domenica 15 marzo 2009

Repubblica 15.3.09
Le donne condannate ad abortire nel dolore
risponde Corrado Augias


Caro Augias, ho letto giorni fa la lettera della signora costretta ad abortire in un corridoio di ospedale. Anche a me è successo qualcosa di simile. Ero quasi al quarto mese e avevo «perso le acque», senza più speranze di portare a termine la gravidanza. Mi hanno ricoverata al Fatebenefratelli di Milano; non dimenticherò mai quell'esperienza! Mi hanno messa in uno «sgabuzzino» con la flebo che avrebbe dovuto provocare la dilatazione, poiché avrei dovuto partorire «naturalmente» (vietato l'aborto). Per 24 ore ho avuto dolori atroci e, ogni 3/4 ore, arrivava un medico (sempre diverso) che, senza nemmeno guardarmi, mi infilava una mano per controllare la dilatazione (ha presente le mucche?). Alla fine, esausta, mi hanno portato in sala parto e mi dicevano di spingere, non avevo più energie ma sono riuscita a espellere il feto. Poi mi hanno «sistemata» in una stanza vicino ad una madre che allattava e per finire in bellezza è arrivata un'infermiera a chiedermi come lo avrei chiamato. Per qualche secondo ho pensato che fosse vivo, ma no, mi diceva che doveva essere registrato in Comune.
Lettera firmata

Dopo la lettera pubblicata qualche giorno fa con la penosa esperienza di una signora lasciata ai suoi dolori perché in un ospedale romano non c'era nemmeno un medico non obiettore, sono arrivate molte altre lettere. Quella di oggi è un esempio. Roma e Milano unite nella vergogna di un paese che non sa tutelare la salute e le scelte secondo legge delle sue cittadine. Salvo infiocchettarsi di mimose ad ogni 8 marzo. Mi ha scritto il signor Roberto Martina (robertomartina@yahoo. it): «La cosa che mi stupisce sempre è che le vittime dell'accanimento degli obiettori siano sempre esclusivamente le donne. Non ho mai letto sui giornali storie di uomini che non hanno ricevuto adeguata assistenza perché il medico era obiettore. Allora penso che la faccenda della carriera (con gli aborti non si fa carriera, dunque si obietta) sia una comoda scusa accampata per nascondere una vecchia cultura, molto poco medica, che vuole che la donna debba pagare un prezzo sempre più alto per realizzare la propria identità e la propria libertà. E il fantasma della discriminazione sessuale per cui le donne hanno sempre un peccato da scontare, dai tempi di Adamo, e qualcuno, depositario di una moralità divinamente migliore di altre, si erge a giudice ed esecutore di una pena, il dolore, orribile e incivile, che soprattutto non ha niente a che vedere con la professione del medico». Infatti succede solo qui, evidentemente il senso compiuto della cittadinanza in uno Stato moderno stenta ad affermarsi a sud delle Alpi.

l’Unità 15.3.09
Il Pdl minaccia papà Englaro: «Firenze non ti vuole, rinuncia»
di Maria Zegarelli


La destra pretende la revoca della delibera sulla cittadinanza onoraria al papà di Eluana
Il presidente del Consiglio comunale scrive a monsignor Betori: le istituzioni sono laiche

Fitta corrispondenza a Firenze in questi giorni sul caso della cittadinanza onoraria votata dal Consiglio comunale per Beppino Englaro, il papà di Eluana, morta dopo diciassette anni di stato vegetativo lo scorso 9 febbraio. La prima lettera è partita dal presidente del Consiglio Comunale, Eros Cruccoli, diretta all’Arcivescovado. La seconda dall’ufficio della capogruppo Fi-Pdl, Bianca Maria Giocoli, all’indirizzo di Englaro. Una per ribadire la laicità delle istituzioni e l’autonomia della politica dalla Chiesa, L’altra per ribadire l’arroganza di certa politica.
LA LAICITÀ
Scrive il presidente del Consiglio all’arcivescovo Giuseppe Betori: «Il consiglio è sovrano e in piena libertà i suoi membri hanno deciso. Ciascuno ha il diritto di giudicare tale scelta e di considerarla inopportuna e di non condividerla, ma è una scelta fatta dai rappresentanti eletti dalla città a maggioranza e quindi è una scelta che deve essere rispettata in quanto risultato di un chiaro percorso istituzionale, che ribadisce il valore della laicità delle Istituzioni». Così come la decisione di riconoscere la cittadinanza a Englaro aveva spaccato il centrosinistra e trovato l’opposizione del Pdl, anche la discussione sull’invio o meno della lettera al prelato durante la riunione dei capigruppo ha trovato il niet di An e Fi. Ma la replica all’Arcivescovo era stata chiesta da parecchi membri del consiglio comunale dopo aver letto il comunicato di Betori, «che in modo molto netto descriveva la nostra assemblea luogo disordinato in cui una maggioranza sfilacciata commetteva errori imperdonabili. È importante ribadire quanto sia fondamentale nella vita democratica il confronto delle idee, ma nel rispetto dei ruoli e delle reciproche autonomie; quindi, l’espressione sovrana del Consiglio e delle sue decisioni, ancorché prese a maggioranza, non possono che essere considerate come l’espressione della volontà della città. Si può essere d’accordo con esse, ma mai possono essere considerate negative».
STRUMENTALIZZAZIONI
La pidiellina Giocoli, invece, invita Englaro a non accettare la cittadinanza onoraria e annuncia che il centrodestra presenterà a breve una delibera per chiederne la revoca. «Gli chiediamo di ripensarci anche a nome di sua figlia - c’è scritto nella lettera - se è sincero, deve essere lui a dire che non accetta un’onorificenza che non è sentita da tutta la città. Se non si vuole strumentalizzare il nome di Eluana e credo che un padre non lo voglia, lui è l’unico che può dire la parola fine». La delibera è pronta e domani o dopodomani verrà discussa. «Vogliamo vedere come voteranno i consiglieri che l’altra volta hanno votato contro», dice la capogruppo. Anche il senatore Paolo Amato invita Englaro a non farsi strumentalizzare. «Quando si è discusso di dare il Fiorino d’oro a Oriana Fallaci, esponenti del centrosinistra hanno detto “No perché divide”. Allora si discuteva di un riconoscimento a una fiorentina; qui si parla di cittadinanza onoraria ad un signore friulano. Se divideva la Fallaci, a maggior ragione divide Englaro». Al coro si aggiunge la senatrice leghista Rossana Boldi: «Non si capisce quali meriti abbia acquisito Beppino Englaro con parole od opere per avere la cittadinanza onoraria di Firenze o di qualunque altra città italiana».
«Questa è una vicenda che i fiorentini devono risolversi tra di loro - risponde a tutti l’avvocato di Beppino Englaro, Vittorio Angiolini -. Il signor Englaro non ha chiesto nulla, è un cittadino come tutti gli altri, con gli stessi diritti e quindi può avere anche riconoscimenti pubblici.
Per quale motivo dovrebbe tirarsi indietro?». Beppino Englaro preferisce il silenzio.

l’Unità 15.3.09
Al padre di Eluana la tessera dei socialisti «Ma non sarà candidato»
Smentita la notizia secondo cui sarebbe stato testimonial di «Sinistra e libertà»
di M. Ze.


Il Ps di Nencini darà la tessera onoraria a Beppino Englaro per il suo impegno per i diritti civili. La cerimonia il 24 marzo a Lecco. Smentita la notizia secondo cui sarebbe stato testimonial di «Sinistra e libertà».

Beppino Englaro, dopo la cittadinanza onoraria a Firenze, avrà la tessera onoraria del Partito socialista che gli verrà consegnata durante una cerimonia il 24 marzo a Lecco nella sede della federazione locale. La sua adesione al partito era stata comunicata ai membri della Direzione Ps del 5 febbraio scorso da Marco Di Lello. «Beppino è sempre stato vicino ai socialisti, ha sempre apprezzato le nostre battaglie per i diritti civili e gli è sembrato naturale darci la sua adesione», spiega Stefano Romita, capo ufficio stampa del partito. Englaro ha confermato: «Tutto è stato concordato e fatto alla luce del sole. Ho sempre detto che sono socialista e non vedo cosa ci sia di male». Una precisazione arrivata per smentire la notizia apparsa ieri su un quotidiano nella quale il papà di Englaro sarebbe stato «testimonial» di «Sinistra e libertà», il cartello elettorale nato in occasione delle elezioni Europee tra Movimento per la Sinistra, Sinistra democratica, Verdi, Ps e Unire la Sinistra. Nell’articolo si annunciava la presenza di Englaro all’iniziativa elettorale del 21 marzo in piazza Farnese a Roma. Ieri pomeriggio dai vendoliani arrivava anche la notizia di una presunta lettera di Englaro che sarebbe stata letta nel corso della conferenza stampa in programma questa mattina presso la Sala Cristallo dell’Hotel Nazionale. «Il signor Englaro non sa nulla di tutto ciò. Non ha mai dato la sua disponibilità a fare il testimonial di alcuna iniziativa» - ha fatto sapere l’avvocato Vittorio Angiolini.
Anche Romita ha subito fatto sapere che i socialisti non hanno mai parlato di una adesione di Englaro al cartello elettorale. «Non sappiamo chi sia stato a divulgare la notizia, probabilmente alla base di tutto c’è un fraintendimento: Beppino aderisce al Ps e basta». Non ci sarebbe alcuna intenzione di candidarsi alle europee, inoltre, perché «il suo impegno è tutto per la Fondazione in memoria di Eluana» e per la sua battaglia per i diritti civili. Da qui l’iniziativa del Ps - e di Nencini - per fargli ottenere la cittadinanza onoraria di Firenze. «Riteniamo che l'impegno civile di Beppino Englaro in un Paese poco abituato all'impegno laico sia straordinario - ha spiegato Davide De Bella, segretario milanese del Ps - È un esempio. Sapere che questo impegno è stato supportato dalla sua adesione alla storia del socialismo italiano ci ha rafforzato nella decisione di offrirgli la tessera onoraria del partito».

l’Unità 15.3.09
Banca del Dna e diritto alla privacy
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi


Il concetto di "privacy" è sempre più frequentemente soggetto ad aggiornamenti e revisioni. Perché sempre nuovi e più potenti sono gli strumenti tecnici e scientifici attraverso cui, istituzioni e soggetti privati, sono in grado di acquisire informazioni sensibili sul conto delle persone; o attraverso cui quelle stesse informazioni possono essere rubate o detenute in forme illecite. La frontiera più avanzata della classificazione di dati personali è, per molti aspetti, quella della schedatura del Dna. I profili genetici sono, tra quelli "personali", i più delicati e meritevoli di tutela: possono essere raccolti con grande facilità (basta un capello, un po' di saliva, un frammento di pelle, una goccia di sangue); forniscono informazioni su tutti gli appartenenti al gruppo biologico della persona alla quale si riferiscono; contribuiscono a definire quale potrà essere l'evoluzione della sua vita.
Un disegno di legge già presentato dal governo Prodi e ripreso, e peggiorato, dal governo Berlusconi, attualmente alla Camera per l'approvazione definitiva, sta per introdurre il prelievo coatto della saliva, dei capelli o dei peli: non soltanto per l'arrestato, l'imputato o l'indagato di un crimine, ma per qualunque persona, pur se non sospettata, per la quale il giudice ritenga indispensabile procedere all'accertamento.
Si tratta di una norma che non ha eguali in tutti gli altri paesi già dotati di una banca dati del Dna, dove il prelievo di materiale organico - per chi non sia sospettato di un crimine - avviene solo previo consenso o addirittura solo spontaneamente. Il disegno di legge in questione è poi costellato di bizzarrie e di fallacie giuridiche, sempre lesive della privacy. Una volta finiti nella banca dati, i profili potrebbero essere cancellati d'ufficio soltanto in seguito ad assoluzione: dimenticando però alcune circostanze (quella per cui "il fatto non costituisce reato" o quella di non luogo a procedere). Il risultato è che per alcuni assolti le informazioni genetiche potrebbero rimanere comunque archiviate; ugualmente dicasi per le vittime di alcuni reati - ad esempio di quelli sessuali - il cui profilo viene comunque elaborato d'ufficio.
Le incongruenze non finiscono qui: ve ne sono altre - molte - legate ad esempio ai diritti di accesso della difesa alle informazioni custodite nella banca, o ai soggetti che la gestiranno. Rimane, più in generale, un problema di equilibrio tra le ragioni della "sicurezza" - qui coincidenti con le istanze di "controllo" - e il diritto alla riservatezza, alla privacy, all'inviolabilità della propria sfera privata. Che la normativa in discussione sembra ignorare grossolanamente.
Scrivere a: info@innocentievasioni.net

l’Unità 15.3.09
Vedova dello scrittore argentino Jorge Luis Borges
Conversando con Maria Kodama
«Mio marito Jorges Luis Borges non voleva che la sua agonia fosse trasformata in spettacolo»
intervista di Laura Lucchini


BERLINO. Da quando aveva 16 anni, María Kodama (Buenos Aires 1945) è stata prima l’allieva, poi la segretaria e infine la sposa e la musa di Jorge Luis Borges. Ha viaggiato con lui per il mondo raccontando i luoghi che lo scrittore non poteva vedere, leggendo i libri che lui non poteva più leggere e scrivendo le parole che lui di notte sognava. Borges aveva perso la vista e lei era diventata i suoi occhi. Dice che per lei Borges è stato quello che Ettore fu per Andromaca, o anche semplicemente «la mia metà». Da 22 anni, questa donna minuta e distante è la memoria vivente dello scrittore argentino e gira il mondo con la missione di diffondere la sua opera. Lo fa con devozione religiosa.
María Kodama si trovava questa settimana a Berlino per presentare all’Istituto Cervantes la mostra El Atlas de Borges (L’Atlante di Borges), un percorso fotografico dei viaggi e degli incontri che insieme fecero in tutto il mondo. Kodama conobbe la malvagità dopo essersi sposata, quando la stampa argentina iniziò a scavare nell’intimo della coppia, scandalizzata per un matrimonio che considerava inopportuno (Borges era molto più vecchio di lei), mentre lei assisteva a Ginevra le ultime settimane dell’autore dell’Aleph. Ora è la proprietaria universale dei diritti d’autore dell’immensa opera dello scrittore e la sua gestione di questo inestimabile patrimonio culturale è stata spesso criticata da persone che furono vicine al maestro. Senz’altro però, la polemica più dolorosa è stato il recente tentativo del governo argentino, di portare le spoglie di Borges al cimitero de la Recoleta a Buenos Aires. Una lobby porteña (di Buenos Aires) insiste che quella di morire a Ginevra non era la volontà dello scrittore.
Kodama perde la pazienza e il suo modo di parlare composto quando si sfiora l’argomento. Le ragioni per cui suo marito scelse di riposare a Ginevra sono chiare: «Alcuni anni prima, l’eterno candidato a presidente in Argentina, Ricardo Balbín, era morto a Buenos Aires e le sue immagini nel letto d’ospedale, intubato, durante la terapia intensiva, erano state date in pasto alla stampa. Lui mi disse che temeva che la sua agonia fosse trasformata in uno spettacolo», spiega, con parole che le è toccato ripetere innumerevoli volte. E a confermarlo ci sono anche le dichiarazioni di un giornalista svizzero a cui Borges chiese di verificare la possibilità di avere la cittadinanza di questo paese. «È possibile che dopo 22 anni una persona venga ancora torturata con questa storia?», si chiede. Poche settimane fa il Governo di Buenos Aires ha accantonato l’assurdo progetto di legge che avrebbe consentito il trasferimento, ma non è detto che qualcuno non lo resusciti in futuro.
Ginevra però fu solo l’ultima tappa dei numerosissimi viaggi che compongono l’Atlante, «furono esperienze meravigliose, che ci aprirono una serie di possibilità di immaginazione enormi, e continue scoperte», ricorda.
Con Borges non c’era routine. «Per giorni interi ci dedicavamo solo al viaggio. Altri giorni aveva delle idee per delle storie, che in genere gli apparivano in sogno e iniziava a dettarmele. Magari dettava un paragrafo, poi il giorno dopo, di sera, mi chiedeva di rileggerlo e cambiava alcune cose», spiega. Di una storia aveva sempre in testa l’inizio e la fine e diceva che era una condizione indispensabile per poter scrivere, poi aggiungeva dettagli.
In ogni posto Kodama raccontava i dettagli del paesaggio, scattava foto o chiedeva ai passanti che ne scattassero. Il suo racconto era poi arricchito da quello dello scrittore, che aggiungeva i ricordi, gli aneddoti e le storie straordinarie di quello che aveva gia vissuto negli stessi posti in viaggi precedenti. Non viveva la cecità come un problema. Ogni giorno era per lui una scoperta e il destino regalava sempre sorprese.
Come una sera nella hall di un hotel in Spagna, quando Mick Jagger si buttò in ginocchio ai piedi di Borges dicendo «maestro, che onore! Ho letto tutti i suoi libri». «Mi dica, chi è lei?», rispose lo scrittore. «Mick Jagger». Borges era stato introdotto alla musica degli Stones dalla sua compagna. Successivamente, sarebbe anche apparso in una immagine nel film Performance. «Quello dei Rolling Stones!», riconobbe, con grande sorpresa di Jagger. Kodama racconta tutt’ora divertita questo scambio di battute.
O come un pomeriggio al Prado quando Kodama e Borges si erano fermati di fronte al capolavoro di Goya “Il cane” e lei riconobbe a distanza un uomo molto alto: era Julio Cortázar. «Non posso dimenticare quest’immagine. Uno dei miei quadri preferiti e di fronte Borges e Cortázar che si danno la mano e si scambiano complimenti». I due scrittori argentini non erano amici, appena si conoscevano, però Borges era stato il primo a pubblicare il racconto Casa Tomada, di Cortázar, quando era direttore della Biblioteca Nacional, negli anni ’50.
In una foto Borges appare con una maschera da lupo. Si trovava in un’università negli Stati Uniti per una conferenza. «Ci venne a chiamare il rettore in stanza vestito da Batman», ricorda Kodama, «era Halloween e disse che c’era una festa, però avremmo potuto partecipare solo travestiti. Decidemmo alla fine di comprare delle maschere. Borges scelse quella del lupo. Alla festa, si divertì a terrorizzare gli studenti gridando ‘homo homini lupus’».
Dell’Italia Borges amava Venezia, più di ogni altra cosa. «Perché è un labirinto, per l’acqua e per il mistero». A Roma, poco prima della morte, incontrarono Pertini e Borges parlò a lungo in un’intervista alla Rai. Ma il ricordo più affettuoso va all’editore italiano Franco Maria Ricci, «tra tutti gli editori lui era un amico, sempre cercava di sorprenderlo e divertirlo», ricorda. In particolare, per l’ottantesimo compleanno di Borges, Ricci gli organizzò un ricevimento nella sala di lettura della New York Public Library, «aveva trasformato tutta questa sala meravigliosa in un salone da pranzo del diciottesimo secolo. Aveva portato i cuochi da Parma perché preparassero i tipi di pasta che a Borges piacevano tanto», ricorda Kodama.
Ora che Borges riposa nel cimitero di Plainpalais accanto a Giovanni Calvino, María Kodama legge e rilegge la sua opera. Sceglie i testi a seconda delle conferenze che sta preparando. Viaggia continuamente. Dice che a volte crede che la sua casa sia un aereo intercontinentale. I testi che le stanno più a cuore sono la poesia La Luna che Borges scrisse per lei, e il breve racconto Ulrica, che, dice, le fu segretamente dedicato.
Che il mondo lo capisca o no, la realtà è che da quando aveva 16 anni, María Kodama ha vissuto per lo scrittore. Ora che lui è morto, il suo destino e la sua missione è quella di tenerlo in vita, ritornando continuamente alla sua opera. Dice che questo la fa sentire bene. «Più che una missione è l’amore, è un piacere, è una presenza continua», spiega, «è la mia decisione, quella che tornerei a prendere, anche sapendo tutto quello che mi aspetta. È la certezza assoluta. Come lui sentiva che scrivere era il suo destino, chissà, il mio forse sia questo. Forse è come in quelle leggende primitive e lui è veramente la mia metà. Nessuno può distruggere questo. È qualcosa che si sente dentro, ed è molto forte».

Famoso per i racconti fantastici, morì nel 1986 a Ginevra
Jorge Francisco Isidoro Luis Borges Acevedo (Buenos Aires, 24 agosto 1899 – Ginevra, 14 giugno 1986) è stato uno dei più importanti e influenti scrittori del XX secolo. Narratore, poeta e saggista, è famoso per i suoi racconti fantastici . Nel 1975 morì sua madre, a novantanove anni. A partire da questo momento Borges effettuò i suoi viaggi insieme a María Kodama, una sua ex-alunna, divenuta sua segretaria e infine, a poche settimane dalla morte, sua seconda moglie, sposata per procura in Uruguay. Nel 1982 condannò l'invasione argentina delle Isole Malvinas. Morì il 14 giugno 1986 nella città di Ginevra, in seguito a un cancro al fegato. Come da lui disposto, i suoi resti riposano al cimitero di Plainpalais (nella parte sud di Ginevra) sotto una lapide grezza di color bianco. Sulla parte superiore si legge semplicemente «Jorge Luis Borges»; più in basso è scritta in inglese antico la frase «And ne forhtedon na» Giammai con timore.

Repubblica 15.3.09
Infanzie interrotte all’altare l’esercito delle spose bambine
In Italia migliaia di piccole straniere costrette a fare le mogli
di Vladimiro Polchi


E nei campi Rom arrivano alcune minorenni "comprate" per i matrimoni

ROMA - Sidra conosce appena quell´uomo, lo trova gentile. L´amico di papà è sempre pieno d´attenzioni e regalini. Sidra ignora le vere intenzioni del padre: lei tredicenne è stata promessa sposa a quell´uomo di 44 anni. Sidra è pakistana e abita in una piccola città del Veneto. Va a scuola, vive "all´italiana" e non vuole piegarsi all´autorità paterna. Il suo destino di "sposa bambina" è però segnato. Poi, un giorno, Sidra sparisce. Che fine ha fatto? Nessuno lo sa. Forse è stata rapita o magari è fuggita, lontana dal padre e da quell´uomo che non voleva sposare.
Pochi giorni fa ha fatto notizia l´arresto di undici cittadini bulgari. L´accusa? Farebbero parte di un´organizzazione criminale, che porta in Italia ragazze minorenni per venderle come spose a clan di nomadi e poi impiegate in furti e borseggi. Le minori "costano" 10 mila euro, ma sono consegnate dalle loro famiglie ai membri dell´organizzazione, in cambio di appena mille euro e la promessa di un matrimonio.
Quella delle "spose bambine" è una vita da diverse: non possono giocare, uscire con i coetanei, studiare. Sono ragazzine predestinate. Un´infanzia rubata: le attende un matrimonio combinato dalla famiglia. Sono tante nel mondo: circa 60 milioni, secondo l´International center for research on women. Dove vivono? In Niger innanzitutto e poi in Ciad, Bangladesh, Mali, Guinea, Nepal, Mozambico, Uganda, India ed Etiopia. E in Italia? Secondo gli esperti, sarebbero qualche migliaio.
Da noi, il fenomeno ha un lato oscuro e illegale e un altro alla luce del sole. In base all´articolo 84 del codice civile, infatti, in Italia i minori non si possono sposare, ma c´è una deroga: il sedicenne può essere autorizzato dal tribunale per i minorenni a contrarre matrimonio per gravi motivi. Secondo il Centro nazionale di documentazione per l´infanzia, il numero di spose minorenni si è fortemente ridotto negli anni, passando dalle 1.562 del 1993 alle 209 del 2006; in termini relativi si ha poco più di una sposa minorenne ogni mille matrimoni. All´esiguità del fenomeno si aggiunge una forte concentrazione territoriale. A farla da padrone è il Sud Italia: nella sola Campania si contano più della metà delle spose minorenni (123 nel 2006).
Questa è solo la componente legale del fenomeno, la punta dell´iceberg. Le statistiche non fotografano il sommerso: i matrimoni non riconosciuti dalla legge, i rapporti opachi che si celano all´interno di alcune comunità d´immigrati. Quali? Quelle più impermeabili al mondo esterno: pakistane, indiane, egiziane. E Rom. Nazzareno Guarnieri, presidente della Federazione Rom e Sinti insieme ricorda il caso di suo fratello che «si è sposato quando aveva 15 anni, con una ragazza di 14, dopo una fuitina». Sì, perché tra le comunità nomadi «accadeva spesso che ci si sposasse molto piccoli. E il caso delle spose bambine era la normalità. Ora invece è sempre meno frequente, seppure il fenomeno continua a essere presente nei campi».
Paolo Ciani conosce bene la realtà dei campi: è il responsabile dei servizi Rom e Sinti per la comunità di Sant´Egidio. «Molti Rom - racconta - non si interessano del riconoscimento legale delle nozze. Ricordo il caso di un uomo, padre di 11 figli, che durante il censimento romano del 1995 si era infuriato con i vigili urbani perché lo avevano schedato tra i "conviventi". Il suo matrimonio infatti non era mai stato registrato». «Nei campi - prosegue Ciani - si assiste ancora a nozze tra minorenni, soprattutto tra i Rom dell´ex Jugoslavia. Ma i casi tendono a diminuire. Nella nostra esperienza assistiamo a due fenomeni negativi: famiglie che cercano per i propri figli spose di 13 o 14 anni nei Paesi d´origine, perché ritenute più virtuose, e la tratta di minorenni, che vengono fatte sposare e poi impiegate nell´accattonaggio». Ma a parte «questi casi di devianza criminale», il problema di solito è un altro. «Si chiama "mancanza dell´adolescenza". E nasce dal terrore del genitore che figlia quindicenne perda la verginità, così cerca di darla in sposa al più presto».
Un problema avvertito anche all´interno di alcune comunità di immigrati in Italia. «Il fenomeno delle spose bambine è ben presente tra le comunità che arrivano dal mondo rurale del Nord Africa - sostiene Souad Sbai, deputata Pdl e presidente dell´Associazione donne marocchine d´Italia - e accade spesso che le bambine spariscano dopo le elementari, portate nei Paesi d´origine per sposarsi. Questo succedeva con frequenza tra i marocchini, finché una legge del ´95 ha vietato i matrimoni tra minorenni. Alcune ragazze spariscono o scappano, per esempio in Francia, per evitare di sposare il vecchio che il padre gli impone. Per queste ragioni è importante investire sul processo d´integrazione, l´unico antidoto allo sfruttamento delle donne».
Mara Tognetti, docente di politiche migratorie all´università Milano-Bicocca, conferma che «all´interno delle comunità più impermeabili al mondo esterno, i matrimoni combinati, in cui è la sposa a essere di solito minorenne, non sono rari. Spesso le ragazze sono consenzienti. Ma assistiamo anche a richieste di ricongiungimento familiare che ci lasciano perplessi». Un esempio? «Uno zio che chiede di ricongiungersi con una nipote minorenne - risponde la docente - e si scopre invece che dietro si cela un matrimonio». Come può intervenire lo Stato? «L´unica possibilità è che la ragazza stessa denunci i suoi "sfruttatori", padre o marito. Però, è molto raro».

l’Unità 15.3.09
La cultura delle ronde
di Furio Colombo


Senza Bossi, Berlusconi non potrebbe governare. Così, in piena crisi economica
si votano solo le ossessioni della Lega

Posso dire con orgoglio: il primo gesto di difesa dei diritti umani di cittadini non italiani accusati di un delitto odioso, malmenati in carcere e prontamente esposti alla gogna televisiva, quel primo gesto, impopolare e difficile, è venuto da noi, parlamentari del Pd. È vero, ma solo perché un piccolo gruppo di radicali è stato eletto nelle liste Pd. È vero perché, al primo segnale di botte in carcere ai due romeni accusati dello stupro della Caffarella, la deputata Rita Bernardini è andata a vedere, a capire, ad accertare. E ha potuto denunciare le umiliazioni subite dai due presunti colpevoli. Qui sta un primo punto alto di civiltà in una storia che umilia due volte: per ciò che è accaduto in un parco di Roma, e per la concitata confusione con cui sono state condotte le indagini.
Il punto alto di civiltà è che Rita Bernardini è corsa in carcere a difendere due uomini che erano creduti, e apparivano, come responsabili di un ripugnante delitto. La deputata radicale è andata a difendere i diritti umani di due persone, non importa quanto colpevoli, che di quei diritti non possono essere privati mai. In altre parole: è andata a difendere noi, la Repubblica italiana, la nostra immagine internazionale, la nostra Costituzione.
Su tutta la vicenda grava l’atmosfera inquinante della cultura della paura, un torrente in piena di furore, terrore e vendetta, alimentato da due tumultuosi canali: un rozzo nazionalismo vetero-fascista ormai sfuggito alle destre parlamentari; e la spinta fanatica del leghismo claustrofobico.
Quel leghismo continuamente in cerca di nemici da isolare, imprigionare, trattenere senza diritti anche un anno e mezzo e poi espellere dopo, se non si riesce ad affondarli prima, esiste dovunque ai margini di altri Paesi europei e anche negli Stati Uniti. Ma con tre esemplari tratti di identificazione: sono gruppi di destra, lo mostrano e lo vantano, fino a legami estremi con ciò che resta del nazismo; non fanno parte di alcun governo, perché ciò che vogliono (persecuzioni di immigrati, apartheid di diversi, secessione di territori) non è compatibile con alcun Paese democratico; infine le culture democratiche, e i partiti ispirati da queste culture, non li corteggiano, non li apprezzano, non li imitano.
Non scambiano per «sinistra» il triste successo popolare della xenofobia e della superiorità di gruppo («la nostra gente»). E mantengono un rigido isolamento intorno alle sotto culture distruttive dei partiti xenofobi. Le prove? Primo. Sono proibite le classi separate nelle scuole. Le figlie del presidente degli Stati Uniti sono in classe con ragazze e ragazzi cinesi, indiani, coreani, messicani persino se appena arrivati negli Usa. Secondo. A nessun medico viene chiesto di essere spia della polizia e di denunciare i pazienti clandestini. Terzo. Le ronde dei cittadini (le famose «posse» del Sud razzista, prima che la rivoluzione non violenta di Martin Luther King portasse pace e libera convivenza nel Sud degli Stati Uniti) sono proibite. Quarto. Le impronte digitali non possono essere imposte ai bambini o alle persone non imputate per nessuna ragione, salvo che alle frontiere, dove riguardano tutti e non un gruppo separato e indicato come criminogeno. Quinto. Nessuno, mai, per nessuna ragione, può impedire a un altro di pregare o di costruirsi luoghi di preghiera. La moschea di New York occupa un intero isolato di Manhattan. Dopo l’11 Settembre 2001 è stato posto un distaccamento di polizia per difenderla da intrusi o violenti, non per profanarla. Chi dicesse, in un altro Paese europeo, o negli Usa, a credenti di fedi diverse, «vadano a pisciare nelle loro moschee» uscirebbe dalla politica. Negli Usa sarebbe incriminato per violazione dei diritti civili. Come vedete non ho elencato ciò che avviene in squallide periferie ma nel Parlamento italiano. Ho elencato cinque decreti urgenti per ripagare la Lega del suo sostegno al governo. Senza la Lega Berlusconi non avrebbe i voti per governare. E allora, in piena crisi economica, altro non si fa nelle Camere italiane che votare le ossessioni della Lega. Salvo, nel tempo libero, dire un no pronto e secco alla proposta di Franceschini di dare un sostegno, in questo momento disperato, ai disoccupati. Alla Camera italiana, in piena tempesta economica del mondo, stiamo per discutere il “federalismo fiscale” e la moratoria sulla costruzione delle moschee. Nel frattempo i sindaci-sceriffi forzeranno prefetti e questori a inventare rapide indagini leghiste «senza intercettazioni» invece di proteggere, da adulti, i cittadini e il Paese.

l’Unità 15.3.09
L’appello dell’Anpi
un 5 per mille partigiano e antifascista


Un appello politico e morale. È quello che lancia l’Anpi (Associazione nazionale Partigiani d’Italia) da sessanta anni impegnata a promuovere antifascismo, democrazia e pace. A tutti gli antifascisti, e soprattutto in questo momento politico, l’Anpi chiede di sostenere l’associazione con il 5 per mille. Basta apporre una firma nei moduli per la dichiarazione dei redditi (Cud, 730-1, o Unico) nel riquadro che dice «Sostegno del volontariato, delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale, delle associazioni di promozione sociale, delle associazioni e fondazioni» e scrivere il numero di codice fiscale dell’Anpi: 00776550584.
È un modo «semplice, utilissimo e niente affatto costoso, dice l’associazione partigiana, di dare forza e futuro al nostro e al vostro impegno». Un aiuto e un impegno ulteriore potrebbe essere quello di iscriversi all’Anpi: gli indirizzi sono su www.anpi.it.

l’Unità 15.3.09
5 risposte da Rino Di Meglio
di Maristella Iervasi


1.Il 18 sciopero generale
Ci sarà anche il Gilda degli insegnanti allo sciopero generale della Conoscenza proclamato dalla Flc-Cgil. I tagli alla scuola sono feroci: 47.200 posti di insegnante in un anno solo che scompariranno. I docenti di ruolo perderanno la cattedra e saranno costretti a trasferirsi da una scuola all’altra. Altrettanti precari resteranno disoccupati.
2.Contro la riforma
In tutte le classi della scuola primaria le compresenze spariranno. Ovunque. Le gran parte dei docenti non potrà insegnare sulle stesse classi: questa è la risposta alle famiglie.
3.Gli organici
Il decreto ad oggi non è noto. Non c’è ottimismo. Lo sciopero è una scelta dolorosa ma è l’unica protesta consentita dalla legge.
4.Precari
90mila precari con nomina fino al 31 agosto e 150mila fino al termine delle lezioni. Ho motivo di dubitare delle varie promesse di sistemare qualche migliaia di precari. Al limite ci potrebbero essere un po’ di posti solo per il sostegno.
5.Malattia, ricorsi a pioggia
Il decreto Brunetta sulla malattia discrimina i pubblici dipendenti rispetto agli altri lavoratori. Privare della libertà un cittadino per l’intera giornata dalle 8 alle 20, con una sola «ora d’aria», è contraria al le normative europee.

Repubblica 15.3.09
Dall’economia all’etica, il professore deluso dal partito: rifiuto uno Stato nazi-salutista
E Martino accusa Tremonti statalista "Sembriamo più fascisti che liberali"
di f.bei


ROMA - La bomba nello stagno del Pdl la tira Antonio Martino, intervenendo all´assemblea dei riformatori liberali. Dopo essere rimasto sott´acqua per lungo tempo, l´ex tessera numero due di Forza Italia riemerge dall´apnea in maniera dirompente: «Ho contribuito alla fondazione di Forza Italia nella convinzione che fosse possibile dar vita a un partito liberale di massa. Devo dare atto a Berlusconi di aver sempre parlato di libertà, ma quando sento qualcuno che vuole confluire nel Pdl, io tento di reprimere la tentazione di defluirne». Con chi ce l´ha Martino? Con tutti gli anti-liberisti apparsi nel Pdl come funghi in tempi di crisi e su tutti con il loro nuovo vate: Giulio Tremonti.
Martino, l´allievo di Milton Friedman, non nomina mai il ministro dell´Economia, ma lo fustiga (tra le risate dei presenti) scherzando sulle comuni origini di Sondrio di Tremonti e Della Vedova: «La ragione per cui sono qui sono due prodotti valtellinesi di esportazione, uno positivo l´altro negativo. Quello positivo è Benedetto Della Vedova». Il Pdl, attacca Martino come un fiume in piena, «somiglia a tutto - dal colbertismo al fascismo fino al socialismo - ma non al liberalismo». La platea liberista si spella le mani. Martino tocca en passant anche i temi etici, forte di un sondaggio diffuso ieri da Luigi Crespi secondo il quale il 70,9% degli elettori del Pdl è a favore del diritto del malato di rifiutare il trattamento sanitario nel caso si trovasse in stato di incoscienza. «Io rifiuto - tuona Martino - questo Stato nazi-salutista che vuole legiferare su tutti i problemi umani».
E giù di nuove botte contro chi «imputa falsamente la crisi al fallimento del mercato, mentre la causa di quello che sta succedendo sono gli errori politici dello statalismo». Da parte dei fautori dell´intervento politico sull´economia, sottolinea, «sono stati resuscitati il keynesismo e il corporativismo fascista. Tenteranno di resuscitare pure il vecchio Marx!». Qualcuno dalla platea gli grida: «Tremonti l´ha già fatto». E Martino, con una smorfia: «Per favore, non parliamo di cose tristi».
Mentre Martino chiude mettendo il Pdl in guardia dal «rischio di diventare un fautore di idee stataliste», il suo intervento ringalluzzisce l´anima radical-liberista del centrodestra. Adolfo Urso, sottosegretario al commercio internazionale, sottolinea che «sarebbe sbagliato andare dietro a tentazioni protezionistiche» e «non dobbiamo fare come Roosevelt nel ´29, che sbagliò puntando tutto sugli investimenti pubblici e i sussidi ai disoccupati». Benedetto Della Vedova, pur salvando Tremonti per la «tenuta dei conti pubblici», mette nel mirino il ministro Maurizio Sacconi per la cautela usata sulla riforma delle pensioni: «Invito Sacconi a riflettere sul fatto che in Italia le vere riforme sono state fatte nei momenti di emergenza, come Amato nel ‘92».

Repubblica 15.3.09
Le dame, i cavalieri e il piacere proibito
L’amore carnale nel Medioevo
di Franco Cardini


Nella storiografia divulgativa, quella scritta da "storici" amateurs, ricorre un buffo fenomeno che gli studiosi di professione ben conoscono: la frequente retrodatazione di usi e di tradizioni che appartengono al passato più o meno prossimo e che vengono presentati - e in genere entrano nell´immaginario collettivo - come ben più antichi di quanto non siano. Concorre, a configurare questo bizzarro effetto deformante, una sorta di superstizione progressista: s´immagina la storia come una sequenza di eventi, istituzioni e strutture in costante evoluzione positiva, in progresso; ed è quindi ovvio, se ne deduce, che l´oggi sia migliore dello ieri e che il domani sarà ancora migliore dell´oggi.
In questi ultimi anni, per la verità, tale beata illusione è stata messa a dura prova, e forse nessuno l´adotterebbe per le cose contemporanee. Ma sopravvive per il passato: difatti si parla di un Medioevo nel quale si bruciavano le streghe, che invece poverine andarono piuttosto con i loro roghi a illuminare il già «luminoso» Rinascimento, perché nel «buio Medioevo» erano quasi sconosciute. Oppure, ci s´immagina l´aristocrazia feudale dei secoli Dodicesimo e Tredicesimo come fatta tutta di signorotti a immagine del manzoniano don Rodrigo, la cui nobiliare prepotenza era, invece, del tutto seicentesca, e quattro-cinque secoli prima nessuno l´avrebbe tollerata.
Così accade quando s´immaginano i costumi sessuali. La pruderie ottocentesca discenderebbe dal casto e represso Medioevo, in un rassicurante continuismo che solo di recente avrebbe lasciato il passo a una crescente libertà sessuale. Inutile dire che così non era: tra il Medioevo e il casto romanticismo si è incuneata la cultura libertina, che dà dei punti alle nostre fantasie più osées. Ma che a sua volta, guarda caso, aveva nel Medioevo molti più modelli di riferimento di quanti non ci aspetteremmo.
Medioevo casto e represso. È uno dei più radicati fra i nostri luoghi comuni; come quello d´un Medioevo igienicamente poco raccomandabile, ad esempio. Errore. La nostra età di mezzo pullulava di «bagni» e di «stufe», in parte ereditate dall´età romana - ma anche da certe tradizioni barbariche, ad esempio dal bagno di vapore turcomongolo -, in parte reimportate attraverso il mondo musulmano, a sua volta erede della tradizione bizantina. E nei bagni non ci si limitava a lavarsi: «stufa» era sinonimo di bordello. D´altro canto, lo spettacolo della nudità - aborrito dalla Riforma protestante in poi - era nei secoli di mezzo alquanto comune e consueto.
E allora, il Medioevo mistico, innamorato della Vergine Maria e per il resto tutto onore e gelosia, nel quale circolavano congegni come le cinture di castità? L´amore mistico e spirituale, quello rivolto alla Madonna e passato poi, attraverso trovatori, trovieri e Minnesänger all´amor cortese e al culto della «donna angelicata», costituiva senza dubbio una grande forza spirituale, etica ed estetica. Ma c´era anche ben altro.
L´amore fatale, l´amore-passione travolgente e inestinguibile è, secondo un ormai classico studio di Denis de Rougemont, L´amour et l´Occident (1939), un´invenzione dell´Occidente medievale, i grandi modelli del quale sono uno romanzesco (Tristano e Isotta) e uno storico (Abelardo ed Eloisa). Jack Goody (Il furto della storia, Feltrinelli 2006) ha obiettato che le cose non stanno proprio così: e che anche l´antico Egitto, e poi almeno India, Cina e Giappone la sapessero lunga al riguardo. Certo comunque il Medioevo conosceva bene la lussuria, che Dante tratta come un grave peccato (il più lieve tuttavia tra quelli mortali) e ci mostra condannata nell´Inferno.
Ma eccoci al punto: la poesia cavalleresca e più tardi quella lirica e la novellistica, al pari di certe magari dissimulate forme d´arte plastico-figurativa, sono molto meno avare di quel che siamo abituati a pensare di esempi d´amore fisico anche alquanto spinto: al limite, non di rado, di quel che per noi sarebbe l´erotismo se non addirittura la pornografia.
Il bel libro recente di Florence Colin-Goguel, L´image de l´Amour charnel au Moyen Âge (Seuil 2008, prefazione di Michel Pastoureau) ci dà ampia materia di modificare, a proposito del nostro Medioevo, parecchie idées reçues che pigramente ci portiamo dietro. Zavorrato dall´austera continenza d´origine paolina e poi ascetica, ma insidiato non solo dall´eredità erotica della cultura latina bensì anche da certi modelli biblici (il Cantico dei Cantici...), il Medioevo occidentale ha coltivato un interesse e una propensione per l´amore fisico spesso sconfinato - come nella tradizione goliardica - in forme grottesche, dissacratorie e paradossali, ma alimentato anche da una raffinata tensione intellettuale che si sfogava perfino in un´accurata trattatistica e raggiungeva, invadendola, perfino la teologia morale.
Tempo di gelosia e di segregazione, il Medioevo era anche età di società di soli uomini e di donne sole, dove rapporti omosessuali e autoerotismo avevano modo di espandersi. Dietro le stesse tradizioni cavalleresche e monastiche, chiericali e universitarie, si avverte spesso, e nemmeno troppo nascosto, il brivido dell´androginia e dell´eros "alternativo". Gli stessi cacciatori d´una «repressione della donna» in età medievale avrebbero modo di ricredersi, quanto meno studiando la società aristocratica. in pieno Dodicesimo secolo, corti come quella di Eleonora duchessa d´Aquitania (la madre di Riccardo Cuor di Leone) erano luoghi nei quali si praticava e si teorizzava l´adulterio, mentre più tardi nelle società mercantili l´uso delle more, delle russe e delle circasse tenute come schiave domestiche avrebbe diffuso forme di poligamia pratica e popolato il mondo di bastardi: che sovente avevano anzi un loro ruolo sociale e perfino araldico riconosciuto.
Scorrendo le pagine e le immagini proposte dalla Colin-Goguel, allieva di Le Goff e di Chastel, si resta addirittura stupiti nel constatare come dalla musica ai tornei, dai giochi alle passeggiate in giardino, dagli usi enogastronomici alle stesse metafore religiose, il Medioevo fosse pervaso di erotismo e di attrazione carnale. La stessa eresia catara, che proclamava come il massimo peccato contro Dio fosse la riproduzione, che perpetuava la schiavitù dello spirito entro la prigione carnale, era poi molto meno severa nei confronti delle forme di erotismo che comportassero dispersione del seme e non dessero quindi frutti. E questa considerazione attenua di molto lo stupore di qualcuno, allorché constata quanto il catarismo fosse diffuso in contrade gioiose come la dolce Provenza. Per tacere dei frequenti coiti diabolici. Immaginari, d´accordo, anzi illusori. Ma, dopo il dottor Freud, la sappiamo lunga al riguardo.

Repubblica 15.3.09
Le Goff. "Mille anni di passioni segrete"
intervista di Pietro Del Re


Eva è il demonio. È all´origine dei mali del mondo, perché tentatrice, istigatrice del peccato e colpevole della cacciata dell´umanità dal Paradiso. Con lei, nel Medioevo la donna diventa l´icona del vizio. «Eppure, non si può dire che la società dell´epoca sia stata antifemminista», spiega lo storico francese Jacques Le Goff. «Anche perché i rapporti tra i sessi avevano un carattere ambiguo: l´uomo medievale era spesso una creatura androgina». A ottantacinque anni, Le Goff è uno dei più illustri eredi della École des Annales. L´ultima sua fatica è quasi un instant book: sta scrivendo un libro sui soldi nel Medioevo, «per dimostrare che le banche hanno sempre fallito».
Professore, che cosa sappiamo del comportamento sessuale di quei secoli bui?
«Quasi nulla, perché salvo le espressioni letterarie o artistiche, abbiamo pochi documenti che ci permettono di capire che cosa realmente accadesse nel segreto dell´alcova».
Dopo il matrimonio medioevale, assieme all´uomo e alla donna nel letto nuziale c´è anche Dio. Era legittimo il coito coniugale o era soltanto una concessione alla procreazione?
«Il matrimonio diventa sacramento solo dopo il quarto Concilio lateranense, nel 1215. Fino ad allora non era riuscito a distinguersi da quello che era nell´antichità romana: un contratto. Tuttavia, anche se ci si sposava al di fuori della Chiesa, per essere valido agli occhi del clero, e quindi a quelli di Dio, il matrimonio doveva essere consumato».
Ma godere è sempre peccato?
«Generalmente sì. Nel Duecento, proprio quando la Chiesa inventa il Purgatorio per strappare l´uomo alla tradizionale opposizione Inferno-Paradiso, San Tommaso D´Aquino nega che possa esserci una parte legittima di piacere nel compimento dell´atto sessuale, anche nell´ambito del matrimonio».
All´epoca, il peccato originale era assimilato a quello carnale e l´immagine dell´Inferno spesso rappresentata come il sesso femminile: si può dire che nel Medioevo il Male fosse donna?
«Sì, ma fino a un certo punto. Contrariamente a quando accadeva a Bisanzio, fino all´Undicesimo secolo il culto della Vergine Maria non era celebrato dalla Chiesa. A partire da quel momento si sviluppò invece con forza straordinaria. È anche grazie al culto mariano che la donna è stata rivalutata nelle società medievali».
Contro l´infamia della lussuria e dell´adulterio erano previste punizioni corporali durissime. Queste rendevano l´uomo medievale più "puro" dell´uomo moderno?
«Il castigo ha senza dubbio contribuito a tenere nascosta la lussuria, benché i teologi e i predicatori dicessero che Dio vedesse tutto, compreso quello che si faceva nell´ombra. Tuttavia sul margine dei manoscritti dell´epoca sono spesso raffigurate scene di lussuria, che non esiterei a definire pornografiche: un vescovo sodomita, una donna che coglie falli da un albero o scene di sesso tra uomini e animali. Il Medioevo ammetteva il male, purché si manifestasse al margine della società, lontano dal suo centro sacro. Piuttosto che volerlo sradicare del tutto, il cristianesimo ha sempre cercato di limitare il male attraverso la confessione e il pentimento».
Le prostitute erano tollerate dalla Chiesa?
«Sì, la prostituzione era permessa. Quando il re moralista Luigi IX, detto San Luigi, volle vietarla, il vescovo di Parigi gli disse che era "un male necessario"».
L´amor cortese che sublima la donna è sempre un amore platonico?
«Su questo problema i medievisti sono divisi. Io credo che l´amor cortese sia puramente immaginario. Esiste soltanto nella letteratura. Ciò non significa che l´amore reale sia sempre stato brutale, che ci sia sempre stata una violenta dominazione dell´uomo sulla donna. Ma l´amore in cui la donna diventa il signore e il cavaliere il suo servo, non c´è mai stato. Neanche nelle classi superiori della società. Detto ciò, il Medioevo è durato dal Quinto al Quindicesimo secolo, e in mille anni molte cose sono cambiate. La svolta essenziale si produce nel Duecento, quando i valori del cielo scendono sulla Terra. Da quel momento la felicità non è riservata solo all´aldilà. C´è l´inizio di una possibile soddisfazione del piacere anche per noi mortali. Appaiono, per esempio, i primi trattati di gastronomia. Il lavoro, che era considerato una punizione del peccato originale, diventa invece un valore. È del resto in quell´epoca che si comincia a dire che l´uomo è stato creato a immagine di Dio».
Che cosa cambia con il Rinascimento?
«C´è l´esaltazione della bellezza e, in particolare, della nudità. La Chiesa medievale rifiutava la nudità, e con essa la maggior parte dell´arte antica che, soprattutto nella scultura, rappresentava corpi nudi. Con il Rinascimento in Europa, soprattutto nel Cinquecento, avviene la riscoperta dei nudi. Gli stessi che prima erano rappresentati negli affreschi delle basiliche soltanto nelle scene della resurrezione dei corpi».

Corriere della Sera 15.3.09
Quell'estate mia figlia diventò matta
Un «demone» cattura una ragazza di 15 anni E Oliver Sacks ritrova una vicenda personale
di Oliver Sacks


Il volume. Esce da Rizzoli la storia vera di Sally scritta da suo padre, Michael Greenberg 
La malattia. Sette settimane di angoscia alle prese con una diagnosi di psicosi maniacale

«Il 5 luglio del 1996 mia figlia è diventata matta». Inizia così, senza preamboli, il libro di Michael Greenberg, Hurry Down Sunshine ( Il giorno in cui mia figlia impazzì), per poi passare a narrare gli eventi con foga quasi torrenziale. La malattia esplode all'improvviso: Sally, la figlia 15enne di Greenberg, da qualche settimana è molto eccitata: ascolta in continuazione le Variazioni Goldberg di Glenn Gould con il walkman, legge un volume di sonetti di Shakespeare quasi tutta la notte.
Greenberg scrive: «Apro il libro a caso e trovo un groviglio di frecce, annotazioni, parole cerchiate. Il tredicesimo sonetto sembra una pagina del Talmud, i margini sono talmente pieni di commenti che il testo al centro quasi scompare». Sally scrive anche delle poesie, che ricordano quelle di Sylvia Plath. Il padre le legge di nascosto e le trova strane, ma non pensa che l'umore o le attività della figlia abbiano tratti patologici. Da bambina Sally ha avuto difficoltà di apprendimento, ma ora le sta trionfalmente superando e sta scoprendo per la prima volta le sue capacità intellettuali. Questa esaltazione è normale in una quindicenne molto dotata — almeno così sembra.
In quel caldo giorno di luglio, però, Sally crolla. Ferma le persone in strada investendole con un fiume di parole, pretendendo di essere ascoltata, scuotendole; poi si butta in mezzo al traffico, convinta di poter fermare le macchine semplicemente con la forza della volontà (un amico pronto di riflessi riesce a trascinarla via appena in tempo). Qualche giorno prima, osservando alcune bambine giocare, Sally ha avuto una visione: si è convinta che abbiamo perso la «genialità» originaria e illimitata che Dio ha dato a ciascuno di noi e crede che la sua missione sia quella di aiutare gli altri a recuperare questo dono. È questa idea che la induce a rivolgersi a sconosciuti per strada; il suo bizzarro comportamento deriva dalla sensazione di avere dei poteri speciali. I suoi genitori lo capiscono quando, il giorno dopo, la interrogano.
Più che dalle sue appassionate convinzioni, però, il padre e sua moglie sono sorpresi dal suo modo di parlare: «Pat e io siamo scioccati, non tanto da quel che dice ma da come lo dice. I suoi pensieri prorompono e si accavallano in una sfilza di parole scombinate; ogni frase si sovrappone alla precedente, lasciandola incompleta. Siamo confusi, abbiamo difficoltà ad assorbire la quantità di energia che sgorga dal suo corpo minuto. Sally gesticola, protende il mento... il suo desiderio di comunicare è così impetuoso da essere un tormento. Ogni parola è per lei come una tossina che deve espellere dal corpo. Più parla più diventa incoerente, e più diventa incoerente più sente l'urgenza di farsi capire! Guardandola mi sento impotente, ma anche galvanizzato dalla sua vitalità».
Si potrebbe chiamare mania, follia o psicosi — uno squilibrio chimico nel cervello — ma si presenta come un'energia primordiale. Greenberg la paragona a «una rara forza della natura, come una bufera o un'alluvione: distruttiva, ma a modo suo anche stupefacente». Questa energia senza freni somiglia a quella che accompagna la creatività, l'ispirazione o il genio, e in effetti è così che Sally la sente in sé — non una malattia, ma l'apoteosi della salute, la liberazione di una parte di sé profonda e fino ad ora repressa.
I genitori di Sally sono sconcertati quanto lei, anzi di più, perché non hanno la sua folle sicurezza. Si chiedono se faccia uso di qualche droga, Lsd o magari peggio; se si tratti di un problema che le hanno trasmesso per via genetica, o se le hanno fatto qualcosa di terribile in una fase critica dello sviluppo. Lo ha sempre avuto dentro di sé, anche se si è scatenato così improvvisamente? Sono le domande che si fecero anche i miei genitori nel 1943, quando mio fratello Michael ebbe a quindici anni un episodio di psicosi acuta. Vedeva «messaggi» dappertutto, pensava che i suoi pensieri venissero letti o trasmessi, aveva eccessi di uno strano riso convulso e credeva di essere stato trasportato in un altro «regno ». Allora gli allucinogeni erano una rarità, quindi i miei genitori, che erano entrambi medici, si chiesero se il suo comportamento fosse causato da una malattia, come una disfunzione tiroidea o un tumore al cervello. Alla fine capirono che mio fratello soffriva di psicosi schizofrenica. Nel caso di Sally i test clinici escludono problemi legati alla tiroide, all'uso di droghe o a tumori. La sua è «solo» una psicosi maniacale, acuta e pericolosa (tutte le psicosi sono potenzialmente pericolose, almeno per l'incolumità del paziente).
Si possono avere episodi di esaltazione maniacale — o di depressione — (avere fissazioni o allucinazioni, perdere di vista la realtà) senza essere psicotici. Sally però ha varcato la soglia, e in quel caldo giorno di luglio è accaduto qualcosa, qualcosa si è spezzato. Improvvisamente è diventata un'altra persona — ha un aspetto diverso, parla in modo diverso. «Tra noi ogni punto di contatto era svanito», scrive il padre. Ora lo chiama «padre», invece di «papà», e parla con «una voce forzata, falsa, come se recitasse battute imparate a memoria»; «i suoi occhi castani di solito caldi sono vitrei e scuri, come ricoperti da una mano di lacca ».
Da principio i genitori si sforzano di credere (come fa anche Sally) che lo stato di eccitazione sia un fatto positivo, non una condizione patologica. La madre prova a vederlo sotto una luce New Age: «Sally sta passando un periodo così, Michael, ne sono sicura; non è una malattia. È una ragazza molto spirituale... Attraversa una fase essenziale della sua evoluzione, è il suo cammino verso un dominio più elevato».
Greenberg la pensa in modo simile, anche se si esprime in termini più prosaici: «Anch'io volevo credere a una cosa del genere, credere che fosse un progresso, una vittoria, l'atteso sbocciare della sua mente. Come si fa però a distinguere tra la "divina follia" di Platone e un discorso senza senso? Tra l'entusiasmo e l'incoerenza? Tra chi è profeta e chi invece è "clinicamente pazzo"?» (Greenberg fa notare che James Joyce si era trovato in una situazione simile con la figlia Lucia, schizofrenica. «Le sue intuizioni sono incredibili», diceva Joyce. «Se c'è in me una scintilla gliel'ho trasmessa, e il suo cervello ne è stato incendiato». Dirà poi a Beckett: «Non è una folle che vaneggia, ma solo una povera bambina che ha cercato di fare troppo, di capire troppo»).
Ma presto diventa chiaro che Sally è davvero psicotica e ha perso il controllo di sé, e i genitori la portano in una clinica psichiatrica. Dapprima lei è contenta, pensando che infermiere, assistenti, psichiatri siano le persone più adatte a capire le sue intuizioni, il suo messaggio. La realtà, però, è brutalmente diversa: Sally viene rinchiusa e sedata con tranquillanti. La descrizione che Greenberg dà del reparto ha i toni densi e ricchi di un romanzo e presenta una serie di personaggi degni di Cechov. All'ospedale non cercano di capire Sally — la sua mania è trattata anzitutto come un problema medico, uno squilibrio chimico del cervello, da affrontare in termini di neurochimica. Purtroppo Sally non risponde al litio, che si è dimostrato fondamentale per molti pazienti con problemi maniaco-depressivi, e i medici devono quindi ricorrere a forti dosi di tranquillanti, che sedano la sua eccitazione ma la lasciano stordita e apatica. Per il padre, vedere la figlia adolescente in quello stato da zombie è quasi altrettanto scioccante che vederla sovraeccitata.
Dopo ventiquattro giorni di questo trattamento, Sally viene dimessa, anche se ha ancora idee fisse e deve continuare a far uso di tranquillanti. Fuori dell'ospedale incontra una terapista eccezionale, che la tratta da essere umano e cerca di capire i suoi pensieri e sentimenti. La dottoressa Lensing si rivolge a lei in modo assolutamente diretto. «Scommetto che senti di avere un leone dentro di te», sono le prime parole che le dice. «Come fa a saperlo?». Sally è stupita e abbandona ogni sospetto. La dottoressa Lensing continua a parlare della sua mania come se fosse una specie di creatura, un altro essere dentro di lei. Cerca di indurre Sally a distinguere la sua psicosi dalla sua vera identità, a distaccarsi dalla psicosi in modo da vedere la complessa e ambigua relazione che ha intessuto con essa. (La psicosi «non è un'identità», le dice seccamente). Ne parla con il padre, perché è necessario che anche lui capisca, se si vuole che Sally migliori.
«Sally non vuole essere isolata, è proiettata verso l'esterno e questo è un fattore estremamente positivo. Desidera essere capita, e non solo da noi: anche lei vuole capirsi». La dottoressa Lensing considera il desiderio di Sally di tornare ad avere dei sinceri contatti con gli altri, di capire e di essere capita, di buon auspicio per il suo ritorno alla salute, il ritorno alla terra. L'abbandono definitivo delle folli altezze della mania è per Sally quasi altrettanto improvviso dello scatenarsi della malattia avvenuto sette settimane prima. Dice Greenberg: «Sally e io siamo in cucina. Ho passato la giornata a casa con lei, lavorando a una sceneggiatura.
"Vuoi una tazza di tè?", le chiedo.
"Sì, mi andrebbe, grazie".
"Con latte?".
"Sì, e miele".
"Due cucchiaini?".
"Sì. Li metto io. Mi piace guardare il miele colare giù dal cucchiaio".
Qualcosa nel suo tono attira la mia attenzione: l'inflessione della voce, il modo diretto e caldo di parlare. Non la sentivo così da mesi. I suoi occhi si sono addolciti. Cerco di essere cauto, per timore di ingannarmi, ma il cambiamento è evidente. È come se fosse avvenuto un miracolo. Il miracolo della normalità, dell'esistenza ordinaria... Mi sembra di aver vissuto per tutta l'estate dentro una favola. Una bella ragazza viene trasformata in una pietra indifferente o in un demone. È separata dalle persone care, dalla lingua, da tutto quel che era suo. Poi l'incantesimo si rompe e lei si risveglia... ».
Dopo l'estate di pazzia, Sally ritorna a scuola — con ansia, ma decisa a riprendersi la sua vita. Dapprima non parla della malattia, e apprezza la compagnia delle tre amiche che nella classe le sono più affezionate. «Spesso — scrive il padre — la sento parlare con loro al telefono, in modo intimo, tagliente, pettegolo: l'atteggiamento allegro di una ragazza sana ». Dopo qualche settimana di scuola, e dopo averne discusso con i genitori, Sally racconta alle amiche della sua psicosi: «Loro la accettano senza problemi. Essere stata in un reparto psichiatrico rende Sally importante. È una sorta di credenziale. È un luogo che le amiche non conoscono. Diventa il loro segreto». Sally riacquista la salute, e qui la storia potrebbe avere fine. La sindrome maniaco- depressiva, però, ha la particolarità di essere ciclica, e in un post-scritto al libro Greenberg dice che Sally ha avuto due ricadute: la prima dopo quattro anni, quando era all'università, la seconda dopo altri sei anni. Non esiste una cura per la sindrome maniaco-depressiva, ma è possibile conviverci valendosi di vari aiuti: le medicine, la comprensione dei suoi meccanismi (in particolare riducendo al minimo le situazioni di stress come la perdita del sonno e facendo attenzione a captare i primi sintomi dell'eccitazione maniacale o della depressione), senza tralasciare la psicoterapia. Per profondità, ricchezza e intelligenza,
Hurry Down Sunshine va considerato un classico del suo genere. Quel che lo rende un libro unico, però, è essere narrato dal punto di vista di un genitore straordinariamente aperto e sensibile, un padre che, senza mai cedere al sentimentalismo, mostra una notevole capacità di capire i pensieri e i sentimenti della figlia e una abilità rara nel trovare le immagini e le metafore giuste per descrivere stati d'animo quasi inimmaginabili.
Decidere di «raccontare» e di pubblicare il resoconto dettagliato della vita di un paziente, di mostrarne la vulnerabilità e la malattia, è una questione moralmente delicata, piena di pericoli di varia natura. La lotta di Sally con la psicosi non dovrebbe rimanere una faccenda privata e personale? Perché suo padre dovrebbe mostrare al mondo le sofferenze della figlia e della sua famiglia? E quale potrebbe essere la reazione di Sally al vedere esposti pubblicamente i suoi tormenti e le sue esaltazioni di adolescente?
Scrivere questo libro non è stata una decisione rapida o scontata né per Sally né per il padre. Greenberg non ha iniziato a scrivere nel 1996, durante la malattia della figlia; ha aspettato, meditato, assorbito l'esperienza. Ha discusso a lungo con Sally e solo dopo più di dieci anni ha sentito di poter trovare l'equilibrio, la distanza e il tono giusti per scrivere Hurry Down Sunshine.
Anche Sally è giunta alla stessa conclusione, esortandolo non solo a scrivere la sua storia, ma anche a usare il suo vero nome, senza pseudonimi. È stata una decisione coraggiosa, considerando il marchio col quale sono ancora bollati i malati mentali.
È un marchio che colpisce molti, perché le malattie maniaco-depressive esistono in tutte le culture e affliggono almeno una persona su cento. In questo momento ci sono al mondo milioni di persone, alcune anche più giovani di Sally, che devono affrontare quel che ha passato lei. Hurry Down Sunshine è un libro lucido, umano, illuminante; è una specie di guida per chi deve avere a che fare con le regioni oscure dell'anima, ed è utile anche ai familiari, agli amici e a tutti coloro che vogliono essere vicini ai loro cari in difficoltà. Forse ci ricorderà anche quanto è stretto il lembo di normalità nel quale ci muoviamo, tra gli abissi della mania e della depressione che si aprono ai suoi lati.
© 2008 by Oliver Sacks (Traduzione di Maria Sepa) JEANLOUP SIEFF, «INA A EAST HAMPTON, NEW YORK» (1963)

Il neurologo autore di bestseller
Oliver Sacks (nella foto di Adam Scourfield / Bbc mentre mostra un modellino in plastica di un cervello) è nato a Londra nel 1933. Neurologo e scrittore, vive tra New York e Los Angeles.
Da un suo famoso libro, «Risvegli» (edito in Italia da Adelphi), è stato tratto un film di successo con Robin Williams e Robert De Niro. Da Adelphi sono usciti anche «L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello», «L'isola dei senza colore», «Un antropologo su Marte» e «Musicofilia»

Corriere della Sera 15.3.09
Ricerca. Servono norme aggiornate: nasce anche in Italia un comitato per la «roboetica»
Uomo Bionico, quali regole?
di Franca Porciani


Molte nuove terapie prevedono connessioni tra l'uomo e le macchine Con quali conseguenze?
Stimolazioni cerebrali, bioibridi, microchip: quali sono i limiti?

Quarantamila impianti nel mondo, ottocento in Italia. Da quando nel 1993 Alim-Louis Benabid, a Grenoble, dimostrò che minuscoli cateteri incuneati nella profondità del cervello hanno la meglio sul tremore e i bizzarri movimenti involontari del Parkinson, la metodica è letteralmente «esplosa». Buoni risultati, affrancamento dai farmaci, ma anche la comparsa e il ripetersi di uno strano fenomeno: dopo l'impianto la personalità cambia, talvolta ad un punto tale da mettere in crisi le relazioni familiari. «Il fenomeno è ben documentato — informa Gianni Pezzoli, direttore del centro Parkinson degli istituti clinici di perfezionamento di Milano — . Nel 20-30 per cento dei malati che si sottopongono alla stimolazione cerebrale profonda (questo il nome della tecnica,
ndr) si manifesta una forma di apatia, un calo di vitalità generalizzato, e si abbassa il tono della voce, in alcuni casi fino al bisbiglio. La causa? Forse è la presenza del catetere nel cervello, forse è la sospensione di farmaci che hanno effetti simili a quelli della cocaina. Non si sa».
Un beneficio importante ottenuto ad un prezzo «esistenziale » alto, talvolta altissimo (fra queste persone non sono infrequenti i suicidi). Prezzo da tenere ben presente ora che le applicazioni della metodica si stanno allargando a macchia d'olio, dall'epilessia alla depressione, dalla cefalea ai cali di memoria, fino all'ultima, gli attacchi di panico. Lo sottolinea sulla rivista
Nature Jens Clausen, dell'istituto di etica e di storia della medicina dell'università di Tubinga. Ricordando che questi «bioibridi » stanno suscitando reazioni inimmaginabili vent'anni fa proprio fra i potenziali «clienti ». Lo dimostra la crescente resistenza nei confronti dei sofisticatissimi impianti cocleari, che nel mondo hanno ridato l'udito a più 100.000 persone, da parte di molti sordi. Allineati sulle posizioni della filosofa Anita Silvers, dell'università della California a San Francisco, che, disabile a sua volta, condanna la «tirannia della normalità » in nome della quale tutti i diversi sono inferiori e infelici.
«Fece discutere nel 2002 il caso di due lesbiche americane. Sorde, per due volte scelsero come donatore di sperma per i bimbi avuti con la fecondazione in vitro un amico con lo stesso handicap, per maggiore sicurezza con cinque generazioni di non udenti nell'albero genealogico. Le donne volevano dimo-strare, fino alla parodia, che la sordità non è una condizione di inferiorità — racconta Andrea Boggio, esperto di bioetica della Bryant university di Providence, negli Stati Uniti — . D'altro canto le neuroprotesi pongono problemi anche sul fronte dell'identità. La funzione che ti fa svolgere la "macchina" è tua oppure appartiene al biobrido con cui convivi? Siamo portati a pensare che l'identità umana sia quella dominante, ma...».
Luca Marini, docente di diritto internazionale all'università La Sapienza di Roma e vicepresidente del Comitato nazionale per la bioetica che sulla roboetica ha creato un gruppo di studio aggiunge: «Non è irragionevole immaginare che in futuro si arrivi al potenziamento delle capacità cerebrali dell'uomo, il cosiddetto enhancement, che unitamente alle nanotecnologie e alle neuroscienze può gettare le basi per una condizione che alcuni definiscono "post-umana"». Scenario non così ipotetico: John Donoghue, neuroscienziato della Brown university, è riuscito a tradurre in realtà l'idea che si possano compiere azioni con la «forza» del pensiero. Un microchip impiantato nel cervello rileva impulsi che un processore traduce in comandi per il cursore del computer: il risultato, già realtà per un piccolo numero di tetraplegici (il primo caso pubblicato su Nature nel 2006), è la possibilità di spedire una email o di giocare con un videogame. Tutto il sistema ha un nome suggestivo, BrainGate, letteralmente «porta» per il cervello.
«Questi dispositivi possono aprire la strada a forme di controllo del tutto nuove che porranno il problema della "privacy cerebrale" — continua Marini — . Sono convinto che la robotica debba essere al centro di un dibattito sull'etica "del nuovo", al di fuori degli schieramenti politici». «La ricerca comunque deve andare avanti — conclude Piergiorgio Strata, direttore scientifico del Brain research institute
Rita Levi Montalcini di Roma — ; fermo restando che al primo posto ci deve essere il pieno consenso, il più possibile "informato", di chi si sottopone a queste sperimentazioni».

Corriere della Sera 15.3.09
Sport. Sulla strada di Pistorius
Dall'handicap ai superatleti


Alzati e cammina, anzi corri. Un tempo era Vangelo, ora la parola passa attraverso la tecnologia. L'uomo scopre di avere possibilità infinite, e le insegue nel nome della Scienza, si batte perché le barriere cadano, perché si possa dire «non ero più in grado, ma ce l'ho fatta». Il caso dell'estate 2008 è stato, in sintesi, un caso anomalo: il nome di Oscar Pistorius ce lo siamo giocato in tanti dibattiti, dividendoci sulla storia di questo ragazzo privo degli arti inferiori che voleva correre grazie a protesi al carbonio in grado di proiettarlo in avanti, passo dopo passo, verso un traguardo impensabile, l'Olimpiade di Pechino. Apriti scandalo: ufficialmente, le polemiche esplosero sulle «lame» che sostituivano le gambe (attive? passive? procurano un vantaggio? non lo procurano?); sotterraneamente, sull'atleta e uomo Pistorius, inteso come disabile, come «mostro» dalla faccia d'angelo che aveva osato pensare di mescolarsi agli atleti «normali».
Sì, lo sport in quei giorni scoprì la paura del diverso, di colui che si alza, cammina e corre fuori dal ghetto in cui lo sport stesso — quello istituzionale, quello dei grandi avvenimenti — ha confinato i «diversamente abili». Hanno creato un'Olimpiade parallela, la Paralimpiade, nome orrendo che già sprigiona l'idea di marginalità: ogni quattro anni, migliaia di uomini e donne sfortunati ma fieri ingaggiano splendide e commoventi battaglie sportive. I giornali ne parlano, la Tv propone qualche storia strappalacrime, un minuto dopo si volta pagina e si cambia canale.
Pistorius volle farsi Spartaco e provò a spezzare le catene. Il Potere gli rispose no. Non poteva passare il concetto che l'atletica — per antonomasia lo sport della bellezza, dell'eleganza del gesto, del culto del corpo - diventasse terreno di esperimenti che ci avrebbero portati chissà dove, magari al braccio meccanico che impugna una racchetta, alla spalla bio-tech che solca l'acqua delle piscine, all'occhio artificiale che punta a un bersaglio. Finì così: finì che, bocciato dalle norme sportive e poi riammesso da un tribunale sull'onda di una massiccia indignazione popolare, Pistorius è rimasto a casa ugualmente perché ai Giochi si va se corri in certo tempo cronometrico e lui quel tempo non era riuscito a centrarlo. Fine della storia. Fine della paura di doversi scontrare con un realtà scomoda e realmente «diversa». Ma il dibattito è solo rimandato alla prossima Olimpiade — dove Pistorius ha promesso di ripresentarsi —, o alla prossima occasione nella quale un altro atleta, sfidando regolamenti che comunque andrebbero rinfrescati, riproverà ad evadere dal ghetto. Verrà il tempo, dicono gli scienziati, in cui il corpo non sarà più considerato in termini di bellezza ma di funzionalità. Vivremo più a lungo e meglio grazie agli apparati bio-tech. Anche gli atleti saranno diversi perché barriere e frontiere saranno spostate un po' più in là. Con una certezza: si scateneranno nuovi dibattiti su etica e sport, proprio come ai tempi di Oscar Pistorius.
E domani, come oggi, non si terrà conto che le protesi in fibra di carbonio possono anche spaventare ma dovrebbero impaurirci ancor di più gli esperimenti clandestini che cambieranno la faccia dello sport: dal 1999 c'è un dottore di Los Angeles, Don Catlin, capo del laboratorio antidoping di Ucla, che avverte dell'ingresso prepotente della genetica nell'area dello sport d'élite. La realtà supera la fantasia: presto potremmo vedere atleti realmente bionici, selezionati da bambini, costruiti in funzione di un determinato sport, con muscoli, ossa e nervi resi elastici, potenti e resistenti dalla terapia genica. Superatleti o mostri?

Corriere della Sera 15.3.09
La testimonianza Un malato di Parkinson si racconta
«Qualcosa è cambiato nel mio cervello manipolato»


Dopo l'intervento mi sento come svuotato. Ma sarei pronto a rifarlo

È difficile raccontarsi ed essere semplici, comprensibili, ma, soprattutto, obiettivi, ma provarci può essere d'aiuto. 1999, 46 anni, diagnosi di Parkinson. 2007, intervento di stimolazione cerebrale. La malattia dopo otto anni cominciava a impedirmi di avere una qualità di vita accettabile; i movimenti involontari, le discinesie e le distonie mi negavano una vita sociale. Ho affrontato l'intervento con la piena consapevolezza che qualunque fosse stato l'esito, la mia malattia non sarebbe stata sconfitta, ma che una pezza, pur se temporanea, ce l'avrei comunque messa. Così è stato ed è tutt'ora a due anni dall'intervento.
Ma questa «manipolazione cerebrale» (perché anche questo è l'intervento di neurostimolazione cerebrale profonda), quanto ha influito sulla mia psiche, sul mio umore, sul mio modo di rapportarmi con gli altri? Certamente la domanda andrebbe posta anche a chi mi è vicino e condivide il mio quotidiano. Per quanto mi riguarda posso solo dire che diversa è la persona che prima affrontava con impeto, rabbia e, forse, incoscienza, il progredire della sua malattia, da quella che ora accetta supinamente, quasi con noncuranza, la propria condizione. Mia moglie, che lo è da 35 anni, mi dice che l'uomo che si trova vicino adesso, quasi senza stimoli, è molto diverso da quello di prima, che non voleva arrendersi.
È questa diversità che maggiormente la spiazza, che la fa soffrire per la mia mancanza di slanci, per la poca voglia di fare qualsiasi cosa, per la difficoltà che incontro nell'esprimermi verbalmente, per la non voglia di proporre qualcosa di piacevole o gratificante, come trovare la gioia di giocare con i nipotini. Tutto questo fa soffrire anche me perché ne sono pienamente consapevole, ma non riesco a fare diversamente; è come se dopo l'intervento mi sentissi svuotato. Nei mesi immediatamente successivi all'operazione, che è stata dura in quanto il tutto si svolge da sveglio, ho avuto una forte depressione che mi ha e ci ha completamente spiazzati; insieme l'abbiamo affrontata e sono uscito dal baratro che avevo davanti. Però, non sono più lo stesso; probabilmente gli elettrodi che mi hanno impiantato vanno a toccare delle aree del mio cervello che mi provocano questi effetti. La letteratura in merito a questo tipo di intervento è ancora troppo poca; lo si effettua da pochi anni.
Nonostante i cambiamenti che ha prodotto in me, credo che lo rifarei perché, d'accordo che, come ho detto, il mio carattere si è modificato in peggio, ma penso che anche il progredire della malattia, se non facevo l'intervento, mi avrebbe modificato e mi avrebbe, probabilmente, portato a chiudermi in casa. È indescrivibile quanto stai male quando non riesci a controllare i tuoi movimenti e sei completamente in balia del tuo corpo, ti senti come una marionetta, e questa non è vita. Ora almeno, pur con poca voglia di fare, esco, sto con gli altri ed ho una qualità di vita maggiormente accettabile. Spero che ci siano meno vincoli nella ricerca e che la cura con le cellule staminali possa essere meno lontana di quanto ora appare.

Corriere della Sera 15.3.09
Psichiatria
L'ecstasy utile contro lo stress post-traumatico

L'Mdma, molecola dell'ecstasy, può aiutare i pazienti colpiti da stress post-traumatico a migliorare la sicurezza emotiva, la capacità di tollerare i ricordi dolorosi e quella di elaborarli. I dati preliminari di due trial clinici in corso in Norvegia sembrano indicare la validità dell'approccio terapeutico di ecstasy abbinata a psicoterapia. La pillola dello sballo aumenta il rilascio di ossitocina, l'«ormone della felicità».
Inoltre la droga agisce in due regioni cerebrali, inibendo la risposta automatica alla paura e aumentando il controllo delle emozioni.

Corriere della Sera 15.3.09
Hiroshige, il monaco
di Giuseppe Conte


A cinquantanove anni, Hiroshige si ritirò dal mondo e divenne monaco buddista. Nel convento compiva riti silenziosi , meditava, pregava. Si era allontanato dalla realtà, lui che della realtà era stato il trascrittore più intenso e più lirico, con cui soltanto Hokusai, fra i pittori giapponesi, poteva reggere il confronto. Ma tutte le immagini che aveva colto e dipinto gli tornavano spesso alla mente. Nella quieta spoglia, rigorosa del convento, rivedeva il fiume Noji Tama, il fiume Mie, il lago Ashi, la sera che scese la neve a Kanbara. Rivedeva quelle onde del mare che a lui erano sembrate tutte fatte di vortici e di fiori, i ponti, i campi sferzati dalla pioggia, gli alberi leggeri e tremanti per il vento. Rivedeva i fiori di pesco su cui posava un passero alla luce della luna, il roseto sotto la neve su cui compariva, variopinta, una anatra selvatica. La natura, gli elementi, le stagioni: gli uomini non potevano che inscriversi nel loro ciclico divenire. Per questo li aveva sempre dipinti così minuti e leggeri. Quando si sentì morire, mormorò i versi di un
haiku, e vide finalmente con i suoi occhi la realtà che sta oltre la realtà, quella dell'eternità, del Paradiso. (Museo Fondazione Roma, sino al 7 giugno. Tel. 06/6975450)

l’Unità Firenze 15.3.09
Il Novecento ci parla con le opere di Modì e Dalì
di Gianni Caverni


Sono 130 gli oggetti d’arte esposti in Palazzo Pitti attraverso i quali i grandi del secolo scorso si confrontano con la grandezza dell’arte antica senza perdere un grammo della loro originalità.

Più di 130 opere al Museo degli argenti di Palazzo Pitti per testimoniare le «Memorie dell'antico nell'arte del Novecento», secondo appuntamento di «Un anno ad arte» organizzato dal Polo museale e dall'Ente CR di Firenze. Fra Picasso, Dalì, Modigliani, Severini, Morandi, De Chirico, Carrà e gli esempi antichi ci ha particolarmente colpito il Vaso ortogonale realizzato da Gio Ponti nel 1923: un esempio straordinario di armonia ed eleganza. Accanto i curatori, Ornella Casazza, direttrice del museo, e Riccardo Gennaioli, hanno messo il Pithos reticolato del VII secolo a.C. che ne è stato la fonte d'ispirazione. Fuori, davanti all'ingresso di Palazzo Pitti la sensuale grande bocca di bronzo di Mitoraj che da sempre dialoga con la scultura classica. «Solo il grande artista non teme il confronto col passato - ha detto Casazza - perché è in grado di accogliere e rielaborare senza timore la lezione degli antichi». Tema non nuovo, certo, ma qui affrontato attraverso lavori di alta qualità e un'importante sezione dedicata alle arti applicate, vetro, ceramica e oreficeria. La nascita dei desideri liquidi di Salvator Dalì, proveniente dal museo Guggenheim di Venezia, fa da logo alla mostra e da copertina del bel catalogo edito da Giunti. Davvero notevoli i De Chirico presenti in mostra e particolarmente interessante ci è sembrato il confronto che Salvatore Fiume, con la sua Cattura di San Francesco volle affrontare con la battaglia di San Romano di Paolo Uccello.
Aperto fino al 12 luglio.

il Riformista 15.3.09
«Berlusconi l'ha sparata. Ma Dario è veramente un catto-comunista»
intervista a Francesco Cossiga


Dossettiani, rodaniani, social-fascisti, clericali, progressisti... Guida esegetica nel mondo degli epiteti politologici e della loro storia. Con una preoccupazione reale per lo scadere del dibattito culturale e di quello intra-ecclesiale.

«Catto-comunista!» «Clerico-fascista!». Parliamo di epiteti politologici con un grande esperto del genere, il presidente emerito della Repubblica senatore

Catto comunista, un insulto o una medaglia?
Nelle intenzioni di Berlusconi sicuramente un insulto. Ma, forse senza saperlo, ci ha azzeccato. Lei però deve permettermi un po' di filologia storica introduttiva, perché ci sono i democristiani di sinistra, i cattolici comunisti, e i catto-comunisti e i dossettiani. I primi erano l'ala sinistra della Dc, la quale a sua volta si biforcava in sinistra sociale e sinistra politica. Della prima prima facevano parte Donat Catti e Marini, il filone Cisl, ed erano decisamente anti-comunisti. Donat Cattin è stato l'ideatore del famoso "preambolo". Nel congresso dc da cui Zaccagnini uscì sconfitto, io parlai a favore del centro-sinistra, Marini intervenne dopo di me chiudendo preventivamente al Pci, questo era il preambolo, e noi perdemmo. La sinistra politica è quella di Marcora, Martinazzoli, Misasi, De Mita, Galloni, mi ci infilo anch'io...
I cattolici comunisti...
Hanno origine storica dalla Resistenza, c'è una scuola romana (quella di Rodano) e una torinese, fatta di aristocratici (il capofila era il filosofo Felice Balbo). Questi cattolici erano dottrinalmente integrali e per motivi teorici e pratici accettavano il marximo come intelligenza della storia e paradigma dell'azione politica; quindi il marxismo storico, non quello dialettico. Rodano era infastidito da certe innovazioni del Vaticano II, lui era un tomista perfetto. I cattolici comunisti fondarono il Partito della sinistra cristiana, Pio XII li condannò e il filone torinese rientrò nei ranghi con un famoso articolo sull'Osservatore Romano che venne chiamato "La resa dei conti", alludento ai quarti di nobiltà dei sottoscrittori. I catto-comunisti ricordano invece i preti patriottici della Polonia e della Cecoslovacchia, per i quali, a parte errori dottrinali, il rinnovamento poteva venire solo dal comunismo. Dossetti invece pensava che il comunismo fosse un'eresia del cristianesimo, non era per niente comunista, la sua scuola potrei definirla quella dei "demoteocratici". Ricordiamoci che durante la Costituente si recava giornalmente in Segreteria di Stato vaticana a prendere ordini e istruzioni scritti e orali.
Invece Dario Franceschini?
Franceschini è stato il promotore dell'iniziativa dei 60 parlamentari cattolici contro il "Non possumus" della Cei sui Dico proposti dalla coppia Bindi-Pollastrini. Quando finì la Dc lui, in un primo momento, voleva confluire con i cristiano-sociali di Gorrieri nel Pds, è catto-comunista fin dall'origine; fu De Mita, il suo vero sponsor, che lo portò nel Ppi.
Allora Berlusconi ha ragione?
Se si priva la parola del suo carattere di insulto, sì. Dario è più a sinistra di Veltroni. Porterà il Pd nel Partito sociale europeo, cosa che Walter non avrebbe fatto.
Non è un dossettiano?
Dossetti, e con lui Prodi, avevano del popolo e della Chiesa una concezione leninista. Franceschini, l'ha ridetto l'altro giorno, pensa che un partito oltre e più che un programma politico debba avere un modello di società, e questo è tipicamente marxista.
Come in tutto questo gioca l'elemento religioso?
Rodano aveva un fermo senso della laicità e un altrettanto fermo senso dell'ortodossia. Franceschini ha un concetto di laicità nel senso di totale indipendenza sul piano politico, le dirò di più, nel Pd sta sorgendo la categoria dei clerico-democratici, con l'aspirazione di diventare un soggetto nella vita della Chiesa.
Il piano dello scontro si sposta.
È quello che io temo. Che lo scontro politico su temi come ad esempio il testamento biologico veda da una parte schierati i cattolici "progressisti" (categoria ad uso dei vaticanisti) alleati con i laici contro i cattolici "tradizionalisti" alleati con i laici devoti, e si radicalizzi in uno scontro intra-ecclesiale in chiave anti-ratzingeriana.
Non le sembra troppo?
I fatti di questi giorni lo documentano. Tutto si gioca nell'interpretazione del Concilio: di rottura o di rinnovamento nella continuità, come dice Benedetto XVI? Kung, la scuola di Lovanio (che da università cattolica ha cambianto il nome in "per i cattolici") e quella di Bologna, che da Alberigo è arrivata a Melloni, stanno dall'altra parte.
Dall'altra parte, in senso politico, c'è invece il "clerico-fascista" Berlusconi...
No. Qui Franceschini ha toppato. Perché Berlusconi non è né fascista né tantomeno clericale. Ricordiamoci che si è definito "eticamente anarchico". Quanto al "fascista", era proprio della Terza internazionale definire fascisti tutti gli avversari del comunismo, che avessero a che fare o meno col fascismo, basta ricordare l'accusa di social-fascisti riservata ai socialisti.
E il cattolico Cossiga dove si mette in queste diatribe?
Io le ho detto i miei timori. Pensi che mio figlio, che a Messa risponde in latino alle invocazioni in italiano del sacerdote, dubita che io sia pienamente nell'ortodossia. Se posso avanzare un'analisi vedo che dopo il Concilio la pastorale e la predicazione della Chiesa si è concentrata molto su temi sociali: la pace, il terzo mondo... ma pensi anche alla crociate contro la guerra di Giovanni Paolo II che certo non era un progressista. Ora si pone il problema delle priorità. Quando in America un prelato non voleva dare la comunione al cattolico Kerry candidato alla presidenza, il prefetto della Fede Joseph Ratzinger scrisse una lettera molto chiara ai vescovi Usa. E oggi c'è un certo imbarazzo per un'Amministrazione in cui l'esponente cattolico più alto in grado, il vicepresidente Biden, è dichiaratamente pro-choice. Certo, con la sua lettera ai vescovi del mondo Papa Benedetto XVI ha dato la dimostrazione di ciò che sia il coraggio dell'umiltà anche nel porre in luce, senza nominarli, gli errori e le manchevolezze di suoi collaboratori.

Liberazione 15.3.09
Ieri l'assemblea nazionale
"Rifondazione per la sinistra" rilancia su lista e congresso Prc
di A. D'A. L.


Una relazione, 25 interventi, una discussione politica approfondita sulle prospettive del Prc e della sinistra come della crisi economico-sociale. Dall'assemblea nazionale dell'area "Rifondazione per la sinistra", svoltasi ieri al Centro Congressi di Via dei Frentani a Roma, esce un'agenda che indica passaggi e avanza proposte su tutti e tre i terreni, cercandone l'intreccio a partire dal rilancio della "bussola" che, a partire dalla relazione di Augusto Rocchi, viene rivendicata come la linea di continuità con gli stessi contenuti della mozione 2 dello scorso congresso di Chianciano. Pur se è Rocchi stesso, che reinterviene al termine del confronto politico dell'assemblea non per «conclusioni formali» e che viene scelto quale «portavoce nazionale» di qui alle europee, a dire che quel congresso drammatico ha segnato «un dibattito falsato»: non a caso con la formazione di una maggioranza «solo sulla base della lotta a chi voleva "sciogliere il partito"». Un quadro che ora sarebbe «superato dai fatti». Stante che l'area "Rifondazione per la sinistra", appunto, ribadisce che la scelta di restare nel Prc - scelta che rivendica raccolta «fra gli iscritti» da circa il 70 per cento dell'ex mozione Vendola - non è «tattica ma strategica». Perché come dice intervenendo Rosi Rinaldi, che modera l'assemblea, «se restare nel partito significa non rassegnarsi alla morte del processo d'innovazione, significa anche non accettare di sostituirlo con l'improvvisazione»: indicata nella scelta operata dal "Movimento per la sinistra" di contribuire ad una lista, quella con Sd Verdi e Socialisti, definita da altri interventi «in dissolvenza dentro una collocazione moderata».
Questi dunque gli assi su cui muove la discussione, generando le proposte dell'area: riaprire «un processo costituente della sinistra» ma «di carattere federativo», obiettivo «tanto più necessario» dopo le europee che si affrontano senza unità e che avrà «più forza» con un «successo della lista a partire dal simbolo del Prc-Sinistra europea», cioè con una presenza «alternativa» nella rappresentanza; e «dare vita ad un movimento di comitati di lotta contro la crisi». Con premesse politiche nette, però: per le elezioni, il vincolo del simbolo del partito, l'indicazione non solo del gruppo del Gue ma del Partito della sinistra europea e soprattutto l'«effettività dell'apertura delle liste ai movimenti, all'associazionismo, alle realtà di lavoro della sinistra sociale, ambientalista, femminista» - oltre al fatto che Rps ricandida Giusto Catania in un posto da capolista. E poi, passaggi conseguenti in prospettiva: un «patto di lavoro» (di eco bertinottiana) «di tutta la sinistra» da elaborare eleggendo a «sede comune» una o più tra le fondazioni di ricerca presenti, non necessariamente legate ai partiti; e dentro il Prc la richiesta di «avviare il percorso verso un congresso» che ridefinisca linea politica e rapporti interni ed esterni.
Non a caso l'assemblea serve anche a registrare le proposte nominali per le integrazioni nel Comitato politico nazionale necessarie dopo la «diaspora», che portano l'area al 31 per cento riconosciutole. Criteri: l'equilibrio di genere (oltre a 2 presenze per i Gc); e «la scelta effettuata dai territori» - da cui si forma anche il «coordinamento provvisorio» di portavoce e dove Rps ha 25 segretari di federazione e 4 regionali, ad oggi.

sabato 14 marzo 2009

Repubblica 14.3.09
"Costituzione minacciata, muoversi ora"
Allarme di Libertà e Giustizia. A Milano Zagrebelski cita Levi: se non ora quando?
di Cinzia Sasso


MILANO - «Se non ora, quando?». Va a Primo Levi, e alla citazione che ne fa il presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelski, il primo applauso della serata milanese di Libertà e Giustizia. «Le tragedie accadute in Europa nell´ultimo secolo sono state la conseguenza della tendenza a spostare i problemi di un giorno avanti. C´è l´esigenza forte di aprire gli occhi subito». «Rompere il silenzio», dunque, che è il titolo dell´appello in difesa della Costituzione che l´associazione ha presentato ieri sera qui, che i suoi circoli stanno illustrando in tutta Italia e che ha raccolto su internet oltre 200mila firme. Nomi di persone, dice Zagrebelsky, che di LeG è il presidente onorario, che non avremmo mai pensato di vedere nei nostri elenchi, «segno di un bisogno forte di riconoscersi, e di immaginare anche che cosa fare da adesso in poi».
Accanto a Zagrebelsky ci sono Giovanni Bachelet e l´economista Salvatore Bragantini; in prima fila Gae Aulenti e Maurizio Pollini; tra il pubblico tante facce note ma anche tantissimi cittadini qualsiasi. Perché - come dice Sandra Bonsanti, presidente di L&G - oggi l´allarme è altissimo e non passa giorno che la cronaca politica non faccia registrare nuove punture di spillo contro la Costituzione: «La democrazia è in bilico e i rischi che la carta fondamentale sia stravolta, in un momento come questo in cui sommano crisi economica e istituzionale, si fanno sempre più elevati». Un elenco infinito di diritti violati, dalla giustizia uguale per tutti al diritto di fine vita, dalla salvaguardia del paesaggio alla corruzione, dal diritto di cronaca al disprezzo della legalità e dell´uguaglianza.
Da dove cominciare, allora? Forse da una vignetta di Ellekappa, che riesce a far sorridere pur con parole terribili: «La crisi deve essere più grave di quello che sembra»; «Berlusconi sta pensando di licenziare il Parlamento». Ed è con quella sintesi che apre il "libretto nero" di Libertà e Giustizia, un ciclostilato come si faceva ai vecchi tempi, riassunto di undici mesi di dichiarazioni, disegni di legge, proposte, piani per la sicurezza, decreti. A volte solo parole, altre realtà: dai militari per le strade ai medici che dovrebbero denunciare i clandestini. Uno scambio di battute che è un campanello d´allarme: tanto che la proposta di Berlusconi sul voto solo ai capigruppo pochi anni fa sarebbe sembrata una battuta e oggi, conclude Zagrebelsky, sembra l´esito finale di uno stato di cose.

l’Unità 14.3.09
Conversando con Giovanni De Luna
«Berlusconi ha fastidio fisico per la democrazia, e questo Pd non sa arginarlo sul territorio»
di Bruno Gravagnuolo


Sospendo il giudizio sul Pd. E con tutta la simpatia per Franceschini, non basta un buon risultato alle europee per dare ruolo e identità a un partito inadeguato a fronteggiare la crisi e la realtà di un premier che mostra fastidio fisico per la democrazia». Parole nette quelle di Giovanni De Luna, 65 anni, storico contemporaneo a Torino. Studioso di azionismo, fascismo e leghismo. E niente sconti al Pd, alla cui nascita De Luna ha sempre guardato con favore, in nome del «superamento delle ideologie novecentesche». Oggi però la destra dilaga, sull’onda di mutamenti globali che la flebile sinistra di oggi per De Luna non è in grado di cogliere, con la malcerta identità di questo Pd. Ma quali sono i mutamenti e quali risposte ci vogliono?
Professor De Luna, Italia tra paura dello straniero e depressione economica. Con una destra che si candida a custode autoritaria del paese. Può farcela questa destra a stravincere e a cambiare la nostra democrazia?
«Partirei dalle viscere della società. E dalla crisi economica, l’aspetto più clamoroso di un passaggio epocale. Mai in Italia ci siamo misurati con quanto accade oggi: l’irruzione dell’Altro, dello straniero. Prima, nel novecento italiano, era qualcosa di esotico. O di razzialmente stereotipato. Oggi l’Altro condivide lo stesso spazio simbolico di relazione. Qualcosa di sconvolgente. Di qui paura e aggressività, che nascono dal non aver elaborato un vero modello di convivenza civile. Irrompono gli istinti peggiori. E quello delle ronde è un segnale di gravità estrema: la rinuncia al patto di cittadinanza. La fine del monopolio legale della violenza. Per farsi giustizia da sé».
Baget-Bozzo scrive che Berlusconi introduce una cittadinanza costituzionale di nuovo tipo: nazionale e tradizionalista. Che ne pensa?
«Da parte di Berlusconi è la rinuncia a salvaguardare uno spazio istituzionale e civico entro il quale la vendetta e la faida vengano arginate e inibite, in nome di una condivisione pubblica e universalista. La democrazia infatti è il territorio di questa condivisione, che se viene meno cancella la democrazia. Il punto delicato da chiarire è se ciò appartenga o meno a un codice genetico del nostro popolo. Ebbene, quando Gobetti parla di fascismo come “autobiografia della nazione”, densa di tutte le meschinità, i clientelismi e i reazionarismi italici, supera sia l’idea del fascismo come parentesi, che quella di esso come reazione di classe. Tutto giusto e attuale. E però in Gobetti e Rosselli c’è anche l’invettiva contro il ceto politico, liberale e socialista. E contro la sua incapacità di rappresentare le masse. Niente di ineluttabile in quella denuncia contro l’Italia profonda. Ma indignazione contro una classe politica imbelle che crolla di fronte al fascismo. Ed ecco il parallelo: prima del voto del 2006 la sinistra aveva dieci punti di vantaggio contro Berlusconi. E ancora oggi il centrosinistra governa in 3.500 comuni su 5000. Insomma la destra non è invincibile, e non riflette in modo marmoreo un’Italia destrorsa e immodificabile. E allora c’è il problema dei guasti e dei limiti del ceto progressista oggi. Della mancanza di esempi e di pedagogia civile, per arginare la corrente negativa. E senza antidoti virtuosi e alternativa di stile politico non c’è speranza».
Non crede che il gobettismo virtuoso e antisocialista abbia dato una mano all’antipolitica ieri, proprio come ha fatto oggi un certo nuovismo maggioritario a sinistra?
«No, penso che quella critica gobettiana di ieri fosse valida. E che oggi come ieri la classe politica di sinistra sia responsabile di aver dilapidato un patrimonio di consensi, in grado di contrastare la destra profonda. Il Paese si è schierato a destra più per delusione verso la sinistra, che non per adesione alla destra. Mi rifiuto di pensare che gli italiani siano per natura egoisti e razzisti. È un discorso che non porta da nessuna parte».
Il deficit della sinistra non nasce anche dal crollo di ogni appartenenza e identità, oltre che dal mito di una classe politica scissa da ogni rappresentanza sociale?
«La difficoltà nasce dalla incapacità di rielaborare tradizione e categorie di pensiero a sinistra. Ad esempio in relazione al territorio. Per tutto il 900 la sinistra non ha mai visto il territorio, perché ai suoi occhi era solo un’appendice della fabbrica...».
In realtà socialisti e comunisti legavano fabbrica, territorio e ceti medi, dalle cooperative alle piccole imprese...
«Fino a un certo punto e non sempre. A Torino la centralità era quella della grande fabbrica, che ha messo sempre l’imprimatur su tutta la tradizione del movimento operaio italiano. Il territorio non è mai stata una risorsa identitaria, ma una mera articolazione. La destra invece ha sempre contemplato la legge del suolo e del sangue, fino alle versioni leghiste di oggi. Bisogna ripartire di qui, dal mutamento del conflitto, non più come un tempo ancorato a un progetto generale di società. Oggi i conflitti sono svincolati da ogni orizzonte globale: si esaurisco dentro i singoli segmenti. E poi sono arrivati nuovi soggetti sociali. Nuove clientele, lobby, nuove filiere del consenso sul territorio. E inedite figure del lavoro. Vince la “gelatina” non più egemonizzabile di cui parlava Augusto Monti, il maestro di Gobetti. Ovvero, la massa informe che la fa da padrona e sceglie la destra».
Rilanciare progetti e identità muovendo dai territori. E questo il compito della sinistra?
«Certo, e proprio per unificare tutti i conflitti. Ma prima occorre anche ridefinire tutti i concetti: territorio, lavoro, guerra, impresa. Cose profondamente mutate e inafferrabili. La sinistra è stata succube della continuità, teoricamente e politicamente. Mentre la destra ha dato sfogo alla discontinuità priva di forma. Le ha dato un nome, assieme alla Lega. E il risultato è stata una deriva preoccupante, un esito plebiscitario temibile per le sorte della nostra democrazia».
Ma Obama - che rivisita Keynes e ruolo dello stato dal lavoro ai consumi- non offre una sponda neonovecentesca alla riscossa della sinistra?
«Sì, però la dimensione culturale è profondamente diversa, ecco il punto. In fondo, dai fascismi a Stalin e al New Deal, le ricette erano simili: lavori pubblici. La differenza stava nell’involucro culturale e politico attorno alle ricette, nelle forme di regime. Un conto erano le autostrade di Hitler, altro i lavori della Tennesse Valley. Anche oggi contano le differenze culturali, pur nella similarità del ruolo dello stato. E lo specimen culturale di oggi è l’inclusione di cittadinanza, l’allargamento dei diritti. Oltre ai settori nuovi nei quali Obama interviene: formazione e ambiente».
Torniamo in Italia. Come vede il Pd tra il prima e il dopo elezioni europee? Resisterà, crollerà, o si trasformerà?
«Ho sempre temuto una fusione tra stati maggiori politici. Dove l’ala Ds ha funzionasse come vettore passivo dei consensi, in alleanza con una Margherita particolarmente clientelare al sud. Le cose sono andate proprio così, e il famoso amalgama non è riuscito. In realtà un vero partito nasce più da una scissione che da una fusione, come insegnano la storia del Pci e quella fallita dell’unificazione socialista. Perciò, a questo punto, meglio non esorcizzare una possibile scissione. Che veda dentro il Pd la parte meno identitaria di Rifondazione. E fuori, la parte meno laica e più centrista. Insomma, quel che conta è una nuova e più autentica identità. Un respiro e una visione generale, che sappiano parlare al paese in crisi».

l’Unità 14.3.09
Telefono Rosa, aumentano le denunce: nel 63% dei casi
il «mostro» è il marito o l’ex
di Mariagrazia Gerina


Violenze in aumento. Ma solo due vittime su cento raccontano di essere state violentate da uno sconosciuto. E anche la crisi economica, dentro le mura domestiche, rischia di trasformarsi in un fattore scatenante.

Luciana, la chiameremo così, vive a Guidonia. Un posto alle porte di Roma ormai associato alla violenza di cui quattro rumeni in branco sono stati capaci. Il mostro, però, Luciana (41 anni, un figlio di 13), ce l’ha dentro casa: è italiano, operaio, licenza media. Suo marito. Fuori, si comporta come una persona normale. Dentro le mura domestiche, invece, usa violenze di ogni tipo: fisiche, psicologiche, sessuali. Lei, che è più istruita e lavora come impiegata, ha sopportato tutto, per anni. «Cosa l’ha spinta?». «Vergogna e debolezza», ha risposto il 14 gennaio quando ha detto basta e si è rivolta al Telefono Rosa.
Le volontarie di Telefono Rosa - un appartamento a Roma dove le vittime di violenza (di tutta Italia) possono trovare assistenza psicologica, umana e legale, telefonica o di persona - di storie così nel 2008, il ventesimo dell’associazione diretta da Maria Gabriella Moscatelli, ne hanno raccolte 1744: 4-5 donne che ogni giorno cercano aiuto, 300 in più dell’anno precedente, a evidenziare un aumento del fenomeno violenza.
Italiane (1452), straniere (287). Casalinghe e libere professioniste, istruite e no. Solo 2 ogni 100 raccontano di essere state violentate o molestate da uno sconosciuto. Tutte le altre l’autore della violenza lo conoscono bene. È l’uomo che hanno sposato: nel 53% dei casi è il marito, nel 10% l’ex marito, che non smette di tormentarle. Oppure, in un altro 9% di casi, è comunque l’uomo con cui convivono o l’ex convivente (5%). E ancora: il fidanzato, il padre, il figlio, il fratello, un parente, insomma (9%). E non c’è differenza in questo tra donne italiane e donne straniere. Se non che nel 54% dei casi le straniere sono sposate con un marito italiano.
È questa l’Italia che fotografa Telefono Rosa. Un paese in cui è la casa «il luogo meno sicuro per le donne», dove le vittime vivono a contatto quotidiano con il violento (che con il resto del mondo nel 67% dei casi si comporta come una persona normale) e dove le donne, che subiscono nell’81% dei casi una violenza ripetuta e ciclica, si sentono ancora più sole. Per questo molte di loro hanno più di 35 anni: aspettano che i figli crescano per ribellarsi. «La donna stuprata per la strada», spiega la vicepresidente Paola Lattes, «ha meno paura a denunciare perché non conosce lo stupratore: denunciare tuo marito è molto più difficile». Spesso a ingabbiarle è anche il ricatto economico. Il 35% ha lasciato il lavoro dopo il matrimonio. Le casalinghe (22%) e le disoccupate (15%) sono in aumento e sono più delle libere professioniste (5%). E la crisi - avverte Telefono Rosa - rischia di abbattersi su di loro. «Dai racconti emerge molto chiaramente, spesso la violenza scatta proprio quando i soldi non bastano».

Repubblica 14.3.09
A chi appartiene la mia vita
di Corrado Augias


Gentile Augias, leggo sgomento che la terribile legge sul testamento biologico proposta dal relatore Calabrò non sarà modificata nelle parti più importanti. Ne deduco che, pur essendo in grado di intendere e di volere, non potrò decidere di sospendere la nutrizione forzata (come se non fosse una cura).

Credo di essere un buon cittadino, ho cominciato presto a lavorare, mi sono pagato gli studi, ho fatto scelte che considero «etiche» (sono vegetariano), mi sono sbattezzato per sentirmi culturalmente libero. Ho sempre pensato di essere padrone di me stesso. Mi rendo invece conto che non lo sono. Non posso decidere, in caso di malattia grave, di morire con dignità. Non posso decidere (o delegare per me qualcuno), in caso di coma irreversibile, di far sospendere l'alimentazione. Allora le chiedo: a chi appartiene la mia vita? Visto che in questo paese non posso decidere di tutelare le mie decisioni, chiedo, apertamente e con forza, alle persone che mi amano di fare di tutto, nel caso finissi come la povera Eluana, per porre fine alla mia esistenza. Non posso accettare che la Chiesa o i politici tengano in pugno la mia vita.
Marino Buzzi aracno76@libero.it

La mossa di sostituire il prof Ignazio Marino con l'ondeggiante Dorina Bianchi nella commissione senatoriale che ha preparato le norme base per il testamento biologico, s'è dimostrata una sciagura. La lettera del signor Buzzi, che faccio mia, ne dà testimonianza. In una precedente legislatura era stata approvata un'altra legge, quella sulla procreazione assistita, ugualmente dettata dalla più angusta ideologia. Questa sulla Dat (Dichiarazione anticipata di trattamento) sarà peggio. Vero che in un caso e nell'altro si può andare quasi ovunque fuori d'Italia ma, a parte i soldi, un conto è andare per far nascere una vita, uno ben diverso far viaggiare una persona molto malata. Solo l'umiliazione, il peso di una cittadinanza mutilata, è uguale. La discussione in aula avrà un esito che considero scontato. L'orientamento di alcuni cattolici `non adulti' è evidente al di là di ogni ipocrisia. La destra, che non ha grandi idee al riguardo, si allineerà obbediente. Resta, annuncia già il senatore Marino, il referendum abrogativo. Ne diffido. Quando ci fu quello sul divorzio, la campagna era del tipo: «Donne, attente, i vostri mariti vi lasceranno, fuggiranno con le ballerine». Questo sarebbe: «Anziani attenti, i vostri figli vi uccideranno per rubarvi l'eredità», o qualcosa del genere. Troppe sono le persone largamente disinformate sulla elementare posta di libertà in gioco in un paese che di libertà non ne ha mai conosciuta molta. Sarebbe una campagna arretrata, per un paese arretrato.

il Riformista 14.3.09
Testamento biologico
Nel Pd c'è chi pensa sia cosa da «suffragette»
di Mario Ricciardi


L'incontro sul testamento biologico promosso da Libertà Eguale poteva essere un'occasione per fare il punto della situazione al termine del primo blocco di votazioni sulla legge, che sono in corso presso la commissione Sanità del Senato. In realtà, è stato più di questo. Dagli interventi è venuta fuori in controluce la diagnosi di una crisi ideale da cui non è chiaro se, e in che modo, il Partito democratico sia in condizione di uscire. Ma andiamo con ordine. In primo luogo i fatti più significativi. Sotto questa rubrica metterei certamente l'intervento di Anna Finocchiaro. Per la capogruppo del Pd al Senato quello che ormai si avvia a essere approvato è un testo «orrendo» che segna un arretramento rispetto all'art. 32 della Costituzione, finendo per vanificare la libertà di scelta in materia di trattamenti sanitari che costituisce una conquista della cultura liberale. Le riflessioni della Finocchiaro sono state la lucida e spietata ammissione di una sconfitta, resa ancora più bruciante dalla constatazione che l'idea che i cittadini dovrebbero avere l'ultima parola per quel che riguarda i trattamenti cui vengono sottoposti non è condivisa dalla gran parte dei parlamentari, e forse non è maggioritaria nel Paese. Dal testo in corso di approvazione viene fuori una concezione diversa, che vede nel medico il depositario di un potere di valutazione delle disposizioni anticipate che configura un "living wish" piuttosto che un "living will". La manifestazione di un auspicio, non l'esercizio di un diritto. Un giudizio del tutto negativo, quello espresso dalla Finocchiaro, che non trova ragioni di conforto nemmeno nel fatto, richiamato nel suo intervento da Stefano Ceccanti, che il testo approvato contiene modifiche rispetto a quello originariamente proposto da Calabrò, che aveva un'impostazione ancora più restrittiva, fino al punto di escludere completamente la libertà di scelta. Ceccanti ha osservato che il nuovo testo tutela la libertà di scelta dei pazienti coscienti, attraverso la disciplina del consenso informato. Un giudizio quindi che, al contrario di quello della Finocchiaro, vede la legge in corso di approvazione come un passo avanti rispetto alla proposta Calabrò.
Non c'è dubbio che, sulla base di una lettura del testo, le considerazioni di Ceccanti appaiano condivisibili. Tuttavia, una perplessità rimane, e porta a comprendere il pessimismo espresso dalla Finocchiaro e non smentito del tutto dallo stesso Ceccanti, che ha rilevato che l'impossibilità di disporre anticipatamente dell'alimentazione e dell'idratazione, e la mancata previsione di un vincolo di rispettare le disposizioni anticipate per la struttura sanitaria, sono probabilmente in contrasto con la Costituzione. Ciò che evidentemente non c'è nella legge è il riconoscimento di principio del diritto di ciascuno di disporre della propria vita, e di chiedere che essa non venga sostenuta artificialmente quando ciò sia contrario alla propria valutazione di ciò che vuol dire vivere - ma forse in questi casi si dovrebbe dire "sopravvivere" - in modo dignitoso. Un diritto che, è bene sottolinearlo, è compatibile con la previsione di strumenti di tutela dei soggetti deboli e di riconoscimento di un favore presuntivo nei confronti della vita che anche diversi liberali hanno invocato. L'art. 1 che sancisce l'indisponibilità - e non solo l'inviolabilità - della vita, e il 3, che esclude la possibilità che alimentazione e idratazione possano essere oggetto di disposizioni anticipate, non consentono equivoci a riguardo. Una volta approvata, la legge in discussione al Senato impedirebbe a ciascuno di noi di chiedere di non essere tenuto in vita indefinitamente in situazioni come quella in cui si è trovata per tanti anni Eluana Englaro. Su questo punto, l'arretramento di cui parla la Finocchiaro rispetto all'interpretazione della Costituzione proposta da due sentenze della magistratura c'è, e non credo si possa negarlo. Chi voleva dal Parlamento una sconfessione della giurisprudenza sul caso Englaro può ben dire ai suoi referenti d'oltre Tevere: «Missione compiuta».
Rimane aperta la questione di quale sia, e se ci sia, una posizione del Pd sul testamento biologico, e più in generale sulla libertà di scelta dei cittadini in materia di trattamenti sanitari, quando non ci siano in gioco considerazioni di salute pubblica. Evidentemente non quella della Finocchiaro. Ma allora quale? Dal tentativo di trovare un compromesso sul testo della legge viene fuori una concezione ancora paternalista della medicina e dei rapporti tra medico e paziente, che considera le rivendicazioni di libertà individuale come fastidiose stravaganze di "suffragette" - come ha detto un autorevole esponente del partito nel corso del dibattito. Forse i liberali devono rassegnarsi, ma sarebbe interessante sentire cosa ne pensa la nuova direzione del Pd.

Repubblica 14.3.09
Uniti alle europee Vendola, Sd e Ps Englaro testimonial


ROMA - Intesa a sinistra per presentarsi uniti alle europee. Sinistra democratica, Verdi, Partito socialista, Movimento per la sinistra e alcuni esponenti dell´ex Pdci saranno nella stessa lista unitaria che si chiamerà "Sinistra e libertà". Un cerchio per metà rosso e per l´altra metà bianco, con all´interno i simboli dei quattro partiti, sarà il logo. È piaciuto a tutti i leader, a Grazia Francescato, Claudio Fava, Nichi Vendola, Riccardo Nencini e a Umberto Guidoni e Katia Bellillo, ex Pdci ora di Unire la sinistra. Il simbolo sarà presentato lunedì, ma il patto è stato fatto. E avranno anche una sede comune e un portavoce. E come testimonial per i socialisti ci sarà Beppino Englaro, il papà di Eluana.
Vendola attacca il Pd: «Vogliamo rimettere in piedi la sinistra che non se la cavi con l´opposizione da talk show che si vede nel Pd». E su Franceschini: «È sicuramente più brillante del suo predecessore, Veltroni, non ci voleva un grandissimo sforzo. Il problema è che le proposte sembrano partire nella direzione giusta ma poi non colpiscono al cuore».

Corriere della Sera 14.3.09
Europee
Englaro testimonial di «Sinistra e libertà»
di A. Gar.


ROMA — Beppino Englaro, il papà di Eluana, sarà testimonial della lista per le elezioni europee «Sinistra e libertà», formata da Movimento per la sinistra (Vendola), Sinistra democratica (Fava e Mussi), Verdi, Partito Socialista e gli ex Pdci di Unire la Sinistra (Bellillo e Guidoni). Englaro ha aderito al Ps, non sarà candidato, ma prenderà parte alla manifestazione di presentazione di «Sinistra e libertà» il 21 marzo, a piazza Farnese.
Non nasce un partito, ma più di un cartello elettorale. Dopo le elezioni da qui si ripartirà per creare un partito di sinistra, laico ed ecologista. Il simbolo, rosso e verde, avrà in un cerchio le parole «Sinistra e libertà» e conterrà anche i segni dei Verdi, del Gue e del Pse, gruppi europei della sinistra e dei socialisti. Gli eletti di «Sinistra e libertà» (se si supera lo sbarramento del 4%) andranno infatti a collocarsi in tre diversi gruppi a Strasburgo.
Restano fuori dall'alleanza i radicali, che i socialisti avrebbero voluto al fianco, ma che Vendola ha bloccato. Marco Pannella però potrebbe entrare in lista senza il partito alle spalle. Fra i candidati dovrebbero esserci i leader e i deputati europei uscenti Musacchio (ex Prc) e Fassoni (Verdi), mentre sono ben avviati i contatti con nomi celebri, come Antonello Venditti, Margherita Hack, Mimmo Calopresti. A sinistra ci sarà anche la lista di Rifondazione comunista, con il Pdci di Diliberto e Sinistra critica di Franco Turigliatto. L'unica lista con falce e martello.

Liberazione 14.3.09
Dibattito con Bertinotti, Castellina e Tronti
Ex vendoliani nel Prc: critica all'identitarismo


Di come «stare» nel partito, di cosa fare subito dopo il voto, ne discuteranno stamattina. E già si sa che proporranno un congresso straordinario, dopo la tornata elettorale. Dove (re)immaginare le possibili forme di unità della sinistra. Questo farà quella parte di Rifondazione che a Chianciano votò la seconda mozione ma che ha scelto, a differenza di Vendola e di tanti altri, di restare nel partito di Ferrero e Grassi. Ma tutto ciò riguarda l'orizzonte dei prossimi mesi. Con un problema, però. Che oggi la sinistra deve misurarsi con questioni gigantesche e per molti versi inedite, oggi la sinistra deve fare i conti con un vuoto enorme: il suo. Una «terribile assenza», come è stato detto: non c'è sinistra davanti a questa crisi.
Ecco perché l'area della «Rifondazione della sinistra» del Prc prima di dar vita all'assemblea di stamattina ha voluto, ieri pomeriggio, confrontarsi con esponenti delle culture, dei movimenti che animano la sinistra.
Una sorta di seminario-assemblea che non ha prodotto conclusioni. Nel senso tradizionale della parola. Anzi, a voler fare i pignoli, ha riproposto quasi in ogni intervento una diversa prospettiva, una diversa spiegazione dei perché del fallimento della sinistra in questo avvio di millennio. L'unico elemento in più è la voglia - dichiarata da tutti, ma proprio da tutti tutti - di cercare lo spazio, le sedi per avviare una ricerca comune. Fatta insieme.
Scorrendo gli appunti della giornata, in realtà, viene fuori un altro elemento che accomuna gran parte dei partecipanti alla tavola rotonda: una critica, dura, profonda, quasi spietata, alle forme tradizionali in cui si è organizzata la sinistra. Al suo attaccamento ai simboli, a tutto ciò che antepone l'«identità» alla ricerca di soluzioni nuove.
Si parte comunque dalla crisi. Stefano Zuccherini - che, detto per inciso, comincia con un'«autocritica»: troppo poco hanno fatti tutti, compresa quest'area, per arrivare ad una lista unitaria per le europee - parte da un dato: la previsione degli organismi internazionali secondo i quali la crisi, fra i suoi effetti, avrà anche quello di far crescere la mortalità infantile. Da un milione e mezzo a tre milioni di bambini in più. Parte da qui, per denunciare come la crisi finanziaria porti con sè i rischi di una crisi di civiltà, di democrazia. E spiega come, nel nostro paese, tutto sia funzionale al progetto delle imprese: uscire dal tunnel, liquidando definitivamente tutto ciò che resta di conquiste del lavoro.
Di conquiste del lavoro. Ma anche di conquiste in termini di diritti individuali. Vogliono uscire dalla crisi liquidando tutto ciò che hanno prodotto i pensieri critici nei decenni scorsi. E il tutto, aggiunge Bianca Pomaranzi, esponente dei movimenti femministi e pacifisti, nella completa abulia della sinistra. Lei, anche lei, è convinta della necessità di arrivare a disegnare un nuovo soggetto politico. Lei, anche lei, è convinta che la prospettiva di una sinistra radicale, di massa capace però di leggere la contemporaneità, sia uscita sconfitta dagli «orribili congressi dell'estate scorsa». E ora si augura solo che «passi la nuttata».
Già, ma come? Luciana Castellina crede che sia necessaria una nuova idea forza: e la intravede in un nuovo modello economico. Che ripensi il rapporto fra uomo e natura. E incalza: la Cgil, l'ultimo baluardo di opposizione, ha presentato pochi giorni fa, un progetto di lavoro scritto assieme alla Legambiente. A discuterne non c'era però un dirigente della sinistra che fosse uno, pronti invece a farsi i loro bei convegni di partito sull'argomento. Anche Mario Tronti, il filosofo dell'operaismo, un'idea ce l'ha. In pillole: cogliere le potenzialità della crisi. Innanzitutto lui teme che ad un comportamento sbagliato di sottovalutazione della crisi ne corrisponda uno analogo. Ugualmente errato: la sua enfatizzazione. «Dobbiamo pensare che il nostro obiettivo è il superamento di quest'ordine e quindi non spaventarci del disordine». Tronti è convinto anche che - ironia della sorte - questa crisi riconsegni alcuni degli elementi del '900: il ruolo dello Stato, il ruolo della politica. E quindi il ruolo della sinistra.
E' un'analisi esatta? Fausto Bertinotti la pensa esattamente al contrario. Crede che la sconfitta della sinistra non abbia motivi contingenti, meglio: non solo motivi contingenti, ma venga proprio da lì: dal '900. Ma tutto ciò può e deve essere approfondito insieme. Come? Bertinotti propone tre cose da fare. Subito. Stare nelle lotte: che non vuol dire partecipare ai cortei o dare solidarietà. Significa andare a capire perché i movimenti sociali di questi mesi scelgano l'«indipendenza» dalla politica. Significa stare nei movimenti. Secondo: varare un piano per il lavoro. Terzo: andare alla ricerca delle origini della crisi. E scoprire che il dramma di questo periodo non è un frutto accidentale del liberismo. E' la sua essenza. Comprenderlo, significherebbe già aver ridisegnato la sinistra. O almeno aver fatto tanta parte di quel lavoro.

il manifesto 14.3.09
Paolo Ferrero è on line.
Le risposte ai nostri lettori
di Iaia Vantaggiato


L'argomento riguardava Dario Franceschini e la sua proposta di tassare, una tantum, i redditi più alti. Ma nel mirino è finito soprattutto Paolo Ferrero. Molti dei post inviati a commento del nostro articolo sulla proposta Franceschini, infatti, se la sono presa con il segretario del Prc e con le critiche da lui rivolte al collega segretario del Pd. Per l'occasione, gli internauti del “manifesto”, hanno coniato un brillante neologismo - “benaltrismo” - per definire l'abitudine a disprezzare ogni piccolo passo impugnando la necessità di fare molto di più: “ben altro”, appunto. Inevitabile, dunque, chiedere anche al leader del Prc, oltre che a quello del Pd, di rispondere direttamente alle critiche. Ferrero ha risposto subito. Fanceschini è titubante, ma lo attendiamo fiduciosi.
Cosa risponde Paolo Ferrero a Roberto Grienti, che per criticare Ferrero risale addirittura al Lenin secondo cui “tutto ciò che riusciamo a strappare alla borghesia lo pigliamo come acconto di quanto ci è dovuto”? A mettere in discussione Lenin, il segretario di Rifondazione comunista non ci pensa neppure. Però precisa: “L'elemosina è meglio di un calcio nello stomaco ma la pesantezza della crisi è tale che, se anche una proposta di questo tipo fosse realizzata, avrebbe effetti limitati. All'origine della crisi c'è la cattiva distribuzione del reddito.Per uscirne è necessario proporre misure continuative e non la solita 'una tantum'. Essere solidali con i più poveri non basta”.
Ma sul leader rifondatore piovono accuse ben più pesanti, prima fra tutte quella di essere stato succube di Padoa Schioppa e “della scellerata politica antipopolare del governo Prodi”. La risposta, qui, è immediata: “Ho sempre contrastato le politiche di liberismo moderato del governo, tant'è che non ho votato il Dpf , nemmeno quello del 2006. Ma ci tengo anche a sottolineare che non è vero che Rifondazione, come dice qualcuno, si è pronunciata contro il salario sociale ai disoccupati. Al contrario: l'abbiamo riproposto. E tuttavia, almeno in parte, condivido la provocazione implicita nell'accusa: la nostra partecipazione al governo Prodi è stata fallimentare proprio perché non siamo riusciti a far rispettare il programma e dunque a ottenere risultati concreti”.
Fede (si firma così) giura di “non capire” Ferrero: “Non gli è bastata la batosta elettorale? Devono sempre rilanciare perchè loro sono 'veramente' di sinistra? Questo è il modo per ricevere il massimo consenso con una richiesta popolare ma non troppo onerosa. Ma a noi di sinistra ci fa veramente schifo vincere?”. “Ma Berlusconi – risponde Ferrero - ha fatto il contrario”. Il contrario? “Certo, ha fatto cose molto più radicali, dalla legge 30 al federalismo alla demolizione del contratto nazionale di lavoro. Berlusconi si muove in modo più radicale e, sul terreno minimalista, vince perché non c'è differenza tra la proposta di Franceschini e la 'social card', neanche dal punto di vista quantitativo. Lo voglio ripetere: sulla gestione minimalista della crisi vince Berlusconi perché è il più radicale. Quanto alla batosta elettorale, secondo me è derivata dal non essere riusciti a portare a casa nulla nei venti mesi del governo Prodi”.
Sia chiaro, c'è anche chi, come Ida, concorda con la tesi di fondo del segretario di Rifondazione: “Anch'io sono convinta, come Ferrero, che sono indispensabili riforme strutturali”. Però, aggiunge, “ci sta cadendo addosso qualcosa di talmente grande e spaventoso che qualunque misura va bene. Quella di Franceschini “in fondo è una proposta che toglie ai ricchi per dare ai poveri”. Insomma, come commentava Alberto Piccinini, sulle pagine del manifesto di oggi, “E' finito il tempo del benaltrismo”. Benaltrismo? E che vuol dire? Lo spiega, tra gli altri, Guido: “Bravo Ferrero, continua così, 'il problema è un altro', bisogna sempre sentirsi più a sinistra degli altri, oltre, nel blu dipinto di blu”. Ma Ferrero si sente almeno un po' 'benaltrista'? Proprio no: “Io penso solo che bisogna porre in modo radicale il tema della redistribuzione del reddito, magari ottenendo risultati limitati ma avendo sempre chiara la grandezza del problema. Questo voi lo chiamate 'benaltrismo'?” Scusi segretario, ma per una volta siamo innocenti: il termine l'hanno coniato i nostri lettori.
Neologismi a parte, c'è davvero una differenza rilevante tra quel che fa la Rifondazione di Ferrero e la proposta del segretario piddino? In fondo, chiede Adolfo Miglio, “cosa voleva fare lui di diverso con la vendita del pane ad un prezzo politico?” . “In quell'iniziativa – risponde il segretario di Rifondazione comunista – giocava un principio di organizzazione popolare di tipo mutualistico. Il mutualismo sta assieme e non al posto delle lotte radicali per il reddito e per il potere. Se domani la proposta di Franceschini venisse approvata ci troveremmo di fronte a un fatto positivo e non negativo. Però sempre di elemosina si tratta, perché dietro quella proposta manca una piattaforma di redistribuzione strutturale del reddito. Per amore di cronaca vorrei, inoltre, aggiungere che anche noi proponemmo la tassazione delle rendite finanziarie. Un provvedimento che il governo Prodi aveva approvato, ma che proprio Franceschini bloccò in aula quando era capogruppo del Pd”.
Non sarà che Ferrero teme – come scrive Gianni 46 – che il Pd diventi di sinistra? Macché: “Io spero che il Pd diventi di sinistra e che, ad esempio, appoggi la Cgil per difendere il contratto nazionale di lavoro che vale un po' di piu di 500 milioni di euro”.
L'ultima provocazione arriva da Carlo M. : “Ferrero è contrario alla proposta? Che dire? Anche Berlusconi è contrario. Del resto Ferrero era quello che da ministro manifestava contro il proprio governo...”. A provocazione secca, risposta secca: “Non ho mai manifestato contro il governo. A differenza di Mastella e di Fioroni. Resto tuttavia convinto che se durante quel governo ci fossero stati più scioperi e più manifestazioni sindacali forse sarebbe andata meglio”.
La parola, se vuole, a Franceschini.

Corriere della Sera 14.3.09
Centrodestra Irritazione in An per le critiche «azzurre» al presidente della Camera
Attacchi a Fini sul sito di Forza Italia «Silvio scaricalo, sta dall'altra parte»
A giorni lo statuto del Pdl, via il nome del leader dal simbolo
di Lorenzo Fuccaro


Il congresso sceglierà la Direzione (80 componenti) Ufficio di presidenza con Berlusconi, i coordinatori, i capigruppo e i loro vice
ROMA — Attacchi a Gianfranco Fini sul sito di Forza Italia. Aprendo la pagina «Spazio Azzurro » ci si imbatte subito in una sequenza di inviti, minacce, suggerimenti rivolti al Cavaliere affinché scarichi il presidente della Camera. Parole che rappresentano lo stato d'animo di quel mondo alla vigilia della nascita ufficiale del Pdl. Eccone alcuni, tra i più significativi. «Presidente Berlusconi — scrive Franz — Fini è peggio di Follini. Se sfortuna vuole che un giorno questo signore diventerà leader del Pdl voterò Diliberto». «Ma Fini — si domanda Gabriella — da che parte sta? Se continua così tornerà al suo angolino nascosto a destra e la smetterà di fare il bastian contrario solo per farsi notare! Ci pensi bene». «Vorrei ricordare al signor Fini — scrive Ivonne — che se ora può permettersi di fare dei distinguo lo deve solo allo sdoganamento che fece di lui Berlusconi alle Comunali di Roma». E ancora. «Ma Fini — si interroga Emilio — da che parte sta? Quando c'è da scegliere è sempre dalla parte dei cattocomunisti. Non è ora che se ne vada dall'altra parte che forse gli è più congeniale». Un altro navigatore che si firma Destini obietta: «Nascono DelFini... muoiono tonni». Giovanni gli suggerisce di cambiare casacca: «Meglio Silvio! Fini è giusto che guidi il Partito democratico, mi sembra che le sue idee possano coincidere perfettamente». «So che Fini a
Porta a Porta ha spiegato i suoi distinguo da Berlusconi — scrive un ex dirigente di An — non ha capito che il 90 per cento dei votanti di An ora è con Berlusconi, lui è amato dai sinistri, vada con loro». Ed Enrico D'Urso aggiunge: «Fini bisogna cancellarlo dal nuovo partito, io non capisco come si possa stare dentro il Pdl senza accettare che le idee e le decisioni vengono da uno solo: Silvio!». E Mauro esorta: «Qualcuno dica al signor Fini che non è bello azzannare la mano di chi ti ha dato il cibo. Fini è alla Camera per merito del Pdl e dei suoi elettori, che li rispetti». «Basta — tuona Alan — Fini sta esagerando. Vada con i suoi simili che sono quelli di sinistra. Una volta il suo motto era: Dio, Patria, Famiglia. Ora invece: sono ateo». Sintetizza un elettore del Pdl: «Casini è già stato sistemato... è ora di sistemare Fini. Non è necessario un altro commento. Silvio sbrigati». A tutti replica Casi: «Grande Fini, un politico maturo, serio un professionista preparato che ha sviluppato il suo pensiero come solo una persona di profonda cultura può fare». E uno che si firma "cielostellato" invita a guardare altrove: «Io non mi preoccuperei di Fini. Più che altro mi spaventa il Senatur che va a pranzo con Franceschini. Che stiano pensando di allearsi?».
Mentre il mondo del web si interroga, procedono i lavori in vista del congresso che il prossimo 27 marzo darà il via ufficiale al Pdl, con la confluenza di An e Forza Italia. In quella sede sarà approvato lo statuto che ha avuto diverse stesure e ora pare sia giunto a quella finale. Sempre il congresso sceglierà la Direzione (si parla di un'ottantina di componenti), poi sarà eletto l'ufficio di presidenza formato dal presidente Berlusconi, dai tre coordinatori (Bondi, La Russa e Verdini) e dai quattro capigruppo di Camera e Senato (rispettivamente Cicchitto e Bocchino, e Gasparri e Quagliariello). Rispetto al simbolo attuale (che non cambierà) la novità principale è che dal logo, secondo alcune indiscrezioni, scomparirà la scritta «Berlusconi presidente».

il Riformista 14.3.09
Io, sessantottino
Come si sta a dar ragione a Fini
di Piero Sansonetti


Nel 1968 avevo 17 anni e facevo quello che facevano tutti i ragazzi assennati, di diciassette anni, nel sessantotto: il sessantottino. L'anno dopo, a 18 anni, andai davanti ad alcune sale cinematografiche a fare i picchetti per impedire che la gente entrasse a vedere un orrido film con John Wayne, "Berretti verdi". Era un film sulla guerra del Vietnam nel quale gli aggressori americani erano dipinti come eroi, e i vietcong come belve. Unico - forse - film reazionario di successo partorito da Hollywood in quella stagione (che io ricordo come meravigliosa stagione politica e culturale). Raccontano le cronache che un ragazzo destinato a diventare assai più importante di me, e che aveva giusto un anno meno di me, in quello stesso 1969 cercò di andare a vedere il film "Berretti verdi", perché gli piacevano i film di guerra e gli piaceva John Wayne. Ma all'ingresso del cinema fu respinto dai picchetti dei ragazzi sessantottini, e allora si infuriò, e per la gran rabbia, lui che non si era mai occupato di politica, diventò fascista. Si iscrisse al Msi di Almirante, e poi alla Giovane Italia (organizzazione giovanile del Msi) e un po' dopo fu nominato capo del Fronte della Gioventù, sigla che aveva preso il posto della Giovane Italia e raggruppava ragazzi molto agguerriti e abbastanza maneschi.
Quel ragazzo, lo avete già capito, si chiamava Gianfranco Fini. In quegli anni si trasferì a Roma e si dice che frequentasse soprattutto la sede del Fronte della Gioventù di via Sommacampagna, vicina alla stazione Termini, e la sede del Msi di via Livorno, vicina a piazza Bologna. Mi ricordo perfettamente che in quel periodo giravo molto per Roma, e c'erano due soli luoghi della città dai quali mi tenevo alla larga: via Sommacampagna e via Livorno. Avevo paura di passare in quelle strade: avevo paura dei fascisti. E odiavo i fascisti.
Essendo un coetaneo di Fini, per anni e anni l'ho considerato il simbolo di tutto quello che era l'opposto da me. Opposto nei valori, nei principi, nelle idee, negli stili di vita, nei gusti culturali, nella moralità. Mi dava persino fastidio - negli anni 90 - sentire che Fini fosse considerato un giovane intelligente, molto saggio, originale, mentre per me lui era solo l'allievo di Almirante, lo squallido allievo di Almirante, e non concepivo nemmeno l'idea che un allievo di Almirante potesse essere qualcosa di diverso da uno squadrista in carriera.
Ho scritto tutto questo per raccontarvi dello stupore e dell'angoscia che mi prendono oggi, quando seguendo le giornate politiche - le dichiarazioni, le grida, le interviste - mi accorgo che l'unico a provocare la mia istintiva approvazione è Gianfranco Fini. Mi capita di sentire un fremito, quasi di amicizia, quasi di simpatia verso di lui, che da solo - senza alleati, sfidando il vituperio dell'opinione pubblica di destra - supplisce alle assenze mostruose dell'opposizione e della sinistra e tuona contro la Chiesa sul caso Englaro, o contro i razzisti sul caso Caffarella, o a difesa del Parlamento contro il centrodestra. L'altro giorno Fini è tornato all'attacco, contro la Lega, opponendosi a quell'emendamento al decreto-sicurezza che trasforma i medici in "spioni" e li invita a denunciare i clandestini ammalati. Ha detto che è una idea che confligge con l'etica e viola la moralità dei medici.
Non credo di essere l'unica persona di sinistra che si trova in questa curiosa situazione. Spesso, però, quando esprimo - pubblicamente o privatamente - frasi di apprezzamento per il presidente della Camera, mi si risponde osservando che probabilmente Fini si comporta in questo modo per un machiavellico disegno personale che non si sa bene quale sia. A parte il fatto che se ogni volta che un politico si schiera devo andare a cercare quale sia il disegno personale che c'è dietro, smetto di occuparmi di politica e passo alla Settimana enigmistica. Ma poi qualcuno mi deve spiegare una cosa: quale disegno personale, per un leader di destra, può passare attraverso lo scontro col potere gigantesco del Vaticano. Conoscete qualche leader di destra che sia mai andato in rotta di collisione col Vaticano? (E conoscete molti leader di sinistra che lo abbiano fatto?).
Fini in questi ultimi due anni ha dimostrato un enorme coraggio politico, e nessun altro leader di primo piano ha fatto altrettanto, e per questo - mio malgrado e a malincuore - gliene sono abbastanza grato.
P.S. Sono sicuro che se oggi proiettassero di nuovo, in una sala di Roma, "Berretti verdi", io non andrei più a picchettare, ma Fini, dopo averlo visto, commenterebbe: che schifezza di film!

Repubblica 14.3.09
Bertone: "Il Papa non è solo" ma ora scoppia il caso Brasile
Aborto, dietrofront dei vescovi: "Scomunica atto brutale"
Sulla vicenda della bimba violentata a Recife, in rivolta anche la Chiesa francese
di Marco Politi


CITTÀ DEL VATICANO - «Il Papa non è solo». Di prima mattina il cardinale Segretario di Stato Bertone lancia la parola d´ordine e nel corso della giornata arriva l´ondata delle manifestazioni di solidarietà. Cento vescovi partecipanti a un convegno sulla comunicazione ecclesiale, che si svolge a Roma, scrivono una lettera a Ratzinger per manifestargli «vicinanza, fiducia e fedeltà». Giovedì sera si erano già fatti vivi il cardinal Vicario della diocesi romana Vallini e la presidenza della Cei. Ieri si sono susseguite le attestazioni solidali dei vescovi francesi, belgi, tedeschi, austriaci, svizzeri e inglesi. Ma certe puntualizzazioni rivelano che c´è tensione nel rapporto tra papato ed episcopati del mondo.
Il malessere esplode a sorpresa con nuovi colpi di scena in Brasile e in Francia. Il portavoce della conferenza episcopale brasiliana ha sconfessato il vescovo di Recife, mons. Sobrinho, che aveva scomunicato la madre di una bimba stuprata e poi fatta abortire. Un conflitto tra vescovi mai visto. Dimas Laras Barbosa, portavoce dell´episcopato del Brasile, ha dichiarato che la madre non può essere colpita dalla scomunica in quanto ha agito «sotto pressione» e con l´intento di salvare la vita alla figlia. Contemporaneamente dalla Francia si sono levate pubblicamente voci di vescovi contro il vescovo scomunicatore di Recife e anche contro il cardinale Re, prefetto della Congregazione vaticana per i Vescovi, che lo aveva sostenuto. Parecchi presuli francesi hanno lamentato la severità e la «brutalità inaccettabile della scomunica». Più indignato di tutti, il vescovo di Nanterre mons. Daucourt ha scritto al vescovo di Recife e al cardinale Re: «Io so che in questa tragedia avete aggiunto del dolore al dolore, avete provocato della sofferenza e dello scandalo presso molte persone in tutto il mondo». I vescovi, sottolinea Daucourt, devono anzitutto «manifestare la bontà di Gesù Cristo il solo vero Buon Pastore».
In un clima così eccitato il Segretario di Stato Bertone chiama a fare quadrato intorno a Benedetto XVI. I collaboratori di Curia, ha affermato, «sono lealmente fedeli al pontefice e profondamente uniti a lui a partire dai capi di dicastero e dal segretario di Stato». Bertone ha lodato la «comunione di tanti vescovi del mondo», criticando poi «qualche voce stonata, forse dovuta proprio a mancanza di fiducia nel Papa e nelle decisioni che compie». Ma le voci fuori dal coro sono di episcopati e ieri dalle conferenze episcopali europee negli attestati di fedeltà al papa si sono udite anche precisazioni che pesano. In Germania mons. Zoellitsch ha specificato che la lettera del pontefice segnala che il «Papa desidera entrare in colloquio con i vescovi». In Francia mons. Vingt-Trois rimarca che tra pontefice e vescovi è giusto vi siano «scambi sostanziali e ricchi». In Austria i vescovi rammentano che oltre al dolore del Papa vi è quello «provato da molte Chiese locali e da persone al di fuori della Chiesa». In Svizzera mons. Grampa elogia lo stile di «umiltà e fraternità del Santo Padre», chiedendo che lo stesso stile «possa entrare nel governo ordinario della Chiesa».
Nota sconsolato il cardinale Ruini, dalle pagine dell´Osservatore Romano, che si è indebolito il senso di appartenenza ecclesiale e che nella vicenda si è rivelato il «gusto amaro di cogliere in fallo l´avversario». E ancor più: «In molte parole, gesti o silenzi» intorno al pontefice è affiorata un´ostilità interna alla Chiesa.

Corriere della Sera 14.3.09
Benedetto XVI e la lettera ai vescovi
Sfidato dalla storia
di Ernesto Galli Della Loggia


Questo universo cattolico si è diviso in due tronconi: i cauti e i radicali, che da 40 anni si combattono
Il Pontefice ha una sola arma per superare l'ostilità del partito cattolico che gli si oppone

Per il suo carattere eccezionale e per le parole che contiene la lettera di Benedetto XVI ai vescovi cattolici dice molto di più delle personali ambasce di un Papa il quale, a proposito del caso Williamson, si è visto attaccato e insidiato anche dai suoi, e che vede, in generale, come anche nella Chiesa — nella stessa Curia, ha fatto capire il direttore dell'Osservatore
romano — «ci si morde e ci si divora».
La lettera e il suo contenuto tradiscono sentimenti di sconcerto e di disappunto che lasciano intravedere qualcosa di ben più importante, in realtà: e cioè una complessiva difficoltà di direzione che oggi grava sugli stessi vertici della Chiesa.
Da molti sintomi sembra, in effetti, che stiano venendo al pettine alcune contraddizioni accumulatesi nell'ultimo mezzo secolo intorno al ruolo del papato via via che questo ha conosciuto una profonda trasformazione storica. Tale trasformazione ha avuto due aspetti principali con i quali la figura del Pontefice ha dovuto fare i conti: l'avvento della televisione e il Concilio. L'avvento della televisione ha voluto dire la virtuale trasformazione del Papa da capo della Chiesa di Roma in una figura della scena mondiale quotidianamente alle prese con l'opinione pubblica planetaria, per lo più non cattolica e neppure cristiana. Alle prese cioè con i media, che di tale opinione sono i servi-padroni. Giovanni XXIII, eletto alla fine degli Anni 50, cioè in coincidenza con la piena diffusione planetaria della Tv, è stato il primo Pontefice che ha potuto godere dell'indubbia opportunità offerta da questo cambiamento: diventare di fatto un leader etico-carismatico universale, in certo senso meta-religioso (il papa «buono», quasi che i predecessori fossero «cattivi»: ma in certo senso così essi venivano fatti indirettamente apparire dalla potenza dei media, e di fatto così divenivano).
Ma naturalmente questa intrinsichezza con l'opinione pubblica mondiale e con i media rappresenta per il Pontefice un vincolo non da poco. Specialmente perché è un vincolo che non ha sostanzialmente alcuna natura religiosa (neppure spirituale, forse), e però esso influenza non poco la popolarità del Papa nello stesso mondo cattolico, alle cui divergenze interne i media mondiali, tra l'altro, non mancano mai di offrirsi puntualmente come sponda interessata, quasi sempre, tra l'altro, definendo e enfatizzando quelle divergenze nel modo ideologicamente più banale. Il Papa rischia così di divenire prigioniero da un lato dell'obbligo del carisma, dell'obbligo di «venire bene» in tv, di avere una congrua propensione scenica, di essere «simpatico », dall'altro dell'obbligo del politicamente corretto da cui il conformismo mediatico fa dipendere di solito il proprio consenso. Insomma una specie di Dalai Lama con i paramenti pontificali.
La seconda trasformazione gravida di tensioni l'ha arrecata, al ruolo istituzionale del papato, il Vaticano II. In pratica, infatti, il Concilio ha voluto dire la nascita dei partiti all'interno della Chiesa. Intendiamoci, nella Curia ci sono sempre stati dei «partiti»: ma nella Curia, appunto, ai vertici dell'organizzazione e con tutta la felpata cautela del caso, non tra i fedeli, non nell'universo cattolico in generale.
Con il Vaticano II, e intorno ad esso, intorno ai suoi dettami e al suo «spirito », invece, questo universo cattolico si è diviso in due grandi tronconi: i cauti e i radicali. I quali da quarant'anni si combattono apertamente e incessantemente, ognuno avendo i propri capi e rappresentanti più o meno autentici e più o meno interessati dentro la Curia. I cui «partiti» in questo modo, però, potendo contare su un effettivo retroterra diciamo così di «seguaci», sono diventati ben più battaglieri, e quindi ben più riottosi e insidiosi, che nel passato.
Fino al punto, a quel che si capisce, di opporsi apertamente o di boicottare dietro le quinte la stessa autorità del Papa quando questi appartiene per caso al partito avverso.
E' a questo punto che si configura in pieno la contraddittoria situazione che la storia ha creato. Il Pontefice in realtà ha oggi una sola arma per superare l'ostilità del partito cattolico che gli si oppone, per affermare nel suo stesso regno la propria indiscutibile autorità di sovrano assoluto: l'arma dell'appeal carismatico-mediatico, del consenso metareligioso della platea mondiale, del gesto e della parola che bucano lo schermo della Cnn, che arrivano sulla prima pagina del New York Times. Ma per farlo egli rischia di perdere un tratto essenziale del retaggio che si accompagna storicamente al suo ruolo: l'indipendenza spirituale. Quell'indipendenza che non garantisce certo dagli errori, anche dai più riprovevoli, per carità, ma che almeno serve a tenere sempre aperta la possibilità di dare voce a qualcosa di diverso dai comandi del secolo. Una cosa sembra certa: nella ricerca di una difficile via che possa conservare la libertà della Monarchia assoluta tra i partiti da un lato e l'opinione pubblica mediatico-mondiale dall'altro, tra queste due tipiche creature della modernità, Benedetto XVI appare dolorosamente, irrevocabilmente solo.

Repubblica 14.3.09
X-Phi, filosofi del domani nella caverna del nuovo pensiero
Il fenomeno dell´ "experimental philosophy"
di Massimiliano Panarari


Nata in Inghilterra considera il dato empirico non un sostegno alla teoria ma il suo stesso fondamento
Una tendenza che combina la riflessione con esperimenti sondaggi e questionari
In controtendenza rispetto all´analisi tradizionale,sceglie di esprimersi sui blog e internet
Studia attraverso le neuroscienze l´attività mentale alle prese con problemi concettuali

Suona un po´ come X Files, ma non è esattamente la stessa cosa, anche se il metodo scientifico rivendicato con forza dall´agente Dana Scully, tutto sommato, potrebbe trovarvi agevolmente il suo posto.
X-Phi è l´acronimo che designa la experimental philosophy, una tendenza filosofica molto giovane, che si è fatta largo nella cultura anglosassone e che combina la dimensione della riflessione e dell´elaborazione concettuale con una serie di esperimenti pratici e di ricerche quantitative condotte mediante sondaggi e questionari. A rilanciare il dibattito sulla X-Phi, presentata come la corrente più trendy della filosofia contemporanea, è, tra gli altri, un lungo articolo dei filosofi David Edmonds e Nigel Warburton apparso sul numero di marzo di Prospect, la prestigiosa rivista politico-culturale londinese, in cui gli autori prendono le mosse dai test di una neurobiologa tedesca, Katja Wiech, che ha dimostrato come la somministrazione di scariche elettriche a cattolici osservanti in atto di contemplare un´immagine della Madonna risulti meno dolorosa di quanto accade nel caso di un ateo o di un agnostico. Esiti sperimentali su cui la giovane scienziata si è confrontata successivamente con un gruppo di pensatori convinti che il dato empirico non fornisca un semplice sostegno alla filosofia, ma sia, in qualche modo, il fondamento stesso del fare filosofia.
La X-Phi si colloca così nettamente in controtendenza rispetto all´egemonia, sinora incontrastata, esercitata dall´analisi concettuale, e si scontra, quindi, con la tradizione di filosofia analitica dominante nel mondo anglosassone. Ragion per cui si esprime molto attraverso blog e siti (oltre che libri), e viene avversata o liquidata malamente da vari mostri sacri del pensiero angloamericano, suscitando, invece, entusiasmi tra i filosofi più giovani e alimentando una polemica culturale dove anche l´anagrafe gioca la sua parte. Anche se, a onor del vero, pure una star del livello del filosofo del "cosmopolitismo" (e molto altro) Kwame Anthony Appiah mostra parecchio interesse, dopo avere pubblicato un libro di "esperimenti di etica", ed essendosi spinto a definirla sul New York Times come la "nuova nuova filosofia". La filosofia sperimentale vanta una "scuola" molto dinamica che conta tra i suoi esponenti di punta Joshua Knobe, Shaun Nichols, Neill Levy, al lavoro tra Princeton e Oxford, figure, di cui si parlerà sempre più, che si muovono nei tre ambiti fondamentali, chiaramente interdisciplinari, che ne compongono lo scenario attuale. Ovvero, lo studio, mediante le tecnologie a disposizione delle neuroscienze, dell´attività mentale che si sviluppa quando gli individui si trovano alle prese con un problema di natura filosofica; l´utilizzo, uscendo dalle aule e dagli uffici universitari, di questionari per comprendere le intuizioni e le modalità di ragionamento nella vita quotidiana; e, infine, gli "esperimenti sul campo", con l´osservazione dei comportamenti e delle reazioni a specifiche situazioni da parte di un individuo, osservato a sua insaputa.
Tutto molto anglosassone, per l´appunto. E in Italia? Queste tematiche ricevono una certa attenzione da parte di Res cogitans (www.rescogitans.it), "sito di filosofia applicata" dedicato a Marco Mondadori, che annovera tra i suoi collaboratori Telmo Pievani, Maurizio Ferraris, Mario De Caro e Nicla Vassallo. A dirigerlo è Simona Morini, docente di Teoria delle decisioni razionali e dei giochi allo Iuav di Venezia (e autrice, con Pietro Perconti, di Email filosofiche, edito da Cortina), che nota come la X-Phi rappresenti «una sorta di interessante ritorno al passato, alla filosofia morale e alla tradizione del Sei-Settecento. Basti pensare, infatti, che il famosissimo Trattato sulla natura umana di David Hume aveva come sottotitolo: Un tentativo di introdurre il metodo sperimentale di ragionamento negli argomenti morali. Dunque, vari sono gli aspetti positivi: da un lato, i filosofi ricominciano a fare scienza (superando lo specialismo introdotto nell´Ottocento) e, dall´altro, tornano a occuparsi di fatti reali, soprattutto in Italia dove la produzione filosofica negli ultimi tempi è stata orientata per lo più verso l´ermeneutica e la storia. Questi esperimenti, inoltre, tornano al senso comune, ma confutano anche i luoghi comuni. E sprovincializzano la disciplina, attribuendole una dimensione veramente mondiale, mostrandoci, per esempio, come la filosofia del linguaggio contemporanea risulti molto collegata alle lingue occidentali. Naturalmente, ci sono anche i limiti: gli scienziati si rivelano oggi ancora piuttosto deboli sotto il profilo filosofico, e viceversa. Come diceva Robert Hooke: "La vera filosofia inizia dalle mani e dagli occhi, ma deve procedere con la memoria e continuare con la ragione". È così che dovrebbe accadere, tornando davvero all´idea del filosofo naturale seicentesco». E, quindi, se son rose (filosofiche), magari fioriranno anche in Italia�

Repubblica 14.3.09
Due tradizioni a confronto
Se il modello britannico batte l’Europa continentale


Attaccata alle proprie tradizioni come una cozza al suo scoglio, la filosofia continentale ha mostrato finora scarsa propensione al rinnovamento. Sta iscritto nel suo codice genetico storicista.
Eppure, qualcosa si sta muovendo. Proprio in seno alla filosofia britannica, fermentano irregolarità e provocazioni che infrangono i canoni tradizionali. È la New British Philosophy, recita il titolo di un libro che raccoglie le voci dei «nuovi filosofi» inglesi. Alcuni, come Ray Monk, Stephen Mulhall e Aaron Ridley, tutti del Center of Post-Analitic Philosophy di Southampton, cercano di capire quale sarà il futuro paradigma, dopo analitici e continentali. «La filosofia dovrà impegnarsi in problemi concreti», sostiene da Edinburgo la femminista Rae Langton, e si applica coerentemente alla comprensione di fenomeno di cui tutti fanno uso ma nessuno sa cos´è: la pornografia. Altri, come Simon Critchley, che da Essex è passato a dirigere la New School di New York, propone nel suo Libro dei filosofi morti una divertente versione moderna � si fa per dire � dell´antica meditatio mortis. Intanto, nelle vecchie roccaforti continentali, francesi e tedesche, si soffre per il vuoto lasciato dalla scomparsa dei maîtres-à-penser. È ancora possibile riempirlo con un grande gesto di sintesi? Ci hanno provato Marcel Gauchet e, passando a Oriente, François Jullien. E soprattutto Peter Sloterdijk, prima con una Critica della ragione cinica, poi con la trilogia Sfere, una vera e propria filosofia della globalizzazione. Ma oggi � si chiede la più diffusa rivista tedesca di filosofia � il vero Meisterdenker non è forse il controverso e richiestissimo Giorgio Agamben? È la riprova, ha commentato un lettore, che in filosofia il metodo migliore per avanzare è girare sempre intorno allo stesso punto.

Repubblica 14.3.09
Il furto e la sua storia
Un saggio dello storico Paolo Prodi
di Adriano Prosperi


"Settimo: non rubare" ribalta l´idea che la Chiesa medievale sia stata avversa al mercato e indaga le leggi e le predicazioni contro il ladrocinio
La necessità di mettere d´accordo il settimo comandamento col crescente benessere
Un modello di ricerca che punti a capire il presente partendo da distanze lontane

La violenza e il disordine dei mercati finanziari riempiono oggi le cronache di tutto il mondo di storie di truffe gigantesche, arricchimenti smisurati di pochi e miseria di molti. È difficile immaginare che tutto questo abbia un rapporto con lo spirito evangelico e con le virtù cristiane. Eppure da quando Max Weber propose nel 1905 la sua celebre tesi di un nesso fra l´etica protestante e lo spirito del capitalismo non c´è questione storica più dibattuta di questa. Il problema nei suoi termini più semplici è quello di capire perché proprio in Europa abbia avuto origine la rivoluzionaria espansione del sistema capitalistico destinata a rompere le catene che avevano fino ad allora legato le energie prometeiche della specie umana. La proposta di Weber suscitò uno straordinario interesse perché spostava la questione dal capitale di cui aveva parlato Marx allo spirito capitalistico, cioè sul terreno della cultura e della religione. Ma quale religione? E perché proprio il calvinismo? Nel 1934 un giovane professore dell´Università Cattolica destinato a un grande futuro politico, Amintore Fanfani, candidò il cattolicesimo a vero padre del capitalismo. Poi gli studi si sono spostati sull´etica economica medievale.
Oggi l´intera questione è riproposta in termini nuovi nell´ultimo libro di Paolo Prodi: Settimo: non rubare. Furto e mercato nella storia dell´Occidente (Il Mulino, pagg. 396, euro 29). Il comandamento biblico dà il titolo a una ricerca di grande respiro e di robusta costruzione che abbraccia l´intero Occidente cristiano dall´XI al XIX secolo. La storia che vi si racconta è quella delle discussioni e delle regole tese a fissare i confini tra il furto e il guadagno legittimo da quando nelle città dell´Europa si avviò lo sviluppo delle moderne attività mercantili. Lo sforzo di disciplinare gli spiriti animali del mercato dominò da allora le riflessioni sui rapporti tra guadagno privato e bene comune, ricchezza individuale e benessere della città, frode commerciale e corruzione politica. Dopo le regole fissate dalla Chiesa vennero quelle della repubblica internazionale del danaro e le leggi degli stati. Ma quali furono le precondizioni della rivoluzione commerciale avviatasi nelle città medievali? La tesi di Prodi è che il mercato come realtà autoregolantesi, dotata di una propria capacità di espansione, vide aprirsi per la prima volta uno spazio di libertà nel contrasto fra papato e impero. Fu quella la via che gli permise di sfuggire al controllo di un potere politico tendente per sua natura a coartare le straordinarie potenzialità di sviluppo del mercato.
Il successo dell´Europa medievale spicca al confronto del mancato sviluppo del mercato dell´agorà ateniese dove, osservò una volta Karl Polanyi, era stata proprio quell´antica democrazia a soffocarne l´espansione. Invece, secondo Prodi, grazie al dualismo istituzionale di papato e impero si installò nel cuore dell´Europa quella fibrillazione o rivoluzione permanente che doveva sostentarne l´ascesa come centro propulsore dello sviluppo mondiale.
È dunque dalla «rivoluzione papale» che nasce la rivoluzione commerciale, in sincronia con altri macroprocessi che ebbero un identico scenario: la piazza, luogo del giuramento costitutivo del patto politico ma anche luogo simbolico della giustizia e luogo infine del mercato, terzo e ultimo oggetto di questo volume che conclude una serrata trilogia. I caratteri originali della storia europea sono ricondotti alle comuni radici cristiane e agli spazi di libertà aperti dalla dialettica tra Chiesa e poteri politici. E non c´è solo questo. Viene qui messo in luce il contributo intellettuale degli uomini di Chiesa e in particolare dei nuovi ordini francescano e domenicano all´elaborazione delle regole del mercato con lo sviluppo dei concetti di tempo, prezzo, moneta, con le nuove definizioni del reato di furto, con l´esercizio della guida delle coscienze attraverso la predicazione e la confessione: ma anche, infine, con la creazione di moderne istituzioni bancarie (sotto il segno, ricordiamo, di un violento attacco a un protagonista di questa storia che qui rimane piuttosto in ombra, l´ebreo).
Quelle ricchezze accumulate che inquietavano le coscienze di uomini come il celebre mercante di Prato Francesco di Marco Datini imponevano la necessità di mettere d´accordo il settimo comandamento col flusso di benessere portato dal commercio. La ricostruzione del lavoro intellettuale e pratico svolto a tal fine dagli uomini della Chiesa ha impegnato l´autore di queste pagine in una ricerca di cui affiora qui anche la sensazione di una grande fatica.
L´esito è chiaro. Finora il contributo della Chiesa allo sviluppo del mercato è apparso in genere negativo, per le condanne del prestito a interesse come peccato di usura che alimentarono l´antigiudaismo cristiano e che nascevano dalla considerazione del tempo come qualcosa che apparteneva solo a Dio. Ma Prodi contesta la tesi formulata da Jacques Le Goff di un´opposizione fra l´immobile «tempo della Chiesa» e un «tempo del mercante» aperto all´azione umana e a valori laici e sottolinea invece l´importanza del volontarismo francescano e di teologi come Pietro di Giovanni Olivi.
Non è possibile qui seguire l´intero disegno dell´opera, scandito dalle metamorfosi del furto da peccato religioso a colpa morale e a crimine e articolato nelle fasi di una storia dominata agli inizi dalla teologia e dalla casistica di coscienza, poi dalla autonomia delle leggi di mercato, infine dall´affermarsi nell´800 del dominio dello Stato sulla vita sociale con l´alleanza di potere politico e potere economico. Vediamo in prospettiva la globalizzazione dell´economia, quando la «repubblica internazionale del denaro» cancellerà i confini degli stati insieme ad ogni ricordo di quelle norme etiche dell´equità e del bene comune che la tradizione cristiana aveva lungamente elaborato.
Sui temi e sulle tesi di questo libro ci sarà modo di discutere. Qui si dovrà almeno osservare che ancora una volta Paolo Prodi oppone a un consumo della storia oggi dominato dai contemporaneisti un modello di ricerca storica che punta a capire il presente partendo da distanze lontanissime: o meglio, partendo verso l´esplorazione di quelle terre lontane da una propria intuizione dei problemi del presente. Di fatto, è il ritorno conclusivo su questi problemi che è il presupposto e il premio del ricercatore.
Ed è ai propri tempi che l´autore dedica l´ultimo capitolo di «riflessioni attuali» sui rapporti tra economia e politica, finanza e stato, etica e giustizia. La crisi economica mondiale in cui siamo immersi è l´esito, a suo avviso, di una dislocazione tettonica affiorante da profondità secolari, di cui solo una ricerca storica di adeguata ampiezza può rintracciare le cause profonde. Ma se i mali sono evidenti, se è vero che i confini tra il furto e il non furto sono diventati evanescenti e che nell´attuale situazione di dominio della finanza sulla politica le leggi della democrazia liberale esistono solo in apparenza, se è indiscutibile che la fragilità istituzionale dell´Italia rende più visibili qui da noi i disastri della privatizzazione del pubblico e la gravità del conflitto di interessi, la cura resta incerta e problematica: come si potrà reintrodurre l´auspicata distinzione fra il sacro, la politica e l´economia? Dobbiamo forse tornare a leggere la Rerum Novarum e a riflettere sulla dottrina sociale cristiana, secondo l´auspicio che chiude questo libro?

Corriere della Sera 14.3.09
Nei suoi rapporti i dettagli sul campo nazista. Dopo la guerra fu in missione clandestina oltre la Cortina di Ferro
Una spia nell'orrore di Auschwitz
Il capitano polacco Pilecki rivelò i segreti dell'Olocausto. Ucciso dai sovietici
di Guido Santevecchi


La resistenza polacca
È il movimento armato clandestino che durante la Seconda guerra mondiale combatté contro l'occupazione militare della Polonia da parte della Germania nazista.
L'Armia Krajowa (AK), fedele al governo polacco in esilio a Londra e braccio armato dello Stato clandestino polacco, venne formata nel 1942 e fu in competizione con l'Armia Ludowa (AL), appoggiata dall'Unione Sovietica e controllata dal Partito Operaio Polacco.
La «liberazione russa»
Nell'agosto del 1944, con l'avvicinarsi delle forze sovietiche a Varsavia, il governo in esilio sollecitò la rivolta della città. Dopo 63 giorni di lotta selvaggia la città fu ridotta ad un cumulo di macerie dalle SS. La rivolta di Varsavia permise ai tedeschi di distruggere l'AK come forza combattente, ma ad avvantaggiarsi della situazione fu Stalin che riuscì a imporre un governo comunista alla Polonia del dopoguerra

Due serie di foto segnaletiche: la prima è del 1940, l'uomo indossa l'uniforme a strisce dei detenuti nei lager nazisti; la seconda serie è del 1947, scattata dalla polizia segreta del regime comunista di Varsavia. Il prigioniero è lo stesso: il capitano di cavalleria Witold Pilecki.
L'ufficiale si era offerto volontario per una missione all'inferno: si fece catturare dai tedeschi sapendo che sarebbe stato rinchiuso ad Auschwitz, per raccogliere informazioni su quello che succedeva all'interno del campo di concentramento.
Il Konzentrationslager presso la cittadina polacca di Oswiecim (in tedesco Auschwitz) era stato costruito dai nazisti nell'estate del 1940 e all'inizio i detenuti erano polacchi e soldati russi. La resistenza aveva bisogno di notizie. Pilecki preparò il piano: aspettò che la Gestapo mettesse in atto uno dei ricorrenti rastrellamenti a Varsavia, si mise in tasca un documento di identità falsificato a nome dell'operaio «Tomasz Serafinski» e si lasciò arrestare con altri duemila civili. Era la mattina del 19 settembre 1940, due giorni dopo si ritrovò ad Auschwitz. Il campo non era ancora organizzato per lo sterminio sistematico, ma i detenuti venivano decimati già all'arrivo. All'internato sotto il nome di Serafinski fu tatuato sul braccio il numero 4859. Il capitano Pilecki cominciò ad organizzare militarmente un gruppo di resistenti. E cominciò anche a scrivere messaggi per il comando dell'Esercito clandestino polacco.
Il suo rapporto comincia così: «Mi è stato ordinato di descrivere i semplici fatti, senza commenti. Ci proverò, ma non siamo di legno, nè di pietra e debbo confessare che stando qui dentro qualche volta mi è sembrato che anche la pietra possa sudare...».
Con il passare dei mesi Auschwitz fu allargato su una superficie di 40 chilometri quadrati e trasformato nel centro del progetto di annientamento degli ebrei, al servizio della Soluzione Finale. La resistenza a Varsavia ricevette un altro rapporto da Pilecki fatto filtrare attraverso i reticolati: «La gigantesca macchina del campo che vomita cadaveri ha portato via molti dei miei amici... Abbiamo inviato messaggi al mondo esterno, alcuni sono stati trasmessi da stazioni radio straniere. Adesso le guardie del campo sono furiose».
Nel 1942 il gruppo del capitano si assicurò che le informazioni sullo sterminio degli ebrei arrivassero a Londra e Washington, cominciò ad invocare che gli aerei alleati bombardassero le installazioni di Auschwitz e la linea ferroviaria che alimentava il trasporto dei deportati, o che organizzassero un lancio di paracadutisti della Brigata polacca per liberarlo.
Non successe niente. Solo orrore quotidiano. A quel punto il capitano Pilecki decise di tentare la fuga: la notte del 26 aprile 1943 riuscì ad evadere. Arrivato a Varsavia riprese il suo posto nell'Esercito clandestino, partecipò alla Rivolta del 1944. Poi andò in Italia, con le forze polacche del generale Anders. Finita la guerra con i nazisti l'Europa fu spaccata dalla Cortina di Ferro. Pilecki fu inviato a Varsavia: di nuovo in missione clandestina, per raccogliere informazioni sui gulag sovietici e la repressione comunista. Lo arrestarono. E (secondo nuovi documenti pubblicati dal Times) l'uomo che era entrato volontariamente nell'inferno e aveva documentato lo sterminio degli ebrei, scoprì che l'agente della polizia segreta comunista che lo stava torturando era un ebreo. Potè incontrare un'ultima volta la moglie e le disse che Auschwitz per lui era stata meno atroce di quello che stava passando nel carcere del regime a Varsavia.
Witold Pilecki fu condannato a morte per «crimini contro lo Stato e spionaggio agli ordini dell'imperialismo straniero». Il 25 maggio del 1948 gli spararono un colpo alla nuca nel sotterraneo del comando della polizia e lo gettarono in una fossa comune.
Poi, fino al 1989, il suo nome fu cancellato dalla storiografia ufficiale della Polonia. La vicenda del «volontario di Auschwitz», delle sue informazioni sull'Olocausto e dell'aiuto alleato che non arrivò ai disperati dei lager continua ad agitare gli storici britannici: perché Winston Churchill non ordinò l'azione? «Perché a nessuno importava di salvare gli ebrei», disse Chaim Weizmann, primo presidente di Israele. Sir Martin Gilbert, biografo di Churchill, sostiene invece che il leader inglese era sempre stato amico e sostenitore della causa ebraica e in realtà non seppe di Auschwitz fino al 1944.
Ora un gruppo di eurodeputati polacchi ha presentato una mozione a Bruxelles chiedendo che il 25 maggio, anniversario dell'uccisione del capitano, sia dichiarato «Giorno degli Eroi della Lotta contro il Totalitarismo ». Dagli archivi sono usciti nuovi documenti che nei decenni della Cortina di Ferro erano stati censurati e a Varsavia è stata organizzata una mostra in cui le foto segnaletiche del detenuto 4859 di Auschwitz sono affiancate a quelle dell'«agente imperialista» Witold Pilecki scattate dalla polizia segreta comunista.

Corriere della Sera 14.3.09
Intervista sulla ricerca: il piano per scegliere le aree di investimento, la riforma degli enti e l'assunzione di nuovi addetti
«Grande opera per attirare cervelli stranieri»
Il ministro Gelmini: nascerà in Italia sul modello del Cern e rilancerà i nostri scienziati
di Giovanni Caprara


Le risorse deriveranno dalla cancellazione di piccoli progetti senza utilità
Recupereremo il lavoro precario sulla base del merito e delle necessità

Ministro Mariastella Gelmini, per alcuni lei ha dimenticato il mondo della ricerca scientifica che assieme alla pubblica istruzione e all'Università è il suo terzo compito....
«Stiamo lavorando e per giugno sarà pronto il piano nazionale della ricerca in occasione del G8»
E che cosa prevede?
«Stabiliamo delle priorità per trasformare la situazione di crisi in cui ci troviamo in un'opportunità di rilancio. Le risorse non sono certo ampie ma il settore, grazie anche all'intervento del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, non ha subito tagli».
Quali sono le priorità scelte?
«Innanzitutto è da valorizzare il settore agroalimentare e ad esso si affiancano l'ambiente e l'energia con le cosiddette "tecnologie verdi", la biomedicina e lo spazio. In quest'ultimo abbiamo maturato alcune competenze da difendere ed esistono già sulla Penisola realtà internazionali importanti, come il centro dell'agenzia spaziale europea di Frascati impegnato proprio sulla ricerca ambientale. Dobbiamo, inoltre, ripensare la programmazione della ricerca adesso inesistente. Ogni ente ha il suo piano ma la loro somma dimostra solo una frammentazione improduttiva. Voglio arrivare ad un progetto ricerca Paese in cui si concentrano gli interessi tenendo conto delle esigenze della realtà industriale dove i giovani troveranno lavoro».
Un'impresa ardua, altre volte tentata senza grandi risultati. Lei come pensa di materializzare questa ambizione?
«Attraverso una serie di interventi. Ad esempio, dobbiamo realizzare in Italia una grande infrastruttura di ricerca, come del resto ci chiede l'Unione. Un centro, per capirci, come il Cern di Ginevra, un modello a cui far riferimento per diversi motivi».
Quali sarebbero?
«Prima di tutto perché è un luogo dove si fa ricerca al top della conoscenza attraendo i cervelli da altri continenti. Al Cern la costruzione del nuovo acceleratore Lhc, al quale hanno dato il contributo centinaia di ricercatori italiani attraverso l'Istituto nazionale di fisica nucleare, si è rivelata la giusta via per alimentare la ricerca, creare innovazione tecnologica nelle aziende coinvolte e sviluppare conoscenze applicabili in altri settori della vita quotidiana. Dagli studi al Cern, oltre all'invenzione del Web è nata anche la nuova macchina adronica con la quale si curano a Pavia i tumori».
Con che risorse, se non ci sono, può nascere una nuova grande infrastruttura di ricerca?
«Recuperando fondi da piccoli progetti poco utili eliminabili e da mille accordi di programma che rispondono a necessità lontane dalla scienza. Ma vorrei pure utilizzare a tale scopo i fondi Fas gestiti dalla Presidenza del Consiglio che magari finiscono in accordi clientelari. Insomma, eliminando degli sprechi e concentrandoci in una direzione precisa evitando di moltiplicare inutilmente le iniziative».
Ma quali sono per lei i problemi più gravi della ricerca italiana: i fondi scarsi, il ridotto numero dei cervelli, le infrastrutture inadeguate....
«Certo, senza soldi è difficile lavorare, ma già nei finanziamenti attuali esistono margini in cui si possono effettuare degli interventi e rendere più efficaci le disponibilità. Ma più necessario ancora è gestire con managerialità. Entro dicembre completeremo il riordino degli enti di ricerca proprio per arrivare ad una migliore gestione e valorizzare i buoni cervelli che oggi sono mortificati e sono numerosi ».
I cervelli appunto. Esiste una differenza abissale nel numero con altri Paesi europei. Che cosa intende fare?
«Intanto con il recente decreto abbiamo creato quattromila nuovi posti per ricercatore che sono slegati dalla sistemazione dei precari. E non è poco, per cominciare». E i conti con i precari, come li fa. Lavorare in questa condizione non aiuta certo l'entusiasmo. E poi è un'esercito ormai?
«Infatti, tra università e ricerca, non sappiamo nemmeno noi quanti siano. Per questo abbiamo avviato un censimento al fine di avere una fotografia precisa della realtà sulla quale incidere. Certo è che con la mancata approvazione della "norma dei 40 anni" si è persa un'importante occasione perché avrebbe consentito, attraverso dei prepensionamenti, di liberare posti nei quali inserire appunto i precari. Però bisogna tener presente che non è possibile stabilizzare tutti, è una proposta demagogica perché non ci sono le risorse necessarie e poi non sarebbe neanche giusto ».
Perché non lo sarebbe?
«Anche qui bisogna distinguere. Non tutti sono precari allo stesso modo. Ed è opportuno valutare qualità e profili tecnici in base agli indirizzi».
Un altro male riconosciuto è la scarsa ricerca privata nel nostro Paese. Non c'è più la Montecatini capace di sostenere Giulio Natta al Politecnico di Milano che scopre il Moplen e conquista il Premio Nobel per la chimica, ultimo Nobel nato nella Penisola. Era il 1963. Ha iniziative su questo fronte?
«Qualche incentivo, concedere crediti d'imposta come già stiamo facendo e finalizzare meglio le risorse a disposizione. Di più non si può. Le agevolazioni fiscali sono comunque uno strumento utile ».
Per stimolare il rapporto tra ricerca pubblica e privata negli ultimi anni sono stati creati i distretti tecnologici. I risultati, tuttavia, non sono stati gratificanti e in qualche caso ci si chiede se i fondi siano andati nel posto giusto....
«Affronteremo anche i distretti e taglieremo i progetti che si sono rivelati inadeguati valutando l'impatto avuto sul territorio. L'intervento sarà attuato dall'Agenzia per le nuove tecnologie e non sarà indolore. Ma non si può continuare a finanziare senza un risultato: la selezione è necessaria ».
Sempre su questa difficile prima linea c'è l'idea del presidente del CNR Luciano Maiani di rilanciare i progetti finalizzati nati negli anni Settanta proprio alla scopo di creare un ponte tra ricerca pubblica e privata fornendo a quest'ultima occasione di nuovi brevetti. Condivide?
«Bisogna farli partire: li approvo perché saranno un aiuto prezioso. Ma dovranno seguire gli indirizzi del piano che stiamo preparando».
Di tutti gli ostacoli si parla da tempo, ma ce n'è uno forse ancora più grande: i giovani da noi non vedono la ricerca come un mondo per il loro futuro. Coltiva una risposta?
«E' forse il problema più grave e anche quello più arduo da risolvere. Per questo bisogna cambiare la scuola e motivare gli insegnanti. E diffondere, soprattutto, la cultura scientifica come stiamo facendo con la commissione presieduta da Luigi Berlinguer con cui sono in perfetto accordo. E i media devono raccontare di più le magnifiche storie dei nostri scienziati».

Corriere della Sera 14.3.09
Arriva in libreria da Bompiani un saggio inedito di Isaiah Berlin, sintesi definitiva del suo lavoro scientifico e didattico
E un giorno l'uomo creò la libertà
La nascita dei valori: così la rivoluzione romantica ha aperto la strada alla modernità
di Isaiha Berlin


In passato, i valori umani — i fini della vita, quelli in nome dei quali vale la pena di creare o di promuovere o di distruggere le altre cose, in nome dei quali vale la pena di fare tutto, ed esistere è considerato esser fatto così — questi fini o scopi o valori ultimi erano creduti degli ingredienti dell'universo, da scoprire in esso, per mezzo di qualsiasi facoltà gli investigatori avessero impiegato per inventariare il mondo. Dire che una cosa era buona o cattiva, giusta o sbagliata, bella o brutta, nobile o ignobile, degna d'esser conquistata o scoperta o fatta, era considerata una formulazione descrittiva — e registrava che quella cosa in questione possedeva tali qualità. Quale valore esistesse in essa dipendeva, naturalmente, dalla filosofia adottata. Con ciò, alcuni intendevano le qualità oggettive esistenti nel mondo, fossero percepite o no, come delle proprietà naturali, o delle caratteristiche normali individuate nell'esperienza quotidiana — colori, gusti, proporzioni. Altri pensavano magari che un valore consistesse nell'essere parte dello scopo generale della vita nel mondo, un valore creato da Dio o auto-generato. Oppure, poteva essere ciò che soddisfa un qualche mio bisogno, o della società in cui vivo, un bisogno che va identificato per mezzo della introspezione psicologica o della osservazione sociologica; o ciò che mi piace, o approvo, o ritengo capace di darmi probabilmente piacere o di condurmi alla gloria — in breve, il valore poteva essere analizzato in termini di inclinazioni soggettive o in quelle di gruppi umani, in un momento specifico o attraverso un periodo considerato. Ma quale che sia la visione abbracciata, oggettiva o soggettiva, assoluta o relativa, naturalistica o metafisica, a priori o a posteriori, individualistica o sociale, una formulazione di valore o scopo descriveva fatti e rappresentava una realtà. Ovviamente, era cruciale — in effetti, una questione di vita o di morte — scoprire quale fosse la verità in materia di condotta, cioè quali fossero i valori veri. Gli uomini morivano, le guerre si combattevano, proprio per le differenze di visione in questo senso.
Fu durante l'età romantica che, per la prima volta, cominciò a emergere la nozione che i giudizi di valore non sono affatto delle proposizioni descrittive, che i valori non sono scopribili, che essi non sono ingredienti del mondo reale come lo sono i tavoli o le sedie o gli uomini o i colori o gli eventi passati, che i valori non vengono scoperti, ma inventati, creati dagli uomini come le opere d'arte, e riguardo ai quali non ha senso chiedersi dove si trovassero prima. Laddove i filosofi, da Platone in avanti, sembravano concordare che interrogativi del tipo «Cos'è bene? », «Come devo vivere?», «Cosa rende giusto l'atto?», «Perché devo obbedire?», avessero delle risposte che una saggezza poteva scoprire, benché potessero esservi opinioni molto diverse su come e dove le risposte andassero trovate, e quindi in cosa consistesse la saggezza, la nuova dottrina riteneva invece, o sottintendeva, che questo era un approccio privo di senso, come di chi si metta in testa di scoprire dove stesse la sinfonia prima che il compositore la ideasse, dove fosse la vittoria prima che il generale la ottenesse. Gli ideali e i fini non andavano cercati, essi erano creati.
La rivoluzione che sarebbe venuta partendo da questo punto di vista — la trasformazione di valori, la nuova ammirazione per l'eroismo, l'integrità, la forza di volontà, il martirio, la dedizione a cio che si è concepito dentro di noi senza badare alle sue proprietà — fu la più decisiva dei tempi moderni. Essa rappresentò certamente il passo più grande nella coscienza morale dell'umanità sin dalla fine del Medioevo, forse fin dalla nascita del Cristianesimo. Dopo di allora, non vi fu passo di grandezza comparabile — si trattò dell'ultima grande «transvalutazione dei valori» della storia moderna.
Uno degli scopi di questa riflessione è di attirare l'attenzione sulle conseguenze di ciò — di considerare in che grado esso modificò gli atteggiamenti esistenti, e la reazione contraria che stimolò, e quale abisso esso abbia creato tra le generazioni — quelle generazioni che sono venute dopo, che hanno accettato quei cambiamenti, talvolta poco consapevoli di quanto grandi e stupefacenti essi dovessero invece sembrare agli osservatori più accorti e acuti del tempo, e le generazioni le cui parole e i cui pensieri, semplicemente perché venivano prima, paiono antiquati e banali, talvolta per quella ragione soltanto. Il nostro stesso pensiero è in grande misura il prodotto e il campo di battaglia della vecchia concezione «pre-rivoluzionaria» e della nuova «post-rivoluzionaria »; nessuna vera sintesi tra le due è stata effettuata dal semplice passaggio del tempo o dal semplice processo di cambiamento. Le controversie presenti, di tipo sia morale sia politico, riflettono lo scontro di valori iniziato dalla rivoluzione romantica. È arrivato forse il tempo di definire la sua importanza intrinseca e le sue vaste conseguenze.
Durante il grande fermento di idee che precedette la Rivoluzione francese e seguì a essa, l'esperienza venne a modificare quelli che Collingwood era solito chiamare «i presupposti assoluti» dell'esperienza. Le categorie e i concetti che erano dati per scontati ed erano stati dati per scontati anche in passato, e che sembravano troppo solidi perché fosse possibile scrollarli, troppo familiari perché si potesse pensare di indagarli, furono rovesciati. Le controversie del nostro tempo sono il prodotto diretto di questa «trasformazione del modello», e basterebbe soltanto ciò per rendere il periodo in questione, e i suoi pensatori, degni di tutta la nostra attenzione. Potrebbe venirci detto che non si deve magnificare il ruolo delle idee, che le idee sono create da «forze sociali» e non viceversa, che mentre le idee, com'è ovvio, di Locke e di Montesquieu giocarono un loro ruolo nella rivoluzione americana e nel documento costituzionale che da essa uscì, questo avvenne solo perché la struttura economica o sociale dell'America coloniale somigliava all'ordine europeo di cui Locke e Montesquieu erano i «rappresentanti ideologici» — degli araldi o portavoce, ma non degli artefici. In questa convinzione c'è senza dubbio molta verità, ma coloro che la sostengono con fervore partigiano a me sembrano voler sfondare porte aperte: dicono qualcosa che corrisponde senz'altro a verità, ma che è troppo ovvio per essere interessante. Naturalmente, è improbabile che i fondatori della Repubblica americana siano stati influenzati nelle loro idee da Bossuet o da Bolingbroke, o dai gesuiti — dove non c'è terreno adatto ad accoglierlo, difficile che il seme attecchisca. Ma il terreno può restare fertile senza tuttavia che cada alcun seme, o viceversa può accadere che una pianta adatta a un clima totalmente diverso venga messa in sito e avvizzisca o non riesca a crescere fino alla maturità. E non esiste legge sociale in grado di garantire che la domanda crei inevitabilmente l'offerta per rispondere alle esigenze umane. Gli americani erano senz'altro pronti a essere influenzati dalla dottrina di Montesquieu sulla divisione dei poteri, ma questa dottrina era il prodotto di un genio intellettuale, e se Montesquieu fosse morto alla nascita, o si fosse limitato a scrivere satira elegante, o libri di viaggio, questa idea avrebbe potuto non vedere mai la luce nella forma in cui ebbe poi così profonda incidenza. Robespierre si comportò come si comportò, perché era impregnato delle idee di Rousseau e di Mably, ma Rousseau e Mably avrebbero potuto non aver scritto, ed Helvétius e Montesquieu avrebbero potuto prendere il loro posto, e in quel caso il corso della Rivoluzione francese sarebbe stato forse differente, e Robespierre sarebbe, chissà, vissuto e morto in modo differente da quello in cui effettivamente morì. Il più grande evento del nostro tempo è rappresentato sicuramente dalla Rivoluzione russa, e tuttavia è difficile immaginare quale piega diversa avrebbe preso, se Lenin fosse stato ucciso da una pallottola vagante nel 1917, o se non avesse incrociato, durante i suoi anni sensibili, le opere di Marx o di Chernyshevsky.
Gli individui influenzano effettivamente gli eventi. Le idee nascono in circostanze favorevoli al loro sorgere, anche se lo specificare quali siano, nei singoli casi, quelle circostanze è così azzardato da rischiare di trasformare tali leggi in tautologie. Talvolta queste idee risultano di scarso effetto pratico; talaltra, il genio ordinativo di coloro che le creano o che si identificano in esse rende possibile farsi un'idea degli uomini e delle loro relazioni in termini di un singolo modello, e di trasformare la visione dei loro contemporanei — e talvolta anche dei loro oppositori — per mezzo di quel modello.
© RCS Libri S.p.A. / Bompiani 2009 Published by arrangement with Agenzia Letteraria Roberto Santachiara «L'albero della libertà» in una stampa del 1789. Sotto, Isaiah Berlin (1909-1997) in un ritratto di Sophie Bassouls (Corbis)

l’Unità 14.3.09
Furore astratto e graffiti
Cy Twombly: celebrato alla Gnam l’artista americano che ebbe un rapporto speciale con Roma
di Renato Barilli


Lo statunitense Cy Twombly (1928) è il segno vivente dello stretto rapporto che, a partire dagli anni ‘50, si venne a stabilire tra Roma e gli Usa, rapporto di cui hanno dato chiara prova al loro tempo Afro e Toti Scialoja, protagonisti della scena romana ma pronti a innestarvi le vivide tracce della Scuola di New York. Twombly, in un certo senso, ha restituito il favore, portando presso di noi, in quei medesimi anni, i doni, i tesori dell’Espressionismo astratto, ma mostrandosi pronto d’altra parte a compiere le giuste mosse per ambientarli sotto il sole abbacinante del Mediterraneo. In altre parole, non bastano certo i legami personali, pur intensi, che l’artista nordamericano ha stabilito nel nostro Paese, a motivare questa sua opzione quasi unilaterale verso di noi, bisogna cogliervi qualche ragione cogente anche a livello stilistico. Il fatto è che Twombly veniva con più di un decennio di ritardo, rispetto al pieno divampare dell’Action Painting di Pollock e compagni, e allora, come comportarsi? Portare quei frutti preziosi ma un po’ tardivi a esalare in uno spazio protetto, o invece aprire a una stagione successiva, e quasi di segno opposto? Si sa che nelle sue prime peregrinazioni a Roma e sulle coste del Mediterraneo Cy non procedeva da solo, gli era a fianco il quasi coetaneo Rauschenberg, ma quest’ultimo ben capiva che la stagione dei furori astratto - informali era ormai finita, e bisognava aprire le porte all’incalzare degli oggetti. Ne venne il suo New Dada, in cui l’esuberanza cromatica cercava un difficile compromesso con i reperti tratti dal mondo dell’industria, e da lì sarebbe seguita la stagione della Pop Art, su cui fu pronta ad allacciarsi una nuova Scuola romana, con Mario Schifano in testa.
VERSO BASQUIAT
Twombly invece, per parte sua, fu riluttante a compiere quel passo, ad accogliere la scontrosa durezza delle «cose di pessimo gusto», e dunque le coste laziali gli servirono come serra protetta, in cui appunto esalare gli ultimi profumi dell’Action Painting, come fiori che la troppa luce abbacina e quasi incenerisce. Nello stesso tempo egli è sempre stato ben consapevole che bisognava sostenere quella vegetazione gracile al di là di un destino di putrefazione incalzante, ed ecco allora il capitolo delle sue sculture, su cui giustamente insiste la bella retrospettiva organizzata da Nicholas Sirota per la Tate Modern di Londra, ed ora approdata alla Gnam di Roma, inserendole quasi alla pari con le enormi tele e le carte sottilmente graffite. È come se da quegli stagni incanutiti per sovraesposizione ai raggi del sole si innalzasse una vegetazione magra, spettrale, peraltro contaminata con la presenza di reperti oggettuali, in un amalgama unico, in cui gambi e steli si mutano in tralicci di poveri oggetti gettati nella spazzatura. Per questo verso Twombly dialoga da lontano con la civiltà Pop, ma in definiva la supera, punta in direzione di astri successivi, dal tedesco Kiefer ai Graffitisti del suo Paese, Basquiat primo fra tutti.

Cy Twombly, A cura di Nicholas Sirota, Roma Galleria Nazionale d’Arte Moderna Fino al 24 maggio Catalogo: Electa