sabato 7 marzo 2009

Repubblica 7.3.09
"Siamo stati una casta di sinistra" Bertinotti e le ragioni della sconfitta
"Devi augurarti che la strada sia lunga" è il titolo del libro con le memorie dell´ex leader Prc
di Umberto Rosso


ROMA - L´incipit. Bertinotti bambino a quattro anni, affacciato alla finestra della sua casa di ringhiera, di fronte ad una Milano non ancora da bere ma invece piegata dalle bombe delle guerra. L´epilogo. Bertinotti oggi, anno 2009, davanti ad altre macerie, politiche, «la fine di un ciclo lungo cent´anni, la scomparsa di una sinistra come finora l´abbiamo conosciuta e amata». In mezzo, fra la prima e l´ultima pagina di questa «educazione sentimentale» ricostruita a quattro mani da Rina Gagliardi e Ritanna Armeni, cinquant´anni di sindacato, di politica, di incontri e scontri anche personali, di lotta e di governo, di sconfitte infine. Con pagine inedite sui tormentati rapporti anche privati con Romano Prodi, mentre agli altri duellanti incrociati sulla scena, da Berlusconi a Veltroni a D´Alema, Bertinotti non concede "l´onore" di ricordi personali ma solo valutazioni tutte politiche.
Chi ha spulciato le bozze di "Devi augurarti che la strada sia lunga" (il titolo è tratto da un verso del poeta greco Kostantinos Kavafis), che l´editore Ponte alle Grazie manderà presto in libreria, è rimasto spiazzato: racconto duro, amaro, pesantemente critico e autocritico sulle magnifiche sorti e progressive della sinistra, sul cui futuro l´ex segretario di Rifondazione comunista non è «per nulla ottimista». Una coazione a ripetere di errori. A cominciare dalla madre di tutti i vizi, secondo l´atto d´accusa lanciato da Bertinotti nel libro: «I nostri gruppi dirigenti? Sganciati e lontani dalla realtà dei lavoratori, autoreferenziali, così si è venuta formando anche a sinistra una vera e propria casta, un ceto politico interessato solo alla propria sopravvivenza». E i nomi finiti nelle liste elettorali, per le politiche dello scorso aprile, «sono stati scelti in base a questa logica perversa. Ecco la prima ragione della sconfitta».
Una insanabile contraddizione fra «il messaggio lanciato e i comportamenti assunti». Ma l´ex presidente della Camera non si autoassolve dalle colpe della nomenklatura rossa. In questa impietosa eutanasia della sinistra, l´uomo che guidato per oltre un decennio il Prc e poi le liste dell´Arcobaleno rimaste fuori dal Parlamento, riconosce le proprie responsabilità nel disastro, pur con qualche attenuante, «nel grande sforzo di riforma della politica non sono riuscito ad andare fino in fondo, a volte per troppa timidezza, o per opportunismo, ma non ce l´ho fatta». Però, nulla da rinnegare. A cominciare dai personaggi, fra i tanti incontrati, che hanno lasciato di più il segno, da Trentin a Castro al subcomandante Marcos.
Il guaio per la sinistra è che Bertinotti nel racconto a cuore aperto alle due amiche giornaliste non intravede - e qui siamo all´attualità politica di questi giorni - segnali di inversione di rotta. Così esprime tutta la sua delusione per l´ennesimo naufragio dell´unità, stante il fallimento della lista unica alle europee, nonostante gli appelli lanciati da padri della sinistra come Pietro Ingrao e Rossana Rossanda. Tanto che Bertinotti anticipa e confessa nel libro che seguirà con stato d´animo "distaccato" l´avventura della "Sinistra per le libertà". Con simpatia (anche perché da Vendola, a Giordano a Migliore ne fanno parte tanti suoi pupilli) ma senza un impegno diretto ed esplicito a sostegno della lista. Del resto, un´altra fetta di fedelissimi bertinottiani (da Caprilli a Rocchi) non ha seguito l´ultima scissione consumata nel partito. Sulla sconfitta di aprile e sul futuro della sinistra ruotano gli ultimi due capitoli. Negli altri otto, una cavalcata attraverso quasi mezzo secolo: dagli anni di formazione nel sindacato torinese all´addio alla Cgil per la politica, dall´occupazione della Fiat nell´89 al G8 di Genova, dalla svolta non violenta a Massimo Fagioli.

Repubblica 7.3.09
L’effetto della crisi sulla sinistra
di Anthony Giddens


Nella gran maggioranza dei paesi europei oggi al potere c´è la destra. L´intero continente, in tandem con il resto del mondo industrializzato, è scosso da una grave crisi economica. Che prospettive ha la sinistra di risollevarsi? L´avvento della recessione le darà occasione di ricostituirsi e di riprendersi?
A prima vista la risposta al secondo interrogativo sembrerebbe un sì. Ecco perché: 1. La crisi dei mercati finanziari è segno evidente e catastrofico del fallimento del mercato. Si presumeva che la liberalizzazione dei mercati portasse all´efficace distribuzione delle risorse a vantaggio della produzione di ricchezza. Invece ha portato alla dislocazione e al crollo. Una delle tesi classiche della sinistra, ovvero che i mercati hanno sempre bisogno di attenta regolamentazione, è tornata alla ribalta. 2. A questo si può aggiungere che i mercati lasciati privi di paletti possono avere impatti disastrosi sull´ambiente. Nick Stern, autore del famoso Rapporto Stern sul cambiamento climatico sostiene che l´avanzare del riscaldamento globale rappresenta «il massimo esempio di fallimento del mercato cui si sia mai assistito». 3. Esistono quindi le basi per un ritorno dello Stato e per l´intervento attivo nella vita economica, anch´essi parte del terreno classico della sinistra. È probabile che in futuro i mercati finanziari giochino un ruolo più limitato rispetto al passato nell´economia nel suo complesso. 4. Negli ultimo due o tre decenni abbiamo vissuto una fase di espansione dell´ineguaglianza che persino paesi egualitari come gli Stati scandinavi hanno fatto fatica ad arginare. Questa tendenza potrebbe andare incontro ad inversione nel momento in cui vengono messe le redini ai mercati sottoponendoli ad un maggior controllo. L´opinione pubblica ha cambiato decisamente atteggiamento, schierandosi contro gli assurdi livelli di retribuzione di cui godono le élite finanziarie e altri vertici imprenditoriali. Oggi i governi sono spalleggiati nell´azione di porre limiti ai compensi esagerati. 5. Lo stesso vale a livello internazionale per la regolamentazione dei paradisi fiscali. Enormi somme di denaro che dovrebbero andare al fisco per il bene sociale sono sparse per il mondo. Nel periodo della deregulation è stato fatto ben poco per chiudere o regolamentare i paradisi fiscali, ma oggi esistono presupposti più validi per un´azione coordinata a livello internazionale. 6. Il presidente Obama appena insediato sta prendendo l´iniziativa su alcuni di questi temi. Se la sua presidenza si rivelerà efficace o, meglio ancora, saprà entusiasmare, potremmo avere un "effetto Obama" sul centro sinistra europeo, come si ebbe un positivo "effetto Clinton" attorno al 2000, che galvanizzò la sinistra in altri paesi. All´epoca, come è noto, in 13 su 15 paesi membri dell´Ue erano al potere governi o coalizioni di centro sinistra.
Dovremmo quindi attenderci che con il deteriorarsi dell´economia prosperino i partiti di centro sinistra? La situazione non è così netta, perché esistono anche forti aspetti negativi. Innanzitutto è necessario adoperarsi a livello intellettuale e politico per mostrare in che cosa consisterà il "ritorno dello Stato" e per creare politiche a cui l´opinione pubblica risponda positivamente. In assenza di un nuovo modo di pensare lo Stato non sarà in grado di garantire una gestione più efficace dell´attività economica rispetto al passato.
Se sarà profonda e di lunga durata la recessione potrebbe avere brutte conseguenze sul piano sociale, acutizzando le tensioni etniche e sociali già esistenti. Questa evoluzione potrebbe mettere a rischio la democrazia stessa e condurre a rigurgiti di autoritarismo e populismo, circostanze che in genere favoriscono il governo della destra. Inoltre, esiste il rischio molto reale che la situazione attuale provochi divisioni nella sinistra, con un rafforzamento della sinistra estrema anticapitalista. In vari paesi, inclusa ovviamente l´Italia, esistono già scismi significativi tra i partiti di sinistra.
È quindi verosimile che tutto questo abbia esito misto. Se la crisi si rivelerà duratura, qualche governo in carica cadrà. Anche se i pacchetti di stimolo introdotti in gran parte dei paesi si dimostreranno azzeccati ci vorrà tempo perché diano frutto. Nel frattempo è verosimile che la rabbia degli elettori si riversi contro chi si trova al potere nel momento in cui la situazione economica pare avviata al peggioramento. Il governo di centro sinistra più longevo d´Europa, il Labour nel Regno Unito, ha all´apparenza scarse possibilità di essere riconfermato alle urne per quello che sarebbe il quarto mandato. Lo stesso potrebbe valere per i suoi omologhi in Spagna e in Portogallo.
Però si potrebbe verificare un colpo di scena. Proprio i successi elettorali mietuti dai governi di centro destra negli ultimi anni potrebbero rivelarsi oggi controproducenti per la destra. Sarà la più colpita se si dimostrerà vero che i governi in carica sono particolarmente a rischio in una situazione di turbolenza economica.
Traduzione di Emilia Benghi

Repubblica 7.3.09
Esce un libro di Luigi Manconi sulla crisi della sinistra
Quel velo di tristezza che affligge il pd
di Filippo Ceccarelli


Che il partito sia ridotto oggi una "fetecchia", teorizza l´ex deputato, può garantirgli a determinate condizioni una crescita più robusta

Date un po´ di allegria al Partito democratico! Così come Mario Ferrara invocava a suo tempo la necessità di «dare un matto» all´esangue Pli, più o meno allo stesso modo Luigi Manconi cordialmente invita oggi il mondo del Pd ad aprirsi al sorriso della passione e della speranza.
Avvertenza: sarà difficile, con l´aria che tira da quelle parti, intonare «i domani che cantano», e magari farlo tutti insieme, dagli orfani di Veltroni ai democristianoni, dai criptodalemiani fino alla Binetti. Ma intanto, per piacere, ci si potrebbe togliere quel muso, quel broncetto, quel velo di tristezza, quella «passione triste» - intensa espressione di Spinoza recuperata da Vasco Rossi - che sciaguratamente contrassegna e affligge il nuovo partito?
Un anima per il Pd, sottotitolo, La sinistra e le passioni tristi, appunto, (Nutrimenti, pagg. 152, euro 12) è il titolo del pamphlet di Manconi che, dopo aver variamente percorso da libero pensatore e da dirigente politico, parlamentare e uomo di governo il campo progressista (dai verdi ai ds), come tanti altri si ritrova oggi nel nuovo partito. E però, di fronte alle sconfitte e alle ammaccature preferisce qui lambiccarsi, studiare, ristudiare, girare intorno, scartare di lato, sperimentare, insomma Manconi si sforza di vedere fin da oggi la classica lucettina accesa in fondo al tunnel.
E pur nel suo forzatissimo e a tratti temerario ottimismo - spes contra spem - l´ispirazione è originale e anche ben riuscita nella sua scorrevolezza. Per tante e ottime ragioni che attengono al passato prossimo la sinistra è oggi «anaffettiva» e da tempo ormai vive di «spassionatezza». Ma proprio per ciò che sta a cuore a chi crede che abbia un futuro varrebbe la pena di mutare stato d´animo. Scoprire gli inganni della sua turbo-retorica solidaristica, mettere a nudo i guai che comporta il problema numero uno: la crisi d´identità del nuovo soggetto.
Tutto cambia, del resto, a questo mondo. Che il Pd sia oggi ridotto a una fetecchia, arriva a teorizzare Manconi, può garantirgli - «a determinate condizioni», beninteso - una crescita più robusta. E non è detto che una posizione oggi chiaramente in minoranza nel paese, sia destinata o condannata a restare tale per sempre.
A questo proposito l´analisi s´inoltra sui due temi rispetto ai quali, in questi ultimi mesi, chi ha votato Pd si è chiesto e richiesto a cosa diavolo fosse servito avere questo Pd: l´immigrazione e il testamento biologico. Ma la risposta, le speranze e i dispositivi per invertire l´andazzo, francamente, suonano nel complesso troppo articolate - almeno per chi, pure consapevole delle umane debolezze, non dispone di una pazienza senza limiti.
Così il libretto manconiano è pieno di spunti e approfondimenti preziosi. Su un certo linguaggio «sinistrese» sempre più privo di corpo e di contenuto (oltre che di mordente); su quanto poco ascolto si sia riservato a voci cattoliche, ma prima ancora intelligenti; sui limiti di certe manifestazione come quella di Di Pietro-Guzzanti a piazza Navona; sul valore, anche etico, della limitazione del danno, della la scelta del male minore, della filosofia del «meno peggio». Inoltre è ben scandagliato, in appendice, il «torvo-filantropismo» che muove e riveste gli istinti e le campagne del centrodestra. E in fondo suggestiva, per delineare una possibile convivenza, l´immagine del Pd come una famiglia allargata. Mentre la ricostruzione dei possibili percorsi di verdi, Rifondazione, Pcdi, Sinistra critica, neo-vendoliani e altri mancanti all´appello fa un po´ venire il mal di testa.
Al dunque la buona volontà c´è tutta, d´accordo sull´anima, ci mancherebbe, ma lo slancio vale soprattutto per la prima parte. Dopo si va lodevolmente, ma faticosamente controcorrente, e il dramma è che di questo benedetto Pd ancora restano più convincenti le magagne che le potenziali virtù.

il Riformista 7.3.09
Parla l'ex dirigente del Pci ed ex direttore del quotidiano
«Io la risanai. Poi all'Unità arrivò Walter»
di Tommaso Labate


«Se l'Unità ha ancora qualcosa da dire? La verità è che quel giornale, ora, non ha una linea politica. Non si capisce di chi è. Né a chi risponde. Né, tantomeno, a chi si rivolge. È il quotidiano del Pd di Veltroni, il Pd dei sogni, quello che non c'è». Di conseguenza, «se va avanti di questo passo, c'è il rischio che l'Unità scompaia».
Emanuele Macaluso guarda alla crisi del quotidiano fondato da Gramsci con gli occhi di chi, quel giornale, l'ha diretto, riformato e rilanciato. E la sua analisi parte proprio da lì.
Anno 1982. Caso Maresca e dimissioni di Petruccioli.
Quando arrivai a dirigere l'Unità il giornale viveva una crisi profonda. Non c'entrava il caso Maresca, quello che aveva portato alle dimissioni di Petruccioli. Il problema era la situazione finanziaria. Un organico enorme, due tipografie, cinque redazioni regionali, zero rivoluzione tecnologica: quel quotidiano era al tracollo.
C'era l'ombrello del Pci, però.
No. Il partito fu chiaro sin da subito: da lì non sarebbe arrivata una lira. Per cui, il problema era dell'Unità e l'Unità doveva risolverlo. Feci una rivoluzione, dai centri stampa alla chiusura delle edizioni locali di Genova, Torino e Napoli. Ci fu un grande ridimensionamento: dimezzata la redazione, decimati l'amministrazione e i tipografi. Eppure non ci fu nemmeno un giorno di sciopero.
Ma come? Nessuna protesta dinanzi a un piano del genere?
Niente. E sa perché? Perché sulle sorti dell'Unità discussero centinaia di migliaia di persone, che si strinsero attorno al giornale comprando le copie anche a diecimila lire. Coinvolgemmo tutti: dal comitato centrale del Pci ai singoli lettori. E il giornale si salvò, raggiungendo il pareggio del bilancio. Una situazione, questa, che durò anche dopo - sotto le direzioni di Chiaromonte, D'Alema e Foa - quando io ero passato a fare il presidente del cda dell'azienda. Poi arrivò Veltroni, e saltò tutto.
Oggi però non c'è più il Pci e anche i suoi eredi per discendenza diretta, Pds e Ds, sono scomparsi.
Già da prima, però, il giornale aveva chiarito il suo rapporto con Botteghe Oscure. Tanto per essere chiari, l'Unità era di proprietà del partito ma aveva smesso di esserne l'organo. E qui arriviamo al vero, grande problema di oggi.
In che senso, scusi?
Nel senso che di un giornale si deve sapere che cosa è e di chi è. Oggi nessuno ha queste informazioni. Tutti dicono che l'Unità «fa comunque capo al Pd» che, però, ha pure Europa. Allo stesso tempo, però, non si capisce a chi rispondono questi due giornali. E quindi siamo al paradosso che il Pd in teoria ha due giornali mentre in pratica non ne ha manco uno.
Sì, ma l'arrivo di Soru...
Anche dopo l'arrivo di Soru l'equivoco è rimasto. Non solo, quel signore si comporta come un sordomuto e non dà spiegazioni. Perché ha comprato l'Unità? Perché pensava che potesse avere un mercato? Oppure per un'intesa politica con Veltroni, col quale ha poi scelto anche la nuova direttrice? Ecco, sinceramente non avevo mai neanche sentito parlare di un editore che prende un giornale e dopo pochi mesi dice "scusatemi ma io mi voglio tirare fuori".
Più d'uno risolve l'enigma guardando alle elezioni sarde. E lei?
A me pare che la scelta di Soru non fosse imprenditoriale. Altrimenti, l'editore sarebbe rimasto in sella. Se invece l'obiettivo di tutta l'operazione era proteggere sia la segreteria di Veltroni sia la campagna elettorale... beh, allora tutto si spiega.
Morale?
Non si tratta così una redazione e, soprattutto, non si possono mandare allo sbaraglio i lettori. Già, (scandisce, ndr) i lettori. Era stata data loro una prospettiva, un progetto, e invece sono stati ingannati. È questo l'aspetto più grave di tutta la faccenda. Oggi l'Unità non ha una linea politica. Vive nello schema di chi vuole tutto e il contrario di tutto. Ma, alla fine, non ottiene nulla. Sotto questo profilo è in linea col progetto di Veltroni, che pretendeva di coprire tutti gli spazi e invece non ne ha coperto nemmeno uno.
Macaluso, non arriverà anche lei a rimpiangere l'era Colombo-Padellaro?
Quando riaprì sotto la direzione prima di Colombo e poi di Padellaro, l'Unità aveva qualcosa da dire proprio perché aveva una linea politica chiara. Si poteva condividerla o no, io non la condividevo, ma giornalisticamente quel quotidiano aveva un'identità e un profilo chiarissimi. Stava in un filone politico-culturale in cui si riconosceva un pezzo della sinistra e faceva una battaglia vera. All'Unità di oggi, ripeto, manca una linea. E il rischio, se va avanti così, è che quel giornale scompaia.
Nel frattempo, però, si parla di un «piano Epifani» per salvare la testata. Che ne pensa?
Negli anni '50 la Cgil ce l'aveva, un quotidiano. Si chiamava Il Lavoro. Pensi che ho cominciato a scrivere proprio lì. Ma che senso ha, oggi, «un giornale della Cgil»? Che succede, l'Unità diventa l'organo del sindacato? Oppure è il sindacato che fa un giornale con una proiezione politica molto marcata? Mah… A me pare un'impresa a dir poco velleitaria.

il Riformista 7.3.09
Impiegato Zipponi. Il Prc: «Se ne vada» Lui: «Mi licenzino»
Scissionista e stipendiato
di Serenella Mattera


Un divorzio non è mai piacevole. Tanto più quando non è consensuale. Ma la scissione di Rifondazione comunista dopo la fuoriuscita di Nichi Vendola e dei suoi, si sta rivelando qualcosa di più di un semplice divorzio politico. C'è, tra gli altri, ancora da risolvere un problema. Quello di chi continua a ricevere a fine mese lo stipendio dal partito, anche se non ha rinnovato la tessera ed è andato via, magari sbattendo la porta. Fuoriusciti. Ma dipendenti. Paolo Ferrero non ne ha licenziato nessuno: ha dato incarico ai suoi di risolvere la cosa consensualmente. E ci è voluto un po' di tempo, ma alla fine un accordo è stato trovato. Non con tutti, però. Con qualcuno è ancora muro contro muro. E, come in ogni cattivo divorzio, si potrebbe iniziare a parlare attraverso i rispettivi avvocati.
«Mi hanno annunciato informalmente il licenziamento. Attendo di sapere cosa decidono. Poi eventualmente mi rivolgerò al mio legale». A parlare così è Maurizio Zipponi, ex sindacalista, leader della Fiom prima a Brescia e poi a Milano, e infine nel 2006 parlamentare per il Prc. Eletto come indipendente, Zipponi si è poi iscritto al partito e ne è diventato responsabile dell'area Lavoro. Perciò ora sembra uno scherzo del destino che proprio lui sia tra i fuoriusciti che non riescono a trovare un accordo con la dirigenza per scindere il proprio contratto. D'altra parte, sostiene la maggioranza di Ferrero, e forse non a torto, come si può pensare di andarsene da un partito e insieme pretendere di continuare a restarne funzionario stipendiato?
Una premessa è invece necessaria, secondo Zipponi. «Io non sono uscito dal partito, semplicemente non mi sono iscritto per il 2009». Ripensamenti nell'aria, allora? «No, la rottura è irreversibile - dice - Rifondazione è caduta nel ridicolo. La cacciata di Sansonetti da Liberazione e il commissariamento della federazione di Brescia (formalizzato ieri, ndr) sono atti di teppismo politico». Non chiamatelo "fuoriuscito", dunque, e neanche vendoliano. La Sinistra di Vendola, infatti, è solo una delle possibili opzioni. L'ex leader della Fiom potrebbe anche finire nel Pd o nell'Italia dei valori (voce, quest'ultima, che girava insistentemente a Brescia nei giorni scorsi). «Sceglierò - dice - chi faccia della rappresentanza del mondo del lavoro il suo centro politico».
Per il momento, l'ex sindacalista deve però risolvere la sua personalissima questione-lavoro. «È un po' singolare - sostiene Claudio Grassi, responsabile dell'area organizzazione del Prc - che Zipponi definisca il partito una banda di teppisti e poi venga a prendere lo stipendio ogni mese». E l'latro ribatte: «In Italia non esiste il delitto d'opinione, non è un delitto pensarla diversamente dal tuo datore di lavoro. E io ho continuato a fare la mia attività fino ad adesso. Conferenze, incontri, manifestazioni, anche organizzate dal Prc». Ma dal partito non sono proprio convinti che ciò voglia dire lavorare per loro.
Come si risolverà questa storia, non è dato sapere. Ognuno aspetta che sia l'altro a fare il primo passo. «In un'azienda normale avremmo già dovuto licenziarlo direttamente - sostiene Grassi - ma gli abbiamo parlato per chiedergli cosa intende fare». Risposta: «Mi hanno annunciato informalmente il licenziamento. Ho deciso di attendere cosa faranno e poi provvederò di cons

Repubblica 7.3.09
Brasile, aborto-shock a 9 anni la Chiesa scomunica i medici
I vescovi non sanzionano il patrigno-stupratore. Proteste di Lula
di Omero Ciai


«Un atto dovuto. E inevitabile». Così, anche in Vaticano, si commenta la scomunica inflitta dall´arcivescovo di Recife, in Brasile, alla madre e ai medici che hanno praticato l´aborto ad una bambina di 9 anni violentata dal patrigno. Al provvedimento ecclesiastico ha reagito, condannandolo pubblicamente, il ministro della Salute José Gomes. «Sono scioccato - ha detto Gomes - per questa decisione radicale, estremista ed inopportuna che nell´affermare a torto di voler difendere una vita, mette un´altra vita in pericolo». E, poco dopo, anche il presidente Lula ha detto che «come cristiano e come cattolico, mi spiace che un vescovo della Chiesa abbia un atteggiamento conservatore come questo. Una bambina stuprata non può avere un figlio anche perché correrebbe rischio di vita. Penso che sotto questo aspetto la medicina sia più corretta della Chiesa».
Ma in Brasile la polemica non si placa perché l´arcivescovo José Cardoso ha risposto alle critiche affermando «che la legge di Dio è superiore a qualsiasi legge umana», e che l´aborto è «un peccato sempre». Poi, smussando i toni, ha aggiunto: «La scomunica in un caso come questo è automatica. Ma non significa che siano condannati all´inferno. Tutti possono pentirsi se ammettono di aver sbagliato. Io - ha concluso - riceverei volentieri questa madre se chiedesse perdono». Una posizione condivisa anche a Roma. «La pena andava sanzionata - dicono alla Pontificia Accademia per la vita - perché lo prevede espressamente il Codice di Diritto Canonico di fronte ad un caso palese di aborto procurato».
I medici hanno spiegato di essersi attenuti alla legge: in Brasile l´aborto è permesso nel caso di pericolo di vita, e per volontà della madre. Arrestato la settimana scorsa, il patrigno, che ha 23 anni (ma che contrariamente ai medici non è stato scomunicato), ha ammesso gli abusi confessando di aver violentato la piccola per la prima volta quando aveva sei anni insieme alla sorellina di 14. Secondo i medici, la bimba, che è alta 1,36 e pesa 33 chili, poteva anche morire se avesse portato avanti la gravidanza. Che fosse incinta è stato scoperto dopo un ricovero a causa di dolori addominali e nausea.

Repubblica 7.3.09
Blitz della Casa Bianca: un decreto ripristina i finanziamenti alla ricerca
Lunedì l´ordine esecutivo: sarà finanziata la ricerca sugli embrioni
Rimossi i limiti decisi da Bush e che l´ex presidente aveva sempre difeso
di Alberto Flores D’Arcais


NEW YORK - Via libera alla ricerca sulle cellule staminali embrionali. Con un ordine esecutivo (che firmerà lunedì prossimo) Barack Obama ha deciso di ribaltare la linea che la Casa Bianca aveva tenuto per otto anni abolendo i limiti sul finanziamento federale imposti da George W. Bush nel 2001 su un terreno delicato come quello dell´embrione.
Obama lo aveva promesso in campagna elettorale - su questo era d´accordo anche il candidato repubblicano John McCain - e ha deciso di mantenere rapidamente la promessa nonostante le riserve di una parte del Gop e anche di qualche esponente democratico.
Parlando di questo argomento in alcune interviste televisive, nei giorni scorsi Obama aveva detto che avrebbe preferito che sulle staminali embrionali si pronunciasse prima il Congresso con una legge apposita. Ieri, improvvisa, la decisione di accelerare i tempi e di firmare un ordine esecutivo all´inizio della settimana prossima. Lo farà lunedì durante una cerimonia - secondo quanto anticipato da alcuni network Usa - nel corso della quale spiegherà (dicono �fonti´ della Casa Bianca) che la decisione é stata presa per «riportare l´integrità scientifica nel campo delle scelte politiche sulla salute».
Un´accelerazione dovuta anche ad altri due fattori: che i tempi per una legge del Congresso su questa materia si prospettavano piuttosto lunghi e che un tema così delicato e sensibile alle battaglie ideologiche e religiose rischiava di spezzare quel clima �bipartisan´ che Obama intende conservare in un momento di grave crisi economica come quello attuale. Dalla sua il presidente sa, del resto, di avere la maggior parte dell´opinione pubblica.
Secondo alcuni sondaggi oltre il 60 per cento degli americani é favorevole all´uso dei fondi di ricerca federali sulle staminali embrionali. Si tratta di un altro �ribaltone´ rispetto alla casa Bianca di Bush. L´ex presidente nell´agosto del 2001 aveva infatti firmato un ordine esecutivo con il quale autorizzava un limitato finanziamento federale in materia, ristretto solo alla ricerca su una sessantina di `linee´ di staminali embrionali già esistenti e vietando fondi pubblici per crearne altre. In realtà le "linee" (le coltivazioni di cellule) effettivamente utilizzabili risultarono poche decine e negli ultimi anni la ricerca sulle staminali che coinvolge l´embrione è continuata solo grazie ai fondi privati. Per ben due volte - durante gli otto anni della sua presidenza - Bush aveva poi posto il veto per bloccare le diverse iniziative del Congresso che miravano a cancellare questi limiti.
«Mi sento vendicato dopo otto anni di battaglia, questa decisione darà nuova forza e nuova vitalità al mio team di ricercatori». Così George Daley, che lavora all´Harvard Stem Cell Institute and Children´s Hospital of Boston ha commentato entusiasta la notizia. Tutti i maggiori istituti di ricerca americani avevano per anni criticato la decisione di Bush, sostenendo che il lavoro di ricerca sulle cellule staminali embrionali era quello che avrebbe portato più rapidamente a successi in campo medico e che in terreni come questo la scienza e non la politica devono essere l´ultimo giudice.

Repubblica 7.3.09
Il catalogo dei reati etnici
di Gad Lerner


Per conservare udienza (o meglio: audience), non più solo i politici ma anche gli studiosi ormai rischiano di assoggettarsi al "clamore" della cronaca.
Così l´inchiesta sul cosiddetto "stupro di San Valentino" nel parco romano della Caffarella ha scatenato un uso capzioso, falsamente oggettivato, della scienza statistica. Lo scopo? Catalogare la criminalità in base alla sua matrice etnica, nazionale o religiosa nell´Italia descritta grossolanamente come la Mecca del crimine. Lo so bene: chi denuncia la divulgazione strumentale di queste ricerche viene subito accusato di negare l´evidenza al solo scopo di difendere la nefasta ideologia "buonista". O peggio viene tacitato come complice degli stupratori, ottuso al punto di ignorare la sofferenza patita dalle loro vittime innocenti. Eppure bisogna pur dirlo, che si sta passando il limite.
In questa elaborazione di dati "politicamente scorretti" - e dunque di gran moda - consegue un notevole successo il professor Luca Ricolfi, che su La Stampa non si stanca mai di ribadire la propria assoluta neutralità di studioso. Da sociologo dotato di competenza tecnica, Ricolfi ha elaborato le percentuali delle violenze sessuali denunciate nel 2007. Per trarne la seguente conclusione: i romeni immigrati hanno una «propensione allo stupro circa 17 volte più alta di quella degli italiani». Un divario, per giunta, in crescita. Sempre i romeni risultano a Ricolfi «2 volte più pericolosi degli altri stranieri» quanto a rapine, «3-4 volte più pericolosi nei furti», mentre sono «leggermente meno pericolosi» nel tentato omicidio e nelle lesioni dolose.
Non ho motivo di dubitare dell´esattezza di tali calcoli aritmetici. Semmai fa sorridere che in altri interventi lo stesso (neutrale) Ricolfi raccomandi di evitare l´allarmismo e l´invenzione di emergenze. Ma se questa ha da essere l´ispirazione, mi chiedo se l´autore non dovrebbe in futuro dedicarsi a portare fino in fondo le conseguenze di tale metodologia applicata nella comunicazione pubblica.
Non siamo forse interessati ad altre scoperte? Per esempio: pubblicare tutte le liste di propensione reato per reato, magari distinguendo il grado di pericolosità su basi di reddito e mestiere, oltre che di nazionalità? Altri magari gradirebbero che s´introduca pure un censimento degli italiani pericolosi regione per regione: perché no? S´annidano più stupratori potenziali in Calabria o in Trentino Alto Adige? In città o in campagna?
Onde evitare poi spiacevoli discriminazioni, sarà il caso di mettere in guardia l´opinione pubblica riguardo alle illegalità cui sono più dediti gli stessi professori universitari e i giornalisti: suppongo non ne manchino.
Naturalmente il sociologo che elabora con cura le sue statistiche (peccato che la grande maggioranza degli stupri non vengano denunciati, inficiando la validità di quelle cifre suggestive) si dichiara estraneo all´uso distorto che ne fanno i mass media; cui peraltro ha strizzato l´occhio sostenendo che «l´Italia è diventata la Mecca del crimine». Definizione, quest´ultima, non proprio scientifica e peraltro contraddetta dai dati del Viminale. Ma che importa? Giungeranno comunque applausi scroscianti, e pazienza se fra gli estimatori c´è chi lucra politicamente e finanziariamente dalla diffusione di falsità grossolane.
Ormai il senso comune è plasmato dalla disinformazione. Molti cittadini in buona fede sono convinti che nel nostro paese la più parte degli stupri siano commessi da immigrati stranieri. In tv passa frequentemente la falsa notizia che gli stranieri costituirebbero l´80% della popolazione carceraria. Nel novembre 2007, dopo l´omicidio della signora Reggiani a Tor di Quinto, circolò sui giornali la notizia che fossero di nazionalità romena addirittura il 75% delle persone arrestate nella capitale dall´inizio dell´anno. Marzio Barbagli la definì «un´ondata di panico morale».
Con la scusa di controbattere un´inesistente rimozione (figuriamoci!) del pericolo rappresentato dalla criminalità straniera, quell´ondata di panico morale si è cronicizzata sotto forma di isteria collettiva. Fino a condizionare la serenità delle indagini di polizia, oltre che le scelte del governo.
Legittimando l´emotività della folla, o peggio mettendosi al servizio della politica, già in passato la scienza si ritrovò a giustificare pregiudizi e a certificare la necessità di discriminazioni. Magari senza accorgersene. Vi furono sociologi che, esibendo cifre all´apparenza inoppugnabili, additarono la "sproporzione" con cui talune categorie occupavano posti di potere e altri delinquevano in eccesso. Siamo sicuri che tale pericolo non si ripresenti?
Nessuno chiede di sottacere i problemi, né di censurare la ricerca sulla devianza. Ma la propaganda degli indici di pericolosità etnici, nazionali o religiosi è robaccia contro cui le società più evolute della nostra hanno già da tempo preso delle contromisure. Le persone responsabili hanno il dovere di non rifugiarsi dietro alla falsa neutralità delle cifre, oltretutto elaborate con criteri parziali e soggette a deformazione.

Liberazione 7.3.09
«Il cromosoma y non è sufficiente per tracciare un profilo genetico»
di Stefano Galieni


Da molto tempo, di fronte a omicidi efferati o a reati predatori come gli stupri, si scatena l'uso spettacolarizzante della genetica come disciplina in grado di comprovare definitivamente la colpevolezza o l'innocenza di chi è indagato. Ultimo, in ordine di tempo, il caso della brutale violenza inflitta ad una minorenne a Roma il 14 febbraio scorso. Emiliano Guardina, genetista presso l'Università di Tor Vergata di Roma, spiega: «Le analisi del Dna si basano sulla comparazione di specifiche sequenze variabili nella popolazione. Ognuno di noi ha specifiche variabili, analizzandone un certo numero (15 o 16) è possibile evidenziarne una per ogni individuo. Il profilo che se ne ricava è unico e deve combaciare perfettamente con quello di chi è accusato».
C'è chi ha parlato di Dna che si sono mischiati e di cromosoma y identificativo. Che significa?
Nel caso di violenze in cui i reperti sono presi da tamponi vaginali, il materiale esaminato è misto (vittima e aggressori) allora è utile isolare il cromosoma y - esclusivamente maschile - per ricavare un profilo dell'aggressore. Il cromosoma non è discriminativo ma è parentale.
Ma il cromosoma y è sufficiente per tracciare un profilo genetico?
Assolutamente no. Serve l'intero profilo che deve comprendere anche gli altri cromosomi e l'intera sequenza genetica. Nei paesi in cui in seguito a matrimoni sono le donne ad andare a vivere nella località in cui vivono gli uomini, il cromosoma y non migra, spesso è simile per molti individui. Se io vado a vivere da mia moglie a Milano, sposto il mio cromosoma a Milano e la variabilità è ridotta ma il cromosoma y di per se non è identificativo né può portare come unica prova ad un legame di parentela.
E pensare che c'è stato anche chi ha scritto di Dna diversi in base alla provenienza nazionale.
Non esistono varianti genetiche esclusive di singole entità geografiche. Posso dire che certe sequenze sono più frequenti in Spagna piuttosto che in Italia ma non posso e non debbo utilizzare questo come prova identificativa. So che esistono probabilità ma nessun elemento certo. Senza dimenticare che la specie umana è sopravvissuta solo grazie alla capacità di migrare, di mescolare i propri patrimoni genetici in maniera tale da sopravvivere in qualsiasi condizione. Pensi che una autorità riconosciuta come la Società Americana di Genetica Umana si è sentita in dovere di dire che certe ricerche che pretendono di trovare le proprie origini nel tempo attraverso una analisi del profilo genetico, non hanno alcun valore. Eppure c'è ancora chi crede questo.
Beh c'è anche chi utilizza la genetica per definire la predisposizione a comportamenti specifici.
Mi scusi per il termine ma questa è una cazzata. C'è una distanza siderale fra il comportamento individuale e il patrimonio genetico, ogni ricerca lo conferma ma basti pensare alla differenza che c'è fra gemelli monozigoti per capirlo. Solo che le persone vorrebbero una certezza rassicurante come questa, sapere che un tale gruppo nazionale ha lo stupro nel Dna, per potersela prendere con il gruppo.
Si, l'unica certezza è che lo stupratore è uomo
Si perché prevalgono approcci riduzionismi che non possono trovare voce nel terzo millennio. Eppure quanti plastici di Bruno Vespa continuo a vedere, quante spiegazioni contorte. Basterebbe dire che il dna è democratico non differenzia bianchi e neri, uomini e donne. Ma stiamo tornando alle teorie lombrosiane.
Si sopravvaluta la genetica forense?
Chi la esercita è molto prudente e prima di affermare con certezza che il Dna di un sospettato è quello rinvenuto sul luogo di un delitto ci pensa bene. Tutto deve combaciare anche se siamo in grado di recuperare l'intero profilo da una sola cellula. Ma non la si può considerare come unica prova per il castello accusatorio. Si rischiano errori e quando abbiamo dubbi sulla perfetta comparazione del profilo noi non ci permettiamo di emettere verdetti certi.

L'Espresso 6.3.09
Stefano Rodotà: Prigionieri del nostro corpo
di Daniela Minerva


Quando Emma Bonino e Pietro Ichino hanno chiesto, nei giorni scorsi, una moratoria sul testo Calabrò, in discussione al Senato, che si avvia a diventare la legge italiana sul testamento biologico, in molti hanno pensato che forse era la strada migliore. Per evitare una legge orribile che vieta di fatto a ciascuno la libertà di scegliere come e quando farsi o non farsi curare. Poi, il Senato l`ha rifiutata, ma il presidente Renato Schifani ha detto che, comunque, non c`è fretta e che il Parlamento deve prendersi tutto il tempo necessario per decidere su una materia così complessa. Insomma, tutta l`urgenza palesata dal centrodestra durante gli ultimi giorni di Eluana Englaro si è dissolta al vento di mille malumori, tanti e blasonati come quelli di Beppe Pisanu che obietta l`incostituzionalità del testo. E anche nel centrosinistra non sfugge a nessuno che il resto Calabrò, ancorché emendato in alcune sue parti, resta un resto pasticciato e inattuabile che permette agli operatori sanitari di mettere le mani sul nostro corpo senza che noi glielo consentiamo esplicitamente. Che genererà una serie infinita di controversie. E molti oggi si chiedono: ma c`è davvero bisogno di procedere con una norma di questo genere? Abbiamo girato la domanda al giurista Stefano Rodotà.
Professor Rodotà, lei vede l`urgenza di una legge sul testamento biologico?
«Nel nostro ordinamento abbiamo già tutte le norme che ci consentono di regolare la materia. Abbiamo il principio della libertà di cura espresso dalla Costituzione: la norma del Servizio sanitario sul consenso informato e la Carta dei diritti fondamentali dell`Unione europea che all`articolo 3 vi fa esplicito riferimento: la Convenzione di Oviedo sulla biomedicina che dà rilevanza alle direttive anticipate. Poi, nel codice civile è stato introdotto il cosiddetto amministratore di sostegno a cui delegare le decisioni per nostro conto. Insomma: certo non c`è vuoto legislativo».
Quindi non c`è bisogno della legge?
«Non ce ne sarebbe bisogno, perché non c`è vuoto legislativo. Ma non esiste una convenzione sociale di accettazione di questi principi, come dimostra il fascicolo aperto dalla Procura di Udine a carico di Beppino Englaro, che non ha senso dal punto di vista giuridico. E in assenza di una legge, il rischio concreto che si continuino a manifestare conflitti è del tutto evidente. Quindi, per avere garantita la zona di libertà che indica la Costituzione, serve una legge che dice: "Quella è una zona di libertà"».
Ma la legge possibile oggi è il testo Calabrò.
«No: quello è un resto contrastante con la Costituzione. Su questo non c`è il minimo dubbio».
Finiremo con l`essere l`unico paese al mondo con obbligo di cura?
«Sì. Eppure noi abbiamo una premessa costituzionale che tutela la libertà della persona e che vieta i trattamenti sanitari a chi non li accetti "se non per disposizione di legge". Ovvero in situazioni particolari, se ci sono pericoli per la collettività».
Stiamo parlando dell`articolo 32?
«Nell`articolo 13, l`articolo storico che fonda la libertà giuridica moderna, si dice che sono possibili limitazioni alla libertà personale attraverso la legge e con atto motivato dell`autorità giudiziaria. Il 32 è più forte: esplicita che la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. E riconosce che c`è un punto in materia di trattamenti sanitari dove il legislatore si deve fermare. La logica è quella dell`Habeas corpus della Magna Charta inglese del 1215, quando il re disse agli uomini liberi: "Non metteremo la mano su di te". L’articolo 32 è il moderno Habeas corpus: lo Stato sovrano democratico dice al cittadino che non violerà il suo corpo. Con un testo di legge come il disegno Calabrò torneremmo indietro di 794 anni».
Che tipo di legge dovremmo scrivere?
«Una legge estremamente leggera che renda possibile accertare la volontà della persona e renderla vincolante. E basta. In queste materie si deve procedere con una legislazione per principi, perché si tratta di materie nelle quali l`innovazione scientifica e tecnologica è rapidissima, e di conseguenza la legislazione non può essere concepita come un inseguimento continuo, sarebbe sempre in ritardo. Quindi la legge non deve definire dettagli tecnici. E deve preoccuparsi che i principi di riferimento, quelli stabiliti dalla Costituzione, possano essere applicati alle situazioni specifiche, perché la vita non può essere racchiusa in un unico schema. Nessuna persona è uguale all`altra, nessuna sensibilità personale o famigliare pub essere stabilita una volta per tutte».
In concreto, quindi, cosa deve definire la legge?
«Stabilire che la persona interessata debba essere messa nelle condizioni di poter liberamente decidere come applicare su di sé i principi di riferimento. Dunque, nel caso di un cittadino che si trovi in uno stato vegetativo dobbiamo fare solo due cose: accertare che lo stato sia effettivamente persistente; e accertare qual era l`effettiva volontà del soggetto, eventualmente ricorrendo all`ausilio di chi è stato nominato fiduciario dalla persona stessa».
Invece in Senato si stanno discutendo questioni di dettaglio: come valuta l`emendamento dei rutelliani che esclude l`idratazione e la nutrizione artificiale dal novero dei trattamenti che possono essere oggetto delle Direttive anticipate di trattamento? Piace anche al centrodestra e quindi potrebbe essere il testo definitivo.
«Si va alla ricerca di un compromesso, e si finisce col fare una forzatura col solo scopo di mantenere un imprinting ideologico. Ma questo tipo di esclusione è in contrasto con i principi che regolano la materia. L`anno scorso, con la sentenza 438/08, la Corte costituzionale ha sancito la validità del consenso informato perché è la sintesi di due diritti fondamentali: quello all`autodeterminazione e quello alla salute. Qualunque artificio che non tenga conto di questo è destinato a generare infinite controversie».

l'Unità 6.3.09
Ignazio Marino: "C'è il tentativo di cambiare la Costituzione"
di Jolanda Bufalini


Nel maggio del 2000 il chirurgo Ignazio Marino si trovò di fronte li caso di Milagros e Marta, le due sorelline siamesi unite in modo tale che l`intervento per separarle avrebbe dovuto sacrificarne una. «Mi rifiutai di fare quell`intervento. Tanto radicale è la mia contrarietà all`eutanasia: un chirurgo non ha studiato per sopprimere». E uno dei motivi, questo, del fastidio di Marino per la confusione creata da un «clima alterato: si contrappone il partito della vita a quello della morte per delegittimare l`avversario»
Lei ha detto oggi che l`unica via sarà l`ostruzionismo. Non crede alle parole di apertura?
«Vede, non mi fido. La destra ha presentato un Ddl incostituzionale e inapplicabile. Sono persone competenti eppure hanno scelto uno strumento inutilizzabile. Ridicolizzati hanno cambiato gli aspetti tecnici ma non quelli sostanziali: una legge nata per la libertà di scelta diventa una norma con la quale Mario Riccio, il medico di Welby, sarebbe incriminato. Oggi in commissione c`erano per il governo i sottosegretari Fazio e Roccella. Non ho sentito da loro parole di accoglimento, sulle due questioni irrinunciabili: il consenso informato e la possibilità, in ogni momento, per il paziente di esprimere il dissenso».
Umberto Bossi ha però chiesto che si lavori a una visione condivisa.
«Ho parlato ieri con Bossi. Immagino che ci vedremo la settimana prossima. Ho trovato in lui un atteggiamento di grande disponibilità al dialogo e di grande attenzione alla sofferenza. Esco incoraggiato da quel dialogo al quale ha partecipato il senatore Rizzi (Ln), anche lui medico rianimatore, e quindi una persona che si confronta con la sofferenza».
Allora c`è la possibilità di un dialogo trasversale?
«Noi stiamo affrontando il problema di terapie che allungano l`agonia delle persone. All`origine del clima attuale, a mio avviso, c`è la strumentalizzazione fatta da Berlusconi delle ultime fasi del caso Englaro. Ma nel 2005 Antonio Tomassini, medico, presentò un disegno di legge che io sottoscriverei. Anzi, non ho difficoltà a riconoscere che in molte parti del mio disegno di legge mi sono ispirato a quello dell`attuale presidente della commissione Sanità, anche lì si riconosce il diritto dei paziente di dire basta».
Sulla sospensione di idratazione e nutrizione sin qui non c`è stata nessuna convergenza
«Non sono un testone, ho passato lunghi anni in luoghi di cura. Se per nutrire devo praticare un incisione, inserire un sondino, usare prodotti farmacologici, dare punti di sutura, consultare un gastroenterologo, sottoporre al rischio di complicanze il malato, questo è un trattamento sanitario e nessuno può esservi sottoposto senza consenso. La verità è che c`è in atto un tentativo surrettizio di cambiare la Costituzione. Ma chi è contano alla libertà di scelta prevista dalla Costituzione lo proponga a viso aperto, perché è la Costituzione che prescrive di non invadere la dignità e il corpo del cittadino senza il suo consenso».
Il sottosegretario Mantovano chiede come si fa a sapere che la volontà di una persona non è cambiata, quando non è più in grado di esprimersi.
«Insisto, è la proposta della maggioranza che crea un obbligo, noi siamo per la libertà di scelta. Si può scegliere che venga fatto ogni tentativo che la tecnologia consente. Si può scegliere, nel caso che non si sia più in grado di esprimersi, un fiduciario. Una persona che ci ama e ci conosce. E che deciderà insieme ai medici».

Liberazione 7.3.09
Il senatore Pd: «Fine vita, il testo Calabrò è incostituzionale»
Marino: «Ripartire da Oviedo. E non farò ostruzionismo»
di Angela Mauro


In vista della discussione sul testamento biologico martedì prossimo in Senato, Ignazio Marino, medico, ex presidente del gruppo Pd in commissione Sanità, di fede cattolica e di fatto promotore instancabile di una legge laica sul "fine vita", non ha perso proprio tutte le speranze per un dialogo con il Pdl in modo da raddrizzare la linea del testo Calabrò. «Se accettano di inserire nell'articolo 1 un riferimento alla convenzione di Oviedo, allora può partire la vera discussione...».
L'esame degli emendamenti è slittato a martedì. Il weekend porterà buoni consigli?
Giovedì in commissione ho parlato chiaramente. Finora del testo Calabrò è cambiato ben poco, è stata eliminata solo la parte impraticabile che obbligava i cittadini che volevano dichiarare le proprie volontà sul fine vita a recarsi ogni tre anni dal notaio accompagnati dal medico e da un fiduciario. Una disposizione che, se attuata da un terzo degli italiani, porterebbe i notai a produrre ben 85mila atti gratuiti e ogni medico, che in Italia ha circa 1.500 assistiti, a recarsi dal notaio 500 volte l'anno, insomma andare dal notaio sarebbe diventata la sua attività principale.
Si trattava di una questione di forma che di fatto rendeva inapplicabile il testamento biologico. Ora, eliminato questo ostacolo, nel testo Calabrò resta però tutta la questione sostanziale. E cioè il fatto che un medico che acconsenta alla volontà del paziente di mettere fine alla propria assistenza e che quindi acconsenta alla fine naturale della vita sia di fatto esposto ad un reato penale. Pensiamo alla situazione di Pier Giorgio Welby: Mario Riccio, il medico che l'ha assistito e che ha assecondato la sua volontà di morire, sarebbe un criminale se il testo Calabrò fosse stata legge. Il Pdl risponde dicendo che sono io a non comprendere che invece la loro proposta non impedisce al medico di comportarsi come ha fatto Riccio. Allora io dico: benissimo, se così è, togliamoci dall'impasse e accettate di scrivere all'articolo 1 che il punto di riferimento è il consenso informato del paziente, cioè che ognuno può decidere di esprimere un dissenso alla terapia in ogni momento, come stabilisce la convenzione di Oviedo recepita in Italia con la legge 145 del 2001.
Il Pdl dice che il consenso informato c'è già nella proposta Calabrò.
Se a me e a molti viene il dubbio che di fatto la legge esponga i medici e i cittadini ad una conflittualità che può finire in tribunale e se il Pdl mi dà ragione sul fatto che invece non debba essere così, allora perché non inserire il riferimento alla convenzione di Oviedo? Da lì poi comincia la vera discussione, anche perché resta lo spinoso capitolo su idratazione e nutrizione che il testo Calabrò non definisce più come trattamenti sanitari e li sottrae alla libera scelta della persona.
Il problema sta solo nel difficile, se non impossibile, dialogo con il Pdl o anche nel Pd ci sono ancora questioni irrisolte tra laici e cattolici sul testamento biologico?
La linea del partito è stata definita in modo molto chiaro dalla presidente dei senatori del Pd Anna Finocchiaro. La proposta di legge del Pdl, così com'è, è anticostituzionale: si è passati dall'obiettivo di dare ai cittadini una possibilità di scelta anche quando non potevano più scegliere ad una legge che invece toglie la libertà di scelta anche a chi può ancora decidere.
Pensa che Rutelli tornerà alla carica con la sua "terza via" tanto apprezzata dal Pdl?
Non ho parlato con Rutelli.
Lei ha minacciato l'ostruzionismo in commissione, se il Pdl non darà chiari segnali di disponibilità al confronto. La battaglia si sposterà quindi direttamente in Aula?
Teoricamente è possibile. Dipenderà dall'impegno di tutta l'opposizione e dalla disponibilità della destra. Se deciderà di fare chiarezza e di inserire il riferimento a Oviedo nell'articolo 1, decadrà ogni necessità di fare ostruzionismo. Sennò io, per quanto mi riguarda, considererò il tutto una mancata occasione e farò ostruzionismo.
E nel caso bisognerà vedere quanti la seguiranno nel Pd.
Devo dire che traggo molta forza dal sito - www.appellotestamentobiologico.it - che ho messo su con persone dai percorsi molto diversi tra loro, da Marcello Lippi e Luciana Littizzetto, Eugenio Scalfari. In poche settimane, abbiamo contato 250mila adesioni da parte di cittadini che con nome e cognome ci hanno espresso i loro pensieri, hanno dichiarato il loro appoggio al mio disegno di legge in materia, totalmente ignorato dalla destra che non pensa ad una legge utile ai cittadini, bensì ad un provvedimento che porti una bandiera ideologica.
Ritiene probabili ricorsi alla Corte Costituzionale se il testo Calabrò diventasse legge?
Credo sia inevitabile, ce ne saranno migliaia di persone in situazioni tali da ricorrere alla Consulta.
Sarebbe stato meglio non legiferare su questo tema, come proponeva Panebianco sul Corsera, indicando che negli ospedali italiani si staccano spine ogni giorno senza che l'opinione pubblica lo sappia?
Non so se si staccano spine, ma io sogno un paese dove non si dica "facciamo all'italiana".
Di Pietro, che pensa al referendum abrogativo, corre troppo?
In questo momento bisogna impegnarsi per fare una legge applicabile, utile e che difenda la libertà di scelta. Poi è chiaro che, se non ci si riesce, si indagheranno tutte le altre strade.

Corriere della Sera 7.3.09
Volontà bipartisan. Il senatore Rizzi, presente al dialogo: ci rivedremo, il collega pd è uomo ragionevole
«Fine vita», Bossi incontra Marino «Su temi così si decide insieme»
di Marco Cremonesi


Il capo leghista: di qua e di là estremisti fetenti pronti a far saltare tutto
Il Senatur si confessa infastidito da chi «sostiene di avere la verità in tasca» su scelte tanto drammatiche

MILANO — «Da una parte e dall'altra ci sono degli estremisti fetenti che vogliono mandare tutto a quarantotto». Umberto Bossi preferisce parlare poco di bioetica, e si è tenuto in disparte dalla discussione in corso sul testamento biologico. La cosa di cui però è assolutamente convinto è che «su un argomento di questo genere non è possibile che decida una parte da sola» e l'irritazione che traspare mentre parla degli «estremisti» denuncia un profondo fastidio per chi sente, su argomenti di questo genere, di «avere la verità in tasca » e di poter chiudere scelte drammatiche in una formula.
Nei giorni scorsi, tra i banchi del Senato, il leader leghista ha incontrato Ignazio Marino, il protagonista della battaglia dentro il Pd per la libera scelta sulla fine della vita. Era insieme a Fabio Rizzi, senatore padano e anestesista di professione, cui ha delegato (insieme al capogruppo alla Camera Roberto Cota) di occuparsi della materia. Rizzi conferma: «Per noi è molto importante trovare un terreno comune tra tutte le parti in causa». Con Marino, «che non è quel-l'estremista che ogni tanto dipingono, ma una persona molto ragionevole», è già in programma un faccia a faccia per la settimana prossima. E Rizzi si dice convinto che alla fine, «seppure su un argomento di questo genere forse non riusciremo ad avere l'unanimità assoluta, penso che la maggioranza sarà assai più vasta di quel che si può pensare oggi. Certo, magari i radicali saranno comunque contrari. Ma io credo che il Pd potrà riconoscersi in larga parte nel futuro testo, e non soltanto l'area di Dorina Bianchi».
Alimentazione e idratazione resteranno comunque un obbligo di legge a cui i medici non potranno sottrarsi. Eppure, secondo Rizzi, «questo è un falso problema. Perché la verità è che con certi pazienti è sufficiente non accanirsi e se ne vanno da soli». L'esempio è quello degli «antibiotici in caso di broncopolmonite e più in generale tutto ciò che accompagna la vita dei pazienti in stato vegetativo». La dichiarazione anticipata di trattamento (Dat) farà dunque fede proprio sotto questo profilo: l'individuo potrà in quella sede scegliere se rinunciare a qualsiasi forma di accanimento. Il principio, secondo Rizzi, è «nessuna forma di eutanasia, nessuna forma di accanimento ». La Lega ha «insistito per dare assoluta chiarezza alla Dat, e abbiamo convenuto con il Pd — prosegue Rizzi — sulla centralità assoluta del consenso informato, che difatti sarà portato all'articolo 1 della legge, quello che fissa i principi generali». La Dat, una volta redatta, sarà conservata in un archivio presso il ministero alla Sanità. Secondo il senatore- anestesista «si affinerà ulteriormente la figura del fiduciario ». E in caso di contenzioso tra quest'ultimo e il medico curante, il ddl Calabrò prevede sia chiamato a decidere non più la magistratura ma un collegio ad hoc nominato dall'Asl di competenza territoriale. Conclude Rizzi: «Una cosa è certa. Bossi, il nostro grande saggio, non consentirà che su questa legge si strappi con metà del parlamento».

Repubblica 7.3.09
Morire in coppia nella clinica dell´eutanasia
Erano entrambi malati di cancro. La figlia: hanno fatto una cosa bella e importante
di Enrico Franceschini


Erano marito e moglie. Erano entrambi malati di cancro. E hanno deciso di morire insieme. Una coppia di anziani cittadini britannici si è tolta la vita con un suicidio assistito presso la "Dignitas", la clinica svizzera che offre questo genere di servizi, in ottemperanza alle leggi dello stato elvetico, uno dei pochi al mondo che lo consentono. Lo ha annunciato la figlia della coppia a Londra, dove l´eutanasia è vietata dalle legge, e aiutare persone a uccidersi può comportare una pena fino a un massimo di 14 anni di carcere. Ma la notizia coincide con la decisione dell´Alta Corte che tale disposizione va sostanzialmente ignorata e con nuove norme introdotte dall´associazione dei medici, in base alle quali un ufficiale sanitario deve tenere conto del desiderio "esplicito" di un paziente di non prolungare la sua vita, se gravemente malato. Sebbene il governo di Gordon Brown abbia segnalato di recente che non intende modificare la legislazione in materia, un membro della Camera dei Lord ha reagito affermando che intende ripresentare un progetto per legalizzare l´eutanasia. Viceversa, un ex ministro del partito conservatore accusa che l´atteggiamento dell´Alta Corte equivale di fatto a permettere già oggi l´eutanasia, «facendola entrare dalla porta sul retro».
A riaccendere il dibattito contribuisce il fatto che Peter e Penelope Duff, la coppia che ha scelto il suicidio assistito in Svizzera, erano molto ricchi e piuttosto noti. Lui era un importante produttore di vino, presidente della International Wine Competition e promotore del Festival delle arti di Bath, la città dell´Inghilterra meridionale in cui vivevano. Il signor Duff, che aveva 80 anni, soffriva di cancro al colon, che si era esteso al fegato; la moglie, che aveva 70 anni, era malata da tempo di una rara forma di tumore gastrointestinale. «I miei genitori hanno fatto una cosa bella e importante», ha detto la figlia Helen alla stampa. «È una storia meravigliosa, che per il momento non posso rivelare nei dettagli a causa delle questioni legali che vi sono connesse». I Duff si sono spenti il 27 febbraio alla clinica "Dignitas" di Zurigo, apparentemente con una forte dose di barbiturici. Sono soltanto la seconda coppia del Regno Unito che ha scelto la morte assistita presso la controversa clinica svizzera: nel 2003 fece altrettanto una coppia di britannici, entrambi 50enni, lui sofferente di epilessia, lei di sclerosi multipla. Nessuno dei due era malato terminale, ma non sopportavano più di vivere in quelle condizioni e la legge svizzera non richiede che le persone che vogliono fare ricorso all´eutanasia siano in punto di morte.
I coniugi Duff sono la prima coppia britannica a commettere un suicidio assistito da quando il Lord Chief Justice, massima autorità giudiziaria nazionale, ha segnalato che chi aiuta un malato terminale a morire non deve essere processato, anche se la legge che condanna simili azioni rimane in vigore. La decisione è stata seguita, rivela il Times di Londra, da nuovi regolamenti approvati dal General Medical Council (Gmc), in cui i medici vengono avvertiti che potranno perdere la licenza se rifiutano di sospendere trattamenti che prolungano la vita a malati terminali, i quali abbiano affermato esplicitamente di non volerli.

Repubblica 7.3.09
Il vicolo cieco degli atei
Contro gli studiosi che pensano di distruggere il fenomeno religioso gli scienziati non cancellano il sacro
di Roger Scruton


Ma le stesse scoperte scientifiche più recenti non sono in contraddizione con l´ipotesi della trascendenza
Da Dawkins a Dennett, da Harris a Hitchens certe posizioni radicali risuonano con forza nei media odierni
Ci sono misteri che i fisici esplorano con uno stupore sempre crescente
La persistenza della fede non può essere spiegata con l´ignoranza

Di fronte allo spettacolo delle crudeltà perpetrate in nome della fede, Voltaire pronunciò il famoso appello: «Ecrasez l´infâme!». Numerosi pensatori illuminati lo hanno seguito, affermando che la religione organizzata è il nemico del genere umano, la forza che divide il fedele dall´infedele e che per questo eccita entrambi e autorizza l´omicidio.
Richard Dawkins è l´esempio vivente più influente di questa tradizione, e il suo messaggio, echeggiato da Dan Dennett, Sam Harris e Christopher Hitchens, suona forte e chiaro nei media odierni come fece il messaggio di Lutero nelle chiese riformate di Germania. La violenza delle diatribe scaturite da questi atei evangelical è notevole. Dopo tutto, l´Illuminismo si è verificato tre secoli fa; gli argomenti di Hume, Kant e Voltaire sono stati assorbiti da ogni persona beneducata. Ma cosa si può dire di più? E se lo si deve dire, perché dirlo in maniera così eclatante? Del resto non è forse vero che coloro che si oppongono alla religione in nome della gentilezza hanno il dovere di essere gentili, anche nei confronti - anzi, specialmente - dei loro avversari?
Ci sono due ragioni per le quali le persone iniziano a gridare contro i propri avversari: o quando pensano che il loro avversario sia talmente forte che bisogna usare contro di lui qualsiasi arma o quando ritengono che la propria argomentazione sia così debole che deve essere rafforzata dal rumore.
(...) Dawkins e Hitchens sono inamovibili nel dire che il panorama scientifico ha completamente scalzato le premesse della religione e che solo l´ignoranza può spiegare la persistenza della fede. Ma che cosa ci dice esattamente la scienza moderna, e dove essa contrasta con le premesse del credere religioso? Secondo Dawkins (e qui Hitchens lo segue), gli esseri umani sono «macchine di sopravvivenza» a servizio dei loro geni. Noi, per così dire, siamo dei sottoprodotti di un processo che è completamente disinteressato rispetto al nostro benessere, siamo macchine sviluppate dal nostro materiale genetico in modo da promuovere il suo obiettivo.
Gli stessi geni sono molecole complesse, messe insieme secondo le leggi della chimica da parte di una materia che è stata prodotta da un brodo primordiale che un tempo bolliva sulla superficie del nostro pianeta. Non è noto in che modo tale brodo sia arrivato lì: forse alcune scariche elettriche hanno permesso che atomi di azoto, idrogeno e carbone si legassero insieme in catene adeguate fino a quando una di essa raggiunse il notevole risultato di codificare le istruzioni per la sua propria riproduzione. La scienza un giorno potrebbe essere capace di rispondere alla domanda di come tutto ciò sia avvenuto. Ma è la scienza, non la religione che darà una risposta.
Sarà sempre spiegata dalla scienza (più dall´astrofisica che dalla biologia) anche l´esistenza di un pianeta in cui gli elementi abbondano nelle quantità osservate sul pianeta Terra. L´esistenza della Terra è parte di un grande processo che si va schiudendo, che sarebbe o non sarebbe potuto iniziare con un Big Bang, e che contiene molti misteri che i fisici esplorano con uno stupore sempre crescente. L´astrofisica ha posto tanti interrogativi quanti è riuscita a risolverne. Ma questi sono interrogativi scientifici, che devono essere risolti scoprendo le leggi del moto che governano i cambiamenti osservabili a ogni livello del mondo fisico, dalla galassia alla supernova, dai buchi neri al quark.
È il mistero con cui ci confrontiamo quando guardiamo in alto verso la Via Lattea, sapendo che la miriade di stelle responsabile di quella striscia di luce sono solo stelle di una singola galassia, quella che ci contiene, e che oltre i suoi confini una miriade di altre galassie girano lentamente nello spazio, alcune che si stanno spegnendo, altre che stanno emergendo, tutte comunque sempre a noi inaccessibili: ecco, questo mistero non chiede una risposta religiosa. Tale mistero scaturisce dalla nostra conoscenza parziale e può essere risolto solo da una conoscenza ulteriore dello stesso tipo: quella conoscenza che noi chiamiamo scienza.
Solo l´ignoranza potrebbe spingerci a negare questa fotografia generale, e gli atei evangelical affermano che la religione è obbligata a negare questa fotografia e perciò deve, in qualche misura, dedicarsi a diffondere l´ignoranza o prevenire in qualsiasi modo la conoscenza. Però tra i miei amici e conoscenti io non conosco una persona religiosa che nega questa fotografia, o che la considera come qualcosa che pone la più minima difficoltà alla sua fede. Dawkins scrive come se la teoria del gene egoista eliminasse una volta per tutte l´idea di un Dio creatore - come se non avessimo più bisogno di tale ipotesi per spiegare come siamo giunti all´esistenza. In un certo senso, questo è vero. E riguardo al gene stesso: come è arrivato a esistere? E il brodo primordiale? Tutti questi interrogativi hanno di certo una risposta se si va un gradino più indietro nella catena delle cause. Ma a ogni gradino incontriamo un mondo con una qualità singolare: cioè, si tratta di un mondo che, lasciato a se stesso, produrrà esseri coscienti, capaci di cercare la ragione e il significato delle cose, e non solo la causa.
Ciò che stupisce del nostro universo - che esso contenga la consapevolezza, il giudizio, la conoscenza di cosa è giusto e cosa sbagliato, e tutto quello che rende la condizione umana così singolare - non è reso meno stupefacente dall´ipotesi che questo stato di cose sia emerso lungo il tempo da altre condizioni. Se ciò è vero, tutto questo dimostra solo quanto erano stupefacenti queste altre condizioni. Il gene e il brodo primordiale non possono essere meno stupefacenti del loro prodotto.
Inoltre, queste cose potrebbero smettere di stupirci - o piuttosto, potrebbero cadere nell´alveo delle cose comprensibili - se potessimo trovare un modo per purificarle dalla contingenza. Ciò è quanto la religione promette: non necessariamente una proposta, ma qualcosa che rimuove il paradosso di un mondo interamente governato da una legge, aperto alla consapevolezza, che tuttavia è priva di una spiegazione: tutto qui, per nessuna ragione.
Gli atei evangelical sono consapevoli che la loro abdicazione di fronte alla scienza non rende l´universo più intellegibile né offre una risposta alternativa alle nostre indagini metafisiche. Essa semplicemente conduce l´indagine a uno stop. E la persona religiosa sente che questo stop è prematuro e che la ragione ha altri interrogativi da porre, e forse più risposte da ottenere di quante gli atei ci permetteranno di avere.
(traduzione di Lorenzo Fazzini)

Corriere della Sera 7.3.09
Il no di Roma per le frasi antisemite ritenuto intempestivo
Conferenza sul razzismo La Francia critica l'Italia
di Maurizio Caprara


ROMA — La Francia e il Vaticano non seguono l'Italia e gli Stati Uniti su «Durban2». Parigi ha confermato di voler partecipare alla seconda conferenza dell'Onu su razzismo e xenofobia, che si terrà dal 20 al 24 aprile a Ginevra, invocando una posizione comune europea utile ad aumentare il peso dell'Unione nei negoziati. Anche la Santa Sede — per voce di monsignor Silvano Maria Tomasi, osservatore permanente presso le Nazioni Unite — ha detto che «per ora» resta la disponibilità a partecipare. Giovedì il ministro degli Esteri, Franco Frattini, aveva annunciato il ritiro della nostra delegazione a causa delle «frasi aggressive di tipo antisemita» presenti nella bozza. L'Italia è stata il primo Paese della Ue a prendere questa decisione.
Ma la Farnesina sostiene di essere pronta a rientrare nella Conferenza se ci saranno modifiche alla bozza
ROMA — La Francia non ha gradito. Dopo che il ministro degli Esteri Franco Frattini ha annunciato giovedì il ritiro della delegazione italiana dai lavori preparatori della prossima conferenza dell' Onu sul razzismo, a Parigi la scelta è sembrata in contrasto con l'esigenza di aumentare il peso negoziale dell'Unione Europea adottando una posizione comune tra i suoi 27 membri. E questo malgrado l'obiettivo dei governi francese e italiano sia comune: il presidente Nicolas Sarkozy fu tra i primi a sostenere che a quel convegno, dal 20 al 24 aprile a Ginevra, non bisognerà partecipare se la base della discussione rimarrà una bozza che definisce «crimine contro l'umanità » la politica di Israele verso i palestinesi. «Noi abbiamo lasciato la porta aperta», sottolineano fonti della Farnesina per sdrammatizzare.
Mercoledì prossimo, sollecitato da Piero Fassino del Pd, Frattini riferirà sul ritiro alle commissioni Esteri di Camera e Senato. Ieri il portavoce del Quai d'Orsay, la Farnesina francese, Eric Chevallier ha marcato le distanze da quella tattica: «Abbiamo preso nota dell'annuncio italiano, in questa fase pensiamo che sia importante far parte del processo di preparazione e vedremo come va. Riteniamo importante essere all'interno del processo per far sì che "Durban2" non degeneri in tensioni invece di andare verso la difesa dei diritti umani ». Il nome «Durban2» indica la conferenza che dovrà aggiornare le valutazioni dell' Onu sul razzismo dopo la precedente, nel 2001 in Sudafrica, abbandonata da Usa e Israele perché palcoscenico per antisemiti.
La divergenza con la Francia colpisce. Sarkozy è citato con ammirazione come avanguardia della minaccia di non presentarsi in aprile a Ginevra, in caso di conferma della versione provvisoria del documento, in tre delle mozioni approvate il 4 dicembre dalla Camera con voti di centro-destra e opposizione. «La posizione francese non è tanto in contraddizione con la nostra. Se venisse fuori un testo accettabile, saremmo pronti a rientrare alla conferenza», sostengono alla Farnesina.
Sul Medio Oriente, al di là della facciata, tra i due Paesi la collaborazione è spesso anche competizione. E giovedì a Bruxelles Frattini non si è occupato soltanto di «Durban2 ». In Israele non era affatto piaciuta la sua intenzione di andare in Iran, Stato sottoposto a sanzioni per i piani nucleari e non visitato da oltre tre anni da ministri dell' Ue. Il viaggio per Teheran e Bam, nei dettagli noti alle diplomazie, prevedeva che martedì prossimo con Frattini partisse il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi, pronto a firmare un'intesa sui lavori alla tomba di Ciro il Grande. Frattini ha annunciato il ritiro da «Durban2» nel giorno del suo incontro con la collega israeliana Tzipi Livni. Stesse ore di un altro suo annuncio: sul rinvio della visita in Iran.

Corriere della Sera 7.3.09
In orbita il telescopio cacciatore di pianeti extraterrestri. «Non cerchiamo di trovare Et, ma la casa dove potrebbe vivere»
La Nasa alla ricerca della nuova Terra, parte Keplero
di Giovanni Caprara


MILANO - Per la ricerca di una nuova Terra attorno ad un'altra stella della nostra galassia Via Lattea forse è arrivato il momento tanto atteso. Salvo rinvii dell'ultimo momento, la Nasa ha lanciato questa notte da Cape Canaveral «Keplero», il primo cacciatore spaziale di pianeti extraterrestri. E' un corposo osservatorio alto cinque metri che nasconde al suo interno un telescopio di 1,4 metri di diametro capace di convogliare la luce cosmica su una camera con 95 milioni di pixel, la più potente mai lanciata. Il tutto è stato studiato appunto per scovare intorno a stelle simili al Sole nuovi pianeti della dimensione del nostro globo azzurro sistemati nella «zona abitabile», cioè alla giusta distanza dalla stella madre per consentire un equo flusso di energia in grado di alimentare la vita. «Non speriamo di trovare Et — ha notato William Borucki del centro Ames della Nasa e coordinatore della missione — ma piuttosto la casa dove potrebbe vivere ». E questo sarebbe già un risultato straordinario. Ma l'impresa non sarà semplice.
Finora con i telescopi terrestri a partire dal 1995 si è già rilevata la presenza intorno ad altre stelle della galassia di 340 pianeti. Però nella quasi totalità sono dei giganti gassosi come Giove. Di qualcuno roccioso ci sono solo indizi e per le immagini, finora solo il telescopio orbitale Hubble è riuscito di recente a cogliere una traccia che aiuta poco gli astronomi.
Serviva proprio uno strumento concepito per l'ardua caccia e così la Nasa progettava Keplero investendo 600 milioni di dollari allo scopo di condurre il primo censimento dallo spazio di pianeti extrasolari. L'indagine riguarda solo una regione limitata della Via Lattea dove si possono scorgere le costellazioni del Cigno e della Lira, che hanno già attirato l'attenzione del cacciatori di pianeti. In questo territorio infatti hanno catturato da Terra quattro corpi «gioviani» che saranno utilizzati come campioni di riferimento per scovarne altri ma più piccoli. Il metodo sarà sempre lo stesso: cogliere una variazione nella luminosità della stella quando il pianeta le transita davanti.
Un altro metodo utilizzato da Terra con tutte le incertezze del tremolio atmosferico misura le anomalie nella posizione dell'astro causate dalla forza di gravità di un corpo che gli gira attorno.
Per conquistare qualche risultato Keplero punterà per tre anni e mezzo il suo occhio sull'obiettivo scandagliando ogni mezz'ora centomila stelle. Le probabilità di cogliere un pianeta della nostra taglia su un'orbita come quella terrestre è dell'uno per cento. Se tutto andrà come ipotizzato dagli scienziati il risultato finale dovrebbe portare alla scoperta di alcune centinaia di nuove terre. «Se invece Keplero non le troverà — aggiunge Borucki — vuol dire che i pianeti come il nostro sono davvero rari nell'universo e noi siamo forse gli unici». «Quando volavo sullo shuttle — ricorda l'ex astronauta e astrofisico Umberto Guidoni — sognavo di poter viaggiare verso un altro pianeta. Ora Keplero porterà almeno il nostro occhio».

Corriere della Sera 7.3.09
La storia delle osservazioni
C'è nell'Universo il libro della natura
di Margherita Hack


Dal libro «Storia dell'astronomia» a cura di Michael Hoskin (Bur-Rizzoli) e appena ristampato, pubblichiamo un estratto della prefazione scritta da Margherita Hack

Nel XIX secolo nasce l'astrofisica, la scienza che studia la natura fisica dei corpi celesti, la loro temperatura, densità, stato della materia, composizione chimica, le fonti dell'energia irradiata dalle stelle. La tecnologia atta ad affrontare questi problemi era nata all'inizio dell'800: era la spettroscopia, cioè l'analisi della luce bianca irradiata dalle stelle, scomponendola nelle sue componenti mono-cromatiche, ottenendo quello che si chiama lo spettro. Questo — per usare le parole di Galileo — era il libro aperto della natura. Ma bisognava imparare a leggerlo, e le chiavi per una completa lettura furono scoperte solo un secolo dopo, all'inizio del Novecento con la rivoluzione della fisica quantistica.
Un importante sviluppo tecnologico si ottenne alla fine dell'Ottocento con l'invenzione della fotografia. Prima di allora gli astronomi, che si preparavano all'osservazione di un corpo celeste o del suo spettro, dovevano invece abituare l'occhio all'oscurità, osservare, ricordare e con una debole luce disegnare quello che avevano visto; riabituarsi all'oscurità e ricominciare le osservazioni. Quindi un procedimento fortemente soggettivo, dipendente dalla memoria visiva e dall'abilità di disegnatore dell'astronomo. Con l'introduzione della fotografia le immagini erano ottenute in modo completamente oggettivo, e potevano poi essere studiate e misurate con calma a tavolino. Col primo grande telescopio moderno, il 2,50 metri di Monte Wilson si ottengono anche le prime importanti osservazioni di importanza cosmologica, che Edwin Hubble riassume nella sua legge: tutte le galassie si allontanano da noi con velocità proporzionale alla distanza, un'indicazione che l'universo è in espansione.
Nasce così la disputa fra i sostenitori delle due principali teorie cosmologiche: universo evolutivo o universo stazionario, disputa a cui pone fine nel 1965 la scoperta della radiazione fossile a 3 gradi assoluti. Intanto Karl Janski scopre casualmente, all'inizio degli anni Trenta, che la Via lattea emette onde radio, e si comincia a capire che il cielo studiato fino ad allora, attraverso la sola osservazione della luce, ci mostra un aspetto molto parziale dell'universo.
Col lancio dello Sputnik, il 7 ottobre 1957 ha inizio l'era spaziale e un decennio dopo i telescopi in orbita attorno alla Terra ci mostreranno l'aspetto dell'universo a raggi X e nell'ultravioletto, radiazioni che la nostra atmosfera assorbe completamente. Si progettano i grandi telescopi della nuova generazione, resi possibili dai progressi dell'elettronica e dell'informatica, si moltiplicano i telescopi in orbita e le sonde che vanno a scrutare da vicino i pianeti del sistema solare, o addirittura che scendono sulla superficie di Venere, di Marte e infine sul lontano satellite di Saturno, Titano. Si scoprono nuovi pianetini oltre Plutone e centinaia di pianeti extrasolari, in orbita cioè attorno a stelle diverse dal Sole, e ci si interroga sulla probabilità di vita nell'universo.
Questo libro ci accompagna a rivivere la meravigliosa avventura dell'umanità, dai primi passi incerti del neonato alla corsa dell'atleta maturo, utilizzando come strumento tutti i campi della fisica che possiamo sperimentare nei nostri laboratori, per leggere il libro della natura.

Corriere della Sera 7.3.09
Viaggio all'Istituto dove era conservata e sezionata la materia grigia di grandi personaggi
Mosca, quei cervelli da clonare
Da Lenin a Sacharov: ma ora sono spariti
di Armando Torno


MOSCA — In questi giorni esce in Russia la traduzione di un saggio di Jochen Richter che nell'originale tedesco aveva come titolo Rasse, Elite, Pathos.
In esso, senza l'apparato iconografico (probabilmente considerato imbarazzante), si offrono informazioni sull'Istituto del Cervello di Mosca, oltre naturalmente a notizie sulla vita e le opere di Oscar Vogt (1870-1959), il neurologo nominato nel 1919 direttore del Kaiser Wilhelm Institut für Hirnforschung e che nel 1926 fu invitato da Stalin in Urss per studiare «dal vivo» il cervello di Lenin. Alcune eminenze sovietiche, in verità, erano in contatto con lo scienziato già nel dicembre 1924, quando lo stesso Lenin era morto da undici mesi. Vogt era un'autorità dell'istologia della corteccia cerebrale.
Già, l'Istituto del Cervello. Anche se non si chiama più in questo modo, l'edificio che lo ospitava sino al crollo dell'Urss c'è ancora ed è tal e e quale, sempre posto nella via Obuk, e la targa a sinistra dell'ingresso recita: «Accademia russa di medicina / Centro di ricerca neurologico / Dipartimento di ricerche sul cervello». Per decenni qui si raccolse e conservò, a scopo di studio, la materia grigia di eminenti personalità. L'ultima finita tra queste mura, posta in paraffina e tagliata a fettine per poter essere meglio studiata, fu quella del fisico Sacharov, morto nel dicembre 1989, quando il sistema sovietico non era ancora caduto e la pratica continuava. Dopo di che, l'abbandono. I faldoni dei documenti, secondo la procedura russa, sono finiti all'Archivio Centrale (e segretati); i cervelli sotto paraffina o affettati hanno trovato una sistemazione di cui nessuno sa, per ora, offrire indicazioni. C'erano quelli di rivoluzionari e politici come Lenin, Stalin, Andropov o Breznev; di letterati quali Gorkij, Majakovskij, Bulgakov, Barbusse (francese, ma morì in Urss); di scienziati come Korolev (il von Braun sovietico), Tupolev o Ilushin, noti per gli aerei a cui hanno dato il nome.
Il saggio di Richter mette in evidenza le ricerche dell'Istituto dall'inizio degli anni '60, allorché si parlò di clonazione utilizzando cellule cerebrali, «al fine di migliorare l'umanità » e creare una élite con i valori socialisti, o se si vuole una «razza di rivoluzionari» che non fosse caratterizzata dal colore della pelle o dai tratti somatici. In Germania negli anni '30 quest ricerche venivano condotte per l'uomo ariano, mentre il programma scientifico dell'Istituto di Mosca consisteva nel mettere a punto un metodo pratico per diagnosticare malattie e disfunzioni cerebrali, partendo dalla materia grigia «geniale» di Lenin. Impresa che ha qualche debito con le idee di Cesare Lombroso, la cui collezione di cervelli è ancora conservata in un museo di anatomia italiano.
Per tale scopo a Mosca furono messi a confronto i contenuti delle scatole craniche di «grandi» uomini con quelli di gente comune, delinquenti, deviati. Tutto cominciò dopo la morte di Lenin, e già nel 1925 si registra un decreto del Governo Sovietico per dar vita a una filiale moscovita dell'Istituto di Berlino (nel 1928 si trasformerà in ente autonomo, con sede in un ex ospedale evangelico, ora ambasciata di Francia). Di più: nel settembre 1928 un altro decreto, diffuso con risalto sui giornali, consacra il diritto di sottrarre il cervello degli uomini illustri (o con caratteristiche ritenute utili agli studi avviati). L'opinione pubblica si convince ben presto che il prelievo della materia grigia significa genialità. Per tal motivo non si contano più le pressioni di parenti e amici per ottenere il singolare onore. All'attuale ambasciata francese e poi all'istituto di via Obuk (nome di un medico delle Guardie Rosse) confluiscono i cervelli delle personalità dell'immenso territorio sovietico, di tutte le etnie, di presunti geni ma anche di politici, poeti, scrittori, filosofi, scienziati, nonché di imbecilli e criminali. Vogt ha qualche problema con il nazismo ma non con Stalin; anzi dopo l'esame del cervello di Lenin scrive al Piccolo Padre un breve rapporto, pubblicato poi sui giornali, nel quale assicura che il rivoluzionario possedeva una materia cerebrale superiore.
È un cedimento politico ma non razziale, avallato in quel tempo da colleghi di Vienna e Roma, da Karl von Economo e da Giovanni Mingazzini.
Il sogno sovietico non raggiunse mai risultati degni di storia, anche se l'istituto di via Obuk si riempì di cervelli. Si ammassò materia grigia per oltre mezzo secolo e, anche quando era il caso di smettere, fu impossibile fermare la burocrazia e quel dannato decreto del 1928.

il Riformista 7.3.09
La guerra di Monterchi per la Madonna del Parto
di Maria Zipoli


Piero della Francesca. Curia e Comune, guelfi e ghibellini, da anni si contendono l'opera. Il nuovo sindaco di centrodestra media. E Bondi riceve una lettera da un vecchio amico comunista.
La "Madonna del Parto" di Piero della Francesca, conservata a Monterchi.

Monterchi. L'annosa guerra tra Curia e Comune di Monterchi per la proprietà e la collocazione del celebre affresco della Madonna del parto di Piero della Francesca dovrebbe concludersi lunedì prossimo. Con un armistizio. La giunta di centrodestra di Monterchi, guidata dal sindaco Massimo Boncompagni, Udc, presenterà infatti in consiglio comunale l'atto di transazione della contesa giudiziaria tra la diocesi di Arezzo e il piccolo comune della Val Tiberina. L'accordo prevede una sorta di compromesso: il dipinto verrà collocato in una chiesetta di un ex monastero - come vuole la Curia - perché possa tornare ad essere pregata e venerata come immagine di culto. Ma la chiesetta scelta sarà nel centro storico e quindi fruibile dai turisti, come vuole il Comune che nell'affresco di Piero della Francesca ha sempre visto una fonte di reddito importante per la piccola comunità locale. Le ragioni della fede e del business, insomma.
Ma sarà davvero pace, quella di Monterchi, un piccolo borgo di 1.900 anime in provincia di Arezzo? Nella terra dei guelfi e dei ghibellini c'è da scommettere di no. Intanto si è formato un comitato di cittadini, guidato da Lina Guadagni, dove sono presenti anche due ex sindaci di sinistra, contrari allo spostamento della Madonna nella chiesetta dell'ex monastero, mentre oggi il centrodestra è favorevole. Inoltre il capogruppo del Pdci alla Regione Toscana Paolo Marini ha scritto al ministro dei Beni culturali Sandro Bondi per denunciare che sarebbe in atto «un grave tentativo di speculazione che andrà contro l'interesse della comunità locale, legittima proprietaria di quest'opera», scrive il capogruppo toscano del Pdci. Il Comitato civico accusa infatti che nell'ex monastero, nella cui chiesetta verrà posto l'affresco, dovrebbe sorgere un albergo.
Si dà il caso che Marini sia amico fraterno di Bondi. Entrambi sono originari di Fivizzano, in Lunigiana. Sono stati amici di pallone, sono andati in discoteca insieme e hanno frequentato la stessa sezione del Pci. Poi, agli inizi degli anni Novanta, la separazione politica. Bondi è approdato ad Arcore, Marini è rimasto comunista. Oggi li riunisce la Madonna di Piero.
Tutta la storia della guerra della Madonna comincia nel 1992 quando l'affresco fu tolto dal suo alloggiamento naturale e collocato in un ex scuola per essere restaurato. Da allora i sindaci di sinistra di Monterchi si sono sempre opposti alle richieste della Curia di riportare il dipinto nella sua sede naturale. A tal punto che nel 2004 la Curia aretina ha deciso di portare in tribunale l'intricata questione della proprietà dell'affresco e della sua più idonea collocazione. «Non possiamo accettare che l'affresco sia considerato soltanto per il suo aspetto estetico. Per noi cristiani è l'immagine della Madonna da venerare e pregare», dice monsignor Giovacchino Dallara, responsabile dei beni culturali della diocesi aretina.
La Chiesa si è fatta forte di documenti che comproverebbero che il dipinto sarebbe stato commissionato nel 1455 a Piero della Francesca da un prete ansioso di attirare i devoti in una chiesetta priva di parrocchiani chiamata Santa Maria della Momentana, sulle basse pendici del Citerna sotto lo sperone da cui sorge il borgo fortificato di Monterchi. Lungimirante fu quel prete che nel ‘400 pensò di attirare a sé devoti: ogni anno a Monterchi arrivano oltre 50 mila visitatori per ammirare la Madonna del Parto, tra i quindici dipinti più importanti del mondo.
Piero dipinse la Pala quasi sicuramente in memoria della madre originaria proprio di Monterchi, e da subito il dipinto sembra aver avuto semplicemente lo scopo di attirare la devozione delle donne incinte, quelle desiderose di procreare e quelle intimorite dalla gravidanza. Anche se oggi, per ironia della sorte, la scuoletta dove c'è l'affresco è stata dimessa perché a Monterchi, un borgo di poco più di 1800 anime, nel cuore della Val Tiberina, i bambini non nascono più.
Dopo 18 udienze andate a vuoto, il Comune di Monterchi, oggi di centrodestra e guidato da un sindaco cattolico, ha deciso di cambiare rotta rispetto alle giunte di sinistra e di arrivare ad un compromesso con la Curia aretina. Per il Comitato civico e per il comunista Marini è la resa alla Chiesa. Ma la Curia aretina rinuncia alla battaglia per la proprietà dell'affresco.
Ora l'ardua sentenza spetta al ministro Bondi, che dovrà ratificare o stracciare l'accordo di transazione che verrà approvato lunedì dal consiglio comunale di Monterchi. Bondi ascolterà le ragioni del suo antico amico comunista o quelle del sindaco di centrodestra e della Curia aretina? Marini ricorda che a pallone era solito lanciare Bondi, «terzino veloce ma poco tecnico». Gli urlava: «Dai, Sandro, vai...». E lui andava. Ma da allora i tempi sono cambiati, e questa volta l'ex compagno Bondi potrebbe dire di no all'amico che ha fatto da testimone al suo matrimonio.

il Riformista 7.3.09
«Stanley non era affatto un recluso»
L'orgoglio e i ricordi di miss Kubrick
intervista di Adriano Ercolani


Christine, moglie del regista, racconta il suo rapporto con il marito. Il set di "Orizzonti di gloria", le lodi di Scorsese e Spielberg, i ricordi degli amici Nicholson e Sellers.

Lei appare nella scena finale di "Orizzonti di gloria", cosa ricorda della lavorazione di quel film?
Stanley stava girando il film seguendo la sequenza cronologica, perciò ci stava lavorando da otto settimane, ed avevamo già deciso di sposarci, vivevamo insieme, con la mia figlia più grande, avevamo parlato della scena, fatto le prove. Girare è stato facile, Stanley era un regista molto più gentile rispetto agli altri con cui avevo lavorato, prendeva sempre gli attori da una parte e gli parlava con tranquillità.
Dieci anni dopo la sua morte, pensa che il cinema di oggi ne senta la mancanza?
Spero di sì, viene spesso ricordato e molti confessano quanto siano stati influenzati da lui. Naturalmente mi fa piacere sentire questi commenti.
In più di 40 anni passati insieme, come è cambiato Stanley Kubrick come uomo, marito e regista?
Non credo fosse cambiato molto. Ovviamente come tutti del resto, anche lui era cambiato, ma la cosa notevole, è che aveva mantenuto il suo entusiasmo ed il suo amore per i film e per il lavoro che faceva, era sempre alla ricerca della storia giusta, perciò era sempre lo stesso.
Nel documentario "Stanley Kubrick: A Life in Pictures", lei dice: "Mi sorride da 42 anni", cosa avevate in comune e quali erano invece le differenze?
Posso rispondere a questa domanda in un secondo oppure in un milione di ore. Eravamo entrambi interessati al cinema, io vengo da una famiglia legata al teatro, ho sempre voluto essere una pittrice, parlavamo sempre di film, perciò credo che avevamo molto in comune, e a parte questo, sono stata fortunata ad aver sposato una persona così intensa, così allegra e così interessante.
Quando e perché avete scelto di vivere lontano dal glamour? Rimpianti per la decisione?
No, la gente ha sempre descritto Stanley come un recluso, ma non lo era affatto, avevamo molti amici, e, specialmente quando i nostri figli erano piccoli, facevamo tante feste, e faceva sempre in modo di tornare per il fine settimana per stare insieme a cena, non eravamo né soli né reclusi, ci siamo divertiti anche se non andavamo spesso a cena fuori.
Qual è il suo film preferito di Stanley Kubrick?
Ho un debole per "Barry Lindon", ovviamente mi piace "2001: Odissea nello spazio", mi piacciono tutti, perché sono molto diversi l'uno dall'altro, non si possono paragonare tra loro.
Che tipo di film e quali registi piacevano di più a Kubrick?
Gli piacevano molti registi italiani, Bergman, alcuni spagnoli. Guardava molti film, anche quelli stupidi. Quelli di guerra non li considerava dei bei film ma voleva vedere i combattimenti aerei, e poi guardava molto sport.
Andava spesso a trovare suo marito sul set?
All'inizio ci andavo, ma mi sembrava che potevo distrarlo. Quando c'erano le scene di massa, lui voleva che le vedessi, allora ero presente. Poi ho cambiato idea, per infastidirlo.
Pensa che suo marito fosse pessimista riguardo al futuro della condizione umana?
Penso che come la maggior parte della gente, avesse abbastanza paura per il futuro di noi tutti, in questo senso era molto pessimista. A livello personale era un ottimista, credeva che tutto sarebbe andato bene, era molto positivo, mentre a livello artistico, credeva che potessero accadere le situazioni più terribili.
Peter Sellers, Jack Nicholson, Tom Cruise, e George C. Scott: chi le è piaciuto di più, come persona e come attore?
Molti, visti i tempi lunghi di lavorazione, sono sempre diventati un po' amici, venivano anche a cena a casa nostra. Nicholson era divertente, come Sellers.
Possiamo definire Stanley Kubrick uno dei più importanti artisti del 20° secolo?
Mi piace pensare che lui sia stato uno dei registi importanti. Per registi come Spielberg e Scorsese, è stato un grande esempio. Sono sempre orgogliosa quando dicono questo. Ha realizzato tante cose innovative, era molto indipendente.

Per gentile concessione di Coming Soon Television, traduzione di Katia Gizzi. L'intervista completa andrà in onda stasera alle 21.30 e in replica domani alle 18 (free via satellite, digitale terrestre, Sky ch 180)

venerdì 6 marzo 2009

Repubblica 6.3.09
E la donna violentata a Primavalle: non sono più sicura del riconoscimento
Stupro, nuovo test del Dna scagiona i due romeni
di Marino Bisso


ROMA - Un nuovo test del Dna scagiona i due romeni arrestati per lo stupro commesso la sera di San Valentino nel parco romano della Caffarella: il codice genetico dei violentatori è diverso da quello di Karol Racz e Alexandru Isztoika Loyos. E la donna stuprata a Primavalle non è più sicura del riconoscimento di Racz come uno dei suoi aggressori.

Anche le nuove analisi della Procura confermano che il Dna dei violentatori della quattordicenne aggredita con il fidanzatino a San Valentino non corrisponde ai due romeni arrestati quattro giorni dopo lo stupro. L´esito resta dunque negativo e di conseguenza favorevole ad Alexandru Isztoika Loyos, 20 anni, "il bondino", e Karol Racz, 36 anni, "il pugile" entrambi accusati della brutale violenza nel parco della Caffarella. Ma intanto un nuovo ordine di arresto è stato disposto per Racz, il pugile, indagato per un secondo stupro, avvenuto la sera del 21 gennaio, nel quartiere romano di Primavalle. Ad accusarlo è la quarantenne aggredita che, la scorsa settimana, lo ha indicato durante un faccia a faccia. Anche se in serata la donna intervistata da Annozero ha detto di non essere più così sicura: «Racz è molto somigliante ma non potrei giurarci e finché non sarò sicura al 100 per cento non dirò mai che lo sono».
I nuovi test, compiuti da Carla Vecchiotti, genetista della Sapienza, hanno quindi confermato quanto già stabilito dalla scientifica: ossia che il Dna estratto dai tamponi, dai mozziconi di sigarette e da altri oggetti non è di Loyos e di Racz. In procura precisano che l´attività di laboratorio non è ancora conclusa. Gli esperti devono ancora ultimare gli esami sugli indumenti della ragazzina e sul trench beige con una macchia di sangue che la proprietaria di un bar diede alla ragazzina dopo lo stupro. Intanto gli esperti hanno accertato che anche il Dna del fidanzatino è diverso dai due profili genetici identificati.
Restano dunque due "verità" contrapposte contro i due romeni arrestati. Da una parte c´è l´attività investigativa basata sul riconoscimento delle vittime e sulla confessione piena e particolareggiata di Loyos. Dall´altra ci sono invece i riscontri scientifici con i Dna differenti dai due indagati. Nonostante le discordanze, la procura è decisa a ribadire le accuse: sarà dunque il Tribunale a doversi pronunciare. Le indagini comunque vanno avanti: gli investigatori sentiranno un uomo detenuto da tempo in Romania, perché il suo cromosoma Y è compatibile con il Dna rinvenuto alla Caffarella. Non è certo lui l´autore della violenza ma gli inquirenti vogliono capire se un suo familiare possa essere implicato nello stupro della quattordicenne.

il Riformista 6.3.09
Ditemi voi se non è razzismo parlare di «dna romeno»
di Piero Sansonetti


Esagero quando dico che il razzismo, in Italia, è un male che sta dilagando? E quando dico che una parte della stampa favorisce questo dilagare? Mi pare di no. Provo a dimostrarvelo.
Ieri due giornali conservatori - Libero e il Giornale - hanno polemizzato contro chi nei giorni scorsi si era un po' indignato per la vicenda dei due giovani romeni accusati dello stupro della Caffarella (linciati dai mass media e poi scagionati dalla prova del Dna). In particolare i due giornali criticavano un mio articolo, pubblicato ieri l'altro sul Riformista nel quale sostenevo due tesi. La prima è che le Tv e i giornali italiani hanno il linciaggio facile. Basta una parola della polizia o una soffiata di un giudice per emanare la sentenza di condanna ed esporre l'imputato al pubblico ludibrio.
La seconda tesi è che nel nostro paese sta montando il pregiudizio razzista.
La base del pregiudizio è evidente in molti giudizi e cronache sugli accusati dello stupro alla Caffarella. Si è arrivati a parlare di un cromosoma Y che identificherebbe la nazionalità romena. Il concetto è chiaro: hanno un patrimonio genetico diverso dal nostro. Dunque, sono una razza.
Quando dico "pregiudizio razzista" mi riferisco a quell'idea secondo la quale esistono alcuni gruppi etnici, o popoli, o nazionalità, "portati" per propria natura al delitto, o a un particolare tipo di delitto. Sostenevo che questo pregiudizio è la base, il pilastro del razzismo, dai secoli dei secoli (gli ebrei complottano, gli zingari rubano i bambini, i romeni stuprano, i neri sono forti e violenti…); ed è la struttura ideologica sulla quale poi crescono le degenerazioni più feroci (l'antisemitismo, il Ku Klux Klan, o addirittura il nazismo).
Michele Brambilla, sul Giornale, mi fa una contestazione ragionevole. Dice: attenti a non confondere forcaiolismo e razzismo. Giusto, ha ragione. Sono due fenomeni diversi. Anche se spesso - ma non sempre - tendono a sovrapporsi, o ad allearsi. Dice Brambilla: i giornali hanno sbattuto in prima pagina mostri romeni, ma anche mostri italiani o di altri paesi, e li hanno spolpati ben bene prima che giungesse l'assoluzione. E poi non hanno di sicuro dedicato all'assoluzione lo stesso spazio e la stessa enfasi dedicata alle accuse e alle notizie infamanti (e false). Condivido l'obiezione, ma credo che non mi riguardi: ho scritto migliaia e migliaia di righe contro il forcaiolismo, anche contro quello che se la prende coi potenti, e appena qualche giorno fa - abbastanza isolato - mi sono schierato, proprio dalle colonne del Riformista, a favore della legge che vieta la pubblicazione delle intercettazioni.
Fausto Carioti, su Libero, fa invece un ragionamento diverso, e mi offre un argomento formidabile per rispondere a Brambilla del Giornale. Non posso che dire a Brambilla: leggiti l'articolo di Carioti e poi dimmi se non pare anche a te che il razzismo stia dilagando sui nostri giornali. Cosa scrive Carioti?
Diciamo che anche lui ha qualche dubbio sulla colpevolezza dei due romeni. Ma non ha dubbi - sembra di capire, o comunque ne ha pochissimi - sulla colpevolezza "dei romeni". In che senso? Dovrei copiare quasi tutto l'articolo per farvi capire bene il ragionamento, ma mi limito a trascriverne la frase chiave: «Gli investigatori hanno svolto un esame genetico sperimentale sul cromosoma "Y" degli aggressori (della ragazza della Caffarella, ndr). I dati ottenuti confermano che, molto probabilmente, costoro appartengono all'etnia romena».
Non mi sembra che questa affermazione abbia bisogno di spiegazioni. Vuol dire questo: i romeni hanno un patrimonio genetico diverso da quello nostro, di noi "bianchi". Sono una razza.
Ecco, questa è esattamente la base teorica del razzismo. Cos'è il razzismo? La teoria secondo la quale gli esseri umani non sono tutti uguali, ma sono divisi in razze - e naturalmente se le razze sono diverse ce ne saranno di superiori e di inferiori - e queste razze, sulla base della loro diversità biologica hanno anche diversità comportamentali. Dopo la tragedia del fascismo e del nazismo (e l'orrore del manifesto della razza, pubblicato in Italia nel 1939) il razzismo, nel nostro paese, sembrava sostanzialmente sconfitto. Anche perché la scienza aveva accertato e solennemente dichiarato che le razze non esistono. Oggi, purtroppo - è questo l'allarme che lanciavo col mio articolo - il razzismo sta riprendendo piede. Io non uso più questo termine, come facevo 10 anni fa, come insulto. Il razzismo, secondo me, è così diffuso nell'opinione pubblica, da essere diventato un punto di vista. Anche se infondato, anche se antiscientifico, anche se davvero pericolosissimo, è un punto di vista che ad esempio il collega Carioti rivendica puntigliosamente nel suo articolo. Articolo che, con una vecchia battuta, può essere riassunto così: «Non sono io razzista, sono loro che sono rumeni!».

Corriere della Sera 6.3.09
Sentenza a Bolzano
Albanese fu scambiato per pedofilo: condannate le mamme che lo aggredirono
di Toni Visentini


BOLZANO — Aveva rischiato il linciaggio un netturbino albanese scambiato per pedofilo in un quartiere popolare a Bolzano. Ora cinque degli aggressori, un uomo e quattro donne, hanno patteggiato un anno di reclusione ciascuno per l'aggressione.
L'equivoco era nato due anni fa a luglio: l'operaio — sposato e padre di due figli, regolarmente in Italia da quattro anni e addetto alla raccolta dei rifiuti umidi — stava raccogliendo le immondizie quando si era messo a scherzare con un paio di ragazzini, di 10 e di 12 anni. Uno dei due bambini era stato inavvertitamente toccato alla nuca dall'albanese intento a mimare un gioco. Il ragazzino era andato a casa, aveva raccontato la cosa alla madre che si era agitata e l'aveva raccontata ad altre donne, interpretando male quello che invece poi si era rivelato uno scherzo del tutto innocente, amplificato nel racconto degli interessati fino ad ingigantirsi nel passaparola tra le madri. Quasi un centinaio di persone, tra cui molte donne, si erano così fatte attorno all'operaio aggredendolo a calci e sberle. Ad evitare quello che sarebbe potuto risultare un vero e proprio linciaggio era stato l'intervento della polizia. Alla fine l'albanese, terrorizzato, era stato sottratto alla folla ed era stato accompagnato all'ospedale per accertamenti. La vicenda aveva suscitato molto scalpore in una città tutto sommato tranquilla come Bolzano, dove la cittadinanza non è solita cercare di farsi giustizia da sé. Era anche intervenuto il sindaco Luigi Spagnolli, che aveva chiesto ufficialmente scusa al lavoratore straniero a nome di tutta la città. «Occorre riflettere su quanto è accaduto — aveva detto — ma credo che non si tratti di xenofobia vera e propria». «La vicenda — aveva aggiunto— è nata da un equivoco e forse l'uomo non ha potuto spiegarsi a sufficienza a causa della lingua. Non per questo i bolzanini vanno criminalizzati, dato che si tratta di un episodio unico, causato forse dall'isterismo di massa».

Repubblica 6.3.09
Il Grande Fratello a Roma una super-centrale per sorvegliare la città
Gli industriali al sindaco: "Tutte le telecamere in rete"
di Eugenio Occorsio


L´obiettivo è cablare la capitale: "La tecnologia è meglio dei volontari"

ROMA - Telecamere ovunque, a partire dalle zone periferiche ad alto rischio. E un grande network ipertecnologico che le colleghi tutte ad una centrale operativa unica, in Comune o in questura. È il progetto "Roma città sicura" che l´Unione Industriali ha presentato al sindaco Gianni Alemanno. «Si è detto entusiasta, non la finiva più di chiederci dettagli», racconta Aurelio Regina, che dell´Unione è presidente. «Non si può andare avanti con i militari a mitra spianato - dice Regina - e delle ronde non voglio neanche parlare. L´unica soluzione per la sicurezza è la tecnologia». Il piano è la prima parte di un maxiprogetto per il digitale a Roma da 600 milioni di euro di investimenti in cinque anni. Il prossimo appuntamento, il 24 marzo, è con il ministro dell´Interno, Roberto Maroni. «Si tratta di posare centinaia di chilometri di fibre ottiche di nuova generazione che colleghino in una rete le migliaia di telecamere (6.000 solo quelle comunali, ndr) che ci puntano da ogni angolo della città, aggiungendone anche di altre nelle zone più oscure e più periferiche dell´area metropolitana».
Oggi le telecamere inviano le immagini tutt´al più a qualche postazione locale o a qualche gabbiotto di sicurezza senza "dialogare" le une con le altre. «La sfida è di metterle tutte in una rete interattiva, e di creare una vera cabina centralizzata dove personale qualificato, appartenente ad un corpo pubblico, le tenga sott´occhio». Anche le sale operative delle polizie private dovranno essere associate in questo network: la regia sarà al Campidoglio o in una sede del Viminale. Secondo il progetto, dovranno essere razionalizzate e tenute sotto controllo pubblico le immagini provenienti dai ministeri, da strade, banche, negozi, stadi, musei, stazioni della metro. E poi quelle che saranno riprese nei prati più sperduti di periferia. Non saranno più le immagini annebbiate e sfocate di oggi ma quelle nitidissime e sonore che le fibre ottiche potranno trasmettere. Perché la qualità, come la tv ad alta definizione, si ottiene con la velocità di trasmissione: le fibre esistenti garantiscono una capacità di 60 megabyte, quelle future si avvicineranno a 100. Per confronto, l´Adsl che porta Internet nelle case ha una potenza fra i 20 e i 50 megabyte.
«La nuova rete - precisa Regina - servirà innanzitutto per garantire Internet veloce a tutti. Nei tratti dove non sarà possibile arrivare con la fibra ottica, interverranno reti cellulari anch´esse di nuova generazione. Ma il primo utilizzo del network sarà per la sicurezza». Della rete faranno parte i "lampioni intelligenti" equipaggiati con sensori in grado di identificare se ci sono armi in zona, e con display per avvisi di pubblica utilità. I cavi elettrici, opportunamente ammodernati, saranno sufficienti a portare il segnale alla rete ottica. Che sarà realizzata per lo più da Telecom e comprenderà i pochi tratti di fibra "posati" a suo tempo da operatori come Fastweb, Colt e Bt. «Il sindaco ci ha garantito che renderà più rapido, con le opportune modifiche normative, l´iter autorizzativo per realizzare gli scavi, che comunque saranno, ancora grazie alle tecnologie, meno invasivi di quelli cui siamo abituati».

Repubblica 6.3.09
"Un problema per la privacy Più informazioni ai cittadini"
di Vladimiro Polchi


ROMA - «Telecamere private con funzioni di pubblica sicurezza? È un problema enorme ed è già in calendario un nostro provvedimento». Francesco Pizzetti, Garante per la privacy, non cela la preoccupazione di fronte all´ipotesi di un "grande occhio" che controlli tutto e tutti.
Eppure a Roma vogliono mettere in rete telecamere pubbliche e private.
«È un fenomeno già sorto negli ultimi tre anni, con l´introduzione di agevolazioni fiscali per incentivare la messa in collegamento delle telecamere private con sale aventi funzioni di pubblica sicurezza. Il problema si è ora accentuato con il pacchetto sicurezza e il decreto anti-stupri, perché si connette ai maggiori poteri dati ai sindaci e al federalismo sulla sicurezza».
Cosa può fare il Garante?
«Stiamo lavorando a un provvedimento che integri quello del 2004 sulla videosorveglianza. Una cosa è certa: se la telecamera privata è collegata con la questura, questo va detto ai cittadini, con un´informativa davvero esaustiva. Non è tutto. Martedì prossimo in un incontro al ministero dell´Interno vedremo se è possibile convincere il Viminale a segnalare anche le telecamere pubbliche con funzioni di sicurezza».

Repubblica 6.3.09
Bossi al Pd: doveroso l’accordo sul fine-vita
Nuovo rinvio per il ddl. Braccio di ferro su volontà del malato e ruolo del medico
Bianchi: "Se non cambia l’articolo 1 non lo voterò". D’Alema: è una legge mostruosa
di c.l.


ROMA - Nuovo rinvio, questa volta di cinque giorni, per favorire un´intesa sul testamento biologico. Al Senato la commissione Sanità che esamina il ddl e il suo carico di 553 emendamenti prende altro tempo. La maggioranza apre spiragli di confronto su due nodi delicati del testo, il consenso informato e la nutrizione artificiale. Ma il Pd resta cauto, pone le sue condizioni, non giudica quelle delle vere aperture.
E in attesa della ripresa del confronto, martedì prossimo, Umberto Bossi lancia più che un semplice invito ai contendenti: «Bisogna assolutamente trovare un accordo» possibilmente «ragionando». Massimo D´Alema resta scettico: «Se non si corregge questa proposta mostruosa il rischio è fare una norma che ci mette al di fuori dei paesi civili». E, un po´ a sorpresa, anche la cattolica del Pd Dorina Bianchi, reduce dal faccia a faccia di pochi giorni fa col segretario Franceschini, cambia registro: «Se la maggioranza non accoglie le nostre richieste di modifica sull´articolo 1, non sarò più disposta a votare questo testo». Tanto che perfino il suo "avversario" interno, Ignazio Marino, ammette che la collega «ha cambiato atteggiamento, anche se sarebbe stato preferibile come capogruppo qualcuno che condividesse la linea del partito». Il presidente del Senato Renato Schifani si dice fiducioso, l´intesa è possibile e «la concessione di più tempo favorisce il confronto costruttivo».
Si riprenderà con la riunione informale tra i capigruppo che il presidente della commissione Sanità, Antonio Tomassini, ha convocato per martedì. Per l´aula, il 18 marzo, c´è tempo. Ieri mattina il Pd si è presentato in commissione con un emendamento, prima firmataria la Finocchiaro, con cui si precisa che «l´attività medica è esclusivamente finalizzata alla tutela della vita e della salute», come già dispone il testo del Pdl, aggiungendo che quell´attività tuttavia deve essere «sempre subordinata all´espressione del consenso informato». Nessun accanimento, ma rispetto della volontà del malato, in sostanza. Proposta che tuttavia il relatore Calabrò (Pdl) ha giudicato «inaccettabile». Il democratico Marino non esclude il ricorso all´ostruzionismo e la Finocchiaro rincara mette in guardia: «Se si tenta di eludere questo principio, allora non possiamo intenderci. Occorre un cambiamento di filosofia». Il nodo resta. Il Pdl invece apre su idratazione e nutrizione: «Stiamo lavorando per trovare posizioni comuni, credo che arriveremo a un accordo» sostiene Calabrò. E lo spera il senatore valdese del Pdl Lucio Malana, che annuncia che il suo sarà un voto «del tutto libero da vincoli» e spera che nel partito non prevalga la linea «collaterale al Vaticano». I costituzionalisti riuniti da Astrid di Giuliano Amato intravedono già la possibilità di un ricorso alla Consulta dopo il varo della legge.
(c.l.)

Repubblica 6.3.09
Le colpe dell’opposizione
di Nadia Urbinati


La lunga marcia della sinistra italiana verso il nichilismo è cominciata alla Bolognina, poche settimane dopo la caduta del Muro di Berlino � è utile rammentarla per capire in quale grave situazione ci si trova ora. Non ho consultato gli archivi del Pci-Pds per verificare se la decisione di abolire un partito (allora si disse "cambiare nome") fosse stata presa collegialmente dalla Segreteria o dal Comitato Centrale. Ma per noi spettatori lontani, quella fu la decisione di un capo. Il quale dall´alto della sua personale opinione decretò che era tempo di cambiare: era la storia a chiederlo, disse. Molto probabilmente il mutamento era indispensabile; anzi lo era certamente. Ma venne effettuato nel peggiore dei modi possibili. Con un atto discrezionale, senza una deliberazione collettiva e ponderata; senza andare all´origine ideologica e ideale di quel cambiamento, che restò di facciata e vuoto di contenuti. Come un cambiar d´abito si passò dal comunismo di facciata al liberalismo di facciata (spesso al liberismo, naturale vicino di casa dell´economicismo marxista).
E da allora questo fu il metodo accreditato presso i dirigenti del maggiore partito della sinistra. Un metodo decisionista e personalista, che anticipava quello che ora tanto deprechiamo del Presidente del Consiglio. Un metodo anti-deliberativo, tipico di monarchie assolute o reggenti dispotici; un metodo che consiste nel decide d´arbitrio prima, per poi convocare organismi collettivi o congressi straordinari per legittimare post-factum quella decisione e soprattutto farla digerire al popolo subalterno. In questo stesso modo da allora il partito ha deciso-e-digerito altre risoluzioni, quasi tutte improvvide e sbagliate. Tra le peggiori delle quali c´è senza dubbio la famigerata bicamerale, quell´improvvida politica che ha fatto della nostra Costituzione una merce di scambio politico per creare alleanze e che, soprattutto, ha legittimato il patrimonialismo di Forza Italia. Il paese stava assistendo attonito e impotente alla formazione veloce e pericolosa di un potere assoluto � quello mediatico-patrimoniale - e i leader dell´opposizione hanno con grande intelligenza pensato bene di giustificarlo e legittimarlo, invece di imbrigliarlo e contenerlo. Hanno pensato di farvici accordi e usare l´arma del compromesso senza far troppo caso al fatto che solo tra eguali ci si può accordare; perché chi ha un potere sovrastante fa quello che vuole, e non onora gli accordi. Per fare accordi occorreva prima limitarne il potere. Il contrario sarebbe stato, come fu, un assurdo. Avevano mai avuto modo di leggere Locke o Montesquieu nei ritagli di tempo i dirigenti della sinistra?
Come in una giostra medievale, a forza di fendenti e picconate, la sinistra é stata ridotta a un´ombra di se stessa. Ed é ammirevole che i suoi elettori abbiano resistito per tanto tempo, impotenti di fronte alle violenze e improvvide offese dei capi. Da invenzione a invenzione: perfino imitando slogan di altri partiti in altri paesi (come faceva notare il corrispondente dall´Italia per il New Yotk Times dando l´annuncio delle dimissioni di Walter Veltroni) e mettendo insieme cose che non possono stare insieme, come il governo ombra britannico e il partito elettorale americano, un guazzabuglio che è stato degno di un apprendista stregone. Infine, a completare il capolavoro, le primarie: un metodo di selezione dei candidati che prevede un partito consolidato e infine una struttura federale del partito stesso: senza di che diventa guerra fratricida fra le mura delle città e delle contrade; il nemico sta dentro, con grande godimento dell´avversario vero che sta fuori. E poi, si può adottare un metodo che vive di conflitto a fondamento di un partito che ha bisogno di grande unità, almeno per stabilizzarsi? Metodi anti-democratici e rozzi, strutture e procedure sbagliate. E che cosa dire dei contenuti?
Sarebbe interessante sapere in che cosa credono questi dirigenti: sulla rappresentatività del sistema elettorale, sulla scuola pubblica, sulla giustizia sociale, sul conflitto di interesse, sulle politiche per affrontare la crisi economica, sul pluralismo religioso, sulla divisione tra stato e chiesa, sui diritti umani fondamentali, ecc. Non ci è mai stato detto con chiarezza: perché non era possibile fare chiarezza, visto che non c´era davvero un´unità di ideali e prospettive politiche, di alcuni ideali in particolare come quelli relativi all´interpretazione dei diritti individuali o dello stato laico. E infine, una nota dolentissima ma purtroppo realistica: molti dirigenti del Pd "vivono di" politica parlamentare essendo la politica il loro lavoro principale; questo dà loro una naturale disposizione all´inerzia e al rattoppo. Non dal centro potrà venire il rinnovamento. E di un rinnovamento di uomini e di donne c´è urgente bisogno. Senza del quale l´opposizione si consegna all´avversario e ne sancisce un potere già pericolosamente ingombrante e ai margini della costituzionalità. L´opposizione ha una responsabilità enorme, non solo o tanto verso i propri elettori, ma prima ancora e soprattutto verso i cittadini italiani: la responsabilità di contribuire a fare del paese una dittatura eletta.

il Riformista 6.3.09
Nuovo stop lo ha deciso l'assemblea di redazione, anche stamattina il quotidiano non sarà in edicola. Soru non cambia piano
L'Unità sciopera ancora e spera nel piano Epifani
di T. L.


AGLI SGOCCIOLI. Non passa la soluzione "lacrime e sangue" di Mr. Tiscali. Lo stato d'insolvenza è dietro l'angolo. Il leader Cgil, con l'aiuto di Fassino, ha il ruolo del Cavaliere nell'affare Alitalia.

La crisi avanza e la dead line dello «stato di insolvenza» (fissata per ora il 23 marzo) si avvicina. Al momento in cui il Riformista va in stampa, la redazione dell'Unità ha appena deliberato il secondo dei cinque scioperi previsti dal pacchetto votato giorni addietro: a meno di colpi di scena, oggi i giornalisti non lavoreranno per cui domani il quotidiano diretto da Concita De Gregorio non sarà in edicola.
Il piano lacrime e sangue proposto dall'editore Renato Soru - tra cinghie da tirare, collaborazioni da tagliare e prepensionamenti in massa - rimane praticamente intatto sul tavolo. Non a caso, infatti, l'incontro di ieri pomeriggio tra il comitato di redazione e l'amministratore delegato Antonio Saracino è stato sospeso (riprenderà oggi) per consentire al sindacato interno di discutere con i colleghi le (poche) novità. «La situazione è praticamente la stessa degli altri giorni. Segnali rassicuranti da parte dell'azienda non se ne vedono. A questo punto provvederemo ad aprire una vertenza sotto l'egida della Fnsi», dicono dalla redazione. C'è un solo punto che azienda e lavoratori del giornale fondato da Gramsci hanno messo a segno nella giornata di ieri. Come d'improvviso, sul tavolo del negoziato, s'è materializzato un milione e mezzo di euro, una specie di «contributo alla causa» arrivato - pare - da un investitore misterioso.
Renato Soru, quindi, tiene il punto. E conferma, cosa che ha fatto spiegato sia a Dario Franceschini che a Piero Fassino, la sua «non disponibilità» a rimanere il sella come propietario unico della testata. In poche parole, mister Tiscali è disposto a far sopravvivere l'Unità solo nel caso in cui altri investitori si facciano avanti. Non è una cosa facile, soprattutto di questi tempi. L'azienda ha bisogno di denaro liquido da far confluire nelle sue casse ma la pre-condizione per attrarre nuovi investitori è il pareggio dei conti in tempi rapidi. E a quell'obiettivo, ha fatto capire l'ex governatore sardo agli uomini di stretta fiducia, si arriva soltanto con un piano straordinario. Lo stesso contro cui l'assemblea di redazione ha deciso il secondo giorno di sciopero.
L'identikit dei nuovi investitori? La Legacoop s'è chiamata ufficialmente fuori dalla mischia. Con una nota diffusa alle agenzie, l'associazione delle cooperative ha precisato che «non rientra nella sua missione, e peraltro le è vietato dalla legge, partecipare a eventuali cordate o società che dovessero rilevare quote azionarie del capitale della società editrice dell'Unità». Ma, ha aggiunto, «qualora i lavoratori, i giornalisti e i poligrafici decidessero di costituire una cooperativa e di diventare così i proprietari o i gestori della testata, essi potranno sicuramente trovare il supporto e l'assistenza di Mediacoop, come è stato per il manifesto».
L'ultima speranza è Guglielmo Epifani. Il leader della Cgil è davvero intenzionato a cercare imprenditori per una cordata che rilevi il quotidiano. E, come spiegano al partito, il ruolo che il numero uno del sindacato di corso Italia sta cercando di ritagliarsi sul dossier, nel metodo, «è praticamente identico a quello che Berlusconi giocò sulla vendita di Alitalia»: trovare imprenditori affidabili (e amici) per fare dell'Unità il primo, vero, «giornale del lavoro».
L'uomo che sta seguendo la vicenda per conto Epifani è Fulvio Fannoni. Che ieri, in un'intervista all'Adn-kronos, ha escluso nuovamente l'ingresso della Cgil nella compagine azionaria. Ma ha chiarito: «Il sindacato, chiarita nei particolari la situazione di crisi, studierà possibili interventi per aiutare una testata che è tra le poche che tratta le problematiche del mondo del lavoro. Quando sapremo qualcosa di preciso innanzitutto sentiremo la Fnsi. Naturalmente occorre che anche la proprietà si muova con l'attenzione che una testata del genere si merita». È un messaggio a Soru. Della serie: se resisti, gli imprenditori li troviamo. Lo stesso, identico messaggio che il governatore sardo ha sentito dalla viva voce dell'altro protagonista della trattativa per il salvataggio dell'Unità. Che è l'ex segretario dei Ds, Piero Fassino.

il Riformista 6.3.09
il nuovo quotidiano e l'editore "girotondino"
Fazio aspetta "Il fatto", «Padellaro ci sta lavorando»
di Serenella Mattera


Il fatto, in onore di Enzo Biagi. Il nome già c'è. E c'è anche un direttore: Antonio Padellaro. C'è una sfilza di illustri firme pronte a seguirlo: da Furio Colombo a Marco Travaglio, da Oliviero Beha a Nicola Tranfaglia. Perché il predecessore di Concita De Gregorio sta progettando un nuovo quotidiano, che all'Unità vuole rubare firme e anche lettori. Non è un segreto. E Padellaro sminuisce, ma non smentisce: «Per ora è solo un desiderio, un'idea». Manca, a dare concretezza, il nome dell'editore. Ma un editore interessato già c'è. È Lorenzo Fazio, fondatore di Chiarelettere: «Padellaro sta ancora lavorando al progetto - dice - Io per ora non ho in mano niente. Non so. Certo, di un quotidiano o un periodico abbiamo sempre parlato».
Chiarelettere è una piccola casa editrice nata nel 2007, con l'ambizione di creare «uno spazio dove l'informazione e la cultura possano sottrarsi all'influenza sempre più evidente» del potere, «di qualsiasi colore politico». Precisazione importante, quest'ultima, per sgombrare il campo da una delle voci circolate ultimamente: che proprio Chiarelettere potesse finanziare un quotidiano di area dipietrista. E invece Fazio ha sempre seccamente smentito. Lui, che viene da Bur e ancor prima da Einaudi, si è dedicato finora a libri d'inchiesta e saggi politici e ha diversi blog impegnati sullo stesso fronte. Perché «adesso il cuore dell'informazione è sempre più sul web - spiega - Ci stiamo concentrando lì, poi vedremo». E quel «vedremo» potrebbe essere proprio il nuovo quotidiano che Padellaro sogna. L'incognita più grande pare essere la sostenibilità del progetto, i soldi. «Dovremo valutare - dice Fazio - cosa si può fare in un momento come questo, in cui l'editoria è in crisi, l'Unità è in crisi». E proprio a proposito di Unità, i soliti ben informati segnalano un incontro, venerdì scorso, tra l'editore di Chiarelettere e Giandomenico Celata, consigliere d'amministrazione di Nie, la società editrice del giornale fondato da Gramsci. Ma questa, forse, è un'altra storia.
Per ora c'è l'attesa che precede una discesa in campo. Trepidano gli "epurati" della gestione Soru-De Gregorio, come Sandra Amurri e Fulvio Abbate («Va da sé che ci sarò», dice lui). Ma a tifare per il primo degli "epurati", Padellaro appunto, ci sono anche giornalisti ancora in forze all'Unità, come Maurizio Chierici e soprattutto Marco Travaglio, certo di spostare un buon numero di copie e che ha contribuito al nuovo libro di Padellaro. Uscirà per Baldini Castoldi e Dalai editore ad aprile e racconterà il potere e la politica. Anche attraverso le ultime vicende dell'Unità.

Repubblica 6.3.09
Da George Orwell alla Bibbia i classici che fingiamo d’aver letto
L´esperto del settore Giuliano Vigini: "Ora c´è anche lo zapping tra i capitoli"
di Maria Novella De Luca


Secondo un sondaggio realizzato in Gran Bretagna il 65% delle persone millanta letture in realtà mai fatte Tra gli autori più citati anche Tolstoj e Joyce. E in Italia subiscono la stessa sorte molti titoli di Pavese e Svevo

C´è chi dice "Proust", chi sussurra "Musil", chi ammette "Joyce", chi confessa "Tolstoj", chi ancora "Svevo", chi, a mezza voce, aggiunge "Flaubert, Eco, Pavese". E poi: quante sono le case dove non esiste una Bibbia, il libro più venduto al mondo? Poche, almeno nell´universo occidentale, ma dall´acquistarla a leggerla il passo è lunghissimo. Benvenuti nel mondo dei lettori bugiardi, anzi dei "non lettori" che citano però con sicurezza incipit e risvolti di copertina di tomi mai aperti e consumati oltre la prima pagina. Con un bel po´ di cattiveria e di british humour, in vista della giornata mondiale del libro, un sondaggio inglese ha "conteggiato" quanti sono i lettori che confessano di aver mentito dicendo di aver divorato classici in realtà conosciuti soltanto per sentito dire. Una classifica del tutto particolare dove il 65% degli intervistati ammette di aver pronunciato ben più di una bugia, raccontando ad esempio di aver letto "1984" di George Orwell, "Guerra e pace" di Tolstoj (31%), "Ulisse" di James Joyce (25%), o la Bibbia (24%). Motivo della bugia? Vergogna per la propria refrattarietà a capolavori così noti, ma soprattutto così lunghi.
Una lista a cui Giuliano Vigini, direttore dell´Editrice Bibliografica, ma soprattutto grande esperto di mercato editoriale, aggiunge alcuni nomi notissimi dell´universo del "non letto", a cominciare da "L´uomo senza qualità" di Musil, passando per la "Coscienza di Zeno" di Svevo, "Madame Bovary», alcuni «capolavori italiani come "Horcynus Orca" di Stefano D´Arrigo, molto citato, quasi mai aperto». Del resto, dice Vigini, oggi la categoria più diffusa è quella del "lettore zapping", che vuole arrivare velocemente alla fine del libro, e dopo 30 pagine «tende a lasciare lì il romanzo, in un mercato editoriale che propone 160 novità al giorno, come non sentirsi spaventati da volumi che sfiorano le mille pagine?».
In realtà si scopre che qualche bugia qua e là l´hanno detta un po´ tutti. Tranne forse Luciana Littizzetto, che confessa «di aver abbandonato "Anna Karenina" talmente tante volte, da poterne citare a memoria l´inizio: "Tutte le famiglie felici si assomigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo"». Dice Littizzetto: «No, non ho mai peccato in questo senso, anzi tendo ad arrivare fino in fondo ai libri, anche a costo di indigestioni letterarie. Credo però che i lettori-mentitori siano una categoria in crescita. Del resto basta andare su Google, dare una sbirciatina, rubare qualche frase, ed ecco che si riesce a buttare lì quella citazione che ti fa passare da gran sapiente». Si confessa invece "leggermente bugiardo" Paolo Villaggio, che ricorda con ironia «una sera, a casa di Alberto Moravia, mentii sostenendo di aver letto Proust, era troppo ammettere in quel salotto, tra tutti quegli intellettuali, che la Recherche mi aveva sempre annoiato in modo insopportabile, per non parlare dell´Uomo senza qualità». Anni dopo, aggiunge Villaggio, «ho mentito di nuovo spudoratamente, ma questa volta sul film di Spielberg "E.T.", sembrava davvero un delitto non averlo visto...». Ancor più inedita la "confessione" di un famoso industriale, Mario Moretti Polegato, fondatore e presidente di Geox: «È successo poco tempo fa: a una cena ero seduto di fianco a una giornalista di moda che per almeno dieci minuti ha tessuto le lodi del bestseller "I love shopping"… era talmente entusiasta del libro che non ho avuto il coraggio di dirle che non l´ho mai letto, d´altra parte non è proprio il mio genere». E se la bugia fosse invece cultura condivisa? «A volte si mente su libri così famosi, così noti che sembra di averli letti - dice clemente la scrittrice Paola Mastrocola - per quanto mi riguarda sì, credo di aver detto bugie, su Proust ad esempio, mai arrivata in fondo... Mentire sui libri però, affermando di conoscerli, è sempre meglio che negare di essere appassionati di letteratura. È il paradosso che accade tra i giovani: negano di amare la lettura per non passare per secchioni».

Corriere della Sera 6.3.09
A Bruxelles. «Congresso mondiale» su staminali e fine vita Il partito radicale: seguiamo Usa e Spagna
di Luigi Offeddu


BRUXELLES — Si è parlato molto di Barack Obama, ieri a Bruxelles. Se n'è parlato al quartier generale della Nato, dov'è giunta per la sua prima visita ufficiale Hillary Clinton, neo-segretario di Stato degli Usa. E se n'è parlato al Parlamento Europeo, dove in un incontro fra politici e scienziati il nome di Obama è risuonato più volte come simbolo di una «nuova battaglia» a favore della ricerca sulle cellule staminali o del testamento biologico, in contrapposizione al nome di George W. Bush giudicato invece portabandiera del «creazionismo integralista».
L'incontro, che si conclude oggi ed è alla sua seconda edizione annuale, è stato battezzato «Congresso mondiale per la libertà di ricerca scientifica», ed è organizzato dall'Associazione Luca Coscioni (intitolata al giovane studioso ucciso nel 2006 dalla sclerosi laterale amiotrofica) e dal Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito in collaborazione con l'Alde, l'Alleanza dei liberali e democratici.
Nella lista dei partecipanti, diversi i nomi noti: Emma Bonino, Marco Cappato, Giulio Cossu, Elena Cattaneo, Giulio Giorello, Marco Pannella, Ignazio Marino, tre premi Nobel (Martin Evans, medicina; Kary Mullis, chimica; Martin L. Perl, fisica), il commissario europeo alla scienza Janez Potocnik, e così via.
Durante la prima giornata dei lavori, le scintille si sono subito levate intorno al tema della ricerca sulle staminali. «Mentre il ministro della Salute italiano arriva a manipolare il bando per la ricerca sulle staminali escludendo dai finanziamenti la ricerca sulle embrionali — ha detto fra gli altri Marco Cappato — il ministro per la Salute spagnolo interviene qui, al congresso mondiale, proponendo la libertà di ricerca come priorità legislativa e finanziaria, per uscire dalla crisi economica e per aumentare il benessere dei cittadini». Sempre secondo Cappato, vi è oggi «l'urgenza politica della nuova grande questione sociale del nostro tempo: quella della malattia e della disabilità». Ma troppi sono costretti a viaggi drammatici in paesi lontani, per le carenze della legislazione nel loro paese. Per non parlare dei pochi fondi dedicati alla ricerca. Per l'europarlamentare ed ex- commissario Philippe Busquin, «la minaccia più forte per l'Europa sarà la mancanza di ricercatori, visto che ci sono sempre meno potenziali ricercatori. In Europa insomma, la scienza non è considerata attraente».

Corriere della Sera 6.3.09
La sentenza L'autore degli abusi era «dipendente del Papa»
Pedofilia, decisione negli Usa «Si può fare causa al Vaticano»
di Paolo Valentino


Risarcimenti. 774 milioni di dollari
È il risarcimento record pagato dalla sola diocesi di Los Angeles nel 2007 a centinaia di vittime di atti di pedofilia commessi da sacerdoti. La diocesi di Boston versò 157 milioni di dollari, quella di Portland 129, e altre ancora pagarono. In tutto, secondo il New York Times, i risarcimenti superarono il miliardo e mezzo di dollari

Il caso: le molestie di un prete negli anni 60 in Oregon
Il sacerdote Andrew Ronan è morto nel 1992: in precedenza era stato colpevole di altre violenze in Irlanda e a Chicago

WASHINGTON — Sicuramente l'avvocato Jeff Anderson non riuscirà nel suo dichiarato e più ambizioso proposito, quello di far deporre il Papa, Benedetto XVI. Ma qualche problema al Vaticano, la sentenza di una Corte federale d'Appello degli Stati Uniti potrebbe crearlo lo stesso.
In una decisione motivata con ben 59 pagine di argomentazioni, la nona Corte d'Appello degli Stati Uniti — che ha sede a Portland e a cui fanno capo gli Stati del-l'Ovest, dall'Alaska all'Arizona — ha riconosciuto il diritto di un cittadino dell'Oregon a intentare una causa civile contro la Santa Sede, per gli abusi sessuali subiti negli anni Sessanta da un prete di Santa Romana Chiesa.
I tre giudici hanno recepito la tesi dei legali della vittima, John V. Doe, secondo cui al tempo delle sevizie, avvenute in una scuola cattolica, l'uomo lavorava come religioso, quindi era un dipendente del Vaticano.
La sentenza segna una svolta importante per le centinaia di vittime che negli anni scorsi avevano inutilmente cercato di vedere riconosciuta la responsabilità civile della gerarchia cattolica negli abusi da parte di preti pedofili, aprendo così la strada alle richieste d'indennizzo.
«Si schiude una porta — ha commentato Anderson, il legale di Doe —. Fin qui la Chiesa cattolica ha scelto di proteggere i preti e non i bambini. La buona notizia per la comunità dei fedeli è che ora la Santa Sede, come dice la sentenza, non è più immune alle cause di risarcimento ». L'orco della vicenda è il reverendo dell'Ordine servita Andrew Ronan, morto nel 1992, che all'inizio degli anni Sessanta venne mandato a Chicago dopo l'ammissione di aver molestato un minore nella natia Irlanda, dove guidava una parrocchia. Il prelato lavorò alla St.Phillip High School nella città dell'Illinois fino al 1965, ma anche lì fu protagonista di almeno tre atti di pedofilia.
Ronan venne infine trasferito alla St. Albert Church di Portland, nell'Oregon, dove Doe lo conobbe da quindicenne come «prete, tutore e consigliere spirituale». Giusta la denuncia, gli abusi sessuali di Ronan contro il ragazzo furono ripetuti e avvennero «sia nel monastero che nelle zone circostanti».
Secondo uno dei legali del Vaticano, Jeff Lena, la sentenza in realtà ammette che non tutte le azioni possano essere ricondotte alla responsabilità di Roma: «I giudici hanno riconosciuto che dentro la Chiesa cattolica esistano diverse e separate entità legali ». Inoltre, la decisione dei magistrati della Corte d'Appello potrebbe essere rovesciata dalla Corte Suprema.
Ma per Robert Blakey, docente di diritto alla University of Notre Dame, il giudizio potrebbe invece superare anche l'esame costituzionale: «La domanda è: il Vaticano è potenzialmente perseguibile nei casi di molestie da parte di preti? La risposta è si, se si dimostra che il religioso abbia agito in quel modo da dipendente della Santa Sede».

Corriere della Sera 6.3.09
Dal caso Di Bella agli Ogm, Gilberto Corbellini denuncia il trionfo della credulità
Uno spauracchio chiamato scienza
In Italia cresce l'ostilità dettata da pregiudizi ideologici e religiosi
di Sandro Modeo


Tra le poche, profonde cerniere antropologiche di un Paese diviso su tutto, l'avversione per la scienza è senz'altro la più tenace e penalizzante. Come dimostra Gilberto Corbellini nel suo nuovo libro, si tratta infatti di un'avversione incrociata e convergente, che coinvolge la Chiesa cattolica e la sinistra hard e light, lo Stato e il privato, la letteratura e la sociologia.
Fin dal titolo, sarcasticamente didattico ( Perché gli scienziati non sono pericolosi, Longanesi, pp. 250, e 16), il libro cerca di smuovere il pregiudizio marmoreo che vede la scienza — in Italia più che altrove — estranea alla «cultura», nella sua accezione più estesa, e nello stesso tempo insidiosa per la dignità e l'integrità dell'uomo. Da storico qual è, Corbellini risale da un lato all'origine di questo rigetto, cioè all'età vittoriana, quando l'evoluzionismo darwiniano e il metodo sperimentale mettono in crisi una concezione antropocentrica e antropomorfica che aveva resistito persino alla rivoluzione copernicana e alla «nuova fisica» di Galileo: anche oggi, non a caso, nessuno si sogna di invocare «Commissioni di saggi» (come quella istituita nel 2004 dall'allora ministro dell'Istruzione Letizia Moratti per tastare l'opportunità pedagogica dell'evoluzionismo) sulla relatività o la meccanica quantistica, ritenute innocue. Dall'altro lato, Corbellini non trascura la difficoltà a divulgare — o meglio a far metabolizzare — gli aspetti non tanto nozionistici, quanto concettuali della scienza, cioè la «visione del mondo» che ne è sottesa, col risultato di vedere la scienza stessa confusa con le sue applicazioni (bio) tecnologiche (l'hi tech per i teenagers,
le terapie mediche per gli anziani).
Del resto, è proprio una simile divaricazione (con l'insistenza sulla minacciosità della «tecnica») a fondare le opposizioni ideologiche più trasversali, spesso con contraddizioni interne patafisiche.
La Chiesa, per esempio, contrasta con durezza la ricerca biomedica (vedi le staminali embrionali) elevando l'embrione a «persona », ma non è in grado di spiegare perché la Divinità consenta l'eliminazione «naturale » di due terzi degli embrioni concepiti, in quanto difettosi; oppure avversa la hybris
— la sfida «innaturale» di certe pratiche mediche — e poi finge di non sapere che è a grazie a tale hybris che il corpo di Eluana Englaro può essere «tenuto in vita». Quanto al veteroumanesimo di sinistra, accusa la genetica di spiegazioni totalizzanti, tributandole un «determinismo» che nessun biologo serio si sognerebbe di sottoscrivere, in quanto consapevole dell'incidenza ambientale. E in generale, il mix di ignoranza e calcolo politico-elettorale ha portato in questi decenni il nostro Paese a battaglie autolesionistiche contro l'impiego degli Ogm (esemplare, al proposito, il paragrafo di Corbellini sulla comune strategia contraria in ministri come Alfonso Pecoraro Scanio e Gianni Alemanno), la fecondazione assistita e la stessa ricerca sulle staminali.
Certo, in questa distanza — a tratti siderale — della scienza dall'opinione pubblica, c'è un concorso di colpa degli scienziati: è innegabile, per esempio, che il gelido paternalismo nel rapporto medico-paziente getti a volte fasce disorientate e disinformate nell'abbraccio della para o pseudoscienza (vedi la ricostruzione dedicata da Corbellini al caso Di Bella, in cui hanno trionfato la credulità e il cinismo mediatico di opposte aree culturali). Ma non c'è dubbio che il vero snodo consista nel carattere «controintuitivo» del sapere scientifico.
Fondata su congetture e confutazioni, sull'onere della prova e dell'oggettività, la scienza non è — con buona pace di tanti sociologi, filosofi e teologi — una «costruzione sociale» come un'altra, in un'ingannevole e consolatoria parificazione relativistica. Le sue acquisizioni — a volte definitive a volte rivedibili — comportano un'alfabetizzazione specifica e un notevole sforzo di apprendimento, spesso contromano rispetto al senso comune e all'esperienza quotidiana. L'esempio più provocatorio è il cortocircuito tra spiegazione evoluzionistica e visione religiosa: è proprio la teoria darwiniana a mostrare come più adattativa un'elaborazione trascendente del mondo da parte del cervello, e meno adattativa — cioè appunto controintuitiva — un'elaborazione immanente e materialistica.
Non solo. Nella conclusione- sintesi del libro, Corbellini insiste sull'enorme contributo della scienza in rapporto al progresso sociale della specie; contributo di cui abbiamo usufruito in Occidente e che sarà decisivo (vedi malattie e arretratezza economica) nei Paesi in via di sviluppo. Separando invece — ancora una volta — aspetti applicativi e conoscitivi (la tecnologia dalle acquisizioni che la rendono possibile), la vulgata addebita alla scienza tutte le ombre apocalittiche in avvicinamento, a partire dai disastri ambientali. Proprio una prospettiva scientifica, al contrario, aiuterebbe a inquadrare diversamente la «natura umana», emancipandola sia dalla sovradeterminazione divina sia dall'«infinita malleabilità » di ogni utopia socio-politica: a capire una volta per tutte come l'Homo sapiens
(meno stupido ma anche meno libero di quanto non si creda) sia insieme egoista e altruista, creativo e (auto)distruttivo.

Corriere della Sera 6.3.09
L'esposizione La prima sul pittore a settantadue anni da quella allestita agli Uffizi
Giotto. Il mito e l'anima
Venti i capolavori del maestro in mezzo a sculture, codici e tavole trecentesche
Roma celebra il rivoluzionario dell'arte che con Dante fondò l'identità nazionale
di Lauretta Colonnelli


Fu il protagonista della rivoluzione della pittura attorno all'anno 1300. Dopo di lui gli artisti hanno preso a guardare il mondo in modo moderno, imparando a narrare con le immagini, a introdurre nella pittura una dimensione affettiva, a rappresentare lo spazio in maniera tridimensionale, a riscoprire l'amore per la natura. L'originalità della mostra «Giotto e il Trecento», che si apre da oggi nel Complesso del Vittoriano a Roma, consiste proprio in questo: nel voler documentare con strumenti critici contemporanei e nella sua interezza il percorso figurativo del «più Sovrano Maestro stato in dipintura», delineando al tempo stesso le caratteristiche del contesto culturale da cui prese le mosse e si sviluppò.
La rassegna, che è la prima a Roma sul maestro fiorentino, viene presentata a oltre settant'anni dall'ultima mostra su Giotto e la pittura in Italia tra fine Duecento e prima metà del Trecento, allestita alla Galleria degli Uffizi nel 1937 per celebrare il sesto centenario della sua morte. Questa volta non ci sono intenti commemorativi ma la volontà di una rilettura complessiva di un grande maestro, popolare e celebrato, eppure non conosciuto nella sua complessità.
«A partire dal Giotto architetto, perché in mostra ci saranno spunti interessanti per studi futuri », annuncia Roberto Cecchi, direttore generale per i beni architettonici, il quale fa parte del comitato scientifico internazionale che ha selezionato e fatto arrivare in prestito oltre 150 opere tra sculture lignee, codici miniati, oreficerie, ma soprattutto le fragili tavole trecentesche, alcune delle quali sono state restaurate per l'occasione.
La raccolta, che include maestri come Cimabue, Giovanni Baronzio, Ambrogio Lorenzetti, Arnolfo di Cambio, vuole dar conto di tutte le ramificazioni dell'influsso di Giotto sull'arte italiana del tempo. Ma soprattutto presenta venti capolavori eseguiti dal maestro di Firenze, oggi molto difficili da spostare per ragioni di conservazione.
Arrivano da Firenze la «Madonna con il Bambino in trono e due angeli» e la «Madonna col bambino e i santi Nicola di Bari, Giovanni Evangelista, Pietro e Benedetto». Un maestoso Polittico a tempera e foglia d'oro su tavola è stato concesso dal North Carolina Museum of Art di Raleigh, mentre la cimasa del Polittico Baroncelli arriva da San Diego, California. Opere che affrontano i temi della formazione, del rapporto con l'antico e con il mondo gotico, focalizzando in particolare i legami con la Francia.
«La mostra — aggiunge il curatore Alessandro Tomei — analizza anche la presenza del maestro nelle maggiori città italiane, da Roma a Firenze, da Napoli a Milano. Qui le testimonianze sono scomparse, ma gli storici le hanno ricostruite attraverso la documentazione e le influenze nelle opere dei contemporanei. Dove è passato Giotto l'espressione artistica è cambiata, adeguandosi ai modelli elaborati dal maestro». Ecco dunque, dopo la dimensione europea, quella nazionale, il suo ruolo di assoluta supremazia, in quanto, come Dante, «Giotto è il primo a fondare la struttura linguistica della pittura del Trecento».
A ribadire questa teoria, condivisa dai maggiori studiosi, è stata organizzata al Vittoriano una mostra nella mostra, intitolata «L'altro Giotto». Si tratta di una postazione virtuale che consente di ammirare i più celebri cicli pittorici del maestro di Firenze e di scoprire gli itinerari giotteschi nelle città che lo ospitarono, attraverso otto regioni: oltre alla Toscana, l'Umbria, le Marche, l'Emilia Romagna, il Veneto, la Lombardia, il Lazio, la Campania. In una sala al pianterreno i visitatori possono inoltre seguire un percorso che attraverso tecnologie molto sofisticate consente di vedere da vicino e in primo piano i particolari dei più famosi affreschi giotteschi, dalla basilica di San Francesco ad Assisi alla cappella degli Scrovegni a Padova.

il Riformista 6.3.09
Reportage viaggio nell'isola su cui approdano le speranze dei dannati del pianeta
Vi racconto chi sono quei 19.820 fantasmi sbarcati a Lampedusa
di Navid Kermani da Die Zeit


Questo reportage è apparso nel settembre del 2008 sul settimanale tedesco "Die Zeit". L'autore è un orientalista e scrittore tedesco di origine iraniana. Per i suoi studi accademici e le sue opere letterarie ha ricevuto numerosi riconoscimenti in Germania. È membro dell'Accademia tedesca della lingua e della letteratura e della Conferenza tedesca sull'Islam. Di recente ha vinto una borsa di studio dall'Accademia tedesca di Villa Massimo e ha trascorso un anno a Roma.

Profughi. Scappano dai loro Paesi in guerra, vagano per mesi, sopravvivono per miracolo ai loro viaggi, stipati nella pancia delle navi. Scendere a terra ricevendo i primi aiuti per loro è un'autentica rinascita. Ma i politici locali (e non solo) vorrebbero che non ci fossero e i vacanzieri nemmeno sanno che esistono.

La porta della cancellata in ferro, che deve sbarrare il molo, è soltanto accostata. Il funzionario della dogana, che dapprima mi vuole mandare via, dal momento che non ho nessun permesso, dopo un breve diverbio si accontenta che io retroceda di due, tre metri. Oggi hanno una visita ufficiale, spiega, e fa cenno con il capo in direzione di due uomini in abito scuro. I giovani arabi che sono rannicchiati sul pavimento sono i primi profughi arrivati su un barcone dopo giorni in cui il mare è stato in burrasca, probabilmente l'avanguardia, perché più veloci degli altri. Dicono di aver sgraffignato un peschereccio e di essere salpati ieri, nove amici, tutti sulla ventina, pettinature alla moda, jeans lunghi alle caviglie come li indossano gli Hip Hopper, uno pensieroso con gli occhiali, un altro belloccio con i capelli lunghi, un portavoce che ostenta tranquillità.
Qui i profughi li chiamano i «gitanti della domenica», che tentano di propria iniziativa, spesso spontaneamente, e contro ogni aspettativa riescono a non andare alla deriva e a non essere intercettati. Salpano dalla Tunisia e neppure ventiquattr'ore più tardi calcano il suolo europeo. Sui loro visi si legge lo sbalordimento. Non danno nemmeno l'impressione di essere esausti, come fossero davvero dei gitanti. La maggior parte degli altri profughi resta in viaggio per giorni, perché fanno giri molto larghi per sfuggire alle navi di pattugliamento dell'Agenzia Europea Frontex, che cerca di intercettare le barche dei profughi prima che raggiungano le acque territoriali europee. I Medici senza Frontiere, che attendono al porto, sovente provano l'orrore puro, quando le barche arrivano: trenta, quaranta uomini che hanno letteralmente dato la loro ultima camicia per accaparrarsi un angusto posto sotto il sole infuocato, mezzi o del tutto morti per la sete, lo sfinimento, la nausea. E loro, i nove amici, partono senza rifletterci troppo, come per una gita mordi e fuggi, niente maltempo, niente malattie, nessun danno ai motori, nemmeno troppo stretti, nemmeno il sole, dal momento che ci stanno tutti sotto alla coperta del cutter, e sgusciano attraverso le maglie del Paradiso, come in Africa chiamano Schengen.
I funzionari conducono i giovanotti nel centro di accoglienza, dove regna, già con un'occupazione regolare con 700 profughi, una densità di popolazione come nemmeno in un grattacielo giapponese. Dell'espanso tagliato grossolanamente, come quello utilizzato quale isolante nelle costruzioni, funge da materasso, della carta come biancheria da letto, tutte le stoviglie sono usa e getta.
Se si definisce il criterio di umanità non secondo gli standard minimi di un carcere europeo, bensì come lo sfamarsi, l'avere un posto per dormire, di che vestirsi, niente pestaggi, niente parole sgarbate, un medico in caso di bisogno e perfino una psicologa, allora sì, il centro è umano. I tunisini ozieranno lì per una o due settimane prima di venire trasferiti in un altro centro sulla terraferma. Con la Tunisia non esiste ancora alcuna convenzione di rimpatrio, perciò essi hanno delle buone probabilità, dopo altri tre, quattro o anche otto mesi di disperazione, di essere buttati sulla strada con un avviso di espulsione, che getteranno via. Tutti lo sanno, anche lo Stato. La maggior parte di loro proseguirà in ogni caso verso il nord, gli italiani da quelle parti non fanno molto caso a loro e chi resta viene utilizzato: senza la manodopera illegale in Italia, che guadagna due, tre euro l'ora, in Germania non vi sarebbero pesche a due, tre euro al kg. Solo in Sicilia si dice che lavorino nei campi da trenta a quarantamila clandestini.
La tranquillità con cui i nove tunisini vengono interrogati e allontanati dopo nemmeno venti minuti fa dimenticare che la loro situazione è tuttavia esistenziale. Tagliano i ponti con tutto ciò che la loro vita è stata fino a quel momento, iniziano una vita i cui contorni non riescono neppure a delineare; vivono in Europa, nella Terra Promessa, ma senza diritti, senza assicurazione malattia, senza previdenza sociale, lontani dalla famiglia e sempre con la paura della polizia. Tra i drammi che normalmente si consumano nel Mediterraneo o sul molo effettivamente sbarrato nel porto di Lampedusa, la svolta del loro destino dà l'impressione di essere un caso normale, quasi inesistente.
I funzionari della dogana e i Medici senza Frontiere fino alla fine di settembre hanno già accolto a Lampedusa 19.820 uomini, già 19.820 uomini solo quest'anno, più i nove tunisini di oggi. Ma in paese non si sa nulla di loro. Il loro centro - che si trova un paio di chilometri fuori città, dietro una collina - non è segnato su alcuna cartina, non è segnalato da alcun cartello ed è accessibile soltanto con un permesso speciale, per ottenere il quale le domande complete devono essere presentate per iscritto con una settimana di anticipo. Soltanto al porto si potrebbero intravedere i profughi, nel breve lasso di tempo tra l'approdo e l'allontanamento, ma solo dall'alto della collina che sovrasta il porto, dal momento che, dal molo stesso, dei blocchi di cemento sbarrano la vista. Come detto, il cancello è aperto, tutti potrebbero passeggiare fino al punto di approdo, però questo lo fanno soltanto i cronisti come me, che si erano immaginati Lampedusa come chissà quale inferno. Come riferiscono i Medici senza Frontiere, prima i profughi potevano scappare dal campo, perché il filo spinato aveva alcuni buchi, ma che cosa potevano mai fare senza soldi su un'isola dove non possono nemmeno scomparire sott'acqua? Tre, quattro neri una volta si erano guardati un po' attorno sul posto e avevano perfino ordinato una birra, senza poterla pagare, allora il sindaco aveva sparso la voce che i profughi bighellonavano nei bar, che si ubriacavano senza pagare e che apostrofavano volgarmente i turisti. A sentir lui, l'isola sta andando a rotoli. In realtà, quasi tutti gli uomini con i quali sono venuto a colloquio a malapena notano qualche cosa dei profughi. La maggior parte da anni non ne ha mai incontrato nessuno. E coloro che trascorrono le vacanze a Lampedusa vengono per il mare: vogliono abbronzarsi, nuotare o fare immersioni, e niente li distrae da questo.
In tutto il mondo i ricchi hanno perfezionato i metodi con i quali chiudono fuori la realtà, si sono costruiti recinti, muri, spauracchi, in modo da non vedere la miseria, ma che questo riesca loro perfino a Lampedusa, con 5mila abitanti e 19.829 profughi solo quest'anno, mette in ombra qualsiasi comunità blindata. Non che essi non sarebbero un argomento valido. Anzi: con loro come quasi unico argomento, il sindaco ha vinto le ultime elezioni. Già prima delle elezioni, l'ospedale non era stato costruito, ma non viene costruito neanche adesso perché i profughi vengono favoriti. Però, se il loro destino sta così tanto a cuore al Vaticano, sono le chiese a doverli accogliere, impreca il sindaco. Si devono allestire centri di prima accoglienza galleggianti, lontano dalla costa, rivendica la sua vice. Devono essere fucilati, consiglia il leader della Lega Nord, Umberto Bossi, che ha detto testualmente: «Dopo il secondo o il terzo avvertimento, boom. Si spara, senza discutere ancora tanto. Li si uccide. Altrimenti non ne verremo mai a capo».
Tutti fissano la nave illuminata con nel ventre le persone tratte in salvo. C'è stata tempesta. Con lo scooter, attraverso pozzanghere grandi come stagni, di notte percorro avanti e indietro il lungomare deserto ma ben illuminato sino a che, all'estremità del vecchio porto, scopro degli uomini davanti a una nave da guerra francese. Probabilmente è troppo grande per il molo sbarrato predisposto per i profughi. 65 somali sono stati tratti in salvo nella tempesta, afferro, tra questi tredici donne, una in stato di gravidanza, al quinto mese. Che sia una nave della Frontex, che abbia raccolto i profughi, e così vicino alla costa libica, stupisce i Medici senza Frontiere. Nessuno sa niente di preciso, ma tutti credono, anche la signora dell'Opera per i Profughi delle Nazioni Unite, che la Frontex sia lì per tenere lontano dall'Europa i profughi, non per portarveli.
E i profughi, chiedo io, dove sono? Dal momento che l'autobus non è ancora arrivato, sono seduti all'interno della nave, dove stanno più al caldo. Il numero dei somali lo conoscevo già: probabilmente appartengono a un'unica famiglia o a un unico clan, la loro fuga è iniziata mesi fa, a casa avevano la guerra, può essere che siano stati cacciati, certamente ci sono stati dei morti. Da mesi in fuga, in circostanze drammatiche. Altro che gitanti della domenica. Dal ponte i soldati passano grossi sacchetti di plastica rossa, che sono quasi vuoti, uno per ciascun profugo, i loro averi, presumo. Tutti sul molo parlano a voce più smorzata, bisbigliano quasi e parlano pochissimo, se ne stanno lì a fissare la nave illuminata con i 65 tratti in salvo nella pancia, come se attendessero Gesù Bambino. Se ora tutti si prendessero per mano, per cantare una canzone di Natale non sarei nemmeno sorpreso, tanto riconoscenti sono per la benedizione, che vuol dire salvezza. Le Organizzazioni per i Profughi stimano che, su tre profughi che raggiungono le coste europee, uno annega.
Ancora prima che l'autobus entri, percepisco l'inquietudine che coglie tutti, una silenziosa eccitazione, nonostante solo tre soldati sulla nave si siano messi in movimento. Attraverso un boccaporto entrano all'interno della nave e dopo un attimo fuoriescono nuovamente con i primi profughi che sorreggono al braccio. Prima un uomo più anziano, ferito alla gamba, poi la donna incinta: proprio come Giuseppe e Maria, due persone incredibilmente estranee, non solo per via della loro pelle scura e per l'abito largo ed esotico della donna con il foulard rosso in testa, che, secondo la foggia somala, scende fino alla pancia, ma molto di più per i loro sguardi stravolti, timidi, impauriti eppure grati alla vita, giacché l'hanno conservata. Dietro a Maria la processione degli altri profughi, prima le donne, per la maggior parte ragazze giovani, molto più magre e sottili delle europee o delle africane nere del campo profughi nel pomeriggio, poi gli uomini, altrettanto smilzi, che posano sulla terra i loro primi passi con tale circospezione come fosse la prima volta. E davvero, per loro, è come una rinascita.

il Riformista 6.3.09
Dieci anni senza il genio del «gigante» Stanley Kubrick
di Luca Mastrantonio


Assoluto. Dalla sua morte sembra passata un'eternità. Con Poe, è uno dei moderni "grandi" dell'Occidente. Ha dettato nuove regole nell'arte, e costretto tutti a misurarsi con lui.

Domani moriva l'ultimo genio del cinema, l'unico vero e indiscutibile. Dieci anni fa, che fa il paio con l'altro genio in senso stretto della storia della cultura moderna occidentale, Edgar Allan Poe, (nato nel gennaio di 200 anni fa). Prima che il termine "geni" venga totalmente ricondotto al Dna, all'ingegneria genetica, alla determinazione del carattere di una persona, oppure annacquato nel sensazionalismo acritico, per una pubblicistica che ogni giorno battezza un capolavoro, conviene soffermarsi sul perché il genio di Kubrick, scomparso solo 10 anni fa, il 7 marzo 1999, sembri così remoto, sideralmente remoto e cioè splendido, morto ma vivo, come una stella che brilli ancora nell'universo. Anche le intelligenze terra-terra, come quelle dei Simpson, devono molto a Kubrick - e Poe - artista fondamentale per Matt Groening (persino Sylvester Stallone sta per lavorare al film sulla sua misteriosa morte).
Il genio, puro, autentico, è colui che dà la regola all'arte, che inventa una nuova tradizione, rinnova quella precedente, diventa misura di tutti gli altri che lo seguiranno più di quanto lui non si sia misurato con quelli che l'hanno preceduto. Unico scopo la sua creazione: se ha un paio di pantaloni e cento registratori per il suo lavoro è contento (Kubrick), se la sua opera non gli fornisce grande sostentamento continua a nutrirla (Poe). Il genio dà autenticità alla fantasia, corpo all'orrore, sa fabbricare da sé il destino della propria arte, ed essere triste nella comicità come ilare nella tristezza. Così è stato per Poe, che ha di fatto inventato il genere poliziesco, il giallo, dato impulso al romanzo di formazione e d'avventura (Le avventure di Artur Gordon Pym), al viaggio psichedelico (Una discesa al Maelstrom), alle short stories che hanno il respiro esatto di un incubo, di una tortura, un'ossessione o una vendetta.
Oggi si fa troppo presto a dire genio. E ci sono, invece, gli artisti seriali, registi che fanno sempre lo stesso film, band che ripetono il loro sound senza soluzione di continuità, autori che si preoccupano di non tradire un pubblico fidelizzato e targhettizzato, su cui vengono costruiti non opere ma format: tv, editoriali, musicali. L'industria culturale dà poco spazio alla creatività pura perché dà molto spazio alla creatività secondaria. Era così anche a Hollywood, prima che arrivasse il ciclone Kubrick, poi emigrato in Inghilterra, dove ha vissuto in un castello. Lui che si guadagnava da vivere come giocatore di scacchi d'azzardo a New York, a Washington square, si è arroccato in un maniero. Il cinema come stile di vita, come il gioco degli scacchi, giocato per soldi. Scacchi e fotografia, questa sembra la miscela esplosiva di Kubrick, nato nel 1928 nel Bronx, da una famiglia di origine ebraica, qualche matrimonio sulle spalle, molti film e tanti progetti, tra cui uno celebre su Napoleone.
Kubrick nasce come cineasta indipendente, ha l'aria da «poeta romeno» e «cupo Arlecchino», è un'autodidatta radicale e sfrenato. Impara a fare film facendo film. Divora i film del Moma, non si ispira a nessuno, è un «lupo solitario», e pochi sembrano assomigliargli. Non ha grande stima di Ejzenštejn e gli preferisce Max Ophüls. Sostiene di aver iniziato a fare film perché sosteneva di averne visti di così brutti da non poter far peggio. Anzi, meglio. Sempre di più, grazie ai budget che aumentavano di film in film, passando dall'autofinanziamento al sodale Harris, azionista di una casa di distribuzione televisiva, fino poi alle Major di Hollywood. «Fosse nato dieci anni prima magari Kubrick avrebbe fatto la fine di Orson Welles, e quarant'anni dopo, forse non avrebbe nemmeno pensato di fare il regista e sarebbe diventato un ottimo fotografo», scrive Emiliano Morreale nella prefazione a Non ho risposte semplici. Kubrick è stato il frutto del suo genio e del suo tempo, che ha trovato spazio vitale ed è diventato universale. Perché ogni film può venire considerato un capolavoro se stiamo parlando dello stesso regista? Perché, come Kubrick sapeva benissimo, tutti si aspettavano di vedere sempre l'ultimo film di Kubrick, «the ultimate trip», come 2001. Lui re-inventava, scopriva, sperimentava, controllava la produzione dall'inizio alla fine, esorcizzava nei dettagli il demone della bellezza autentica, della verità estetica che ha nella sua compiutezza l'etica migliore su piazza, quella stupefacente verosimiglianza che può essere storica, in Barry Lyndon, autobiografica-antropologica, come in Full Metal Jacket con il ricorso all'esperienza sul campo dell'addestratore di marine, o futurologa, con 2001.
Rapina a mano armata, del 1956, è la svolta. Welles, dopo aver visto film, dirà che Kubrick, tra i giovani cineasti americani, è un «gigante». Kubrick instaura un rapporto dialettico con le major, dalla United Artists alla Mgm, infine, per 30 anni, la Warner Bros. Si incunea, negli anni 60, in uno spazio di libertà che Hollywood lascerà sempre di più ai cineasti, che diventeranno star. Non c'è genere cinematografico che non sia stato re-inventato da Kubrick e costretto a misurarsi con un masterpiece. Il film visivo per eccellenza 2001: Odissea nello spazio è diventato la pietra di paragone di tutti film di fantascienza. Il film tutto dialogo del Dottor Stranamore è la black comedy che mescola il riso al ghigno, regalandoci un'opera che è la Gioconda cinematografica (e Duschamp allo stesso tempo) della civiltà umana della bomba atomica, dove l'apocalisse è immanente più che imminente. Lolita è un dramma psicologico che rende volgare qualsiasi altra opera che provi sedurre con l'erotismo morboso (ma rappreso) della ninfetta con gli occhiali a forma di cuore, un'immagine che ha fuorviato anche il coltissimo Roberto Calasso che ha pubblicato il romanzo di Nabokov, dove Lo-li-ta non ha quegli occhiali. Full metal Jacket è il racconto perfetto della Genesi domestica dell'Inferno chiamato Vietnam, dove la schizofrenia dell'io è rappresentata in maniera icastica da un Joker che si mangia anche il colonnello Kurtz. Arancia meccanica, oggi, come lo definiremmo? Una boy gang? Il manifesto del bullismo? Una distopia sull'autorità che vuole controllare la violenza umana? E l'epopea moderna di Barry Lyndon, titanico romanzo di formazione, affrescone storico e il dramma psicologico di Eyes wide shut, nella cui ultima parola leggiamo l'ambiguo testamento di Kubrick: fuck!
Kubrick era impermeabile ad ogni etichetta. Preso per autore di sinistra, o comunque impegnato per i primi film, dopo 2001 svela il suo lato anti-umanistico, o post-umanistico, uno sguardo alieno, da marziano - Flaiano fece una recensione entusiastica, perché entrambi erano convinti che un eventuale arrivo degli alieni sulla Terra sarebbe stato trasformato dal circolo mediatico in routine - e più interessato all'autenticità, alla credibilità e alla sospensione dell'incredulità dello spettatore che non al realismo, al messaggio, al valore politico. Kubrick è tutto estetico, nel pieno rispetto dell'etica del cinema. Anche quando ha fatto un film spiccatamente di genere, come Shining, dal libro di Stephen King, l'ha rispettato molto, inventandosi accorgimenti tecnici per spaventare al massimo lo spettatore, come il ricorso alla steadicam. Persino sul pacifismo, Kubrick ha da eccepire contro le semplificazioni politiche: «Non sono sicuro di cosa significhi veramente pacifismo. Sarebbe un atto moralmente superiore sottomettersi a Hitler per evitare la guerra? Non credo. Ma ci sono state guerre tragicamente insensate, come la prima guerra mondiale e l'attuale pasticcio in Vietnam, e la pletora di guerre religiose di cui è costellata la nostra storia», dichiarava a Playboy nel '68, anno di 2001. Era altresì attento a non venire frainteso o strumentalizzato, al punto da far ritirare dalle sale inglesi Arancia meccanica dopo alcuni drammatici casi di emulazione dei drughi di Alex.
Come nasce un genio? Tra i libri più interessanti da leggere, c'è Non ho risposte semplici, uscito da Minimumfax qualche anno fa, raccolta di interviste e profili sul grande attore - fantastici l'intervista di Playboy e il profilo di Bernstein, con partita a scacchi incorporata - che permette di comprendere Kubrick attraverso chi l'ha conosciuto e visto da vicino e, soprattutto, attraverso Kubrick stesso, che nelle interviste costruisce un puzzle, o intaglia una scacchiera, in cui prendono posto tutte le pedine (a volte rimpiazzava i pezzi mancanti, per le partite a scacchi, con altri oggetti): gli aspetti tecnici, i dettagli di lavorazione, l'ispirazione, il rapporto con la letteratura, che è un capitolo forse tra i più fecondi.
Per Kubrick le opere letterarie sono i frutti da cui trarre i semi per i propri film. Poteva prendere opere classiche, come Le memorie di Barry Lyndon di Thackeray, e riportarle in vita. Si misurava con libri di genere come Shining di King portandolo dentro il grande cinema senza tradire il genere. Affrontava senza pruderia un libro scandaloso come Lolita e rendeva scandaloso Doppio sogno di Schnitzler portandolo da Vienna a New York, sviluppava dal racconto La Sentinella di Clarke un'immensa epopea dell'uomo nello spazio. I film, diceva, servono a fare soldi per poter comprare i soggetti migliori per film migliori. Il successo serviva a garantire l'autofinanziamento per il genio autodidatta, in una completa e perfetta autonomia di gusto, espressione, libertà. Lo scopo del genio è affermarsi, le opere sono un mezzo per celebrare il fine, cioè la necessaria ricerca della perfezione.

Liberazione 6.3.09
Slitta a martedì l’esame degli emendamenti in commissione al Senato. Scontro sul consenso informato
Bio-etica, braccio di ferro Pd-Pdl. Ma Bossi: «Urge trovare l’intesa»


Slitta a martedì prossimo il voto in commissione Sanità al Senato sugli emendamenti al testo Calabrò in materia di fine vita, che approderà in Aula il 18 marzo. Lo ha stabilito l’ufficio di presidenza riunito nel pomeriggio a Palazzo Madama. Di fatto, continua il braccio di ferro con l’opposizione che ieri ha presentato i suoi 352 sub-emendamenti e si dichiara insoddisfatta delle aperture del Pdl. «No alle furbizie - dice la presidente dei senatori del Pd Anna Finocchiaro - va cambiata la filosofia del testo proposto dalla maggioranza ». L’ex capogruppo del Pd in commissione, il medico e laico Ignazio Marino, minaccia: «Se la maggioranza non chiarirà che tipo di legge vuole e pensa di impedire alle persone di poter togliere il proprio consenso a una terapia, allora farò ostruzionismo». Ma anche la cattolica Dorina Bianchi, che di recente ha preso il posto di Marino in commissione, non è più tenera e ammette che se non si supera il nodo del cosiddetto “consenso informato” da parte del paziente «non ci sono possibilità di dialogo» tra maggioranza e opposizione. La radicale Donatella Poretti: «Gli emendamenti del relatore Calabrò lasciano intatto il concetto che stabilisce sostanzialmente l’indisponibilità della vita per la persona, ma non per lo Stato e il medico». Interviene anche Massimo D’Alema sottolineando che «imporre la nutrizione forzata quando una persona si è espressa in altra direzione, magari con il testamento biologico, è incostituzionale. Si tocca il principio di libertà di cura. Rischiamo di fare una legge mostruosa, che ci mette fuori dai Paesi civili». L’Italia dei Valori è convinta che il Pdl voglia «lo scontro» e continua ad appellarsi al referendum che «demolirà la legge». Per il momento, dunque, non sortisce effetti l’appello di Umberto Bossi a trovare «assolutamente un accordo» sulla legge sul testamento biologico. Ciononostante, Il presidente del Senato Renato Schifani si dice «fiducioso» sul buon esito del dibattito tra maggioranza e opposizione perchè «ci sono i primi segnali positivi, ritengo che in questa occasione la concessione di più tempo per discutere sul provvedimento non sia una mossa dilatoria, ma ubbidisca all’esigenza di favorire momenti di confronto costruttivo». Il riferimento è alla decisione, presa la settimana scorsa, di far slittare i tempi del dibattito, causa le divisioni che si sono palesate anche nello stesso centrodestra (in testa, le critiche di Beppe Pisanu). Sul bio-testamento interviene anche il presidente della Pontificia Accademia per la vita, monsignor Rino Fisichella, invitando alla calma: le parti politiche impegnate nel dibattito non abbiano «nessuna fretta determinata da strumentalizzazioni, il confronto tra le diverse istanze» porti a una soluzione «condivisa». A questo punto, bisognerà aspettare la prossima settimana per capire come evolverà la situazione. Scontro sul consenso informato a parte, rimane l’incognita Francesco Rutelli che - si ricorderà - si era fatto promotore di una “terza via” molto apprezzata dal Pdl, ovvero l’affidamento delle scelte su idratazione e alimentazione all’alleanza terapeutica tra medico e paziente e non alle volontà del paziente espresse nella Dat (dichiarazione anticipata di trattamento). E’ prevedibile che l’ex leader dielle decida le sue mosse in prossimità del dibattito in aula. Spingere per la “terza via” potrebbe risultare conveniente per forzare in senso centrista gli equilibri interni al Pd, se ce ne sarà bisogno. E magari sarà così, visto che la “svolta a sinistra” del neosegretario Dario Franceschini (non gradita ai centristi Democratici) non accenna a raddrizzarsi. Non c’è solo il referendum invocato da Di Pietro a gettare ombre sulla futura legge sul fine vita. Dubbi vengono sollevati anche dai costituzionalisti, secondo i quali è facile immaginare un intervento della Consulta in materia. Il testo al vaglio del Senato, spiega Federico Pizzetti, docente di Istituzioni di diritto pubblico all’Università di Milano, «tende a fissare parametri oggettivi che sembrano prescindere dalla persona», stabilendo ad esempio che alimentazione e idratazione siano forme di sostentamento finalizzate ad alleviare la sofferenza. Ma la sofferenza va valutata «in base all’identità della persona» non in assoluto. Anche rimanere in vita in modo artificiale, come nel caso di «Piergiorgio Welby - aggiunge Pizzetti - può essere causa di sofferenza». Il caso Englaro, comunque, ragionano alcuni costituzionalisti nel corso di un seminario organizzato dall’Associazione Astrid di Giuliano Amato, è stato un caso «difficile » che ha sollevato molti dubbi dal punto di vista istituzionale, a partire dall’attribuzione dei poteri. «Il quesito - sottolinea Amato - è se il governo poteva sovrapporre la propria volontà a quella della magistratura». Domanda che ha suscitato risposte diverse, ma su un punto gli esperti sono d’accordo: «Il sistema delle garanzie ha tenuto - rileva Tania Groppi, ordinario di diritto pubblico all’Università di Siena - davanti agli “assalti” del potere politico». La politica ha avuto «una reazione abnorme» in mancanza di una legge. E proprio per la mancanza di una legge, aggiunge Groppi, «la Corte costituzionale» è stata ai margini del caso, anche se sarebbe stata quella più competente visto che si trattava di «diritti».

Liberazione 6.3.09
Un saggio-pamphlet dell'economista Eduardo Aldo Carra presentato oggi a Roma
Sinistra hai perso ma la crisi ti dà ragione
di Tonino Bucci


Magari fosse solo questione di numeri. La crisi della sinistra italiana non è una semplice sconfitta elettorale. Non perché la scomparsa dal parlamento per la prima volta nella storia dell'Italia repubblicana sia una cosa di poco conto. Ma il fatto inedito, oggi, dopo una lenta erosione politica durata decenni, è che si è consumata la frattura fra la sinistra e la società. L'antica sua forza di sapersi calare nella concretezza dei conflitti sociali, si è dissolta. Come l'improvvisa emersione di un fiume carsico si scopre incapace di leggere la mappa dei territori, dei lavori, dei mutamenti della società.
Eppure proprio ora che la sinistra si trova al minimo storico dei consensi, fuori dai luoghi della rappresentanza politica, paradossalmente la realtà conferma le sue analisi teoriche. Si può perdere politicamente e avere ragione in teoria? La crisi economica non dà ragione alla critica sostenuta dalla sinistra anticapitalista? Sembrerà strano ma è proprio questa l'impressione che si ricava dalla lettura di Ho perso la sinistra , un libro a metà strada tra il pamphlet e il saggio di Eduardo Aldo Carra, economista e direttore dell'Osservatorio congiunturale dell'Ires Cgil (Ediesse, prefazione di Aldo Tortorella, pp. 144, euro 8). Il volume sarà presentato oggi a Roma con Fausto Bertinotti, Laura Pennacchi, Gianni Rinaldini, Aldo Tortorella e Aldo Garzia, oltre che con l'autore stesso (ore 17,30, libreria Melbookstore, via Nazionale 254/255).
Si potrebbe dirla così: la sinistra non c'è, la sua soggettività politica al momento è scarsamente visibile, però c'è un bisogno oggettivo della sua visione culturale, delle sue analisi, del suo modo di intendere il rapporto tra stato ed economia, tra programmazione e mercato, tra politica e conflitti sociali. Non c'è quando ce ne sarebbe bisogno. Per puntualizzare: non è che nel libro ci sia la tentazione di risolvere la crisi della sinistra radicale con la fuga nelle architetture di immaginari nuovi partiti. Carra non è interessato all'ingegneria delle sigle o alle fusioni dei gruppi dirigenti dei partiti della sinistra radicale e di ciò che ne resta. Da buon economista dirige piuttosto lo sguardo sui fenomeni strutturali.
Con ordine. La sconfitta alle ultime elezioni politiche non ha toccato soltanto la Sinistra arcobaleno, ma ha riguardato il centro-sinistra nel suo insieme. Cosa è accaduto di imprevisto e massiccio nel corpo elettorale di sinistra nelle sue diverse anime? E' successo un fenomeno inedito. Per la prima volta la proverbiale fedeltà degli elettori di sinistra ai propri partiti si è infranta. Gli argini si sono rotti. Oggi non è più vero che l'astensionismo è di destra e che chi si astiene è qualunquista. «L'equazione si è invertita e a molti elettori astenersi è apparso come un comportamento di sinistra, l'unico modo per costringere la sinistra a cambiare». Non si finirà mai di sottolineare l'effetto catastrofico dei due anni di governo Prodi sugli elettori di centro-sinistra. Le aspettative dell'elettorato sono state tradite non per qualche deroga qui e là al programma che i partiti della coalizione avevano sottoscritto, ma perché stato violato lo spirito di quel programma, perché sono state disattese le speranze che il governo Prodi intervenisse sulle due grandi questioni del paese, quella sociale e quella democratica. Non solo non si è intervenuto, cancellandole, sulle leggi berlusconiane varate negli anni precedenti, ma neppure si è messo in atto la redistribuzione di ricchezza dai redditi alti verso quelli bassi. «Queste due scelte politiche insieme hanno prodotto una rottura della sintonia del governo di centro sinistra con la sua base sociale e la sinistra più radicale, inebriata dai tanti posti di governo e dai ruoli istituzionali strappati, ha stentato a cogliere in tempo il fatto che si imboccava una china pericolosa». Sarà un'analisi impietosa, ma sta di fatto che la sconfitta elettorale non c'entra nulla con la litigiosità della coalizione. Essa è figlia esclusiva della «rottura di sintonia» del governo Prodi con i suoi elettori.
Qualche incongruenza, invece, si rischia nel libro nella lettura della diaspora della sinistra radicale. Dove sono andati a finire i voti dei suoi elettori? Da quasi quattro milioni che ne aveva, quasi tre sono andati persi per strada. Sconfitta innegabile, certo, a vedere i numeri, ma ben altra questione è l'interpretazione politica.Come va letta, ad esempio, la scelta di oltre metà dell'elettorato della sinistra radicale di votare il Pd, nonostante la svolta moderata di quest'ultimo e per effetto del richiamo del "voto utile"? E' possibile attribuire la sconfitta della sinistra radicale al fatto che essa non ha interpretato la «volontà di governo» di molta parte del suo elettorato? «Forse - scrive Carra - gli elettori hanno capito meglio dei loro dirigenti che in un sistema bipolare o non si vota o si vota per vincere e per chi ha qualche speranza di vincere». Ma le cose non sembrano così facili. Se pure il tema della governabilità ha toccato una metà degli elettori che non hanno votato Sinistra arcobaleno, è vero anche che un'altra metà è finita nell'astensionismo o nel voto ad altre liste comuniste in conseguenza del motivo opposto a quello della governabilità , cioè per l'incapacità della sinistra radicale a rappresentare i bisogni sociali. Che la questione sia complicata e che le due istanze, la governabilità e la rappresentanza, siano mescolate nell'immaginario politico dell'elettorato di sinistra, è dimostrato da quello che sostiene poco più in là lo stesso Carra. Non è un caso che tanto nello schieramento di Berlusconi quanto in quello di Veltroni siano state premiate la Lega e l'Italia dei valori. «Un aumento straordinario grazie al fatto che il voto ai due partiti è apparso un voto utile ed insieme critico e identitario». La crisi della sinistra è tutta qui: nell'essere stata incapace, alla prova dei fatti, di governare ed essere se stessa, di fare alleanze senza rinunciare alla propria vocazione critica.
Secondo punto: lo scollamento della sinistra radicale dal proprio elettorato significa anche che è venuto meno il legame tra partiti e quella che una volta si chiamava classe operaia - e, viceversa, gli operai non si percepiscono più come "classe" anche per via della crisi della forma-partito. Da più parti si è detto che il voto operaio avrebbe preferito la Lega, l'unico partito che può vantare un «reale radicamento nel territorio». Vero, ma solo in minima parte. Il grosso del voto operaio è andato nell'astensionismo. «Anzi, diciamocela tutta, il partito del non voto è tra gli operai il primo partito» e «la sinistra, invece di vedere il fuscello del voto operaio alla Lega, farebbe bene a vedere la trave del non voto operaio».
Che fare? L'indicazione più interessante del libro è che vale la pena solo fino a un certo punto scervellarsi sulle anomalie italiane, sugli effetti nefasti del bipolarismo, sulla "strutturale" inclinazione a destra dell'elettorato italiano occultata per oltre quarant'anni dalla Dc. Tutte cose sacrosante, per carità. Ma il fatto è che la sinistra non può risollevarsi dal declino se non si mette sul terreno internazionale. «Nel mondo globalizzato in cui vivamo una forzache voglia cambiare la società deve essere radicata ed agire nel suo locale, ma deve anche agire in sintonia ed in parallelo con forze che perseguano lo stesso obiettivo in altre parti del mondo».
Qui incontriamo il paradosso di una sinistra sconfitta nella propria soggettività politica proprio quando la crisi della new economy dimostra la fondatezza delle sue critiche al capitalismo. La sinistra - quella anticapitalista e comunista, almeno - aveva capito, ad esempio, il conflitto tra stati nazionali e i capitali investiti nel loro territorio, appartenenti a persone, società e istituzioni bancarie che obbediscono a regole "esterne". E, ancora, la sinistra aveva capito che nella new economy il valore dei titoli azionari si sarebbe sganciato dal capitale reale, dall'attività economica reale, e che, come in una catena di Sant'Antonio, si sarebbe generata una bolla di sopravvalutazione fondata sulla semplice scommessa sul futuro. Ma la crisi non basta. Non saranno i suoi effetti a generare automaticamente la fine di questo modello di società. Non sarà sufficiente per la sinistra dire "l'avevamo detto" né andare dietro alle «corbellerie» di moda tipo il socialismo bancario - che poi significa dare denaro pubblico alle banche responsabili della più grande truffa finanziaria di tutti i tempi. E' ora, invece, che si metta al lavoro per dire qual è la sua diversa idea di sviluppo economico, per cambiare quello che si produce, come e quanto si produce. Perché questa, se non si fosse capito, è la crisi del capitalismo.

Liberazione 6.3.09
Il volume della Minimum fax sarà presentato domenica a Roma
Angela Davis ci spiega come si può abolire il carcere
di Vincenzo Guagliardo


"Aboliamo le prigioni?" sarà presentato domenica a Roma al Volturnoccupato, via Volturno 37 alle ore 19 nell'ambito di una "giornata sulla prigionia femminile" organizzata da Scarceranda e Ora d'aria

Che fine ha fatto la famosa compagna afroamericana Angela Davis, per la cui liberazione ci si mobilitò in tanti, e con successo, sia in America che in Europa nei primissimi anni Settanta? E' rimasta al suo posto: sempre idealmente vicina ai suoi vecchi "maestri", il filosofo Marcuse e il detenuto ammazzato in carcere George Jackson, da studiosa e militante ha continuato ad approfondire certi temi, e, mutando e migliorando sempre il suo approccio, propone ora come approdo la lotta per l'abolizione delle prigioni. Così come si è fatto prima per la schiavitù e, ormai in molti paesi, per la pena di morte. (Angela Davis, Aboliamo le prigioni? , minimum fax, 270 pagine, euro 14,50).
Le prigioni sono un cancro nel cuore della democrazia che, così, non è più tale. Il carcere infatti non è solo la prigione, è una vasta intricata e ignorata rete di interessi e conseguenze, è un «complesso carcerario-industriale». «Le strategie di abolizione del carcere riflettono una comprensione dei nessi tra istituzioni che di solito concepiamo come diverse e slegate (…) La povertà persistente nel cuore del capitalismo globale porta a un aumento della popolazione carceraria, che a sua volta rafforza le condizioni che perpetuano la povertà».
I carcerati sono gli eredi degli schiavi, persone senza diritti (e gli ergastolani gli eredi dei condannati a morte). La vecchia pena visibile si occulta dietro i muri, e grazie all'invisibilità viene accettata come cosa normale. Ma da questo laboratorio-memoria ogni tanto le sue tecniche devono fuoriuscire. Mica sono lì per niente. Quando ciò avviene, a Guantanamo o ad Abu Ghraib in Iraq, magari sotto forma di tortura filmata, il progressista scende in campo in difesa della "democrazia", cui tali aspetti sarebbero estranei: in realtà continua a ignorare la fonte, "il cancro" della cosiddetta democrazia, la sua realtà quotidiana. Ma ora in America ci sono più di due milioni di reclusi. Come nascondersi con tali numeri che il carcere è ormai un ghetto dove buttar via una buona parte della gente ormai considerata superflua, demonizzandola, sottoponendola a un trattamento che terrorizzi gli altri superflui e cementi la morale della gente perbene? E come ignorare che l'esportazione della "democrazia" americana esporta anche questo cancro, che esso ne fa parte… "di brutto"?
Ecco: un discorso semplice, lineare. Siamo arrivati a un momento chiave, possiamo ripercorrere a ritroso il cammino del cancro, giungere alla logica conclusione del discorso (la «democrazia dell'abolizione»). Ma immagino che l'intellettuale italiano medio qualificherà questa analisi come rozza: slogan pietrificati, detriti sociologici… E se fosse evangelica chiarezza? Il futuro che già vediamo in atto anche qui? Beh, se non lo riconosceremo, sarà allora difficile capire il successo ottenuto nel 1998 dagli studenti americani con sit-in e manifestazioni in cinquanta campus. Avevano visto in un filmato che «Le guardie del Brazoria County Detention Center usavano pungoli elettrici per il bestiame e altre forme d'intimidazione per ottenere il rispetto e costringere i prigionieri a dire: Amo il Texas». A guadagnare in quel carcere privatizzato era la Sodexho (con sede a Parigi!): tra le università che hanno rinunciato ai servizi della Sodexho figurano la Suny di Albany, il Goucher College e la James Madison University. La Sodexho ha ceduto, ha mollato il Brazoria…
Se non lo riconosceremo, faremo girotondi.
In appendice al libro della Davis, Guido Caldiron e Paolo Persichetti provano generosamente a dimostrare l'attualità delle tesi abolizioniste dell'autrice riferite alla situazione italiana ed europea. Un'attualità tutt'ora virtuale, s'intende.

Italia Oggi 6.3.09
Giornali, la sinistra non si arrende
di Alessio Odini


Nuovi giornali a sinistra, sulla carta, a primavera. Le indiscrezioni si susseguono ormai da mesi, ma non sembra trapelare ancora troppo dei tre nuovi progetti editoriali. «Siamo in alto mare, ma c'è il progetto di un giornale slegato dai partiti», che lavori «per la riunificazione della sinistra», dice a ItaliaOggi Piero Sansonetti, che dopo aver chiuso con la direzione di Liberazione, sta lavorando a un nuovo quotidiano indicato come L'altro. Dimensioni ridotte anche nel numero di redattori e diffusione nelle edicole delle principali città. Sansonetti non smentisce che ci siano «alcuni imprenditori interessati (si vocifera di una cordata romana, ndr), ma è molto presto per parlare».
Ancor più abbottonato, sul futuro de Il Fatto, Antonio Padellaro, già direttore dell'Unità, oggi guidato da Concita De Gregorio. Del nuovo quotidiano, anche questo di piccole dimensioni, Padellaro parla in termini di «desiderio», anche se i tempi sarebbero abbastanza maturi. Di certo, nessuno desiderio di vendetta nei confronti dell'Unità, né della sua storia e tradizione. In fin dei conti, è il giornale dove Padellaro ha passato otto anni, la stessa testata che in questi giorni sta attraversando non poche difficoltà. È di ieri, fra l'altro, la dichiarazione di Legacoop, che ha smentito la partecipazione «a eventuali cordate o società che dovessero rilevare quote azionarie del capitale della società editrice del quotidiano l'Unità».
Ma la Lega delle cooperative ha anche aggiunto che «qualora, nel quadro dell'ipotizzata necessità di una ristrutturazione, i lavoratori dell'Unità, giornalisti e poligrafici, decidessero di costituire una cooperativa e diventare così i proprietari o i gestori della testata, potranno sicuramente trovare il supporto e l'assistenza» che la cooperativa del Manifesto ha avuto a suo tempo per il piano di ristrutturazione.
«Se si fa, non sarà un giornale fatto con il misurino, ma che darà le notizie senza fare sconti a nessuno», continua Padellaro. È però Furio Colombo, immediato predecessore di Padellaro alla direzione dell'Unità, e a conoscenza dei piani dell'amico, a dare un'immagine più viva di quel che sarà Il fatto: «Un giornale che manca» nel panorama nazionale, «e gli investitori ne sono attratti. È un progetto giornalistico, pur avendo un background politico, un giornale di commenti», come poteva essere Il Foglio di Giuliano Ferrara, «diventato una tromba d'aria, inteso nel senso di energia, attirato da alcuni fenomeni».
Il giornale di Padellaro non sarà un quotidiano di grandi dimensioni, visto che «i grandi giornali sono come portaerei, che si muovono con possenza, ma lentezza. Sarà un giornale di poche pagine, per dare la notizia senza partire dalla versione politica della notizia». Dunque, secondo Colombo, non si tratterà «dell'ennesima cappelletta su un sentiero di montagna», un giornale cioè che dia voce a un partito o a una corrente.
Resta poco da aggiungere sull'evoluzione di Notizie verdi, l'organo ufficiale d'informazione della Federazione dei Verdi, che secondo quanto già noto, sarà in edicola qualche settimana dopo il 21 marzo. La testata di chiamerà Terra o Live e conterà inizialmente otto pagine, destinate a crescere. «Sarà il primo quotidiano ecologista italiano», ha dichiarato alla stampa Luca Bonaccorsi, editore di Left e proprietario di Undicidue, la casa editrice romana che pubblica il foglio dei verdi diretto da Pino Di Maula, già direttore del settimanale Left. E allora, aspettiamo primavera.

il manifesto 5.3.09
E Piero Sansonetti pensa a «L'altro», un nuovo giornale
di Micaela Bongi



A Liberazione, il quotidiano di Rifondazione comunista, l'aria è tesissima. Prima una riunione della segreteria con la partecipazione del tesoriere Sergio Boccadutri e del direttore del giornale, il sindacalista Dino Greco. Poi, un summit ristretto tra il segretario del Prc Paolo Ferrero, ancora Greco e il vicedirettore Fulvio Fania. Una riunione finita male, con Fania uscito sbattendo la porta, arrabbiatissimo.
Saltata la trattativa per l'ingresso nella proprietà della testata dell'ex editore di Left Luca Bonaccorsi, legato al guru Massimo Fagioli, visti i conti drammatici del giornale si è ricominciato a parlare di pesanti tagli (si prevede una riduzione delle pagine e dell'organico, con prepensionamenti e incentivi all'uscita).

Il piano di crisi dovrebbe essere trasmesso alla Federazione nazionale della stampa entro dieci giorni, ma nel frattempo il comitato di redazione chiede che siano risolte le questioni pendenti, dagli scatti di anzianità alle integrazioni dell'organico alle buonuscite. La redazione, che oggi si dovrebbe riunire in assemblea, già ha dimostrato di non gradire il nuovo direttore, che oltre alla vicenda del «licenziamento» di Piero Sansonetti e alla sua inesperienza nel campo del giornalismo, sconta anche la preoccupazione per il futuro del giornale. E così Greco è stato accolto in redazione con un pesante voto di sfiducia: a favore del suo piano editoriale si sono espressi 8 giornalisti; ben 24 i voti contrari.
L'ex direttore Sansonetti nel frattempo si prepara a mandare in edicola un nuovo quotidiano. Si chiamerà L'altro. Il progetto prevede un giornale di 12 pagine tabloid di politica e cultura, con un notiziario esteri ridotto, e meno di dieci redattori. A lavorare con lui Sansonetti ha chiamato Andrea Colombo, ex notista politico del manifesto attuale portavoce di Franco Giordano, e altre firme del nostro giornale prima, di Liberazione poi, come la ex senatrice Rina Gagliardi e Ritanna Armeni.
Per quanto riguarda la proprietà, si sta mettendo insieme un consorzio ampio di piccoli e medi imprenditori romani: ognuno dovrebbe partecipare con una finanziamento piccolo (circa trentamila euro). Già si sono chiusi accordi pubblicitari e per la stampa e la carta, ancora da definire invece quelli per la distribuzione. Obiettivo dichiarato: non essere un quotidiano di partito, un «foglio dei vendoliani» o della sinistra antagonista, ma un giornale che si rivolge alla sinistra tutta rompendo la gerarchia tra diritti sociali e diritti civili, in continuità con la prima pagina della Liberazione diretta da Sansonetti. Antiberlusconiano ma non giustizialista. Per l'uscita si è pensato, non a caso, al 7 aprile (per ricordare il teorema giudiziario che portò in carcere una bella fetta del movimento degli anni '70), ma non è detto che ci si riuscirà. 
E pure l'ex direttore dell'Unità Antonio Padellaro si dà da fare. In arrivo anche il suo quotidano, Il Fatto, di area dipietrista ma senza legami formali con l'Idv. Anche per questo giornale si prevede una piccola redazione: tra le firme di peso si era parlato di quelle di Marco Travaglio e Furio Colombo, ora collaboratori del quotidiano diretto da Concita De Gregorio.