giovedì 12 marzo 2009

Repubblica 12.3.09
Le spallate alla Costituzione
di Stefano Rodotà


Che effetto fa vivere in un paese dove il presidente del Consiglio dichiara di voler chiudere il Parlamento? Non lasciamoci rassicurare da chi dice che questa proposta «cadrà nel vuoto». Non banalizziamo, non derubrichiamo a battuta occasionale un´affermazione così pesante secondo un costume invalso in questi anni e che ha portato al degrado del linguaggio e della politica. Le parole aggressive della Lega sono state un potente veicolo di promozione degli spiriti razzisti. Lo stillicidio delle dichiarazioni di Berlusconi contribuisce a distruggere gli anticorpi che consentono ad un sistema di rimanere democratico. Soprattutto, non isoliamo le ultime affermazioni del presidente del Consiglio da un contesto ormai caratterizzato da un quotidiano attacco alla Costituzione.
Si stanno mettendo le mani sulla prima parte della Costituzione, proprio quella che, a parole, si dice di voler tenere fuori da ogni proposito di riforma. La legge all´esame del Senato sul testamento biologico viola la libertà personale e l´autodeterminazione delle persone. Si mettono in discussione la libertà d´espressione e il diritto dei cittadini ad essere informati con la legge sulle intercettazioni telefoniche. Si nega il diritto alla salute come elemento essenziale della moderna cittadinanza quando si prevede che i medici possano denunciare un immigrato irregolare la cui unica colpa è la richiesta di cure. Si privatizza la sicurezza pubblica legittimando le ronde, con una abdicazione pericolosa dello Stato da una delle funzioni che ne giustificano l´esistenza. Si avanzano proposte censorie che riguardano Internet. Si erodono le garanzie della privacy per improprie ragioni di efficienza. Si propone una banca dati del Dna con scarse garanzie per la libertà delle persone.
Non era mai accaduto che il nostro sistema politico vivesse quotidianamente ai margini della legalità costituzionale, che si dubitasse della costituzionalità di tutte le leggi di qualche peso in discussione alle Camere. Si altera così il funzionamento del sistema istituzionale, e si trasferisce l´intero compito di garantirne il corretto funzionamento ai "due custodi", il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale, di cui si accentuano le responsabilità e la politicità. E si dimentica che proprio la cultura costituzionale segna la politica e la civiltà di un paese.
Distogliamo per un momento lo sguardo dalle nostre lacrimevoli vicende, e rivolgiamolo agli Stati Uniti. Barack Obama non sta soltanto liberando il suo paese da inammissibili vincoli, come quelli sul divieto del finanziamento pubblico alla ricerca sulle cellule staminali embrionali, mostrando come sia possibile e necessaria una politica lungimirante e svincolata da ipoteche fondamentaliste. In un documento indirizzato a tutti i responsabili dell´amministrazione federale, Obama ha scritto che, «esercitando la mia responsabilità nel decidere se una legge sia incostituzionale, agirò con prudenza e misura, basandomi unicamente su interpretazioni della Costituzione che siano solidamente fondate». Qui è evidente l´imperativo di allontanarsi dalle pratiche lesive dei diritti dell´amministrazione Bush, proprio per ricostituire quegli anticorpi democratici la cui distruzione stava minando la coesione interna e la stessa credibilità degli Stati Uniti.
Quale distanza, quale abisso ci separano da questa volontà di ridare la bussola costituzionale al funzionamento dell´intero sistema politico, e quale deriva ci sta travolgendo proprio perché stiamo abbandonando quella bussola. Grande, allora, diviene la responsabilità della cultura che si cimenta proprio con il tema della Costituzione, e con il modo in cui oggi si deve guardare ad essa.
Le reazioni, gli atteggiamenti sono diversi. Si è diffidenti verso una difesa della Costituzione che sembra fine a se stessa, che non tiene nel giusto conto la dimensione della politica. Che è preoccupazione giusta a condizione, però, che la sacrosanta invocazione di una politica non più latitante abbia quei solidi fondamenti che, per le ragioni appena accennate, debbono essere trovati proprio nei principi costituzionali. Oggi più che mai abbiamo bisogno di una politica "costituzionale".
Della legittimità stessa di questa politica si dubita quando si mette in evidenza che proprio la prima parte della Costituzione, quella delle libertà e dei diritti, è segnata da un inaccettabile statalismo, dall´accentuazione di una funzione protettiva delle istituzioni pubbliche che apre la porta alle tentazioni stataliste. È singolare, o rivelatore, il fatto che questo atteggiamento ritorni proprio nel momento in cui i guasti enormi della economia deregolata hanno fatto emergere una imperiosa richiesta di regole. Disturba, ad esempio, il fatto che si adoperi la parola "tutela" quando ci si riferisce alla salute. Eppure proprio negli Stati Uniti, nella materia della salute, si è verificato un gigantesco fallimento del mercato e la riforma del sistema è un punto chiave del programma di Obama.
Si torna, poi, a ripetere che la nostra Costituzione dovrebbe essere modificata perché non dà spazio adeguato al riconoscimento del mercato. Che cosa dovrebbe dire, allora, la Germania la cui costituzione parla di una proprietà il cui «uso deve servire al bene della collettività»? La verità è che rimane forte il fastidio per un contesto che vuole il mercato rispettoso dei diritti fondamentali. In Italia si è arrivati a proporre l´abrogazione dell´articolo 41 della Costituzione, che stabilisce che l´iniziativa economica privata «non può svolgersi in contrasto con l´utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Statalismo o soglia minima di civiltà?
La spallata berlusconiana al Parlamento nasce in tempi di costituzionalismo debole e ha come fine, insieme alla cancellazione del sistema parlamentare, l´azzeramento delle garanzie, lo smantellamento del sistema dei diritti.

Repubblica 12.3.09
Zagrebelsky, Rodotà e Cardini presentano la Biennale di Torino
Dentro i malanni della democrazia


Non ci saranno esponenti di partiti È un´iniziativa basata sulla cultura civilmente impegnata

ROMA. «Ci siamo illusi che la democrazia fosse un sistema naturale, nelle corde dell´essere umano. Non è così». Partendo da questa premessa, Gustavo Zagrebelsky ha presentato ieri al Vittoriano la prima edizione della Biennale Democrazia di cui è presidente. La manifestazione vede nel comitato dei garanti Stefano Rodotà e Franco Cardini, presenti all´incontro moderato dal direttore di Reset Giancarlo Bosetti, ed è in programma a Torino dal 22 al 26 aprile. In calendario oltre cento appuntamenti, tra tavole rotonde e dibattiti, inaugurati da una lezione del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al Teatro Regio.
Quella del capo dello Stato, però, sarà l´unica presenza "politica" prevista: «La nostra iniziativa - spiega infatti Zagrebelsky - esclude la partecipazione dei partiti. Non diventerà la tribuna di nessuno, anche se abbiamo ricevuto richieste di esponenti politici. Faremo cultura civilmente impegnata, interrogandoci su quali possano essere le forme concrete di democrazia nel nostro tempo. Oggi ci accorgiamo, non solo in Italia, che la democrazia è una forma di convivenza sempre a rischio. Se gli altri regimi politici, come la monarchia, hanno riservato una certa attenzione all´educazione dei governanti, in democrazia i governanti e i governati coincidono. Siamo noi a governare, ma - e la crisi dell´educazione civica lo dimostra - trascuriamo l´educazione al governo. La Biennale affronterà tutte queste tematiche inserendole in una prospettiva globale».
L´iniziativa si colloca nel solco tracciato dalle "Lezioni Bobbio", ideate da Pietro Marcenaro a Torino nel 2004, all´indomani della morte del filosofo. L´obiettivo è di alimentare il dibattito pubblico tra intellettuali, accademici, studenti e semplici cittadini su temi e sfide a cui la democrazia è sottoposta oggi, come il multiculturalismo e il testamento biologico.
«Perché una democrazia funzioni, occorre che il cittadino sia fornito di strumenti conoscitivi, anche su temi legati al progresso scientifico - dice Stefano Rodotà -. È un problema con cui ci siamo confrontati in occasione del referendum sulla procreazione assistita, quando ci fu chi invitava a non votare perché il tema era troppo tecnico. Luigi Einaudi ripeteva: "Conoscere per deliberare". La Biennale si eserciterà su questo. Il testamento biologico è solo una delle tante questioni. In Italia, ha avuto una valenza sopra le righe, caricandosi di significati politici e religiosi. Altrove il tema è stato risolto con più semplicità».
Franco Cardini, storico del Medioevo tra due giuristi, ha accettato di far parte della Biennale con qualche dubbio: «Non sono uno specialista di tutto ciò che riguarda la democrazia. Ma mi accorgo che le democrazie finiscono perché la gente è stanca, si disamora della politica, perde il diritto di votare perché non lo esercita. E così si finisce col perdere anche la libertà. Ci sono rischi da enumerare sui pericoli che ricorrono quando si parla di democrazia. La riflessione su qualunque argomento è un po´ come la nottola di Minerva: si leva solo al tramonto». Insomma, se la democrazia godesse di ottima salute, non ci sarebbe bisogno di dedicarle una biennale.

l’Unità 12.3.09
«La proposta di Berlusconi ammala la democrazia»
Il costituzionalista sull’idea del premier di uno che vota per tutti: è il logico compimento di un processo distorto: se i parlamentari sono solo «yesman», allora a cosa serve il loro voto?
Andrea Carugati intervista Gustavo Zagrebelsky


In questo momento di crisi economica ci accorgiamo, non solo in Italia, che la democrazia è una forma di convivenza sempre a rischio. Ci siamo illusi, dopo la caduta dei totalitarismi, che fosse un regime naturale. Eppure non è così, ci sono dei momenti in cui si pensa che sia meglio affidare la soluzione dei problemi a qualcuno che dice “ci penso io”. È un rischio che riguarda da vicino l’Italia di oggi». Gustavo Zagrebelsky ha un tono di voce pacato, lontano da ogni allarmismo o invettiva. Ma la sua analisi sulla democrazia italiana è preoccupata. Anche per questo ha accettato di presiedere il comitato che ha organizzato a Torino, dal 22 al 26 aprile, la «Biennale democrazia»: 4 giorni di lezioni pubbliche a Torino su questo tema, con grandi intellettuali che si ritrovano nel nome di Norberto Bobbio.
Qual è lo scopo di questa manifestazione?
«Si è pensato a lungo che non ci fosse bisogno di una educazione alla democrazia, che avrebbe funzionato spontaneamente. Eppure l’esperienza storica dimostra che non è così. C’è un capitolo nei “Fratelli Karamazov” in cui il Grande Inquisitore espone il suo progetto di governo con una premessa: ciò che gli uomini odiano di più è la libertà, è un peso di cui spesso si vuole fare a meno per evitare le responsabilità. Le fasi di crisi economica e sociale sono sempre state favorevoli all’instaurazione di regimi autoritari. Per questo bisogna suonare un campanello di allarme».
L’Italia le appare più fragile di altre democrazie occidentali?
«Da noi manca un elemento decisivo, e cioè l’idea che la sfera pubblica sia qualcosa che tutti devono curare. In Italia ciò che è pubblico appare a disposizione di chi è più capace di saccheggiarlo. C’è una mentalità diffusa non favorevole al radicamento della democrazia. Bobbio diceva che gli italiani sono democratici più per assuefazione che per convinzione».
Questi ingredienti possono essere esplosivi?
«È difficile fare previsioni: c’è sicuramente un malessere della democrazia che è profondamente radicato e trova alimento in una società sempre più squilibrata, dal punto di vista economico ma anche delle risorse culturali. C’è una società sempre più oligarchica. E la legge elettorale, che consente ai vertici dei partiti di cooptare i parlamentari dall’alto, ha un ruolo molto negativo».
Berlusconi ha addirittura proposto che in Parlamento votino solo i capigruppo...
«È il logico compimento di un processo distorto: se i parlamentari sono solo fiduciari e “yesman” dei leader, allora a cosa serve il loro voto? Il confronto tra le opinioni di tanti ha senso solo se ognuno rappresenta qualcosa. Vedo una serie di piccoli spostamenti come questo, spesso inavvertiti, che fanno massa e contribuiscono a far ammalare la democrazia».
Può citarne qualcun’altro?
«La condizione e la qualità dei media è un altro sintomo della fatica della democrazia italiana. Quando si parla di pluralismo la gente sbuffa, come se non fosse importante. Ecco i rischi della crisi: fa passare naturalmente in secondo piano temi essenziali della democrazia perché ci sono bisogni più impellenti».
Una diversa legge elettorale potrebbe essere una buona cura per la democrazia italiana?
«È necessario ripristinare un meccanismo di selezione che consenta ai cittadini di scegliere i parlamentari, con le preferenze o con le primarie, altrimenti passa l’idea di Berlusconi del Parlamento come una massa senza valore. Anche il Pd ha le sue responsabilità: avere sostanzialmente accettato il meccanismo di nomina dei parlamentari. Questo fenomeno, insieme alla corruzione, ha fatto raggiungere alla classe politica un livello di discredito allarmante per la tenuta della democrazia. È un sentimento così diffuso che non può essere liquidato come qualunquismo».

l’Unità 12.3.09
Una terra promessa trasformata in galera
di Emanuele Crialese


Maroni ha scelto la linea dura: tutti prigionieri da espellere, ma verranno più di prima perché partono nonostante il pericolo, per disperazione

Uno scoglio in mezzo al mare. Una strada lunga 13 chilometri che si estende da Levante a Ponente. Pietre e cespugli. Il mare cristallino. Le case da finire, sparse lungo il paesaggio brullo e ventoso. Un faro in mezzo al mare. Terra di confine. Porta d'Europa. Da quando me ne sono andato nel 2002 sembra che il cambiamento più lampante consista nella massiccia presenza di tutte le divise italiane. Dai militari, alla polizia, finanza, capitaneria e carabinieri. C’è confusione e agitazione. I pescatori non sono andati in mare a pescare e sono saliti in piazza a protestare, insieme agli altri isolani, contro la costruzione del nuovo centro detenzione, voluta dal governo, in applicazione della nuova legge che prevede la detenzione di tutti coloro che sbarcano sull'isola senza un documento di riconoscimento.
Negli ultimi anni i nuovi arrivati venivano accolti, sfamati e quindi identificati nei centri preposti. Una volta identificati venivano invitati a lasciare il paese il prima possibile. Molti di loro rimanevano a lavorare, altri partivano verso la Francia, Belgio, Germania. Per qualche anno la situazione sembrava essere sotto controllo. Da qualche mese il governo ha deciso di dare una dimostrazione di valore e di forza adottando una linea dura; tutti i nuovi arrivati dovranno essere detenuti fino a identificazione e rimpatrio o permesso di soggiorno o accettazione della domanda di asilo politico.
Il ministero degli interni è rappresentato da un ministro leghista l'onorevole Maroni. La lega Nord è un partito politico giovane che ha come ideologia dominante la scissione dell'Italia del Nord dal resto del paese. La Lega Nord propone il federalismo, propone un nuovo nome per una parte del territorio del Nord Italia che vorrebbero, in futuro, chiamare ufficialmente «La Padania». Alla domanda se sono Italiani o Padani, rispondono Padani. Sono uomini che danno un immagine determinata, sicura, ma decisamente dura nei confronti degli stranieri che approdano sul loro-nostro territorio. Il loro messaggio al paese è: saranno finalmente i leghisti a proteggere l'Italia dall’orda Straniera che ci minaccia e ci priva delle nostre libertà. Eccone degli esempi: i telegiornali italiani cominciano a riempirsi di storie aberranti che vedono soprattutto come protagonisti gli stranieri: violenze commesse da romeni, zingari, tunisini, qualche italiano agli arresti domiciliari perché lui una casa ce l'ha. L’onorevole Maroni dichiara che questo approdo selvaggio favorisce anche il traffico di organi umani...!
La soluzione deve essere trovata in nome del popolo italiano ( o Padano?) ed eccola pronta. L’applicazione della nuova legge appena approvata deve essere la conseguente apertura di centri di detenzione (prigioni nel vecchio gergo). Quindi si procede a trasformare i centri adibiti all'accoglienza e alla identificazione dei nuovi arrivati, in centri di detenzione che però rimangono strutturalmente identici ai centri accoglienza.
Obama chiude Guantanamo e Maroni apre dei centri di detenzione sull’isola di Lampedusa. Nel 900 gli americani costruivano la famosa Ellis Island, un isola artificiale sulle rive dell'Hudson, per contenere le migliaia di persone arrivate ogni giorno da tutto il mondo. Gli uomini di governo vogliono chiaramente dare anche esempio e dimostrazione a tutti i desiderosi di arrivare in Italia che i tempi son duri e questo scoraggerà anche gli imbarchi dall'Africa. Ma dove si può “scoraggiare” i nuovi arrivati, lontano dagli occhi di tutti e tenerli “al fresco” per diciotto mesi, invece che i sei da sempre concordati?
Ci vuole un isola. Giusto, giusto nel Sud Italia siamo pieni di isole! Dall'isola non si scappa, l'isola è sicura, su un isola lunga 13 chilometri e piena di sassi, non c'è scampo per i fuggiaschi...
Per la prima volta i Padani e gli Italiani possono stare tranquilli, non arriverà più nessuno qui su da noi, sono tutti giù, imprigionati nell'isola più a Sud d'Europa. I residenti permanenti a Lampedusa sono 6000. È una terra occupata da famiglie che vivono tutto l'anno su uno sasso in mezzo al mare che geograficamente è riconosciuto come ultimo pezzo di terra europea. Lampedusa è una gemma che appartiene ai lampedusani, in primis, ma appartiene anche a tutti i viaggiatori che decidono di andarla ad esplorare. Ne arrivano di molti e per la maggior parte ne arrivano dal nord Italia. I lampedusani sono molto ospitali e cercano di mantenere la loro tradizione.
Nei mesi estivi a Lampedusa arrivano oltre diecimila turisti da tutte le pari d' Italia. Per i lampedusani è un momento di euforia dopo il lungo inverno passato isolati in mezzo al mare, è un importante momento di scambio, di apertura. Da un punto di vista economico, quei tre-quattro mesi di turismo possono corrispondere al mantenimento di una famiglia lampedusana per tutto un inverno. L'arrivo del turista è vita per la comunità che vive e sopravvive di quelle uniche risorse. Da qualche anno a questa parte sull''isola ci abitano anche un migliaio di uomini armati. Non ho niente contro le forze dell'ordine, ma c'è un inevitabile disagio visuale quando si vede, in un territorio cosi piccolo, una così alta concentrazione di uomini armati. Penso ai bambini lampedusani, agli adolescenti che vivono circondati dal mare e dalle divise e le armi. Come se l’isolamento naturale di un mare non bastasse a contenere la solitudine di una popolazione che avrebbe tutti i diritti di sentirsi libera di circolare su quel piccolo pezzo di terra. Capisco la loro amarezza, farebbe rabbia a chiunque vedere lo stato o il governo inviare contingenti armati e non occuparsi affatto della vera sicurezza dei cittadini lampedusani che non hanno nemmeno un ospedale dove correre in caso di necessità.
Il mare intorno rende impossibile un ricovero entro i 30 chilometri dal luogo e dal momento dell’incidente. Le donne lampedusane devono andare a partorire negli ospedali di Palermo. Il malato terminale deve trasferirsi da parenti, se ne ha, in qualche città di Italia e passare i suoi ultimi mesi lontano da casa e dai suoi cari.
Nel 2008 sono sbarcati e ripartiti da Lampedusa circa 35.000 “clandestini”. Molti di loro sbarcano sullo scoglio lampedusano dopo mesi di viaggio, di maltrattamenti, di furti e violenza che subiscono lungo il percorso, semplicemente perché sono uomini vulnerabili e nullatenenti. Molti non sanno nemmeno di essere sbarcati su un isola e chiedono della stazione ferroviaria.
L'uomo si è sempre spostato sulla terra e sul mare nei secoli dei secoli e per diverse ragioni. Oggi l’uomo che lascia la sua terra senza passaporto, lascia a casa una famiglia che dipende dalla sua abilità di procurarsi lavoro fuori dai confini della miseria in cui si trovano tutti i suoi cari. Non ha scelta.
L’uomo parte nonostante tutti i pericoli che lo aspettano, tanto vale morire che tornare a mani vuote. Lo scrivevano in centinaia di migliaia nelle parole di carta (lettere) di uomini e donne appartenenti alle famiglie di chissà quanti di noi italiani emigrati all'estero.
Se i 35.000 arrivati a Lampedusa nel 2008 fossero stati trattenuti al centro detenzione, sarebbero stati in 35.000, su una popolazione di 6000 civili e almeno 2000 militari. Per questi motivi capisco l' indignazione dei lampedusani che sfilano con i tunisini appena usciti (evasi?) avvicinandoli senza pistole o manganelli, come si conviene quando si incontrano altri uomini liberi. Nessuno stato civile può trasformare in prigionieri uomini liberi fino a prova contraria. Questo lo dicono le associazioni di tutela dei diritti umani. Tutti gli uomini hanno diritto ad un processo, se sospettati colpevoli di un reato, prima di essere messi in prigione.
Ci sono sempre stati uomini che partono perché fuggono, dalla legge o dalla guerra. Tra i due c'è un enorme distinzione: quelli che fuggono dalla legge hanno commesso qualche reato e sono perciò considerati dei criminali. Nel mondo ci sono molti italiani che hanno commesso reati e sono stati accolti e protetti da altri paesi, d'altronde una percentuale di malfattori tocca a qualunque stato e paese in tutto il mondo da sempre e per sempre temo.
Punto a capo. Oltre questo punto c'è un’abisso che sprofonda nella disperazione di chi sta fuggendo da una guerra o da un genocidio...
Non hanno passaporto perché nel paese da cui provengono non lo rilasciano. Anche loro saranno sommariamente imprigionati in attesa che lo stato decida se dare asilo. Questo modo di vedere lo straniero, potrebbe portare all'abbrutimento, alla rabbia e disprezzo, potrebbe portare fino all'azione di bruciare un uomo indiano mentre dorme sulla panchina di una stazione.
Risultato della linea dura: i disperati continueranno ad arrivare e verranno rinchiusi in prigione per un anno e mezzo. Le loro famiglie, che hanno risparmiato per pagare il viaggio, rimangono senza alcuna possibilità di sopravvivenza, il loro viaggiatore è per giunta diventato un fuorilegge e probabilmente dovrà vedersela con le autorità del suo paese d'origine, forse altri mesi di galera insieme a tutti quelli che hanno osato partire, prima di poter riabbracciare la famiglia, se sopravvissuta. Ma state tutti pur certi che i disperati continueranno ad arrivare come e più di prima perché semplicemente non hanno scelta.
Il 18 Febbraio 2009 gli uomini rinchiusi da mesi nel “vecchio” centro accoglienza “nuovo” centro detenzione di Lampedusa, appiccano il fuoco ai loro alloggi ed evadono sparpagliandosi sull'isola. Non c’è bisogno di essere dotati di poteri magici per dire che c’era da aspettarselo. Adesso i militari dovranno stanare con le armi gruppi di uomini che fuggono all'interno di una bellissima prigione naturale del sud Italia. Ecco i primi risultati del piano messo in atto in nome del popolo italiano.
Ma i nuovi Padani o leghisti del Nord sono o non sono italiani? “Concendiamo” ai Padani la loro libertà in modo che possano finalmente distinguersi dal resto d'Italia. Finalmente i Padani indipendenti, con un loro governo, una loro chiara identità, un passaporto padano. Diamo ai Padani la possibilità di gestirsi autonomamente come chiedono dall'inizio della loro giovane storia. Quando e se avranno nostalgia della loro vecchia Italia potranno entrare senza problemi. Basterà esibire la carta d'identità valida per l'espatrio.

Repubblica 12.3.09
"Vietato registrare i figli dei clandestini"
Per iscrivere all'anagrafe i nuovi nati occorre avere il permesso di soggiorno
di Mario Reggio


Spunta comma nel ddl. Medici in rivolta: no all´obbligo di denuncia. Maroni: rischio banlieue

ROMA - «Non siamo spie, la misura è colma». Insorgono i sindacati dei medici: saremo obbligati - affermano - a denunciare l´immigrato clandestino che si presenterà in una struttura sanitaria per essere curato, e chi di noi non lo farà commetterà un reato penale. Il governo ha sempre sostenuto che l´abrogazione della norma che vietava la denuncia da parte del medico non avrebbe comportato sanzioni, e che in sostanza il medico avrà la facoltà, e non l´obbligo, di denunciare. Ma secondo gli uffici legali dei sindacati ciò è falso: il medico è pubblico ufficiale, l´immigrazione clandestina è reato, ergo - questa è la loro tesi - il medico è passibile di denuncia e condanna penale se non segnala gli irregolari. Tutto ciò come effetto del ddl sulla sicurezza passato al Senato ed ora all´esame delle commissioni alla Camera. Il ministro Maroni replica: «Non c´è alcun obbligo per i medici». E aggiunge che «esiste un rischio di violenza, un rischio banlieue in certe periferie delle città».
Ma da quel testo spunta un altro attacco alla dignità delle persone: stavolta tocca ai neonati figli di immigrati clandestini. In base ad un comma dell´articolo 45, senza la presentazione del permesso di soggiorno i bambini non potranno essere registrati all´anagrafe. L´effetto sarebbe il moltiplicarsi di un esercito di bambini "invisibili", con genitori che non esistono e nessuna possibilità di essere curati. In più, il rischio del moltiplicarsi dei parti clandestini. Partiamo dal rischio dei "bimbi invisibili". Attualmente è in vigore la legge del ‘98, primo governo Prodi, che esonera tutti i cittadini stranieri dal presentare il documento di soggiorno per compiere atti di stato civile. La segnalazione della soppressione di questa deroga arriva dall´Associazione dei giuristi per l´immigrazione, che ha scovato il codicillo nelle pieghe del ddl sulla sicurezza. «La norma si configura come una misura che scoraggia la protezione del minore e della maternità - affermano i giuristi - Una norma che appare incostituzionale sotto diversi profili». Le conseguenze sarebbero drammatiche: i bimbi resterebbero senza identità, c´è il rischio nel caso del parto in ospedale che non vengano consegnati ai genitori e siano dichiarati in stato di abbandono. Una situazione che porterebbe al proliferare dei parti clandestini.
Una scelta della maggioranza che fa il paio con l´emendamento, presentato dalla Lega Nord, approvato in commissione ed in aula Senato, che obbliga i 120 mila medici delle strutture pubbliche e convenzionate a denunciare il paziente senza permesso di soggiorno. Una misura che non esiste in nessun Paese europeo (salvo il Germania, dove però non sono previste sanzioni per il medico obiettore e quindi viene ignorata). I medici hanno annunciato che useranno tutti gli strumenti legali, «fino alla Corte di giustizia europea passando per la Corte costituzionale». E´ questa la posizione di tutti i sindacati medici. Massimo Cozza, segretario dei medici Cgil dichiara: «I 120 mila medici che rispetteranno la deontologia e la Costituzione diventeranno loro stessi clandestini».

l’Unità 12.3.09
Roma, con mazze e pistole aggrediscono due albanesi
di Massimiliano Di Dio


«Siete romeni?» Così è cominciata l’aggressione a Tor Bella Monaca contro due fratelli albanesi. Secondo la denuncia i violenti erano almeno una trentina con bastoni, mazze e pistole. La polizia non si sbilancia.

Per ora ha tutta l'aria di essere una ronda. In un quartiere della periferia romana, quello di Tor Bella Monaca, già segnato da gravi episodi di violenza e razzismo. L'ultimo, due notti fa, inizia con una domanda, «Siete romeni?», e arriva dalla diretta voce delle vittime: A..R. e M.R., due fratelli di 33 e 37 anni. «No, siamo albanesi» fanno in tempo a rispondere prima di essere accerchiati da una trentina di uomini. Tutti italiani e armati, secondo il racconto dei due fratelli. In mano, dicono, hanno mazze, bastoni, pietre. Qualcuno anche la pistola, forse solo una replica ma poco importa. Il gruppo pesta, bastona, colpisce con decine di pietre i due albanesi. Alcuni cittadini allertano il vicino commissariato. «C'è una violenta rissa in via Paolo Ferdinando Quaglia» dicono. Quando la polizia arriva, sedute a terra ci sono solo due persone. Sono le vittime, nella vita fanno gli autotrasportatori.
«Stavamo passeggiando - raccontano - quando siamo stati circondati da quattro auto e quattro ciclomotori. Erano una trentina, sono scesi e ci hanno chiesto se eravamo due romeni». Dopodiché l'aggressione. I due fratelli rifiutano ogni cura medica ma denunciano. La polizia si chiude in un incomprensibile silenzio. «La vicenda ha ancora molti lati oscuri» è l'unico commento che trapela e lascia così aperte molte ipotesi: dalla rissa all'agguato, oltre a quella della ronda «illegale».
Intanto parla la politica. «Bisogna capire di cosa si tratta - dice il sindaco Alemanno - l'aggressione è grave comunque perché si tratta di un atto di violenza, ma se ci fosse un elemento di intolleranza o ritorsione lo sarebbe ancor di più». Più duro il presidente della Regione Lazio, Marrazzo. Che si dice «indignato per quella che appare, al momento, un'azione squadrista programmata e attuata da un gruppo di delinquenti».
L’ESCALATION
Un dato c'è: Roma e Tor Bella Monaca si risvegliano nella paura all'ombra del razzismo. Solo venti giorni fa, un piccolo commando aveva lanciato sette molotov contro un negozio di prodotti tipici gestito da una coppia di romeni. Meglio contro quel negozio di «rumeni che hanno infestato il quartiere», si leggeva in una scritta sui muri del quartiere. Nel retrobottega dormiva il titolare Gheorghe Nedelchi, 48 anni e sua moglie Anita Ploscaru. «Sono stati gli italiani che vivono qui intorno a spegnere le fiamme con gli estintori e a chiamare le forze dell'ordine» - aveva detto con gratitudine Gheorghe, «Ci conoscono tutti, prima di noi c' era un altro rumeno che non ha mai avuto fastidi, ci siamo sempre sentiti a casa».
E a casa, a Tor Bella Monaca, si sentiva anche Tong Hog Sheng, il 36enne cinese pestato da un gruppo di ragazzi al grido di «cinese di merda». Uno dei minori accusati, un sedicenne, ha ammesso di averlo colpito ma solo come reazione a un insulto dopo che si erano urtati vicino a una fermata d'autobus. Il processo è ancora in corso, eppure la cronaca torna a parlare di razzismo nella capitale.

Corriere della Sera 12.3.09
In attesa degli elenchi delle associazioni previsti dal decreto, nelle strade ogni sera scendono vigilantes di ogni età
I casi Nel paese di Ari ci sono 110 «controllori», anche di 70 anni, su 1.380 abitanti: «Abbiamo azzerato il numero dei furti»
Le ronde, passione italiana
Migliaia di volontari nei Comuni di destra e sinistra Gli opposti estremismi a Massa: Carc contro Sss
di Marco Imarisio


Le rondini della notte volano anche di giorno. Alle undici del mattino l'Alfa 147 con le fiancate coperte dalla ragione sociale parte dalla statua di Marco Biagi, scende in contrada passando in rassegna il monumento ad Emilio Alessandrini, quello a Giovanni Falcone, tutti gli altri, fino a risalire. A ciclo continuo, forse per smaltire il numero di volontari. Quando venne annunciata la nascita delle rondini, ad Ari risposero in 110. All'anagrafe, questo paese appollaiato sul cucuzzolo della val di Foro, fra la Maiella e il mare, conta appena 1.380 abitanti.
Paura tra le statue
Ad Ari ci sono un bar, due chiese, una macelleria e 31 monumenti dedicati alle vittime del terrorismo. Ad ogni angolo, l'omaggio in marmo ad uno degli «eroi della libertà», così vengono giustamente definiti. Da Luigi Calabresi a Giovanni Falcone, passando per Emilio Alessandrini, Rosario Livatino, Rocco Chinnici. Il vulcanico sindaco Renato D'Alessandro annuncia anche l'arrivo di «Piazza magistrati d'Italia». Al posto della data di nascita e del trapasso, sulla targa si leggerà una opportuna puntualizzazione: «Non defunti».
Nel maggio 2008 una serie di eventi scosse l'idillio del paesino abruzzese dove i contadini coltivano rose per poterle mettere anche d'inverno davanti ai monumenti. Nottetempo, giù nelle contrade San Pietro e Sant'Antonio avvenne una serie di furti in villa. Anziani coniugi furono narcotizzati e derubati. Cominciò a serpeggiare un sentimento fino a quel momento sconosciuto. La paura. La reazione collettiva di Ari fu la nascita dei «vigilantes disarmati », muniti di torce, megafoni, giubbotti catarifrangenti e valigetta per il Pronto soccorso. In Abruzzo le ronde autogestite dai residenti sono come i fiori di stagione. A contrada Rizzacorno, nel comune di Lanciano, si sono formate e sciolte nello spazio di due mesi, il tempo - per i carabinieri dell'arresto di una banda di ladri. Sparita la causa che le aveva generate, le ronde si sono estinte. La stessa cosa è avvenuta in piccoli comuni del teramano dopo alcuni furti d'auto.
L'inizio fu comunque travagliato, tanto più per un paese consacrato alla legalità. Il prefetto di Chieti sottolineò l'illegalità delle ronde. La giunta comunale si appellò al parere positivo dato dai propri avvocati, che consigliarono la definizione di «vigilanza passiva» per mettersi al riparo dagli strali prefettizi. I cittadini di Ari diedero la loro disponibilità in massa. Nessun corso specifico, abili e arruolate le persone di età compresa tra i 18 e i 70 anni. «Io le chiamerei ronde necessarie. La stazione dei carabinieri più vicina si trova a 15 chilometri di distanza e ha carenza di personale. Quando vidi un servizio sulle ronde leghiste di Treviso mi illuminai». Il sindaco D'Alessandro si dichiara apartitico e sessantottino non pentito. «Ma qui la politica non c'entra nulla. Dopo l'avvio delle ronde, sa quanti furti abbiamo avuto? Zero».
Nonostante la ritrovata serenità, le ronde di Ari vanno avanti. Ai ragazzi più giovani è stato imposto un corso per l'uso del defibrillatore. «Qui non abbiamo neppure l'ambulanza o il Pronto soccorso, bisogna arrangiarsi. Tanto lo facciamo a costo zero». L'unico ad aver pagato in solido per le ronde è proprio il sindaco. «Bella l'Alfa 147 delle rondini, vero? Piaceva anche a me. Infatti era mia».
Il cittadino Ercole
I portici di Modena sono ancora deserti, i negozi ed i bar stanno lentamente alzando le serrande. Ercole Toni torna a casa, reduce da una notte di «cancellature ». Mentre la città dormiva, lui e i suoi rondisti si sono ripuliti 14 muri, per onorare la loro media giornaliera. «Dovere civico», dice. Nessuno si illuda, il cittadino Toni non va a dormire. Torna a casa solo per cambiarsi, deve correre in Comune a celebrare due matrimoni. «Lo reputo un mio dovere civico». Nel 2008 ha officiato 204 unioni civili, record che gli è valso il soprannome di «Toni d'arancio».
A 65 anni, con la sua barbona bianca, la stazza fedele al nome di battesimo e l'inarrestabile parlantina, Ercole Toni rappresenta il prototipo ideale del cives emilianus come si vorrebbe che fosse, non solo a queste latitudini. Anche se non ama che vengano chiamate così, le ronde di Modena sono cosa sua. Nascono da una costola dell'associazione Viveresicuri da lui fondata dieci anni fa. A parte qualche dettaglio di natura organizzativa, le analogie con il progetto del governo sono evidenti. Volontari, disarmati, una sessantina di cittadini con pettorina e cappello che circolano in zone decise dalla polizia municipale, dove osservano e fanno relazione al Comando. C'è un corso preparatorio di 20 ore, ma Toni osserva che serve solo «a scartare i cretini».
Il meccanismo delle ronde civiche modenesi è lo stesso che fa tanto discutere oggi. A cambiare è solo la teoria. «La ronda deve essere espressione dello spirito civico e non della paura» dice Toni. La differenza con modelli di ronda più agguerriti si misura anche sul terreno. Modena non è certo immune da qualche ghetto a cielo aperto. I palazzacci denominati Rnord di via Tiraglio e il loro panorama umano fatto di prostituzione e spaccio. Il parco Novi Sad, che quando viene buio si riempie di ombre non certo amichevoli. «Quelle sono zone di competenza della polizia. In posti come questi le ronde non servono a nulla, fanno solo danni. Il nostro compito è quello di sgravare le forze dell'ordine da faccende che possono essere sbrigate da tutti ».
Ettore Toni non rivendica nessuna primogenitura, ma si vede che è orgoglioso della strada fatta finora. Il suo lavoro con Viveresicuri lo ha portato fino in consiglio comunale, nel 2006 è arrivato il cavalierato al merito, quest'inverno il premio Città di Modena.
Qualche giorno fa gli è toccato fermare una borseggiatrice che aveva rubato il portafoglio ad una ragazza. «L'abbiamo trattenuta, con le buone si intende. Quando è arrivata la polizia, è venuto fuori che aveva 79 anni, poveraccia. D'accordo con gli agenti, l'abbiamo lasciata andare. Dovere civico».
Opposti estremismi
C'è una esse di troppo. Così viene liquidato in loco il Soccorso Sociale e Sicurezza, comitato rondista fondato dall'esponente della Destra Stefano Benedetti. La battuta, non certo felice, è indicativa di animi in ebollizione. Da una parte e dall'altra.
Chi vuole testare il rischio delle ronde politicizzate può scendere a Massa centrale. Nel 1976 si aggiudicò il titolo di stazione ferroviaria meglio curata d'Italia. Sono passati 33 anni e si vedono tutti. Nel piazzale antistante, la solita fauna. Qualche ubriaco che dorme per terra, un capannello di marocchini ingioiellati che vendono fumo. Non un bello spettacolo, per carità. Ma il Bronx è un'altra cosa. Le ronde della Destra dovrebbero pattugliare quest'area. Oltre a giubbotti e fischietti, l'equipaggiamento prevede anche bombolette di spray «per difendersi dalle aggressioni». Benedetti snocciola le competenze degli aderenti: una guardia carceraria in pensione, un ex capitano della Folgore, un metronotte in servizio, alcuni universitari che aderiscono ad associazioni vicine a Forza Nuova. Uomini che verranno addestrati — garantisce il fondatore — utilizzando l'esperienza di ex militari e vigilantes, fornendo nozioni di difesa personale. Al prefetto verrà chiesto la possibilità di usare le manette. «Siamo persone unite dalla voglia di risolvere il problema della criminalità ». Propositi importanti, che dopo essere stati debitamente comunicati a mezzo stampa, in una perfetta logica di opposti estremismi hanno suscitato la reazione dei Carc, i Comitati di Appoggio alla Resistenza per il Comunismo. Nel loro comunicato prevalgono i toni distesi: «Così si riabilitano le squadracce del ventennio fascista, si legittimano quelle che già oggi pestano e uccidono immigrati, antifascisti, gay e lesbiche». Dice Marco Lenzoni dei Carc: «Se loro continuano, noi proporremo le nostre guardie popolari, che contrasteranno anche questa gente dal saluto romano facile». Ribatte Benedetti: «Sostengono che il nostro nome evoca le milizie fasciste. Ce lo vengano a dire in faccia». L'entusiasmo del sindaco Roberto Pucci è palpabile. «È la provocazione di qualche grullo in cerca di pubblicità. Non serve a niente. Ma provoca tensioni, creando così un problema di ordine pubblico in una città altrimenti tranquilla».
La prima ronda è stata opportunamente dirottata alla Partaccia, zona di marina che di questa stagione è praticamente deserta. Ma il vero debutto è previsto per lunedì prossimo. Cadenza bisettimanale, dalle 21 alle 3 di notte. Tre persone per volta. Non di più, perché le adesioni scarseggiano.

Repubblica 12.3.09
Il premier: "Altro che italiani brava gente in Libia i nostri nonni hanno fatto di tutto"
"Abbiamo messo 130mila persone in campo di concentramento e avvelenato le oasi"


ROMA - «Altro che italiani brava gente. In Libia i nostri nonni hanno combinato di tutto». Silvio Berlusconi, alla cena di ieri sera a Villa Madama con imprenditori, banchieri, uomini d´affari, quelli che rappresentano "l´Italia del fare", si è presentato in versione anticoloniale. Smentendo quel luogo comune che vuole gli italiani nelle colonie africane, in Grecia, Albania, Jugoslavia nel ruolo sì di occupanti, ma invasori dalla faccia buona, uomini di buoni sentimenti. Naturalmente il Cavaliere anticoloniale si schiera dalla parte degli oppressi per spiegare quanto lavoro ha fatto per riaprire la Libia alle aziende italiane. «Il nostro governo - ha spiegato il presidente del Consiglio - sta facendo tanto per le imprese italiane all´estero. L´accordo con la Libia ha garantito la priorità nell´assegnazione degli appalti alle imprese italiane per la ristrutturazione del paese».
Dunque, sembra dire il Cavaliere, ci sono soldi in arrivo per voi, cari imprenditori, Ma il merito è tutto mio. Perché non è stata impresa semplice convincere il colonnello Gheddafi. Anzi ho dovuto sudare sette camice per fare dimenticare il nostro passato coloniale. «Ma non è stato facile. - dice infatti il Cavaliere - In Libia ne abbiamo combinate di tutti i colori. Altro che "italiani brava gente" Ne abbiamo combinate proprio di tutti i colori! Certo non noi, ma i nostri nonni». L´elenco delle malefatte è lungo e senza appello. «Centotrentamila persone messe in un campo di concentramento. Bombe avvelenate nelle oasi. I nostri aerei hanno mitragliato questi poveracci, lasciando una marea, di cadaveri e migliaia di persone sono state portate alle Tremiti», snocciola il Cavaliere. Ma quello che conta è il risultato. «Credo che questo governo debba essere soddisfatto di quanto ha fatto», conclude Berlusconi.
Il presidente del Consiglio un accenno al nostro passato coloniale in Libia lo aveva fatto anche durante la recente visita nel paese africano per ratificare l´accordo di amicizia e cooperazione sottoscritto con Gheddafi. «Ancora e formalmente accuso il nostro passato di prevaricazione sul vostro popolo e vi chiedo perdono», aveva detto Berlusconi davanti al Congresso generale del popolo libico riunito a Sirte. «Il passato che con questo trattato vogliamo mettere alla spalle - aveva sottolineato Berlusconi tra gli applausi degli presenti - è un passato di cui noi, figli dei figli, sentiamo una colpa di cui chiedervi perdono. Nessun popolo può avere il diritto di sottomettere e governare un altro popolo, sottraendogli la propria cultura e le proprie tradizioni». «Accettiamo le scuse dell´Italia» per l´occupazione colonialista, «e prego tutti i libici di vincere i propri risentimenti e tendere la mano ai loro amici italiani in un rapporto paritario di rispetto reciproco», aveva replicato il colonnello Gheddafi.

Repubblica 12.3.09
Società a pezzi
Parla lo scrittore tedesco Peter Schneider: "Scuola e famiglia spesso sono inadeguate"
"Vietare le armi, un falso problema ma è l´isolamento che fa paura"
La società è disintegrata. E gli insegnanti non hanno tempo di affrontare i problemi psicologici degli studenti
di D. Ta.


STOCCARDA - «Avere tante armi a casa non mi sembra una libertà necessaria o prioritaria. Non credo che leggi più dure sulle armi eviteranno tragiche stragi come quella di poche ore fa. I problemi da affrontare sono altri». Così lo scrittore Peter Schneider commenta il massacro nel ricco sudovest.
Peter Schneider, come si possono evitare tragedie simili? «Insisto: la libertà di possedere armi in casa per me è secondaria contano la libertà di parola e di opinione, le libertà politiche, i diritti civili. E´ ovvio, certo, che ogni tragica notizia come quella di Stoccarda sveglia voglie di emulazione in potenziali imitatori. Un esponente del terrorismo rosso tedesco, Bommy Baumann, disse che l´arma migliore del Ministero dell´Interno contro di loro sarebbe stata il blocco totale delle notizie».
Una democrazia può fare un passo simile?
«No. Se lo fa si snatura. La libertà di avere armi, ripeto, è secondaria. Non ho nulla contro leggi più severe sulle armi. Ma non credo che servano. Il dibattito evoca il dilemma delle discussioni su come lottare contro il terrorismo. Con certi metodi antiterrorismo la società può non essere più la stessa di prima, può diventare la versione migliore di una prigione».
Ma cosa spinge questi ragazzi - tutti tranquilli, taciturni giovani borghesi, non emarginati - a simili stragi?
«La disintegrazione della società. Gli insegnanti non hanno più tempo per affrontare i problemi psicologici di ogni studente, specie nella Realschule, la scuola di serie C tedesca, dove spesso vanno i giovani che più soffrono dei problemi sociali o psicologici. Provi a chiedere un colloquio con un insegnante sui problemi di suo figlio: dovrà aspettare settimane. Gli insegnanti non sono preparati alle nuove sfide della tentazione della violenza. Le proposte dei politici sono ridicole: dicono «più psicologi a scuola», intendono uno psicologo per ogni cinquemila ragazzi. Ci vuole più preparazione per gli insegnanti, classi più piccole e facili da integrare, e l´abolizione di quella scuola degli esclusi».
I giochi video e internet violenti che ruolo hanno?
«Un grande ruolo, certamente. Un amico del giovane massacratore ha detto che lui ne aveva almeno mille. Portano alla desensibilizzazione, mostrano la violenza omicida come normale. Ma l´elemento decisivo è che il ragazzo era uno che non si faceva notare, isolato, appartato. Taciturno, ma esasperato nell´animo da fallimenti a scuola e nella vita che famiglia e scuola non hanno visto. Come tutti gli altri giovani che prima di lui hanno compiuto massacri simili. E´ diverso dalla violenza di bande nelle periferie emarginate: ognuno di questi massacratori visto dall´esterno sembra crescere tranquillo in un ambiente cosiddetto normale. Invece nel suo isolamento cresce e si diffonde nel suo animo come un virus la voglia di violenza, la convinzione che la società ti prenderà sul serio solo dopo un atto simile».

Repubblica 12.3.09
I fucili ai ragazzini
di Francesco Merlo


Il padre teneva in casa diciotto armi da fuoco, regolarmente denunziate, e certo fa pena pure lui, adesso che il suo Tim, a soli 17 anni, ha sparato, ha ucciso 15 persone, e poi si è suicidato.
Dalla profondità o, se preferite, dalla sommità del suo dolore di padre, il signor Kretfchner ha forse il diritto di pensare che non c´è nulla da capire perché nulla possiamo contro la gratuità di certi delitti. Maè impossibile togliersi dalla mente che, senza tutte quelle armi in casa, forse quel ragazzo avrebbe organizzato la propria pazzia personale nel chiuso di una stanza e non avrebbe colpito al cuore tante famiglie con quella cosa intollerabile che è la morte violenta e improvvisa. Non vogliamodire che sono pazzi i genitori di un figlio pazzo né che sono delinquenti i genitori di un figlio delinquente. Ma solo che questo padre, con tutte quelle armi in casa, ha certamente contribuito a sviluppare le fantasie del figlio, a fargli saltare l´adolescenza, a farlo avvicinare alla violenza con naturalezza, a costruirgli l´occasione propizia per diventare criminale. Non siamo alla ricerca di una logica sociale della follia, che semplicemente non c´è, ma è sicuro che se Tim non avesse avuto una pistola, tutti quegli altri ragazzi, i loro insegnanti e i due passanti non si sarebbero imbattuti in questo scarto umano. Insomma, la criminologia e la sociologia, che tutto hanno studiato sulla vita e sulla morte di intere comunità e per interi secoli, non riusciranno mai a sapere perché ieri mattina quel ragazzo ha indossato una tuta mimetica nera, ha pulito e caricato una semiautomatica ed è andato a scuola per uccidere e per uccidersi in un paesino della civile Germania, Winnenden, 30 mila abitanti, venti chilometri a sud di Stoccarda. Non uno di quei paesi deturpati dall´infelicità e dalla miseria verghiana e neppure una metropoli dell´alienazione, ma uno di quei luoghi dove anche l´edilizia è stata contenuta, dove la disoccupazione non è la cifra sociale e dove pure i disturbati, i malati e i pazzi godono di rimedi attenti e generosi.
Ebbene, senza quella semiauotomatica, senza le pallottole, senza la manualità necessaria che ti fa puntare e premere il grilletto, non ci sarebbe adesso in preparazione questo terribile funerale collettivo con 15 corpi spediti in cielo dove tutti, anche i ragazzi, smettono di essere ragazzi, prendono gli occhi di Dio e forse capiscono e compatiscono.
Ma cosa c´entravano loro con quelle armi, con la scienza psichiatrica, con l´idea che in questo merdaio che è diventato il mondo la morte si dà come si dà la vita, senza ragione, e la follia non è mai riconducibile a uno stato sociale, a un luogo, a un padre e a una madre?
Davvero nessuno sa di quale logica è fatta la colla che teneva insieme Tim, il mistero dei suoi sentimenti, della sua infelicità, della sua follia, che sono le cose più profonde e insondabili dell´universo e davvero nessuno ha il diritto di ridurle a scienza sociale e a criminologia, specie ora che anche la bara di Tim sarà lasciata sola come era solo lui: solo come un cadavere quando era vivo; abbandonato e odiato da vivi ora che è cadavere.
E però la cronaca nera, che ormai quasi ogni giorno registra delitti di follia, almeno questo ci insegna: la disgrazia di un figlio matto e delinquente è diventata la salsa di quella pietanza che è la vita metropolitana. A Stoccarda come a Torino, a Parigi come a Londra, ci sono ragazzi che sparano con il fucile dal balcone di casa (Manchester), altri ancora che alla periferia di Parigi massacrano due coetanei… E dovunque ci sono armi da fuoco, pistole e persino mitragliette che circolano in casa, armi da gioco o da difesa, armi che, nonostante le leggi, sempre più circolano anche in Italia, armi da caccia concesse persino ai sedicenni, come prevede l´irresponsabile progetto del Pdl, armi contro l´insicurezza, armi di paura, armi per diventare eroi.
Ecco: oggi l´eroismo non è certo la disgrazia di imbattersi in un giovane disperato, in un´anima malata che vuole sparare al mondo e toglierlo di mezzo. Oggi l´eroismo sta nella capacità di vivere con compostezza, nel capire che le armi, le pistole e le pallottole prima o poi trovano un nemico da abbattere. E che un delitto terribile e surreale come questo di Stoccarda, un delitto che sta sospeso come i quadri di Magritte, rende persino giusta l´idea ingiusta che le colpe dei padri ricadano sui figli. Non perché li hanno generati. Ma perché si sono armati e li hanno armati.

Corriere della Sera 12.3.09
Il regista Gansel nell'«Onda» racconta gli studenti e la violenza
«Sono i figli delle nuove frustrazioni Uccidono per trascinare giù tutti»
La situazione si è complicata: alle pulsioni naturali si aggiungono le pressioni sociali
di D. Ta.


WINNENDEN (Germania) — Dennis Gansel ha studiato a lungo i comportamenti dei giovani studenti, i meccanismi di gruppo nelle scuole. È il regista de L'Onda («Die Welle»), il film su un esperimento psico-sociologico nel quale un insegnante forza i comportamenti degli alunni e provoca reazioni impensabili, violente, irrazionali. Fino all'epilogo: uno di loro spara contro gli altri compagni e poi si ammazza. In questa intervista, dice che sono le aspettative eccessive che la società getta addosso ai giovani a farne, in qualche caso, killer non solo potenziali. Soprattutto, naturalmente, quando hanno libero accesso alle armi.
Lei si poteva aspettare che un episodio del genere potesse succedere di nuovo in Germania?
«Sono senza parole, sconvolto. Quando abbiamo fatto il film, ci siamo chiesti a lungo se rappresentasse qualcosa di reale. Abbiamo studiato i caratteri delle persone che in passato provocarono stragi simili a Emsdetten e a Erfurt. Ma avevamo dubbi. Oggi non ne ho più: la violenza nelle scuole è diversa da quella di 40 anni fa, è molto reale».
Pensa che sia la scuola a produrre questi risultati, il sistema di selezione tedesco, che già si applica a ragazzi giovani?
«No, in questi casi non si può fare l'errore di essere Küchenpsychologe,
psicologi per diletto. Colpisce di più la biografia dei protagonisti, ragazzi con complessi di inferiorità, in qualche caso presi in giro dai loro pari e, soprattutto, sotto una pressione che non sono capaci di sopportare».
Quale pressione?
«Tra i giovani non è strano che ci siano aggressività che hanno bisogno di esplodere, spesso per esprimere le loro frustrazioni. Una volta questo significava fare a pugni. Oggi, la situazione si è complicata perché alle pulsioni naturali si aggiungono le pressioni sociali, il dovere a tutti costi di avere successo, rispondere a richieste sempre più impegnative, preparare il futuro, studiare le lingue. Se, in questo ambiente, un ragazzo non ha la fidanzata, non ha lavoro, non ha amici e magari non è un bravo studente può succedere qualcosa di inspiegabile nella sua psiche».
I giovani sono più esposti?
«Non c'è dubbio. Un teenager ha reazioni diverse, più radicali, più disperate di un adulto. Anche quando quest'ultimo è in crisi, perde il lavoro, deve vivere di contributi sociali».
E il cortocircuito arriva quando hanno accesso alle armi.
«È un problema serio. Cominciato in America, ma poi diventato generale, in Germania, Olanda, Finlandia. Non credevo fosse così facile procurarsi armi, da noi. Invece, durante le ricerche per il mio film, un ragazzo di 16 anni mi ha mostrato come sia semplice procurarsele su Internet. Temo che non sia un problema di leggi, è che sono scesi di molto i freni inibitori».
Media, film violenti, videogiochi: c'entrano?
«È un collegamento che non vedo. È vero che ci sono film, musiche, videogiochi violenti. Ma, finora, i giovani che hanno commesso delitti del genere avevano sempre qualche problema. In questo, la scuola dovrebbe aiutarli, dovrebbe impiegare psicologi che li aiutino. Ma non so se basti».

Corriere della Sera 12.3.09
La violenza del suicidio memorabile
di Fulvio Scaparro


Assistiamo ad una forma relativamente nuova di suicidio giovanile: il suicidio memorabile. Si caratterizza per la spettacolarità di un evento preparato accuratamente per avere risonanza mediatica. Alla dimensione dolorosamente privata del suicidio si sostituisce un sensazionale attacco al mondo tale da rendere indimenticabili le gesta e la morte del giovane assassino. Ci si addestra all'uso di armi raccolte grazie all'incoscienza di chi consente che questo avvenga, si documenta il tutto con filmati e messaggi di odio che faranno il giro della Rete e infine si attacca là dove fa più male: la scuola è il luogo ideale dove trovare tanti bambini e ragazzi, il bene più prezioso di una società odiata.
Non è infrequente che, dopo questi fatti, ci si accorga che potevano essere prevenuti. Gli autori dei massacri si segnalano con il loro comportamento, gli scritti, i filmati, le ideologie fanatiche e violente, il culto della vita e della morte come spettacolo, gli arsenali di armi.
Non abbassare la guardia di fronte alla violenza è un segno di attenzione e di fiducia che dobbiamo ai nostri figli.

Corriere della Sera 12.3.09
L'omicida L'arsenale del padre e la passione per il tiro
Tim, l'adolescente senza qualità che sparava in cantina
di Guido Olimpio


WASHINGTON — Per chi lo conosceva, Tim Kretschmer, 17 anni, era un ragazzo normale, che passava inosservato. Ci ha pensato lui stesso ad attirare l'attenzione. Con un eccidio nella 10-D, la classe dell'istituto tecnico dove aveva ottenuto il diploma. Le parole di un'amica tradiscono quasi la sorpresa: «Non era un emarginato e con lui si usciva volentieri». Anzi sembra che tutti volessero frequentarlo perché aveva molti soldi in tasca. Tim, dunque, non rispondeva — in apparenza — al profilo del tipo introverso, infuriato con tutto quello che lo circonda e soprattutto con chi ha condiviso i banchi di scuola. Non sembrano neppure esserci storie di bullismo, tante volte usate come pretesto o giustificazione. E in queste ore la polizia sta controllando se il killer abbia lasciato una sorta di testamento o abbia affidato un messaggio a Internet, seguendo il sentiero di altri autori di massacri. Come Eric e Dylan gli sparatori folli di Columbine, diventati poi modelli e idoli di altri folli. Dal coreano Cho Seung-hui di Virginia Tech al ragazzo finlandese che si è lasciato una scia di sangue nel suo liceo.
Ma qualcosa di storto c'era, altrimenti non saremmo qui a parlare di lui. A sentire uno studente Tim era «profondamente frustrato». Per cosa? Solo ipotesi: difficoltà di inserimento, stress, problemi suoi. Nulla, sottolineano, che potesse far pensare ad uno scenario così tragico. E invece Tim è riuscito a portare a termine la sua missione distruttiva, accanendosi — sembra — su vittime di sesso femminile, ma poi ha rivolto la sua pistola anche contro dei passanti, dunque persone non legate al suo recente passato.
Rispetto ad altri assassini «scolastici », il giovane non ha dovuto faticare troppo per armarsi. È stato sufficiente sottrarre una Beretta alla collezione del padre, un imprenditore benestante con la passione del tiro. E l'ha usata con effetti devastanti. Del resto ci sapeva fare: si allenava spesso in cantina con pistole ad aria compressa e «faceva sempre centro». Passione alternata al ping-pong e alla visione di film dell'orrore. Ne aveva una collezione intera.
Tim si è mostrato un vero mutante. Un giovane qualsiasi che si trasforma in omicida. Certo, è più facile accorgersi dei «lupi solitari», che non fanno gruppo e sono lasciati fuori dalla classe, dal team sportivo e alla fine da tutto. A volte sono spinti in quella condizione. In altre sono loro stessi a ficcarsi nell'angolo. Si considerano degli sconfitti e provano a dimostrare il contrario con la violenza eclatante. Mietono vittime e puniscono chi li ha trattati da perdenti: «Finalmente vi accorgerete di me», è il loro messaggio. E la normalità è diventata la cortina fumogena ideale dietro la quale si è nascosto Tim per colpire.

Repubblica 12.3.09
Passa in commissione il testo del Pdl, bocciati gli emendamenti del Pd, la battaglia si sposta in aula. Marcia indietro sulla dichiarazione vincolante
Biotestamento, niente stop alla nutrizione
di Carmelo Lopapa


La Finocchiaro: nel centrodestra abbiamo trovato un muro. Il 18 il ddl in assemblea
Unica concessione all´opposizione: non sarà necessaria la registrazione dal notaio

ROMA - Passa la linea dura del Pdl sul testamento biologico. Nutrizione e idratazioni saranno «sostegni vitali» e in quanto tali il paziente non potrà disporne a suo piacimento, né tantomeno rinunciarvi. Saranno trattamenti sempre e comunque obbligatori anche per chi è in fin di vita. Secondo, la dichiarazione anticipata di volontà la si potrà pure fare, certo, ma non sarà vincolante per il medico.
Una parziale apertura in commissione Sanità, dove il ddl Calabrò è in discussione, aveva lasciato intendere diversamente. Poi l´intervento del sottosegretario Eugenia Roccella ha imposto un giro di vite: «Forse c´è stato un errore di valutazione, non possiamo ammettere ambiguità». E il relatore a chiudere: «Le dichiarazioni non saranno vincolanti». Uniche concessioni alle opposizioni, la durata del testamento biologico (non più tre anni ma cinque) e la cancellazione della norma che imponeva la contestatissima registrazione dal notaio. La dichiarazione anticipata di volontà (dat) sarà depositata presso il medico di famiglia. Grazie a un altro emendamento sarà possibile «donare» il proprio corpo dopo la morte, «a fini didattici e di ricerca». Per il resto, sui nodi cruciali le votazioni di ieri in commissione Sanità hanno chiuso la partita. Almeno finché il testo approderà in aula il 18 marzo. La commissione avrà un paio di giorni in più per lavorare, come disposto dal presidente Renato Schifani. Ma già ieri è stata battaglia. Il Pd, con tutto il fronte laico, ha accusato il colpo. «Abbiamo trovato un muro, ora è una dichiarazione light di volontà» denuncia Anna Finocchiaro. Esce sconsolato dalla commissione anche Ignazio Marino: «La legge resta incostituzionale e fa riferimento solo a pazienti in stato vegetativo, come era Eluana, resteranno esclusi tutti gli altri casi, un paradosso».
Tutto ruota attorno all´articolo 5 del ddl, quello centrale affrontato ieri: la nutrizione. L´emendamento della Finocchiaro che consentiva alla dichiarazione di volontà di far riferimento anche a idratazione e nutrizione è stato respinto da Pdl, Lega e Udc. Ma votato da tutto il Pd, Dorina Bianchi compresa, con l´eccezione di Riccardo Villari e Claudio Gustavino (astenuti). «No assoluto alla possibilità di sospensione della nutrizione, su questo non c´è mediazione» ha tagliato corto il relatore Calabrò. Con un altro emendamento, a firma del leghista Fabio Rizzi, si riconosce invece al solo "fiduciario" il potere di intervenire per conto del malato in stato di incoscienza. Anche se, come si è visto, le intenzioni dichiarate da quest´ultimo non saranno affatto vincolanti per il medico. L´emendamento del magistrato Pdl Roberto Centaro che le rendeva vincolanti era stato approvato. Poi la marcia indietro di maggioranza e governo.

Repubblica 12.3.09
"Nella Chiesa ci si divora a vicenda"
Papa, lettera sul caso-Williamson. "Ma su Internet potevamo controllare le sue tesi"
di Orazio La Rocca


CITTÀ DEL VATICANO - Lettera-confessione del Papa sul caso-Williamson, il vescovo negazionista «assolto» dalla scomunica con gli altri 3 presuli consacrati illecitamente da monsignor Lefebvre il 30 giugno1988. Nel testo - che sarà pubblicato oggi dalla Sala Stampa della Santa Sede e destinato ai vescovi di tutto il mondo - Benedetto XVI, secondo alcune anticipazioni, vi esprime «dispiacere e disappunto» per quanto accaduto. E´ quasi una richiesta di perdono, uno sfogo a tutto campo in prima persona, senza tener conto di chi - nella curia vaticana - ha tentato fino all´ultimo di dissuaderlo. Sembra che persino il segretario di Stato della Santa Sede, il cardinale Tarcisio Bertone, non gli abbia nascosto le sue perplessità. Ma senza successo. Ratzinger, col chiaro intento di assicurare i tanti vescovi che hanno mal digerito la revoca delle 4 scomuniche, ribadisce che si è trattato di un suo «gesto di paterna misericordia» per risanare una dolorosa ferita «nel corpo della Chiesa». Ma è solo un «inizio» perché sia i 4 vescovi che l´intera Fraternità di S. Pio X - «da dove sono arrivate molte cose stonate tipo superbia, saccenteria, unilateralismi» - non sono ancora membri effettivi della comunità ecclesiale, perché prima dovranno compiere un lungo cammino di ricerca, ubbidienza e accettazione dottrinale, a partire dalla «piena acquisizione del Concilio Vaticano II».
Quanto alle critiche, il Papa si dice «rattristato» e bacchetta «quei cattolici» che lo hanno «attaccato» sul caso-Williamson. Anche oggi nella Chiesa, scrive il Pontefice, «ci si morde e ci si divora a vicenda, come espressione di una libertà male intesa». A sorpresa, ringrazia «i tanti amici ebrei che si sono mostrati comprensivi e hanno contribuito a fare chiarezza». Un passaggio forse non casuale in vista dell´udienza che oggi Benedetto XVI concederà a una delegazione del Gran Rabbinato di Israele, guidata da David Rosen e Oded Wiener. Il Papa lamenta ancora che tutta la vicenda è stata travisata per «difetto di comunicazione» e pertanto annuncia che la commissione Ecclesia Dei, responsabile dei rapporti con i lefebvriani, sarà sottomessa alla Congregazione per la dottrina della Fede e ai dicasteri della liturgia e del clero. Una decisione che suona come un vero e proprio declassamento dell´Ecclesia Dei, anche se il segretario dello stesso organismo, monsignor Camille Perl, parla di «speculazioni giornalistiche gratuite ed eccessive fatte senza nemmeno aver letto la lettera ufficiale del Santo Padre che sarà distribuita oggi». Ma nella lettera il Papa sembra criticare proprio l´Ecclesia Dei perché richiama quegli «uffici» e quei «collaboratori» che, prima della revoca della scomunica, avrebbero potuto facilmente rintracciare almeno su internet le tesi negazioniste sostenute da Williamson. Da qui l´ammissione-sfogo: la crisi esplosa alla revoca della scomunica è stata «una disavventura per me imprevedibile» anche per «il fatto - ammette Ratzinger - che il caso Williamson si è sovrapposto alla remissione della stessa scomunica».

Aprile on line 11.3.09
Un manifesto per la scomunica
di Paolo Izzo


A nome di quante persone, in realtà, le gerarchie ecclesiastiche di tutto il mondo parlano? Se, per coerenza e per diritto canonico, esse scomunicassero in un sol colpo tutti gli "eretici", in quanti rimarrebbero a tentare di dettare "legge"?


La terribile vicenda della novenne brasiliana che ha abortito e della conseguente violenza dell'arcivescovo di Recife ai danni dei medici e della madre della bambina, mi impone di riprendere con forza una battaglia iniziata due anni orsono affinché la Chiesa cattolica scomunichi pubblicamente tutti, ma proprio tutti coloro i quali contravvengono a quelli che essa ritiene dogmi. Parlamentari, medici, giornalisti, giudici, avvocati, scienziati, opinionisti: scomunichino tutti quelli che lottano ogni giorno per l'affermazione dei diritti umani e civili!

L'intento della mia "provocazione" è quello di provare a mettere a nudo una verità... statistica: a nome di quante persone, in realtà, le gerarchie ecclesiastiche di tutto il mondo parlano? Se, per coerenza e per diritto canonico, esse scomunicassero in un sol colpo tutti gli "eretici", in quanti rimarrebbero a tentare di dettare "legge"?

Cominciai nel 2007, con una lettera pubblicata dal Riformista il 5 maggio; ad essa ne seguirono decine e forse centinaia, che il giornale in parte pubblicò per giorni e giorni... Tantissimi organi di informazione ripresero e rilanciarono l'iniziativa nata così spontaneamente (anche quella volta il pretesto fu la scomunica da parte dell'arcivescovato messicano contro i parlamentari di quel paese che avevano votato un legge per l'aborto): oltre ad Agi, Apcom, Aprile, Agenzia Radicale, Liberazione e tanti siti e blog, se ne dovette occupare persino l'Avvenire. Altre furono le incursioni del sottoscritto sulla stampa e attraverso internet ed ogni volta avevano un seguito di indignazione contro le ingerenze vaticane e di sostegno alla causa. Una nutrita rassegna dal 5 maggio a tutt'oggi, potete leggerla qui: www.paoloizzo.net/scomunicateci.htm.

Vi segnalo infine che nelle ultime settimane ho ideato anche una sorta di "manifesto per la scomunica", proponendolo come descrizione del gruppo di Facebook "Scomunicateci", che in pochi giorni ha ricevuto 1000 iscrizioni!
Lo trovate qui di seguito:

Manifesto per la scomunica:

Scomunicateci.
Siamo atei.
Siamo a favore della contraccezione, dell'amniocentesi e della epidurale, della fecondazione assistita omologa ed eterologa, dell'interruzione volontaria di gravidanza,
della "pillola del giorno dopo" e della RU-486, della ricerca sulle cellule staminali embrionali, dell'eutanasia
e del testamento biologico.

Formiamo coppie di fatto, senza firmare contratti o matrimoni.
I nostri figli non li battezziamo e li esoneriamo dall'insegnamento della religione cattolica.
Preferiamo pensare, invece di credere.
E pensiamo a una nascita umana sana, uguale per tutti, senza perversioni e senza peccato originale. Perciò il Bene per noi è sinonimo di etica umana e di sanità mentale.

Riteniamo che la Chiesa non si sia mai evoluta,
se non perché costretta dagli Stati laici, come il nostro non sembra essere piú.
Ugualmente, sosteniamo che il clero è una lobby di potere politico ed economico;
e che il Vaticano è uno Stato straniero, con le sue regole,
il suo piccolo territorio e le sue grandi brame di espansione.

E nemmeno chiediamo che si torni alle origini, come si dice:
a Gesù, a san Francesco o alla madonna;
perché per noi essi sono astrazioni, figure mitologiche,
né più né meno di Giove, Bacco e Artemide.

Perciò vogliamo starne fuori:
se la Chiesa o il nostro Stato parleranno a nome della cristianità, non parleranno piú a nome nostro.
Vogliamo essere liberi di sognare,
di pensare alle donne e agli uomini come noi,
di occuparci dei nostri bisogni e delle nostre esigenze di esseri umani, fatti di psiche e di biologia
e nati non prima di aver visto la luce con i nostri occhi.
E morti quando non potremo più pensare di essere vivi.

Tutto questo può bastare per essere scomunicati?
Riteniamo di sì.

www.paoloizzo.net/scomunicateci.htm
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l’Unità 12.3.09
Nel «Nemico del mio nemico» infamie e protezioni godute dal nazista Klaus Barbie
«L’avvocato del terrore» parla di Vergès: ha difeso terroristi e criminali di guerra
Il criminale nazista e l’avvocato all’ombra della Cia e del Kgb
di Gabriella Gallozzi


Cinquant’anni della nostra storia più oscura raccontati attraverso le vite del criminale nazista Klaus Barbie e del suo avvocato difensore Jacques Vergès. Un intreccio internazionale tra spie, terroristi e misteri.

Una vertigine della storia che tiene insieme il «macellaio di Lione» Klaus Barbie, il folle dittatore cambogiano Pol Pot, il responsabile dei massacri in ex Jugoslavia Milosevic e Carlos, primula rossa del terrorismo internazionale. Quasi un thriller che passa attraverso la seconda guerra mondiale, la lotta d’indipendenza algerina, lo scacchiere della Guerra Fredda e gli anni di piombo, per arrivare ai giorni più recenti. È questo l’incredibile percorso che propone la collana «Real cinema» di Feltrinelli con due notevoli documentari storici (libro + dvd): Il nemico del mio nemico del premio Oscar Kevin MacDonald e L’avvocato del terrore di Barbet Schroeder, produttore della Nouvelle Vague e regista del Mistero von Bulov.
Quest’ultimo racconta dell’attività professionale di Jacques Vergès, avvocato francese passato alla storia come difensore di celebri terroristi e criminali di guerra. Tra questi proprio il nazista Klaus Barbie. Sulle tracce della sua esistenza ci conduce lo scozzese Kevin McDonald, arrivato all’Oscar con Un giorno a settembre, film sul commando palestinese che prese in ostaggio la squadra israeliana durante le Olimpiadi di Monaco del ’72. Qui, nel Nemico del mio nemico, il racconto punta sulle «due vite» di Barbie: la prima al servizio del Terzo Reich nella Francia collaborazionista di Petain, quando l’ufficiale della Gestapo di stanza a Lione si «distinguerà» come torturatore feroce, assassino e responsabile della deportazione di massa degli ebrei. Compresa un’intera scolaresca di bambini. E una seconda vita quando, in piena Guerra Fredda, lui come altri criminali nazisti, passerà al «servizio» della «lotta anticomunista» sostenuta dagli Stati Uniti. Ed è questa la parte più sorprendente del film. «Avevamo bisogno di un uomo per combattere i comunisti e avevamo in mano uno specialista: Barbie lo aveva fatto per i nazisti, così chi meglio di lui avrebbe potuto fare lo stesso lavoro per noi?» spiega Noam Chomsky in Il golpe silenzioso. Segreti, bugie, crimini e democrazia. Con questo nuovo «incarico» «il macellaio di Lione» viene fatto fuggire dall’Europa in Sudamerica attraverso «la rete di fuga del Vaticano - è sempre Chomsky a raccontare - per la quale molti preti ustascia e criminali nazisti poterono fuggire». Era la cosiddetta «strada dei topi» che da Genova, grazie ai passaporti rilasciati dalla Croce Rossa, portava direttamente in Sud America. Vi passarono tutti: Josef Mengele, il medico che sterminò migliaia di ebrei ad Auschwitz; Adolf Eichmann, teorico ed organizzatore dello sterminio; Erich Priebke, condannato per la strage delle Fosse Ardeatine; e Barbie, appunto.
Approdò in Bolivia, dove fu dietro le quinte dell’operazione che portò alla cattura e all’omicidio del Che. Qui riprese «l’attività» di un tempo al servizio della feroce dittatura sostenuta dalla Cia. E impressiona ascoltare il racconto delle sue vittime, «dissidenti politici», da lui torturati per giorni e giorni. In Bolivia Barbie resterà «nascosto» per anni. Fino a quando, finalmente riconosciuto, nell’82 il tribunale di Lione spicca il mandato di cattura. Seguirà l’arresto e il trasferimento in Francia. Dopo un’istruttoria durata quattro anni, nell’87, sarà condannato all’ergastolo per crimini contro l’umanità. Nel ’91 morirà e sarà sepolto in Bolivia.
IL PROCESSO
Ed è proprio durante il processo che entra in scena Jacques Vergès, protagonista dell’Avvocato del terrore. Lo vediamo mentre spiega le motivazioni di questa difesa: «Non credo che Klaus Barbie sia innocente - dice -. Lui è un personaggio tragico dei nostri giorni. Né migliore né peggiore di un generale americano in Vietnam che bombardava di napalm la popolazione indifesa. Né di un ufficiale russo a Kabul o di un ufficiale francese in Algeria». Nato nel 1924 in Thailandia e figlio del «meticciato colonialista francese» (madre vietnamita e padre delle isole Reunion) Jacques Vergès si arruola nel ’42 con l’esercito del generale De Gaulle per combattere in Marocco e Algeria. A guerra finita si iscrive al Partito comunista francese, si laurea in legge e comincia così la sua battaglia contro il colonialismo, mentre l’Algeria è impegnata nella guerra di liberazione. Qui difenderà una figura storica di quella lotta: Djamila Bouhired, pasionaria del Fronte di liberazione palestinese, responsabile degli attentati della Battaglia di Algeri che rivediamo nelle immagini indimenticabili del capolavoro di Gillo Pontecorvo.
VITA DA SPIA
Vergès si innamora di Djamila. La sposa e, dopo una mobilitazione internazionale, riuscirà a far commutare la pena di morte nei lavori forzati. Da qui in poi la sua vita è una sorta di spy-story. Incontra Mao Zedong, si lega in amicizia con Pol Pot e, soprattutto, sparisce dalla scena internazionale dal 1970 al 1978. C'è chi lo dà rifugiato nella Germania dell'Est, dove compie numerosi viaggi come documentano gli archivi della Stasi, e chi lo vuole al servizio del Kgb. In seguito difenderà nomi di spicco della lotta palestinese: Waddi Haddad, Bruno Breguet, primo europeo condannato per attività terroristica pro Fplp e legato a sua volta allo svizzero ex nazista Francois Genoud, la terrorista Magdalena Kopp, compagna del «leggendario» Carlos, «lo sciacallo», condannato all’ergastolo per una serie di attentati in Francia. Numerosi anche i membri della Rote Armee Fraktion difesi da Vergès, compreso il «loro» avvocato Klaus Croissant per la cui liberazione si schierarono Sartre e Foucault. Con Croissant Vergès tenta di creare un collettivo europeo di avvocati per la difesa dei prigionieri politici. Il tutto sullo sfondo dei legami segreti che governavano il mondo diviso in blocchi, nel quale Vergès si è mosso con disinvoltura, da figlio «rinnegato» della Francia.

il Riformista 12.3.09
Demjanjuk processato in israele come guardia di Treblinka, ieri mandato di cattura da Monaco
Il boia della Shoah torna alla sbarra
di Luigi Spinola


«Siamo riusciti perfino a ritrovare le liste con i nomi di uomini, donne e bambini che John Demjanjuk ha portato personalmente alle camere a gas. È il responsabile della morte di oltre 29.000 persone.» Kurt Schrimm, che guida l'unità speciale tedesca incaricata di investigare sui crimini dei nazisti, non ha dubbi. Da mesi chiede di accellerare i tempi per portare Demjanjuk sul banco degli imputati. Ieri è arrivato il mandato d'arresto, emesso dal Tribunale di Monaco. Ora gli Stati Uniti, che gli hanno già levato la cittadinanza e lo hanno condannato all'espulsione, dovrebbero accogliere la richiesta di estradizione. L'ultimo, forse conclusivo capitolo del caso Demjanjuk. Quando fu processato per la prima volta negli Stati Uniti, più di trent'anni fa, l'immigrato ucraino con passaporto Usa John Demjanjuk sembrava un tipico colletto blu dell'Ohio. Da allora è diventato l'incarnazione del male assoluto.
Oggi è «Il Boia di Sobibor», campo di concentramento dove secondo l'accusa ha commesso i suoi crimini tra il marzo e il settembre del 1943. Ieri era «Ivan il Terribile», la guardia più temuta del campo di sterminio di Treblinka, imputato nell'ultimo grande processo sull'Olocausto che si è svolto in Israele. Un trauma collettivo per il popolo israeliano, come lo era stato il processo Eichmann, che nel 1961 aveva costretto un'intera nazione ad affrontare il tabù della Shoah. Ma diverso, forse perfino più doloroso. Eichmann era il burocrate dello sterminio, l'organizzatore ottuso e pignolo della "Soluzione Finale". «Ivan il Terribile» era l'aguzzino capace di fare «ciò che nessuna mente umana può lontanamente concepire» come disse Pinchas Epstein, sopravvissuto a Treblinka, nella sua testimonianza.
Era il 1987. Il teatro di Gerusalemme era stato trasformato in un aula di tribunale e accoglieva ogni giorno intere scolaresche. Il Paese seguiva ogni passo del processo trasmesso da una asfissiante diretta radiotelevisiva. Le dettagliate testimonianze raccontavano l'orrore indicibile della Shoah. Ivan-John che costringe i prigionieri a rapporti sessuali con i cadaveri destinati ai forni. Ivan-John che stacca con la baionetta i genitali di chi osava rallentare la mesta processione verso le camere a gas. Ivan-John che nega perfino il conforto del gas, e manda a morire le persone in quelle camere semplicemente chiudendole dentro fino a esaurimento dell'aria. Per un anno intero, l'incubo degli 800.000 prigionieri destinati alla morte nel campo di Treblinka abitò la vita quotidiana degli israeliani. Il 25 aprile del 1988 i giudici del tribunale di Gerusalemme condannarono John Demjanjuk a morte per impiccagione. Cinque anni dopo, la Corte Suprema israeliana sentenziò che testimonianze contrastanti sulla sua identità non consentivano di affermare aldilà di ogni ragionevole dubbio che John Demjanjuk e «Ivan il Terribile» fossero la stessa persona. L'orrore era stato dimostrato, ma i giudici giunsero alla dolorosa consapevolezza che «la faccenda è chiusa ma non completa, la completa verità non è prerogativa dell'umano giudizio». E lo rilasciarono.
Demjanjuk tornò negli Stati Uniti, da dove era stato estradato nel 1986. Nel '98 riottenne la cittadinanza ma un anno dopo era di nuovo alla sbarra. Treblinka non era neanche citata nella documentazione presentata dal Dipartimento di Giustizia che lo identificava come guardia nei campi di concentramento di Majdanek e Sobibor in Polonia e di Flossenburg in Germania. Nel maggio del 2008 Demjanjuk perde l'ultimo appello contro l'espulsione, davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti. Esattamente un mese dopo la Germania annuncia che ne chiederà l'estradizione. Ieri il mandato di cattura. Oggi inizia la nuova corsa contro il tempo della giustizia.

Repubblica 12.3.09
Un libro sulle origini della "rabbia" islamica
Perché i musulmani odiano l’America
di Bernard Lewis


Anticipiamo alcune pagine tratte da "Le origini della rabbia musulmana" di (Mondadori, pagg. 440, euro 32).

All´inizio la risposta musulmana alla civiltà occidentale fu di ammirazione ed emulazione, di rispetto per le conquiste occidentali e desiderio d´imitarle e adottarle. Questo atteggiamento nasceva da un´acuta e crescente consapevolezza della debolezza, della povertà e dell´arretratezza del mondo islamico rispetto all´Occidente progredito.
(...) Nella nostra epoca, in molti musulmani quel sentimento di ammirazione ed emulazione ha lasciato il posto all´ostilità e al rifiuto, sicuramente derivanti da un senso di umiliazione (...) oltre che da eventi verificatisi nel mondo occidentale. Un fattore di notevole importanza fu certo l´impatto di due grandi guerre suicide in cui la civiltà occidentale si dilaniò, provocando innumerevoli distruzioni a se stessa e ad altri popoli, e dove i belligeranti condussero un immenso sforzo di propaganda, nel mondo islamico e altrove, per screditarsi e indebolirsi reciprocamente. Il loro messaggio trovò molti ascoltatori pronti a rispondere proprio perché avevano già un´esperienza negativa dei metodi occidentali.
L´introduzione dei sistemi commerciali, finanziari e industriali dell´Occidente portò ovviamente una grande ricchezza, più a occidentali trapiantati e a membri di minoranze occidentali che alla popolazione musulmana. (...) A un gran numero di mediorientali i sistemi economici occidentali portarono povertà, le istituzioni politiche occidentali portarono la tirannide, la guerra all´occidentale portò la sconfitta. Non c´è da sorprendersi se in tanti hanno prestato ascolto alle voci secondo cui l´antico sistema islamico è il migliore e l´unica salvezza consiste nel mettere da parte le innovazioni pagane dei riformatori e ritornare al cammino di verità prescritto da Dio al suo popolo.
In definitiva, i fondamentalisti combattono contro due nemici: secolarismo e modernismo. La guerra contro il primo è consapevole ed esplicita, ed esiste una letteratura che lo denuncia come forza del male neopagana operante nel mondo moderno, attribuita, a seconda dei casi, agli ebrei, all´Occidente e agli Stati Uniti. La guerra contro il secondo non è, in genere, né consapevole né esplicita ed è diretta contro l´intero processo di cambiamento verificatosi nel mondo islamico nel secolo scorso o prima, che ha trasformato le strutture politiche, economiche, sociali e addirittura culturali dei paesi musulmani. Il fondamentalismo islamico ha dato al risentimento e alla rabbia delle masse musulmane una finalità e una forma di cui erano prive, e le ha indirizzate contro le forze che hanno svalutato i valori e le lealtà tradizionali, derubandole in ultima analisi di convinzioni, aspirazioni, dignità e, in misura sempre più estesa, addirittura dei mezzi di sostentamento.
Eppure, nei momenti di sovvertimento e disordine, quando si risvegliano le passioni più profonde, quella dignità e quella cortesia verso gli altri possono lasciare il posto a una miscela esplosiva di rabbia e odio che spinge addirittura il governo di un paese antico e civile, e il portavoce di una religione altamente spirituale ed etica, a ricorrere al sequestro e all´assassinio, cercando legittimazione e addirittura qualche precedente nella vita del Profeta. L´istinto delle masse non sbaglia nel riconoscere la fonte di questi disastrosi cambiamenti nell´Occidente, attribuendogli la distruzione del loro antico modo di vita di fronte all´impatto del dominio, dell´influenza, dei precetti e dell´esempio occidentali. E dato che gli Stati Uniti sono i legittimi eredi della civiltà europea nonché il leader riconosciuto e incontrastato dell´Occidente, sono loro ad aver ereditato le rimostranze, diventando il bersaglio dell´odio e della rabbia repressi.

Corriere della Sera 12.3.09
Incontri L'ex «enfant terrible», amico di Foucault, ha 72 anni ma non smette di spiazzare. Mentre esce un nuovo libro
Philippe Sollers: noi francesi invidiosi del genio italiano
«In ritardo di due secoli, condannati a inseguirvi» E poi accusa: Saramago e Grass sopravvalutati
di Nuccio Ordine


«Con questo mio ultimo romanzo, Les Voyageurs du temps, ho voluto parlare di scrittori, artisti, musicisti che hanno pagato concretamente con la loro esistenza l'amore per l'arte e per la scrittura. Niente a che fare, dunque, con i falsi viaggiatori del tempo, incapaci di penetrare a fondo la poesia e, più in generale, la cultura». Philippe Sollers, enfant terrible della letteratura francese, ha recentemente pubblicato da Gallimard la sua ultima opera, che avrebbe dovuto essere processata in un «tribunale speciale» nella Mairie del VI arrondissement di Parigi. La notizia era rimbalzata dalle pagine di Le Figaro a quelle di altri quotidiani. «All'inizio — spiega Sollers, che in novembre compirà settantatré anni — questa idea, promossa da un giovane avvocato francese di cui ho pubblicato un romanzo, mi era sembrata molto buona. L'ispirazione veniva dal famosissimo processo in stile dadaista che nel 1921 André Breton ed altri organizzarono per giudicare Maurice Barrès. Avrei voluto partecipare con l'intento di mostrare che l'accusato può diventare talvolta accusatore. Ma poi ho rinunciato perché si stava trasformando in un trappolone dell'estrema destra».
Philippe Joyaux, in arte Sollers, accetta volentieri di parlare anche dei letterati che non figurano nel suo libro e che credono, a torto, di essere «viaggiatori del tempo». Nel suo minuscolo studio, al primo piano nella sede storica dell'editore Gallimard, proclama: «Viva l'Italia». Dietro una scrivania, invasa da pile di suoi libri, il romanziere fa capolino avvolto in una nuvola di fumo. «Una gran parte di apparenti viaggiatori — dice — abita all'interno della Cupola degli Immortali: sono tanti gli accademici di Francia che rappresentano una falsa prospettiva storica, fondata sul conformismo. Difficilmente da uno scrittore come Jean d'Ormesson potremo aspettarci analisi penetranti di poeti come Lautréamont o Rimbaud».
«Al contrario — aggiunge Sollers — i grandi scrittori, i grandi pittori, i grandi musicisti hanno saputo leggere immensi capolavori e hanno saputo creare opere straordinarie in cui si riflette il legame con la vita. Ho ricordato alcuni inimitabili innovatori come Picasso o Joyce. I "viaggiatori del tempo" si occupano soprattutto dell'esistenza possibile, della libertà, della vita poetica...».
Sollers tiene a sottolineare che spesso la letteratura passata al filtro nelle ingessate Accademie finisce per essere mortificata. «Si pensi al perverso meccanismo del Nobel, nella cui lista figurano autori che probabilmente hanno avuto meriti diversi da quelli letterari. Io non avrei dato il premio a Saramago, Grass, Xingjian, Coetzee. L'avrebbero meritato, invece, autori come Borges, Céline, Malraux, Claudel, Roth».
Sollers parla senza peli sulla lingua. Non a caso da oltre cinquant'anni — con ingegno e astuzia, come rivela l'etimologia latina del suo cognome letterario «Sollers», composto da sollus e ars — riesce a far discutere di sé sfuggendo programmaticamente a qualsiasi tipo di classificazione. Ma come è stato possibile mettere assieme il nouveau roman e lo strutturalismo, Mao e il Papa, la critica ai media e il suo essere mediatico, l'estrema sinistra e l'estrema destra, il libertinismo e il misticismo, il disprezzo per il servilismo e la creazione di un sistema di potere?
«Ecco — risponde divertito Sollers — come la mia immagine "oscillante", la lotta per la verità che conduco ormai da tanti decenni, si pone in netto contrasto con un certo clero intellettuale, i cui esponenti più eminenti sono Régis Debray, Alain Badiou, Luc Ferry. A costoro è difficile far capire l'arte della contraddizione. Loro non sanno che la verità è sempre paradossale. E oggi, in particolare, chi non è paradossale non riesce a esprimere più niente. Una personalità come la mia, libera da qualsiasi vincolo, disturba, viene addirittura considerata come una bestia inafferrabile».
L'autore è cosciente che le sue opere producono sempre effetti contrastanti e che, in ogni caso, non possono passare inosservate. «Il clero intellettuale mi considera per questo mio modo di essere come un eretico. Loro mi odiano perché li spiazzo sempre, perché riesco a collocarmi ogni volta da un'altra parte. Oggi non c'è solo la Chiesa a bollarti come eretico, ma esiste soprattutto una classe di nuovi inquisitori (composta da giornalisti, universitari, politici) che si crede autorizzata a infliggere condanne». Eppure Philippe Sollers ha annodato, nel corso di decenni, profondi legami anche con il mondo dell'università e del giornalismo. «Certamente. Ma loro si sono serviti di me e non io di loro. Ci tengo a chiarire che molti studiosi, che poi hanno riscosso un notevole successo internazionale, hanno vissuto un difficile esordio. E durante il loro isolamento sono stato io a sostenerli e a lanciarli attraverso le pagine della rivista Tel Quel.
Penso a docenti del calibro di Michel Foucault, quando ancora negli anni Sessanta era sconosciuto.
Lo stesso discorso vale per Barthes, Bataille, Lacan, Derrida: le loro idee subirono, all'inizio, feroci attacchi e contestazioni. E a chi ha scritto che le Monde è ai miei ordini, consiglierei di leggere la recensione del mio ultimo libro per cogliere al volo una serie di controsensi e incomprensioni».
Sollers non nasconde la sua vocazione a difendere ciò che in alcuni momenti storici viene considerato «indifendibile». «Negli anni ho imparato che spesso il nuovo si annida nell'"indifendibile". Proprio in questo spazio può prodursi qualcosa di stimolante in grado di aiutarci a ripensare molte cose. Del resto, io stesso sono indifendibile perché perturbo le immagini fisse. Ma non ci si rende conto che viviamo in un'epoca in cui tutti parlano e nessuno ascolta. Tutti scrivono e nessuno legge. L'intera mia opera muove una critica sociale molto forte a questo tipo di cultura senza memoria».
La lettura, per Sollers, gioca un ruolo decisivo nel destino della letteratura. «Da tempo vado gridando che per saper scrivere bisogna saper leggere. E che per saper leggere bisogna saper vivere». Una cosa è creare, un'altra cosa ancora è vivere da «parassiti». «I parassiti si distinguono dalla vera bestia, molto rara. E su questi temi Nietzsche ha scritto pagine straordinarie. Non a caso ho iniziato a datare i miei libri dal 30 settembre 1888, a partire dal nuovo calendario nietzschiano. In questo mio ultimo romanzo, infatti, siamo nell'anno 121 e non nel 2009».
Ma il discorso sulle infinite maschere di Philippe Sollers invita a ricordare il suo grande amore per Venezia, che traspare, a più riprese, in tantissime opere. «Ho sempre considerato l'Italia un Paese straordinario. La mia passione nasce già durante il mio primo viaggio a Firenze, sulle tracce di Dante, un poeta che ha segnato la mia vita. Poi ho visitato Napoli e Roma. E infine, in una notte del 1963, appena sbarcato in una deserta piazza San Marco, ho subito capito che non mi sarei più separato da Venezia, ha ispirato tante mie opere. E qui fu arrestato Giordano Bruno, straordinario filosofo, presente nella copertina del mio libro
H in cui riproduco una delle sue silografie. I francesi hanno un antico complesso di inferiorità rispetto all'Italia: noi siamo stati sempre in ritardo di due secoli. Ma, probabilmente, lo sguardo di chi viene dall'esterno riesce a vedere cose che gli italiani stessi non vedono».
Tra il fumo delle sigarette e lo zolfo delle sue parole ormai l'aria è irrespirabile. Ma prima dei saluti, ancora una domanda: si sente ancora un vero agitatore? «Ogni volta che scrivo — dice tossendo — i lettori si agitano. Sono loro che mi incoraggiano a coltivare la mia passione per la scrittura».

Corriere della Sera 12.3.09
Quattrocento anni fa inventò il cannocchiale. Da domani al 30 agosto un viaggio nell'affascinante rapporto tra uomo e cosmo
Galileo. Il cielo in una lente
Dai papiri egizi all'Atlante Farnese: la matematica incontra l'arte
di Wanda Lattes


La mostra «Galileo. Immagini dell'universo dall'antichità al telescopio» è promossa dall'Ente Cassa di Risparmio di Firenze e dalla Fondazione Strozzi.
Curatore, Paolo Galluzzi, direttore del museo di Storia della scienza di Firenze. Info: www.palazzostrozzi.org, 055/2645155. Catalogo: «Giunti», 444 pagine, 38 euro
La musica All'interno della mostra sarà presentata la prima esecuzione del canone angelico a 36 voci del frontespizio della Musurgia Universalis di A. Kircher.
Il canto celeste è il sonoro del filmato «L'armonia delle sfere»: partitura di M. Ignelzi, eseguito dal coro Vincenzo Galilei della Normale di Pisa (direttore F. Rizzi)
L'altra mostra «Il futuro di Galileo» , in corso a Padova fino al 14 giugno al Centro Culturale Altinate/San Gaetano, è dedicata alla modernità, all'innovazione e alla capacità di guardare al futuro dello scienziato. Orari: 9-19, dal martedì alla domenica. Il biglietto costa 8 euro, info: 049 2010010

Trecento pezzi in otto grandi sale. Perfino gli antichi soffitti di palazzo Strozzi sono stati colorati, rivestiti, per per fare intravedere, di colpo, il linguaggio del cielo. Trecento pezzi, oltre alle postazioni multimediali, per addentrarsi nelle più remote suggestioni degli uomini: l'amore, la paura dell'infinito.
La mostra che suggella il quarto centenario delle scoperte rivoluzionarie di Galileo Galilei ha richiesto due anni d'impegno da parte degli studiosi che Paolo Galluzzi, accademico dei Lincei, ha guidato con lo scopo di realizzare non tanto la celebrazione di un genio italiano, quanto di far intendere la cesura che agli inizi del Seicento si ebbe nel mondo della scienza e, dunque, nella vita degli uomini.
Esisteva il rischio di esporre soltanto reliquie galileiane proverbiali: il primo cannocchiale, appunti, ritratti che rievocano la celeberrima condanna per eresia, il salvataggio, la dimora dell'esilio, perfino l'autentico pezzetto di scheletro, l'osso di un dito. Ma il pericolo di una banale agiografia è stato evitato. La mostra è un viaggio (con l'accompagnamento della musica celeste che gli antichi a lungo attribuirono al movimento degli astri) nel rapporto tra uomo e cielo di cui Galileo è solo l'ultimo atto. Ecco dunque come, dai tentativi di interpretare la disposizione dei corpi celesti quale magico, diretto fattore di carattere di ciascun individuo malinconico, flemmatico o rabbioso, si sia passati all'osservazione del cosmo, al ragionamento geometrico che è base delle scienze attuali.
La prima sezione (con papiri, manoscritti e tavolette) risale agli albori dell'astronomia: Mesopotamia, Egitto. Nella seconda e nella terza si semplifica il pensiero greco ed ellenista: Platone, Aristotele, Pitagora, Tolomeo. Poi si individuano le forme del pensiero cristiano, islamico, e si arriva alla rinascita dell'astronomia con Copernico e Tycho Brahe. Fino a che non arriva Galileo che, dando le consegne a Keplero e Newton, apre alla Scienza vera e propria.
I pezzi della mostra testimoniano inoltre, con coerenza, come il cielo abbia parlato all'arte. Ecco, tra Centauri e cigni simbolici, l'Atlante Farnese, splendida statua greca portata a Roma nel 1562. Il vecchio Atlante ha sulle spalle il globo celeste con tanto di equatore, zodiaco e tutte le costellazioni. A tale capolavoro si accostano come rarità le tavolette babilonesi che rispecchiavano diari astronomici, solstizi, equinozi. E poi il globo d'argento del II secolo che in superficie squaderna le 48 costellazioni di Tolomeo. L'arazzo di Toledo è un astrolabio di stoffa variopinta che ha al centro la sfera celeste e attorno meravigliose fantasie di costellazioni. Di Botticelli è esposto un Sant'Agostino; di Rubens, un feroce Saturno. E poi un Atlante del Guercino, una Melanconia di Durer, un'Allegoria dell'aria e del fuoco firmata da Bruegel il vecchio.
Ed eccolo, infine, il simbolo e il fulcro di questa mostra e dell'anno galileiano: il cannocchiale che lo scienziato realizzò per il Granduca Cosimo II, legno, pelle, decorazioni in foglia d'oro, piccolo diaframma, bariletto per le lenti. E, accanto, il suo primo «figlio»: un suggestivo acquerello autografo della Luna, la prima fedele riproduzione dell'immagine catturata finalmente grazie allo strumento appena inventato.

Corriere della Sera 12.3.09
Il biografo William Shea, professore all'università di Padova
«Quel genio della fisica che faceva l'oroscopo»
di Giovanni Caprara


«Li diciotto anni migliori di tutta la mia età». Era soddisfatto Galileo Galilei del suo soggiorno a Padova. Arrivato da Pisa nel 1592, insegnava matematica all'Università da un pulpito di legno che ancora oggi si può osservare all'ingresso dell'aula magna al Palazzo del Bo. «Però i suoi studenti erano perlopiù di medicina — racconta William R. Shea, sulla cattedra galileiana di storia della scienza all'ateneo patavino —. E non tutto comunque gli piaceva. Allora c'erano due facoltà: la più importante, giurisprudenza, aveva 28 professori e accanto esisteva quella delle arti con 19 professori. Quando, all'inizio dell'anno accademico, entravano in fila in cattedrale secondo l'ordine d'importanza, Galileo era il penultimo, seguito dalla retorica. La matematica, allora, non contava molto e il fatto certamente non lo rallegrava. In realtà era suo compito anche l'insegnamento dell'astrologia ».
La cosa all'epoca era normale e Keplero, mentre scopriva il moto dei pianeti, dibatteva, scrivendo, di influssi astrali. «Galileo faceva l'oroscopo per se stesso, per sapere come comportarsi con le due bambine e un ragazzo che aveva in casa, figli della sua compagna Marina Gamba incontrata a Venezia — aggiunge Shea —. E poi ne preparava a pagamento. Quaranta oroscopi esclusi dall'opera omnia galileiana curata dal Favaro alla fine dell'Ottocento saranno ora inseriti nella nuova edizione che stiamo preparando con il coordinamento del professor Galluzzi del Museo della storia della scienza di Firenze».
Ma che tipo di professore era il grande pisano? «Per contratto avrebbe dovuto insegnare sessanta ore all'anno, ma in una lettera rivela di farne appena la metà. Era affacendato in tante altre attività». Tra queste c'era sicuramente il lavoro con il cannocchiale.
«Con le lenti aveva dimestichezza, perché già nel 1602 ne spediva una scatola a un amico di Vicenza. All'epoca erano noti cannocchiali che ingrandivano fino tre volte utilizzando due lenti, una concava e l'altra convessa. Ma erano poco più di un gioco. Galileo, invece, nell'estate 1609 va a Murano dove eccellenti artigiani lavoravano il vetro e lì trova lenti più potenti con le quali costruisce un cannocchiale capace di ingrandire otto-nove volte, un miglioramento enorme. In realtà, però, egli non ha mai capito come funzionasse. Francesco Sagredo gli chiedeva da Venezia delle spiegazioni e Galileo rispondeva di essere troppo impegnato per inviarle. Un anno dopo Sagredo ripete la domanda e lo scienziato, ormai a Firenze al servizio del Granduca e già famoso in tutta Europa, rinvia di nuovo dicendogli che glielo avrebbe spiegato a voce alla prima occasione e non per iscritto».
Nonostante tutto, il genio si manifesta e 400 anni fa compie la storica scoperta delle lune medicee pubblicata sul «Sidereus Nuncius» che rivoluzionano l'astronomia e la scienza, mandando definitivamente in crisi la visione classica del cielo. «Tra l'altro — continua Shea — quando parte per Firenze regala al Doge della Serenissima il cannocchiale che ingrandiva solo nove volte e porta invece con sé quello da venti ingrandimenti. A Firenze non ne costruirà altri per dieci anni, finché non troverà artigiani in grado di aiutarlo. Galileo è stato un grande disegnatore della Luna: nessun altro ha raggiunto il suo livello. E non a caso. Gli piaceva moltissimo e spesso ripeteva, fin da giovanissimo, che avrebbe fatto volentieri il pittore. Modestia a parte, sapeva dipingere davvero, come dimostrano gli acquerelli lunari. La sua grandezza è stata soprattutto nell'abilità di trasportare sulla carta ciò che vedeva al cannocchiale: un'impresa tutt'ora ardua con strumenti ben più perfezionati.
Quello degli artisti, inoltre, ha sempre rappresentato per lui un'ambiente di riferimento dove contava numerosi amici, come Ludovico Cardi, detto Cigoli. E, quando occorreva, li aiutava. Della giovane pittrice Artemisia Gentileschi vendeva persino i quadri. Fra gli astronomi, insomma, rimase imbattibile per vent'anni, fino a quando il francese Claude Mellan dimostrò un'analoga abilità con la matita. Questa eccezionale capacità nel rappresentare ciò che vedeva durante le notti di osservazione dice quanto fosse forte in lui il rapporto tra arte e scienza. Non a caso era anche un fine letterato».
C'è una storia strana che riguarda la Luna. «In quegli anni — conclude William R. Shea — molti credevano, avendo letto Plutarco, che il nostro satellite naturale fosse abitato. Keplero e Cartesio ne erano convinti. All'inizio pure Galileo, che però voleva verificare. Puntò così il suo cannocchiale sui monti e sui mari lunari, ma quando si accorse che non c'erano nuvole, concluse che non potevano esistere nemmeno gli uomini».

Corriere della Sera 12.3.09
Come migliorare un rapporto storicamente controverso
Dai suoi scritti una lezione: confrontarsi senza dogmi
Così fede e scienza devono aprire un nuovo dialogo
di Gianfranco Ravasi S.J.


Era il 1939 quando Bertolt Brecht pubblicava per la prima volta il suo celebre dramma Das Leben Galilei. In realtà più che «la vita di Galileo», al famoso drammaturgo tedesco interessava il «mito» di un personaggio detestato dalla Chiesa e santificato dalla scienza. Non per nulla Brecht si accanirà attorno a quell'immagine trasformandola secondo le revisioni successive del dramma.Si delineavano, così, volti diversi del grande scienziato. Ora si rivelava come l'egoistico tutore della sua serenità personale o come l'astuto gestore della situazione, scegliendo la via della ritrattazione scandita dalla indimenticabile battuta: «Infelice quel paese che ha bisogno di eroi!». Ora, invece, si manifestava come un personaggio timoroso che tradiva la sua missione di scienziato libero, divenendo il capostipite ideale degli scienziati atomici asserviti al potere. Ora Galileo si trasformava nel combattente della libertà intellettuale, assertore della nuova fede nella scienza, convinto che «i cieli sono vuoti». Abbiamo voluto evocare con ampiezza questo ritratto polimorfo dello scienziato toscano perché egli si è trasformato in un simbolo costantemente riportato sotto i riflettori dell'opinione pubblica come emblema dell'arduo e cruciale confronto tra scienza e fede. È proprio in questa luce che Giovanni Paolo II ha voluto che «la tragica e reciproca incomprensione » consumatasi tra la Chiesa e la scienza nell'avventura processuale che coinvolse Galileo, fosse una delle confessioni di peccato nella «giornata del perdono » del Giubileo del 2000 (...).
Effettivamente una serie di dati storici, come l'abiura forzata dello scienziato pisano, l'accanimento del Sant'Uffizio su una questione a prima vista secondaria , le successive inerzie dell'autorità ecclesiastica — che conservò nell'Indice dei Libri Proibiti le opere di Keplero, Copernico e Galileo fino al 1835 — costituiva una ferita aperta che esigeva di essere cicatrizzata (...). Sulle macerie degli errori del passato è necessario edificare un diverso approccio tra scienza e fede, inaugurando un nuovo confronto e dialogo che neutralizzi, da un lato, la tentazione del teologo di perimetrare i campi della ricerca scientifica e di finalizzarne i risultati apologeticamente a sostegno delle sue tesi. Un dialogo che, dall'altro lato, faccia abbandonare allo scienziato l'orgogliosa autosufficienza che gli fa relegare la teologia nel deposito dei reperti di un paleolitico intellettuale. È evidente che questo itinerario sarà tutt'altro che piano, anzi sarà irto di inceppi e di ostacoli, e teologi e scienziati dovranno tener presente il consiglio che Galileo suggeriva nel suo Saggiatore: «Quando ci si trova davanti a un ostacolo, la linea più breve tra due punti può essere anche una linea curva». Certo è che una dose di umiltà servirà a tutti, contro ogni velleità di prevaricazione, soprattutto di fronte alla complessità e alla maestosità dell'essere e dell'esistere, proprio come ammoniva — sempre nella stessa opera Galileo — marcando in questo caso la sua personale fede limpida e intatta: «Infinita è la turba degli sciocchi, cioè di quelli che non sanno nulla; assai sono quelli che sanno pochissimo di filosofia; pochi son quelli che ne sanno qualche piccola cosetta; pochissimi quelli che ne sanno qualche particella; uno solo, Dio, è quello che sa tutto».
Gianfranco Ravasi è arcivescovo e presidente del Pontificio Consiglio della Cultura. Questo testo è tratto dalla prefazione al libro di Mariano Artigas e Melchor Sánchez de Toca «Galileo e il Vaticano» (Marcianum Press 2009, 20 euro), in corso di pubblicazione Il cannocchiale
Nel 1609 Galilei costruisce il suo primo cannocchiale in legno e pelle, con lenti in vetro di Murano capaci di ingrandire otto-nove volte
Chi è
Galileo Galilei è nato a Pisa il 15 febbraio 1564. È stato un fisico, filosofo, astronomo e matematico. Il suo nome è legato all'introduzione del metodo scientifico (detto galileiano), al suo ruolo nella rivoluzione astronomica e al suo sostegno al sistema eliocentrico e alle teorie copernicane. Accusato di eresia dalla Chiesa cattolica, fu costretto all'abiura delle sue concezioni e a trascorrere il resto della vita in isolamento fino all'8 gennaio del 1642 quando morì ad Arcetri (Firenze) Dorato
«Modello dell'orbe solare» del 1575 circa

Liberazione 12.3.09
Ergastolo, inciviltà giuridica (e morale)
di Giovanni Russo Spena Gennaro Santoro


Venerdì, insieme al segretario Paolo Ferrero, al consigliere regionale Ivan Peduzzi, a Salvatore Bonadonna, visiteremo il carcere di Rebibbia per manifestare la nostra solidarietà con i detenuti in sciopero per l'abolizione dell'ergastolo. Anche Togliatti, Ingrao, Moro e Dossetti si espressero a favore dell'abolizione perché tale pena contrasta con il principio "personalista" della nostra carta costituzionale, secondo il quale la persona è il fine ultimo del nostro ordinamento e la dignità umana non può essere calpestata: mai.
In tempi in cui destra e sinistra si rincorrono sul chi è più bravo a fabbricare paure e ricette contro l'insicurezza (da loro stessi alimentata) il tema delle pene disumane, della maggiore efficacia delle misure alternative rispetto alla pena carceraria non crea consensi in termini elettorali. Eppure l'ergastolo è stato già abolito in molti paesi europei anche perché inefficace. L'esperienza insegna che la gravità della pena, oltre un certo limite, non ha affatto efficacia preventiva; essa è, invece, assicurata dal restringimento delle aree di impunità, dall'efficacia del sistema giudiziario, nonché dalla rapidità del processo.
Oggi l'Italia è già al 156° posto al mondo per il funzionamento della giustizia a causa anche della moltitudine di procedimenti inutili contro venditori di borse contraffatte, "poveri cristi" stranieri che non hanno ottemperato all'ordine del questore di lasciare il territorio nazionale, semplici consumatori di droghe leggere. Mentre i colletti bianchi indagati beneficiano dell'intasamento dei tribunali facendo cadere i propri reati in prescrizione (questa è la vera e propria amnistia di fatto per i ricchi).
Mentre il governo istituzionalizza le ronde (criticate anche dai sindacati di polizia), legittimando condotte xenofobe già in atto contro migranti e "poveracci" e privatizzando perfino la sicurezza.
L'abolizione dell'ergastolo va dunque inserita dentro la campagna per una giustizia equa ed efficace, con un progetto di riforma complessiva del sistema giustizia che andrebbe a vantaggio delle vittime (riduzione delle fattispecie di reato, dunque meno processi e conseguente accelerazione dei tempi della giustizia), a vantaggio degli imputati e dei condannati e di tutta la società. Se infatti il fine della pena deve essere il reinserimento sociale e la prevenzione di ulteriori crimini, lo stato dovrebbe ricorrere maggiormente alle misure alternative perché più efficaci del carcere (8 detenuti su 10 una volta liberi tornano a delinquere, mentre chi usufruisce di misure alternative torna a delinquere 2 volte su 10).
Siamo solidali con i detenuti che, con grande capacità di auto-organizzazione pacifica e nonviolenta, sono entrati in sciopero per l'abolizione dell'ergastolo. Anche le forze politiche democratiche e l'associazionismo cattolico e laico dovrebbero cogliere la tempestività di questa iniziativa per rilanciare una campagna culturale ampia e diffusa. La tremenda dizione "fine pena: mai" è, infatti, una inciviltà giuridica, una negazione dell'impianto costituzionale del sistema delle pene. L'ergastolo è pura afflizione di menti e corpi, è vendetta di Stato, soprattutto per la concezione contemporanea del tempo e dello spazio. Perché l'ergastolo è, nello stesso tempo, metafora della materialità della punizione eterna e "non luogo" rispetto ad una vita che non esiste più, essendo il futuro schiacciato sul presente, per l'assenza di ogni progetto di speranza. Il legislatore, oggi, produce norme giustizialiste, proibizioniste, securitarie, tese alla bulimia carceraria.
Noi contrapponiamo alla necessità di nuovi codici che rilancino la concezione costituzionale della pena, riducano le fattispecie di reato, diversifichino le sanzioni (modulando le pene alternative), applicando il "diritto penale minimo e mite" (con pene di stampo equo, più brevi e più certe).
L'ergastolo non è affatto marginale. Quasi 1500 detenuti lo subiscono; e a loro vanno aggiunti tutti coloro che sono internati a vita, seppelliti nei vergognosi ospedali psichiatrici giudiziari. La Costituzione nega la legittimità dell'ergastolo, stabilendo la finalità rieducativa della pena. Le obiezioni avanzate per negare l'abolizione dell'ergastolo si basano sull'asserita prevenzione del carcere a vita nei confronti delle forme più gravi di criminalità. Esse non hanno fondamento, come è, del resto, riconosciuto da quasi tutti i paesi europei. L'esperienza giuridica insegna che, in generale, la gravità della pena, oltre un certo limite, non ha affatto efficacia preventiva; essa è, invece, assicurata dal restringimento delle aree di impunità, dall'efficienza del sistema giudiziario, nonché dalla rapidità del processo. Abbiamo, quindi, un'occasione importante per rilanciare una battaglia democratica, di sinistra, per lo stato di diritto.

Liberazione 12.3.09
Europee, le condizioni per costruire
una "comune legittima difesa"
di Salvatore Cannavò


Nei giorni scorsi Rifondazione comunista ha proposto alle forze della sinistra comunista e anticapitalista di lavorare per una lista unitaria alle elezioni europee. Come Sinistra Critica abbiamo discusso questa proposta anche perché già in passato abbiamo proposto la costruzione di una lista anticapitalista nuova, chiaramente alternativa al Pd, in grado di rappresentare lo sforzo per una ricostruzione, su nuove basi e per un nuovo inizio, della sinistra di classe. Diffidenze, gelosie organizzative, divergenze varie hanno finora reso impossibile discutere della nostra proposta. Sul tavolo resta quella avanzata dal Prc in alternativa alla presentazione di liste contrapposte che resta un esito ancora oggi probabile. E' chiaro che le europee rappresentano un passaggio delicato: sbarramento del 4% e fase politica italiana costringono a passaggi innaturali. Il manifesto ha proposto di "saltare un giro" per non affrontare le difficoltà esistenti ma comunque le elezioni ci sono e da come se ne uscirà dipenderà il modo in cui si affronterà la fase successiva. E' sulla base di questa analisi che ci siamo disposti a discutere dell'ipotesi di una lista che, pur aggregando progetti diversi tra loro - e il nostro, la Costituente anticapitalista, è l'opposto della Costituente comunista - sia sostenuta da un programma minimo. Un progetto per resistere alla crisi senza per questo mettere la sordina alle differenze, alle diverse prospettive e alle diverse identità. Nei giorni scorsi un simile approccio è stato rilanciato da Ramon Mantovani sul suo blog.
Ovviamente la lista dovrebbe avere dei requisiti minimi a partire dal programma e dall'indicazione che: "La crisi la devono pagare le banche e i padroni, non lavoratori e lavoratrici". Un programma minimo in grado di contrastare l'Europa di Maastricht e del trattato di Lisbona, di proporre una Carta europea dei diritti sociali, contrastare il razzismo e la xenofobia, proporre un'alternativa ecologica alle ipotesi nucleariste e delle grandi opere e, non ultimo, battersi per i diritti civili contro l'ingerenza vaticana e il nuovo clericalismo. Un programma che, ovviamente, non elimini i programmi specifici delle varie forze: Rifondazione ha quello della Sinistra Europea - che, ricordiamolo, è cosa diversa dal Gue, il gruppo europeo a cui gli eletti e le elette di questa lista si iscriverebbero - Sinistra Critica si appresta, il prossimo 3 aprile a Strasburgo, a elaborare un programma con la Sinistra Anticapitalista europea.
Un accordo elettorale per resistere alla crisi, dunque, che oltre ad alcuni requisiti minimi abbia però un profilo complessivamente accettabile, una sua utilità "sociale" e una pluralità visibile. Qui iniziano i problemi ed è evidente che i punti di partenza sono molto divergenti. Si è in grado di fare una lista davvero alternativa al Pd - e quindi diversa dalla lista della Sinistra a cui lavorano Mps, Sd, Verdi e Socialisti - e che quindi mentre fa la campagna elettorale per le europee non deve gestire l'evidente contraddizione di accordi di governo alle provinciali? Si riesce a fare una lista che non sia segnata dal "partito degli assessori" e quindi da una cultura e pratica governista ma che sia davvero aperta alle forze sociali e associative? Una lista composta al cinquanta per cento di donne? Una lista con un "codice etico" che segnali la volontà di assumere la critica della politica separata e che quindi non candidi chi ha già accumulato due mandati elettorali, ponga un tetto alle indennità (noi abbiamo proposto 3mila euro su un'indennità che arriva anche a 20mila) e realizzi un rapporto diretto tra eletti e società? E, infine, si è in grado di costruire una simbologia che sia davvero rispettosa delle varie identità e dei vari progetti? Il rischio che la proposta di Rifondazione abbia un carattere annessionistico è evidente - e certo non aiutano le dichiarazioni di vari dirigenti che danno per fatto un accordo che non è stato ancora nemmeno discusso…- mentre forse non è ancora chiaro che per quanto riguarda Sinistra Critica c'è la volontà di discutere di qualsiasi soluzione che però preveda la presenza anche del suo simbolo, cioè della sua prospettiva politica al pari di quella degli altri.
Un passaggio difficile, dunque, e che non elimina il fatto che per una fase più o meno lunga la sinistra di classe in Italia non supererà la difficoltà cui scelte sbagliate e assurde l'hanno confinata. Non è un caso che come Sinistra Critica presenteremo comunque liste alle provinciali, alternative al Pd e ai governi di centrosinistra, spesso alternative a Rifondazione o al Pdci. C'è molta strada da fare e per il momento possiamo cercare di costruire una "comune legittima difesa". E' poco ma è il massimo realizzabile.
*Sinistra Critica

il manifesto 11.3.09
Sinistra. Lettera di Ferrero a Wurtz. Gue orientato concedere l'uso del proprio simbolo ai post-Arcobaleno

Dall'Europa nulla osta a Vendola, Fava e Nencini
di Matteo Bartocci



Venerdì prossimo. Hotel nazionale ore 15. Comincia da qui l'avventura europea di Vendola, Fava, Francescato e Nencini. Il cammino della lista «Sinistra e libertà» parte da questa conferenza stampa, dedicata a nome, ragioni sociali e simbolo della neonata formazione a sinistra del partito democratico. Un cartello in cui si lavora a candidature da sottoporre ad assemblee territoriali, regionali e infine circoscrizionali.
L'alleanza italiana post-Arcobaleno almeno per ora non trova ostilità a Strasburgo. Dal gruppo parlamentare Gue-Ngl, infatti, arriva se non un nulla osta quanto meno un primo lasciapassare. Il pronunciamento ufficiale del gruppo che raccoglie sinistra europea e gli ambientalisti scandinavi arriverà solo la settimana prossima ma per ora non sembra ci siano le barricate. 
Il segretario del Prc Paolo Ferrero ha inviato una lettera al presidente del Gue Francis Wurtz (un comunista francese vecchio stile, eletto a Strasburgo fin dal 1979) e a tutti i partiti della sinistra europea per informarli del «caso» Italia. Oggi all'ora di pranzo Wurtz incontrerà il responsabile esteri del Prc Fabio Amato appositamente arrivato da Roma. La tesi è che il simbolo del Gue appartenga a tutti come singoli parlamentari ma non a qualche partito contro gli altri. Un argomento sul quale nessuno finora si esprime ufficialmente, anche se l'appoggio politicamente più rilevante, quello della Sinistra europea (32 partiti nel continente) andrà tutto a Rifondazione, come testimonia l'intervista al leader della Linke Lothar Bisky pubblicata ieri sul manifesto. 
Come che sia, Roberto Musacchio e Vincenzo Aita intanto hanno ufficializzato solo ieri in sede europea la scissione rifondarola, informando i colleghi del Gue della loro decisione di aderire al Movimento per la sinistra (Mps) di Nichi Vendola, e giurando di rimanere fino alla fine nella delegazione italiana del gruppo di 7 eurodeputati Prc e Pdci. 
Sulla titolarità del simbolo del Gue, che i vendoliani vorrebbero affiancare in campagna elettorale a quello dei Verdi e del Pse sotto l'insegna della loro lista per le europee, pende una decisione ufficiale del bureau del gruppo che si avrà solo la settimana prossima. Almeno allo stato, le possibilità che il Gue inibisca l'uso elettorale del suo simbolo nelle urne di giugno sembrano prossime allo zero.

il manifesto 11.3.09
Le forme contemporanee della sofferenza mentale

Frontiere della psicoanalisi
iintervista a Stefano Bolognini di Francesca Borrelli
, neo-presidente della Società Psicoanalitica Italiana


Incontro a Roma con Stefano Bolognini, appena nominato presidente della Società Psicoanalitica Italiana. «I modelli culturali recenti, che ci vogliono il più possibile autonomi da tutto e da tutti, persino dai nostri stessi sentimenti - dice - portano molti giovani a mettere in sordina le loro emozioni, e ad accettare con difficoltà la dipendenza»
Appena nominato presidente della Società Psicoanalitica Italiana, Stefano Bolognini è autore, accanto ai molti saggi scientifici che documentano la sua invidiabile preparazione, anche di dieci brevi racconti, titolati Come vento, come onda (Bollati Boringhieri, 2008), il cui intento non è meramente narrativo, ma intreccia memorie private a considerazioni analitiche, in qualche modo selezionando piccoli accadimenti esemplari capaci di illustrare la condizione umana alle prese con il passaggio dalle più lusinghiere illusioni al più crudo impatto con la realtà. Il buon uso degli affetti nella stanza dell'analisi è stato da sempre uno dei campi che più ha interessato Stefano Bolognini, già dai primi anni '80 impegnato a indagare il concetto di «empatia» al quale avrebbe poi dedicato un saggio uscito nel 2002 (sempre da Bollati Boringhieri) con il titolo, appunto, di Empatia. La sua formazione psichiatrica lo ha portato nel 1992 a essere tra i fondatori del Comitato Patologie Gravi della Società Psicoanalitica Italiana, una esperienza alla quale accenna nel capitolo dedicato alle sofferenze mentali più severe del suo Passaggi segreti. Teoria e tecnica interpsichica (Bollati Boringhieri, 2008). Al termine della assemblea che, a Roma, lo ha eletto alla più alta carica della Società, Stefano Bolognini ha ripercorso alcuni passaggi già trattati nei suoi libri e altri sollecitati da qualche domanda su alcuni temi che l'attualità sottopone al pensiero psicoanalitico.
Nel suo ultimo libro, «Passaggi segreti», lei afferma che le sta «molto a cuore la connessione con il lavoro psichiatrico», definendolo «un territorio da riconquistare». In effetti, negli ultimi anni, mentre la psichiatria si incamminava verso una pericolosa deriva organicista, gli psicoanalisti rinunciavano per la maggior parte a intervenire nel dibattito pubblico, nonostante sia stato addirittura avanzato un progetto di legge per abolire la 180. Lei pensa di rinsaldare, durante la sua presidenza, i rapporti tra chi cura con la parola e chi interviene con i farmaci?
Senz'altro, è una questione che mi interessa molto. È vero che gli psicoanalisti sono più interessati a comprendere il senso di quel che succede nella loro stanza di analisi e meno coinvolti negli aspetti organizzativi e sociali. C'è anche da dire, però, che l'opinione pubblica è poco informata sulla partecipazione degli psicoanalisti alla gestione della psichiatria, e ritiene in maniera molto rudimentale che si intenda applicare l'analisi anche ai pazienti più gravi, il che non è assolutamente vero. In un recente dibattito che si è svolto tra Bob Michels, l'attuale condirettore dell'International Journal of Psychoanalysis e il direttore precedente Paul Williams, sono state presentate due diverse concezioni: Bob Michels evidenziava come gli psicoanalisti contribuiscano alla psichiatria contemporanea soprattutto facendosi carico delle difficoltà emotive e delle angosce delle équipes psichiatriche nel trattamento dei pazienti gravi, degli adolescenti e dei bambini, mentre Paul Williams parlava soprattutto di quei casi meno frequenti in cui gli psicoanalisti intervengono nella supervisione del profilo psicopatologico di una singola persona. In Italia c'è sempre stata la convinzione che la psichiatria organicistica sia contrapposta alla psichiatria sociale, quella che si è espressa soprattutto nel movimento di Basaglia e dei suoi successori, e che questa sia tutt'uno con la psichiatria di ispirazione psicodinamica o psicoanalitica, cosa assolutamente non vera, poiché quest'ultima è stata una corrente del tutto originale e differenziata dalle altre due.

La condivisione della esperienza profonda del paziente sembra essere una delle nuove dimensioni che caratterizzano la psicoanalisi dei nostri anni: non a caso lei ha dedicato un libro all'empatia. Ci può chiarire cosa intende con questa parola e cosa la differenzia dalla condivisione?
L'empatia ha suscitato inizialmente qualche diffidenza perché veniva considerata un cedimento emotivo, una sorta di identificazione con il paziente che faceva perdere lucidità all'analista. Sappiamo che Freud consigliava agli psicoanalisti di non lasciarsi andare troppo ai sentimenti, ma sappiamo anche che molti elementi inizialmente considerati come ostacoli, una volta indagato meglio il loro senso, vennero trasformati dagli psicoanalisti in strumenti di lavoro. È stato così anche per empatia, un concetto del quale il senso comune ha abusato, intendendolo come una generica propensione positiva verso l'altro, un desiderio di essergli vicino, di soffrire insieme, di trovarsi in sintonia. In realtà, per chi ha un atteggiamento davvero analitico, l'empatia è un evento complesso, e non un processo conscio, in cui capita all'analista di sintonizzarsi con tutta la contraddittorietà interna dell'altro. Per esempio, con il fatto che accanto a certi sentimenti, certi desideri, certe paure, c'è anche qualcosa contro quegli stessi sentimenti, quegli stessi desideri, quelle stesse paure. La vera empatia fa percepire entrambi i risvolti di un conflitto, di una relazione divisa in più parti, e non è affatto comune nella vita di tutti i giorni. La condivisione, invece, è una esperienza necessaria ma non sufficiente all'insorgere di un processo empatico: se si capiscono solo intellettualmente i sentimenti e le emozioni dell'altro ma non ci si mette nei suoi panni, sentendo almeno un po' quello che l'altro sente, non potranno realizzare le condizioni per l'empatia. Ma bisogna anche capire il senso di ciò che si sta condividendo con l'altro.
Restiamo nell'ambito degli affetti dell'analista durante lo svolgimento del suo lavoro: la vera neutralità raccomandata da Freud - lei ha chiarito nel suo libro «Passaggi segreti» - non consiste nella anaffettività, ma in una capacità di sospendere temporaneamente il giudizio. Ce ne vuole parlare?
Se, per esempio, un paziente nel corso di una seduta ci comunica un profondo sentimento di tristezza o una intensa sensazione di allegria, una risposta analitica adeguata non sarà quella di lanciarsi a corpo morto su quello stato d'animo ma neanche quella di distanziarsene minimizzandolo. Bisogna rendersi capaci di percepire in pieno quella tristezza o quella allegria, riservando però una parte della mente alle possibili associazioni, ossia a quel che ci fa venire in mente la sensazione che il paziente ci comunica, a ciò che ci fa tornare alla memoria della nostra vita, così da ritagliarci un riquadro mentale disponibile a nuove produzioni di pensiero.
Ancora in «Passaggi segreti» lei scrive: «nella mia immaginazione molti pazienti giungono al trattamento in condizioni simili a quelle di un individuo che, stando in spiaggia, non abbia mai messo piede in acqua». Cosa intende dire?

Mi sono valso di questa metafora molto semplice per dire che spesso vediamo persone le cui difese sono organizzate in modo da anestetizzarsi per quanto possibile, così da non ritrovarsi in contatto con se stessi. Il nostro aiuto sta, inizialmente, nel cercare di abituarli un po' alla volta a avvertire e riconoscere i propri sentimenti, un processo che somiglia molto all'agevolare il bambino a prendere dimestichezza con l'acqua, poi a spingersi dove arrivano le prime onde, e così via. E sappiamo quanto tutto ciò sia emozionante.
Molti psicoanalisti hanno notato come una tra le caratteristiche più frequenti dei pazienti contemporanei sia quella di vivere ai minimi termini, in modo da provare meno emozioni possibile. Anche lei ha registrato questa tendenza?
Eccome. Ci sono persone che sembrano avere messo la sicura, una specie di sordina alle loro sensazioni, come se avessero applicato un trasformatore che abbassa il voltaggio di tutte le emozioni. La mia impressione è che in passato, per raggiungere questo obiettivo, si facesse ricorso di più a forme di autocontrollo ossessivo effettuate da un Super io rigido, che si esprimeva attraverso mille tipi di rituali o attraverso l'identificazione con alcuni compiti o ruoli; mentre oggi prevale la tendenza a stordirsi, magari tramite l'impiego di sostanze stupefacenti o di alcool, o tramite la partecipazione a riti collettivi abbastanza spersonalizzanti: la mira è quella di eliminare il senso di sé senza angustiarsene troppo. C'è anche da dire che le rivoluzioni socioculturali degli ultimi cinquant'anni hanno determinato un grande calo della componente superegoica nelle istituzioni, per cui è vero che le persone sono effettivamente più libere, ma è anche vero che oggi non possono valersi di alcun ombrello protettivo di tipo fantasmatico e corrono più frequentemente il rischio di non sapersi dare un limite.

Tra i fenomeni sociali che le passano sotto gli occhi sembra che quello dei punkabbestia l'abbia colpita in particolare. Lei ha parlato di «unità psichica strutturale tra l'uomo e il cane»: come pensa che vada letta la scelta di questi ragazzi e a quali bisogni corrisponde?
Distinguerei due aspetti: per quanto riguarda il rapporto con i cani c'è tutta quell'area relativamente sana in cui tra due esseri viventi si può creare un campo interpsichico dove vengono a cadere alcuni confini, ma in maniera cooperativa. Fin qui siamo nella salute mentale. In altri casi, invece, per esempio appunto nei punkabbestia, che forse mi hanno colpito proprio perché la Bologna in cui vivo è un po' la loro capitale europea, succede che il cane diventa un ricettacolo di proiezioni, un contenitore di parti del ragazzo infantili e dipendenti. Grazie a un processo di evacuazione proiettiva delle parti di sé dipendenti, il ragazzo si sente forte e si può identificare con un equivalente dei propri genitori, illudendosi di potere fare a meno di figure protettive.
E come interpeta, invece, la tendenza per esempio della moda punk, a incidere lesivamente sul proprio corpo?
Le ferite e gli altri insulti somatici esibiti da questi ragazzi sono l'equivalente concreto di lesioni di altro genere, di cui non sono minimamente consapevoli: azioni violente di tipo emotivo vissute, magari, nel loro rapporto remoto con la madre o comunque con il loro ambiente di crescita. Quindi, le ferite che si infliggono diventano una rappresentazione della tirannia quasi chirurgica che una parte di sé narcisistica esercita sul proprio sé corporeo e affettivo. E funzionano da provocazione nei confronti di un pubblico sul quale si vuole produrre una impressione violenta.
Ancora a proposito di attacchi sferrati contro il corpo: una tra le sofferenze mentali più in aumento, anche tra le persone giovanissime, è quella che si esprime nei cosiddetti «disturbi alimentari», per esempio l'anoressia e la bulimia, che forse sarebbe più appropriato chiamare disturbi della personalità. Come mai, secondo lei, il disagio mentale prende sempre di più queste forme?
Le spiegazioni sono necessariamente complesse e ogni caso è diverso dall'altro. Ma volendo trovare qualche elemento comune si può osservare che, molto spesso, la componente narcisistica di questi soggetti prende il comando delle operazioni, passa al potere e tiranneggia il sé dipendente e libidico imponendogli una quantità di rinunce, di mortificazioni, di esclusioni. Parlando di componente narcisistica intedendo un sé ideale, invulnerabile, libero da bisogni e capace di soffocare le proprie sensazioni, i propri sentimenti, gli affetti e i propri stessi pensieri, superiore a tutte le difficoltà e a tutte le sofferenze della vita. L'investimento in questa componente narcisistica, altamente patologica, sembra in molti casi diventare strutturale e quasi irreversibile: per esempio, nelle anoressiche gravi che sperimentano un sentimento segreto di dominio sul sé fino a inebriarsi maniacalmente, disprezzando le loro componenti affettive e libidiche.
Più in generale, come è cambiato - dal suo osservatorio - il disagio mentale negli ultimi anni?

La mia impressione, rispetto a trent'anni fa, è che sono molto aumentati i conflitti relativi alla difficoltà di accettare una dipendenza, anche temporanea, per crescere. Dunque, l'area che viene investita riguarda la relazione a due, quella esemplificata dal rapporto tra la madre e il bambino, piuttosto che il classico triangolo edipico. La diffidenza dei pazienti contemporanei rispetto alla eventualità di lasciarsi nutrire da qualcuno si spiega anche in relazione ai modelli culturali più recenti, che ci vogliono il più possibile autonomi da tutto e da tutti, persino dai nostri stessi sentimenti. Oggi i ragazzi sono costretti, molto più frequentemente di un tempo, a stare soli, e dunque si organizzano mentalmente in modo da non sentire la mancanza dell'altro. Cercano di stabilire relazioni orizzontali, con altri rappresentanti di sé, e fanno molta più fatica a accettare i rapporti con gli equivalenti dei propri genitori. Quando una persona comincia a sviluppare problemi di tipo edipico, per esempio sentimenti di competizione, di inferiorità, di rabbia, di rivalità, oppure quando manifesta il desiderio di conquistare una figura proibita, allora siamo già a un buon punto. Ma oggi questi pazienti si vedono così raramente che li chiamiamo, tra noi, «pazienti viennesi», alludendo agli esordi della psicoanalisi.

PROFILO 
Le principali tappe nel percorso di Stefano Bolognini
Specializzato in Psichiatria nel 1978, Stefano Bolognini ha lavorato fino al 1980 al «Centro Psicoterapico Provinciale di Palazzo Boldù», presso i Servizi Psichiatrici di Venezia, come terapeuta individuale e di gruppo. Membro dal 1991 al 1997 del Comitato Patologie Gravi della S.P.I., è stato consulente-supervisore di numerosi servizi Psichiatrici e Neuropsichiatrici infantili del Nord-Italia. Dal 1998 è analista con funzioni di training, mentre a partire dal 2003 è Representative for Europe nel Board dell'International Psychoanalytic Association. È stato dal 2001 al 2004 il «Representative» per l'Italia del «Theoretical Working Party» della Federazione Europea di Psicoanalisi; dal 2002 è membro dell'European Editorial Board dell'«International Journal of Psychoanalysis».
Ha pubblicato lavori sulle principali riviste specializzate nel mondo, e in numerosi volumi in Italia e all'estero; presso Bollati Boringhieri sono usciti i volumi: «Come vento, come onda» (1999, Premio Gradiva 2000), «Il sogno 100 anni dopo» (2000), «L'empatia psicoanalitica» (2002)e «Passaggi segreti» (2008)

il manifesto 12.3.09
Biotestamento a senso unico
di Matteo Bartocci


Maggioranza blindata sul testamento biologico e le disposizioni anticipate di trattamento (Dat). Dialogo impossibile in commissione salute del senato sul punto più controverso della proposta Calabrò. Il centrodestra e l`Udc hanno votato compatti l`articolo 3: «Alimentazione e idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente - si legge al comma 6 - sono forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze e non possono formare oggetto di Dichiarazione anticipata di trattamento». Bocciati senza appello dunque sia l`emendamento «prevalente» del Pd, a firma di Anna Finocchiaro e Luigi Zanda, che afferma la libertà di scelta del paziente sia quello di «mediazione» con le posizioni della Chiesa presentato in solitaria e con un certo scandalo dopo la morte di Eluana Englaro da Francesco Rutelli. Ben allineato alle posizioni di santa romana chiesa anche l`Udc: «Sul diritto alla vita, bene indisponibile tutelato dalla Costituzione, non può esistere alcuna mediazione politica», dice il capogruppo del partito di Casini Giampiero D`Alia. Si va al muro contro muro. E il Pd, per una volta, tiene, con la capogruppo in commissione Dorina Bianchi che ha votato insieme al resto dei senatori democratici. Unico astenuto l`immancabile teodem Claudio Gustavino, che insieme alla collega Emanuela Baio esulta per la bocciatura degli emendamenti presentati dal suo stesso partito: «Il voto della commissione conferma la nostra posizione. Il sondino è un ausilio tecnico che può essere tolto solo quando non più efficace, come avviene oggi». Sul cambiare la legge in meglio ormai ci sono poche speranze. Ignazio Marino (che ieri aveva insistito per opporsi al Pdl sul consenso informato, generando malumori tra le sparute «colombe» della maggioranza) ha ben chiaro che questa legge «va contro la Costituzione e non va incontro alla possibilità del cittadino di indicare liberamente le sue scelte per il momento in cui non si potrà più esprimere. Una legge peraltro molto restrittiva che riguarda solo le persone in stato vegetativo persistente e non tutti i pazienti». Insomma, varrà solo in occasione di nuovi «caso Englaro». Appena più morbida la capogruppo democratica in senato Finocchiaro, che però tra le righe non nasconde la sua vicinanza alle posizioni del medico senatore: «Il testamento biologico previsto dalla maggioranza è una dichiarazione di volontà`light`. Ma non può intaccare quel principio costituzionale previsto all`articolo 32 che resta a prescindere e che sarà un elemento di valutazione di questo provvedimento», Il centrodestra nel frattempo lavora di cesello su parti secondarie del provvedimento. La durata del testamento biologico viene allungata a 5 anni (contro i 3 previsti in origine) e le dichiarazioni anticipate di volontà verranno depositate presso il medico di famiglia e non più presso notai a titolo gratuito. Approvato anche un emendamento presentato da Roberto Centaro (Pdl) che rende le Dat «vincolanti» (nel testo Calabrò non erano nemmeno tali) ma sempre «fatte salve le previsioni dell`articolo 8». Il riferimento, a ben vedere, è una norma tagliola: l`ultimo articolo del ddl infatti prevede che «il medico non può prendere in considerazione indicazioni orientate a cagionare la morte del paziente o comunque in contrasto con le norme giuridiche o la deontologia medica». Le indicazioni, precisa inoltre lo stesso articolo, «sono valutate dal medico sentito il fiduciario, in scienza e coscienza, in applicazione del principio dell`inviolabilità della vita umana e della tutela della salute, secondo i principi di precauzione, proporzionalità e prudenza». E` al medico, dunque, che spetta ogni decisione finale. Chiuso ogni spiraglio in commissione sui punti qualificanti del provvedimento la battaglia si sposterà in aula. «Ognuno è rimasto sulle sue posizioni, e a questo punto speriamo che più avanti si possa intervenire sostenendo che l`idratazione e la nutrizione artificiali effettuati con atti chirurgici si possano considerare dei trattamenti sanitari da poter rifiutare», dice la radicale Donatella Poretti. Il tempo però stringe. Ieri la conferenza dei capigruppo di Palazzo Madama ha concesso qualche giorno in più per la presentazione di emendamenti, fino a lunedì. Mercoledì 18 invece inizia la discussione in aula, con votazioni previste dal 24 marzo.