venerdì 13 marzo 2009

l’Unità 13.3.09
Testamento biologico il Partito democratico vota in ordine sparso in commissione
Passa il testo Calabrò con due contrari, tre astenuti, tre non partecipanti al voto, un assente
Finocchiaro: quella legge orribile sfascia la Carta
di Susanna Turco


Il Pd si divide nel voto finale in commissione Sanità al Senato sul ddl Calabrò. Finocchiaro: «È un testo che sfascia la Carta. Possiamo solo diminuire il danno. Un referendum? Non so se riusciremmo a sostenerlo»
«Cercheremo di ridurre il danno. Il referendum? Non so se riuscirebbe»
Poche le speranze

Anna dei miracoli, quella stessa che tante volte è riuscita nell’opera di tenere insieme il gruppo del Senato, si abbatte sul seminario di LibertàEguale dedicato al testamento biologico come un ciclone. Stavolta la Finocchiaro il miracolo in mano non ce l’ha. Ha piuttosto un foglietto. Gliel’ha portato un collaboratore e lei, dopo averlo letto, lo getta davanti a sé con un moto di stizza. Di più, di ira funesta. Al Senato, il gruppo del Pd in commissione Sanità ha appena votato in ordine sparso il ddl Calabrò sul fine vita: due contrari, tre astenuti, tre non partecipanti al voto, un assente. E dire che subito prima i senatori si erano riuniti per concordare una linea: l’indicazione di partenza era il no, pareva la mediazione fosse non votare, ma poi.
Con tutto questo negli occhi, l’ennesima divisione e quel foglio che la rappresenta, la Finocchiaro occhi neri e capelli uguali ma virati argento prova a spiegare quel che davvero ha capito, alla fine, dopo tanti mesi alla ricerca di «una mediazione confortevole», che nei fatti non c’è, tra chi nel Pd sta con Marino e chi no. «In questi giorni», dice la Finocchiaro strappando in due il suo foglietto, «mi si è aperta una finestra che va oltre il fine vita».
Poco dopo lo spiegherà anche ai suoi senatori, convocati subito per una riunione irrespirabile. Ma adesso Anna dei miracoli ha un tempo diverso, e prima di dire che il ddl Calabrò è «un testo inutile e orribile, che sfascia la Costituzione», spiega che il punto di partenza è l’articolo 32 della Carta. Quello che dice che non si può sottoporre nessuno a trattamenti sanitari contro la sua volontà. Quello che tante volte è stato tirato di qua e di là. «Ma in realtà non siamo neanche di fronte a un fraintendimento tra noi e la maggioranza. Considerare o no il sostegno vitale un è un alibi». Un colpo di rasoio, su polemiche di mesi.
«Il fatto è diverso, più profondo. È che la gerarchia dei valori sulla base dei quali è stato scritto il patto costituzionale si sta sgretolando». Lo dice così, senza particolare enfasi ma con infinita durezza, dividendo in quattro il suo foglietto. «Quel patto sulla libertà dell'individuo non tiene più, aggiunge, non assicura più tutti nello stesso modo. È come se si stesse regredendo, come se la Costituzione non fosse più assunta nella sua vigenza». Una norma vige se è condivisa: «Se non la riconosci più mostra la sua fragilità». Quella che lei ha visto sul fine vita.
«Mi sono sentita in imbarazzo, e non ho votato», spiega alle agenzie la senatrice del Pd Chiaromonte. «Ci siamo astenuti come al solito quando si dà mandato al relatore», dice la Bianchi. Intanto, Anna del non miracolo spiega che invece «si deve ripartire dall’articolo 32, che celebrà la libertà umana». Però, certo, è difficile. «Non so quanto il Paese comprenda che sul ddl Calabrò c’è un ribaltamento tra lo Stato e la persona sulle decisioni che riguardano il corpo. Si torna indietro».
Ma è questa, alla fine, la legge che passerà. «Non mi faccio illusioni, né penso a strabilianti modifiche nel voto segreto». Il punto però è ancora oltre. «Forse ci siamo sbagliati. Pensavamo che la risposta nel Paese sarebbe stata un’altra. Ci siamo sbagliati, pensando che queste cose fossero già nella coscienza della gente. Forse non è così». Per questo nemmeno il referendum servirà: «Non sono così sicura che saremmo in grado di sostenerlo. Quello sulla legge 40 è un precedente che mi inquieta». Poi certo, «continueremo con la presenza, le proposte, nel cercare comunque un risultato, anche piccolo. Diminuire il danno, ma più di questo non credo». Quel foglietto che si girava tra le mani è diventato una pallottolina, quasi non si vede più.

l’Unità 13.3.09
Quelle odiose offese a Beppino Englaro
Il caso Eluana e le accuse di Barragan
di Paolo Flores d’Arcais


Se un personalità italiana molto importante, e magari con un altissimo incarico istituzio-nale o governativo, per alcune settimane si permettesse in modo sistematico, attraverso comunicati stampa, interviste ai quotidiani, dichiarazioni televisive, di sostenere che "il cardinal Barragan è un pedofilo", i nostri politici e i loro media giudicherebbero tali esternazioni come la lecita manifestazione di una libera opinione, oppure troverebbero normale che parta una denuncia per diffamazione e calunnia, con l’augurio di una condanna esemplare? Noi staremmo dalla parte di Barragan, toto corde.
Ora, la pedofilia è un crimine gravissimo e odiosissimo, anzi mostruoso, ma non risulta che l’omicidio sia poi tanto meno grave. Eppure, per settimane il cardinal Barragan, e altri cardinali, e un codazzo di parlamentari e di "buoni maestri" di tutte le risme, non hanno fatto altro che trattare da assassino, omicida, killer, Beppino Englaro, e i medici e gli infermieri, e i magistrati di tutte le istanze (fino alla Cassazione) che hanno infine consentito che le volontà di Eluana Englaro sul proprio corpo fossero rispettate.
Nessuno si è stracciato le vesti. Nessuno si è indignato per una diffamazione con i toni del linciaggio. Nessuno nell’establishment, vogliamo dire. Anzi, l’accusa di omicidio formulata da un gruppo di cittadini di una delle tante organizzazioni clericali che usurpano il diritto di parlare "a nome della vita", salvo voler togliere a ciascuno la possibilità di decidere sulla propria e arrogarselo per sé (millantano infatti un filo diretto con Dio), ha dato luogo da parte della procura di Udine all’iscrizione di Beppino Englaro nel registro degli indagati. Come "atto dovuto", si è detto.
E quando Beppino Englaro, tacciato da delinquente, ha fatto sapere che i suoi avvocati stanno decidendo se e come far partire una serie di querele (che nel caso ovviamente riguarderebbero anche i cardinali calunniatori) il tono prevalente sui media ha oscillato tra l’imbarazzo e la deprecazione: Beppino Englaro è un esagerato, come minimo, in realtà ora si mette a far politica, ad aggredire la Chiesa con gli strumenti giustizialisti, eccetera. Se fossimo cristiani dovremmo sottolineare che tutti questi cardinali (e onorevoli al seguito) sembrano decisi fino alla protervia nel praticare una regola ("fai agli altri quello che NON vorresti fosse fatto a te") che rovescia completamente quanto i vangeli attribuiscono alla predicazione di Gesù il Galileo. Dunque, o non conoscono i vangeli, o li detestano.Speriamo che qualche cristiano si ribelli, e soprattutto che la giustizia di una Repubblica che dovrebbe essere laica e democratica rifiuti i "due pesi e due misure".

Corriere della Sera 13.3.09
Firenze. Ma il centrosinistra: non riusciranno a spaccarci
No a Englaro cittadino onorario Il Pdl lancia la «contro-delibera»
di Marco Gasperetti


FIRENZE — Dopo la delibera che ha spaccato il Partito democratico sulla cittadinanza onoraria a Beppino Englaro, presentata dal socialista Alessandro Falciani e approvata dal consiglio comunale di Firenze tra le polemiche e lo sdegno dell'arcivescovo Giuseppe Betori, ecco la «delibera blocca delibera ». Ovvero un provvedimento del Popolo della libertà con il quale si chiede la revoca della cittadinanza onoraria — approvata ma non ancora ufficialmente conferita — al padre di Eluana. Tutto questo accade mentre il presidente del consiglio comunale Eros Cruccolini (La Sinistra) telefona a Englaro per fissare il giorno del conferimento dell'onorificenza e insieme decidono la data della cerimonia: lunedì 30 marzo, Salone dei Duecento, Palazzo Vecchio.
La «delibera blocca delibera» è stata presentata ieri dal capogruppo di Forza Italia Bianca Maria Giocoli e dal consigliere e parlamentare di FI Gabriele Toccafondi ed è stata controfirmata dal capogruppo di Alleanza nazionale, Riccardo Sarra. La conferenza dei capigruppo l'ha accettata e inserita nell'ordine del giorno dei lavori consiliari di lunedì e martedì.
«Cercheremo di far discutere e votare la nostra delibera prima possibile — spiega Gabriele Toccafondi —. Nel documento, oltretutto, facciamo nostra la proposta del sindaco Leonardo Domenici che non è passata in consiglio: approfondire il problema con un convegno al quale invitare anche il signor Englaro».
L'iniziativa del Pdl rischia di creare spaccature nella già screpolata maggioranza e soprattutto provocare nuove divisioni nel Pd. Durante il voto in consiglio comunale i democratici si sono divisi: 9 hanno votato a favore della cittadinanza onoraria a Englaro, 5 contro e 3 si sono astenuti. Come voteranno la «delibera annienta delibera» i consiglieri di aria cattolica del Pd? «Stavolta c'è un'indicazione forte del partito — dice il capogruppo Rosa Di Giorgi — perché non è più un problema individuale. Il Pd è sotto attacco del Pdl che strumentalmente vuole provocare divisioni e confusione. Dunque i consiglieri del Pd voteranno no alla delibera del Pdl».
Anche il presidente Cruccolini critica l'iniziativa del centrodestra: «Un atto provocatorio che non tiene conto di un provvedimento votato dal consiglio a maggioranza — dice —. Beppino Englaro mi ha detto di essere molto onorato della cittadinanza fiorentina, ma pure di essere dispiaciuto per le divisioni».
Il presidente Cruccolini ha anche annunciato che scriverà una lettera all'arcivescovo Betori in risposta alle sue critiche al consiglio comunale. «Me lo ha chiesto la maggioranza dei capigruppo. Scriverò la lettera domani (oggi, ndr) e cercherò, nel modo più opportuno possibile, di fare capire al monsignore che il consiglio comunale è autonomo nelle sue scelte. La curia ha il legittimo diritto di critica, ma non può usare toni così pesanti che di fatto rasentano l'interferenza politica e rischiano di delegittimare consiglieri eletti democraticamente».

l’Unità 13.3.09
La Regione boccia l’obbligo di segnalare gli immigrati. Manifesti in tutte le lingue nelle Asl
L’assessore Bissoni: una norma razzista che mette a rischio la salute della collettività
«Curatevi, non vi denunceremo»
L’Emilia dice no ai medici-spia
di Adriana Comaschi


L’Emilia Romagna dice no alla norma sui medici-spia. Un manifesto multilingue affisso negli ambulatori e negli ospedali invita gli immigrati a non avere paura e a ricorrere alle cure. Bissoni: norma razzista.

In moldavo, arabo, cinese, russo. E ovviamente in inglese, francese, spagnolo. Sette lingue per un unico messaggio, curato dall’assessorato regionale alla Sanità e rivolto a tutti gli stranieri che vivono a Bologna: qui siete al sicuro, potete curarvi senza il timore di essere denunciati anche se clandestini. Uno dei primi manifesti multilingue è già affisso all’interno del pronto soccorso dell’ospedale S.Orsola, il testo scorre sui monitor della sala d’attesa. Ma presto campeggerà in qualsiasi struttura del servizio sanitario dell’Emilia Romagna.
«NORMA RAZZISTA»
Dopo la rivolta di medici, infermieri, associazioni è la Regione guidata da Vasco Errani a schierarsi contro il disegno di legge targato Lega, passato al Senato, con cui si vorrebbe trasformare i camici bianchi in delatori di immigrati non in regola. Il ddl 773 infatti cancella il divieto di denuncia, da parte dei medici, per chi commette un reato, e insieme introduce il reato di clandestinità. L’assessore Giovanni Bissoni non usa giri di parole. «È una norma incredibile, pazzescamente razzista. Un esempio: se diventasse legge un mafioso, coinvolto in un accoltellamento, che si rivolgesse al pronto soccorso non potrebbe venire denunciato, perché l’obbligo di referto non scatta se mette in pericolo il paziente. Un clandestino che non avesse fatto nulla invece sì, perché per lui si seguirebbe un altro percorso». E riassume: «La nostra è un’assunzione di responsabilità politica molto chiara». Oltre che un segnale forte ai medici del territorio. Errani del resto lo aveva annunciato, «difenderemo la loro libertà». E subito aveva attivato l’ufficio legale regionale. «Abbiamo voluto fare chiarezza - spiega Bissoni - perché da un lato si propone una legge gravissima, dall’altro si tenta di sminuirla dicendo che darebbe solo la “possibilità” di denunciare gli irregolari. Non è così, i medici sarebbero obbligati a rivolgersi all’autorità giudiziaria» pena le sanzioni previste agli articoli 361 e 362 del Codice Penale.
LA STRATEGIA
Ora arriva il manifesto, che ogni Ausl dovrà tradurre negli idiomi presenti sul territorio (ci sono anche l’albanese, l’hurdu, l’hindi, il portoghese). «Nessuna denuncia di cittadini stranieri senza permesso di soggiorno», recita, «la legislazione italiana vigente lo vieta», dunque «possono continuare a rivolgersi ai servizi sanitari in Emilia Romagna con tranquillità e fiducia». La campagna è capillare: interesserà Ausl, ospedali, poliambulatori, Consultori, centri di salute mentale. A Bologna coinvolgerà anche Sokos (ambulatorio che da 15 anni assiste clandestini), i dormitori pubblici più frequentati, il Centro per la salute delle donne straniere. Il primo obiettivo è scongiurare il pesante «effetto annuncio» del ddl: già oggi confusione e paura possono «ostacolare il ricorso degli immigrati non regolari ai pronto soccorso e alle altre strutture del servizio sanitario regionale», spiega la circolare inviata a tutti i presìdi. Con conseguenze devastanti «per la salute degli immigrati»: in discussione ci sarebbero anche le prestazioni a tutela di maternità e dell’infanzia, a cominciare dalle vaccinazioni». Negarle, aggiunge Bissoni, «sarebbe immorale». Senza contare «un concreto rischio di danni irreparabili per la salute di tutta la collettività»: per ogni clandestino che rimane lontano dagli ospedali per paura di essere denunciato aumenta il pericolo della diffusione di malattie come «tubercolosi, Hiv, meningiti, Chikunguya».
PRONTI AL RICORSO?
C’è poi una strategia a lungo termine. La Regione chiede a tutte le strutture di avviare un monitoraggio degli accessi giornalieri di immigrati con tesserino Stp (quello distribuito ai clandestini che permette loro di accedere alle cure del servizio sanitario pubblico, ndr). E se da questo monitoraggio risultasse che gli stranieri irregolari disertano sempre più la sanità pubblica in regione «è chiaro che dovremmo prendere misure più ampie e ancora più incisive», annuncia l’assessore. Di più, per ora, non si dice: ma è chiaro che dati molto negativi potrebbero fare da base a iniziative ancora più clamorose, come un ricorso alla Corte Costituzionale. Che in più di una sentenza ha stabilito che le ragioni di tutela della salute pubblica hanno la priorità su tutto.

l’Unità 13.3.09
Bambini apolidi e medici delatori
Il doppio «no» del presidente Fini
di Maristella Iervasi


Neonati fantasma se figli di immigrati irregolari e medici delatori: ancora una volta il presidente della Camera Fini prende le distanze dal governo. «Legge immorale imporre ai medici la denuncia dei clandestini».

«Se fosse impedita la registrazione anagrafica dei bambini nati in Italia da genitori clandestini, sarebbbe gravissimo. Che facciamo, questo bambino lo trasformiamo in un apolide o in un fantasma»?. Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, interviene dal solotto di Bruno Vespa - e prende posizione su almeno due norme contenute nel disegno di legge sulla sicurezza: il rischio dei neonati invisibili se figli di immigrati senza permesso di soggiorno; e la possibilità da parte dei medici di denunciare gli irregolari. «È immorale imporre ai medici la denuncia dei clandestini ha ribadito Fini -. Il rispetto della persona viene sempre prima: uno prima è uomo e poi un clandestino. Nei pronto soccorsi ci sono poliziotti e carabinieri, al limite potranno farlo loro, non certo il medico il cui compito rimane quello di curare».
La lettura di alcuni quotidiani di ieri ha fatto sobbalzare il presidente Fini dalla poltrona di Montecitorio. Soprattutto per i neonati figli di immigrati invisibili e senza identità. Il caso è nato dalla denuncia del rischio paventata da associazioni di giuristi e pediatri per via dell’art.45, comma 1, lettera f, del disegno di legge sulla sicurezza, approvato al Senato ed ora alla Camera. Che introduce l’obbligo per il cittadino straniero di esibire il permesso di soggiorno per ogni atto amministrativo di stato civile. Quindi anche per la registrazione delle nascite e il riconoscimento del figlio naturale da parte di un irregolare? Un norma che se fosse vera sarebbe vergognosa a prescindere, oltre che xenofoba: i neonati di immigrati irregolari sarebbero discrimanti alla nascita, diventando invisibili senza identità, esposti ad ogni violazione e contro la Convenzione Onu dei diritti del minore, perché le coppie per non correre il rischio di finire espulse ricorerebbero alle nasite clandestine. Ma potrebbe accadere anche di peggio: il bimbo immigrato che nascerebbe in ospedale verrebbe allontanato dai genitori naturali solo perchè figlio di irregolari e quindi dato in adozione. Discriminati, dunque, fin dalla nascita.
Fini è impallidito ed ha subito cercato il ministro Maroni, senza successo. Ma poi è stato il sottosegretario Alfredo Mantovano a rassicurarlo: «È solo un equivoco... A nessuno nel governo è mai venuto in mente di precludere una cosa del genere». Del resto, l’articolo 19 del Testo unico sull’immigrazione non modificato dal ddl sulla sicurezza consente alla donna incinta irregolare di un ottenere un permesso di soggiorno per gravidanza fino 6 mesi di vita del bambino. Norma che si estende anche al marito convivente (sentenza della Corte Costituzionale 376 del 2000). Cosa che non elimina del tutto il problema: chiedere il permesso come donna incinta potrebbe destinare le persone ad un successivo allontanamento.
Mantovano prima che Fini andasse a Porta a Porta ha sbrogliato tutta la matassa. «La norma del ddl del comma dell’art.45 inibisce allo straniero irregolare la possibilità di ricevere una licenza di commercio e autoririzzazioni che preparino provvedimenti in suo favore. Non prevede alcun divieto d’iscrizione all’anagrafe. Nessun neonato invisibile». E con un comunicato diffuso alle agenzie di stampa è stato costretto ad ammettere che in caso di dubbi «l’esame alla Camera del provvedimento permetterà a chiarire la questione, per renderla più incontrovertibile».
Le distanze di Fini dal governo su alcuni aspetti dell’immigrazione contenute nel pacchetto sicurezza restano. «La denuncia del medico contro l’immigrato clandestino non mi convince - ha ripetuto ieri il presidente della Camera -. Questo provvedimento comporta dei rischi: i clandestini potrebbero rivolgersi a circuiti di medicina alternativa con il serio rischio di diffondere patologie e contagi.
È un rischio per la società. Mi sembra una legge immorale».

Corriere della Sera 13.3.09
Il presidente della Camera «Pdl, ridicolo il voto segreto su Silvio, sì all'alzata di mano»
Fini si smarca dal premier «Io di sinistra? Niente di male»
E sui figli dei clandestini: grave non registrarli, diventano apolidi
L'elogio ad Almirante: «Quando entrai in Parlamento, 26 anni fa, mi disse: "Qui imparerai cos'è la democrazia"»
di L. Fu.


ROMA — Tributa un omaggio al suo padre politico, quel Giorgio Almirante che fu il fondatore del Movimento sociale: «Non mi dimenticherò mai cosa mi disse 26 anni fa quando entrai in Parlamento: "Qui imparerai cos'è la democrazia" ». A una settimana dal congresso che scioglierà An per confluire nel Pdl, Gianfranco Fini si racconta a Porta a Porta. Non solo. Auspica che tra i poli nasca «una collaborazione ponendo fine al dialogo tra sordi» per contrastare la crisi e che non si perda l'occasione di fare le riforme ripartendo dalla «bozza Violante». Dichiara il proprio apprezzamento per «il semipresidenzialismo alla francese», ma al contempo nota che «se vogliamo fare una riforma condivisa dobbiamo prendere atto che in Italia non ci sono mai state le convergenze sul presidenzialismo. Il federalismo è già nelle corde del Paese, non c'è bisogno dell'elezione diretta del capo dello Stato». Celia anche su se stesso e sul rilievo di inclinare al politicamente corretto. «Il presidente della Camera — dice di sé parlando in terza persona — non è un ornamento ma un soggetto che può esprimere opinioni politiche. E se queste vengono etichettate di sinistra non ci trovo niente di male». L'accenno riguarda la sua contrarietà alla norma che permette ai medici di denunciare gli immigrati clandestini: «Non mi convince. Il medico ha il diritto di curare le persone». E sui figli dei clandestini lancia l'allarme: «Sarebbe gravissimo se fosse impedita la registrazione anagrafica. Che facciamo, li trasformiamo in apolidi?».
Fini puntualizza poi che «non è un mistero che con Silvio Berlusconi ci siano sensibilità diverse su alcune questioni come per esempio il caso Englaro. Ma ciò non autorizza a dire che c'è necessariamente uno scontro. Ci sono ruoli diversi e sensibilità diversi». E subito dopo aggiunge: «Ogni volta che Berlusconi dice che il Parlamento è lento la mia risposta arriva in tempo reale. Attiene al mio ruolo istituzionale, io faccio il presidente della Camera, lui fa il presidente del Consiglio». E sull'eventualità di vedere il Cavaliere al Quirinale sgombera il campo da ogni possibile equivoco dopo l'intervista a un giornale spagnolo: «Al Quirinale c'è un ottimo capo dello Stato, il resto è polemica o scherzoso giornalismo politico». Quanto alle modalità con cui scegliere il leader del Pdl Fini obietta che «sarebbe ridicola l'elezione a scrutinio segreto di Berlusconi alla presidenza del Pdl. Chi è favorevole alzi la mano, e chi è contrario non la alzi, anche perché non c'è un altro che si candida contro». Insomma, «Berlusconi non ha bisogno di investiture e lui è il primo a saperlo perché è attento a queste cose». Poi passa al suo futuro nel Pdl. «Devo fare il presidente della Camera e questo basta e avanza. Mi sarei tenuto stretto An se fossi stato preoccupato del mio ruolo, anche se so che qualcuno non mi crederà. Voglio fare il Pdl perché ha senso pensare a un grande progetto per l'Italia».

Corriere della Sera 13.3.09
La scelta «ecumenica» diventa una sfida al primato del Cavaliere
di Massimo Franco


Il tratto ecumenico di Gianfranco Fini si sta accentuando. Lo porta a proporre gli Stati generali dell'economia, che somigliano ad una sorta di comitato di emergenza nazionale anticrisi; ad avvertire Silvio Berlusconi che riceverà una risposta «in tempo reale» ogni volta che toccherà le sue prerogative di presidente della Camera; e a prendere distanze vistose da alcune misure caldeggiate dalla Lega, come la possibilità per i medici di denunciare gli immigrati clandestini. In più, cancella qualunque riferimento a Silvio Berlusconi come successore di Giorgio Napolitano. Con un certo minimalismo, le definisce «sensibilità diverse » da quelle del capo del governo.
In realtà, Fini sottolinea un ruolo istituzionale che agli occhi di palazzo Chigi non può non apparire una sfida. Fra maggioranza ed opposizione, vede «una perenne campagna elettorale» dalla quale si smarca. E si rifiuta di assecondare i giudizi liquidatori che Pdl e Pd si scambiano. Sulle riforme istituzionali invoca un dialogo tanto ragionevole in teoria, quanto singolare per un Berlusconi che da del «catto-comunista » a Franceschini; e viene da lui definito «clerico-fascista ». In apparenza le preoccupazioni dei leader del Pdl combaciano, sull'esigenza di cambiare il sistema.
La distanza si registra più nei toni che nel merito. Entrambi considerano superato il bicameralismo attuale; sono per una riduzione del numero dei parlamentari. Ma Berlusconi è convinto di trovarsi di fronte ad un potere legislativo «superparlamentare », da ridimensionare: la sua parola d'ordine è velocità decisionale e delle procedure; e vuole cambiare i regolamenti. Fini, invece, tende a frenare, sposta l'obiettivo, lo allarga. E alla fine l'elenco delle diversità risulta più lungo di quanto forse non sia.
Il presidente della Camera sostiene che parlare di «scontro » fra loro sarebbe una forzatura. Con una punta di civetteria, scansa l'etichetta di sinistra che qualche alleato gli affibbia maliziosamente. Eppure, il problema dei rapporti con il mondo berlusconiano esiste: anche se FI e An sono alla vigilia della fusione. Anzi, chissà che non lo siano proprio per quel motivo. Sembra quasi che mentre consegna al presidente del Consiglio la «sua» destra, Fini voglia rivendicare e imporre un proprio spazio politico autonomo; e correre per la leadership del Pdl con l'aria di chi punta sui tempi lunghi. Nel frattempo si offre come sponda per quanti in Parlamento non vogliono le leggi giudicate discriminatorie verso gli immigrati: uno schiaffo all'asse Lega-FI. E a Porta a Porta ribadisce di pensarla diversamente da Berlusconi sul caso Englaro, la ragazza morta dopo 17 anni di coma fra mille polemiche. Si tratta di un protagonismo e di una volontà di distinguersi insistiti, calcolati; destinati a rientrare, oppure ad essere ufficializzati al congresso del partito unico. Per Berlusconi è un fronte interno che rimane aperto, dopo l'illusione di averlo chiuso per sempre rinunciando all'alleanza con l'Udc. Ormai il premier sa che il suo principale alleato ha una strategia tendente magari a saldarsi, ma non a confondersi con la sua.

Repubblica 13.3.09
Se i due romeni fossero romani
di Gad Lerner


Perché li tengono dentro, quei due, se il Tribunale del Riesame ha stabilito che Alexandru Loyos e Karol Ractz non sono colpevoli dello stupro al parco romano della Caffarella?
E se l´esame del Dna scagiona Ractz pure dallo stupro del 21 gennaio a Primavalle? Chiediamocelo: sarebbero ancora in carcere, si fosse trattato di due romani anziché di due romeni? D´accordo, la loro fedina penale è tutt´altro che immacolata. E mettiamoci pure che hanno una brutta faccia. Ma non posso fare a meno di pensare come avrebbe figurato la mia, di faccia, esibita in tv con l´accusa di avere violentato una quattordicenne.
Il medioevo elettronico contemporaneo si nutre di simili mostri. Il biondino, il pugile, le baracche, i campi rom, il Dna più o meno maldestramente ascrivibile a un ceppo etnico, le statistiche sulla pericolosità degli stranieri estrapolate con disinvoltura da campioni di popolazione non comparabili.
Intrappolati come siamo tra la paura e il furore, finiscono per apparirci di un progressismo temerario perfino le massime autorità istituzionali, quando criticano (inascoltate) il ricorso alla connotazione razziale della delinquenza. Perché nel frattempo ci sono funzionari dello Stato, come il prefetto e il questore di Treviso, che presenziano agli incontri di partito per la formazione delle ronde. Dando luogo a una commistione tra forze dell´ordine e militanza di fazione, in nome della difesa del popolo, tipica dei regimi antidemocratici.
L´indagine di polizia sul cosiddetto stupro di San Valentino s´è dipanata in un clima d´isteria collettiva falsamente giustificata come moto di solidarietà nei confronti della vittima. Sballottati tra il clamore mediatico e le esigenze della politica, gli inquirenti già domenica 15 febbraio lasciavano trapelare: siamo in procinto di acciuffare i colpevoli. "Il cerchio si stringe, questione di ore", promettevano i siti Internet. Diffondendo un´aspettativa non so se autorizzata, ma comunque eccessiva, tanto è vero che la sera di lunedì 16 febbraio la Questura di Roma doveva precisare in un comunicato che nessun cittadino romeno risultava al momento iscritto al registro degli indagati. Gli arresti sarebbero giunti la notte dell´indomani. Consentendo martedì 18 febbraio la ben nota sfilata di Coyos e Racz ammanettati tra flash e telecamere, subito prima della conferenza stampa in cui veniva precisato � guarda caso � che l´indagine s´era felicemente conclusa senza bisogno di ricorrere alle intercettazioni telefoniche.
Indicata come prova regina la confessione filmata resa dal "biondino", dapprima gli inquirenti hanno lasciato trapelare l´esistenza di quel video. Quando poi sono emersi forti dubbi sull´impianto accusatorio, la polizia ha pensato di difendersi fornendo ai media quel materiale d´inchiesta e rendendo così pubblico il filmato di una confessione che i magistrati hanno giudicato non credibile.
Sarebbe stato difficile pretendere che la polizia lavorasse con serenità in un tale contesto ambientale. Ne è scaturita un´inchiesta come minimo frettolosa, il che dovrebbe bastare a definirla un´inchiesta sbagliata. Se anche restassero fondati sospetti che Alexandru Loyos abbia reso la falsa confessione per coprire altre persone, la sua autoaccusa lo descrive piuttosto come vittima che come colpevole. Nel frattempo "Le Iene" hanno mostrato in tv una ronda di loschi figuri che si aggiravano intorno al parco della Caffarella a caccia di stranieri con un coltello in mano. Due cittadini albanesi, scambiati per romeni, sono stati malmenati nel quartiere romano di Tor Bella Monaca. La sera stessa è stato impedito l´accesso in una discoteca milanese di due cittadini indiani, giudicati indesiderabili per il colore della pelle. Questo è il clima che si è alimentato irresponsabilmente nelle nostre città, per le quali si aggirano in veste di giustizieri dei brutti ceffi razzisti incoraggiati dal via libera alle ronde.
Perveniamo così al paradosso che, per l´incolumità di due persone "mostrificate" come Alexandru Loyos e Karol Rocz, forse oggi in Italia il luogo più sicuro resti la prigione in cui sono detenute. Ciò che naturalmente non giustifica la loro permanenza in carcere. Se e quando usciranno, è prevedibile che si dileguino come ladri. Così il benpensante si rafforzerà nella sua convinzione: ve l´avevo detto che erano dei poco di buono! E la caccia all´uomo potrà ricominciare, nobilitata dalla sofferenza delle donne violentate. Senza giustizia.

Repubblica 13.3.09
I barbari e noi
Le nuove paure dell’Occidente
di Tzvetan Todorov


A vent´anni dal crollo del Muro, il mondo conosce inedite partizioni. Ci sono i paesi "dell´appetito", "quelli del risentimento" e chi vive nell´angoscia
Nei paesi ricchi si teme di subire il predominio di chi per secoli è stato mortificato
Ma il timore diventa un pericolo a sua volta e induce a comportamenti spesso disumani

Anticipiamo parte dell´introduzione al libro di La paura dei barbari. Oltre lo scontro delle civiltà (Garzanti, pagg. 288, euro 16,50)
Il XX secolo è stato dominato, in Europa, dal conflitto tra regimi totalitari e democrazie liberali. All´indomani della seconda guerra mondiale, dopo la disfatta del nazismo, questo conflitto ha assunto la forma di una guerra fredda globale, rafforzata in periferia da alcuni confronti «caldi» ben delimitati. (...) Si trattava di una suddivisione della terra secondo criteri politici, anche se si aggiungevano altre caratteristiche: il terzo mondo era povero, l´Occidente ricco, mentre nei paesi comunisti l´esercito era ricco e la popolazione povera (ma non poteva dirlo).
La situazione è rimasta immutata per più di mezzo secolo. Mi stava molto a cuore, perché sono nato nell´Europa dell´Est, in Bulgaria, dove sono cresciuto prima di trasferirmi in Francia all´età di ventiquattro anni. Questa ripartizione dei paesi del mondo mi sembrava destinata a durare in eterno � o almeno per tutta la mia vita. Questa convinzione spiega, forse, la gioia da me provata quando, intorno al 1990, i regimi comunisti europei sono crollati, uno dopo l´altro. Non c´era più motivo di opporre l´Est all´Ovest, né di contendere per il dominio universale, perciò ogni speranza era lecita... (...)
A distanza di circa vent´anni, siamo costretti a constatare che si trattava di una speranza illusoria: sembra che tensioni e violenze tra paesi non debbano scomparire dalla storia mondiale. Il grande confronto tra l´Est e l´Ovest aveva messo in secondo piano ostilità e opposizioni, che in breve tempo sono tornate di attualità. I conflitti non potevano svanire come per incanto, perché le loro cause profonde erano ancora presenti e forse si erano perfino intensificate. (...)
Oggi è possibile dividere i paesi del mondo in diversi gruppi, a seconda di come reagiscono alla nuova congiuntura. (...) Per descrivere questa ripartizione, prenderò le mosse da una tipologia recentemente proposta da Dominique Moïsi, completandola e adattandola al mio scopo, senza dimenticare le semplificazioni che impone.
Definirò il sentimento dominante di un primo gruppo di paesi come l´appetito. La loro popolazione ha spesso la convinzione, per i motivi più diversi, di essere stata esclusa dalla ripartizione delle ricchezze; oggi è venuto il suo turno. Gli abitanti vogliono approfittare della mondializzazione, del consumismo, degli svaghi e per raggiungere tale scopo non badano a mezzi. È stato il Giappone, sono ormai trascorsi alcuni decenni, ad aprire questa via, nella quale è stato seguito da molti paesi del Sudest asiatico, ai quali si sono recentemente aggiunti Cina e India. Altri paesi, altre parti del mondo hanno la medesima intenzione: il Brasile, domani senza dubbio il Messico, il Sudafrica. (...)
Il secondo gruppo di paesi è quello in cui il risentimento gioca un ruolo essenziale. Questo atteggiamento deriva da un´umiliazione, reale o presunta, che sarebbe stata loro inflitta dai paesi più ricchi e più potenti. È diffuso, a livelli diversi, in buona parte dei paesi che hanno una popolazione in maggioranza musulmana, dal Marocco al Pakistan. Da un po´ di tempo, è presente anche in altri paesi asiatici o dell´America latina. Il bersaglio del risentimento sono gli antichi paesi colonizzatori d´Europa e, in maniera crescente, gli Stati Uniti, considerati responsabili della miseria privata e dell´impotenza pubblica. (...)
Il terzo gruppo di paesi si distingue per il ruolo che occupa in loro la paura. Sono i paesi che costituiscono l´Occidente e che hanno dominato il mondo per molti secoli. La loro paura riguarda i due gruppi che abbiamo descritto prima, ma non è della stessa natura. Dei «paesi dell´appetito» i paesi occidentali, soprattutto quelli europei, temono la forza economica, la capacità di produrre a minor costo e dunque di fare man bassa sui mercati, insomma, hanno paura di subirne il predominio economico. Dei «paesi del risentimento» temono invece gli attacchi fisici che ne deriverebbero, gli attentati terroristici, le esplosioni di violenza; e poi le misure di ritorsione di cui questi paesi sarebbero capaci sul piano energetico, dal momento che i più grandi giacimenti di petrolio si trovano nei loro territori.
Un ultimo quarto gruppo di paesi, distribuiti su diversi continenti, potrebbe essere indicato come quello dell´indecisione: un gruppo residuale i cui membri rischiano di farsi dominare un giorno dall´appetito o dal risentimento, ma che per il momento rimangono estranei a questi sentimenti.
Nel frattempo, le risorse naturali di questi territori sono razziate dai residenti degli altri gruppi di paesi, con la complicità attiva dei loro dirigenti corrotti; a ciò si aggiunge la desolazione causata dai conflitti etnici. Alcuni strati della loro popolazione, spesso ridotti in miseria, tentano di introdursi nei «paesi della paura», paesi più ricchi, per cercare di condurre una vita migliore. (...)
I paesi occidentali hanno tutto il diritto di difendersi dalle aggressioni e dagli attacchi ai valori sui quali hanno scelto di fondare i loro regimi democratici. Soprattutto devono combattere con fermezza ogni minaccia terroristica e ogni forma di violenza. Peraltro, hanno tutto l´interesse a non lasciarsi coinvolgere in una reazione sproporzionata, eccessiva e abusiva, che darebbe luogo a risultati contrari a quelli attesi.
La paura diventa un pericolo per coloro che la provano, perciò non bisogna lasciarle giocare il ruolo di sentimento dominante. È anche la principale giustificazione dei comportamenti spesso definiti «disumani». La paura della morte che minaccia la mia incolumità o, peggio ancora, persone a me care, mi rende capace di uccidere, mutilare, torturare. In nome della protezione delle donne e dei bambini (i nostri), sono stati massacrati un gran numero di uomini e donne, di anziani e bambini (degli altri). Quelli che vorremmo definire come dei mostri molto spesso hanno agito mossi dalla paura per i loro cari e per sé stessi. (...) E una volta accettato di uccidere, si approvano anche i passi successivi: la tortura (per ottenere informazioni sui «terroristi»), la mutilazione dei corpi (per mascherare gli omicidi con crimini a scopo di rapina o esplosioni accidentali): ogni mezzo è buono per ottenere la vittoria � e, così facendo, allontanare la paura.
La paura dei barbari è ciò che rischia di renderci barbari. E il male che ci faremo sarà maggiore di quello che temevamo di subire. La storia insegna: il rimedio può essere peggiore del male. I totalitarismi si sono presentati come un mezzo per guarire la società borghese dai suoi vizi, eppure hanno dato vita a un mondo più pericoloso di quello che combattevano. La situazione attuale senza dubbio non è così grave, ma rimane inquietante; c´è ancora tempo per mutare orientamento.
Copyright Garzanti Libri ed Editions Robert Laffont Traduzione di Emanuele Lana

Repubblica 13.3.09
Ragazze, anoressia e bulimia sono le prime cause di morte


ROMA - Sono la prima causa di morte per malattia tra le giovani italiane di età compresa tra i 12 e i 25 anni. Anoressia e bulimia nervosa rappresentano un vero allarme socio-sanitario, colpendo oggi circa 150/200mila donne. «I disturbi del comportamento alimentare sono patologie gravi, invalidanti e con elevato indice di mortalità», ha spiegato Roberto Ostuzzi, presidente della Sisdca, Società italiana per lo studio dei disturbi del comportamento alimentare, che ieri mattina, al Policlinico Umberto I di Roma, ha presentato le nuove statistiche su anoressia e bulimia nervosa.

Corriere della Sera 13.3.09
Il piano del governo
Ricovero obbligatorio per le malate di anoressia


ROMA — Trattamento sanitario obbligatorio (Tso) per i casi più gravi di anoressia. È una delle ipotesi nell'ambito della revisione della legge 180 sull'assistenza psichiatrica. «L'anoressia è in crescita anche nell'età pediatrica», dice il sottosegretario al Welfare Francesca Martini. Secondo la Società italiana per lo studio dei disturbi del comportamento alimentare, anoressia e bulimia sono la prima causa di morte per malattie tra le ragazze tra 12 e 25 anni. Quanto all'ipotesi di Tso, Martini spiega: «Penso a un'applicazione specifica che preveda la disponibilità di accoglienza in centri specializzati».

Repubblica 13.3.09
L’accusa al governo: saltano 500 milioni. Visite fiscali a carico delle scuole
Supplenti, presidi in rivolta "Niente soldi per le sostituzioni"
di Salvo Intravaia


Le scuole vantano un credito enorme e devono stilare bilanci su somme virtuali

Scuole in cerca di quattrini. Mancano i soldi per le supplenze, scarseggiano quelli per le visite fiscali e i dirigenti scolastici denunciano il rischio di "dissesto finanziario". Le prime proteste di presidi lombardi e emiliani risalgono allo scorso mese di gennaio. Oggi si aggiungono quelle provenienti da Marche, Sardegna e Sicilia.
Ma per il ministro dell´Istruzione, Mariastella Gelmini, chiamato in causa da una recente interrogazione parlamentare, non c´è stata «una diminuzione delle risorse, al contrario queste sono state accresciute». Ma di cosa si lamentano, allora, segretari e capi d´istituto? In una lettera indirizzata una settimana fa al ministero, 70 tra capi d´istituto e direttori dei servizi amministrativi (gli ex segretari) della provincia di Ancona «segnalano la gravissima situazione di disagio di tutti gli istituti del territorio». Le scuole vantano un credito enorme da viale Trastevere e sono state costrette a confezionare bilanci su somme virtuali. L´Associazione delle scuole autonome della Sicilia (Asas) stima in 1,6 miliardi di euro il corrispettivo che il ministero deve ancora alle scuole. Mentre pochi giorni fa il direttore dell´Ufficio scolastico regionale della Sardegna, Armando Pietrella, ha scritto al ministero di continue «segnalazioni provenienti dalle istituzioni scolastiche che evidenziano la grave situazione per la mancanza di fondi destinati alle supplenze». Ma di non poterci fare nulla, invitando i capi d´istituto sardi a nominare lo stesso i supplenti. Il ministero quest´anno assegnerà agli istituti un budget fisso in relazione alle unità del personale in servizio incrementato al massimo del 50 per cento. Ma le scuole hanno ricevuto soltanto anticipi. Per dare un´idea del taglio operato negli ultimi 5 anni basta guardare alcune cifre. Per le sole supplenze nel 2004 vennero stanziati 899 milioni, nel 2008 siamo attorno a 323. Maria Rita insegna in una scuola elementare della provincia di Roma. «Nella mia scuola � spiega � non si nominano più supplenti da 15 giorni e siamo nel caos più totale: le classi vengono divise e a farne le spese sono i piccoli scolari, traslocati da una classe all´altra come pacchi postali». Oltre ai tagli le scuole devono fronteggiare gli effetti del decreto-Brunetta contro i fannulloni, che prevede visite fiscali anche per un solo giorno di malattia. Chi le paga? Il servizio sanitario nazionale presenta il conto alle scuole che, però, non ce la fanno più. «Aiutateci a gestire la scuola nella legalità» scrivono 17 dirigenti scolastici di Bergamo. I capi d´istituto sono di fronte ad un bivio: «destinare pressoché tutti i fondi disponibili al pagamento delle visite fiscali e paralizzare la vita degli istituti, oppure infrangere la legge e disporre solo in minima parte le visite o non pagare le Asl». Lo scorso dicembre l´onorevole di centro destra Daniela Melchiorre chiese al ministro Brunetta chi dovesse pagare le visite fiscali. «La questione è in via di approfondimento», ha risposto il fustigatore di fannulloni.

Repubblica 13.3.09
Roberto Tripodi, preside dell’industriale Volta di Palermo: "Situazione grave"
"Costretti a lavorare senza soldi e a farne le spese sono gli studenti"
di s.i.


«Quando mancano i professori, spesso, facciamo uscire i ragazzi prima», dice Roberto Tripodi, preside dell´industriale Volta di Palermo.
Come vanno le cose rispetto all´inizio dell´anno?
«Anche rispetto ad un mese fa la situazione si è aggravata: la mia scuola vanta un credito enorme».
Quanto?
«Circa 200 mila euro».
Quali fondi aspettate?
«Oltre alle supplenze, non riceviamo i fondi per pagare le commissioni degli esami di Stato dal 2007. E siamo in attesa dei fondi per le ore eccedenti e per i gruppi sportivi».
E come andate avanti?
«Utilizziamo altri fondi, ma a fine anno ripianiamo i bilanci».
Con questa penuria, come sostituite i docenti assenti?
«Quando è possibile, facciamo entrare gli alunni qualche ora dopo o li facciamo uscire prima. Altrimenti assegnamo le supplenze senza copertura finanziaria».

Repubblica 13.3.09
La guerra del Vaticano
Dopo lo scontro sui lefebvriani Ratzinger scrive di "ostilità pronte all´attacco". E alza il velo su una crisi cruciale all´interno della Curia
di Marco Politi


Sul soglio di Pietro un uomo solo che non usa consultare e non da attenzione ai segnali esterni
I fedelissimi da Bertone a Levada, ma alla macchina curiale manca una guida lineare

Città del Vaticano. Una Curia allo sbando, un Papa chiuso nel suo palazzo e costretto a fronteggiare una bufera che l´Osservatore Romano definisce senza esempi in tempi recenti. E fughe di notizie che l´organo vaticano bolla come «miserande». Quattro anni dopo la sua elezione Benedetto XVI sperimenta una crisi cruciale del suo pontificato. Ferito e solo, ha scritto parole amare ed aspre ai vescovi di tutto il mondo, lamentando che - per la vicenda della scomunica condonata ai quattro vescovi lefebvriani e specie per il caso Williamson - proprio ambienti cattolici gli abbiano mostrato un´«ostilità pronta all´attacco». Persino arrivando a trattarlo, lui dice, con «odio senza timore e riserbo».
C´è qualcosa che traballa nella gestione della Curia. Se ne avevano segnali da tempo, ma la rivolta di alcuni grandi episcopati - in Germania, Austria, Francia e Svizzera - contro la decisione papale di graziare i vescovi lefebvriani scomunicati senza ottenere preventivamente una loro leale adesione al concilio Vaticano II, ha messo in luce una disfunzione più generale. Per due volte decisioni papali, che attendevano di essere rese note attraverso la sala stampa, sono state fatte filtrare all´esterno in anticipo causando clamore e polemiche. È successo con il decreto di revoca delle scomuniche, è capitato di nuovo con le indiscrezioni sulla lettera papale ai vescovi. Giovanni Maria Vian, direttore dell´Osservatore, fustiga in un corsivo le «manipolazioni e strumentalizzazioni» anche all´interno della Curia romana, ammonendo che la Curia è «organismo storicamente collegiale e che nella Chiesa ha un dovere di esemplarità».

Una Curia in difficoltà, Ratzinger chiuso nel Palazzo, sui lefebvriani uno scontro interno senza precedenti. A 4 anni dall´elezione, una crisi cruciale del pontificato: Benedetto XVI scrive un´accorata lettera e lamenta "ostilità pronte all´attacco", "odio senza timore". E l´Osservatore denuncia "miserande" fughe di notizie
Sferzata inedita e dura a chi nel palazzo apostolico non si è attenuto alla linea del riserbo e dell´obbedienza. Ma l´impaccio e le disfunzioni della macchina curiale vanno al di là della vicenda lefebvriana.
Benedetto XVI è solo. Ma non perché ci sia un partito che gli rema contro. Bensì per il suo di governo solitario, che non fa leva sulla consultazione e non presta attenzione ai segnali che vengono dall´esterno. Meno che mai quando provengono dal mondo dei media, considerato a priori con sospetto. «Benchè sia stato più di un ventennio in Vaticano al tempo in cui era prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede - spiega off record un monsignore - Ratzinger non conosce affatto la Curia. Era chiuso ieri nella sua stanza nell´ex Sant´Uffizio ed è chiuso oggi nel suo studio da papa. Lui è un teologo, non è un uomo di governo. Passa metà della giornata a occuparsi dei problemi della Chiesa e l´altra metà concentrato sui suoi scritti: sul secondo volume dedicato a Gesù». Monsignore si ferma e soggiunge: «Non è detto che un grande teologo abbia con precisione il polso della realtà così come è».
Certo, esiste in Curia un pugno di fedelissimi. Il cardinale Bertone in primis. O il suo successore alla Congregazione per la Dottrina della fede, Levada. O il nuovo responsabile del dicastero del Culto divino, lo spagnolo Canizares. Parlano il suo stesso linguaggio i cardinali Grocholewski, responsabile del dicastero dell´Educazione cattolica, o Rodè, titolare della Congregazione dei religiosi. E fra i presidenti delle conferenze episcopali è in prima a linea a solidarizzare con il pontefice il cardinale Bagnasco, che prontamente ieri ha espresso «gratitudine» per le chiarificazioni del Papa. Ma la fedeltà non basta. «Ciò che si avverte - spiega un altro frequentatore dei sacri palazzi - è l´assenza di una guida lineare della macchina curiale». Macchina complessa, che va condotta con mano ferma dal Papa, dai suoi segretari di Stato e qualche volta da alcuni segretari particolari molto attivi dietro le quinte: come Capovilla per Giovanni XXIII, Macchi per Paolo VI, Dziwisz per Giovanni Paolo II.
Mons. Gaenswein, ed è un suo pregio caratteriale, non ama giocare a fare il braccio destro (occulto) del Papa. Ma contemporaneamente pesa il fatto che larga parte della macchina curiale non riconosce il Segretario di Stato Bertone come «uno dei suoi». Bertone non viene dalla diplomazia pontificia. Non ha fatto la trafila dei monsignori che hanno cominciato da minutanti in un ufficio della Curia e poi sono saliti crescendo nella rete di contatti, passando magari attraverso l´esperienza di un paio di nunziature all´estero. Bertone è un outsider. Scelto da Ratzinger perché suo primo collaboratore al Sant´Uffizio e perché di provata sintonia e fedeltà. Ma alla fin fine il mondo curiale non si sente sulla stessa lunghezza d´onda con il «salesiano».
Non è una posizione facile la sua. Da un lato finisce per essere in qualche modo separato dalla macchina curiale, dall´altro non può influire sulla direzione di marcia che di volta in volta Benedetto XVI intraprende. Abile nel controllare e riparare i danni, quando si verificano, il Segretario di Stato può tuttavia intervenire soltanto dopo. Perché in ultima analisi Ratzinger si esercita in uno stile di monarca solitario. Nella lettera ai vescovi il Papa riconosce che portata e limiti del suo decreto sui vescovi lefebvriani non siano stati «illustrati in modo sufficientemente chiaro» al momento della pubblicazione. Adesso finalmente la commissione Ecclesia Dei, guidata dal cardinale Castrillon Hoyos (fino a ieri titolare esclusivo dei negoziati con la Fraternità Pio X), verrà inquadrata nel lavoro della Congregazione per la Dottrina della fede e in tal modo - garantisce il Papa - nelle decisioni da prendere sulle trattative con i lefebvriani verranno coinvolti i cardinali capi-dicastero vaticani e i rappresentanti dell´episcopato mondiale partecipanti alle riunioni plenarie dell´ex Sant´Uffizio.
Il rimedio adottato ora rappresenta la confessione che Benedetto XVI nella vicenda non ha coinvolto nessuno, non ha informato nessuno e ha lasciato mano libera al cardinale Castrillon Hoyos, che non lo ha nemmeno informato esaurientemente sui trascorsi negazionisti di Williams, noti da più di un anno per la loro impudenza. I filo-lefebvriani di Curia in questa partita hanno giocato spregiudicatamente la carta delle indiscrezioni per dare per scontato un riavvicinamento ancora tutto da costruire. «Papa Ratzinger - confida un vescovo che ben conosce il sacro palazzo - è stato in fondo generoso nell´assumersi ogni responsabilità senza dare la colpa a nessun collaboratore. Ma nel suo modo di governare c´è un problema: parte sempre dall´assunto che quando è stabilita la verità di una linea, allora si deve andare avanti e basta. Non mette in conto le conseguenze esterne del suo ruolino di marcia e nella sua psicologia non crede nemmeno che gli uomini di Curia siano all´altezza di dargli veri consigli».
Non è casuale allora che siano stati i grandi episcopati d´Europa e del Canada a ribellarsi all´idea che con l´improvvisa mano tesa ai lefebvriani apparisse annacquata l´indispensabile fedeltà della Chiesa contemporanea ai principi del Vaticano II. Persino un intimo di Ratzinger come il cardinale di Vienna Schoenborn è stato costretto a denunciare le «insufficienti procedure di comunicazione nel Vaticano». Un modo elegante per evitare di criticare direttamente il Papa. Ma proprio in Austria si è giocato un altro evento senza precedenti nella storia dei pontificati moderni. Un vescovo ausiliare scelto dal pontefice è stato respinto dall´episcopato intero di una nazione, costringendo Benedetto XVI a un´ennesima marcia indietro.
Questo gli uomini di Curia non l´avevano mai visto.

Repubblica 13.3.09
La solitudine di Benedetto XVI
di Vito Mancuso


Persino per l´esperto direttore della sala stampa vaticana la lettera del Papa a proposito della remissione della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani "è un documento davvero inconsueto". Anche solo per questo, per essere una delle rare cose inconsuete (un´altra è stata ieri l´attacco dell´Osservatore romano) provenienti da un´istituzione che ha la sua forza nella secolare consuetudine, è degno della massima attenzione. Indirizzata ai vescovi della chiesa cattolica, questa lettera papale si potrebbe definire una mini enciclica.
E se si aggiunge citando sempre padre Lombardi che "non vi è dubbio che la lettera sia sua dalla prima parola all´ultima" il documento assume un valore su cui davvero vale la pena riflettere. Quale sia stato l´obiettivo del papa nel redigerlo, lo dice egli stesso: "contribuire alla pace nella chiesa". Preso atto che nella chiesa la pace è turbata, il papa intende ristabilirla. Nessun dubbio che il turbamento deve essere molto grande per spingere il papa a un passo così "inconsueto", e io aggiungerei clamoroso (non ricordo un documento analogo in tempi recenti). Ma di chi è la colpa del turbamento della pace della chiesa? Il papa l´attribuisce a tre soggetti, a tre gruppi di "cattivi": 1) i lefebvriani; 2) i funzionari vaticani che non l´hanno informato del negazionismo di monsignor Williamson; 3) quei cattolici che hanno protestato "con un´ostilità pronta all´attacco".
Il primo gruppo di "cattivi" in verità rimane sullo sfondo: si sapeva già che lo erano, e anzi il senso dell´iniziativa papale nel togliere la scomunica era precisamente quello di contribuire al loro ritorno nella grande chiesa facendo loro accettare finalmente il Vaticano II. Il secondo gruppo di "cattivi" sono quei dirigenti vaticani che hanno dimenticato di informare il papa su come stavano le cose riguardo a mons. Williamson: "una disavventura per me imprevedibile è stata il fatto che il caso Williamson si è sovrapposto alla remissione della scomunica". Il papa riconosce che bastava consultare internet per chiarirsi le idee ("seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante l´internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema") e aggiunge "ne traggo la lezione che in futuro nella Santa sede dovremo prestar più attenzione a quella fonte di notizie". Benedetto XVI ammette inoltre un secondo errore della macchina vaticana scrivendo che "la portata e i limiti del provvedimento del 21 gennaio 2009 non sono stati illustrati in modo sufficientemente chiaro al momento della sua pubblicazione". Egli vede quindi due errori, uno di merito e l´altro di forma, della curia romana. La conseguenza è che l´organismo che avrebbe dovuto dargli le informazioni necessarie e che invece non gliele ha date (il cui nome è Ecclesia Dei) viene declassato e posto in diretta dipendenza dalla Congregazione per la dottrina della fede. Ma anche per questo secondo gruppo di "cattivi" all´origine della "evidente sofferenza" papale non sarebbe stato necessario scrivere una mini-enciclica: i panni sporchi, soprattutto in Vaticano, si usano lavare in casa.
Eccoci dunque al terzo gruppo di "cattivi" all´origine del turbamento della pace della Chiesa e che, a mio avviso, sono la causa vera e propria della lettera di Benedetto XVI: quei cattolici che hanno protestato "con un´ostilità pronta all´attacco". Il vero bersaglio della lettera papale sono quindi i "protestanti" cattolici, cioè quei cattolici che in tutto il mondo hanno protestato per la revoca della scomunica a monsignor Williamson. Ma il papa sa bene, e lo scrive con la consueta chiarezza che contraddistingue da sempre la teologia di Joseph Ratzinger, che la protesta "rivelava ferite risalenti al di là del momento". La valanga di proteste di proporzioni mondiali che ha portato Benedetto XVI a una "evidente sofferenza" (per citare ancora padre Lombardi) è sì partita a seguito del caso Williamson, ma la neve che la costituiva si era accumulata da molto tempo prima. Qui non c´è la possibilità di approfondire il discorso ma in conclusione vorrei sottolineare almeno due cose: 1) Come ricorda lo stesso papa, la polemica intraecclesiale risale già ai tempi del Nuovo Testamento, anzi io aggiungo che venne esercitata in prima persona da Gesù: il che significa che la polemica e la franca discussione non sono un male in sé, se si svolgono in modo aperto, con argomenti precisi e il più possibile razionali, esponendo se stessi col proprio nome e cognome, lottando sempre per la verità e soprattutto senza astio personale. Io penso che occorre tornare alla franchezza di rapporti e di parola ("parresia") tipica della Chiesa apostolica, e che solo così la Chiesa tornerà a essere affascinante per gli uomini d´oggi, i quali possono rinunciare a tutto ma non al pensare con la loro testa. Certo, come dice il papa vi è il rischio di una "libertà mal interpretata", ma è un rischio che non si può evitare se si vuole avere a che fare con il nostro tempo. Ciò che dimostrerà se la libertà sia stata bene o male interpretata sarà la capacità di generare bene, giustizia e unità.
2) Fa bene il papa a preoccuparsi di ricucire lo strappo con la comunità lefebvriana, ma allo stesso modo mi permetto di chiedere se non dovrebbe volgere le sue attenzioni anche allo "scisma sommerso" che riguarda milioni e milioni di laici. Se qualche migliaia di religiosi lefebvriani hanno tale importanza ai suoi occhi, quanto più ne dovrebbero avere gli innumerevoli laici cristiani che si sentono lontani da una Chiesa spesso troppo rigida e fredda (si pensi per fare solo un esempio ai divorziati risposati cui vengono negati i sacramenti). E poi perché tanta comprensione per i lefebvriani, e insieme tanta durezza e intransigenza per quei vescovi, quei preti e quei teologi che cercano di conciliare il Vangelo con le esigenze della postmodernità?
Concludo dicendo che la lettera di Benedetto XVI ha dei punti magnifici, come quando afferma il primato della spiritualità col dire che per la Chiesa "la priorità al di sopra di tutte è rendere Dio presente in questo mondo e aprire agli uomini l´accesso a Dio"; oppure quando loda l´ecumenismo, il dialogo interreligioso, la dimensione sociale della fede. È questo il papa di cui abbiamo bisogno e lui non deve temere quei cattolici che protestano con franchezza e onestà intellettuale contro alcune decisioni, perché così dimostrano di amare ancora la Chiesa. Il giorno in cui non protestassero più, sarebbe solo indifferenza.

Corriere della Sera 13.3.09
La sinistra in crisi. Due tipi di partito
di Giovanni Sartori


C'è il partito elettoralistico che esiste per vincere le elezioni e catturare il governo, e all'altro estremo esiste il «partito testimone» che si costituisce per affermare valori etico-politici e, appunto, dare testimonianza di una buona città politica. Questo secondo tipo di partito sa di non essere maggioritario, ma non se ne cruccia più di tanto. Se la sua volta verrà, tanto meglio; ma se non viene non è la fine del mondo. Forse il tempo è galantuomo. Diamo tempo al tempo.
Dopo la recente rovinosa esperienza del governo Prodi la sinistra torna a scoprire che il nostro Paese non ha mai avuto una maggioranza di elettorato di sinistra. Certo, non l'hai mai avuta con il Pc. Ma nel 1994 la sinistra (l'allora Pds di Occhetto) e Forza Italia di Berlusconi fecero quasi pari (alla Camera). Oggi non più. Oggi il distacco è fortissimo. Perché?
Una bella domanda sulla quale ognuno dirà la sua. La mia è che la sinistra ha commesso sbagli colossali, con D'Alema che avrebbe regalato a Berlusconi l'impero della tv (tutta quanta), e con Prodi che si è ossessivamente dedicato alla creazione di un partito «contro natura» tra cattolici di sinistra e sinistra «dura» e laica.
La legge vigente sul conflitto di interessi che in sostanza consente a Berlusconi non solo di essere il monopolista di tutta la tv privata ma anche, quando vince le elezioni, di controllare a suo piacimento tutta la tv pubblica, è la legge Frattini (oggi ricompensato con il ministero degli Esteri). Ora, la sinistra poteva benissimo approvare, tra il 1995 e il 1998, una legge che invece bloccava Berlusconi. Non l'ha fatto. Il testo c'era (steso dal senatore Passigli), era ben disegnato e fu approvato dal Senato nel 1995. Decadde per lo scioglimento anticipato della legislatura, ma fu subito ripresentato dal centrosinistra nel 1996. Dopodiché niente. Niente anche se allora esisteva una sicura maggioranza (ci stava anche la Lega) per vararlo.
Non avevo mai capito, confesso, questa stupefacente inazione. L'arcano è stato poi inopinatamente svelato da Violante, che nel 2002 era capogruppo Ds a Montecitorio, con questa dichiarazione: nel 1994 a Berlusconi «è stata data la garanzia piena che non gli sarebbero state toccate le televisioni ». Garanzia da chi? I sospetti possono soltanto convergere su D'Alema, a quel tempo segretario del Pds. (Per la precisione, la citazione è del Corriere del 1˚Marzo 2002; e lo stesso si legge su La Repubblica). Dunque l'inerzia della XIII legislatura è oramai spiegata; resta però da spiegare come mai D'Alema (o se no chi?) abbia condannato la sinistra a restare a terra «senza voce».
Quanto a Prodi, ho sempre obiettato alle «fusioni a freddo». I partiti si fondono solo se vengono drammaticamente sconfitti alle elezioni; altrimenti gli apparati e le posizioni di potere di due partiti sopravvivono e si contrastano nel partito unificato (a chiacchiere), con il bel risultato di perdere elettori cattolici al centro ed elettori di sinistra a sinistra. E in questi frangenti Franceschini ha in mente di impegnarsi a corpo morto nelle Europee, invece di defilarsi impegnandosi nel ridare pulizia e serietà al partito «testimone» (altro che a «vocazione maggioritaria »!) che si trova a dover gestire.

Corriere della Sera 13.3.09
La scelta Big in pista alle Europee: «Rischi inimmaginabili se il Cavaliere stravince»
Pd, fine dell'autosufficienza «Sì ad alleanze non tattiche»
Franceschini al premier: io cattocomunista? Tu clerico-fascista
di Roberto Zuccolini


Da un sondaggio Ipsos emerge che il Pd piace a giovani e anziani, ma non alle casalinghe e ai commercianti

ROMA — «Io catto-comunista? E allora lui è un clerico-fascista ». Degna conclusione di una giornata passata tutta all'attacco per Dario Franceschini. A tarda sera, mentre sta in conclave con D'Alema, Fioroni e tanti altri a riflettere sui flussi elettorali italiani illustrati dal sondaggista Pagnoncelli, viene a sapere che Silvio Berlusconi lo ha apostrofato in quella maniera. Non si trattiene ed esce dalla riunione apposta per rispondergli: «È una vecchia offesa che veniva utilizzata prima ancora che io nascessi. Qualche esperto dovrebbe spiegargli che lui è un clerico-fascista».
Ma anche a mezzogiorno, nell'aula di Montecitorio, il segretario del Pd non era stato certo tenero nei confronti del premier e del suo governo in difesa della mozione che chiedeva l'assegno di solidarietà per i disoccupati: «Basta con le accuse di demagogia: le risorse ci sono, se non volete utilizzarle dovete dirlo apertamente. O forse volete salvare solo qualcuno». E fa partire una requisitoria dai tratti forti sugli effetti della crisi per le fasce più deboli della popolazione: «C'è gente che non ha nulla da mangiare, che non ha un posto dove dormire. Ma queste situazioni di povertà non possono essere messe le une contro le altre: si rischia di far esplodere il tessuto sociale facendolo diventare terreno fertile per la criminalità organizzata».
Alla fine la mozione viene bocciata dall'aula, ma Franceschini vuole metterla nel conto dei «gravi errori del governo». E farne uno dei contenuti della prossima campagna elettorale. Sì, perché in fondo le europee non sono così lontane e l'idea del nuovo leader è che bisogna arrivarci combattivi, senza perdere un colpo, fino al 7 giugno, quando si voterà per il Parlamento di Strasburgo, ma anche per le amministrative. Perché «se stravincesse Berlusconi» si correrebbero «rischi inimmaginabili ». Qui torna alla ribalta il tema delle alleanze che tanto fece riflettere Veltroni fino a scegliere una corsa solitaria anche se con spirito maggioritario. All'Espresso Franceschini spiega che saranno «alleanze non tattiche ma per governare». E, dopo avere convocato i segretari regionali del partito, precisa: negli enti locali reggono abbastanza bene gli accordi con la sinistra, ma occorre guardare anche al centro inteso non solo come Idv e come Udc, pur essendo convinto che su questo partito occorra verificare «caso per caso». Opinione diversa da quella di Enrico Letta, che invece invoca da tempo di guardare più al centro che alla sinistra, ma che gli fa comunque i complimenti per come sta guidando il il Pd: «Come un buon capo scout».
Alle europee invece occorre arginare l'offensiva di Berlusconi che ha promesso di lanciare i big della maggioranza, a partire dai ministri. Franceschini promette che i candidati, una volta eletti, andranno sul serio a Strasburgo. Ma per attirare gli incerti già circolano per i capilista nomi «forti» come Fassino, Bettini, Domenici, Cofferati, Soru e lo stesso D'Alema, che anche ieri (lo fa ormai quasi ogni giorno) ha lodato il nuovo segretario. Ma come fare a battere sul serio Berlusconi? Dalla riunione serale sul sondaggio Ipsos emerge che il Pd piace a giovani e anziani, ma non alle casalinghe e ai commercianti. Come si traduca l'analisi in strategia è tutto da vedere. Ma rincuora Franceschini il fatto che le misure anti- crisi sono al primo posto nelle preoccupazioni degli italiani. Perché è su questo tema che sta dando battaglia da quando è stato eletto segretario.

il Riformista 13.3.09
Giallo Rai, rosso Unità
Due spine per il Pd
di Tommaso Labate


RETROSCENA.Il settore «informazione» è diventato il tallone d'Achille di Franceschini. Che per Viale Mazzini spera ancora in Ruffini, ma deve fare i conti con quei ds (Fassino) che gradiscono Riotta. Berlusconi: «Non voglio né un candidato di sinistra né uno tremontiano». Al giornale di Gramsci c'è Concita alle prese col «piano Soru».

Dario Franceschini «sta facendo un lavoro da buon capo dei boy scout», ha argomentato ieri Enrico Letta ai microfoni del Tg3. «Sta lavorando bene», ha nuovamente osservato Massimo D'Alema durante la sua trasferta napoletana. In effetti, l'uno-due di proposte anti-crisi uscito dal cilindro del neo leader (assegno per i disoccupati e una tantum da chi guadagna più di 120mila euro l'anno) era una mossa win win e, come tale, ha dimostrato tutta la sua efficacia: sindacati contenti, nessuna divisione interna e, ciliegina sulla torta, è arrivata anche qualche piccola erosione nella maggioranza (leggasi Bossi).
Ma gli effetti benefici della campagna sulla crisi rischiano di essere annullati dalle due spade di Damocle che pendono sul capo franceschiniano. «Due rogne grosse», sintetizzano brutalmente ai piani alti del quartier generale democratico. Due «rogne» che stanno entrambe nello stesso calderone: l'informazione. La prima è la Rai in cerca di un presidente che chiuda la gestione Petruccioli I e sancisca la fine dell'impasse; la seconda è l'Unità, «il giornale dei Ds» (come lo chiamano nella corrente popolare) che sta lottando contro la il rischio della chiusura dei battenti.
La faccenda di viale Mazzini sembra complicarsi ogni giorno di più, nonostante nella stretta cerchia di Franceschini più d'uno giura che «un asso nella manica c'è» e verrà calato nei prossimi giorni. Ieri, al lungo elenco di candidature, s'è aggiunta quella del direttore (uscente) del Tg1, Gianni Riotta. E, come d'incanto, anche dall'entourage del segretario del Pd è arrivata una reazione, la prima dopo giorni di stretto riserbo. «Da qualche giorno leggiamo sui giornali, e oggi sulle agenzie, nomi di possibili presidenti della Rai. È un esercizio fastidioso frutto di ricostruzioni inventate o molto spesso anche interessate», si leggeva in una nota dell'ufficio stampa del leader apparsa subito dopo le prime indiscrezioni sulla nomination di Riotta.
Qualcuno, tra i piddini più attenti alle cose di casa Rai, ha interpretato il comunicato come un semaforo rosso al direttore del Tg1. Sia come sia, la candidatura di Riotta piace a una parte della maggioranza («Se il Pd lo propone, la convergenza sarà facile», è la versione di Italo Bocchino) e a settori significativi del Pd. Tanto per dirne una, Piero Fassino, uno degli sponsor del Petruccioli bis, gradisce e non poco. Un'ulteriore preoccupazione in un percorso già minato? Può darsi. Franceschini, infatti, non ha del tutto accantonato la strada a lui più cara, quella che porta al direttore di Rai Tre Paolo Ruffini. Mentre l'ex dg di viale Mazzini Pier Luigi Celli sarebbe ancora in pista come candidato trasversale di un asse che parte da Massimo D'Alema e arriva a Giulio Tremonti. Il rischio che si finisca in un vicolo cieco è molto alto. Non foss'altro perché Silvio Berlusconi, ormai sul piede di guerra contro il suo ministro dell'Economia, ha dettato ai suoi una regola d'ingaggio molto chiara: «Il presidente della Rai non dev'essere né uno di sinistra né un tremontiano». Lo spazio per altri nomi c'è, tiene conto di qualche «grande vecchio» (Sergio Zavoli o, leggenda dell'ultim'ora, Arrigo Levi) e di qualche outsider (come il costituzionalista Enzo Cheli, primo presidente dell'Authority per le comunicazioni). In calo le quotazioni di Giorgio Assumma, presidente Siae, che ieri s'è fatto avanti.
Sempre più scottante anche il dossier Unità. Ieri, nella sede della Fnsi, s'è aperta la trattativa tra il cdr del quotidiano e i rappresentanti dell'azieda. Tra prepensionamenti, tagli e collaborazioni da ridurre all'osso, il piano «lacrime e sangue» elaborato dai Soru boys è già sul tavolo. Per cui, a Concita de Gregorio toccherà l'ingrato compito di decidere a chi dei prestigiosi collaboratori (Colombo, Travaglio...) chiedere un sacrificio. Quanto al ruolo della Cgil, fermamente interessata a entrare nell'operazione, Epifani aspetta di capire come evolverà la trattativa tra lavoratori e azienda. Non a caso Fulvio Fammoni, l'uomo incaricato di cercare imprenditori interessati a far parte di una «cordata rossa», spiega: «Se le parti non trovano un accordo, noi non possiamo muoverci». Al contrario, se l'accordo verrà trovato, anche Dario Franceschini avrà una preoccupazione in meno. E, di questi tempi, non sarebbe cosa da poco...

Liberazione 13.3.09
Torna lo Stato, però attenti al Leviatano
Tonino Bucci intervista Carlo Galli, storico delle dottrine politiche


Dopo anni di sbornia liberista l'egemonia mercatista mostra le corde. Da almeno un decennio a questa parte eravamo abituati al ritornello della fine della storia. Utopie, ideologie critiche e filosofie dialettiche erano finite nel cassetto, e con esse una certa idea della politica. Di quella politica intesa come la non accettazione del mondo così com'è. Anzi, ci avevano quasi convinto che alla politica spettava soltanto l'amministrazione della realtà esistente. Gli automatismi del mercato avrebbero assicurato che la società funzionasse nel migliore dei modi possibili.
Oggi, in maniera sorprendente, sta cambiando tutto. La crisi economica ha demolito la fede ingenua nel "mercatismo" e ha fatto nascere un grande bisogno di politica. Non si fa altro che parlare del ritorno di moda dello Stato e dell'intervento pubblico in economia. Sarà un cedimento alle suggestioni del New Deal e al rooseveltismo, fatto sta che oggi alla politica si chiede la capacità di rimettere ordine nella società, di governare i processi reali di un mondo inquieto. Lo Stato è tornato, viva lo Stato? Non è affatto scontato. Non è detto che la crisi del liberismo - di per sé un bene - porti dritto dritto al "buon statalismo". Del resto, nello stesso retroterra teorico della sinistra, dalla Questione ebraica di Marx o da Stato e rivoluzione di Lenin in poi, la critica allo Stato moderno è tema frequente, perlomeno la critica alle forme in cui lo Stato esiste realmente nello specifico di questa società. La statualità non è semplicemente l'istituzione o la ripartizione dei poteri. Stato - se si tiene a mente Gramsci - è l'organizzazione di un'egemonia nella società, il dispiegarsi sistematico del dominio e del controllo di una classe sociale sull'altra. Può prendere anche la forma di un totalitarismo soft come insegnavano gli autori della Scuola di Francoforte - Adorno, Horkheimer, Marcuse - rivalutati, entro certi limiti, da Carlo Galli, docente di storia delle dottrine politiche a Bologna, nel suo nuovo libro Contingenza e necessità nella ragione politica moderna (Laterza, pp. 248, euro 20). Sono, quegli autori francofortesi, i rappresentanti dell'ultima grande critica filosofica alla razionalità occidentale, agli effetti di "sistema" e di necessità con la quale questa è capace di istituirsi come dominio totale sulla società, fosse pure nelle forme soft dell'omologazione, della tolleranza liberaldemocratica e del consumismo.
Ma nel puzzle della modernità, fatto certo di tanti percorsi, questo profilo inquietante della politica, intesa come controllo totale, si può rintracciare, con qualche forzatura, nell'autore che dà il nome e l'inizio alla teoria dello Stato moderno. E' con Hobbes che la politica si costituisce come artificio umano, come separazione dalla natura. Al centro della sua opera, Il Leviatano , si staglia l'omonimo leggendario mostro biblico preso da Hobbes a emblema dello Stato e della sua potenza, seducente ed efficace per il suo ordine geometrico, ma al contempo, terrificante nel suo sovrastare l'individuo. Il compito della politica è la salvezza biologica dell'essere umano, la cui vita sarebbe messa a repentaglio in un immaginario stato di natura. immaginario, appunto, perché la natura da cui occorre uscire - quella del conflitto di tutti contro tutti - serve solo da pretesto logico e retorico per giustificare il passaggio all'artificio dello Stato. Ma, in realtà, di autoaffermazione si tratta. Il potere che di colpo trasforma gli esseri umani in cittadini, in corpo politico, è un potere che sbuca fuori dal nulla, un inizio assoluto.

Non rischiamo oggi di trovarci di fronte a un nuovo Leviatano? Quanto può esserci di inquietante nell'aumento di potere che lo Stato detiene di contro all'individuo?
Non ho un pregiudizio antileviatanico. Il Leviatano non è altro che lo Stato nella sua moderna forma rappresentativa. Che non è un dominio politico tra i più sgradevoli, va detto. C'è di peggio. Altra cosa è nel linguaggio comune per il quale il Leviatano viene a significare uno Stato particolarmente invasivo. Se mi si chiede se oggi c'è il rischio di un nuovo Leviatano in questa seconda accezione del termine, direi di sì. Certo, anche preso nel senso più neutro, cioè di Stato rappresentativo, il Leviatano è criticabile. Ad esempio Marx, nella Questione ebraica , critica lo Stato rappresentativo perché è il risultato di un'alienazione, della differenziazione tra borghese e cittadino. Lo Stato moderno è la forma universale dell'uguaglianza che serve a legittimare la disuguaglianza. Però credo che il pensiero di sinistra alla lunga si sia liberato dal pregiudizio antistatale. Da quando Marx scriveva la Questione ebraica , 1844, a oggi c'è stata una lunga riflessione. Il concetto di democrazia pluralistica è diventata un punto d'incontro per tutti coloro che sono critici dell'esistente. In questo mondo non si può fare a meno del potere, è qualcosa di inevitabile. Il nostro compito, semmai, è cercare una forma di potere capace di liberare dal dominio e non di esercitarlo. Uno Stato costituzionale di diritto che aiuti a creare una dimensione pubblica in cui determinate forme di potere non si diano.

Però a volte lo Stato rappresentativo è il contrario della partecipazione politica, spoliticizza la società. Per Hobbes, ad esempio, il potere rappresentativo non nasce dalla somma delle opinioni. E' il contrario, è il potere costituito che rende i cittadini un corpo politico collettivo. Altrimenti ci sarebbero solo individui allo stato di natura. O no?
Certo. Lo Stato nasce da una decisione. Perché ci sia sovrano rappresentativo, nel senso moderno, non è necessario il calcolo delle singole volontà o che esso sia utile. Nasce da un elemento di cesura, per de-cisione, cioè dalle rivoluzioni. Le fratture segnano un inizio e una discontinuità. Le forme della democrazia rappresentativa e costituzionale nascono da un gesto dell'immaginazione politica, soggettivistico e rivoluzionario . Questo tema parla di noi. La nostra Costituzione, ad esempio, non può essere interpretata solo in chiave kelseniana, come una descrizione di assetti di potere. Non si tiene da sola se non si legge dietro di essa un atto, una rottura, un gesto da cui nasce. Solo se si guarda alla genesi si capisce la ragione storica che ne spiega la ragione politica. Insomma ha il segno dell'antifascismo.

Lo Stato è anche la forma organizzata di un dominio sociale. Lei rivaluta la Scuola di Francoforte, l'ultima corrente filosofica che ha indagato l'ambivalenza della razionalità moderna: fattore di emancipazione, da un lato, e di controllo totalizzante, dall'altro. Adorno e Horkheimer hanno il merito di vedere in fenomeni apparentemente scollegati - dall'industria culturale alla tecnica - il dispiegarsi di un'unica razionalità di dominio. Però a forza di insistere sul carattere totale del sistema finiscono per non vedere nessun margine di manovra, nessun soggetto antagonista, nessuna speranza. Non è così?
Ci sono dei limiti intrinseci nella Scuola di Francoforte. Non si può saltare oltre la propria ombra. Gli autori francofortesi operano una metacritica del pensiero che però è tutta interna alla tradizione logocentrica dell'occidente. Un tentativo di pensare oltre il pensiero e oltre la parola ci sarà soltanto nel decostruzionismo e nel pensiero negativo. Ma con effetti in parte deludenti, sia riguardo alle forme del discorso sia su quelle della pratica. Nella prima generazione dei francofortesi invece c'era ancora l'idea che la critica del discorso fosse la critica della realtà. In questo erano veramente hegeliani. Mi sono sempre interessati perché mi paiono l'ultima voce della grande filosofia e della tradizione tedesca. Quando la filosofia pensava ancora che, parlando di filosofia, si parlasse davvero del mondo. Questo portava alla dimensione della totalità, all' empasse , certo, alla teorizzazione del silenzio. Però dentro alla critica alla mediazione e al sistema Adorno pensa anche a un particolare che si dia nell'immediatezza. Ci sono echi del pensiero di Nietzsche, la mediazione che si infrange per lasciare spazio all'esserci. Chi ha un po' d'orecchio ci sente forse anche la voce di Heidegger. Per quanto Adorno lo critichi, lo spartito è quello.

Però Adorno è anche hegeliano. La dialettica per lui è il pensiero che non accetta l'immediatezza del dato. Non si arrende di fronte all'ovvietà di ciò che ci sembra scontato e cerca di smontare la pretesa del mondo così com'è a valere come oggettivo. Questo faceva della filosofia un pensiero critico potente anche nei confronti del dominio politico. O no?
Hegel non ha più grande cittadinanza. Ma questo vale anche per Marx. La società borghese e lo Stato moderno non sono fatti di immediatezze, ma di mediazioni che però si presentano come immediate, ovvie, scontate. Questa mediazione immediata ha da essere mediata, compresa nella sua genesi e nei suoi processi. E quindi criticata. Questo è il pensiero speculativo in Hegel, mentre in Marx assume la forma di pensiero critico-pratico. Significa far vedere la contraddizione. Le contraddizioni determinate qui e ora, contraddizioni di sapere, di potere, di genere e così via. Queste situazioni si presentano come naturali, ovvie, banali, date al buon senso comune. Mentre al pensiero critico si presentano come una possibilità a cui si affiancano altre possibilità. La dialettica è l'apertura della possibilità che il mondo sia diverso da come è, attraverso la contraddizione. La dialettica è quindi una lettura della contingenza, che però produce un effetto di necessità. Hegel e Marx non si accontentano di mostrare la contraddizione nel suo darsi, ma hanno sempre voluto vederci anche un ritmo. Hegel ci ha visto un sistema, Marx una finalità. Per loro non bastava stare nella contraddizione, ma dovevano seguirne la direzione, la proiezione del senso oltre la realtà così com'è. Io sostengo che il pensiero dialettico è da riprendere in mano con l'avvertenza però che non è uno strumento. La dialettica è un pensiero che ha delle coazioni interne e porta da qualche parte. E' una rappresentazione del mondo che ha la pretesa di essere il mondo. Non è come uno strumento esterno, vuole invece portare a espressione ciò che c'è dentro il mondo, il che lo rende molto difficile da adoperare e spiegare. Di sicuro è in competizione antagonistica con gli altri saperi. Le scienze sociali leggono la realtà, mentre il pensiero dialettico è la realtà. Attraverso il pensiero dialettico ne va del mondo, di quello vero, della gente, dei rapporti di produzione e di potere. Non a caso oggi c'è un ritorno d'interesse dei giovani studenti per la dialettica. E' evidente che sono insoddisfatti di un sapere soltanto utile, strumentale che non serve però a smontare la pretesa della realtà a valere come oggettiva. I movimenti giovanili si sono mossi a partire da questa intuizione, "un altro mondo è possibile". E' l'inizio della dialettica. Questo mondo è possibile in un altro modo. Ma è solo l'inizio. A parte poche centinaia di specialisti, oggi la lettura di Marx e di Hegel è impossibile.

Torniamo al potenziale di dominio che c'è nello Stato moderno. In maniera inconsueta lei vede proprio in Machiavelli il critico della ragion di stato che prevarica l'individuo. Machiavelli ha in mente un altro rapporto tra la politica e la vita umana. Quale?
Machiavelli è conflittuale. E' Hobbes che inventa lo Stato, perché inventa anche l'individuo proprietario. Machiavelli non è un individualista, non è il teorico dell'individuo proprietario. Pone la politica non nella difesa della proprietà ma nel riconoscimento conflittuale fra entità collettive. Metteva al centro ciò che in italiano moderno potremmo dire "potenziamento della volontà di vita" attraverso il conflitto reale e materiale, cioè nella più piena contingenza. Il cuore del pensiero machiavelliano non è il mostro freddo dello Stato artificiale alla Hobbes, bensì la repubblica "tumultuaria", la politica come spazio del conflitto di gruppi collettivi per il potere e non immediatamente per l'economia. La materia del contendere è l'ampliamento della capacità esistenziale di volere la vita. Questa è la politica per Machiavelli. Ha delle analogie con Spinoza, non è un accostamento peregrino. La politica per lui è un'intensificazione dell'esser uomini. Il Leviatano, invece, è la neutralizzazione dell'essere uomini. Forse il Leviatano è una maniera più saggia di vedere la politica, più utile dato che con esso parte l'economia politica. Però la grandezza di Machiavelli sta nell'aver immaginato questo potenziamento della vita umana nella collettività.

Corriere della Sera 13.3.09
Cina Il regista di «Addio mia concubina» e la rivoluzione culturale
«Denunciai mio padre a Mao»
di Marco Del Corona


Chen Kaige aveva 14 anni quando Mao lanciò la Rivoluzione culturale. Oggi il regista di Addio mia concubina, Ne ha 56. E un ricordo atroce: «Denunciai mio padre, lo accusai di produrre arte sovversiva», ha detto in un'intervista alla Cnn. Ora vuole girare un film come omaggio postumo.

La storia L'autore di «Addio mia concubina» e la rivoluzione culturale
La confessione del regista cinese «Denunciai mio padre a Mao»
Chen Kaige: sapevo anche allora di fare una cosa sbagliata
L'episodio, contenuto anche in un libro di memorie, verrà raccontato in un film sull'epoca delle Guardie rosse

PECHINO — «Onora il padre e la madre» non era un comandamento del Libretto rosso.
Fra il 1966 e il 1976 in Cina la rivoluzione divorava se stessa e i figli divoravano i padri, il conflitto generazionale tracimava nel conflitto di classe e viceversa. C'era anche Chen Kaige quando Mao Zedong lanciò la Grande Rivoluzione culturale. Oggi ha 56 anni e un ricordo atroce. Ne aveva 14. «Anch'io denunciai mio padre, lo accusai di produrre arte sovversiva». Il regista di Addio mia concubina lo ha raccontato alla Cnn, aggiungendo un tassello al lento processo metabolizzazione che la Cina compie su quel periodo. «Sentivo che stavo facendo qualcosa di sbagliato. Se non l'avessi saputo, allora me lo sarei potuto perdonare ». Invece lo sapeva. E nella sua intervista, Chen non esita a mostrare il rimorso per un gesto che rovesciava tragicamente uno dei precetti cardinali del confucianesimo, la pietà filiale.
L'esercizio della memoria accompagna Chen. L'intervista rivela all'audience globale verità che finora il regista riservava alla penna. Lo fa mentre è tornato personaggio pubblico con il nuovo film dedicato alla vita Mei Lanfang, leggendario attore dell'Opera di Pechino, celebre per il suo patriottismo durante l'occupazione giapponese. Nell'89 Chen aveva pubblicato in Giappone L'epoca in cui ero una Guarda rossa in cui rievocava l'episodio delle accuse al padre. Un memoir che in Cina è uscito soltanto lo scorso gennaio, edito dall'Università del Popolo con un titolo diverso ( Ricordi della mia gioventù).
La scrittura è un filtro clemente e le sue pagine restituiscono più dettagli di quanti Chen abbia confidato alla Cnn. C'è la professoressa che gli dice come il padre non sia iscritto al Partito comunista.
Lui che a casa parla con la madre, e viene a sapere che nel 1939 il papà, allora diciannovenne, si era iscritto al Kuomintang, il Partito nazionalista di Chiang Kai-shek, arcinemico dei comunisti nonostante l'alleanza contro i giapponesi. La scena successiva, nel resoconto scritto, sembra una sceneggiatura. Il padre venne trascinato davanti alla folla per uno dei micidiali processi pubblici cui venivano sottoposti tutti coloro che fossero stati identificati come reazionari, spie, borghesi, controrivoluzionari, nemici del popolo in genere, sedute di autocritica che finivano in un trionfo di violenza. Chen salì sul palco, spinse il padre e lo colpì, «anche se non so dire con quanta forza. Né quali parole pronunciai». In quel momento, all'improvviso «capii che era un uomo che amavo veramente ». Che poi il padre avesse ammesso di essere un agente del Kuomintang, che quella sera a casa non osassero guardarsi in faccia, ora conta poco: «Capii che era davvero mio padre». Su di lui il regista vuole girare un film, quasi una riparazione postuma.
Non si ritrova solo, Chen. L'odio per i padri non trascurò nessuno. In un paradossale contrappasso odiava suo padre Lin Xiaolin, figlia di Lin Biao, estensore del Libretto rosso. Odiava il padre Zhang Hanzhi, donna emancipata e celebre che insegnò inglese a Mao e che fu madre — bizzarrie del destino — dell'ex moglie dello stesso Chen Kaige. Spariti i palchi eretti dalle Guardie rosse per i processi improvvisati e per il gioco crudele a chi fosse più rivoluzionariamente puro, Chen Kaige sa che per l'autocritica oggi la ribalta globale è lo schermo della Cnn. Per guardare indietro va benissimo, quasi come un film.

Corriere della Sera 13.3.09
Lo storico Angelo Del Boca
«Noi e la Libia? Finalmente le parole giuste»
di A. Gar.


ROMA – «Una cosa mi ha soprattutto colpito».
Cosa?
«Che le dichiarazioni sulla Libia, fatte da Berlusconi mercoledì, erano molto precise, tutti i dati al posto giusto».
Angelo Del Boca (nella foto), lei ha scritto più di venti libri sul colonialismo italiano in Africa.
«Sì, e confermo che 130 mila libici furono chiusi in campi di concentramento, che furono usate bombe a gas nelle oasi contro la resistenza di Omar el Mukhtar, che i nostri aerei mitragliavano la popolazione ».
Nessuno l'aveva mai detto prima?
«Berlusconi è il primo uomo di Stato a pronunciare parole tanto dure. Credo che due persone abbiano preparato il terreno».
Chi?
«Paolo Bonaiuti, che lavorò con me al Giorno, era uno dei migliori. E Giuliano Ferrara: sono stato suo ospite a Radio 24, l'ho trovato molto informato su questi temi».
Dietro questo discorso, che Berlusconi ha tenuto davanti a banchieri e imprenditori, ci sono pressioni diplomatiche?
«È possibile che ci siano state richieste da Tripoli. Ma il nostro premier avrebbe dovuto dire quelle cose davanti a Gheddafi, la scorsa settimana. Invece alla firma ufficiale dell'accordo che pone fine al contenzioso fra i due paesi, ha pronunciato frasi più generiche».
Gheddafi potrebbe non essere stato soddisfatto?
«Gheddafi ha sempre affermato che il risarcimento morale veniva prima di quello materiale. Gli italiani hanno ucciso 100 mila libici durante i vent'anni di "campagna di Libia", uno ogni otto abitanti ».
L'accordo prevede che l'Italia finanzierà infrastrutture per 5 miliardi di euro in vent'anni.
«Se Berlusconi, o uno dei premier che lo hanno preceduto, avesse parlato prima con chiarezza, facendo meno promesse, avremmo potuto sborsare meno denaro. Solo Dini nel '98 citò i campi di concentramento e D'Alema nel '99 rese omaggio ai martiri libici».

Corriere della Sera 13.3.09
Antimafia. Una gip da Milano a Palermo: «Colleghi esposti, andare è un dovere morale». L'Anm: «Numeri drammatici»
Nessuno vuol fare il pm in Sicilia: 4 domande per 55 posti
di Giuseppe Guastella


MILANO — Nessuno, o quasi, vuole andare a fare il pubblico ministero in Sicilia. Nella terra dove sono morti ammazzati dalla mafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, il concorso per coprire 55 posti di sostituto vacanti in quattordici Procure è stato un insuccesso totale. Si sono fatti avanti appena quattro magistrati: tre per Palermo, uno per Catania. «Un disastro dalle tante e profonde ragioni», commenta Luca Palamara, presidente dell'Associazione nazionale magistrati. A gennaio il Csm ha bandito un concorso per 205 posti vacanti in 97 diversi uffici, un quarto dei quali è scoperto nella sola Sicilia. I risultati sono stati deludenti per la regione, per il Sud in generale, ma anche per alcune sedi del centro e del Nord.
Le ragioni sono note e, per la Sicilia si aggravano: oltre all'esposizione di chi fa il magistrato lì, distanza e difficoltà nei collegamenti con il resto della nazione scoraggiano i trasferimenti. C'è poi il fatto che coloro che ora fanno i giudici non sono propensi a diventare pm perché in caso di ripensamento non possono tornare sui propri passi se non dopo cinque anni trascorsi in una regione diversa da quella di provenienza professionale e talvolta neppure confinante. Nello sconsigliare i movimenti, giocano un ruolo decisivo anche la carenza di mezzi tecnici e investigativi in molte aree del Sud e la norma che impedisce di lavorare in Procura ai magistrati di prima nomina, un tempo vero bacino in cui le Procure delle Meridione traevano linfa vitale. Molti, infine, restano alla finestra in attesa di capire fino a che punto la politica arriverà nei progetti di separazione delle carriere e di riforma della figura del pm e degli strumenti di indagine.
La conseguenza è che per i 12 posti di Palermo si sono fatti avanti in 23, ma 20 magistrati si sono ritirati all'ultimo momento dopo aver «saggiato» posizione e punteggio personale, mentre a Catania un solo posto su 7 è stato coperto e ritirate ben 11 domande. Per gli altri 12 uffici è stato il vuoto pneumatico. Non è arrivata neppure una domanda, zero.
Secondo dati non ufficiali, resteranno senza titolare 7 posti a Caltanissetta, 6 a Trapani, 4 a Gela e Ragusa, 3 ad Enna, Marsala e Termini Imerese (dove, dopo il trasferimento a Palermo di due pm, rimangono solo il procuratore e un sostituto), due ad Agrigento e Nicosia, e uno a Barcellona Pozzo di Gotto, Sciacca e alla Procura dei minori di Caltanissetta. «Numeri drammatici. Scontiamo gli attacchi al pm e il fatto che in questo momento la sorte di questa figura non è chiara », conferma Palamara che con la giunta dell'Associazione ha partecipato nei giorni scorsi in Sicilia a un'assemblea dei magistrati della regione dopo la quale è stato mandato al Csm un documento con una piattaforma di proposte. Resta che «in zone a forte presenza della criminalità organizzata — denuncia — ci sono Procure che rischiano la chiusura per mancanza di magistrati ». Una «emergenza gravissima » contro la quale rischiano di essere inutili gli incentivi (2.500 euro al mese per 4 anni) previsti nel prossimo concorso per 100 Procure le quali, proprio perché non ambite, ora diventeranno sedi disagiate. Ma per il presidente dell'Anm gli incentivi dovrebbero andare «anche a chi resta lì a lavorare nei sacrifici».
Dei tre nuovi pm palermitani, l'unico ad arrivare da fuori regione è Alessandra Cerreti, che è anche uno dei soli tre giudici in Italia che in questo giro sono diventati pm. Gip a Milano, lunga esperienza in tribunale in processi di criminalità organizzata ed economica e di terrorismo internazionale, prima di trasferirsi a Palermo andrà anche in applicazione per 6 mesi a Reggio Calabria dove la forte carenza di giudici ha causato di recente alcune scarcerazioni. Non è la nostalgia a farla tornare nella sua terra (è messinese), ma, dice, lo «spirito di servizio e una sorta di dovere morale nei confronti di uffici giudiziari particolarmente esposti, in cui i colleghi sono costretti a operare in situazione di difficoltà».

Corriere della Sera 13.3.09
Miti e storia La dea Ishtar, l'eroe Gilgamesh, la torre di Babele: simboli (non sempre autentici) della terra dove fiorì la prima società multiculturale
La vera Semiramide regina femminista cancellata dall'Islam
Sensualità e potere nell'antica Mesopotamia
di Giulio Giorello


«Ishtar, che si delizia con mele e melagrane, ha creato il desiderio», recita una tipica invocazione «per la buona riuscita dell'amore» (per dirla con l'assirologo Jean Bottéro) a quella che è la Grande Dea che unisce gli attributi di Venere e di Marte: «la sua felicità è combattere », ma anche «far danzare le spighe del grano».
L'antica Mesopotamia — situata tra i fiumi Eufrate e Tigri, un territorio che corrisponde all'odierno Iraq e a parte della Siria nord-orientale — vide la nascita dei primi centri urbani, l'accoppiamento di controllo delle acque e di pianificazione agricola, l'invenzione della scrittura e il potenziamento dell'arte del contare e del misurare, cioè di aritmetica e di geometria. La decifrazione dei testi cuneiformi in Europa nell'Ottocento ha fornito una miriade d'informazioni sulle civiltà mesopotamiche, sorte ben più di quattro millenni fa. Il plurale è d'obbligo. I decifratori della scrittura cuneiforme hanno inizialmente chiamato la lingua «assiro », anche se c'erano state una variante dialettale assira e una babilonese, che oggi designiamo insieme come «accadico » — e l'etichetta «assirologia» è stata mantenuta per indicare la disciplina che si occupa della lingua scritta con segni cuneiformi su tavolette d'argilla. Ma le genti accadiche, che il Vecchio Testamento definisce «fiere e spaventevoli come un vento orientale», non furono le sole ad abitare il Paese dei due fiumi.
Nel corso dei millenni a quei «terribili Semiti» (come li chiamava Bottéro) si affianca e talvolta si contrappone il popolo dei Sumeri, forse ancora più antico, cui si deve la creazione della potente Uruk, di cui nel mito fu signore Gilgamesh, l'eroe che dopo tante imprese andò alla ricerca del segreto dell'immortalità — ovviamente senza trovarlo! Proprio nell'Epopea che porta il suo nome ci imbattiamo in una delle più potenti raffigurazioni della funzione del sesso. Nato e cresciuto nella steppa, con belve selvagge come uniche amiche, un tipo dotato di forza bestiale, tale Enkidu, viene ammansito da una prostituta che lo inizia al piacere erotico dopo averlo «sfacciatamente baciato sulla bocca e privato dei suoi indumenti»; la donna, con le sue labbra, «gli ha preso il soffio», ma l'ha reso davvero uomo, capace di vivere in città tra i propri simili. Enkidu diventerà l'alleato più fedele di Gilgamesh, suo sovrano, e il più temibile difensore delle mura di Uruk. Potremmo dire che l'amore al tempo dei Sumeri e degli Accadi ha costituito una passione civilizzatrice, anche e soprattutto nei suoi aspetti più anarchici e apparentemente distruttivi: grazie alle prestazioni di una mercenaria Enkidu ha spezzato le proprie radici, ha lasciato l'originaria «famiglia», fatta degli animali con cui aveva convissuto, e non esiterà a combattere persino contro gli dei.
Gli aspetti di società a un tempo laiche e profondamente religiose, intrise di magia ma anche capaci di impressionanti conquiste scientifiche e tecnologiche, sono ora analizzati nello stimolante volume La Mesopotamia prima dell'Islam (Bruno Mondadori) di Paolo Brusasco, attualmente all'Università di Genova e supervisore di importanti scavi archeologici in Iraq e in Siria. Sostenitore di una «archeologia riflessiva», che mira a ricostruire «le mappe cognitive» che davano significato alla parola scritta come al manufatto, Brusasco insiste sulla valenza sociale della cultura materiale, sulla posizione attiva delle minoranze entro istituzioni complesse e sul ruolo del «femminile» in realtà che abitualmente vengono prospettate come modellate pressoché esclusivamente dalla mano maschile. In particolare, questo tipo di indagine gli permette di apprezzare il ruolo della donna non solo entro la casa, come pilastro della famiglia, ma anche all'esterno, come protagonista dell'economia e della politica. I dati disponibili, scrive, «dimostrano che, sebbene gli uomini fossero in generale privilegiati rispetto alle donne della loro stessa classe sociale, durante l'intero arco della storia della Mesopotamia un gran numero di rappresentanti del sesso femminile aveva accesso alla ricchezza e a responsabilità che conferivano loro una posizione sociale di rilievo. I testi legali indicano dei cambiamenti solo a partire dal I millennio a.C., nel Nord del Paese, allorché venne prescritto il velo e venne esercitata una più stretta sorveglianza per le donne maritate, con atteggiamenti negativi nei confronti dell'erotismo femminile».
Nemmeno questo fermò le figlie di Ishtar. La più celebre di tutte resta quella Shammuramat di origine babilonese che, vedova del re assiro Shamshi-Adad V (823-811 a.C.), assunse il titolo di reggente non solo durante la minore età del figlio Adad-Nirari III, ma anche dopo l'ascesa di costui al trono. L'Occidente la conosce come Semiramide, della quale Dante, nel V Canto dell'Inferno, fa l'emblema della lussuria. Mi piace qui ricordare un bel volume di Giovanni Pettinato, dedicato appunto a Semiramide tra leggenda e storia (Rusconi, Milano 1985, oggi praticamente introvabile: non sarebbe possibile ristamparlo?), da cui emerge la figura di una sovrana capace non solo di garantire con le armi la sicurezza del suo regno, ma anche di portare a termine opere d'ingegneria civile: il tutto finalizzato alla pacifica coesistenza delle genti «di molte favelle» (per dirla proprio con Dante) che componevano ormai il suo impero. Il quale fu, pur tra mille contraddizioni, uno straordinario esperimento multiculturale, in cui la compresenza di lingue e tradizioni differenti era intesa dagli stessi individui che ne erano coinvolti come un fattore di crescita e di libertà. Tutto il contrario, si noti, della «confusione delle lingue» con cui il Signore avrebbe punito i Mesopotamici per aver progettato una torre «la cui sommità toccasse il Cielo » ( Genesi, 11,1-9).
Brusasco ricorda come Sumeri e Accadi valutassero «l'altro» sostanzialmente sulla base dei vantaggi o dei rischi che conseguivano dal suo comportamento, senza alcun discrimine razziale o religioso per il diverso — al contrario di quello che è capitato coi tre grandi monoteismi dell'Occidente: Ebraismo, Cristianesimo e Islam. Opportunamente sottolinea quali siano i debiti che la civiltà islamica ha contratto con le preesistenti culture del Tigri e dell'Eufrate; ma non nasconde le profonde differenze — a cominciare dalla condizione femminile. Troppo spesso, infine, quando si parla delle conseguenze del conflitto in Iraq, si tende a dimenticare che il saccheggio di musei e siti archeologici non solo costituisce un enorme danno per chi oggi abita il Paese dei due fiumi, ma rappresenta uno sfregio a tutti noi, che siamo così lontani e al tempo stesso così vicini agli indomiti «assiri» e alle figlie di Ishtar.

Corriere della Sera 13.3.09
Noir. Esce da Einaudi Stile libero «La forma della paura», thriller scritto con Mimmo Rafele: denuncia poteri occulti, connivenze e propaganda distorta
Bombe e bugie, la crociata di Stato
Giancarlo De Cataldo immagina delitti e attentati di una «jihad anti-musulmana»
di Ranieri Polese


«Siamo inquieti seminatori di inquietudine»: parla di sé e degli altri scrittori italiani di noir Giancarlo De Cataldo, che torna in libreria con un nuovo romanzo molto criminale:
La forma della paura (Einaudi Stile libero). È un libro scritto a quattro mani con Mimmo Rafele, sceneggiatore di lungo corso — nonché regista in proprio — con cui il magistrato scrittore ha lavorato per il Borsellino tv. Inquietudine è una parola usata in questi giorni dal decano del noir, Loriano Macchiavelli, intervistato da Repubblica: «Il romanzo giallo — ha detto — deve dare fastidio. Dev'essere sovvertitore e inquietante ». Ma aggiunge che ormai «la società si è vaccinata dal suo virus d'inquietudine (…) e in queste condizioni anche il giallo più "sovversivo" diventa consenziente».
Con La forma della paura non si corre il rischio di leggere un libro consenziente, o di evasione, e anche se vi si impiegano ritmo e stratagemmi del thriller d'azione, il quadro che ne risulta è molto, troppo verosimile. Le peggiori ipotesi di trame occulte, di doppi, tripli livelli, di servizi deviati, sono qui la materia di un racconto che vede al centro di tutti gli intrighi un uomo senza nome, il Comandante. Già ufficiale nei servizi, al tempo della guerra nella ex Jugoslavia è divenuto un mercenario che ora, tornato in Italia, si comporta come lo stratega di una guerra sporca usando i suoi infiltrati nella polizia. Convinto assertore dello scontro di civiltà, paladino dell'Occidente contro la minaccia islamista, il Comandante è disposto a tutto pur di provocare l'occasione giusta per l'attacco frontale.
Come per esempio inventarsi un piano iraniano per far saltare in aria un centro commerciale a Roma: ha preparato uno pseudokamikaze imbottito di esplosivi, e già ha pensato a uno dei suoi uomini da sacrificare nel tentativo di sventare l'attentato. Con lui lavora un poliziotto, Mastino, capo dell'antiterrorismo. Ma c'è un altro poliziotto, un alto funzionario, Nicola Lupo, che vuole impedire questa operazione.
«Io e Rafele eravamo ben consapevoli di fare fiction, ma sapevamo anche di costruire scenari assolutamente vicini a cose realmente accadute. Come non ricordare, per esempio, la vicenda dei dossier sull'uranio del Niger: dovevano convincere i Paesi occidentali a proclamare la guerra contro Saddam Hussein che — si diceva — stava preparando un ordigno nucleare. La Francia e altri smascherarono subito quei dossier fabbricati in Italia. Ciò nonostante, la guerra in Iraq c'è stata, eccome».
L'idea prima del romanzo, ricorda De Cataldo, è nata da una discussione con Rafele sulla pratica delle infiltrazioni. Recentemente l'ex presidente Cossiga, durante le manifestazioni studentesche, consigliava al ministro degli Interni di infiltrare agenti dentro al movimento. Così, diceva, agiva lui quando era al suo posto. «Non c'era bisogno di queste confessioni di Cossiga — risponde De Cataldo —. Di infiltrati è piena la storia recente italiana. Scorrendo gli atti dei processi di Piazza Fontana, per esempio, si vede che la metà dei membri del circolo anarchico "22 marzo" erano infiltrati. Oppure: all'interno del gruppo che preparava il golpe Borghese c'era un alto ufficiale dei carabinieri, nome in code "capitano Palinuro". E via elencando».
Ma l'ipotesi di un uomo dei servizi che diventa mercenario come il vostro Comandante, quanto è plausibile? «È una realtà accertata dai tribunali internazionali. Solo che oggi non si chiamano più mercenari, ma contractor. Così come si parla di bombe intelligenti, o di regole d'ingaggio. Però, non sono solo cambiate le dizioni ufficiali, è la sostanza stessa che è mutata. Oggi la verità è che i servizi segreti, gli uomini impegnati in questa guerra occulta, non lavorano più per gli Stati, per il Cremlino o per il Pentagono, ma per il mercato, per un potere economico che vuole la supremazia costi quel che costi».
Questo è il nuovo scenario del dopo Muro. «Sì, e il primo ad accorgersene è stato John Le Carré: romanzi come Il direttore di notte o Il giardiniere tenace
mostrano la nuova realtà, dove è il
corporate asset a gestire la guerra sporca, e la posta in gioco è il profitto allo stato puro. Sempre Le Carré ha visto che ormai il sistema vigente in queste cose è il franchising, ovvero ci si affida a esecutori sul posto, la guerra si combatte per interposta persona. Il punto che resta fermo è che i promotori di queste operazioni ritengono che la democrazia sia un intralcio. Anche qui, nulla di fantasioso, di romanzesco: la pubblicazione dei verbali segreti di conversazioni tra Bush e Cheney dopo l'11 settembre ha rivelato che c'era in programma di sospendere la democrazia in America. Cosa che nemmeno dopo Pearl Harbor si era arrivati a pensare ».
Nel romanzo, la sporca guerra che si combatte a Roma ai giorni nostri— siamo all'indomani delle elezioni americane, della vittoria del candidato «abbronzato » — prevede molti scontri e molti cadaveri. Si comincia con l'eliminazione di una banda di croati (il Comandante vuole sbarazzarsi di quanti conoscono il suo passato); si prosegue con l'uccisione di un commissario scomodo, il cui presunto assassino è un giovane no-global filopalestinese (è una perfetta replica della triangolazione messa in atto con l'uccisione di Kennedy a Dallas); si arriva al falso attentato iraniano. Sempre e comunque la propaganda fornisce un'interpretazione menzognera dei fatti. Ma peggio ancora, in questa sequela di battaglie, ad affrontarsi sono forze dello Stato, servizi che prendono la loro legittimazione dallo stesso principio (la difesa dello Stato) ma poi operano e agiscono l'uno contro l'altro. Il «doppio Stato», insomma, in azione. Tanto da far presupporre che, alla fine, non ci sarà una vera resa di conti, chi manovra le forze eversive non sarà eliminato: la salvaguardia dello Stato non lo consentirebbe.
«Io e Rafele — spiega De Cataldo— ci siamo presi tutta la libertà che concede lo scrivere un romanzo. Un po' come fanno gli scrittori americani. In Italia nessun processo, nessun tribunale dai tempi di Portella della Ginestra è mai riuscito a provare le trame, a condannare i colpevoli. Ci sono stati processi su tutte le tante stragi che hanno segnato la nostra storia recente, ma la ricerca della verità è sempre stata impedita: prove inquinate, informazioni negate, testimoni fatti sparire. Piazza Fontana è una strage senza colpevoli. E invece, senza l'onere della prova, la fiction può ricostruire lo scenario, collegare i fatti, creare un quadro generale che aiuti a riflettere, a capire». Magari a inquietare.

Dazebao 12.3.09
Prc. Gli scissionisti se ne vanno, ma non rinunciano allo stipendio
di Alessandro Cardulli


Un ‘intervista per parlare male di Rifondazione non si nega a nessuno di quelli che si sono separati dal Prc, capofila Nichi Vendola, con la benedizione, ma con qualche distinguo, di Fausto Bertinotti. Oppure di altri che, magari, si stanno avvicinando all’Idv di Di Pietro.

E’ tipico dell’informazione italiana, leggi in particolare i giornali della destra ma anche, direbbe Veltroni, qualche testata vicina ai riformisti, ignorare tutto ciò che si muove nel campo della sinistra antagonista. Ci sono iniziative, proposte per affrontare la crisi, confronti, dibattiti, si sta costruendo un’alleanza, un “polo” come qualcuno lo chiama, della sinistra dispersa in tanti rivoli. Niente, se ne offre un’immagine caricaturale, quella dei comunisti grigi e tetri che si rimettono insieme, per raccogliere i cocci e cercare di superare lo sbarramento infame, quel quattro per cento che proprio l’ex segretario del Pd aveva voluto in accordo con Berlusconi e che ora tanti proprio nel Pd, se potessero, tornerebbero indietro. Basterebbe leggere, c on un po’ di onestà intellettuale, i documenti che circolano, oppure, questo è l’abc del giornalista, informarsi direttamente alla fonte, sulla discussione in corso, che non riguarda i partiti della sinistra radicale ma movimenti e associazioni che cercano un possibile punto di incontro, per tornare a palare a quel “popolo”, qualche milione di donne e uomini, che alle elezioni politiche si è chiamato fuori. E non crediamo sia un segno di vetero comunismo il fatto che, nella costruzione di una alleanza, si faccia riferimento al valore dell’appartenenza ad una organizzazione europea, il Gue, e non ad un variamente colorato minestrone privo di identità europea. Ci riferiamo alla lista che intende presentare Sinistra democratica di Fava, insieme ai vendoliani fuoriusciti dal Prc, i Verdi, i socialisti di Nencini, già di Boselli, che si aggirano fra il partito del socialismo europeo, i verdi europei e lo stesso Gue. Ma tutto questo, non interessa ai media. Stanno scoprendo, invece, personaggi che quando militavano in Rifondazione, non avevano l’onore neppure di una comparsata televisiva. Ora invece trovano spazio nei ‘giornaloni’, compaiono nei programmi tv. Vengono presentati come “nuovi martiri “dello stalinismo.

Ora, non è certamente compito di un giornale intervenire nelle vicende personali di singoli, nel rapporto fra un partito e suoi “dipendenti”, in particolare quando si tratta di posto di lavoro. Ma la vicenda che occupa pagine di giornali riguarda l’etica della politica, in un quadro di quella che Enrico Berlinguer, chiamò “questione morale”. Il problema che sta emergendo è semplice nella sua esposizione: il Prc ha subìto una scissione, alcuni dirigenti se ne sono andati, entrando a far parte di altre organizzazione politiche. Dirigenti che erano, al tempo stesso, funzionari a libro paga del partito. La domanda è: può una persona continuare a ricevere lo stipendio da un partito cui non appartiene più, militando, anzi, proprio in altre formazioni per di più concorrenziali? E così capita che al mattino si passa alla cassa a ritirare lo stipendio e il pomeriggio viene rilasciata un’ intervista dove, chi ti ha dato lo stipendio, viene definito come un “teppista”. La risposta dovrebbe essere semplice: un no secco. Si pone perciò una duplice questione. Vi è oggi chi ritiene la politica come un impiego, un lavoro come un altro, un modo per entrare a far parte del mondo delle istituzioni dove, è possibile poi vagare da un partito ad un altro. Hai preso i voti del Prc? Essendo un “impiegato” puoi tranquillamente cambiare ditta. Etica della politica appunto. La seconda questione riguarda l’informazione. È mai possibile che al giornalista che intervista uno dei “nuovi martiri” non venga in mente che nessuno è obbligato a scegliere un partito come posto di lavoro e che, se lo sceglie, al momento in cui con questo “posto di lavoro” non ha più niente in comune, ci si dovrebbe dimettere? E’ solo questione di etica dell’informazione.