar via una buona parte della gente ormai considerata superflua, demonizzandola, sottoponendola a un trattamento che terrorizzi gli altri superflui e cementi la morale della gente perbene? E come ignorare che l'esportazione della "democrazia" americana esporta anche questo cancro, che esso ne fa parte… "di brutto"?
Ecco: un discorso semplice, lineare. Siamo arrivati a un momento chiave, possiamo ripercorrere a ritroso il cammino del cancro, giungere alla logica conclusione del discorso (la «democrazia dell'abolizione»). Ma immagino che l'intellettuale italiano medio qualificherà questa analisi come rozza: slogan pietrificati, detriti sociologici… E se fosse evangelica chiarezza? Il futuro che già vediamo in atto anche qui? Beh, se non lo riconosceremo, sarà allora difficile capire il successo ottenuto nel 1998 dagli studenti americani con sit-in e manifestazioni in cinquanta campus. Avevano visto in un filmato che «Le guardie del Brazoria County Detention Center usavano pungoli elettrici per il bestiame e altre forme d'intimidazione per ottenere il rispetto e costringere i prigionieri a dire: Amo il Texas». A guadagnare in quel carcere privatizzato era la Sodexho (con sede a Parigi!): tra le università che hanno rinunciato ai servizi della Sodexho figurano la Suny di Albany, il Goucher College e la James Madison University. La Sodexho ha ceduto, ha mollato il Brazoria…
Se non lo riconosceremo, faremo girotondi.
In appendice al libro della Davis, Guido Caldiron e Paolo Persichetti provano generosamente a dimostrare l'attualità delle tesi abolizioniste dell'autrice riferite alla situazione italiana ed europea. Un'attualità tutt'ora virtuale, s'intende.

Italia Oggi 6.3.09
Giornali, la sinistra non si arrende
di Alessio Odini


Nuovi giornali a sinistra, sulla carta, a primavera. Le indiscrezioni si susseguono ormai da mesi, ma non sembra trapelare ancora troppo dei tre nuovi progetti editoriali. «Siamo in alto mare, ma c'è il progetto di un giornale slegato dai partiti», che lavori «per la riunificazione della sinistra», dice a ItaliaOggi Piero Sansonetti, che dopo aver chiuso con la direzione di Liberazione, sta lavorando a un nuovo quotidiano indicato come L'altro. Dimensioni ridotte anche nel numero di redattori e diffusione nelle edicole delle principali città. Sansonetti non smentisce che ci siano «alcuni imprenditori interessati (si vocifera di una cordata romana, ndr), ma è molto presto per parlare».
Ancor più abbottonato, sul futuro de Il Fatto, Antonio Padellaro, già direttore dell'Unità, oggi guidato da Concita De Gregorio. Del nuovo quotidiano, anche questo di piccole dimensioni, Padellaro parla in termini di «desiderio», anche se i tempi sarebbero abbastanza maturi. Di certo, nessuno desiderio di vendetta nei confronti dell'Unità, né della sua storia e tradizione. In fin dei conti, è il giornale dove Padellaro ha passato otto anni, la stessa testata che in questi giorni sta attraversando non poche difficoltà. È di ieri, fra l'altro, la dichiarazione di Legacoop, che ha smentito la partecipazione «a eventuali cordate o società che dovessero rilevare quote azionarie del capitale della società editrice del quotidiano l'Unità».
Ma la Lega delle cooperative ha anche aggiunto che «qualora, nel quadro dell'ipotizzata necessità di una ristrutturazione, i lavoratori dell'Unità, giornalisti e poligrafici, decidessero di costituire una cooperativa e diventare così i proprietari o i gestori della testata, potranno sicuramente trovare il supporto e l'assistenza» che la cooperativa del Manifesto ha avuto a suo tempo per il piano di ristrutturazione.
«Se si fa, non sarà un giornale fatto con il misurino, ma che darà le notizie senza fare sconti a nessuno», continua Padellaro. È però Furio Colombo, immediato predecessore di Padellaro alla direzione dell'Unità, e a conoscenza dei piani dell'amico, a dare un'immagine più viva di quel che sarà Il fatto: «Un giornale che manca» nel panorama nazionale, «e gli investitori ne sono attratti. È un progetto giornalistico, pur avendo un background politico, un giornale di commenti», come poteva essere Il Foglio di Giuliano Ferrara, «diventato una tromba d'aria, inteso nel senso di energia, attirato da alcuni fenomeni».
Il giornale di Padellaro non sarà un quotidiano di grandi dimensioni, visto che «i grandi giornali sono come portaerei, che si muovono con possenza, ma lentezza. Sarà un giornale di poche pagine, per dare la notizia senza partire dalla versione politica della notizia». Dunque, secondo Colombo, non si tratterà «dell'ennesima cappelletta su un sentiero di montagna», un giornale cioè che dia voce a un partito o a una corrente.
Resta poco da aggiungere sull'evoluzione di Notizie verdi, l'organo ufficiale d'informazione della Federazione dei Verdi, che secondo quanto già noto, sarà in edicola qualche settimana dopo il 21 marzo. La testata di chiamerà Terra o Live e conterà inizialmente otto pagine, destinate a crescere. «Sarà il primo quotidiano ecologista italiano», ha dichiarato alla stampa Luca Bonaccorsi, editore di Left e proprietario di Undicidue, la casa editrice romana che pubblica il foglio dei verdi diretto da Pino Di Maula, già direttore del settimanale Left. E allora, aspettiamo primavera.

il manifesto 5.3.09
E Piero Sansonetti pensa a «L'altro», un nuovo giornale
di Micaela Bongi



A Liberazione, il quotidiano di Rifondazione comunista, l'aria è tesissima. Prima una riunione della segreteria con la partecipazione del tesoriere Sergio Boccadutri e del direttore del giornale, il sindacalista Dino Greco. Poi, un summit ristretto tra il segretario del Prc Paolo Ferrero, ancora Greco e il vicedirettore Fulvio Fania. Una riunione finita male, con Fania uscito sbattendo la porta, arrabbiatissimo.
Saltata la trattativa per l'ingresso nella proprietà della testata dell'ex editore di Left Luca Bonaccorsi, legato al guru Massimo Fagioli, visti i conti drammatici del giornale si è ricominciato a parlare di pesanti tagli (si prevede una riduzione delle pagine e dell'organico, con prepensionamenti e incentivi all'uscita).

Il piano di crisi dovrebbe essere trasmesso alla Federazione nazionale della stampa entro dieci giorni, ma nel frattempo il comitato di redazione chiede che siano risolte le questioni pendenti, dagli scatti di anzianità alle integrazioni dell'organico alle buonuscite. La redazione, che oggi si dovrebbe riunire in assemblea, già ha dimostrato di non gradire il nuovo direttore, che oltre alla vicenda del «licenziamento» di Piero Sansonetti e alla sua inesperienza nel campo del giornalismo, sconta anche la preoccupazione per il futuro del giornale. E così Greco è stato accolto in redazione con un pesante voto di sfiducia: a favore del suo piano editoriale si sono espressi 8 giornalisti; ben 24 i voti contrari.
L'ex direttore Sansonetti nel frattempo si prepara a mandare in edicola un nuovo quotidiano. Si chiamerà L'altro. Il progetto prevede un giornale di 12 pagine tabloid di politica e cultura, con un notiziario esteri ridotto, e meno di dieci redattori. A lavorare con lui Sansonetti ha chiamato Andrea Colombo, ex notista politico del manifesto attuale portavoce di Franco Giordano, e altre firme del nostro giornale prima, di Liberazione poi, come la ex senatrice Rina Gagliardi e Ritanna Armeni.
Per quanto riguarda la proprietà, si sta mettendo insieme un consorzio ampio di piccoli e medi imprenditori romani: ognuno dovrebbe partecipare con una finanziamento piccolo (circa trentamila euro). Già si sono chiusi accordi pubblicitari e per la stampa e la carta, ancora da definire invece quelli per la distribuzione. Obiettivo dichiarato: non essere un quotidiano di partito, un «foglio dei vendoliani» o della sinistra antagonista, ma un giornale che si rivolge alla sinistra tutta rompendo la gerarchia tra diritti sociali e diritti civili, in continuità con la prima pagina della Liberazione diretta da Sansonetti. Antiberlusconiano ma non giustizialista. Per l'uscita si è pensato, non a caso, al 7 aprile (per ricordare il teorema giudiziario che portò in carcere una bella fetta del movimento degli anni '70), ma non è detto che ci si riuscirà. 
E pure l'ex direttore dell'Unità Antonio Padellaro si dà da fare. In arrivo anche il suo quotidano, Il Fatto, di area dipietrista ma senza legami formali con l'Idv. Anche per questo giornale si prevede una piccola redazione: tra le firme di peso si era parlato di quelle di Marco Travaglio e Furio Colombo, ora collaboratori del quotidiano diretto da Concita De Gregorio.