lunedì 9 marzo 2009

Corriere della Sera 9.3.09
La denuncia del papà di Eluana
Padre Lombardi: la Santa Sede interviene con altre modalità
Il Vaticano su Barragán: parole personali
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO — C'è una cosa che accomuna le uscite recenti, seppure diversissime, di cardinali come Renato Raffaele Martino e Javier Lozano Barragán o dell'arcivescovo Agostino Marchetto. Personalità autorevoli della Curia romana, amatissimi dai giornalisti perché disponibili a parlare senza veli e insieme capaci di diffondere ansia ai piani alti della Santa Sede: le loro parole, fatalmente, diventano all'istante la posizione del «Vaticano». Il che costringe poi a spiegare che si tratta di posizioni «personali» magari «non in linea con la Segreteria di Stato». È successo anche con le parole sillabate a più riprese da Lozano Barragán su Eluana: «È un assassinio», «fermate quella mano assassina», «è inconcepibile uccidere così una persona», «che Dio li perdoni per quello che hanno fatto», e insomma tutto ciò che ha fatto dire a Beppino Englaro di voler denunciare il «ministro della Salute» vaticano. Il cardinale aveva già replicato dopo che la Procura di Udine ha indagato il papà di Eluana: «In una conversazione con lui ha reagito in modo molto arrabbiato, dicendo che lo catalogavo come assassino, ma io dico solo che il Quinto comandamento dice di non uccidere e chi uccide una persona innocente commette un crimine. Se ha ammazzato lui la figlia è un omicida, se non l'ha ammazzata lui allora non lo è. Penso che non sia un ragionamento polemico, ma logico». Eppure non è così semplice, il che spiega il silenzio che nella Santa Sede ha accompagnato l'uscita di Beppino Englaro mentre il cardinale messicano era in viaggio per Monterrey. Un po' c'è il fatto che non esiste ancora una denuncia. E un po' che il caso Eluana è affidato alla Cei: fa testo ciò che dice il cardinale Angelo Bagnasco, non Lozano Barragán. Quando l'arcivescovo Marchetto attaccò il governo sul decreto anti-ronde, al portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, toccò chiarire che «la Santa Sede, quando intende esprimersi autorevolmente usa mezzi propri e modi consoni: comunicati, note, dichiarazioni. Ogni altro pronunciamento non ha lo stesso valore». E ancora: «Anche di recente si sono verificate attribuzioni non opportune». La cosa, si spiega in Vaticano, valeva pure per Lozano Barragán.
Il problema non è il giudizio sulla sospensione di alimentazione e idratazione: non si può, mai, la posizione della Chiesa è chiara e netta. Il problema è lo stile, che in questi casi diventa sostanza. Così le parole del cardinale messicano sono giudicate «personali », e quindi «non esprimono la linea della Santa Sede». Del resto la posizione del Vaticano, chiara sul principio, è sempre stata attenta a non usare espressioni offensive verso la famiglia. Nel pieno della polemica politica, si è arrivati ad accusare l'Osservatore
romano di «tiepidezza». Ma il direttore Giovanni Maria Vian ha spiegato: «Abbiamo ritenuto che la via migliore fosse un cammino di attenzione vivissima e allo stesso tempo discreta. Le parole che più sono entrate nel cuore di tutti sono quelle del Papa, la sua delicatezza. Insieme a quelle del vescovo di Eluana, il cardinale Tettamanzi, di cui abbiamo pubblicato la bellissima lettera alle suore di Lecco: a loro che hanno cercato di rispettare fino all'ultimo la discrezione, il silenzio, il pudore». E poi basterebbero gli ultimi interventi di Benedetto XVI, nettissimo nell'affermare che «l'eutanasia» è una «falsa soluzione al dramma della sofferenza, una soluzione non degna dell'uomo», che «la vita dell'uomo non è un bene disponibile », e insieme attento al dolore di tutti: «Siamone certi: nessuna lacrima, né di chi soffre né di chi gli sta vicino, va perduta davanti a Dio».

Corriere della Sera 9.3.09
Firenze Democratici divisi, oggi la decisione
Cittadinanza a Englaro, no di Renzi
di Marco Gasperetti


Non è una proposta seria, ma una provocazione. Non mi piace la voglia di mettere la bandierina su una vicenda come quella di Eluana. Allora diamolo anche ai 2.500 che assistono persone nelle stesse condizioni

Oggi il Consiglio comunale di Firenze deve decidere se concedere la cittadinanza onoraria a Beppino Englaro, il padre di Eluana. Ma si annunciano contrasti. Presentata dal socialista Alessandro Falciani, la proposta non registra solo il «no» compatto dell'opposizione di centro destra ma anche di una parte del Pd, a cominciare dalla capogruppo Rosa di Giorgi. Contrario anche il vincitore delle primarie democratiche, il cattolico Matteo Renzi: «E' una provocazione, non mi piace la voglia di mettere una bandierina su questa vicenda».

FIRENZE — A far soffiare di nuovo nel Pd toscano il ventaccio gelido della divisione è stato un socialista. Al secolo Alessandro Falciani, 55 anni, direttore dell'Associazione dei volontari del sangue toscana e capogruppo del Psi nell'inquieto consiglio comunale di Firenze. Una decina di giorni fa, Falciani ha presentato una delibera con la quale ha proposto la cittadinanza onoraria a Beppino Englaro, il papà di Eluana. E, inevitabilmente, ha rigenerato nei turbolenti democratici fiorentini la mai sopita sindrome genetica dei guelfi e dei ghibellini. Una frattura che, stavolta, non riguarda le due anime del partito, ma è trasversale e atipica. Con ex Margherita contrari alla cittadinanza, ma favorevoli alla battaglia di Beppino Englaro, ed ex diesse che annunciano votazioni all'antitesi l'uno con l'altro.
Dopo essere passata in commissione (tre consiglieri pd hanno votato a favore e uno contrario), alle 15.30 di oggi la delibera Falciani va in consiglio comunale. E a Palazzo Vecchio si annunciano scintille per un voto che potrebbe riservare anche sorprese clamorose. Non nell'opposizione di centrodestra, schierata compatta sul no e nella sinistra radicale decisa per il «sì», ma nel Pd, appunto.
Tanto è vero che il capogruppo del partito, Rosa Di Giorgi (area Margherita), ricercatrice del Cnr, contraria alla cittadinanza, discuterà la questione in mattinata durante la riunione del gruppo consiliare per capire l'orientamento dei compagni di partito. «Liberi di votare come credono — premette Di Giorgi —, perché questo è anche un caso di coscienza e non può esistere una disciplina di partito. Io, per esempio, sono d'accordo con ciò che ha deciso il signor Englaro, che stimo e apprezzo per la sua battaglia civile, democratica e legale. Ma per conferire una cittadinanza onoraria è necessaria l'unità, un voto all'unanimità, e invece questa è una vicenda che divide la politica e i cittadini. E anche il mio partito».
Il socialista Falciani ribatte che l'unità c'entra poco e chiede una scelta coraggiosa: «In passato sono state conferite cittadinanze votate non all'unanimità. Firenze è sempre stata vicina a personaggi di grande spessore morale al di là del voto finale. Il signor Englaro ha combattuto per la legalità e per la Costituzione ed è un onore averlo come concittadino: i fiorentini possono esserne orgogliosi».
Tra i favorevole all'iniziativa socialista c'è invece il vice capogruppo del Pd, Gianni Amunni, oncologo, direttore dell'Istituto toscano tumori. «Ho firmato la delibera di Falciani — spiega —, perché ritengo giusta e meritoria la battaglia civile e morale di Beppino Englaro. Le divisioni nel partito? Credo che il dibattito interno sia una ricchezza. Ognuno voterà secondo coscienza, ma a me non sembra un problema».
Mentre il sindaco uscente, Leonardo Domenici, preferisce il silenzio, il vincitore delle primarie del Pd, il cattolico Matteo Renzi, si schiera decisamente per il «no». Lui non voterà a Palazzo Vecchio perché è presidente della Provincia, ma il suo è un parere che conta, moltissimo, soprattutto da quando c'è chi lo ha osannato dopo la vittoria alle primarie come l'«Obama del Pd».
«Sono contrario — dice Renzi — perché questa non è una proposta seria, ma soltanto una provocazione. Firenze ha sempre cercato un dialogo, e personaggi come La Pira lo testimoniano. Non mi piace la voglia di mettere la bandierina su una vicenda particolare come quella di Eluana per radicalizzare lo scontro. Se si concedesse la cittadinanza onoraria al signor Englaro, dovremmo conferirla anche a quelle 2.500 persone che stanno assistendo persone care nelle stesse condizioni di Eluana».
E l'opposizione? Unita per il no. «Se fossi Beppino Englaro la rifiuterei per mettere la parola fine a questa drammatica vicenda e lasciar riposare in pace Eluana», dice Mario Razzanelli, ex capogruppo dell'Udc e candidato a sindaco per una lista civica di centrodestra. Oggi l'ultimo verdetto nel Salone dei Duecento di Palazzo Vecchio.

Corriere della Sera 9.3.09
Berlusconi: sul «fine vita» libertà di coscienza
«C'è un vuoto da colmare, nel Pdl scelta senza vincoli». Pd d'accordo. L'Udc: torna l'anarchia sui valori
di Paola Di Caro


Il premier: il governo ha il dovere di prendere delle decisioni e al Parlamento spetta il compito di fare una legge

ROMA — La legge sul testamento biologico va fatta, perché in Italia esiste un «vuoto normativo» che va colmato, ma i parlamentari del Pdl hanno «la libertà di votare secondo coscienza». La conferma autorevole di una linea rimasta sottotraccia nel centrodestra, perché niente affatto facile da mettere in pratica, arriva da Silvio Berlusconi. Che, in un'intervista al quotidiano spagnolo El Mundo torna sul caso Eluana, per spiegare che «un governo democraticamente eletto ha il diritto e il dovere di prendere delle decisioni.
La morale può essere soggettiva, la legge no. Soprattutto su temi fondamentali come quelli che implicano la vita e la morte, non si possono lasciare vuoti normativi, perché è in quel vuoto che nasce il problema». «La magistratura — continua il premier — a differenza del Parlamento, non ha il potere di fare leggi, ha invece l'onere e l'onore di applicarle. Se c'è un vuoto, il compito di colmarlo con una legge spetta al Parlamento. Ma poiché questa legge sul "fine vita" in Italia non c'era, noi abbiamo naturalmente portato in Parlamento la nostra proposta, con la libertà per i nostri parlamentari di votare secondo coscienza». Una dichiarazione di princìpio già fatta in casi simili dal premier, che ha sempre lasciato libertà ai suoi sui temi eticamente sensibili, ma che stavolta fa discutere perché proprio questo governo ha tentato di intervenire con decreto per evitare che fosse staccato il sondino ad Eluana Englaro.
Se sul lasciare «totale libertà di coscienza» è assolutamente d'accordo il leader del Pd Dario Franceschini, perché «su questi temi non ci può essere disciplina di partito », c'è però chi come l'udc Luca Volontè si indigna: «Siamo tornati all'anarchia del Pdl sui valori non negoziabili ». Ma un laico convinto come Benedetto Della Vedova replica duro: «Bene ha fatto, invece, Berlusconi a ribadire che sui temi della bioetica sarebbe insensato, oltreché impossibile, imporre ai parlamentari di un grande partito moderato e liberale un voto contro coscienza».
Un po' il discorso che fa il capogruppo vicario del Pdl al Senato, Gaetano Quagliariello: «Siamo un partito del 40%, è normale che su certi temi possano esserci posizioni diverse, come al Senato quelle di Saro, Malan e Paravia. Poi certo, noi non siamo un albergo spagnolo, una linea ben chiara di gruppo c'è e se non la sia accetta bisogna spiegare con chiarezza perché e comportarsi con lealtà, ma il voto di coscienza è sempre rispettato, per questo non vediamo la necessità di ricorrere al voto segreto».
Intanto, sul testamento biologico domani, in Commissione Sanità del Senato, cominceranno le votazioni agli emendamenti al ddl. E si partirà con un'intesa di massima tra Pdl e Pd sul «consenso informato », intesa che dovrebbe almeno evitare il ricorso all'ostruzionismo e permettere al provvedimento di approdare all'esame dell'Aula nei tempi previsti, e cioè il 18 marzo.

Corriere della Sera 9.3.09
Iniziativa di Radicali e giovani Pdci
Ratzinger in Campidoglio Pronta la contestazione
di Ernesto Menicucci


Gianni Alemanno riceverà oggi in Campidoglio la visita di Papa Benedetto XVI.
Su «Facebook» si annuncia una contromanifestazione di «Laici per Roma»

ROMA — In piazza, questa mattina, non ci saranno solo le associazioni cattoliche, Sant'Egidio e la Caritas, le suore di Madre Teresa di Calcutta e le Acli. Per la visita di Benedetto XVI al Comune di Roma, sulla piazza del Campidoglio, è annunciata anche una contromanifestazione. Su Facebook, infatti, da giorni c'è un nuovo gruppo: «Laici a Roma il 9 marzo». E anche se il luogo e l'ora dell'appuntamento non sono fissati, la coincidenza è quantomeno «sospetta». «Il sindaco Alemanno e i consiglieri possono invitare chi vogliono, ma la storia della Roma papale è anche quella delle distruzioni iconoclaste delle vestigia classiche, del rogo di Giordano Bruno, delle discriminazioni contro gli ebrei, delle fucilazioni ed impiccagioni di patrioti durante il Risorgimento e del concordato clerico-fascista». E il promotore dell'iniziativa Antonio Stango, dei Radicali, aggiunge: «Spero che Alemanno ricordi al Papa le vittime, fisiche e morali, della chiesa. La manifestazione?
Sarà non violenta». Ieri, in città, ad alcuni manifesti sull'evento la Fgci (organizzazione giovane del Pdci) ha attaccato delle scritte: «Non alle ingerenze vaticane» e «Libera chiesa in libero stato», i messaggi.

Corriere della Sera 9.3.09
Il segretario sulla piccola brasiliana rimasta incinta dopo l'abuso
«Bimba violentata, sì all'aborto» E Franceschini agita il Pd
di Lorenzo Salvia


Cattolici divisi. Carra: giusto. Fioroni: no, è un'altra violenza
Il segretario del Partito democratico difende la scelta della madre della piccola di interrompere la gravidanza

ROMA — «Credo sia una scelta che dobbiamo rispettare. Probabilmente è stata la scelta giusta». Dario Franceschini, intervistato in tv da Lucia Annunziata, parla così della vicenda della bambina brasiliana di 9 anni che, vittima di uno stupro e rimasta incinta, ha abortito per scelta della madre. Certo, il caso è davvero limite, anche se il vescovo di Recife non ha esitato a scomunicare i medici che hanno interrotto quella gravidanza. Ma resta il fatto che il segretario del Pd, cattolico ed ex Dc, non dice di no all'aborto. E nell'area cattolica del Partito democratico i pareri non sono tutti consonanti.
«Indubbiamente siamo in presenza di un dramma che chiede il massimo rispetto— dice Giuseppe Fioroni — ma è innegabile che per un credente ad una violenza non si può rispondere con un'altra violenza». Sulla stessa linea, anche se «molto tormentato », Renzo Lusetti: «La coscienza si gira e rigira senza trovare pace, ma resto contrario all'aborto anche in un caso limite come questo. Però quella scomunica mi sembra eccessiva. Ne potevano fare a meno». Non entra nemmeno nel merito della questione Paola Binetti, colonna di quella corrente di cattolici di ferro che nel Pd ha preso il nome di teodem. Stavolta sembra un po' imbarazzata: «La cosa sconvolgente è che questi bambini sono fatti oggetto di una violenza che viola la loro innocenza e li espone ad una vita che sarà sempre ferita». D'accordo, ma se la violenza c'è stata, come per la bambina brasiliana, che fare? «Non mi tirerà fuori un giudizio su questo episodio. Sarebbe sbagliato perché daremmo una falsa risposta a un dramma terribile». Fin qui quelli che non condividono le parole di Franceschini. Ma per trovare chi la pensa come il segretario non bisogna andare molto lontano. Anche Enzo Carra appartiene all'area dei teodem, eppure: «In casi come questi bisogna mettere da parte le questioni di principio. Questa è una vicenda talmente eccezionale che richiede un intervento eccezionale. Franceschini ha fatto bene: senza toccare i pilastri della fede stavolta non bisogna aprire il codice morale ma il codice della misericordia umana». Anche un'altra teodem come Dorina Bianchi condivide le parole del segretario Pd: «È una violenza così terribile che non mi sento di esprimere un giudizio negativo sulla scelta della madre di quella povera bambina. A lei va la mia vicinanza e la mia comprensione».
Dalla sponda cattolica del partito, quindi, stavolta arrivano anche parole simili a quelle dell'area diessina: «Credo che Franceschini — osserva Marina Sereni, vice capogruppo del Pd alla Camera— abbia espresso con cautela una posizione di grande buon senso. Anche in Italia, nel rispetto della legge, l'aborto è diventato per tante persone credenti non un diritto o una libertà, ma una scelta in alcuni casi dolorosa ma indispensabile per contrastare il dramma ancora più nero degli aborti clandestini». Cattolici favorevoli all'aborto? «Da almeno 30 anni — dice Marco Cappato — buona parte dei credenti sta dalla nostra parte, dalla parte dei radicali che con la prevenzione e l'informazione vogliono sconfiggere l'aborto clandestino. A restare indietro non sono loro ma le gerarchie vaticane e la politica clericale. Bravo Franceschini. Ma insomma, ha solo detto una cosa di buon senso, nulla di più».

Corriere della Sera 9.3.09
l rapporto I dati dell'Istituto superiore di sanità
Fecondazione assistita. Gravidanze in crescita e boom di tre gemelli
Roccella: alcuni parti a rischio, interverremo
di Margherita De Bac


Il sottosegretario: la normativa funziona, le critiche sul crollo dei parti del primo anno dovute alla mancanza di dati

ROMA — Italia sotto il segno dei gemelli. L'alta percentuale di parti con tre bambini, il 2,8% di quelli nati con tecniche in provetta, è uno dei dati sugli esiti della legge 40, che dal 2004 regola il settore della procreazione medicalmente assistita. L'Istituto superiore di sanità li ha appena consegnati al ministero del Welfare. I tecnici del sottosegretario Eugenia Roccella sono al lavoro per presentare al Parlamento entro giugno la terza relazione sullo stato dell'arte delle fecondazione assistita. E di sicuro l'eccesso di trigemini, determinato dall'obbligo di trasferire in utero tutti gli embrioni ottenuti con queste tecniche (per un massimo di tre) sarà uno dei fenomeni da correggere. «Vogliamo intervenire con decisione. I parti plurigemellari sono un rischio per la donna. Renderemo pubblico l'elenco dei centri dove queste percentuali toccano punte inaccettabili, oltre il 7%, contro la media europea dell'1,3%», dice Roccella. Convinta, come suggerirebbero i dati, che laddove le tecniche vengono applicate in modo scrupoloso, i triplici fiocchi si possono ridurre di molto. «In alcune strutture la percentuale è appena del 0,7%, è una questione di scrupolo e attenzione».
I numeri raccolti dall'istituto presieduto da Enrico Garaci e relativi al 2007 evidenziano una controtendenza. Rispetto al 2005, primo anno di rilevamento, più gravidanze, più nascite, più cicli di trattamento, più coppie curate contro la sterilità. Secondo il sottosegretario il quadro è positivo: «La legge 40 funziona. Le critiche derivano dal fatto che il crollo delle gravidanze avuto nel primo anno di rilevamenti non poteva essere confrontato con precedenti indagini scientificamente attendibili in quanto mancava un registro obbligatorio».
Nel 2007 le gravidanze con tecniche cosiddette di 2˚ e 3˚ livello (Fivet e Icsi, quelle che si applicano in provetta, in vitro) sono passate da 6.200 a 7.850. La percentuale di successo è salita da 18% a 19,6%. Le coppie da 43.000 sono diventate circa 55.400. In aumento anche i centri, da 169 a 181. Poco più di 6.486 i nati nel 2007, contro i 3.385 di due anni prima. Oltre novemila contro i circa 5 mila del 2005 se si calcolano anche le tecniche semplici, di inseminazione (con l'embrione che viene concepito direttamente in utero, senza aiuti).
Tra le novità positive, il crollo delle complicanze legate all'iperstimolazione ovarica, con numeri tra i più bassi d'Europa. È aumentata però l'età media delle pazienti. Trentasei anni, contro il 35,4. E il 25,3% hanno più di 40 anni, fase della vita molto avanzata per realizzare progetti riproduttivi.
Secondo la Roccella l'invecchiamento è un grave problema: «Dopo i 40 anni le probabilità di successo si riducono — osserva il sottosegretario alla Salute —. In generale, la donna italiana fa figli tardi perché il desiderio di maternità è ostacolato da difficoltà pratiche. Crisi economica, lavoro, servizi materno-infantili carenti. C'è un tempo per avere bambini e la procreazione assistita non è la soluzione se si decide di rinviare».

l’Unità 9.3.09
È finita. Ecco i tagli ai beni culturali di Berlusconi & Tremonti: 1,4 miliardi in meno in tre anni
La scure. Soprintendenze, musei e tutela paesaggistica in ginocchio in tutta Italia
2009 - 2011. A voi in diretta il massacro Beni culturali
di Vittorio Emiliani


Beni culturali, soprintendenze, la tutela del Bel Paese: si chiude tutto. Mentre Obama e Sarkozy investono, il quadro che si delinea in Italia è disastroso: un miliardo e mezzo in meno in tre anni vuol dire affossare un Paese.

Signori, si chiude. La Cultura, i Beni culturali, le Soprintendenze, la tutela del Belpaese, intendo. Mentre Obama investe, come misura anti-crisi, in cultura, Zapatero pure e Sarkozy alza a 500 milioni di euro i fondi per i restauri, Berlusconi e Tremonti tagliano le risorse ordinarie per i Beni culturali di 1 miliardo e 403 milioni di euro in tre anni (quest’anno si comincia con 498 milioni in meno). Al CIPE di venerdì l’ultimo schiaffo al fido Bondi (dato ormai in uscita dal Collegio Romano): neppure un euro ai Beni culturali dai fondi generosamente elargiti, sulla carta, ad opere grandi e meno grandi. Nel contempo però parte, contro le Soprintendenze e i vari uffici ministeriali, una campagna strumentale sui residui passivi che ammonterebbero a meno di mezzo miliardo (in realtà sono pure di più, se non ci si ferma alle contabilità speciali), comunque risultano addirittura dimezzati rispetto a pochi anni or sono. Intento della campagna? Screditare Ministero dei beni culturali e tecnici che si lamentano dei tagli e non sono neanche buoni a spendere i fondi... «Pura demagogia, una strumentalizzazione propagandistica», la definisce Paolo Leon, docente a Roma 3, uno dei rari economisti a conoscere a fondo i beni culturali. «Quei residui passivi fanno spesso parte di somme stanziate in passato, anni e anni fa, e che sono state già impegnate. Credo che ci siano ancora residui del Fondo investimenti occupazione e addirittura dei Giacimenti culturali di De Michelis...». Quindi roba di una ventina di anni or sono. «E comunque riguardano spese in conto capitale», chiarisce ancora Leon, «cantieri che ci mettono molto ad avviarsi e che vanno per le lunghe, ma che hanno generato opere, restauri, occupazione. Magari attingendo a leggi speciali di difficile utilizzazione». Mentre coi tagli odierni la mannaia cade sulla spesa corrente, quindi su quanto rimane del funzionamento quotidiano dell’Amministrazione, che risulterà sempre più inceppata anche sul versante dei lavori, dei restauri, degli appalti, ecc. Scriveva in modo competente nel luglio scorso Antonello Cherchi sul Sole 24 Ore: «Beninteso, non è certo con tali cifre che si può pensare di risolvere i problemi strutturali del ministero. Né, tantomeno, quelle disponibilità rendono giustificabili gli attuali tagli al budget ministeriale». Ineccepibile. Pur restando l’esigenza di rendere molto più funzionale la macchina senza depotenziarla in corsa.
IL QUADRO DEL DISASTRO
Mercoledì si è tenuto il primo Consiglio superiore del dopo-Settis e i vari direttori generali vi hanno rovesciato le loro doglianze. Ben riassunte in documento della Uil-Bac riassume. Francesco Prosperetti, direttore generale per la Qualità e la tutela del Paesaggio: «La consistenza delle risorse vede una drastica riduzione tra 2008 e 2009 del 46,34 %, con un abbattimento del 35,08 per la tutela e addirittura del 93,97 per la ricerca». Roberto Cecchi, Beni architettonici e storico-artistici: «Le risorse del 2009 non saranno sufficienti a ricoprire le spese legate al quotidiano funzionamento degli Istituti, delle Soprintendenze, e dei Musei». Stefano De Caro, Beni archeologici: «La riduzione dei fondi ha indotto già alcune Soprintendenze, nel corso del 2008, a rappresentare la necessità di ridurre alcuni servizi, fino a prefigurare la chiusura di alcune sedi», cioè di talune Soprintendenze, siti e musei archeologici. Maurizio Fallace, Beni librari: «Indebolimento delle biblioteche pubbliche statali in tema di conservazione, preoccupazione per biblioteche dotate di autonomia come la Nazionale di Firenze e per il Centro per il Libro», a zero fondi. Luciano Scala: «La riduzione riguarda gli affitti di sedi di archivi e di Soprintendenze archivistiche, e gli investimenti”. Antonella Recchia, Formazione del personale: «Colpite le spese per formazione, aggiornamento e perfezionamento e la stessa Scuola di Oriolo Romano». Con la riduzione di questo capitolo fondamentale di spesa a 0,6 centesimi per dipendente. Elemosine.
Cominciano le intimazioni a pagare le bollette inevase pena il distacco della corrente elettrica: succede alla Soprintendenza di Lucca - racconta Gianfranco Cerasoli, segretario della Uil-Bac - debitrice per 90.000 euro che non ha in cassa. Presto negli uffici mancheranno i soldi per gli straordinari, per i telefoni, per la cancelleria, per i francobolli, per la carta delle fotocopie e per quella igienica nei bagni dei musei. Allegria. Mentre si parla a tutto spiano di «valorizzazione» turistica dei Musei. Mentre resta quanto meno opaca la gestione, separata e grassa, di Arcus. Mentre gira insistente la voce che si voglia commissariare, dopo Pompei e (decisione attesa da oltre un mese) dopo Roma e Ostia, Soprintendenze speciali con forti somme in cassa, anche Brera. Dove ad un esperto di recente acquisizione avrebbe dato, si sussurra, molto fastidio la vista dei ponteggi alzati per restaurare (finalmente) l’arioso cortile del Piermarini. Secondo lui, «disturbavano i turisti». Si commissariano le Soprintendenze, magari con personale della Protezione civile svilendole e svuotandole di funzioni. Mercoledì il Consiglio - convocato dal vice-presidente Antonio Paolucci, tuttora in carica - ha votato all’unanimità due mozioni: una per consentire alla Direzione generale per la Qualità e la tutela del Paesaggio di vivere; l’altra per condannare questi tagli feroci che mettono in pericolo la tutela e il funzionamento stesso dei beni culturali. Ma quanto servirà? O non occorrono azioni più incisive, anche contro questa strumentale polemica sui residui passivi?

l’Unità 9.3.09
Da Brooklyn al trono del Crisantemo: è il viaggio narrativo compiuto dallo scrittore
In filigrana la vicenda vera della colta ed emancipata Masako, finita in depressione
Se una borghese sposa il principe azzurro
La fiaba feroce della corte giapponese
di Maria Serena Palieri


Haruko è una ragazza borghese e colta. Nel 1959 sposa il principe azzurro, l’erede al trono. Sulla falsariga della vicenda vera della principessa Masako, un romanzo che entra nel cuore della corte giapponese.

Una delle cose che rendono più affascinante il pianeta Terra è che in una stessa epoca - questa - su di esso convivano tutte le fasi della storia dell’umanità: mentre noi viviamo affacciati a forza sul futuribile, in Cina sopravvive una comunità di cavernicoli e in Amazzonia gruppi di indios difendono la loro enclave protostorica. Una delle cose terribili, sul pianeta Terra, è quando ere diverse sono «costrette» a convivere. E, da questo, nasce un conflitto distruttivo senza possibilità di soluzione. Racconta questo, in fondo, John Burnham Schwartz in Una ragazza comune (Neri Pozza, trad. Massimiliano Morini, pp. 298, euro 17), un romanzo ambientato , tra la fine degli anni ‘50 e oggi, in quel luogo imperscrutabile che è la corte degli imperatori del Giappone: un luogo, come lo dipinge questo romanzo, dove il tempo si torce in una specie di buco nero.
In filigrana scorgiamo la storia vera di Masako, prima borghese - ma anche prima donna con un’eccellente cultura e una propria professione in campo economico-diplomatico - ammessa a far parte della famiglia reale, andata sposa nel 1993 al principe ereditario e in un lustro entrata a rotta di collo in depressione.
Però Haruko, la futura principessa del romanzo, è nata nel 1934. E questo, a Schwartz, permette di descrivere nelle prime pagine del romanzo un Giappone in procinto di perdere la guerra, poi, con una pietas insolita in un americano, le ferite lasciate dalla bomba H: la madre di Haruko quando, a guerra finita, inaugura a Tokio la nuova casa di famiglia, tasta quella strana polvere che si insinua dappertutto e commenta «È triste». Mentre un piccolo amico di Haruko si nasconde al mondo, ridotto alla carne viva dalle ustioni, e lo stesso tutore del Principe, il saggio Watanabe, ha due facce: un lato sfigurato, l’altro a posto. Metafora efficace, per questo Giappone sconfitto ma con un cuore imperiale intatto.
Retrodatare la vicenda permette anche di dilatarla su due generazioni: Haruko da principessa diventerà imperatrice e, a sua volta, accoglierà Keiko, la sposa borghese di suo figlio, poi ne vedrà il rapido appassire e ne pianificherà il ritorno alla vita con un gesto folle, cioè l’unico possibile.
Ma cos’è che ammazza le ragazze giapponesi «comuni», come dice il titolo, quando realizzano lo stereotipo di tutti i sogni, cioè sposano il principe azzurro? Il cerimoniale, certo: il costume nuziale pesa diciotto chili. L’obbligo di generare un figlio maschio, sì: reiette per questo Haruko, finché non ci riesce, e Keiko che non raggiunge lo scopo. Ma ciò che ammazza è, appunto, la torsione del tempo: fuori erano ragazze che lo vivevano come facciamo noi, come una freccia tesa in avanti, dentro la corte si ritrovano a essere l’ultimo fattore, minimo, d’un tempo che in nome della Tradizione si declina al passato. Una ragazza comune non ci dice quello che ci suggeriscono gli sceneggiati sui petrolieri, cioè che «anche i ricchi piangono». Ci mostra piuttosto che la specie umana ha, a tutte le latitudini, una fantasia totale e terribile per punirsi fabbricando supplizi, anche in quelli che, in apparenza, sono i più dorati dei paradisi.

Repubblica 9.3.09
Oggi Obama dà il via libera ai soldi per la ricerca sulle cellule della speranza. Rapporto dalla frontiera più avanzata della medicina. Con qualche sorpresa
di Elena Dusi


WASHINGTON. Si scrive "cellula staminale" ma si legge "pietra filosofale". A passare in rassegna le speranze riposte in questi microscopici pezzi di ricambio del nostro corpo, si trovano paralisi scomparse con una semplice iniezione o rughe cancellate spalmando una pomata. Miraggi finiti a volte nel meccanismo del marketing. O esperimenti ancora troppo arditi per poter approdare alla cura dell´uomo. Eppure la sensazione che il futuro della medicina passi da qui è netta fra gli scienziati, galvanizzati dal successo degli esperimenti degli ultimi anni, dai primi organi in parte ricostruiti in laboratorio e dalla decisione di Obama (prevista per oggi) di sbloccare i fondi pubblici per la ricerca sulle staminali ricavate da embrioni umani dopo il blocco imposto da Bush nel 2001.
Se queste cellule non sono ancora una cassetta degli attrezzi in grado di riparare qualunque organo danneggiato del nostro corpo, sono allo stesso tempo molto di più. Lo ha dimostrato Shinya Yamanaka, un giovane ricercatore giapponese con l´aria da primo della classe.
Nel 2007 ha preso delle normali cellule adulte della pelle e le ha trasformate in staminali "bambine", semplicemente aggiungendo al brodo di cultura delle sostanze chimiche in grado di risvegliare quattro geni "addormentati" dal trascorrere del tempo.
In una mossa, Yamanaka ha fatto un passo piccolissimo ma concreto verso quell´elisir dell´eterna giovinezza su cui gli alchimisti si sono arrovellati per secoli, e verso quella macchina del tempo che solo la fantascienza finora è riuscita a disegnare. I quattro geni su cui lo scienziato ha messo le mani si spengono infatti man mano che una cellula cresce e si specializza. Sono la differenza fra un´entità vivente appena nata e una che è già invecchiata.
Per il momento l´inversione della freccia del tempo da "adulto" a "bambino" è riuscita solo su una manciata di cellule. Ma l´esperimento giapponese apre la porta a un ventaglio incredibile di prospettive. Yamanaka infatti è riuscito a dimostrare che la differenza fra le staminali (prive ancora di una forma definita e per questo potenzialmente in grado di trasformarsi in ogni tipo di tessuto) e le cellule adulte (con il loro compito ormai ben definito e incapaci di ripercorrere all´indietro le tappe del loro sviluppo) sta tutta in una manciata di geni.
Girando le chiavi nella serratura di questi geni, altri scienziati in tutto il mondo hanno seguito le tracce del giapponese e sono riusciti a far tornare bambine le cellule più disparate, saltando a piè pari il problema etico dell´uso degli embrioni umani. Perfino l´inglese Ian Wilmut, il padre della pecora Dolly, ha deciso di abbandonare la strada della clonazione per seguire quella dell´"inversione della freccia del tempo". «La tecnica giapponese offre potenziali molto maggiori», dichiarò alla Bbc all´indomani della scoperta di Kyoto. E la settimana scorsa un gruppo canadese e inglese è riuscito a fare un ulteriore passo avanti, manipolando il poker di geni senza l´aiuto di alcun virus. Questi microrganismi, usati per penetrare nel Dna e modificarlo dall´interno, rischiavano infatti di provocare malattie e rendevano potenzialmente rischiosa la sperimentazione sull´uomo. Lo studio si è guadagnato la pubblicazione sulla rivista scientifica Nature.
«Oggi le complicazioni non mancano. Ma forse in futuro si troveranno delle semplici sostanze chimiche da usare per produrre un farmaco», immagina Elena Cattaneo, che dirige il centro di ricerca sulle staminali all´università di Milano e procede fra mille difficoltà burocratiche nella sperimentazione anche sulle cellule embrionali umane.
Se Washington ha deciso infatti di cambiare rotta, Roma mantiene le redini tirate. L´ultimo bando di ricerca del ministero del Welfare e della Salute destina 8 milioni di euro agli studi sulle staminali, ma escludendo i progetti di ricerca sulle embrionali umane. Eppure questo tipo di ricerca è legale nel nostro Paese, purché le cellule embrionali siano importate dall´estero e non ottenute in Italia. «Da noi si va avanti con l´ipocrisia, proprio ora che dobbiamo affrontare un concorrente come l´America, pronto a viaggiare a tutto vapore», commenta Elena Cattaneo, che anche la domenica è nel suo laboratorio con gli occhi incollati al microscopio. «In fatto di idee, il nostro Paese non è secondo a nessuno. E noi come tutti gli scienziati impegnati nella competizione della ricerca vogliamo vincere su ogni scoperta. Invece finiremo per fare i parassiti. Lasceremo correre gli Stati Uniti davanti a tutti, salvo poi essere i primi ad accaparrarci i frutti delle loro scoperte».
E se fino a ieri le scoperte nate dalle staminali sembravano concentrarsi nel campo di quella "medicina rigenerativa" che promette di riparare organi consumati dall´usura e dal tempo, oggi le potenzialità delle cellule bambine si sono moltiplicate come raggi di luce riflessi in un prisma. Si pensava di iniettare staminali nel cervello di un malato per curare Parkinson o Còrea di Huntington, o nel cuore per riparare i danni di un infarto. «E invece grazie a queste cellule si può risalire più a monte, scoprendo quali sono le vere cause di alcune malattie e aprendo la strada alla scoperta di farmaci assai più semplici da somministrare», spiega la Cattaneo. «Trasformando delle staminali in neuroni riusciamo a ricreare quel microcosmo che è il cervello in un piattino per le culture». Ai trapianti di organi ricostruiti in laboratorio si è sostituita una strada nuova: iniettare delle staminali del midollo osseo per rieducare il sistema immunitario e ridurre il rigetto. E le stesse cellule bambine, laddove la malattia è di origine genetica, possono essere riparate nel cuore del loro Dna e poi iniettate di nuovo nell´organismo.
Ma accanto alle promesse, la pietra filosofale delle cellule staminali soffre anche di una maledizione. Le persone effettivamente curate con questa tecnica si contano sulla punta delle dita. E sono sicuramente surclassate, in fatto di numeri, da quelle rovinate da laboratori senza scrupoli che pubblicizzano miracoli in Paesi dove la legislazione è poco stringente. Accanto al dottor Jekyll esiste infatti anche un signor Hyde, e proprio per la loro capacità di dividersi instancabilmente, le staminali si sono rivelate la benzina di cui si nutrono molti tumori.
La rivista Public Library of Science il 18 febbraio ha pubblicato il caso di un bambino israeliano colpito da una malattia genetica che impedisce movimento e parola. Nel 2001, all´età di 9 anni, fu trattato con un´iniezione di staminali prelevate da un feto abortito in una clinica russa. Quattro anni più tardi si scoprì che i suoi frequenti mal di testa erano causati da alcuni tumori al cervello e al midollo spinale. «Si parla del problema etico della distruzione degli embrioni - spiega la Cattaneo - ma nessuno si preoccupa del rischio di incappare in cure fallaci e pericolose in giro per il mondo».
C´è chi pensa che per raggiungere la Luna basti sparare una palla con un cannone. E invece servono quantità incredibili di calcoli e ricerche, è il motto della ricercatrice di Milano. «Così non basta prendere una siringa e iniettare delle staminali per curare una malattia. Anzi, così si rischiano guai seri». Croce e delizia di queste cellule, conclude la Cattaneo: «Hai sempre la sensazione di essere a un passo dalla cura, ma quanti anni di laboratorio servono per raggiungerla».

l’Unità 9.3.09
Ricerca: anche la Gran Bretagna aumenta i finanziamenti
di Pietro Greco


Giovedì 5 marzo è stato un giorno importante per l’università e la ricerca scientifica in Europa. In Francia scienziati, docenti universitari e studenti sono ritornati in piazza per protestare contro la riforma voluta dal conservatore Sarkozy. Mentre in Gran Bretagna il governo laburista ha annunciato che il finanziamento pubblico per le università nell’anno accademico 2009/2010 ammonterà a circa 8,9 miliardi di euro.
Le notizie sono in apparenza diverse, ma hanno almeno due tratti in comune. Il primo riguarda la quantità del finanziamento pubblico all’alta educazione e alla ricerca in un periodo di crisi. In entrambi i paesi la spesa pubblica per il «pacchetto conoscenza» aumenta. Di 5 miliardi di euro in Francia (di soli 800 milioni, secondo gli oppositori). Del 4% netto (360 milioni di euro) rispetto all’anno accademico precedente in Gran Bretagna. Ma questo incremento riguarderà tutti gli anni a venire, fino al 2014. Analogo andamento avrà la spesa pubblica per l’università e la ricerca nei prossimi anni anche negli Stati Uniti di Barack Obama, nella Germania di Angela Merkel, nella Svezia del conservatore John Fredrik Reinfeldt. Quanta differenza rispetto all’Italia, dove la spesa pubblica nelle università e nella ricerca potrebbe diminuire - addirittura di 1,6 miliardi - nei prossimi anni. La seconda notizia riguarda la qualità della spesa. In Gran Bretagna la maggioranza dei finanziamenti viene assegnata, anche quest’anno, sulla base del merito didattico e scientifico della università. La riforma Sarkozy intende andare nella stessa direzione e utilizzare un metodo analogo. Ma in Francia è scoppiata la protesta di ricercatori, docenti e studenti. In realtà il metodo di finanziamento basato sul merito tende a favorire pochi grandi atenei e sfavorire tutti gli altri. E non tiene conto delle condizioni al contorno. Se applicato tal quale in Italia, per esempio, favorirebbe le grandi università del Nord e penalizzerebbe tutte quelle del Sud. Il merito va garantito. Ma va anche valutato (e premiato) rispetto al contesto.

Repubblica 9.3.09
Il ritratto era custodito in una antica dimora solo ora gli esperti scoprono che è autentico
Shakespeare. Risolto il mistero Londra svela il suo vero volto
di Enrico Franceschini


LONDRA. Trentotto opere teatrali lo hanno reso immortale, ma il giallo che ci ha lasciato dopo la sua morte potrebbe avere finalmente una soluzione. Di William Shakespeare, considerato il più grande drammaturgo di tutti i tempi e il poeta dell´animo umano, si ignora molto, al punto che circolano teorie secondo cui non fu lui l´autore dei testi che gli vengono attribuiti, o che addirittura non sia mai esistito. Il mistero è accresciuto dal fatto che finora non si era mai saputo con certezza nemmeno quale fosse il suo volto: uno dei suoi ritratti più famosi è stato identificato come un falso, su altri esistono forti dubbi che la persona che vi appare sia il Bardo di Stratford-upon-Avon. Ma ora, quasi quattrocento anni dopo la sua scomparsa, un quadro dimenticato per secoli nella magione di campagna di un´aristocratica famiglia inglese potrebbe contenere l´ultimo segreto dell´autore dell´"Amleto". Secondo coloro che lo hanno scoperto e identificato, si tratta dell´unico ritratto di Shakespeare dipinto quando lo scrittore era ancora in vita, e per il quale è dunque verosimile che abbia posato. Ed è grazie all´immagine di questo quadro che il mondo può dunque conoscere la sua vera faccia.
Il quadro in questione giaceva da tre secoli nelle residenze di campagna dei Cobbe, una famiglia inglese di sangue blu, che recentemente lo aveva trasferito nel suo più bel maniero, ad Hatchlands, nel Surrey, un edificio amministrato dal National Trust per il suo valore architettonico e artistico. Del quadro era noto l´anno in cui è stato dipinto, il 1610, epoca in cui Shakespeare aveva 46 anni: sarebbe morto sei anni più tardi, nel 1616. Ma i Cobbe non avevano idea di chi fosse il personaggio ritratto nell´antico dipinto, sebbene inclini a pensare che si trattasse di sir Walter Raleigh, un poeta contemporaneo di Shakespeare, al quale alcuni attribuiscono la paternità delle opere del Bardo. Tutto ciò sarebbe rimasto a far parte di discussioni davanti a un caminetto, se Alec Cobbe, membro della famiglia e di professione restauratore d´arte, non avesse visitato la mostra intitolata "Searching Shakespeare" (Alla ricerca di Shakespeare), allestita nel 2006 dalla National Portrait Gallery di Londra. L´esibizione raccoglieva da mezzo mondo alcuni dei più famosi ritratti, o meglio presunti ritratti, di Shakespeare, appunto per cercare di dare un volto sicuro al grande scrittore. C´era il Flowers Portrait, l´immagine più nota di Shakespeare, poi risultata un falso, perché il giallo ocra usato nel quadro è stato inventato solo nel 1814. C´era il Chandos Portrait, dipinto attorno al 1610, ma poi risultato non avere nulla a che fare con il Bardo. E c´era il Janssen Portrait, un ritratto meno conosciuto, opera di un pittore fiammingo che lavorò in Inghilterra nella prima metà del 17esimo secolo.
Davanti a quest´ultimo quadro, Alec Cobbe rimase interdetto, notando la somiglianza con il dipinto di proprietà della sua famiglia. Seguì un confronto tra i due quadri presso la National Gallery, e poi una serie di test di ogni genere, infine suffragati dal parere del professor Stanley Wells, docente di studi shakesperiani alla Birmingham University, curatore della sua opera magna, considerato il massimo esperto di Shakespeare al mondo. La tesi è la seguente: il quadro di Janssen, eseguito dopo la morte di Shakespeare, fu ispirato dal quadro di proprietà dei Cobbe. Che, prima di finire nelle loro mani, apparteneva al terzo conte di Southampton, uno dei mecenati che finanziarono la messa in scena delle opere di Shakespeare. Il vero volto del Bardo sarà mostrato al pubblico per la prima volta stamane a Londra. Il mistero sembra risolto. "Essere o non essere", continueremo a chiederci, ma almeno sapremo che faccia aveva colui che scrisse quelle parole.

Repubblica 9.3.09
Giotto. Il linguaggio e i gesti del moderno
di Antonio Pinelli


Esposti a Roma molti suoi capolavori (ma alcuni di dubbia attribuzione) oltre a opere di Cimabue, Cavallini, Martini, dei Lorenzetti e di Arnolfo. Dalla rassegna emerge il profilo rivoluzionario di una cultura figurativa
Disegna spazi abitabili dentro i quali fa muovere figure dalla corposa fisicità
L´esperienza dell´antico gli fa superare le convenzioni bizantine
In una "Canzone" polemizza con l´ideale francescano della povertà

ROMA. Giotto, non-Giotto è il titolo di un saggio, pubblicato nel 1939 sul Burlington Magazine, con cui l´autorevole storico dell´arte Richard Offner si schierò tra coloro che negano la paternità giottesca del celeberrimo ciclo con le Storie di San Francesco, affrescato sulle pareti della basilica superiore di Assisi.
Per la folgorante efficacia con cui sintetizza una disputa che ha fatto versare fiumi d´inchiostro - e chissà quanto ancora ne sarà versato, giacché tutt´oggi la querelle divide in due schiere contrapposte noi addetti ai lavori -, questo titolo dilemmatico mi è ronzato a lungo in testa mentre visitavo la grande mostra che ha aperto i battenti in questi giorni al Vittoriano («Giotto e il Trecento. "Il più Sovrano Maestro stato in dipintura"», a cura di Alessandro Tomei, fino al 29 giugno). Per una duplice ragione: in primis, perché nel catalogo rigorosamente bipartisan compaiono saggi equamente divisi tra fautori dell´uno e dell´altro schieramento, e in secondo luogo perché, a dispetto degli squilli di tromba dei comunicati stampa che magnificano la presenza in mostra di ben «20 capolavori eseguiti da Giotto», chi voglia sincerarsi se tale affermazione risponde a verità, potrà constatare che almeno la metà di quei 20 capolavori pende, ahimè, verso il corno «non- Giotto» del dilemma.
Detto questo per amore di verità e in pacata polemica, non con il curatore, che non ne ha colpa (schede e cartellini registrano fedelmente tutti i dubbi attributivi), ma con la macchina mediatica del mostrificio, che sembra incapace di affrancarsi da questo genere di chiassoso imbonimento, non credo di smentirmi se affermo che lo sforzo compiuto dagli organizzatori è stato imponente e che la rassegna merita senz´altro di essere visitata. Ne vale la pena innanzitutto per la quantità (più di 150) e la qualità delle opere esposte: oltre a quattro o cinque capolavori di Giotto, tra cui spicca il Polittico di Badia restaurato per l´occasione, basterà menzionare, tra le tante, opere insigni di Cimabue, Jacopo Torriti, Pietro Cavallini, Simone Martini, Pietro e Ambrogio Lorenzetti, Nicola, Giovanni e Andrea Pisano, Arnolfo di Cambio.
Ma la mostra merita di essere apprezzata anche per il suo disegno innovativo, che mira a sottolineare l´importanza del ruolo svolto da Roma, con la sua cultura figurativa e i suoi antichi monumenti, nella formazione del linguaggio giottesco, e al contempo ambisce a illustrare con esempi prelevati ad hoc dai più svariati ambiti tecnici (miniatura ed arti suntuarie comprese) e dai più diversi contesti geografici (Firenze, Roma, Assisi, Rimini, Padova, Napoli, Milano..), quanto la rivoluzione operata da Giotto abbia segnato in profondità il panorama artistico del suo tempo e determinato, direttamente o attraverso i suoi seguaci, il corso dell´arte occidentale per secoli.
All´alba del ´400, Cennino Cennini coniò per tale sconvolgimento una definizione insuperabile: «Giotto rimutò l´arte di greco in latino, e la ridusse al moderno», spiegando l´essenza di un linguaggio che seppe riconquistare, sull´esempio dell´antico, la capacità di infondere all´immagine una tangibile concretezza, fisica e spaziale, abbandonando la piatta bidimensionalità e le astratte convenzioni grafiche della tradizione bizantina (la «maniera greca»): spazi «abitabili», entro cui si accampano figure con una propria corposa fisicità, modellate da un lume «vero» e indagate nella varietà di forme, gesti e fisionomie, che ne rappresentano la specificità individuale e la cangiante gamma espressiva dei sentimenti.
Che il geniale protagonista di questo nuovo corso sia nato e cresciuto a Firenze, dove da tempo si andava sviluppando una borghesia mercantile che badava al sodo ed aveva un concreto orizzonte terreno da coltivare ed ampliare a misura delle proprie ambizioni, non è certo un caso, così come non è un caso che Giotto abbia saputo rendere ottimo il proprio talento, organizzando con spirito imprenditoriale la propria bottega e facendola funzionare a pieno ritmo come una vera e propria manifattura (di qui l´ampiezza del problema attributivo «Giotto, non-Giotto»).
Ma non è tutto: copiose sono le testimonianze che ci parlano dei suoi accorti investimenti (telai affittati a lavoranti a domicilio, acquisto di terreni, poi dati in affitto agli antichi proprietari per spuntare pingui interessi aggirando le leggi contro l´usura); conosciamo perfino una sorprendente Canzone scritta di suo pugno, in cui si polemizza con l´ideale francescano della povertà, contestando il luogo comune della ricchezza come fonte di corruzione e definendo «cosa bestial» la miseria.
Ciò non mi induce a schierarmi tra coloro (per la verità, sempre meno) che giudicano non sue le Storie francescane di Assisi, ma mi persuade invece circa la perfetta aderenza di quelle Storie agli ideali revisionisti della corrente francescana dei «Conventuali», impegnata a polemizzare contro l´estremismo pauperista degli «Spirituali». Ma questo è solo uno dei tanti, affascinanti aspetti, su cui questa mostra - e il suo ottimo catalogo - offrono spunti di riflessione.

Repubblica 9.3.09
Di Vittorio, la fiction
Epifani: il nostro maestro di solidarietà
Si oppose a Togliatti e sapeva a memoria Leopardi La sua storia è una lezione morale
di Silvia Fumarola


Abbiamo visto con il segretario della Cgil il film di Negrin sul padre del sindacalismo italiano e dirigente del Pci che andrà in onda domenica su RaiUno, protagonista Pierfrancesco Favino. Domani l´anteprima alla Camera

Ci sono tanti mondi nel racconto della sua vita: la politica e il privato Dickens e De Amicis
La memoria è un valore e questo film è la prova di quello che la tv di Stato può fare
Cominciò insegnando ai braccianti pugliesi che l´unione fa la forza

ROMA. «Tutti i valori della Cgil di oggi risiedono nelle scelte di Giuseppe Di Vittorio, aveva la capacità di fare progetto e stare in mezzo alle persone. Ecco, questo senso della solidarietà a me pare importante in una società sempre più egoista». Il segretario della Cgil Guglielmo Epifani è il primo spettatore entusiasta di «una storia che ci riguarda tutti. Pane e libertà è emozionante». Nel suo studio affacciato su Villa Borghese è appeso il ritratto dipinto da Carlo Levi del «compagno sbagliato» Giuseppe Di Vittorio, il padre del sindacato che conosceva a memoria le poesie di Leopardi e si oppose a Togliatti. «Ce n´è anche un altro, ma a Di Vittorio non piaceva: sembrava che la cravatta lo strozzasse». Nelle prime scene di Pane e libertà, la fiction di Alberto Negrin dedicata alla vita di Di Vittorio (domenica e lunedì su RaiUno), sembra che il Quarto Stato, il quadro di Pellizza da Volpedo, prenda vita. Nei giorni della crisi, in pieno braccio di ferro col governo sui licenziamenti, è di grande attualità: sarà presentato domani alla Camera, su invito di Gianfranco Fini (alla presenza di Baldina Di Vittorio e Silvia Berti, figlia e nipote di Di Vittorio), mentre venerdì Epifani sarà ricevuto dal presidente della Repubblica Napolitano.
«Le parole ti insegnano la dignità, e se uno tiene la dignità tiene anche il rispetto» dice Peppino Di Vittorio. Per comprare il libro "con le parole del mondo", che costa tre soldi, dà in cambio le scarpe; ha visto morire il padre sui campi, anche lui, che è solo un bambino, lavora «da sole a sole». Nelle pagine di quel dizionario troverà le parole per spiegare che «nessuno dovrà più morire di lavoro». I cafoni combattono per due gocce di olio sul pane e l´acqua; il barone che li sfrutta non cede: «Dovranno imparare che il padrone può sempre resistere un giorno di più di un qualsiasi cafone». Il lavoro continua a uccidere nelle fabbriche e nei cantieri, in tempi di antipolitica la battaglia per i diritti di Di Vittorio, nato a Cerignola nel 1892 - nelle case di mezza Puglia c´era la sua immagine accanto a quella della Madonna - è una lezione morale. Epifani riflette a voce alta: «È una lezione anche la scena in cui si presenta in Parlamento, perché ha rispetto del luogo che lo ospita. Pierfrancesco Favino è bravissimo e ha una faccia vera, restituisce tutta la fatica e la passione. La fiction racconta com´è nato il sindacato, le condizioni disumane dei lavoratori, l´arroganza dei proprietari terrieri. La nuova generazione non è cosciente del fatto che i diritti sono stati conquistati a costo di sacrifici enormi».
La figura di Di Vittorio è epica: autodidatta, un solo cappotto tutta la vita, guida i contadini pugliesi, si lega ai socialisti, è vittima dei fascisti, conosce la galera, combatte in Spagna. «Ci sono tanti mondi nel racconto della sua vita» continua Epifani «lo sfruttamento e il riscatto, gli ideali e la sconfitta: c´è la politica e il privato, Dickens e De Amicis. È l´ultimo a fianco degli ultimi, non dimenticherà mai da dove viene». Un uomo forte come un albero, con la faccia larga, che recita A Silvia al figlio malato e risponde al barone in Parlamento («Pure i cafoni vengono qui»): «Questo titolo mi onora. Se sono qui lo devo ai miei braccianti analfabeti che hanno mangiato pane e olio. Il padrone è uguale dappertutto». Epifani annuisce: «I braccianti di oggi sono gli emigrati sfruttati nel Sud, calpestati nella dignità e nei diritti... C´è ancora da fare». Di Vittorio dice: «Quando i lavoratori si dividono perdono sempre». «È così», sospira il segretario della Cgil «la tecnica, da parte del governo, è sempre la stessa, dividendo può gestire meglio». In una scena Togliatti rimprovera il sindacalista («Non farti condizionare dai sentimenti»), e nel 1956 Di Vittorio viene censurato perché contesta l´invasione dell´Ungheria: «Si sta con il partito anche quando questo sbaglia». È così, Epifani? «Quello era il grande partito-chiesa che aveva il primato della verità, è una stagione che non c´è più, perché non c´è più quel partito». Cos´è rimasto della lezione di Di Vittorio? «I suoi valori sono i nostri. Di Vittorio è stato il grande difensore degli sfruttati, ha ridato voce agli esclusi. La memoria è un valore, siamo molto contenti che la Rai abbia accettato di farlo conoscere. È la prova di quello che può fare la tv pubblica: se ne dice sempre male, ma sa parlare alle generazioni future».

Corriere della Sera 9.3.09
Contro il Futurismo dell'enfasi gradassa
di Pierluigi Battista


Quelle vette macchiettistiche del fanfarone italiano, petto in fuori e testa calda

Adesso che, a cent'anni dalla nascita, il Futurismo italiano è stato finalmente sdoganato e anzi consacrato. Adesso che i pionieri della passione e degli studi futuristi — da Mario Verdone a Gino Agnese, da Claudia Salaris a Pablo Echaurren — non sono più messi ai margini dai saccenti sacerdoti del perbenismo culturale antifascista che scagliarono l'anatema postumo sul Marinetti in camicia nera. Adesso che il piedistallo futurista viene imperiosamente eretto nel pantheon della memorie patrie, è così inopportuno e riprovevole affermare che il Futurismo, chissà, è stata una boiata pazzesca?
Perché è vero che dobbiamo inorgoglirci del dinamismo audace racchiuso nelle opere di Boccioni, Carrà e Balla e nelle architetture temerarie delle città di Sant'Elia. Ed è vero, come scrive Giampiero Mughini nel monumento alla sua mania e «bibliofollia» novecentista La collezione,
che la creatività futurista «aveva afferrato per la collottola e dimenato a più non posso la poesia, la pittura, l'architettura, l'arte tipografica, la fotografia, il teatro, la pubblicità, la filosofia del cucinare, la musica e persino "la radia", ovverossia la radio». Ma come non cogliere nell'esibizionismo frenetico, nell'enfasi gradassa, nella posa manesca ed esagitata di cui è intriso il marinettismo un tratto un po' patetico, un inno compiaciuto alla teatralità antropologica dell'adolescenza italiana?
In quale altra avanguardia europea che «dimenò» con altrettanta incisività la tradizione e le convenzioni passatiste si raggiunsero quelle vette un po' macchiettistiche del fanfarone italiano, petto in fuori e testa calda, così caratteristiche della sceneggiata futurista? La puerile filastrocca «Zang Tumb Tumb» di cui il mondo intero avrebbe dovuto menare scandalo. L'estasi dello «schiaffo» e del «pugno ». Lo spirito alticcio da attaccabrighe delle risse in cui si risolvevano le turbolente serate futuriste. Il sesso fantasticato dell'«alcova d'acciaio». Le millanterie del Come si seducono le donne in cui Marinetti (apprezzato dal suo biografo Giordano Bruno Guerri) vantava le innumerevoli dame sedotte dal suo irresistibile charme futurista e ripagate con amplessi futuristicamente rapidi e sbrigativi. E la guerra «sola igiene» del mondo. E il kitsch dell'«entusiastico fervore degli elementi primordiali». E la «gloria della pelle umana straziata dalla mitraglia!». E l'incontenibile profluvio di punti esclamativi. E la declamazione facinorosa del cazzotto. E le ricette gastro-goliardiche del «risotto d'imene al peccato d'amore». Tutta una esibizione spaccona di un modo di fare violento, bastonatore, condito con l'immancabile e smargiasso «sprezzo del pericolo».
Non sarà davvero una boiata pazzesca tutta questa sovrastruttura finto-machista semplicemente sconosciuta tra le avanguardie europee che pure misero liberatoria dinamite nel tempio sacro delle tradizioni ereditate? Se Lukács definiva il romantico bohémien nient'altro che «un piccolo borghese sovreccitato», è stravagante ipotizzare che anche il Futurismo sia stato l'epopea del solito italiano medio, ma elettrizzato? Ora che i futuristi hanno traslocato dalle cantine ai saloni di rappresentanza forse si può dire: cento anni non sono passati invano.

domenica 8 marzo 2009

D di Repubblica 7.3.09
Il club dei senza dio
di Laura Piccinini

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Corriere della Sera 8.3.09
Napolitano: «Stupri infami Non contano le nazionalità»
Monito del Colle: sono l'ombra più pesante sull'8 marzo
di Mariolina Iossa


Riconoscimenti a otto donne che si sono distinte nella loro attività. Presente anche la Montalcini
Cerimonia al Quirinale Carfagna: «I magistrati siano meno perdonisti»

ROMA — «L'infamia e la vergogna» delle violenze, degli stupri, e di tutte le forme di molestia, di vessazione, di persecuzione nei confronti delle donne» sono per il presidente Giorgio Napolitano «l'ombra più pesante di tutte », che s'allunga sull'8 marzo. L'infamia e la vergogna ripetute, dice il capo dello Stato, «verso donne italiane e straniere, non fa differenza, ad opera di stranieri o di italiani, non fa differenza», perché la nazionalità non conta.
Una lunghissima cordonata di mimose accoglie gli ospiti all'ingresso del Quirinale. Nel cortile un tunnel ricorda il viaggio delle donne dal pregiudizio al riconoscimento del loro valore. Se fossero solo mimose, nonostante le «manipolazioni strumentali e la deriva consumistica degli ultimi anni», riscontrate dal ministro per le Pari Opportunità Mara Carfagna, ci sarebbe da stare più allegri questo 8 marzo. Perché molti passi in avanti, dice il presidente, sono stati fatti, anche se la parità non è ancora raggiunta, in parecchi settori le donne restano sparute minoranze, gli stipendi non sono equiparati, la conciliazione tra maternità e lavoro è spesso difficilissima. Ma quest'anno sulla festa delle donne pesa l'orrore delle violenze, che il capo dello Stato rimarca prima di conferire le onorificenze della Repubblica a otto donne che si sono contraddistinte nel lavoro e nel sociale. Dice il presidente: «Il Segretario generale dell'Onu ha scritto ieri che la violenza sessuale contro le donne è un crimine contro l'umanità».
«Sia meno perdonista e giustificazionista la magistratura e ci aiuti a garantire quella certezza della pena, senza la quale è impossibile fronteggiare la violenza sulle donne», ha chiesto Mara Carfagna qualche minuto prima del discorso del presidente. «Ma non voglio fare polemiche — ha detto —, in Parlamento si discute un disegno di legge che è in dirittura d'arrivo e che inasprisce le pene contro i reati sessuali». Su questa legge «è possibile trovare l'accordo di tutte le forze politiche».
L'Italia sta facendo molto, ha confermato Napolitano, per «reagire a ogni sorta di violenza contro le donne e ad ogni sorta di pratiche lesive della loro dignità», però nessuno deve dimenticare che «il quadro di riferimento generale per portare avanti la causa delle donne resta oggi, più che mai, la Costituzione», ai cui principi si sono rifatte tutte le leggi di emancipazione. Una Costituzione «vitale, di assoluta validità in tutta la sua prima parte». Una Costituzione, secondo il presidente, dalla parte delle donne.
«Onore al merito» è il titolo della giornata del presidente con le donne. C'è il premio Nobel Rita Levi Montalcini. E le otto signore insignite, dalla matematica ebrea perseguitata durante il fascismo Emma Castelnuovo alla fondatrice della famosa agenzia fotografica Grazia Neri, alla prima donna vicedirettore generale della Banca d'Italia Anna Maria Tarantola alla direttrice d'orchestra Giovanna Fratta. Sono loro le luci di questa giornata di festa, dice ancora Napolitano. Ma accanto alle luci «restano tante ombre: in particolare, quelle della sempre modesta, molto modesta presenza femminile nelle istituzioni rappresentative e in funzioni dirigenti nel mondo della politica».

l’Unità 8.3.09
«Sulle donne i pregiudizi più forti dalle freudiane»
La psicoanalista: la femminilità per Freud era un mistero
Dalle sue allieve teorie riduttive e mortificanti
Intervista a Simona Argentieri di Manuela Trinci


Simona Argentieri, psicoanalista didatta della Associazione Italiana di Psicoanalisi e imprescindibile studiosa della femminilità, racconta come paradossalmente siano stati proprio gli scritti di Freud, così parziali, lacunosi, insoddisfacenti sull’identità e la sessualità femminile a spingerla a riflettere. Lo stesso Freud ha sempre ammesso le sue perplessità nel capire «il continente nero» della femminilità. Mentre le teorizzazioni più riduttive e mortificanti sulle donne si debbono proprio alle prime allieve di Freud: Deutsch, Bonaparte, Salomè, ecc. Da lì si sono avviati gli studi di Argentieri per «capire come occorresse analizzare non solo i pregiudizi maschili, ma soprattutto quelli di noi donne stesse sulla femminilità».
Diventare mamma in questi tempi di vertiginosa trasformazione delle funzioni adulte, intercambiabili e non più rigidamente codificate dal sesso, non è facile, chissà se ancora persista nelle mamme l’idea che sia preferibile avere un figlio maschio.
«Penso che si debbano distinguere i desideri consci da quelli inconsci. Sono due livelli dello psichismo non di rado in contraddizione tra loro. In passato, la “preferenza” delle madri per il figlio maschio poteva corrispondere - a livello conscio - a un dovere sociale. Il desiderio di un figlio maschio poteva essere compensazione del proprio senso di inferiorità, di quella famosa “invidia del pene”, che certo era connessa a una situazione storica svantaggiata. A livello inconscio, poteva invece albergare il desiderio segreto di avere una bambina. Secondo la mia esperienza, statisticamente poco significativa ma che si sforza di andare un po’ più a fondo delle abituali interviste “a quiz” di taglio sociologico, sono molte le donne che oggi preferirebbero avere una femmina.
Anche nel suo ultimo libro (L’ambiguità, Einaudi), lei mette in luce come si viva in un mondo che scivola verso l’indifferenziato. Sperare che sia femmina racconta di giochi di specchi, oppure lascia intravedere la capacità di confrontarsi con l’incompiutezza?
Purtroppo il fatto che oggi le donne possano permettersi di desiderare apertamente una figlia femmina di non è di per sé indizio di libertà e progresso. Possiamo, ad esempio, desiderare una bambina per un nostro bisogno narcisistico. Troppe volte vediamo i figli non come persone, ma come parti di noi su cui proiettare bisogni e fantasie.

Repubblica 8.3.09
L’emancipazione? "Più garantita dalla lavatrice che dalla pillola". Scoppia il caso: "Il Vaticano ossessionato dalla libertà di scelta"
L’Osservatore contro la teoria del gender "La diversità uomo-donna ha perso valore"
Fondo di Lucetta Scaraffia: "Difendiamo l´uguaglianza nella differenza"
di Alessandra Longo


ROMA - Otto marzo: l´Osservatore Romano usa questa data per mandare un messaggio chiaro, per opporsi, «con fondatezza e ragione», scrive in prima pagina Lucetta Scaraffia, penna voluta dalla gestione Ratzinger, alla «teoria artificiosa del gender». Che la festa di oggi sia anche questo: «Una buona occasione per riflettere sulla strada percorsa verso l´emancipazione delle donne». Un´emancipazione più garantita dalla «lavatrice che dalla pillola», si legge anche sul quotidiano del Vaticano. Ma questo è un altro articolo e un´altra storia.
Torniamo alla Scaraffia e all´attacco frontale a quella «teoria del genere» che legge l´umanità come «insieme di individui indifferenziati» e dunque abbandona la classica, e rassicurante, per la Chiesa, differenza biologica uomo/donna. A riassumerla brutalmente: ognuno di noi può scegliere la sua identità psicologica, se vivere come uomo o come donna, prescindendo dai suoi organi sessuali. Questa è la «teoria del genere». «Ideologia» aborrita da Ratzinger, già ai tempi in cui era prefetto della Congregazione per la dottrina delle fede. Scrive Scaraffia: «La Chiesa cattolica difende la possibilità di una uguaglianza nella differenza, considerando questa differenza come dono di Dio all´umanità». Quel che succede in questo secolo preoccupa chi la pensa così: «A un inedito intervento artificiale nell´ambito della procreazione corrisponde un abbandono della concezione dell´umanità come sessuata, divisa tra uomini e donne. Se il concepimento può essere opera di uno scienziato in un laboratorio, la differenza tra maschile e femminile sembra perdere rilievo...».
Perché parlare di questo proprio l´8 marzo? «Perché dietro c´è l´ombra della paura, l´ombra della cattiva donna, che perde la specificità che la rende grande - dice Chiara Saraceno, sociologa - l´ombra dell´omosessualità, fondata sulla cattiva lettura della omosessualità. Uomini e donne, vissuti come due mondi diversi, immobili. Un´ipostizzazione della natura. Così si cancellano la storia, i cambiamenti, si preferisce ignorare che gli esseri umani si costruiscono, sperimentano, inventano e ciò che viene attribuito al femminile e al maschile è anche frutto di un´autocostruzione sociale. Quella dell´Osservatore è un´analisi strumentale dettata dalla paura».
«La chiamerei una svolta riduttiva di tipo biologistico, materialistico», aggiunge Rina Gagliardi, giornalista: «Vedo un´ossessione nei confronti di tutto quello che assomiglia alla libertà di scelta. Mi viene in mente anche il caso di Eluana... la libera scelta è percepita come il nemico, Satana». Donne e uomini, che escono dallo schema biologico della differenza sessuale, disturbano un ordine millenario. Meglio ricordaglielo, allora, l´8 marzo. Lidia Menapace, storica femminista, ammira «la grande abilità politica del Vaticano». L´attacco alla teoria del genere non è affidato ad un cardinale, ma ad una donna, brillante docente di Storia Contemporanea. Anche Menapace attribuisce le iniziative della Chiesa ad un disagio profondo: «Vedono le donne affrancarsi, prendere coscienza della loro condizione di oppresse, temono che il patriarcato sia a rischio, che la politica dei generi metta in discussione, alla fine, l´autorità unica, il Dio monoteista».

Repubblica 8.3.09
Uomini che odiano le donne
Si celebra l’otto marzo in un clima di emergenza per l´ondata di stupri E forse è ora di smettere di parlare di violenza sulle donne e parlare di violenza dei maschi
di Michele Smargiassi


Omicidi, stupri in strada, abusi in famiglia, stalking. Si parla molto di "difendere le donne". Ma chi le difende? Gli uomini, ovviamente Così l´uomo aggressore scompare e si vede solo l´uomo protettore: soldati in città, ronde, voglia di linciaggio. Tutte risposte maschili, in quella logica proprietaria che è la radice della misoginia violenta
Chi va nelle scuole a prevenire il bullismo di genere si sente dire: "Problemi da vecchi" Ma poi la verità viene fuori
L´indottrinamento che spinge a una virilità malintesa scorre da sempre sottotraccia in molti spot, libri, film

«Ispettore, ma da quand´è che si va in carcere se si picchia la moglie?». Damiano Maranò ricorda ancora l´espressione di sincero stupore sul viso di quell´uomo, mentre gli metteva le manette. Era uno dei primi arrestati dal "Pool famiglia" della Procura di Milano. «Pensai fosse uno squilibrato, uno che non si rendeva conto delle proprie azioni. Quindici anni dopo non lo penso più. Penso invece che gli uomini, molti uomini, siano davvero lucidamente cattivi con le donne». La sua autocoscienza di genere (maschile), l´ispettore Maranò se l´è fatta sul campo. Aprendo centinaia di porte di casa e trovandoci dietro donne piangenti, sfigurate, sanguinanti, «anche peggio: legate alla sedia e tagliuzzate col coltello, o devastate da una pentolata d´acqua bollente». E mariti sbalorditi che fosse reato. Ricorda i nomi. Tutti, e dire che sono tanti. Ce n´è anche qualcuno famoso, attori, professionisti.
«Non c´è differenza. Poveracci, ricconi, sconosciuti, celebrità. Ma dico io, è possibile che alla fine l´unica cosa che li accomuna è che hanno tutti il pisello fra le gambe, scusi se non trovo altre parole?»
Uomini che odiano le donne è il titolo fortunato di un giallo di Stieg Larsson che ha fatto il giro del mondo. Lascia la possibilità, almeno grammaticale, che esistano uomini che non odiano le donne. Ma non così tanti come vorremmo credere. Se una donna italiana su tre confida all´Istat di essere stata maltrattata da un uomo almeno una volta nella vita, i casi sono due: o c´è in giro un´attivissima task force di pochi imprendibili maneschi, o un terzo circa di uomini ha commesso nella vita almeno una violenza contro una donna. Se una donna su sette è stata picchiata fra le mura domestiche, vuol dire che più o meno in una casa su sette c´è un uomo violento. Che se lo sbatti fuori di casa diventa violento il doppio o il triplo (il 64 per cento delle separate e divorziate ha subito violenze dagli ex). Per non risparmiarci nessun orrore: due donne maltrattate su tre hanno ricevuto «spinte, strattoni, capelli tirati», una su due «schiaffi, calci, pugni, morsi», una su quindici un tentativo di strangolamento.
Che la misoginia violenta esista, non è oggetto di dubbio. Semmai c´è da chiedersi se gli uomini siano diventati più cattivi ultimamente. Come suggerirebbe il clamore mediatico sull´"ondata di stupri". Ma se chiedi a uno che i dati sulla criminalità li maneggia da anni, il sociologo bolognese Marzio Barbagli, ti frena: «Dove il non-denunciato, il sommerso, supera il 90 per cento è impossibile individuare tendenze». La violenza misogina è una zuppa torbida, basta immergere il mestolo giusto per tirare su brodaglia a volontà: è stato sufficiente dare vigore di legge a una parola, stalking (il crescendo di persecuzioni di un pretendente respinto descritte dal libro di Federica Angeli e Emilio Radice, Rose al veleno) e in poche settimane la polizia ha scovato episodi di stalking ovunque, da Bari dove l´arrestato (per cranio rotto) gridava «volevo solo delle spiegazioni!», a Roma dove è volato addirittura il coperchio di ghisa di un tombino, a Genova, Torino, Palermo...
Ma un dato storico ce l´abbiamo: gli omicidi. Gli omicidi vengono denunciati tutti. Per forza. Ebbene, le statistiche dicono che gli uomini ammazzano molto più delle donne, e questo non sorprende: siamo i guerrieri, gli ancestrali titolari della violenza. Poi, che gli uomini ammazzano soprattutto altri uomini, e neanche questo sorprende troppo, à la guerre comme à la guerre. Ma da un po´ sembrano aver modificato i bersagli. Se nel ‘94 meno di due maschi omicidi su dieci sceglievano una donna come vittima, nel 2006 erano già più di tre. Se gli omicidi in assoluto calano, i femminicidi proporzionalmente crescono. Del resto, su tre delitti in famiglia, due riguardano mariti che ammazzano le mogli.
«E allora piantiamola una buona volta di parlare di "violenza sulle donne" e cominciamo a dire "violenza degli uomini"». Parla un uomo, Marco Deriu. Sociologo all´Università di Parma, firmatario dell´appello "La violenza sulle donne ci riguarda". «Si parla solo di "difendere le donne". Ma chi le difende? Gli uomini, è chiaro. Così l´uomo come autore della violenza scompare, e si vede solo l´uomo protettore. Soldati per le strade, ronde, tentativi di linciaggio degli stupratori, perfino la "legge del carcere": sono tutte risposte maschili, legali o illegali, ma tutte dentro la medesima logica proprietaria che genera la violenza sulla donna: confermano una supremazia, non la contrastano».
Come si interrompe l´eterno ratto delle Sabine? Anche nella cultura femminista si fa strada ormai l´idea che il problema va aggredito intervenendo sull´altra parte, su chi picchia. A Bologna la Casa delle donne per non subire violenza, storico rifugio delle maltrattate, è presa d´assalto: quasi raddoppiato negli ultimi anni il numero delle richieste di asilo. Sono soprattutto donne straniere, ma Giuditta Creazzo rifiuta l´apparente deduzione: «Quando il violento è uno straniero, è "colpa di una cultura patriarcale". Quando è un italiano, è "un problema di psicopatologia". Sono due modi di scaricare lontano, sullo straniero o sul deviante, una responsabilità che appartiene invece alla normalità della cultura maschile». Giuditta coordina da tre anni il progetto Muvi, il cui programma è presto detto: cosa ne facciamo degli uomini che menano. Curarli? Punirli? «Per prima cosa, mettere al sicuro le donne». Insomma intanto prenderli, isolarli. «Tagliando l´alone di indulgenza. Quello che fa dire al vicino di casa o anche al maresciallo di paese che è meglio "non mettere il dito", che "si aggiusteranno tra loro"».
Ma finora è tutto un lavoro di difesa, di scudi e barricate. Corsi di tai-chi per massaie, spray al peperoncino nella borsetta. Tutto giusto. Ma è come dire: la guerra è eterna, attrezziamoci. Corsa agli armamenti. Stefano Ciccone è un pacifista, vent´anni fa rimase sconvolto da un caso di violenza, passato alle cronache come "lo stupro di piazza dei Massimi". «Soprattutto dalle reazioni. Dai commenti maschili. Mi accorsi che perfino nel movimento c´era un fondo di pregiudizio violento». Qualche anno fa Stefano ha fondato Maschile Plurale, forse la prima rete di riflessione e intervento maschile contro la violenza alle donne. Adesso sono una dozzina di gruppi, da Pinerolo a Parma, da Torino ad Anghiari a Pietrasanta, ad affermare che va aperta finalmente una "questione maschile". Fanno conferenze, documenti, lezioni. Qualcuno li chiama "i femministi", qualcuno peggio. I blog dell´orgoglio neomaschile come Uomini 3000 li accusano di «invitare gli innocenti a riconoscersi rei». Ma soprattutto incassano sorrisini. Battute. Sfottò. «Accettiamo volentieri il rischio del ridicolo. È un segnale prezioso. Ci dà la prova della nostra efficacia: dimostra che sta scattando la reazione difensiva della cultura maschile».
Cultura potente perché invisibile. Trentacinque anni fa perfino le femministe rimasero perplesse quando Carla Ravaioli, giornalista e militante, pubblicò Maschio per obbligo, antologia dell´indottrinamento subliminale alla virilità nascosto nella pubblicità, nei libri di testo, nei copioni del cinema e della tivù. «Non cambierei quasi nulla di quel libro», dice oggi, «se non sottolineare che, in una società dove la violenza è ormai uno strumento accettato e quotidiano della politica, la pedagogia del maschio è ancora più forte, più spudorata, e contagia anche le donne». Se ne accorgono i Medici per i diritti umani, onlus impegnata nei paesi in guerra (quindi anche nel nostro, dove la guerra alle donne è sempre in corso), quando vanno nelle scuole a prevenire il bullismo di genere con una lezione per immagini che s´intitola appunto Maschio per obbligo. Sfilano sullo schermo i poster pubblicitari che ormai non mostrano più solo donne disponibili a offrirsi, ma anche uomini che comunque sia se le prendono: come le "perquisizioni" palpeggianti di una campagna della Relish, o quel poster di D&G che sembra sublimare uno stupro di gruppo. I ragazzi (e le ragazze) annoiati sbuffano: «È un problema vecchio, roba di voi adulti, tra di noi non c´è più differenza tra maschi e femmine, siamo alla pari». Poi scavi un po´. Approfondisci. E la verità viene fuori. «È vero, io controllo gli sms della mia ragazza». «Il mio ragazzo mi vieta di andare in gita scolastica con gli altri». «Mi ha minacciato di far vedere a tutti le nostre foto intime». «Se la vedo in discoteca con un altro, la meno». Dice Paolo Sarti, il pediatra che conduce gli incontri: «Non si nasce col gene della violenza maschile. Ma è come un virus che s´inocula molto in fretta, e attende il suo momento per esplodere». È una malattia, la violenza misogina? «No, ma anche i guasti socio-culturali hanno un´ezio-patogenesi». Delicata è la terapia. «Gridare che la violenza è sbagliata non serve: non si sentono violenti. L´unica strada è mettere alla berlina i comportamenti che per loro sono invece premianti: l´arroganza, i ricatti, le vanterie sessuali. Prendere in giro i modelli che ammirano, ridicolizzare i maschi dementi di cui è piena la tivù. Ma bisogna stare molto attenti: se sono solo le ragazze a ridere, i maschi reagiscono incattivendosi ancora di più».
Smontare la misoginia violenta dall´interno: è una parola. In Italia, il maschilismo è ormai assurto a cultura di governo con le battute guascone di Berlusconi. Sotto traccia, ma esplode a volte in modi anche meno ridanciani, come nello showdown del 24 settembre 2003 a Montecitorio, quando alcuni (poco) onorevoli apostrofarono così le colleghe: «Altro che Camera dei deputati, vi portiamo in camera da letto!». Se non è odio misogino quello che sembra guadagnare terreno ogni giorno, cos´è? «Paura delle donne», risponde senza esitazione l´ispettore Maranò, che la sa lunga. «Paura», concorda Carla Ravaioli. «Paura», insiste Marco Deriu: «Gli uomini non odiano le donne, ne sono terrorizzati. Ho analizzato molti casi di cronaca. Nella maggioranza delle violenze domestiche, il violento cerca disperatamente di sottomettere la donna di cui in realtà è debitore, dipendente, senza la quale sarebbe finito. La violenza misogina di oggi non è il ritorno del patriarcato, è il sintomo del suo crollo». Ma attenti, che i calcinacci in testa fanno male.

Corriere della Sera 8.3.09
Beppino Englaro: denuncio il cardinale Barragan
«Ha parlato di assassinio»
di Maria Grazia Mottola


Legge e Stato di diritto. Spero che la legge sul testamento biologico tuteli chi la pensa come me e chi non è mai stato d'accordo
«Il prelato è stato arrogante, ha parlato di assassinio»
«Eluana? Non mi manca nulla di quello che avevo»
Il padre di Eluana ricorda l'addio alla figlia: all'obitorio ero straziato come quando la vidi in ospedale dopo l'incidente

LECCO — Solo. Con se stesso. Le montagne sul lago, il vento che taglia la faccia. Non più le visite alla Casa di cura Lecco. Finiti anche i battibecchi con le suore misericordine. Perché, da un mese, Eluana non c'è più. E il tempo è volato. Tra viaggi a Udine e inchieste giudiziarie. Ma per papà Beppino è il momento di fermarsi. A pensare. A quello che è stato e a che cosa succederà. Non ultime le querele «contro chi gli ha mancato di rispetto». «Ho intenzione di denunciare anche il cardinale Barragan che ha parlato di assassinio — spiega —. I miei avvocati stanno valutando le sue affermazioni. Io ricordo la sua arroganza nei miei confronti in una tavola rotonda organizzata da Micromega. Mi diede fastidio soprattutto quando, alla fine, sottolineò che aveva simpatia per me. Ma cardinale, gli dissi, se mi tratta come un assassino, vuol dire che non ha molta simpatia...». Per il resto, nessuna nostalgia né rimpianti. «Non mi manca nulla di quello che avevo — racconta —. Perché con Eluana se n'è andato anche il tormento. Di vederla lì, in un letto d'ospedale, ostaggio di mani altrui». Un «senso di liberazione»: la dimensione attuale. «È vero, potevo andarla a trovare, accarezzarla, baciarla. Ma questo fa parte del sentire comune. Io, ogni volta che la guardavo, avrei spaccato il mondo per la rabbia. Ogni volta che qualcuno la toccava, dovevo dominarmi. La mia creatura era vittima di violenza inaudita, anche se a toccarla erano le mani delle suore. Ma loro hanno sempre saputo come la pensavo». Fa parte del passato. Un'altra vita. Quella nuova inizia il 9 febbraio, giorno della morte di Eluana. «Ero a casa, a Lecco, quando mi ha chiamato De Monte: "Tua figlia è morta". Sono rimasto paralizzato. Non me l'aspettavo. Fino a quel momento ero impegnato a fare di tutto perché non venisse sospeso il decreto. Invece lei se n'è andata all'improvviso. Ho capito che era il momento di essere presente. Se prima il suo accudimento era un fatto infermieristico, ora toccava a me starle vicino». Papà Beppino, sotto scorta, arriva a Udine il 10 febbraio. Eluana è all'obitorio per l'autopsia. Il padre chiede di vederla. «Sono rimasto solo con lei. È stato straziante, nello stesso modo in cui, nel 1992, il giorno dopo l'incidente stradale, andai all'ospedale di Lecco. Ecco: davanti a me avevo mia figlia inerme con gli occhi chiusi. Un impatto devastante, non ero preparato, ma forse non si è mai preparati». I giorni scorrono veloci. Eluana va seppellita. Beppino vorrebbe farlo senza funerale, ma interviene il fratello Armando: «Io devo pregare, mi dai la possibilità di farle un funerale?». «Ho deciso pensando al legame tra mia figlia e lo zio. Ogni volta che lo vedeva, lei diceva: "Papà, sposo lo zio Armando ». Quel pomeriggio Englaro resta chiuso nella casa di Paluzza, mentre in chiesa si celebra la messa. Ancora qualche giorno. Poi il ritorno a Lecco. La solitudine. Nuovi pensieri.
«A Elu non può succedere più niente, ma come sarà la mia vita, rientrerò anch'io in una dimensione umana?». Nel suo futuro ci sono già la fondazione «per Eluana » e l'impegno a portare avanti il dibattito sui temi di fine vita. Ma il 27 febbraio si aggiunge l'indagine giudiziaria. Quella mattina è l'avvocato Vittorio Angiolini ad avvertirlo che è stato iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di omicidio volontario. «Me lo aspettavo, ma ho provato fastidio per essere finito in quel meccanismo». Ritorna a Udine, sempre sotto scorta. Poi si sposta a Paluzza. Impegni di famiglia, incontri per la fondazione. E la settimana vola. Venerdì scorso il rientro a Lecco. Le giornate si riempiono di telefonate, appuntamenti. Lo cercano le tv, ma anche i politici. Ieri, addirittura, un colloquio con il ministro Bondi: «Ha voluto conoscere la mia storia e gliene sono grato. Quello che mi ha sempre premuto è che Eluana fosse capita e rispettata come persona. Ora lo vorrei per tutti». È ciò che gli sta più a cuore: «Spero che la legge sul testamento biologico accolga le ragioni di ognuno di noi: di quelli che la pensano come me, ma anche di coloro che con me non sono mai stati d'accordo. Questa è la libertà nello Stato di diritto».

Repubblica 8.3.09
Pedofilia, travolto il segretario di tre Papi
Troppe accuse, si dimette Magee, in Vaticano da Paolo VI a Wojtyla
di Pietro Del Re


Segretario privato di ben tre papi, tra cui Giovanni Paolo II, il vescovo irlandese John Magee è stato costretto ieri a dimettersi, travolto da un´inchiesta su presunti casi di pedofilia. Magee, vescovo dal 1987 di Cloyne, nel sud dell´Irlanda, si è trovato al centro di uno scandalo scoppiato nella sua diocesi su presunti abusi sessuali su minori da parte di preti. Negli ultimi anni, la Chiesa cattolica irlandese è stata sconvolta da diversi episodi di pedofilia ed accusata di aver coperto alcuni di questi casi. Più volte, le autorità ecclesiastiche si sarebbero limitate a spostare di parrocchia i preti accusati degli abusi dai minori.
Lo scorso dicembre, proprio il vescovo Magee fu criticato dal "Comitato nazionale per la salvaguardia dei bambini" per il caso di due preti della diocesi di Cloyne accusati di violenze su minori. Nei confronti di quei religiosi non era stata adottata nessuna sanzione ecclesiastica. Solo nel 2008, ventisei diocesi irlandesi hanno sporto cinquantasei denunce per abuso, una ventina delle quali coinvolgevano preti già deceduti. Un solo prete è stato incriminato. Queste ed altre vicende hanno seriamente intaccato l´autorità morale della Chiesa cattolica irlandese.
Lo scorso 4 febbraio il vescovo Magee avrebbe chiesto direttamente al papa Benedetto XVI di nominare un amministratore apostolico per gestire la diocesi fino a quando non sarà nominato un nuovo vicario. Per ricoprire questo ruolo, il Vaticano ha scelto l´arcivescovo Dermot Clifford. «La rapidità con cui il Santo padre ha preso questa decisione indica l´importanza che la Chiesa accorda alla salvaguardia dei bambini e quanto abbia a cuore i bisogni delle vittime», ha dichiarato il cardinale Sean Brady, primate d´Irlanda. Un prelato della diocesi di Cloyne ha detto che «questa nomina consentirà al vescovo Magee di cooperare pienamente con la commissione d´inchiesta voluta dal governo irlandese per far luce sugli abusi commessi sui bambini».
John Magee è nato nel 1936 in Irlanda ed è stato segretario privato di ben tre papi: Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II. Nel 1992 papa Wojtyla lo nominò Maestro di cerimonie pontificie.

Corriere della Sera 8.3.09
Irlanda Il vescovo lascia per un'inchiesta su abusi che ha coinvolto la diocesi
Pedofilia, si dimette l'ex segretario di tre papi
di Mario Porqueddu


Magee ha assistito da Paolo VI a Wojtyla. Trovò Luciani morto
La decisione per le critiche su come ha gestito lo scandalo che ha travolto la diocesi di Cloyne

John Magee è nato nel 1936 in Irlanda ed è stato segretario privato di ben tre Papi: Paolo VI, Giovanni Paolo I (fu lui a trovare il cadavere del Pontefice) e Giovanni Paolo II. Nel 1982 è stato nominato Maestro di cerimonie pontificie. Attualmente è vescovo di Cloyne, nel sud dell'Irlanda
Dagli Stati Uniti all'Austria
È a Boston che si è consumato il più grosso scandalo pedofilia che ha coinvolto la Chiesa cattolica: nel 2002 fu costretto alle dimissioni il cardinale Bernard Law. Ma lo scandalo ha interessato, in modo pesante, anche la California: nel luglio del 2007 l'arcidiocesi di Los Angeles dovette stanziare 600 milioni come risarcimento per 508 vittime di preti pedofili. Dagli Usa al Brasile, dove centinaia di preti sono stati coinvolti in casi di «cattiva condotta sessuale». Infine l'Austria: nel 2004 nel seminario di Sankt Polten (poi chiuso) si sarebbero svolti festivi gay e scaricate dal Web foto pedofile

MILANO — Il vescovo irlandese John Magee si è dimesso ieri dopo essere stato travolto dalle polemiche per come aveva gestito un'inchiesta su presunti casi di pedofilia nella sua diocesi.
Magee è stato segretario privato di tre pontefici, Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II. Fu lui il primo a vedere il cadavere di papa Luciani. E nel 1982 fu nominato Maestro di cerimonie pontificie.
Nato nel 1936 in Irlanda, Magee fino a ieri era il vescovo di Cloyne, nel sud del Paese. Proprio nella diocesi che reggeva dal 1987 alla fine dell'anno scorso è scoppiato uno scandalo su presunti abusi sessuali nei confronti di minori. Il 19 dicembre era stato pubblicato il «rapporto Cloyne», preparato dall'organismo della Chiesa cattolica che si occupa di salvaguardia dei bambini, una struttura messa in piedi dalla Chiesa ma indipendente dalle gerarchie ecclesiastiche.
Il rapporto
Secondo quel rapporto, le pratiche di protezione dei minori a Cloyne sarebbero state «inadeguate e sotto certi aspetti dannose», e proprio per questo i bambini erano stati «messi a rischio ». Il 7 gennaio una commissione d'inchiesta dell'arcidiocesi di Dublino è stata incaricata di esaminare quello che accadeva nella diocesi retta da John Magee. Una settimana più tardi il cardinale Sean Brady, primate cattolico, aveva risposto a chi pretendeva le dimissioni del vescovo, spiegando che Magee aveva promesso «cambiamenti e progressi nella sua diocesi». Ma le polemiche non si erano fermate. In particolare, da parte dei portavoce dell'associazione «One in four» che supporta le vittime di abusi sessuali, che invocava l'intervento del governo. Pare che il 4 febbraio Magee si sia rivolto direttamente al Vaticano preannunciando l'intenzione di dimettersi e chiedendo di nominare un «amministratore apostolico» che gestisca la diocesi in vece sua.
Il commiato
«Mi sono impegnato a collaborare in tutti i modi con il lavoro della Commissione d'inchiesta — ha detto ieri sera Magee parlando ai fedeli raccolti a messa nella cattedrale di St. Colman —. Sono consapevole del fatto che dovendo dedicare tempo ed energie a questo scopo, condurre la normale attività di amministrazione della diocesi diventerebbe molto complicato ». È stato il suo commiato. Magee mantiene la carica di vescovo. Ma un comunicato diffuso ieri dalla conferenza episcopale irlandese ha già annunciato che papa Benedetto XVI ha stabilito che sia sostituito alla guida della diocesi di Cloyne dall'arcivescovo di Cashel ed Emly, Dermot Clifford. «Darò tutti i contributi necessari alla Commissione d'inchiesta» ha detto Clifford.
Le polemiche
«La decisione del Santo Padre — ha spiegato il primate Brady — è un'indicazione di quanto per la Chiesa siano importanti la tutela dei minori e il prendersi cura delle vittime».
Negli ultimi anni l'autorità della Chiesa cattolica irlandese è stata toccata da diversi episodi di pedofilia e di abusi sessuali. In particolare, le gerarchie ecclesiastiche erano state accusate di aver coperto alcuni di questi casi, trasferendo altrove i preti finiti sotto accusa.

Repubblica 8.3.09
Ateo-slogan
di Alessandra Longo


Ricordate quello slogan sugli autobus, «La cattiva notizia è che Dio non esiste. Quella buona è che non ne hai bisogno»? Bocciata da tutte le concessionarie di pubblicità, l´Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti rilancia cercando un´altra frase ad effetto che passi la censura. Andate sul sito della Uaar e leggete le nuove proposte.
Eccone alcune: «Dio esiste, mia moglie pure! Posso benissimo farne a meno»; «Un uomo senza religione è come un pesce senza bicicletta»; «Ho provato a parlare con Dio, ma mi ha detto che non c´è per nessuno»; «La storia di Adamo ed Eva non ti convince? Abbiamo ipotesi alternative»; «Se Dio esiste, la donna è una costola»; «Se credi rinuncia ai nostri soldi»; «La cattiva notizia è che in Italia abbiamo il Concordato con il Vaticano e ci costa molto. Quella buona è che lo possiamo abolire».

il Riformista 8.3.09
Quale infrazione con la scomunica?
di Marco Bertinatti


La recente scomunica comminata ai medici brasiliani che hanno autorizzato l'aborto a una bambina di nove anni, stuprata dal patrigno, ha suscitato in me un dilemma che spero verrà risolto da qualche lettore esperto in diritto ecclesiastico. La scomunica è infatti un atto legale della Chiesa cattolica, che implica due gradi di esclusione dalla comunità: i "tollerati" vengono esclusi dai soli sacramenti, mentre i "vitandi" devono essere proprio allontanati dalla comunità. Ne consegue che i membri di quest'ultima categoria, non potranno evidentemente più partecipare ad alcuna attività, compreso il finanziamento della comunità stessa (al quale sono invece obbligati tutti i contribuenti italiani). Mi chiedevo pertanto quale infrazione alla morale o alla dottrina cattolica dovrei commettere per avere la certezza di venire escluso da questa religione. Ringrazio anticipatamente quanti vorranno suggerirmi un'infrazione sufficientemente grave per la legge dello Stato del Vaticano, ma che al contempo non lo sia ancora per la legge del nostro Stato.

l’Unità 8.3.09
Obama toglie il divieto Bush
Sì ai fondi per le staminali
di Roberto Rezzo


Un’altra promessa elettorale mantenuta. Barack Obama firma domattina un ordine esecutivo che cancella l’esclusione dai finanziamenti pubblici per la ricerca sulle cellule staminali. L’annuncio è previsto nel corso di una speciale cerimonia alla Casa Bianca. I fondamentalisti cristiani insorgono, ma senza George W. Bush sono a corto di alleati disposti a sostenere che un embrione sia a tutti gli effetti un essere umano. Si tratta di una posizione minoritaria anche tra le fila dell’opposizione repubblicana. Su questo tema Bush si era trovato in contrasto persino con l’ex First Lady Nancy Reagan. «Sono assolutamente a favore di espandere la ricerca sulle staminali - era stato l’impegno di Obama - E sono convinto che le restrizioni volute dal presidente Bush abbiano legato le mani ai nostri scienziati e compromesso la nostra capacità di competere con le altre nazioni».
La decisione ha conseguenze immediate: da domani gli scienziati non saranno più costretti a utilizzare laboratori e attrezzature diverse per le ricerche condotte con finanziamenti pubblici e quelle finanziate privatamente sulle cellule staminali. Sinora neppure un microscopio poteva essere condiviso tra i due filoni di ricerca, pena la perdita degli stanziamenti federali. Una costosa follia che ha fatto segnare agli Stati Uniti una drammatica battuta d’arresto in un settore di cui sono sempre stati leader nel mondo, sino a essere scavalcati dalla Cina nella corsa verso nuove terapie per patologie attualmente incurabili.
Quello sulle staminali è il filone della ricerca considerate più promettente per la cura di malattie come il diabete, il morbo di Parkinson, l’Alzheimer e le paralisi che derivano da lesioni della colonna vertebrale. Individuate per la prima volta nel 1908 dallo scienziato russo Alexander Maksimov, le cellule staminali sono cellule indifferenziate che possono evolvere in qualsiasi tipo di cellula specializzata del corpo umano. La comunità medica è convinta di poterle utilizzare in un prossimo futuro per una vera e propria rivoluzione terapeutica: dalla produzione di insulina alla riparazione di tessuti nervosi danneggiati. Diverse tecniche sono state sviluppate per ottenere cellule staminali da organismi adulti, ma quelle di origine embrionale restano di gran lunga le più versatili.
La destra religiosa considera inaccettabile la distruzione di embrioni umani, anche di quelli scartati per la fecondazione artificiale e che sono conservati in laboratorio a temperature vicine allo zero assoluto. E aveva stretto con Bush un patto di ferro: in cambio del sostegno elettorale, divieto assoluto di finanziare la ricerca sugli embrioni. La passata amministrazione è stata di parola: nel 2001 con decreto presidenziale sono banditi i finanziamenti pubblici alla ricerca. Un provvedimento che il Congresso a larga maggioranza tenta più volte di rovesciare. Di fronte a un consenso bipartisan e in spregio dell’opinione pubblica, Bush non esita a ricorrere al veto: l’ultima volta è stato il 19 luglio del 2006.
Fondi pubblici
Il National Institutes of Health, l’agenzia federale che esamina le domande di finanziamento per la ricerca scientifica, ha già iniziato a elaborare le line guida per l’accesso ai fondi pubblici. Il testo definitivo sarà diffuso entro qualche settimana al massimo. Uno dei requisiti richiesti sarà il consenso informato per i donatori di embrioni. «Dopo otto anni di frustrazione, si volta pagina - è il commento del dottor George Daley dal Harvard Stem Cell Institute and Children's Hospital of Boston, considerato uno dei pionieri in questo campo di ricerche - Adesso il mio team può tornare a lavorare al Massimo delle sue potenzialità».
Michael Castle, deputato repubblicano del Delaware, co-autore del disegno di legge sulle staminali che il presidente Bush ha bloccato per due volte esercitando il potere di veto, ha salutato con soddisfazione la decisione della Casa Bianca. «Sono felicissimo che il nuovo presidente tolga di mezzo queste assurde restrizioni contro cui mi sono battuto per cinque anni. L’intervento del governo federale è essenziale per promuovere studi dedicati a salvare la vita della gente. Oggi è un nuovo giorno per la ricerca scientifica».

I fondamentalisti cristiani insorgono. Gli scienziati esultano. «Dopo otto anni di frustrazione si volta pagina - dice George Daley, uno dei pionieri di questo campo di ricerca - ora il mio team può tornare al lavoro».

l’Unità 8.3.09
Vince la laicità
Ora gli scienziati possono accelerare
Il presidente Usa mantiene un’altra promessa fatta
in campagna elettorale, questo apre una straordinaria
chance per la ricerca in tutto il mondo
di Pietro Greco


Domani il nuovo presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, darà ancora una volta seguito alle sue promesse e rimuoverà gli ostacoli che il vecchio presidente, George W. Bush, aveva frapposto alla ricerca sulle cellule staminali embrionali umane.
Le staminali embrionali sono cellule molto particolari. Gli esperti le chiamano totipotenti, perché possono differenziarsi in tutti i 200 e più tipi di cellule di un organismo. Anche nei tessuti degli organismi sviluppati vi sono cellule staminali definite «adulte», che possono essere indotte a differenziarsi a loro volta in diversi tipi di cellule. Le staminali «adulte» sono già utilizzate nella medicina clinica, al contrario delle embrionali che non sono ancora perfettamente «controllabili». Ma le staminali «adulte» non sembrano avere la capacità totipotenti delle embrionali. Cosicché il loro studio è ritenuto necessario dagli esperti sia per motivi di ricerca di base – per comprendere il processo delle differenziazione cullulare – sia, in prospettiva, per la ricerca applicata alla cura di diverse gravi malattie, sia di carattere degenerativo (dall’Alzheimer al diabete) sia di carattere traumatico (l’infarto).
George W. Bush aveva giustificato il bando del 19 agosto 2001 perché, sosteneva, l’attivazione di linee cellulari per la produzione di staminali embrionali uccide l’embrione. E la vita dell’embrione umano è un bene assoluto, che viene prima di ogni e qualsiasi altra considerazione. Questa idea di Bush, sostenuta da svariati influenti movimenti religiosi, aveva trovato molte opposizioni, non solo fra gli scienziati, ma anche all’interno del partito repubblicano. Tanto che il 18 luglio 2006 il Senato a maggioranza repubblicana aveva approvato una legge che, pur ribadendo il divieto di creare embrioni umani ad hoc per effettuare ricerche, consentiva almeno l’impiego degli embrioni umani cosiddetti soprannumerari: si tratta di embrioni generati con tecniche di fecondazione in vitro, non utilizzati, congelati ma destinati comunque a morire, sia pure in un tempo piuttosto lungo. Bush si avvalse delle sue facoltà presidenziale e oppose il veto alla legge.
Ma la situazione si stava ormai molto ingarbugliando. Singoli stati della Confederazione si comportavano in maniera diversa. Due giorni dopo il veto di Bush, per esempio, il governatore, repubblicano, della California, Arnold Alois Schwarzenegger autorizzò il finanziamento alla ricerca sulle staminali embrionali umane nel suo stato.
In campagna elettorale Barack Obama aveva più volte promesso che avrebbe rimosso il bando di Bush. Detto, fatto. Domani gli scienziati americani potranno tornare a fare ricerca sulle embrionali staminali umane tratte da linee nuove e più sane. Con quali effetti? In termini politici la promessa mantenuta di Obama sottrae la ricerca scientifica a vincoli di carattere ideologico e la restituisce a una dimensione di laicità, normale negli Usa. Inoltre restituisce alla (straordinaria) ricerca pubblica americana e, quindi, alla ricerca mondiale la possibilità di una nuova accelerazione in un settore, quello delle cellule staminali embrionali e adulte, che è in una fase molto promettente e quindi critica di sviluppo. In ultimo, si modifica il quadro internazionale in cui si svolge questo tipo di ricerca scientifica.
E Paesi, come l’Italia, che si ostinano in un atteggiamento proibizionista per motivi ideologici rischiano di restare ancor più isolati.

Repubblica 8.3.09
Staminali, Santa Sede contro Obama "Quella ricerca è inutile e immorale"


CITTÀ DEL VATICANO - La decisione di Barack Obama di ridare fiato alla ricerca sulle cellule staminali embrionali è stata accolta con entusiasmo dalla comunità scientifica di tutto il mondo. Il presidente americano ha annunciato che domani firmerà un ordine esecutivo i cui dettagli non sono ancora noti, ma dal quale tutti si aspettano una ripresa dei finanziamenti federali alla ricerca sulle cellule degli embrioni, quasi completamente strozzati dall´amministrazione Bush nel 2001.
In Vaticano la reazione è stata di costernazione. Al tema delle staminali ieri l´Osservatore Romano ha dedicato un lungo e polemico articolo, in cui si ricorda la posizione presa dalla Conferenza episcopale Usa nell´assemblea plenaria di Orlando in primavera: "Sembra innegabile - avevano scritto i vescovi - che una volta oltrepassata la fondamentale linea morale che ci impedisce di trattare gli esseri umani come meri oggetti di ricerca, non ci sarà più un punto di arresto». L´organo di stampa del Vaticano ribadisce che la ricerca sulle staminali embrionali è "profondamente immorale e superflua, in considerazione dei recenti sviluppi delle ricerche scientifiche".

Liberazione 8.3.09
«Metropoli inestetiche periferie anonime perché costruire ancora?»
intervista a Paolo Berdini di Tonino Bucci


C'erano una volta il Belpaese, le sue città rinascimentali e barocche. Da almeno dieci anni a questa parte l'Italia è stata cementificata, i suoi territori dissestati, e metropoli circondate da quartieri senza anima. Si dice che siamo un popolo di proprietari di casa, eppure il governo Berlusconi sta varando in nome dell'emergenza abitazione un piano straordinario per l'edilizia, una sorta di megacondono senza precedenti, un lasciapassare per ampliare gli alloggi, per demolire e ricostruire indiscriminatamente con una semplice dichiarazione. Ne parliamo con Paolo Berdini, docente di urbanistica.
Ma esiste davvero l'emergenza casa?
No. Non è vero. C'è stata di recente a Roma un'assemblea di tutti i comitati per la casa. Faremo una battaglia per il riutilizzo degli edifici pubblici - non degli immobili di proprietari privati. Negli ultimi quindici anni di liberismo galoppante abbiamo venduto molti gioielli di famiglia regalandoli per pochi soldi alle grandi immobiliari, da Tronchetti Provera a Gabetti e compagnia bella. Proponiamo che gli edifici in via di dismissione o abbandonati, come le scuole in quartieri ormai senza bambini, vengano ristrutturati ad abitazione. A Roma trenta-quarantamila famiglie sono in cerca di alloggio. Questa potrebbe essere la soluzione. Ma vale anche per il resto dell'Italia. Non esiste fabbisogno di nuovi alloggi. Tra l'altro in questi ultimi quindici anni si è costruito a ritmi inauditi senza risolvere il problema. Gli strati sociali più bassi non hanno accesso al bene casa.
Non c'è stata un'edilizia pubblica in concorrenza con quella privata. Il valore di mercato delle case è schizzato verso l'alto. Non è così?
E' stata tutta edilizia privata. Da altre parti la bolla immobiliare è scoppiata. Qui in Italia no. Uno Stato liberale dovrebbe costruire le case per chi non ha reddito. Oggi però non serve costruire nuove abitazioni, è sufficiente recuperare i beni pubblici. E per chi dice che non ci sono i soldi sarebbe sufficiente che guardasse oltreoceano quel che sta facendo Obama a sostegno dell'economia.
Altro che recupero degli edifici pubblici. Il ministro Matteoli ha detto che bisogna aumentare le cubature delle case così che le giovani coppie possano costruirsi una stanza in più nell'alloggio dei genitori. Ognuno s'arrangi da sé...
Così non risolvo il problema della casa, faccio solo aumentare di un pezzetto il reddito delle famiglie in difficoltà facendogli ampliare la casa. Secondo, così distruggono il volto delle città lasciando libertà di demolire e ricostruire in modo indiscriminato.
L'edilizia non è solo un pezzo dell'economia. Il modo in cui costruiamo incide sulla qualità di vita e soprattutto sulla qualità delle relazioni sociali. Non c'è un'urgenza estetica delle nostre città?
L'Italia ci è cambiata sotto gli occhi. E' vero che, per fortuna, non ci sono riusciti del tutto. Gli strumenti urbanistici tutto sommato hanno tenuto. Però il dissesto c'è stato. Per fare un esempio, i quartieri nuovi che sorgevano nelle città ottocentesche in espansione erano piccoli gioielli abitativi. Erano case a bassa densità, pensiamo a Modena o a Parma. Agli inizi del '900 costruivano villini o palazzine a tre piani che erano gioielli di periferia accessibili anche ai redditi medio-bassi. Se passa questo piano sciagurato per l'edilizia di Berlusconi, chi ha i soldi si costruisce un piano in più, chi non ce li ha si arrangia. Sarebbe devastante per la bellezza delle città. Ma a questa classe dirigente della bellezza non importa niente. C'è invece un bisogno di qualità sociale della vita che la sinistra dovrebbe rappresentare.
Nelle periferie nascono quartieri anonimi senza servizi, senza collegamenti, senza legami comunitari. E' un caso, poi, che questi territori diventano serbatoio della paura e dell'odio per gli immigrati? Chi vive male non è più vulnerabile alla propaganda della sicurezza?
Verissimo. In questi anni hanno dato il via alla più dissennata costruzione di superfici commerciali che ci sia stata in Europa. In Italia non c'è regolamentazione, si può fare tutto. Con i grandi centri commerciali sono scomparsi quei piccoli negozi che garantivano un sistema minimo di relazioni sociali nei quartieri. Hanno il deserto nelle nostre città. Non solo, con questo piano vogliono aumentare del venti per cento la superficie commerciale. Migliaia e migliaia di metri cubi di cemento in più, un affare per le grandi catene distributive. Senza contare che nel sud - e non solo - sarà un'occasione per la malavita organizzata.

Repubblica 8.3.09
La scuola abbandonata dallo Stato
risponde Corrado Augias


Caro Augias, ho 38 anni e vivo a Palermo. I miei figli di 9 e 11 anni frequentano entrambi scuole pubbliche. La direzione della scuola ha chiesto a noi genitori di dare un contributo volontario. Da molto tempo, peraltro, è stato istituito un fondo cassa, sempre con i nostri soldi, per l'acquisto di carta igienica, saponi e materiali vari che, nella norma, dovrebbero essere a carico della scuola. In un'altra parte della città, lo storico Liceo Classico Garibaldi, deve essere restaurato, pena il rischio di chiusura per inagibilità, i soldi non ci sono; un gruppo di genitori ha formato un comitato per raccogliere i fondi. Autotassarsi per la carta igienica o per evitare che le scuole fatiscenti crollino, mentre un pasto di qualità alla buvette costa quanto il peggiore dei panini? Se la coperta è troppo corta, perché tocca alla scuola pagarne le conseguenze? Basterebbe recuperare una parte dell'evasione fiscale e non stanziare tanti soldi pubblici (cioè nostri) per le scuole private.
Claudia Zito claudiacorre@virgilio.it

Spendiamo poco per la scuola, al contrario di quanto afferma il ministro Gelmini che dichiara «siamo tra i primi in Europa». Le statistiche di Eurostat ci piazzano al 21esimo posto avendo dietro di noi solo Grecia, Slovacchia e Romania. Il dato di Eurostat considera tutti i livelli di spesa, locali, regionali e nazionali, comprende istituzioni scolastiche, universitarie nonché le altre istituzioni che fanno funzionare il sistema educativo: ministeri e dipartimenti della pubblica istruzione, servizi, ricerca. I pochi soldi sono però un sintomo, riflettono l'atteggiamento del governo già tristemente sperimentato negli anni 2001-2006. Incuria da una parte, privilegi alla scuola confessionale e di classe. Torna prepotente la profezia di uno dei padri della Repubblica, Piero Calamandrei, verificata nei fatti. Nel febbraio 1950 disse: «Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada. Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private». C'è bisogno di aggiungere altro?

l’Unità 8.3.09
Informazione e pregiudizio
di Sergio D’Elia


I rumeni accusati di violenza sessuale nel parco della Caffarella sono vittime di un errore giudiziario, ma soprattutto del clima di xenofobia che è all’origine di quell’errore. L’informazione è la prima responsabile di questo clima. L’agenda setting non è mera teoria per sociologi della comunicazione, è prassi quotidiana di direttori di giornali e telegiornali che dettano l’agenda politica e i temi cosiddetti di attualità. Non conta se abbiano scelto o subìto il tema “stupri/rumeni” come dominante di queste settimane. Quando si dice “stampa di regime”, s’intende anche che alimenta un regime. Il regime della paura: si destabilizza per stabilizzare; si creano “emergenze” e poi ci si candida a governarle. Con il mix di leggi speciali e giustizia “fai da te”, il degrado dello Stato di diritto nel nostro paese diventa irreversibile.
Con l’indulto i reati non aumentarono in maniera significativa, però le notizie dei Tg su crimini di ogni specie triplicarono. Da uno studio del Centro d’Ascolto radicale, dieci minuti di ogni tg furono in media dedicati a un’informazione mortifera. Anche oggi l’“emergenza stupri” non trova riscontro nelle statistiche: sono diminuiti dell’8% rispetto al 2007; eppure il Governo ha emanato un decreto contro gli stupri, la cui urgenza era solo quella di rispondere a un’opinione pubblica allarmata, non dall’aumento (che non c’era) delle notizie di reato, ma dal boom di notizie di cronaca, in particolare sugli stupri di “importazione rumena”, sorvolando sul “made in Italy”. Se i media si fossero attenuti alla realtà, e cioè che più del 70% degli abusi sulle donne si verifica in famiglia, forse il governo avrebbe agito di conseguenza. Invece per la stampa italiana il problema è lo straniero. E’ un dato che i rumeni detenuti oggi sono lo 0,27 per cento di quel milione e più che vive e lavora in Italia. Ma la “paura del rumeno” va oltre le statistiche e si può di-spiegare solo con la potenza di fuoco del messaggio diffuso.
L’impostazione xenofoba dell’informazione condiziona pure il corso della giustizia: la condanna mediatica preventiva può infatti indurre all’errore investigativo e giudiziario, perché spinge a trovare subito un colpevole purché ci sia. Anche se i due rumeni della Caffarella sono stati scagionati dal Dna, difficilmente usciranno del tutto innocenti da questa storia. Non solo per il marchio di infamia ormai indelebile, ma perché è raro che gli inquirenti abbandonino radicalmente una tesi accusatoria. “Uno di loro ha confessato”, argomentano. Perché avrebbe dovuto? Che l’abbia fatto sotto pressione non è concepibile. In Italia queste cose non si fanno. Il nostro è il Paese delle meraviglie, e noi siamo tutti come Alice.

il manifesto 8.3.09
Europee, in campo due "liste unitarie"
di Matteo Bartocci


Unità a sinistra? Dipende. Le assemblee di sabato a Firenze e Milano hanno confermato che gli appelli a una lista unitaria per le europee di giugno, almeno per ora, sembrano destinati a cadere nel vuoto. Con il rischio che torni un po’ dovunque la tentazione di saltare un giro elettorale con l’astensione.
Da un lato infatti Rifondazione e Pdci confermano la loro alleanza sotto l’insegna della falce e martello e della Sinistra europea. Dall’altra l’area rosso-verde che va dai socialisti di Nencini fino a Vendola passando per Verdi e Sd è ormai pronta a lanciare il proprio cartello di sinistra e libertà. Un movimento che non è detto si coaguli, dopo le elezioni, in un nuovo partito anche per le resistenze che covano qua e là sul territorio e perfino tra alcuni dei contraenti principali come il Sole che ride. Due liste diverse che vista la soglia di sbarramento per Strasburgo non scongiurano il rischio di un altro naufragio dopo quello dell’Arcobaleno ad aprile e dei quattro congressi estivi con il loro carico di rancori e scissioni. Una sinistra divisa e a rischio di scomparsa definitiva alimenta, a torto o a ragione, la voglia di astenersi e la critica radicale a una politica percepita come salvataggio separato di gruppi dirigenti in agonia.
Che fare dunque? Saltare un giro, insistere con una moratoria multilaterale che salvi il salvabile e si apra davvero al conflitto sociale oppure accettare la scelta tra le due sinistre? Il quadro comincia ad essere chiaro, e da qui a giugno nessuno può chiamarsi fuori.

Liberazione 8.3.09
Il Prc presenta il programma elettorale della Se
Ferrero: una lista unitaria della sinistra anticapitalista. Nel gruppo del Gue
di Cecchino Antonini


Ieri a Milano il Prc ha presentato il programma della Sinistra Europea per le prossime elezioni in un'affollata assemblea al Teatro Carcano con Paolo Ferrero, Alexis Tsipras, segretario del Synspismos e Lothar Bisky, presidente della SE/Die Linke. Il segretario del Prc ha sostenuto la necessità di una lista unitaria della sinistra radicale e comunista (Rifondazione, Pdci, Sinistra critica, movimenti) che entri nel Gue, che non rinunci ai simboli del movimento operaio e che non unisca quello che insieme non può stare: anticapitalismo e liberismo. Convitato di pietra del convegno di ieri il tema della crisi e come uscirne da sinistra, giacchè la ricetta proposta dal governo e non adeguatamente contrastata dal Pd rovescia sui poveri tutto il peso: sono stati infatti i sacrifici imposti ai lavoratori e la conseguente caduta dei consumi ad aver prodotto il collasso dell'economia e non viceversa. La risposta è nel salario sociale, nell'ampliamento della cassa integrazione per tutti i lavoratori subordinati e parasubordinati, nella introduzione della Tobin tax e nelle nazionalizzazioni per un intervento pubblico capace di avviare una riconversione sociale ed ecologica dell'economia.
«Stiamo lavorando per un accordo di tutta la sinistra radicale e comunista, per una lista unitaria tra Rifondazione, il Pdci, Sinistra critica e gli altri movimenti. Non si può fare invece una lista così slavata da non sapere dove andrà in Europa o da non avere contenuti chiari. Ad esempio i socialisti in questi anni hanno detto cose diverse dalle nostre». Prima di entrare al teatro Carcano di Milano, che ospitava l'iniziativa di Rifondazione per presentare il programma della Sinistra europea, Paolo Ferrero invia un messaggio - via agenzie - all'assemblea di Firenze. Poi, dal palco, spiegherà meglio, dirà che va bene una lista unitaria delle sinistre alle europee ma che vada nel Gue, il gruppo unitario della sinistra alternativa, «non col compagno Craxi, e che realizzi quell'unità con la rinuncia ai simboli del movimento operaio. Non basta dirsi di sinistra in Italia e poi votare la Bolkestein a Strasburgo».
Prima di lui anche Vittorio Agnoletto, eurodeputato del Prc, dal palco del Carcano aveva interloquito con i convenuti a Firenze per ricordare gli sforzi per dirottare il gruppo socialista dall'iniziale fascinazione per la direttiva che avrebbe innalzato a 65 ore l'orario settimanale. O quella direttiva che porta il nome di Claudio Fava per la quale se un padrone viene scoperto a sfruttare un migrante senza documenti viene condannato a pagargli le spese di espulsione. «Così chi avrà mai il coraggio di denunciare il suo sfruttatore?», si chiede Agnoletto di fronte alle sei-settecento persone che hanno riempito il teatro per ascoltare una narrazione polifonica di esperienze di lotta e di elementi di programma.
Ospiti d'onore: i leader della Linke, Lothar Bisky, e del Synaspismos, Alexis Tsipras, introdotti dal responsabile esteri, Fabio Amato. Convitato di pietra: la crisi. Una crisi raccontata innanzitutto con le voci di una città dove in 250mila rischiano il posto e la cassa integrazione è aumentata del 251% quella ordinaria e del 145% quella straordinaria. Ha spiegato il segretario provinciale Prc, Nello Patta, che Milano è un laboratorio dell'insicurezza (dai pogrom di Opera alle ronde) e di un blocco di potere composto da banche, multinazionali, poteri pubblici con alcune superfici di contatto con la finanza criminale. Un capitalismo di infima qualità che sta mettendo a rischio il 20% del residuo insediamento industriale. Ma è una città capace di «nuovi segnali». Dalla resistenza dei 70 operai dell'Innse a quella delle lavoratrici Benetton, degli spazi sociali e degli antirazzisti che la sera prima hanno confinato una ronda padana sotto un ponte. Poi ci sono i gruppi di acquisto popolari di cui parla Luciana Maroni, e l'Onda, «scomparsa dai giornali ma non dalle università e attiva in Grecia e in Francia», dice Cristina Palmieri.
Storie che dicono «nulla di nuovo ma tanto di vero». Come quella di Nicoletta, sindacalista Sdl, precaria della sanità pubblica, 2 figli, 1.300 euro e scadenza tra un anno. Come quella di Mariangela Tognon, scodellatrice, ossia lavoratrice delle mense scolastiche comunali. «E' una crisi che divide», spiega Marina Benuzzi, della Cgil, individuando nel contratto nazionale il luogo per la redistribuzione. Crisi e resistenze raccontate soprattutto da donne perché non sfugga che la lotta al patriarcato non può essere scollegata a quella contro il capitalismo. E se Anita Sonego, dell'Università delle donne, parte dalle istanze dei corpi sotto controllo (da quello di Eluana a quello dei migranti), Agnoletto fornisce altre cifre rivelatrici della magnitudo della crisi: +41% dei furti nei supermercati, +20% dei pignoramenti di immobili, +230% di chi ricorre alle lotterie.
E' questo il quadro su cui deve calarsi il programma comune della Sinistra europea (venti partiti e altri 12 come osservatori). Perché la crisi «che è economica, ecologica, alimentare e di democrazia - dirà Ferrero - è il frutto della globalizzazione che ha puntato sulla finanziarizzazione dell'economia e sulla sistematica compressione dei salari». Per questo è impensabile uscire dalla crisi con i sacrifici, «sono stati i sacrifici a produrre la crisi». La ricchezza c'è e va redistribuita. In 25 anni 150 miliardi di euro si sono spostati dal monte salari a quello dei profitti. «La crisi, allora, dovranno pagarla i ricchi», insiste il segretario di Rifondazione enunciando una piattaforma che va dal salario sociale per i disoccupati all'ampliamento della cassa integrazione (per pubblico e privato, stabili e precari), dal controllo pubblico del credito alla Tobin Tax alle nazionalizzazioni per riconvertire l'economia.
Il livello europeo è evidente, è lì che si costruisce l'alternativa. E l'antiberlusconismo «urlato o no» non basta. L'accondiscendenza di Di Pietro alle grandi opere berlusconiane, l'ambiguità del Pd nella costruzione della guerra tra poveri non sono utili a bloccare il mix di razzismo, sessismo e clericalismo con cui le destre provano a unire ciò che disgregano con le loro politiche economiche. «La crisi del Pd è strategica», conclude Ferrero indicando nella produzione di forme di conflitto e di solidarietà la strada per la construzione della sinistra alternativa, «che non sia l'ala sinistra del Pd».

Liberazione 8.3.09
Alexis Tsipras segretario (35enne) di Synaspismòs
«Nel cuore del conflitto sociale la ragion d'essere della sinistra»
di Claudio Jampaglia


Siete ormai il terzo partito a livello locale e avete una forte presa sui giovani, di fatto state rompendo il bipolarismo tra Pasok e Nuova Democrazia. Mica male...
E' vero che in poco tempo siamo riusciti a cambiare il quadro politico. Fino a poco tempo fa la sinistra non era sulla scena della vita politica del paese. Era virtuale. Una promessa. Ma da un anno siamo riusciti a muovere le acque stagnanti della politica greca. Purtroppo c'è un'alleanza tra media e forze politiche contro di noi. Anche se non sembra incidere sulla nostra popolarità. Perché quello che diciamo non è congiunturale. Noi parliamo di cause sociali e siamo stati capaci di attivare le nuove generazioni, quelle del precariato e della "vita a 700 euro", insieme agli studenti universitari e delle scuole medie, protagonisti delle lotte più recenti.
In Grecia in questi anni si è parlato di "sinistra alternativa". Sono questi giovani e il rapporto con i movimenti la nuova sinistra?
Synaspismòs è un partito di una sinistra giovane e contemporanea che non ha paura di cercare la sua identità e indagarla. E farlo non rispetto al passato ma oggi, lì dove succedono le nuove lotte e le contraddizioni. Nel cuore del conflitto sociale. Sappiamo che non basta più fare riferimento alle lotte del passato e prendere dagli armadi le bandiere della lotta per poi fare due cortei e rimetterle via. Vogliamo una sinistra pericolosa non per il suo passato ma per le lotte che abbiamo di fronte.
E invece il Kke è l'esempio della politica del passato?
Il Kke ci attacca più della destra. Perché la nostra dinamica tra i giovani rende più debole la strategia d'egemonia del Kke. E' triste che un partito comunista con una grande storia di sacrifici e lotte, insista a non volere leggere il movimento sociale che si ribella e si schieri tra le forze più reazionarie del paese.
Per la politica italiana tu sei un bambino...
La cosa importante è che le nostre parole e soprattutto le rivendicazioni siano quelle dei giovani. Due anni fa eravamo a fianco degli studenti contro la riforma del diritto di studio. Tra i nostri primi obiettivi c'è la lotta alla precarizzazione e per l'autonomia dei trentenni che vivono ancora con i genitori in una stanza. Ora, i sondaggi ci danno al 10% e l'intenzione di voto tra i 18-24 anni sale al 20%.
E quale rapporto col Pasok?
A parole il Pasok si smarca, ma sui temi economici e sociali, quelli determinanti, ha un atteggiamento comune alla destra. Su come affrontare la crisi, su cosa sia la sicurezza per i cittadini, sui rapporti con la Nato, la guerra, nei fatti, non c'è differenza. Viene accreditato come primo partito, ma come Nuova democrazia avrà meno voti del passato. Perché il sistema bipolare è molto indebolito e nessuno potrà governare da solo. Anche per questo ci attaccano, dicono che rendiamo ingovernabile il paese. Ma succede perché c'è un governo incapace di rispondere alla gente spaventata dalla crisi economica. Il grande pericolo è che questa paura provochi una svolta a destra o per lo meno conservatrice. L'unica risposta possibile è rafforzare i movimenti, le lotte e la sinistra.
Ma governereste col Pasok?
Noi proponiamo un altro modello di sviluppo. Se ci sono altri d'accordo con la necessità di un cambiamento a sinistra della società greca, siamo pronti. Però constatiamo che la leadership del Pasok non è su questa strada. Credono ancora al neoliberismo.
Sia voi che la Die Linke siete in crescita, da noi invece la sinistra esce da una stagione difficile...
Fino a qualche anno fa l'Italia era un modello per noi. Eravate in grado di organizzare le manifestazioni di massa interne ed internazionali più interessanti. E per noi è un problema capire come la partecipazione al governo del paese abbia consumato la partecipazione a sinistra. Crediamo di aver imparato che la sinistra se non ha la possibilità di un legame forte con la società o di rappresentare il proprio blocco sociale è quasi impossibile che esca indenne da una partecipazione a una forma di governo.
Quindi se i giovani vi chiedessero di governare per un salario sociale e il diritto allo studio per tutti... lo fareste?
Dipende dai rapporti di forza e dalla capacità, per chi ci chiedesse di andare al governo, di rovesciare lo stesso governo il giorno dopo.

Liberazione 8.3.09
Lothar Bisky presidente della Sinistra Europea, fondatore di Die Linke
«Dice "ciò che è" e fa opposizione
Così die Linke punta al 10%»
di C.J.


In Italia il governo comincia ora a dire che la crisi c'è. in Germania qual è la percezione?
La crisi viene presa sul serio in Germania. Anche se il governo ha reagito molto tardi. Ancora in settembre e ottobre il governo di Angela Merkel sosteneva che la crisi era americana e che avrebbe solo sfiorato l'Europa. Adesso invece la crisi è arrivata e corrono ai ripari. Intanto da ottobre ad oggi ci sono un milione e mezzo di cassintegrati in più e i lavoratori cominciano a toccare con mano cosa significa. Ma il governo ha stanziato molti miliardi per salvare le banche e tamponare la crisi industriale. Il grande problema in Germania come in Italia è che i governi non hanno tratto alcuna conclusione su quali sono le cause reali della crisi. La piena e libera circolazione dei capitali non è stata limitata. I banchieri vengono protetti e aiutati al posto dei lavoratori e della gente. La speculazione continua e le stesse banche che ricevono miliardi di aiuti pubblici continuano a essere mediatori e garanti della speculazione. Purtroppo il governo non ha capito nulla della crisi.
Eppure alcune proposte "di sinistra" sono in discussione...
Die Linke è contenta che alcune sue richieste, come la tassazione generale delle transazioni di borsa, vengano adesso prese sul serio in Parlamento. Quello che chiediamo allo Stato non è solo spendere beni i soldi in funzione anticiclica ma anche di promuovere reali conseguenze sulla vita delle persone. Quando all'industria dell'auto arrivano miliardi pubblici vogliamo vedere anche delle conseguenze dal punto di vista del lavoratori: garanzie, ammortizzatori e la partecipazione alle decisioni d'impresa. Su questi punti non abbiamo risposte. Siamo ancora alla socializzazione delle perdite ma con la privatizzazione dei fondi pubblici visto che i profitti non ci sono più.
La Spd non è una sponda, un interlocutore per queste proposte?
Purtroppo la Spd fa parte del governo anche se in campagna elettorale fa finta di essere all'opposizione. Ma alla fine la politica di Merkel è la loro. Una proposta che sembra raccogliere un consenso comune è quella di far pagare ai milionari un po' di tasse in più per favorire i più colpiti dalla crisi e ci sarebbe una maggioranza per vincere in Parlamento su questo punto. Ma al momento di votare la Spd si squaglia. Ecco l'esempio. Come Linke abbiamo portato in Parlamento anche una mozione di Helmut Schmidt, storico cancelliere e segretario della Spd, che proponeva di limitare la fuga nei paradisi fiscali, di aumentarne tasse e controlli. Bene, la Spd l'ha bloccata, purtroppo.
Va meglio nei Laender?
Va meglio dove governiamo insieme come a Berlino. Non siamo ancora al meglio, ma si collabora bene. Offriamo un ticket culturale, il teatro a tre euro, il tempo pieno a scuola, nessun contratto precario per i 10mila posti di lavoro creati nel pubblico. Sono alcuni esempi. Non possiamo e non vogliamo però lavorare con la Spd a livello federale. Fanno una cattiva politica e sembrano la "Cdu light".
La crisi sta cambiando la visione europeista dei tedeschi?
Difficile dirlo, ma Die Linke crede che senza una Germania in Europa non ci sarà una Germania europea. Siamo l'esportatore primario nella Ue e abbiamo bisogno di più Europa. Esiste una forte critica in parte della popolazione contro l'Europa dei burocrati e contro governi pericolosi come quelli di Berlusconi e Sarkozy che si riuniscono in segreto lasciando in disparte la popolazione. Questa Europa esclusiva, che limita la partecipazione, chiusa, è responsabilità dei governi che escludono la popolazione e ad esempio non li fanno votare direttamente sul trattato di Lisbona. Questo crea disaffezione. Invece un'Europa più politica, più democratica, più partecipata è la sfida della Sinistra europea.
Liberazione 8.3.09
Le elezioni europee aprono una lunga stagione elettorale in Germania che culmina a settembre con le politiche. Quali sono i vostri obiettivi?
Vogliamo superare il 10% in Europa e nel Bundestag. Die Linke ha cambiato la costellazione dei partiti in Germania. Adesso il panorama politico è fatto di una cinquina di partiti. E noi siamo i più forti all'est e raggiungiamo il 5% in tutte le competizioni elettorali anche nell'ovest. Mentre i partiti maggiori stanno perdendo consenso. Diciamo che abbiamo buone speranze. I cittadini tedeschi sanno che Die Linke è una forza reale che denuncia le porcherie e i tagli sociali. Che lotta. Finalmente c'è un'opposizione. Una capacità di farsi sentire. E c'è un nuovo modo di dire tra la gente, anche che non ci vota, di cui andiamo molto orgogliosi: "Die Linke dice ciò che è".

Liberazione 8.3.09
Centinaia all'assemblea dei promotori di "Una lista per la democrazia"
Europee, da Firenze arriva l'ultimo appello per l'unità
di Anubi D'Avossa Lussurgiu


Rispetto, dialogo, ma anche un po' di disperazione: questa la cifra della discussione intensa svolta ieri in assemblea da promotori e sottoscrittori dell'appello "Una lista per la democrazia" con i rappresentanti delle forze politiche della sinistra italiana che vi hanno partecipato. Disperazione, almeno un po', soprattutto da parte di chi nelle forze politiche attuali non milita ma le ha sollecitate a un passo indietro spiegato e rispiegato nella sua qualità di rilancio di una qualche efficacia nella politica e nella società del paese e invece trova anche questa volta dei no. Disperazione ossia sottrazione ulteriore di speranza: non però dalla possibilità di far lievitare da queste stesse domande eluse nell'attuale orizzonte partitico un lavoro politico nuovo, che riconfiguri per il futuro uno spazio altrettanto nuovo e altrettanto politico, unitario quanto necessario, soprattutto fatto di pratiche.
Va in scena così in una casa del popolo fiorentina, all'estremo della zona carica di storie dell'Isolotto, qualcosa di non proprio inedito. Lo ricordano gli stessi organizzatori quando, dalla relazione di Luigi Serrajoli agli interventi di Paul Ginzborg, di tanti altri della sinistra unita e plurale del capoluogo toscano, di Mario Pianta, di Pino Ferraris, solo per citarne alcuni, fino alle conclusioni di Giulio Marcon, ripercorrono le tappe di quella sorta di lungo braccio di ferro con le forme partitiche della sinistra che le altre soggettività che pur popolano e animano quel campo hanno da tempo intrapreso per trasformare rappresentazione e rappresentanza politiche in spazi condivisibili, abitabili, partecipabili: per battere, cioè, una ormai diffusamente percepita separatezza, come la definisce nettamente Olol Jackson del No Dal Molin vicentina, sulla quale quella sinistra, quei partiti hanno già scontato la perdita di tanti consensi. Ma il tono delle molte prese di parola di questo mondo "altro" della sinistra, non pacificato rispetto a quella separatezza, è il tono dell'ultimo appello. Proprio questa, d'altra parte, è la formula con cui l'appuntamento si conclude. E non potrebbe essere altrimenti, perché si è dovuto aprire con la presa d'atto, già registrata da Pianta e Marcon in un articolo pubblicato da il manifesto della mancata soddisfazione della domanda di passo indietro e messa a disposizione in una lista unitaria rivolta a tutte le forze politiche della sinistra in quel testo che ha ricevuto oltre duemila sottoscrizioni.
Il campo delle risposte venute dai soggetti partitici è presto riassunto e incarnato dagli interventi nell'assemblea stessa di Nichi Vendola per il Movimento per la Sinistra fuoriuscito dal Prc, di Maurizio Acerbo per Rifondazione comunista (mentre la componente Rifondazione per la sinistra, rimasta nel partito, parla con la voce locale dell'assessore regionale Baronti), di Arturo Scotto per Sinistra Democratica e di Gianfranco Bettin e di Silvestri per i Verdi (assenti, invece, sia Grazia Francescato che Paolo Cento, mentre si fa vivo Angelo Bonelli). In sostanza le risposte si dividono in due: da una parte la franca indisponibilità del Prc ad aderire ad una lista unitaria che non impegni nell'intrapresa elettorale l'identificazione ovvero il simbolo del partito e che non si vincoli alla destinazione degli eventuali eletti del Gue - come pegno di alternatività al "co-governo" delle politiche liberiste praticate dal partito socialista europeo come dal campo dei popolari. Vendola e poi Roberto Musacchio e Alfonso Gianni ribadiscono per il Mps l'apertura a ulteriori tentativi unitari, «fino all'ultimo momento possibile» ma rivendicano uno spirito unitario comunque interpretato dal percorso di tessitura compiuto nel frattempo con altre forze per la presentazione di un simbolo comune. Tra i Verdi, Bettin rilancia invece la pressione unitaria - e dunque, allo stato delle risposte, critica - esercitata dall'assemblea fiorentina per investire della necessità di costruire un percorso unitario con forze e soggetti non partitici proprio e soprattutto le sigle che dichiarano una formale disponibilità. Traduzione: oggi c'è il consiglio federale dei Verdi, massimo organismo decisionale, e Bettin così come l'intera squadra di attivisti veneti con cui ha partecipato all'assemblea proporrà di non considerare concluso quel lavoro di tessitura con Mps, Sd e socialisti di sottoporsi ad un confronto nuovo e diverso, sottolineando la necessità di costruire realmente un suo carattere unitario che vada al di là di accordi tra le forze attuali.
Così, con l'avvertenza rivolta anche alla proposta di Bettin dai promotori dell'appello che la richiesta unitaria non potrebbe dirsi soddisfatta non solo nella mancata unità di tutte le forze partitiche della sinistra, ma anche dalla riduzione a pratiche di "apertura" a candidature "indipendenti" cui tutti si dichiarano non interessati, l'assemblea rilancia proprio questa sfida ai partiti: ulteriore tempo per pensarci o ripensarci, sapendo che comunque chi ha lanciato e chi ha sottoscritto l'appello questa volta non intende ridurre la sua azione a una "doglianza" nei confronti dei "quartier generali" ma intraprende la costruzione di una piattaforma di proposte e di iniziative politiche. Alle risposte che verranno, è il messaggio, spetta di renderlo più o meno conflittuale con le forme organizzate attuali. Anche se, paradossalmente, sui punti di merito riguardo la crisi democratica e la crisi economico sociale così come riguardo il superamento di meccanismi di rappresentanza produttori solo di ceto politico separato, la convergenza sembra assoluta: da Acerbo che conferma il passo indietro della dirigenza dalle candidature e l'apertura delle liste ai movimenti a Scotto che annuncia una composizione delle candidature attraverso «consultazioni assembleari nei territori». Quanto all'unità, resta la sfida rilanciata dall'assemblea

il Riformista 8.3.09
Pdci e Rifondazione tornano all'antico
In Europa sotto una sola falce & martello
Pronto il simbolo, mancano solo i dettagli. Ferrero sempre più solo. Ora si affida ai bertinottiani per evitare che dopo le elezioni si ritrovi Diliberto in casa.
di Serenella Mattera


Insieme, sotto falce e martello. È la ritrovata unità della sinistra radicale. O, almeno, di una sua parte. Rifondazione comunista e i Comunisti italiani andranno insieme alle europee, con Sinistra critica, i consumatori e i movimenti. L'accordo c'è: il simbolo, e non è poco, con falce e martello, appunto. E - naturalmente - la parola "comunista". E il colore rosso, tanto rosso. Restano da definire i dettagli. Già, i dettagli. Quali nomi compariranno? «Si partirà dal simbolo del Prc, ma sui nomi vedremo» dicono al Pdci. Fonti vicine a Paolo Ferrero tagliano corto: «Al nostro nome saranno aggiunti quelli degli altri». Questione aperta, insomma. Come aperta è la discussione sulle ambizioni della lista comunista. Ferrero e i bertinottiani rimasti dentro Rifondazione sono categorici: è un accordo limitato alle europee. Il Pdci e una buona fetta del Prc (anche quelli che sostengono Ferrero) precisano: «per ora nessuna unità dei comunisti». E in quel «per ora» è nascosta una speranza, un sogno: che un buon risultato elettorale spiani la strada al ritorno di un partito comunista unificato.
Riunire le forze che si erano divise nel '98, è stata una scelta quasi obbligata per la sinistra radicale. L'unica speranza di riuscire a superare la soglia di sbarramento del 4 per cento alle europee. Impensabile per il Prc tornare con gli "scissionisti" di Nichi Vendola, con i Verdi e Sd in una sorta di riedizione dell'Arcobaleno. E infatti rispetto agli altri partiti della sinistra ora si invoca una diversità: «Noi entreremo compatti nel gruppo della sinistra europea (Gue) - dice Augusto Rocchi, bertinottiano rimasto dentro il Prc - La loro lista unica sarebbe un enorme imbroglio, perché nell'Europarlamento si dividerebbero». Ma c'è molto più di questo. Il segretario del Pdci, Oliviero Diliberto, da tempo invoca il ritorno a quell'unità dei comunisti che lui stesso ruppe. E su questo versante trova una buona sponda dentro Rifondazione: «Non siamo un cartello elettorale, ma una proposta politica comune» dice Claudio Grassi, potente responsabile dell'organizzazione del Prc. Che aggiunge: «La lista unitaria è una buona base, in caso di successo, per lavorare su qualcosa di più ampio». E Fosco Giannini, esponente di punta della minoranza dell'Ernesto, e sostenitore di Ferrero non nasconde il suo entusiasmo. «Il superamento del capitalismo non è un'illusione. I partiti comunisti governano almeno un terzo dell'umanità, dalla Cina, a Cuba, all'America latina. Siamo immersi in un surrealismo reazionario. L'unità dei comunisti italiani non è un dogma, ma un'esigenza sociale. E io mi batto per questo».
Ma il primo ostacolo alla riunificazione dei comunisti è il segretario del Prc, Paolo Ferrero. L'aveva detto nel congresso di Chianciano che l'ha eletto e non ha cambiato idea: la prospettiva dell'unità comunista è limitante, perché lascerebbe fuori una fetta importante della sinistra. L'ha ripetuto qualche giorno fa: «Il guaio della sinistra sta nel pensare a forme di unità pre-moderna in cui l'identità è unica». E i suoi assicurano che dentro la lista per le europee non ci saranno solo i comunisti, ma anche i movimenti, una «importante associazione dei consumatori» e anche pezzi di mondo socialista. Ferrero può contare - paradossalmente - proprio sulla ferma contrarietà al progetto comunista di tutta l'area bertinottiana, contro cui ha vinto il congresso. Ma i suoi spingono verso l'abbraccio col Pdci: «Sarà difficile che riescano a impedirlo. No pasaran» assicura Fosco Giannini.

il Riformista 8.3.09
Intervista il segretario del Pdci: «Non basta la buona gestione del capitalismo».
Il sogno di Diliberto «Io voglio rifare il Pci»
di Stefano Cappellini


Linea dura: la svolta a sinistra di Franceschini? «Facile dopo Walter. Sull'assegno ai disoccupati sono stati coglioni». Veltroni e Bertinotti: «Schizofrenici». D'Alema: «Connivente». Vendola: «Fa il Rutelli». Ferrero: «Mi ha fatto arrabbiare. Non mi faccio demoproletarizzare».

Oliviero Diliberto è esausto. Partito da Roma, è appena arrivato in Calabria per una riunione politica. «Ho impiegato sette ore. Questi sono i trasporti in Italia», si lamenta al telefono il segretario del Partito dei comunisti italiani. Impossibile non fargli notare che fino a un anno e mezzo fa il ministro dei Trasporti era Alessandro Bianchi, un tecnico indicato proprio dal Pdci, sebbene poi passato, strada facendo, al Partito democratico. «Ma proprio la sostituzione di Bianchi era un buon motivo per sperare che le cose andassero meglio», replica Diliberto, e forse non solo per amor di battuta. Resta comunque un dubbio: è più sfiancante e frustrante attraversare l'Italia in treno o farlo con lo scopo dichiarato di far rinascere un grande partito comunista italiano? «Io voglio rifare il Pci, è vero. Basta vedere cosa è successo ai diritti dei lavoratori dopo la sua fine: soppressione della scala mobile, abbassamento delle pensioni con introduzione del sistema contributivo, precarizzazione del lavoro. Ora siamo addirittura alla proposta di inibire il diritto allo sciopero. Ma non sono pazzo. So che non è più un obiettivo realistico una forza del 30 per cento. Mi basterebbe ridare vita a un partito comunista di media dimensione, come Rifondazione a metà anni Novanta. Ci manca. Manca ai lavoratori di questo paese».
A giudicare dalle ultime politiche non si direbbe.
Il disastro del 2008 è figlio della proterva scelta, che noi non condividevamo, di non usare la falce e martello nel simbolo. E per sostituirlo con un cosa? Quell'orrido Arcobaleno. Mi faceva e mi fa un tale orrore, quel simbolo, che ormai ho timore di guardare il cielo dopo la pioggia per paura di vederne uno.
I partiti comunisti si sono estinti in tutto il mondo occidentale.
A ben guardare, solo in Francia e Italia. In Portogallo e Grecia godono di buona salute e il presidente di Cipro è un comunista.
Con tutto il rispetto, non sono paesi molto all'avanguardia.
E lo saremmo noi? Prendiamo l'anomalia italiana. Prima era l'esistenza del più grande partito comunista d'occidente. Oggi siamo l'unico paese in cui manca persino un partito socialista.
E non sono collegate le due cose?
Ciò che imputo di più a Occhetto è che, se proprio si doveva sciogliere il Pci, si doveva almeno dire cos'era il nuovo soggetto: un partito socialdemocratico. Io ero in disaccordo, ma avrei capito quella scelta. Avrebbe consentito di fare i conti proprio con Craxi e la questione socialista.
Invece si è scelta la confusione, la melassa da don Milani a Martin Luther King, la perversa coerenza di citare indifferentemente grandi liberali come Einaudi e Antonio Gramsci, ma avendo cura di presentarlo come un bizzarro eretico e non come quel comunista a tutto tondo che era.
Dovrebbe essere d'accordo con Bertinotti allora, che sta provando a far nascere un partito socialista riformista.
Alleandosi con chi? Coi socialisti filoatlantici e favorevoli alla legge Biagi? Auguri. Mi pare un approdo piuttosto nebuloso. Questa rincorsa a una Bolognina con vent'anni di ritardo è una tragedia che si ripete in farsa. Dopo la caduta del muro di Berlino c'era perlomeno una urgenza epocale. Ma adesso perché? Ci siamo arrabattati per diciotto anni, dopo la svolta di Occhetto, per scoprire che qualcuno non ci credeva nemmeno.
Bertinotti non ci credeva?
Passare dal movimentismo più spinto alla presidenza alla Camera è parso un salto mortale carpiato, una mutazione genetica.
Anche Pietro Ingrao fu presidente a Montecitorio da comunista.
Ma non poteva fare il ministro. Bertinotti avrebbe potuto chiedere il Lavoro. Non sarebbe stato meglio? E poi parlare di «indicibilità del comunismo», lui, per dodici anni segretario del Prc. Questa è schizofrenia.
Ma se l'esigenza è un forte partito di sinistra, che ragione c'è di continuare a invocare il comunismo nel nome della ditta?
Serve un orizzonte, un punto di vista radicalmente critico dell'esistente. Non basta una buona gestione del capitalismo.
E l'orizzonte cosa sarebbe? L'abolizione della proprietà privata?
Casomai, l'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione.
A quello sta già pensando la crisi globale.
Eh no, non si può parlare delle ricette anti-crisi senza ricordare che è il mercato capitalistico che ha prodotto questo disastro. Se non ci fosse stato quel sistema non ci sarebbero interi paesi sul lastrico. Ma ha visto cosa sta succedendo nei paesi dell'est Europa?
Non che quarant'anni di socialismo reale li avessero lasciati molto meglio.
Sul lastrico ci sono finiti dopo la caduta del socialismo, con un sistema allucinante di privatizzazione. In Ungheria a causa della finanziarizzazione sfrenata sta crollando lo Stato. Dico, lo Stato. Oggi le ragioni del comunismo sono ancora più forti.
Anche in Italia.
Certo. A ben vedere cos'era il Pci? Era un moderno partito del lavoro che, non rinnegando una prospettiva di cambio radicale della società, però faceva politica nelle condizioni date.
In attesa della rivoluzione.
Mi accontenterei della piena attuazione dell'articolo 3 della Costituzione, l'impegno a rimuovere gli ostacoli che impediscono una reale uguaglianza tra le persone. Mi va bene anche l'iniziativa privata in economia, purché sia subordinata a fini di utilità generale.
Adesso c'è parecchio traffico a sinistra. Con la proposta dell'assegno ai disoccupati ora vi fa concorrenza anche il Pd di Franceschini.
Rispetto a Veltroni, svoltare a sinistra è facilissimo. Quelli del Pd dovrebbero però avere coraggio e dire «siamo stati coglioni». Perché quando lo abbiamo proposto noi, l'assegno, hanno detto no.
Salva qualcosa della stagione veltroniana?
Veltroni ha sbagliato tutto. L'analisi del paese. Il sistema di alleanze. Criticava la litigiosità dell'Unione e si è alleato col re degli attaccabrighe, Di Pietro, regalandogli una formidabile rendita di posizione. E poi è un altro schizofrenico. Un giorno voleva fare le riforme con Berlusconi, il giorno dopo chiamava Scalfaro in piazza a dire che Berlusconi è un dittatore.
Pure lei tifa D'Alema per una svolta a sinistra del Pd?
L'impressione è che sia stato connivente rispetto a tutte le scelte di Veltroni. Sono amico di D'Alema, ne ho stima. Ma non ne ha azzeccate molte ultimamente.
A proposito di litigi, lei e Ferrero non avete ancora ufficializzato la lista unitaria per le europee e già siete ai ferri corti.
L'ultima intervista di Ferrero al Corriere mi ha fatto molto arrabbiare, perché dava un'idea satellitare di noi rispetto a Rifondazione. Un'idea che non si giustifica mai, perché il rispetto reciproco è fondamentale, ma tantomeno ora, che loro hanno il tre e noi il due.
L'alleanza è in forse?
No, è grottesco che continuino a esserci due partiti comunisti. Ma non mi faccio nemmeno demoproletarizzare.
E delle imprese di Vendola cosa pensa?
Vendola, avendo aperto ufficialmente all'Udc, sta sposando una linea incomprensibile per un uomo di sinistra. Lo lasci fare a Rutelli. Così non ci capisce più nessuno. La cosa peggiore da fare all'opposizione è prefigurare alleanze che fanno incazzare ancora di più il nostro popolo.

il Riformista 8.3.09
L'Unità, ragazzi con la pistola
di Piero Sansonetti


AMARCORD. Ventinove anni di vita, da Mao a Prodi. L'ingresso nel 1975. Gente dura, lo stile brusco del giornale comunista, «nessuna confidenza tra vecchi e giovani». Il «processo» al filocinese Jacoviello. Le sfuriata di Baduel. Quella notte che Reichlin mi chiese «chi è Bob Marley?». Chiaromonte, D'Alema, Caldarola, ogni volta un direttore diverso «a proteggerci». L'attacco a Togliatti negli anni 80 con lo storico Cardia, «il primo in tutta la storia del giornale». Il crollo del Muro a Berlino e in prima pagina l'articolo «C'era una volta il comunismo». La «strage di Stato» nel golfo di Taranto, con il Pds al governo.

Era una bella giornata di aprile del 1975. Il mio primo giorno di lavoro a l'Unità. Avevo 23 anni, venivo dalla sezione universitaria del Pci, non conoscevo nessuno dei giornalisti della cronaca di Roma. Il capocronista era Giulio Borrelli, quello che oggi fa il corrispondente del Tg1 da New York. Un tipo tosto, serissimo, non sorrideva mai e stava al giornale 14 ore al giorno. Stakanovista comunista. Quella mattina, quando arrivai in redazione, c'era solo lui. Mi disse di sedermi ad una certa scrivania e di cominciare a leggere i giornali. Ero un po' intimidito. Dopo una mezz'ora arrivò il mio primo collega: era praticamente un adolescente, aveva 20 anni, andò al suo tavolo e non mi degnò neanche di uno sguardo. Era lo stile Unità: brusco, niente convenevoli, gente dura.
L'adolescente si sedette, aprì la giacca, sfilò un rivoltella da una fondina che teneva sotto l'ascella, fece scattare il tamburo e scivolare i proiettili su una mano. Poi prese revolver e proiettili e li chiuse a chiave nel cassetto. Mi agitai un po'. Dopo una manciata di minuti arrivò un secondo giovane, un po' meno bambino, più caciarone, più gentile. Addirittura mi salutò e si presentò. Poi aprì il giaccone e sfilò la pistola dalla cintura dei pantaloni. La mise direttamente nel cassetto, senza estrarre il caricatore. Magari era scarica. Alle tre del pomeriggio arrivò il vecchio cronista, voce rauca e sigaretta in bocca, miope, 45 anni, uomo di mondo. Era il numero 1 della giudiziaria. Lui di pistole ne aveva due: una sotto la giacca e una alla cintura. Una a tamburo e una a caricatore. Qualche settimana più tardi mi spiegò che la rivoltella serviva per le azioni veloci, mentre la pistola col caricatore andava usata per il tiro di precisione. Per fortuna di tutti, il cronista esperto, l'adolescente e il giovane gioviale, nella loro vita non si trovarono mai a dover compiere azioni né veloci né di precisione. Insomma, capite bene che fu traumatico il mio arrivo al giornale. Devo confessare che dopo il primo il giorno avevo quasi deciso di rinunciare, di cambiar mestiere. Non mi sembravano i miei tipi, questi giornalisti pistoleri. Poi invece rimasi lì per un po', per trent'anni.
Nel settembre del 1976 morì Mao Tse Tung. Allora il Pci era decisamente filosovietico (nonostante i dissensi espressi in occasione dell'invasione della Cecoslovacchia nel 1968) e decisamente anticinese. È difficile spiegarlo a un giovane di oggi, ma in quegli anni essere filocinesi non significava necessariamente essere stalinisti, anzi era una specie di distintivo sovversivo e libertario. Per capirci, filocinesi erano quelli del manifesto, che avevano rotto col Pci in polemica con l'Urss e col centralismo democratico. Due giorni dopo la morte di Mao, il più prestigioso dei giornalisti del'Unità, Alberto Jacoviello, rilasciò una intervista a Le Monde, e nell'intervista esaltava Mao e criticava il Pci. La cellula del Pci de l'Unità (cioè tutti i giornalisti de l'Unità, perché allora l'iscrizione al partito era obbligatoria) decise di processare Jacoviello e di candidarlo all'espulsione dal Pci (e quindi al licenziamento). Comportamento antipartito era l'accusa. Gravissima. Il processo, al quale partecipammo tutti, durò due giorni. L'intero gruppo dirigente del giornale (tranne il direttore, che era Luca Pavolini) si pronunciò per l'espulsione. Tutti gli interventi si pronunciarono per l'espulsione. Jacoviello si difese da solo, prendendo la parola quattro volte. A suo favore si levò solo una voce - una sola: di numero - quella di Ugo Baduel. Era un signore sui 45 anni, questo Baduel, elegantissimo, colto, bella scrittura e bell'eloquio. Era un po' emarginato, perché era stato ingraiano e questo non era un merito. Però in quel periodo era diventato il resocontista di Berlinguer, incarico che gli dava molta autorevolezza. Io non conoscevo bene Baduel. Ci salutavamo appena. Allora a l'Unità non c'era molto dialogo tra i vecchi e i giovani (e un quarantacinquenne all'epoca era considerato vecchio).
Non c'era confidenza. Baduel fece un discorso bello e appassionato, difese Jacoviello, difese il principio della libertà di opinione, si scagliò contro la pratica dei processi e delle espulsioni. Mi emozionai ascoltandolo. Quando l'assemblea si concluse mi avvicinai a lui e gli feci i complimenti, gli dissi che ero dalla parte sua. Baduel mi aggredì: mi disse, strillando, che se a 25 anni non avevo il coraggio di intervenire in assemblea, di dichiarare il mio pensiero, di espormi e di combattere, allora questo coraggio non mi sarebbe mai più venuto e sarei diventato un soldatino del partito. È stata la peggior sgridata che mai abbia ricevuto nella vita. Non avevo nessun argomento per rispondere, per difendermi. Da quel giorno parlai a tutte le assemblee, tutte.
Con Baduel diventammo amici. Il processo a Jacoviello si concluse con un risultato clamoroso: i giovani, che non avevano parlato, votarono. Jacoviello fu assolto, il gruppo dirigente del giornale battuto inaspettatamente, era il primo segnale di un ricambio generazionale. Che iniziò l'anno dopo, quando Alfredo Reichlin fu nominato direttore.
Reichlin fu un gran direttore. Innovativo. L'Unità cambiò moltissimo negli anni della sua direzione. Promosse i giovani, difese l'autonomia, si misurò con la modernità. Vi racconto un episodio nel quale non fa una gran figura, ma è un episodio vero. È del maggio del 1981. Reichlin mi aveva affidato un incarico importante: il caporedattore di notte. In sostanza, dopo le 10 di sera avevo in mano il giornale. E durante la notte, il giornale, a quel'epoca, si cambiava molto. Anche fino alle tre o le quattro di mattina.
Quella notte arrivò la notizia della morte di Bob Marley. A me venne una idea: di fare un titolo molto forte in prima pagina, al centro della prima pagina. Oggi sarebbe normale, allora la prima pagina era sacra, parlava solo di politica. Ma Reichlin mi aveva insegnato questo: per fare un giornale bisogna essere un po' imprevedibili. Non me la sentii di prendere la decisione senza chiedere il permesso. Telefonai a Reichlin e gli dissi che era morto Marley e che io volevo mettere la notizia in prima. Lui taceva, non capiva bene. Mi chiese chi era Marley. Cercai di spiegarglielo, ma non riuscivo a convincerlo di quanto fosse importante. A un certo punto gli chiesi se conosceva le Renault 4, automobile all'epoca diffusissima tra i giovani (e molto famosa per essere stata l'auto nella quale fu abbandonato il corpo di Aldo Moro). Mi disse di si, «ovvio che la conosco, non vivo mica sulla luna..». Gli chiesi se avesse mai visto sul vetro posteriore delle Renault 4 una decalcomania col volto di quel signore, nero, con le treccine e con un microfono in mano. Per Reichlin quell'immagine fu un lampo: «È quello è Bob Marley? Ma certo che va in prima, mettilo bene, fagli un titolo forte!».
Reichlin fu il primo direttore de l'Unità che aveva chiara un'idea: che l'Unità doveva essere un giornale, non poteva essere solo il giornale di partito, sennò moriva. Si misurò con la concorrenza fortissima del manifesto e di Repubblica che stava decollando. A me insegnò quasi tutto del mestiere. Mi ricordo quando leggeva un mio pezzo e poi me lo ridava, con l'aria schifata, e mi diceva di riscriverlo. Mi diceva: «È perfetto, c'è tutto, non manca una notizia». E allora - chiedevo- perché devo riscriverlo? «Manca l'anima- mi rispondeva - manca l'anima. Mettici l'anima e riportamelo». E io chiedevo: quando si capisce che c'è l'anima? «Quando lo leggi e ci senti il ron ron di Stendhal». Alla fine degli anni 80 il direttore del giornale era Chiaromonte.
Pubblicammo un articolo dello storico Umberto Cardia, nel quale si avanzava il sospetto che Palmiro Togliatti non avesse fatto nulla per salvare Gramsci dal carcere. Era il primo attacco a Togliatti mai apparso su l'Unità in tutta la storia de l'Unità. Io ero caporedattore, e fui il principale responsabile di quella "mascalzonata". Chiaromonte quel giorno non c'era e non ne sapeva niente. Successe il finimondo. Al partito erano furibondi. Foa, che era il vicederettore, ed io fummo convocati a Botteghe Oscure e fummo solennemente processati dalla segreteria del Pci. C'erano Natta, Pajetta, Napolitano, Petruccioli, Occhetto e vari altri. Pajetta era il più arrabbiato. Ma tutto il partito era furioso con noi: era inaudito, allora, criticare Togliatti.
Chiaromonte ci difese. Di malavoglia, perché era più togliattiano di tutti, ma ci difese. E la spuntò. Non fu preso nessun provvedimento, fu stabilito che noi avevamo fatto una scemata ma che l'autonomia del giornale non si tocca. E fummo lasciati al nostro posto. Fu un gran successo. Tanto che l'anno dopo io e Foa ripetemmo l'esperimento. Il 20 agosto del 1989, cioè pochi mesi prima della caduta del muro di Berlino, pubblicammo in prima pagina un articolo di Biagio De Giovani intitolato così: «C'erano una volta Togliatti e il comunismo…». Il direttore del giornale era D'Alema, ma il 20 agosto era in vacanza. Successe un nuovo finimondo. Mi ricordo che fra i nostri più accaniti accusatori c'erano i giovani dirigenti emergenti del Pci. Ricordo le requisitorie di tanti di loro, di Walter, per esempio. Ci accusarono di essere anticomunisti, narcisisti, nuovisti e cose così. Anche quella volta il direttore (D'Alema) ci difese. Però non so come sarebbe finita se a novembre non fosse caduto il muro. Subito dopo la caduta del muro tutti quelli che ci avevano accusati di anticomunismo iniziarono a giurare che loro non erano mai stati comunisti. Vabbè…
Il 28 marzo del 1997 una piccola nave da guerra italiana, la Sibilla, speronò, nel canale di Otranto, un barcone stracarico di albanesi in fuga dalla guerra civile. Lo fece colare a picco. Non si sa quanti morti ci furono, perché il mare in quel punto è molto fondo. Furono ripescati cento cadaveri, morirono annegati moltissimi bambini. Il governo in carica era di centrosinistra, il premier era Prodi, il Pds (partito editore del giornale) era il partito guida el governo. Il direttore dell'Unità era Peppino Caldarola, io ero il suo vice.
Decidemmo di attaccare frontalmente il governo amico. Chiedemmo l'editoriale ad Erri De Luca. Lo titolammo così: «È stata una strage di Stato». Non ci cacciarono neanche quella volta.

l’Unità 8.3.09
La sonda viaggerà per quattro anni fra le costellazioni del Cigno e della Lira
Esplorerà centinaia di pianetie aiuterà gli scienziati a capire se ospitano forme di vita
Keplero alla ricerca di un’altra Terra. Lanciato il telescopio della Nasa
di Gabriel Bertinetto


Un veicolo spaziale ha lasciato ieri la Terra in cerca di indizi sull’esistenza di pianeti che ospitino forme di vita.
L’esplorazione è affidata ad un potente telescopio chiamato Keplero.

Caccia al pianeta. Una sonda gira per lo spazio con un compito ambizioso, che il coordinatore della missione William Borucki riassume scherzosamente così: «Speriamo di trovare la casa dove potrebbe vivere Et». Et è il minuscolo extra-terrestre protagonista di un famoso film di fantascienza.
Il viaggio è iniziato ieri notte, quando il veicolo che porterà in giro fra le stelle il potente telescopio spaziale chiamato Keplero, ha lasciato la base di Cape Canaveral, in Florida.
Il razzo propulsore Delta II l’ha spinto verso l’alto per 62 minuti. Poi, giunto a oltre 721 chilometri dalla superficie terrestre, il vettore si è staccato, e Keplero ha proseguito la corsa da solo. Se tutto andrà bene si sposterà fra le stelle delle costellazioni del Cigno e della Lira sono al 2013.
Censimento Celeste
«Keplero farà un censimento planetario -ha spiegato lo scienziato della Nasa, Jon Morse-. Le sue scoperte potrebbero cambiare in modo fondamentale il modo in cui l’umanità vede il suo posto nell’universo». Il telescopio esaminerà da distanza relativamente ravvicinata diverse centinaia di pianeti.
Disponendo di strumenti sofisticati che possono captare le variazioni luminose provocate dal passaggio di un pianeta, Keplero invierà agli scienziati della Nasa informazioni utili a stimarne le dimensioni, la durata dell’orbita che esso descrive intorno alla stella, la temperatura e altri dati ancora. Grazie a Keplero gli studiosi raccoglieranno indizi sulla potenziale esistenza di forme di vita in quei pianeti.
Una lente gigante
La Nasa prevede che nel corso dei quattro anni della missione il telescopio inquadri centomila stelle, ma concentri poi la ricerca su un numero molto più limitato e sui pianeti che ad esse girano attorno. Il programma vuole che siano catalogati una cinquantina di pianeti grandi più o meno come il nostro, alcune centinaia delle dimensioni di Giove, e qualche decina simili a Mercurio.
Keplero ha una lente di quasi un metro di diametro. Il suo lavoro sarà facilitato dal fatto di operare in condizioni di visibilità molto migliori rispetto ai telescopi sistemati a terra, perché non avrà davanti a sé l’ostacolo delle nuvole e della luce solare.
«Keplero è un elemento chiave nel lavoro della Nasa per scoprire pianeti con ambienti di tipo terrestre», ha aggiunto Morse. «Finora -gli ha fatto eco Ed Weiler, direttore delle missioni scientifiche della Nasa- pur avendo trovato più di trecento pianeti fuori dal sistema solare, non ne abbiamo scoperto nessuno che sembri simile alla Terra. Non si tratta dunque soltanto di una missione scientifica, ma di rispondere ad un interrogativo umano fondamentale».
Via lattea
Le costellazioni del Cigno e della Lira, fra cui si muoverà Keplero, si trovano nella zona della via Lattea. Le stelle che ne fanno parte sono in totale quattro milioni, e per composizione ed età hanno caratteristiche che le apparentano al Sole. Per questo l’ipotesi che in quella parte dell’universo galleggino pianeti simili alla Terra è legittima, ed anzi addirittura «probabile» per alcuni. «Penso che resteremmo assolutamente sbalorditi se Keplero non trovasse alcun pianeta simile al nostro -dice Alan Boss dell’istituto di studi «Carnegie» di Washington-. Credo che troveremo anzi che il numero di Terre è piuttosto grande».
La missione costerà in tutto quasi seicento milioni di dollari. La durata è stata fissata in quattro anni, anche perché ogni pianeta passerà davanti al telescopio non più di una volta all’anno, e per raccogliere dati attendibili si ritiene siano necessari almeno tre passaggi.

l’Unità 8.3.09
Con Kubrick alla ricerca dell’ombra
I misteri di un maestro
di Alberto Crespi


Gli inizi. Nato nel Bronx, New York, nel ‘28 in una famiglia ebrea, dopo anni difficili a scuola è apprezzato fotoreporter. Nel ‘55 firma «Il bacio dell’assassinio», nel ‘56 «Orizzonti di gloria» apre il suo filone sulla guerra.
Atomici spazi. È del ‘63 «Stranamore», vero capolavoro di satira e antimilitarismo su bomba atomica & affini. Segue una pietra miliare: «2001 Odissea nello spazio». Poi, nel ‘71, «Arancia meccanica». Caposaldi della cultura occidentale.
Capolavori finali. Rilegge Stephen King in un magistrale «Shining». Poi «Full Metal Jacket», sul Vietnam e l’assurdità della guerra e del militarimo. Il conturbante «Eyes Wide Shut» è il suo testamento.

Il 7 marzo 1999 molti pensarono a uno scherzo. Impossibile che Stanley Kubrick, l’autore di 2001 Odissea nello spazio, l’uomo che ci aveva portati nel XXI secolo, morisse prima di quella data fatidica. Invece era vero. Kubrick se n’era andato all’improvviso, senza aver ultimato il missaggio e la colonna sonora di Eyes Wide Shut. Era nato il 26 luglio del 1928, quindi aveva 70 anni compiuti. Oggi ne avrebbe 80. Visti i ritmi produttivi dagli anni ‘70 in poi – Barry Lyndon nel 1975, Shining nel 1980, Full Metal Jacket nel 1987, il citato Eyes Wide Shut nel 1999 – forse, in questo decennio trascorso dalla sua morte, avrebbe girato un altro film. Ma non è detto.
Pochi mesi dopo, nel luglio di quello stesso 1999, la Warner invitò i critici europei a vedere Eyes Wide Shut a Londra. La notte prima, non chiudemmo occhio. Inutile negarlo: emozione. Andare a Londra per il «Kubrick postumo», scriverne a caldo: ansia da prestazione critica. Prima della proiezione, che avveniva in un cinema di Leicester Square, ci imbottimmo di caffè nel mitico Caffè Italia di Soho. Ricordiamo una sola frase di quel pezzo: «Ne riparliamo fra dieci anni». Eyes Wide Shut ci sembrò un oggetto misterioso, un film oggettivamente meno «eclatante» di 2001 – che resta una delle 4-5 opere d’arte più sconvolgenti del ‘900 –, meno «bello» di Barry Lyndon, meno «perturbante» di Arancia meccanica. Ma certo aveva un grumo emozionale indicibile, che andava oltre i volti e i corpi di Tom Cruise e di Nicole Kidman, oltre la gelosia, oltre la guerra dei sessi. Del resto, ricordavamo bene le riserve critiche di fronte a quelli che oggi sono considerati capolavori indiscussi: Arancia meccanica «un’incitazione alla violenza», Barry Lyndon «una galleria di quadri», Shining «un horror con pretese intellettuali», e così via. Davvero, meglio riparlarne fra dieci anni.
I dieci anni scadono a luglio. Ma non sono passati invano. Anche grazie alle ottime riedizioni in dvd, i film di Kubrick sono sempre fra noi. È bello rivederli e trovarli imperfetti, come se la leggendaria ossessione del controllo da parte del loro autore si divertisse, ogni tanto, a minarsi da sé. Quell’errore di continuità nel bicchiere di vino in Arancia meccanica (la scena in cui lo scrittore offre il pranzo ad Alex prima di torturarlo), la troupe riflessa in uno specchio nel bagno di Eyes Wide Shut (nei dvd non c’è, l’hanno cancellata digitalmente!), l’ombra della Steadicam in alcune inquadrature di Shining, l’anacronistica «invenzione del Belgio» in una battuta di Barry Lyndon (il film si svolge nel ‘700, il Belgio come stato nasce nel 1830). Sono piccole sciocchezze che rendono Kubrick umano, e ci spingono a dire oggi una cosa che un tempo sarebbe suonata blasfema: i suoi film parlano di cose semplici, di comportamenti basici, di bisogni primari. La guerra come sopraffazione e lotta di classe (Orizzonti di gloria); l’istinto di sopravvivenza (Full Metal Jacket, Arancia meccanica); il sesso come dominio e ossessione (Lolita, Eyes Wide Shut); l’arrivismo sociale, la sete di ricchezza e potere (Barry Lyndon); l’impossibilità di controllare le proprie pulsioni (Shining, di nuovo Arancia meccanica e Eyes Wide Shut). Anche il suo film più enigmatico, 2001, racconta un archetipo: l’uomo evolve dalla scimmia quando impara ad uccidere il proprio simile, a conquistare il territorio, ad esercitare violenza e potere; l’osso (l’arma primigenia) volteggia nel cielo, diventa un’astronave; migliaia di anni dopo, le scimmie evolute ormai capaci di volare nello spazio affrontano il mistero della propria origine (il monolito). È molto semplice.
CON STANLEY
È una fiaba. O meglio, come si diceva: è un archetipo. In questi giorni esce finalmente in Italia un libro del 2000, Con Kubrick, scritto dal grande giornalista Michael Herr, autore di un libro decisivo sul Vietnam (Dispatches) e co-sceneggiatore di Full Metal Jacket. Il regista lo conobbe nel 1980 e, come faceva con tutti, cominciò a sondarlo, a usarlo come fonte di informazioni, a vedere se era «arruolabile». «Mi chiamò due sere più tardi per chiedermi se avevo mai letto qualcosa di Jung. Sì. Avevo presente il concetto di Ombra, il nostro lato oscuro e segreto? Gli assicurai di sì. Passammo una mezz’ora a parlare del concetto di Ombra, e di quanto lui volesse a tutti i costi metterlo nel suo film di guerra».
Kubrick non c’entrava nulla con Freud (la psicoanalisi, l’Edipo? roba vecchia!) ma aveva molto a che fare con Jung. Senza mai uscire di casa, lui l’Ombra l’aveva frequentata e i suoi film accompagnano nell’Ombra anche noi spettatori. Per questo sono immortali. Per questo ne riparleremo fra altri dieci anni. Per la cronaca Jung nacque nel 1875, il 26 luglio – come Kubrick. Full Metal Jacket si chiude con la canzone dei Rolling Stones Paint It Black e Mick Jagger è nato nel 1943, il 26 luglio. Mah!

Corriere della Sera 8.3.09
Lo studioso dell'antichità affronta il rapporto tra politica, consenso e poteri forti. Con alcune conclusioni sorprendenti
Il fascino del buon tiranno
La tesi del nuovo saggio di Luciano Canfora. Ma le democrazie sanno correggersi
di Sergio Romano


Il ragionamento è questo: possono esistere dittatori positivi che hanno brutalmente guidato i loro Paesi verso straordinari progressi civili

Il lettore si è probabilmente accorto che Luciano Canfora, come certi personaggi delle commedie di Luigi Pirandello, è la somma di due personalità alquanto diverse. Esiste il Canfora n. 1, studioso dell'antichità classica, storico di Cesare e di Tucidide, autore di una fortunata Storia della letteratura greca,
protagonista di un memorabile duello filologico sull'autenticità del papiro di Artemidoro. Ed esiste il Canfora n. 2, comunista impenitente, estimatore critico di Stalin, autore di saggi e pamphlet sull'attualità politica e su alcuni snodi cruciali della storia del Novecento.
Fra questi due volti di una stessa persona esiste tuttavia un rapporto. Canfora è convinto che l'antichità greca e romana contenga tutti gli archetipi della politica europea e fornisca agli osservatori dell'attualità gli strumenti necessari a comprendere ciò che accade oggi. Nel suo ultimo libro ( La natura del potere, appena edito da Laterza) questo corto circuito fra passato e presente concerne soprattutto il tiranno, vale a dire l'uomo politico che ha maggiormente rappresentato, nella storia del pensiero liberale, democratico e repubblicano, la personificazione del male. Canfora parla dei tiranni greci, naturalmente, ma il suo pensiero attraversa rapidamente i secoli per includere nel suo radar i «tiranni» dell'età moderna e contemporanea, da Napoleone a Hitler, da Mussolini a Stalin. Tutti egualmente pericolosi e detestabili? Questo è il punto del libro di Canfora in cui la materia diventa scottante e il suo giudizio più controverso. Proverò a riassumere la sua tesi con le mie parole e qualche inevitabile deformazione personale.
Attenzione, sembra dire Canfora. Prima di condannare la tirannia, chiediamoci piuttosto se la democrazia abbia il diritto di rappresentare se stessa come un sistema libero e virtuoso. Ogni Stato è fondato sulla forza ed è, come disse Gramsci dopo la morte di Lenin, «dittatura». Nelle democrazie esiste un palcoscenico per gli sciocchi, dove vanno in scena le pantomime della libertà e i riflettori sono tanto più accecanti quanto maggiore è l'ombra di cui i «poteri forti» hanno bisogno per tirare i fili delle loro marionette. Gli elettori partecipano a un gioco in cui il pendolo oscilla fra due varianti di una stessa finzione e in cui lo scopo inconfessato di tanta suggestiva mobilitazione civile è quello di «cambiare per non cambiare». È tipico, osserva Canfora, il caso degli Stati Uniti dove il candidato alla presidenza sceglie un vicepresidente di tendenze politiche diverse dalle sue, buono per acchiappare i voti che potrebbero sfuggirgli. Lo stesso potrebbe dirsi naturalmente delle coalizioni che vengono allestite, dopo la liturgia delle libere elezioni, nella maggior parte delle democrazie parlamentari europee.
Il vero potere è altrove ed è nelle mani di piccole minoranze motivate da particolari interessi. Come osserva Ugo Spirito, allievo di Giovanni Gentile, in un libro intitolato Critica della democrazia, «esistono tanti tipi di regimi democratici quanti sono i tipi di minoranze capaci di guidare le maggioranze»: democrazie plutocratiche, democrazie militari, democrazie sindacalistiche eccetera. Canfora è d'accordo e aggiunge alla lista un tipo, inventato in anni recenti nel laboratorio italiano. È la democrazia in cui il potere si propone di trasformare il cittadino in consumatore, di creare «il suddito consumatore-arrampicatore frustrato, invano proteso a desiderare e a mimare modelli di vita inarrivabili che finiscono col costituire la totalità delle sue aspirazioni». Se ho ben compreso il pensiero di Canfora, l'Italia presenterebbe quindi la caratteristica di avere abolito la distinzione fra potere visibile e potere occulto. Silvio Berlusconi sarebbe contemporaneamente presidente del Consiglio dei ministri e del «consiglio d'amministrazione» dove si decidono, dietro le quinte, i destini del Paese.
Di fronte a queste pseudo democrazie i tiranni possono presentare qualche vantaggio. Non sono, come ricorda Canfora, personaggi isolati e mostruosi proiettati al vertice dello Stato soltanto da una irrefrenabile energia individuale. Sono l'espressione di una élite che li circonda, li sostiene, ma può anche usarli e gettarli per collocare al loro posto un nuovo «ammini-stratore delegato». Il tirannicidio, scrive Canfora, è inutile, forse controproducente. Se il tiranno è rappresentativo di interessi importanti, la sua eliminazione fisica può addirittura provocare il rafforzamento del sistema. Possono esistere quindi — è questa, mi sembra, la tesi centrale del libro di Canfora — tiranni positivi che hanno brutalmente guidato i loro Paesi verso straordinari progressi civili. L'esempio preferito dall'autore è Stalin sino alla fine della Seconda guerra mondiale. I guai cominciarono dopo, quando Stalin divenne «anacronistico» e i suoi successori non seppero adattare il sistema a nuove esigenze e circostanze.
Come sempre, gli argomenti di Canfora sono seducenti. Anch'io vedo i vizi e le finzioni della democrazia parlamentare. Anch'io credo che un sistema autoritario (è il caso della Cina) possa essere in alcuni momenti più benefico, efficace e giusto di una democrazia caotica. Ma non credo, a differenza di Canfora, nell'onnipotenza dei «poteri forti», soprattutto quando rappresentano i capitali finanziari. Questi poteri sono una combinazione di interessi contraddittori e molto spesso incapaci di guardare al di là del loro naso.
Auguro molti lettori a questo libro e in particolare una seconda edizione, a cui Canfora dovrà aggiungere un capitolo sulla bancarotta morale e civile del capitalismo finanziario americano. Potrebbe giungere alla conclusione che esiste fra le democrazie e le tirannie una sostanziale differenza. Le democrazie riescono qualche volta a correggere i loro errori, le tirannie quasi mai.

Repubblica 1.3.09
Troppe bugie in questa storia
Maria Marion faceva parte dell´équipe che ha assistito la donna nei suoi ultimi giorni
"Ho fatto il mio dovere di infermiera Eluana da sola neanche deglutiva"
Non mi stupisco di essere sotto inchiesta, eppure sono certa di non avere commesso reati. E su questa vicenda ho sentito fin troppe bugie
di Piero Colaprico


MILANO - Signora Maria Marion, lei è una delle infermiere sotto inchiesta per il caso Englaro ed è anche consigliere comunale del Pd a Udine. Immaginava di dover sottostare a un interrogatorio?
«Sì, come si fa a dire di no, che non lo sapevo? Ho accettato dall´inizio ogni conseguenza, non credo di aver commesso reati, anzi sono convinta di aver fatto il mio dovere di cittadina e di infermiera».
Qualcuno pensa di no, pensa che lei abbia concorso a un´eutanasia.
«Un termine che rifiuto, anzi per me nei confronti di questa ragazza c´è stato un accanimento terapeutico prima. I medici dell´istituto Beato Talamone di Lecco avrebbero potuto lasciarla andare da tempo».
Lei dice?
«Sarebbe ipocrisia non dirlo e io non sono una persona ipocrita. Si lasciano andare le persone in fase terminale a casa loro, negli ospedali, nelle corsie, nelle case di riposo. Lo sanno tutti, non togli niente. Con Eluana invece siamo arrivati a togliere l´alimentazione, ma di norma - e sfido chiunque dei miei colleghi a dire il contrario - ci si accontenta di evitare l´interventismo, credo invece che questa persona abbia subito vari interventi di recupero negli anni».
Dorina Bianchi senatrice del Pd ha detto a "Repubblica" che Eluana è stata curata e non solo alimentata, ha avuto la polmonite e se avessero evitato l´accanimento se ne sarebbe andata, lei quindi è d´accordo con la senatrice?
«Eh guardi, se una persona in stato vegetativo ha la bronchite, sì che deve essere lasciata andare. Quello che è successo a Eluana sarà stabilito dall´autopsia, ma non mi faccia dire di più, c´è un impegno tra tutti e c´è il rispetto della magistratura».
Solo una precisazione. Siccome lei è stata nella stanza di Eluana, la cartella clinica parlava di impossibilità alla deglutizione. Altri invece sostenevano il contrario. Lei che c´era che dice?
«Per me c´era uno stato di grande compromissione dei polmoni, ab ingestis cronica, e cioè i polmoni erano intasati da salivazione, lei non deglutiva. Il sondino chissà quante volte sarà stato sfilato e rimesso. Ma per favore, non mi faccia queste domande. Non posso parlare fino a che tutto sarà finito».
Non sono mancate polemiche però. Secondo Silvio Berlusconi Eluana poteva restare incinta. Quando l´ha sentito che cosa ha pensato?
«Ero là, ho provato una rabbia enorme. Era insultare quella persona. Insultare il padre che con dignità ha condotto quella battaglia, mancare di rispetto a chi versa in quelle gravi situazioni. Mi pare che i francesi abbiano dato al nostro presidente del Consiglio il primo premio per volgarità. È stato detto che Eluana sorrideva, che comunicava, ma chi conosce la sua storia - e io l´ho conosciuta prima sui giornali e poi di persona - sa che non è proprio così».
Ci sono casi simili a Eluana?
«Mi pare di no, è un caso che fa storia, non ce ne sono uguali in Europa, con questa ripercussione su giornali e tivù. Anzi, questo è il motivo per cui sono stata titubante nel far parte dello staff di volontari dell´associazione "Per Eluana"».
Perché?
«Troppo clamore, troppa confusione. Poi mi sono detta che non potevo non farlo, a livello personale e professionale. Altro argomento era il mio impegno politico, sono consigliere Pd, potevo provocare qualche imbarazzo in Comune. Ma poi ha prevalso la mia coscienza».
Insomma, secondo lei era giusto fare quello che ha fatto.
«Ripeto, c´è uno spazio nella mia coscienza che diceva "vai avanti". La stessa cosa è accaduta ad altri che hanno dato la disponibilità al primario Amato De Monte. Noi infermieri, diversamente da tutti gli altri, abbiamo taciuto fino a poche ore fa, poi abbiamo sentito un po´ il dovere di dire la nostra. Avrei preferito non farlo, però non possiamo far credere che abbiamo qualcosa da nascondere, anzi io voglio dire a tutti di essere serenissima, ho 55 anni, so che cosa faccio».
Ma all´inizio, quando lei poteva dire sì o no, perché ha detto sì?
«Ho pensato a un insegnamento dei miei genitori, friulani, gente tosta, come papà Beppino, un po´ lo riconosco. "Se sei nella possibilità di fare una cosa falla" e io l´ho fatta, senza se e senza ma».