martedì 17 marzo 2009

l'Unità 17.3.09
Patto tra Likud e ultra destra
Agli Esteri Lieberman
di Umberto De Giovannangeli

«Avigdor il russo» alla conquista d’Israele. Il leader di Israel Beitenu sarà a capo della diplomazia dello Stato ebraico. Nonostante le inquietudini delle cancellerie occidentali e dei leader arabi moderati.

Lo aveva promesso in campagna elettorale: il futuro d’Israele «dipenderà da noi». Così sembra essere. L’ombra di Avigdor Lieberman,leader di Israel Beitenu (Ib) e tribuno della nuova destra radicale laica israeliana, è da ieri a un passo dal vertice della diplomazia dello Stato ebraico. Il suggello, largamente annunciato è giunto l’altra notte: un accordo con il premier incaricato Benyamin Netanyahu ha messo nero su bianco che sarà lui - col suo inconfondibile accento russo e gli echi della sua retorica anti-araba - il ministro degli Esteri di un futuro governo di sole destre, che a questo punto appare più vicino che mai.
NEL SEGNO DI AVIGDOR
L’intesa non chiude ancora la porta a una coalizione più ampia, aperta ai centristi di Kadima - della ministra degli Esteri uscente Tzipi Livni - e ai malconci laburisti di Ehud Barak. Ma tutto fa pensare che l'asse Netanyahu-Lieberman sia ormai formato. E che, almeno per il momento, sia destinato ad allargarsi a una coalizione con i soli partiti minori - confessionali e non - del fronte destro: forte della maggioranza parlamentare dopo il voto del 10 febbraio, per quanto di una maggioranza ristretta a non più di 65 seggi sui 120 della Knesset.
Una maggioranza a cui Kadima «non intende fare da foglia di fico», ha ribadito ieri Livni. Tanto meno in mancanza di garanzie sul processo di pace con i palestinesi - nel solco della soluzione «due popoli, due Stati», rispetto alla quale il governo di destra rischia di finire in rotta di collisione con l'imprescindibile alleato americano, nell'era Obama - e di quella rotazione alla premiership che la leader centrista potrebbe vedersi offrire di qui a pochi mesi su un piatto d'argento in caso di crisi.
TZIPI RESISTE
Fra il Likud (il partito della destra tradizionale capeggiato da Netanyahu) e Israel Beitenu i giochi intanto sembrano decisi. La formazione di Lieberman, terza forza del Paese, avrà cinque dicasteri-chiave: Esteri, Sicurezza Interna, Infrastrutture,Turismo e Integrazione degli immigrati. Intesa anche sulla piattaforma programmatica, che glissa sul processo di pace coi palestinesi moderati dell’Anp, mentre conferma «l'obiettivo strategico di rovesciare il governo (islamico) di Hamas» a Gaza e l’impegno a «compiere ogni sforzo, specialmente nei riguardi della comunità internazionale, per prevenire l'armamento atomico dell'Iran».
Le attenzioni, in questa fase, si concentrano tuttavia sulla sorte del ministero degli Esteri, destinato a finire in mano al turbolento e chiacchierato Lieberman: al centro fra l’altro di una indagine per presunte malversazioni finanziarie che lo porterà nei prossimi giorni ad essere nuovamente interrogato dalla polizia. Fra gli analisti e i veterani della diplomazia israeliana c'è chi già prevede un catastrofico «danno d'immagine» per il Paese. Ma c'è anche chi - dal vecchio «falco» Moshe Arens alla «colomba» Shlomo Ben Ami - liquida come «sciocchezze» i timori di boicottaggi. E prova magari mettere in luce il lato pragmatico dell’ex sovietico Lieberman, piuttosto che quello incendiario da comizio.

l'Unità 17.3.09
Domani sciopero generale promosso dalla Federazione lavoratori della Conoscenza Cgil
Torna in piazza l’Onda degli universitari. Assenti Cisl e Uil. Epifani e Pantaleo a Palermo
Docenti, precari e ricercatori contro i tagli della Gelmini
di Maristella Iervasi

Tagli alla scuola, ricerca bistrattata, precari messi in strada. Dagli atenei alla ricerca, dalle elementari alla formazione il malcontento è generale. Domani sciopero generale della Flc-Cgil. Epifani a Palermo.

Tutti insieme allo sciopero generale contro i tagli del governo alla Conoscenza. Domani si fermano, per la prima volta uniti, tutti coloro che lavorano nella scuola, negli Atenei, negli enti di ricerca, nella formazione professionale e Afam. Docenti, precari, ricercatori, collaboratori scolastici e dirigenti saranno nelle piazze con manifestazioni, cortei e presidi promossi dalla Flc-Cgil. Un’adesione allo sciopero della Conoscenza che si annuncia di peso. Già schierate la Sinistra e Legambiente scuola, la Rete nazionale precari e gli studenti medi, la scienziata Margherita Hack ma anche il Cidi e Movimento cooperazione educativa (Mce). Assenti i sindacati Cisl e Uil, come da copione, tranne il Gilda degli insegnanti che promette «cattedre deserte». Aderisce allo sciopero a titolo personale anche Mariangela Bastico, responsabile scuola del Pd. E in occasione della grande mobilitazione contro i provvedimenti del governo Berlusconi sull’istruzione e ricerca, anche l’Onda torna in movimento. Gli universitari dei collettivi di protesta contro la riforma Gelmini proprio in queste ore hanno deciso di tornare a «surfare» nelle città. Nel giorno della Flc-Cgil anche l’Onda è intenzionata a guadagnarsi una fetta di protesta indipendente e autonoma, come fece in autunno.
Le piazze dello sciopero
Dall’Abruzzo alla Sardegna, senza saltare una regione. Guglielmo Epifani, leader della Cgil, e Mimmo Pantaleo, segretario generale della Flc-Cgil, concluderanno la manifestazione nazionale a Palermo in programma alle 9.30 al teatro Politeama. L’intervento di Epifani affronterà il tema dei giovani e del Mezzogiorno. La necessità di ottenere più fondi per l’istruzione e la formazione come ricetta per uscire dalla crisi. Una scelta non causale quella del Sud, dove il modello scuola del modulo l’ha fatta da padrone sul tempo pieno. Di conseguenza, con la soppressione delle compresenze (2 insegnanti su 3 classi) i tagli al personale docente saranno più visibili che altrove. A Roma nessun corteo ma una manifestazione in piazza Santi Apostoli a partire dalle 9.30. In Calabria, presidi con gazebo in ogni provincia sul precariato. A Milano un corteo da Bastioni di Porta Venezia a piazza Duomo. Idem a Torino: concentramento in piazza Arbarello poi in corteo fino a piazza Castello con comizio finale. E così via.
Gli slogan: «Tutti insieme. Sciopero generale. Per uscire dalla crisi investendo nella Conoscenza». Tre almeno gli «stop» per non lasciare che i diritti «vadano in crisi» e rivolti tutti contro il governo Berlusconi che «fa pagare la crisi a cittadini e lavoratori, vuole indebolire la contrattazione e scommette sull’ignoranza». Docenti, educatori e l’alta formazione musicale e artistica scioperà per l’intera giornata. Negli enti di ricerca pubblici e privati e nella formazione professione l’astensione dal lavoro è di 4 ore.
L’Onda Ritornano gli universitari, con scioperi selvaggi e imprevedibili come accadde nell’autunno scorso. A Roma l’appuntamento è alla Sapienza, in piazza della Minerva. A Milano in piazza Venezia. Ad Ancona in piazza del Papa, sotto la Prefettura. A Genova in piazza Caricamento.

l'Unità 17.3.09
Fine vita, migliaia di emendamenti presentati al Senato
Solo i radicali ne hanno depositati 2572, il Pd 173 (75 unitari)
Consenso compatto al testo Finocchiaro, firma anche Marini
di Maria Zegarelli

Soffia vento di bufera sul dibattito in aula previsto per domani in aula al Senato sul testamento biologico. Sono arrivati una valanga di emendamenti (ieri è scaduto il termine ultimo per presentarli) al testo Calabrò licenziato dalla Commissione Sanità: i radicali ne hanno presentati 2572; il Pd 173 di cui 75 unitari, gli altri individuali; l’Idv 35; l’Udc 8, la maggioranza ne ha annunciati 9. Oltre tremila in tutto secondo il relatore.
Due eccezioni di costituzionalità sono state firmate dai radicali e una è stata annunciata dal Pd. Fin qui la pennellata generale, il dettaglio rivela aspetti interessanti: l’emendamento Finocchiaro, relativo alla sospensione di idratazione e alimentazione artificiale (il vero nodo di tutto l’impianto della legge) è stato sottoscritto da tutto il direttivo del gruppo (meno Baio Dossi, Bonino e Sbarbati che non è stata raggiunta telefonicamente), dai membri e dal capogruppo della commissione Sanità (tranne Gustavino). L’accordo è arrivato dopo un braccio di ferro andato avanti fino a mezzogiorno tra laici e cattolici (secondo i quali l’emendamento non avrebbe dovuto portare la firma del presidente del gruppo). Alla fine la tela tessuta da Anna Finocchiaro, gli ex popolari e il segretario Franceschini ha dato i suoi frutti e si è ribadita «la posizione prevalente» nel partito, dopo lo strappo che si è verificato con il voto finale in commissione quando il gruppo ha votato in ordine sparso. È questo il significato delle firme di Franco Marini e di altri ex popolari. Un messaggio di unità e compattezza in vista del dibattito in Aula ma anche un avvertimento a Dorina Bianchi. «Cara Dorina così non va», le è stato detto facendole capire che la sua nomina in commissione Sanità potrebbe saltare. Per questo ha firmato controvoglia l’emendamento che considera l’idratazione e l’alimentazione trattamenti di «sostegno vitale», che devono essere sempre garantiti a meno che la sospensione «sia espressamente oggetto della dichiarazione anticipata di trattamento». Ma se è vero che si è detta disponibile in aula a spendersi «maggiormente» in quel senso,poi ha firmato un emendamento (sottoscritto da Gustavino, Lusi e De Sena) che va nella direzione opposta: stop a idratazione e alimentazione artificiali (che non possono essere oggetto di Dat) solo per i casi in stato vegetativo in cui non si verifica più l’assorbimento. Anche Marini ha firmato altri due emendamenti, presentati da Bosone, nei quali si cerca di tracciare confini rigidissimi entro i quali è possibile sospendere i trattamenti ma in uno possono essere oggetto di dichiarazione anticipata, nell’altro no. Ponti verso il dialogo, in sostanza. Un emendamento porta la firma di Ignazio Marino e Umberto Veronesi e raccoglie la posizione più laica del Pd: idratazione e alimentazione sono trattamenti medici e in quanto tali è il malato che decide e lascia disposizioni nella Dat. Albertina Soliani in solitaria sostiene la volontà del paziente ma dà al medico la possibilità di non sospendere i trattamenti nel caso in cui ci fosse un reale beneficio terapeutico.
Poi c’è la «terza via» di Francesco Rutelli, indicata in sei emendamenti: coinvolgere il paziente minore (escluso dal testo della maggioranza); responsabilizzare medici e personale sanitario sul rischio eutanasia; dare la possibilità al medico nelle fasi terminali di non procedere ad accanimento terapeutico e di tenere conto della volontà del paziente anche se le dichiarazioni del soggetto fossero scadute. Il Pdl sgombra il campo da possibili illusioni rutelliane: non c’è alcuna terza via, dice Gaetano Quagliariello, «Noi - spiega -abbiamo dei paletti che non intendiamo superare: difesa della vita da una parte e libertà di cura dall’altra, no all’eutanasia di Stato e no all’accanimento terapeutico».

l'Unità 17.3.09
Dopo la decisione di Firenze
Chi ha paura del cittadino Englaro
di Maurizio Mori

Il caso Eluana sta demolendo la ragione. A Beppino viene conferita la cittadinanza onoraria di Firenze e la Curia fiorentina subito protesta perché l’onorificenza sarebbe «a spregio di chi ha altre opinioni e ritiene la vita un bene indisponibile perché sacro». Altri chiedono a Beppino di rinunciarvi perché non è all’unanimità e crea divisioni! Per le stesse ragioni potremmo chiedere al Parlamento di rinunciare alla legge sul fine vita che non è unanime, crea fratture ed è fatta a spregio di chi non crede che la vita sia sacra. Questa richiesta è anche più razionale perché non impone nulla e lascia libero ciascuno di accettare o rifiutare la nutrizione artificiale ecc... Come col divorzio: chi non vuol divorziare, libero di non farlo, ma perché impedire di divorziare a chi ne avesse l’esigenza?
Per la Curia, poi, «l’offesa più grande è stata fatta verso i genitori e i volontari che si stringono attorno ai loro oltre 2500 cari che vivono» in Stato Vegetativo Permanente, la cui dedizione e fatica va sostenuta. Ma se la dedizione è ben riposta, ha già in sé la propria ricompensa, e non c’è alcuna offesa nella proposta di dedizioni diverse. La mia dedizione allo studio mi porta a impiegare il tempo libero nella lettura, ma non considero affatto un’offesa che si premi Pippo Baudo o un calciatore: anzi, sono contento per loro!
Dietro l’idea che la cittadinanza onoraria a Beppino sia un’offesa ai familiari dei 2.500 in Stato Vegetativo Permanente si nasconde la consapevolezza che la situazione sia in realtà diversa da quella che i cattolici sbandierano a gran voce. Perché se è vero che tra quelle 2500 famiglie ve ne sono alcune sostenute da dedizione incrollabile e altre che, pur perplesse, restano comuqnue fedeli alla sacralità della vita, è altrettanto vero che una grande maggioranza di quelle è pronta a seguire la strada di Beppino se solo potesse produrre documentazione sufficiente. Se così non fosse la libertà aperta dal padre di Eluana non farebbe paura.
La durezza della nota della curia fiorentina fa venire in mente l’omelia del vescovo di Prato, Fiordelli quando nel lontano 1956 definì «pubblici peccatori e concubini» i coniugi Bellandi che si erano sposati solo con rito civile. Come allora stava sgretolandosi la “sacralità della famiglia”, oggi è già dissolta la “sacralità della vita”: Beppino non è il cattivo o lo strumento inconsapevole di chi ha voluto abbattere la sacralità della vita come ripetono i giornali cattolici, ma la persona che ha dato voce a un processo che è già in atto. Questa, forse, è la chiave per comprendere quanto sta accadendo e per tastare, con mano, il paradosso in cui si trova la società: sentire l’esigenza di innovare ma essere costretti ad aspettare. Anni, forse decenni.

l'Unità Firenze 17.3.09
Cittadinanza onoraia: Englaro no, Mussolini sì?

Il Pdl scrive a Beppino Englaro, padre di Eluana, per invitarlo a rifiutare la cittadinanza onoraria conferitagli dal consiglio comunale di Firenze. Ma è curioso sapere che, tra i cittadini onorari di Firenze, ci sono Benito Mussolini e Galeazzo Ciano. Padri del fascismo. Ai quali l’onorificenza non è mai stata revocata. «Se si parla di togliere cittadinanze onorarie, partiamo da Mussolini», spiega Ugo Caffaz, consigliere comunale del Pd. Silvano Sarti, presidente dell’Anpi fiorentino, chiederà al sindaco Leonardo Domenici di togliere la cittadinanza onoraria al Duce. Oggi in consiglio comunale il Pdl darà battaglia per togliere la cittadinanza onoraria a Beppino Englaro o di rimandarne la cerimonia (il presidente del consiglio comunale Eros Cruccolini vuole fare la celebrazione entro marzo), cercando sponde con la maggioranza. Intanto, polemiche tra il Pdl e il candidato sindaco del Pd Matteo Renzi sul caso del padre di Eluana, con accuse reciproche di strumentalizzazione.

Il Duce (così come Galeazzo Ciano) e Beppino sono cittadini onorari di Firenze ma si parla di revoca solo per il padre di Eluana. «Sulla vicenda c'è stata l'ennesima strumentalizzazione plateale» dice Matteo Renzi.

Ieri il Pdl fiorentino ha inviato una lettera a Beppino Englaro, padre di Eluana, invitandolo a non accettare la cittadinanza onoraria conferitagli dal consiglio comunale. E oggi nella seduta dell’assemblea chiederà di fare la cerimonia di onorificenza dopo questa legislatura (il presidente del consiglio comunale Eros Cruccolini spinge invece per celebrarla entro il mese), per non «strumentalizzare» la campagna elettorale, cercando sponde anche nella maggioranza. Il riconoscimento, si legge nella lettera a Beppino scritta dalla capogruppo di Forza Italia in consiglio comunale Bianca Maria Giocoli, è stato deciso da una «maggioranza ristretta, per piccoli interessi di bottega».
IL DUCE «revocato»
Ma è curioso sapere che, tra i cittadini onorari di Firenze (città medaglia d’oro della Resistenza), ci sono Benito Mussolini e Galeazzo Ciano. E mai la cittadinanza onoraria è stata revocata a questi padri del fascismo. Ugo Caffaz, consigliere comunale del Pd, fa notare: «Se proprio dobbiamo fare delle revoche di questo tipo, partiamo da Mussolini». In decine di comuni italiani la cittadinanza onoraria al Duce, abusata durante gli anni del fascismo, è stata revocata. Ad esempio, a Montelupo fiorentino ed Arezzo, oltre ad alcuni comuni dell’Alto Adige. Ma a Firenze l’unica cittadinanza onoraria di cui si parla in termini di revoca è quella per Beppino.
L’anpi: scriveremo al sindaco
«Mussolini cittadino onorario di Firenze? Questa è una grave trascuratezza». Silvano Sarti, presidente dell’Anpi provinciale reagisce con incredulità e, al tempo stesso, con fermezza. E si impegna a portare avanti una battaglia perché la lacuna venga colmata al più presto. «Scriveremo al sindaco» annuncia. Delle iniziative da adottare perché venga avanzato un provvedimento di revoca, si parlerà questa mattina nella riunione di presidenza. «Sarà il primo argomento all’ordine del giorno» spiega.
«Una revoca sarebbe senza dubbio un atto civilmente significativo - spiega Ivano Tognarini, presidente Istituto Storico della Resistenza in Toscana - anche se dal punto di vista sostanziale forse oggi non ha più senso. Certo che questo sarebbe dovuto avvenire negli anni dopo la guerra».
POLEMICHE RENZI-FORZA ITALIA
«Prendo atto che su questa vicenda c’è stata l’ennesima strumentalizzazione, plateale ed evidente». Così Matteo Renzi (Pd), candidato sindaco del centrosinistra, risponde a chi gli chiede un commento sulla delibera presentata dal Pdl in consiglio comunale a Firenze, per chiedere la revoca della cittadinanza onoraria a Beppino Englaro. Conferimento che, si ricorda, ha spaccato, lunedì scorso, l’assemblea comunale, ed è stato approvato con 22 sì, 16 no (Pdl, Udc e 5 consiglieri del Pd), e 3 astenuti. «Ormai il consiglio comunale ha votato - osserva Renzi - e, quindi, che si utilizzino i temi della vita e della morte a fini di campagna elettorale è errato. Questa vicenda avrebbe bisogno di rispetto e silenzio. Se il centrodestra pensa di fare una campagna elettorale a colpi di strumentalizzazioni, è un’occasione persa». Renzi ribadisce di essere «contrario alla cittadinanza a Englaro».
Quanto alle critiche espresse da monsignor Giuseppe Betori alla decisione dell’assemblea comunale, «l’arcivescovo ha espresso la sua posizione - aggiunge Renzi - È suo diritto dire ciò che pensa, è diritto del consiglio comunale votare come crede. Se il centrodestra non voleva arrivare alla cittadinanza a Englaro, doveva esprimersi a favore del rinvio della votazione». Ma da Forza Italia sulla questione arrivano attacchi al Pd: «Abbiamo votato no - ricorda il consigliere comunale e senatore forzista Gabriele Toccafondi - alla cittadinanza onoraria al signor Englaro, e coerentemente continuiamo a ribadire che è stato un atroce errore di metodo». E il centrodestra non vuole mollare. «Adesso - prosegue Toccafondi - vogliamo scongiurare che la decisione di conferire materialmente la cittadinanza onoraria sia fatta in questi giorni, ovvero in campagna elettorale. La delibera che abbiamo presentato di revoca del conferimento va in questo senso: scongiurare una campagna elettorale utilizzando la cittadinanza onoraria al signor Englaro».
Rincara la dose il consigliere comunale di An Giovanni Donzelli: «Abbiamo reputato di pessimo gusto la scelta del centrosinistra fiorentino di strumentalizzare la tragica vicenda Englaro per rimarcare ulteriormente la centralità di un esasperato laicismo nel pensiero della sinistra. La cittadinanza onoraria a Englaro è stata una scelta triste e sbagliata per la città di Firenze, cercare di porre rimedio è un atto di civiltà», dice. Senza far mancare attacchi al candidato a sindaco del Pd e del centrosinistra: «Renzi, impaurito di perdere i voti della sinistra - aggiunge Donzelli - inizia già a cedere sulle questioni etiche e sui valori esistenziali che lo hanno sempre contraddistinto. Figuriamoci quanto ci metterà a rimangiarsi le infinite promesse fatte sulle piccole questioni pratiche come le buche nelle strade e i parcheggi».

Repubblica 17.3.09
I peccati della Chiesa
Un´istituzione bimillenaria raccontata nel suo lato peggiore
La "santa Casta" non va in paradiso
di Filippo Ceccarelli

Ma sulla questione dell´Olocausto l´autore sostiene che Pio XII fece salvare 600 ebrei
Il libro scritto da Claudio Rendina fa sembrare Dan Brown un principiante
In una storia così lunga, per ogni infamia c´è però sempre una virtù
Il caleidoscopio di nequizie ecclesiastiche è ricco di esempi

A proposito di odio, morsi, divoramenti in Vaticano e dentro la Chiesa: eh, figurarsi, non è mica la prima volta, da quelle parti la storia offre molto di peggio. E dunque, tenendosi larghi e vaghi, per non dire indulgenti: stragi, avvelenamenti, saccheggi, roghi, torture, idolatrie, simonie, traffici, nepotismi, incesti, pedofilia, riesumazione e vilipendio di cadaveri, con tanto sacri paramenti indosso, e a lungo si potrebbe continuare, secolo dopo secolo, con il soccorso di una imponente documentazione.
A chi invoca a tutto spiano il premiato binomio Radici & Tradizione contro le magagne del presente relativismo; a chi vede la speranza o addirittura intravede la salvezza nel passato trionfale dell´autorità pontificia, forte di valori antichi e inflessibile nella vera fede, si raccomanda vivamente di buttare un occhio su quest´ultimo volume di Claudio Rendina, instancabile erudito che con la consueta asciuttezza si misura questa volta su La Santa Casta della Chiesa (Newton Compton, pagg. 383, euro 12,90). Inevitabilmente suggestivo il sottotitolo: "Duemila anni di intrighi, delitti, lussurie, inganni e mercimonio tra papi, vescovi, sacerdoti e cardinali". Così è, d´altra parte: e continua pure.
Sarebbe ingiusto adesso sminuire il dramma anche personale di Benedetto XVI sulla conduzione della Chiesa. E tuttavia, "nella consapevolezza del lungo respiro che essa possiede", come si legge nella lettera da lui pubblicata l´altro giorno sull´Osservatore romano, occorrerà riconoscere che ad alcuni predecessori di Joseph Ratzinger è andata decisamente peggio; così come altri papi assai più di lui certamente fallirono, o nel modo più spaventoso vennero consigliati, altro che mancata consultazione "mediante l´internet".
Il campionario di Rendina, le cui diverse cronologie e gli approfondimenti di storia pontificia si trovano pur sempre nelle librerie intorno alla Santa Sede, offre in questo senso una rimarchevole varietà di esempi: papi eletti tre volte, papi saliti sul sacro trono a suon di quattrini, papi mezzi atei o interamente pagani, papi davvero molto attaccati alle loro famiglie, tanto da battezzare il "nepotismo", papi assassini, bruti, spergiuri, ladroni, perversi, dementi e biscazzieri. Ce n´è uno, Giovanni XII, probabile record-man dei secoli bui, che nominò vescovo il suo amante, un ragazzino di 10 anni, e che scoperto a letto con l´amica, venne poi buttato giù dalla finestra. Ce n´è un altro ben più famoso, Alessandro VI, della famiglia Borgia, che ne fece a tal punto di cotte e di crude, pure la corrida sotto il Cupolone, che nei santini distribuiti "in solemnitate pascali" lo scorso anno nella basilica di San Pietro, e recanti l´immagine de La Resurrezione di Cristo del Pinturicchio, ecco, quel papa lì, che per giunta era il committente dell´opera, ecco, risulta cancellato dal quadro, come nelle foto della nomenklatura sovietica dopo le purghe.
E saranno anche vicende che si perdono nella notte dei tempi, cosa ovvia per un´istituzione bimillenaria. Ma insomma, prima di Rendina, il peccato che sin dall´inizio grava sulla Chiesa ha del resto ispirato la più alta poesia e letteratura, da Iacopone a Dante, da Petrarca fino al Belli, e oltre.
Tutto però sembra oggi rimosso dal discorso pubblico e in particolare dall´armamentario teo-con - secondo l´antica pratica, peraltro evangelica, della pagliuzza e della trave. Dai primissimi commerci di loculi e reliquie nelle catacombe alla controversa carriera dell´odierno comandante delle Guardie Svizzere; dalle torture dell´Inquisizione alle turpi pratiche del fondatore dei Legionari di Cristo, Marcial Maciel, su degli innocenti; dalle cortigiane che nella Curia cinquecentesca si comportavano come autentiche "papesse" fino alle speculazioni edilizie post-risorgimentali, il libro di Rendina certamente si presenta come un caleidoscopio di nequizie ecclesiastiche, un prontuario di immoralità vaticana da far sembrare Dan Brown uno sprovveduto principiante.
Ma al dunque si può e forse addirittura si dovrebbero leggere, queste pagine, come un saggio storico sulla genealogia e gli sviluppi imprevisti di un potere che più di ogni altro sulla faccia della terra costringe degli uomini con la mantella bianca a fare i conti con l´essenza del sacro e al tempo stesso con le inesorabili necessità del profano; e quanto più tale sovranità si concentra sulla materia, sui corpi, sul denaro, sulle apparenze, tanto più automaticamente ne risente lo spirito o lo Spirito, se si preferisce. E sebbene anche per Santa Romana Chiesa i tempi sono quelli che sono, tempi di paure, di ritorni, di sbarramenti, sarebbe sbagliato liquidare questa torbida rievocazione come parte del solito complotto laicista. E non solo perché l´autore è fuori dai giri e anzi, per dire, sulla questione delle responsabilità di Pio XII nell´Olocausto sposa la tesi opposta, sostenendo che la Santa Sede mise in salvo 600 mila ebrei "con un impegno finanziario non indifferente". Ma soprattutto perché da una lettura distaccata e senza pregiudizi appare chiarissimo come in una storia così lunga e così umana per ogni infamia c´è sempre un´eroica virtù; e quindi a ogni mascalzone della Santa Casta corrisponde un santo, a ogni sacro carnefice o barattiere un Francesco d´Assisi, a ogni Borgia un Filippo Neri, a ogni Marcinkus una Madre Teresa di Calcutta.
Questa necessitata ambivalenza si meriterebbe forse una maggiore umiltà. Adesso, per dire, c´è la crisi. Quando se ne videro i primi effetti, nell´autunno scorso, un intelligente uomo di banca, nonché autorevole editorialista dell´Osservatore romano, Ettore Gotti Tedeschi, già segnalatosi per aver consigliato ai manager di fare gli esercizi spirituali, ha spiegato grosso modo in un´intervista che alle origini del disastro finanziario c´è l´etica dei banchieri protestanti, mentre i nostri uomini di finanza, cioè cattolici, "sono in grandissima parte seri, trasparenti e dotati di visione etica".
E meno male che c´è da stare tranquilli! Però poi subito viene da pensare ai bacetti di Fiorani al pio governatore Fazio, o al crack Parmalat e al mega-cattolico Tanzi che scarrozzava cardinali con il suo aeroplano; ed è un peccato che non si possa sentire al riguardo Nino Andreatta, che fu ministro del Tesoro ed ebbe il suo da fare ai tempi dello scandalo Ior; per non dire Sindona e Calvi, poveri morti ammazzati, entrambi a suo tempo "banchieri di Dio". Che invece Iddio non ne avrebbe tanto bisogno, di banchieri personali o nazionali, a differenza del Vaticano, che invece sono duemila anni che si accanisce e si avvilisce appresso a Mammona in forma di tariffe penitenziali, vendita d´indulgenze, proficue crociate, fabbricazione di giubilei, peripezie valutarie, funambolismi azionari e finanziari. E che magari adesso, in qualche missione "sui iuris" alle Cayman, qualche titoletto tossico nel portafoglio se lo potrebbe anche ritrovare, come del resto è già capitato nelle migliori famiglie della finanza.
Dell´economia e perciò anche della crisi e delle sue vittime il Papa, che ha già detto tante buone parole, pubblicherà presto un´enciclica sociale, "Caritas in veritate". Il titolo suona piuttosto impegnativo, ma certo un gesto simbolico non guasterebbe. Nel frattempo, rispetto a odio, morsi, divoramenti e umane debolezze, vale comunque il salmo 129: "Si iniquitates observaveris, Domine, quis sustinebit?". Se consideri solo le colpe, o Signore, chi mai potrà esistere?

l'Unità 17.3.09
I censori del web
di Francesco Costa

L’Italia non è nella lista degli Stati che, secondo Reporters sans frontières, sono ostili alla Rete. Ma un emendamento al decreto sicurezza prevede la possibilità di oscurare del tutto
un sito anche per un solo messaggio dai contenuti illeciti. E ora c’è la «legge Carlucci»...

Pochi giorni fa Reporters sans frontières ha elencato i nomi dei paesi «nemici di internet»: dodici Stati che esercitano il massimo del controllo possibile sulla rete, restringendo gli spazi di libertà di espressione dei loro cittadini. Si tratta di Arabia Saudita, Birmania, Cina, Cuba, Egitto, Iran, Corea del Nord, Siria, Tunisia, Turkmenistan, Uzbekistan e Vietnam. Dittature efferate, regimi autoritari, democrazie solo nominali. L’Italia non è nell’elenco. Ma la mancata inclusione, il fatto di essere un paese democratico, non ci mette al riparo dal rischio di elaborare una legislazione repressiva: dove non arriva la violenza criminale delle dittature, spesso possono arrivare la scarsa conoscenza del problema, se non in alcuni casi l’ignoranza o la malafede. La proverbiale allergia alla modernità della classe politica italiana - sempre che sia lecito parlare di modernità a proposito di una cosa, Internet, che esiste da vent'anni - rischia infatti di bloccare il nostro paese nel medioevo digitale.
Di danni se ne sono già fatti: diverse zone d'Italia non sono ancora raggiunte da Internet ad alta velocità e i fortunati che hanno l'Adsl pagano l’abbonamento molto più di quello che pagherebbero all’estero per l’identico servizio, anche il doppio. Risultato: l'Italia è l'unico paese dell’Unione europea dove la diffusione della rete arretra anziché aumentare (dati Eurostat). Se da anni le sentenze si rincorrono e si contraddicono, nel tentativo di accomunare internet ora alle bacheche universitarie, ora agli organi di stampa, la politica sembra essersi da poco accorta di questo enorme vuoto legislativo. Con risultati che suscitano molto perplessità.
Si è discusso parecchio in rete della proposta del senatore dell’Unione di centro Gianpiero D'Alia: un emendamento al decreto sicurezza - già approvato al Senato - volto a dare al ministro dell’Interno il compito di disporre filtraggi e addirittura oscuramenti per quei siti su cui si leggano «apologie di reato o istigazioni a delinquere». Facebook e Youtube, per fare due esempi, rischierebbero di essere interamente oscurati se comparisse anche un solo messaggio di incitamento a Totò Riina. La proposta di D’Alia ha infatti suscitato, nella stampa estera, commenti a metà tra l'allarmato e l'ironico. E un deputato del Popolo delle libertà, Roberto Cassinelli, ha presentato alla Camera un emendamento volto a eliminare l'assurdo principio dell'oscuramento e istituire un tavolo tecnico per una legislazione organica sulla rete.
Non è finita. Anche un altro deputato del Pdl, Gabriella Carlucci, è intervenuto di recente sulla materia. L’ha fatto con un disegno di legge che ha suscitato grandi discussioni nel web, non solo per il suo contenuto. Presentato come una proposta contro la pedofilia (che però non è mai nominata), il testo mira a impedire l'anonimato su internet. Quando è stato diffuso nel web, però, chi l’ha scaricato ha scoperto che era stato scritto da Davide Rossi, presidente di Univideo, una delle più grandi e influenti lobby dell'editoria. Evidentemente la Carlucci non sapeva che ogni file conserva memoria di colui che l’ha redatto e che questo “ricordo” riemerge nel momento in cui il file viene aperto.
La scarsa confidenza con le tecniche e la sensibilità della rete non è un’esclusiva del centrodestra. Pochi mesi fa Riccardo Levi (Partito Democratico) presentò un disegno di legge per imporre l'iscrizione a un registro pubblico a chiunque avesse voluto aprire un blog. Seguirono diverse proteste e, alla fine, Levi ritirò la proposta.
Un filo lega queste vicende. Da una parte è possibile riscontrare una certo grado di interesse d’impresa o politico in chi vorrebbe cancellare Internet pur di non essere costretto a inventarsi un nuovo modello di business - «Internet non serve all'umanità», è una delle frasi celebri di Davide Rossi, l’autore del disegno di legge della Carlucci - o non essere costretto a rendere conto del proprio operato di politico a una platea di cittadini sempre più attenta e numerosa. Dall'altra parte c'è l'ignoranza di una classe politica che spesso basa le sue scelte su luoghi comuni. Come quello secondo cui Internet è «una giungla senza regole». Un’affermazione falsa. Le diffamazioni, le calunnie, le apologie di reato, lo stalking compiuti in rete sono punibili grazie alle norme già vigenti in queste materie. O ancora: «Su Internet si può fare di tutto protetti dall'anonimato». Falso anche questo: al contrario di quel che avviene per le scritte sui muri e gli atti di vandalismo, qualsiasi azione compiuta su Internet porta con sé dati e informazioni sul suo autore. E' praticamente impossibile - se non utilizzando complicati sistemi di contraffazione - immettere un contenuto in rete senza poter essere identificati dall'autorità giudiziaria. Altra convinzione errata piuttosto diffusa: «I siti internet sono responsabili per i contenuti pubblicati dagli utenti». È come dire che i postini sono responsabili del contenuto delle lettere che recapitano.
Una legge su Internet serve, eccome: ma che sia una buona legge, equilibrata e moderna. Magari anche scritta da qualcuno che sappia di cosa parla.

Repubblica 17.3.09
Presentato il simbolo che unisce ex Prc, ex Pdci, Verdi, Ps e Sd. "Lanciamo il quorum oltre l´ostacolo". Forse in corsa Venditti, Pannella e Camilleri
"Sinistra e Libertà" alle Europee. Vendola capolista

ROMA - Ottimisti. E di sinistra. I sondaggi, assicurano, li collocano fra il 3,3 e il sei per cento, e dunque ad un passo dal superare lo sbarramento per le europee. E quindi, come riassume con una battuta Nichi Vendola, «possiamo lanciare il quorum oltre l´ostacolo». Quanto alla sinistra, ce n´è per tutti i gusti nel cartello appena nato. A cominciare dal simbolo, "Sinistra e libertà", metà rosso e metà verde, con in piccolo i loghi dei partiti europei di riferimento.
Dentro Sl, il nuovo contenitore che prova a far dimenticare il disastro dell´Arcobaleno alle politiche, trovano posto gli ex rifondaroli di Vendola e Giordano e gli ex Pdci di Guidoni e Belillo, i Verdi di Grazia Francescato, il Ps di Riccardo Nencini, e la Sinistra democratica di Fava e Mussi.
«Non saremo un partito ma nemmeno un semplice cartello elettorale», sintetizza in conferenza stampa il socialista Marco Di Lello, presenti anche nomi illustri della diaspora a sinistra, come Achille Occhetto e Giovanni Berlinguer. Ottimisti e di sinistra ma, di sicuro, alle prese con una dura caccia al voto, complicata anche dallo "spostamento" del segretario del Pd Franceschini proprio sul fronte sinistro.
Per disinnescare il bis del voto utile, perciò, servono in lista nomi di richiamo. A cominciare dal presidente della Puglia che, a sorpresa, si dichiara pronto a valutare una sua personale candidatura. «Decideremo tutti insieme» spiega, ma la decisione sembra già presa. Vendola potrebbe capeggiare la lista Sl nel sud ma anche nella circoscrizione del nord est. Se eletto a Strasburgo, però, opterebbe per la presidenza della Puglia, dove intende ricandidarsi nel 2010.
Sarebbero in corso (oltre alla riconferma degli eurodeputati uscenti Frassoni, Musacchio, Guidoni, Fava, Locatelli) trattative per assicurarsi alcuni candidati di grido, come Antonello Venditti, Margherita Hack, Moni Ovadia, Andrea Camilleri, mentre Marco Pannella potrebbe trovare ospitalità da indipendente. Il segretario del Prc Paolo Ferrero - che presenterà un´altra lista insieme a Oliviero Diliberto - boccia subito i rivali, «a Strasburgo si divideranno fra tanti gruppi diversi». Che invece ricevono la benedizione di Occhetto, l´uomo della Bolognina che oggi si ritrova insieme a tanti che all´epoca osteggiarono la sua svolta. «Non c´è incoerenza - assicura l´ex segretario del Pds - perché finalmente, come auspicavo, c´è una sinistra unita. Io ne sarò il méntore critico».

Corriere della Sera 17.3.09
Duecento opere del giapponese Utagawa Hiroshige al Museo della Fondazione Roma
Il pittore-samurai imitato da Monet e Van Gogh
di Maria Egizia Fiaschetti

Un ponte di legno scandisce il salto dalla realtà nel «mondo fluttuante » di Utagawa Hiroshige: allestimento ad hoc, per contestualizzare la mostra dedicata all'artista giapponese che si è inaugurata ieri negli spazi del Museo della Fondazione Roma. A cura di Gian Carlo Calza, il progetto espositivo raccoglie 200 opere provenienti dalla Honolulu Academy of Arts e nasce dalla sinergia tra Arthemisia e la Fondazione Roma, impegnata a promuovere iniziative culturali in Oriente. «Dopo il grande successo della mostra sull'Impero cinese — ha ricordato il presidente, Emmanuele Emanuele — questa sul Sol Levante rafforza la nostra missione: di apertura al dialogo, come alternativa ai conflitti».
Fino al 7 giugno, il «maestro della natura » riconcilia il pubblico con il suo habitat, ammaliante anche nelle condizioni climatiche più avverse, in un percorso articolato in cinque tappe. Il tutto condito dagli scorci ricreati dal vero: piante, ciottoli, piccoli ruscelli, proprio come in un giardino zen. Immancabili, i paraventi in carta di riso delimitano l'interno della casa, luogo privato congeniale alla meditazione e a ritrovare la sintonia con il cosmo. Ed è proprio l'universo in tutte le sue sfumature, dal regno animale all'eco sublime di una cascata, a fare di Hiroshige un interprete raffinatissimo del paesaggio. Nato a Edo (l'antica Tokyo) nel 1797 da una famiglia di samurai, si fa subito apprezzare per il suo talento pittorico. Asso nella tecnica della stampa policroma, eccelle nell'arte ukiyoe, genere di punta in Giappone tra il primo Seicento e l'ultimo scorcio dell'Ottocento. Ammirato dagli impressionisti — eloquente, lo stagno di Giverny immortalato da Monet — a imitarlo è soprattutto Van Gogh: in «Ponte sotto la pioggia», «Il giardino dei susini» e «Piccolo pero in fiore ». Dal micro al macro, il libro della natura è esplorato con sguardo analitico, senza rinunciare all'allure misteriosa racchiusa nei dettagli: dal piumaggio variopinto delle oche alla squame iridescenti delle carpe, per inebriarsi poi con i petali odorosi delle ninfee o con gli aceri corruschi.
Colori e profumi, ricreati nel percorso sinestetico su misura per i più piccoli: con i cinque sensi, la visita al museo diventa un'esperienza ludica e istruttiva per conoscere i segreti del Sol Levante. Completa l'itinerario la sezione fotografica, a cura di Rossella Menegazzo, che testimonia l'influenza estetica di Hiroshige sul nuovo mezzo di rappresentazione visiva. In barba al sottofondo zen della mostra, la vis polemica di Vittorio Sgarbi. Invitato per un commento tecnico, il sindaco di Salemi ha tuonato contro il collega capitolino: «Dopo le elezioni— è stato il j'accuse del professore — Alemanno mi aveva promesso la presidenza dell'Azienda speciale Palaexpo. Non capisco, poi, questa gestione cimiteriale dell'arte contemporanea: invece di affidarsi alla mia consulenza, si dà spazio a critici tangheri come Achille Bonito Oliva».

il Riformista 17.3.09
Giovedì al via il festival su "creazioni e ricreazioni"
La scienza dei numeri non fa miracoli ma risolve problemi
intervista ad Achille Varzi di Francesca Bolino

Giovedì parte la nuova edizione del Festival della matematica, al Nuovo auditorium di Roma, dopo una tappa a New York. Il tema è "Creazioni e ricreazioni", ne parliamo con il filosofo Achille Varzi, protagonista negli Usa e a Roma.

Achille Varzi. La sua natura è cumulativa, mentre nelle altre discipline scientifiche ci sono stravolgimenti e rivoluzioni. I suoi valori? Il rigore e la chiarezza.

Perché continua a funzionare la formula del festival?
In Europa la formula funziona molto bene e direi che negli ultimi tempi funziona bene soprattutto in Italia, dove in pochi anni le iniziative di questo genere si sono moltiplicate con successo, spaziando dalla scienza in senso ampio alla filosofia, all'economia, sino alla matematica. Naturalmente si tratta di capire bene quali siano le ragioni di questo successo, e anche quali siano i rischi di questo modo di fare cultura, ma per ora i numeri parlano di un consenso senza precedenti da parte del pubblico. Può essere sorprendente che la formula funzioni bene anche per la matematica, considerato che in questo settore i temi su cui verte la ricerca sono meno"caldi" e apparentemente meno avvincenti di quelli di cui si occupano discipline come la biologia, la filosofia o l'economia. Ma precisamente questo è il dato interessante su cui riflettere: ogni sorpresa nasconde un errore di valutazione, o un pregiudizio, e il fatto che il grande pubblico abbia risposto con entusiasmo alle precedenti edizioni del festival di Roma deve farci riflettere. Resta da vedere se anche negli Stati Uniti, dove le iniziative di questo genere sono rare, la formula registrerà il successo che si spera.
Secondo lei la formula del festival serve, quindi, a far avvicinare il pubblico ad una materia percepita così austera come la matematica?
Più che dalla materia, direi che il pubblico si sente attratto dal mondo della matematica: un mondo complesso, astratto, per certi aspetti esotico e comunque molto diverso da quello in cui consumiamo le nostre battaglie quotidiane, ma proprio per questo affascinante e seducente. È difficile farsene un'idea a scuola, dove la matematica è una "materia", per di più ardua e austera e solo parzialmente motivata dalla sua utilità sul piano pratico. Tuttavia prima o poi si finisce sempre col chiedersi perché la matematica appaia così diversa dalle altre materie. Le sue verità sono conoscibili a priori, mentre quelle delle scienze empiriche si fondano sull'esperienza e la sperimentazione. La matematica è per sua natura cumulativa, mentre nelle altre scienze il progresso passa attraverso i grandi cambiamenti di paradigma e le rivoluzioni concettuali. La stessa nozione di scoperta matematica è molto diversa da quella a cui siamo abituati in altri ambiti di ricerca, e siamo indotti a pensare che mentre possiamo intervenire anche pesantemente sul mondo fisico e sociale che ci circonda, non possiamo fare nulla per cambiare il mondo dei numeri. Prima o poi queste stranezze catturano la nostra attenzione e la nostra curiosità, proprio come successe al giovane Törless di Musil. E siccome generalmente è difficile trovare il contesto e le parole giuste per parlarne con gli amici e i colleghi, l'opportunità di una vera e propria full immersion non può che risultare attraente, tanto più se accompagnata dalla possibilità di vedere all'opera alcuni dei principali protagonisti del settore.
Pensa davvero che i numeri possano salvare il mondo? O forse possano aiutarci a tenerlo in ordine?
No, non penso proprio che i numeri possano salvare il mondo. Se non ci riusciamo noi, che in questo mondo ci viviamo, figuriamoci le entità matematiche, che invece abitano uno spazio astratto tutto loro. Quello che penso è che la matematica possa darci una mano ad affrontare i nostri problemi in modo razionale e disciplinato. Non mi riferisco semplicemente alla sua utilità pratica, sulla quale peraltro non sarebbe inopportuno insistere: se non facciamo quadrare i conti, è difficile che i nostri progetti diano i risultati desiderati. Alludo anche al fatto che le teorie matematiche costituiscono un modello di rigore e chiarezza che potrebbe (e dovrebbe) guidarci nella messa a punto di qualunque progetto che abbia ambizioni serie. Non solo. Molte teorie matematiche sono il frutto di uno sforzo di astrazione e immaginazione che non conosce confini. Si pensi alle geometrie non-euclidee, all'aritmetica dei numeri transfiniti, allo studio topologico degli spazi multidimensionali. Prima ancora che nella loro immediata utilità pratica, il valore di queste teorie risiede nella sfida intellettuale che esse rappresentano: una sfida a uscire dall'ovvio, a spingerci sino ai limiti dei nostri orizzonti mentali, a concepire come possibile e coerente ciò che a prima vista sembra impossibile e contraddittorio. Tanto più riusciamo a tenere alto questo senso di sfida anche in altri settori (a partire dalla politica e dalle altre scienze sociali), quanto più possiamo sperare di liberarci almeno in parte dal provincialismo mentale che ci tiene imprigionati, impedendoci di vedere la giusta strada lungo la quale indirizzare le energie che vogliamo dedicare a migliorare il mondo.
I numeri però possono essere usati anche per controllare i nostri movimenti: quante volte visitiamo un certo sito? Al supermercato, quante volte compriamo un certo prodotto? A volte, aziende e governi utilizzano i numeri per prevedere i nostri prossimi movimenti…
È vero. Però questo è un problema generale: ogni scienza e ogni derivato tecnologico possono essere usati per scopi anche molto diversi da quelli che inizialmente ne hanno motivato lo sviluppo, e spesso si tratta di scopi che mirano a controllare e quindi a soffocare i nostri movimenti piuttosto che a renderli più liberi. Purtroppo è un rischio con cui bisogna sempre fare i conti. Ma è un rischio che riflette le bassezze del genere umano, non la natura della ricerca. Altrimenti è anti-scientismo bell'e buono.
Insegnare matematica è già un compito difficile. Come dicevamo prima, è importante rendere questa materia meno austera e i festival, forse, sono una via. Ma le recenti polemiche in Italia sul sistema scolastico ci portano in un'altra direzione? Cosa ne pensa?
Qui mi mette in difficoltà, anche perché non operando nel sistema scolastico italiano mi è difficile esprimere un'opinione fondata sull'esperienza diretta. Non credo comunque che il problema principale del sistema italiano risieda nelle tecniche di insegnamento. Semmai si tratta di ripensare le materie che si insegnano, e soprattutto perché le si insegna. Vogliamo dotare i nostri giovani di cultura, o vogliamo dotarli degli strumenti necessari per pensare con la propria testa e contribuire così al progetto globale a cui tutti siamo chiamati? Entrambe le cose sono importanti. Ma così come la persona ignorante farà fatica a pensare con la propria testa, inculcare una montagna di sapere nella testa d una persona incapace di pensare serve a poco.

il Riformista 17.3.09
Occasione imperdibile per il sindaco dopo i disastri passati
Con Muti si può salvare il teatro dell'Opera
di Fabio Vitta

Caro sindaco Alemanno, le scrive un suo quasi coetaneo (1959) che negli anni settanta anziché far politica, era già un giovane melomane e sebbene eterosessuale frequentava con passione e divertimento il Teatro dell'Opera di Roma e l'auditorium dell'Accademia di S.Cecilia, allora in via della Conciliazione. Passione alimentata dall'amore per la musica e divertimento assicurato dai disastri che in quei tempi bui vedevano protagonista il teatro Costanzi.
Come dimenticare infatti il crollo di mezzo palcoscenico all'entrata delle pastorelle (sovrappeso) nell' Andrea Chenier, o lo svenimento del maestro Patanè che, dopo un'entrata in anticipo di due battute delle trombe nel Lohengrin, sradicò a pugni la porta del suo camerino, o ancora il grido: «Ma che stiamo al cinema muto?!» che dal loggione beccò il tenore che alla prova generale dell' Ernani cercava di non sforzare la voce, fino ad arrivare al meraviglioso finale di Tosca, (sul podio Oliviero de Fabriitis) quando un «Bravo!» gridato dal loggione venne folgorato da un «No!» che un genio, dai perfetti tempi comici teatrali, aveva proferito dalla platea.
Da quegli anni si passò alla sciagurata gestione Franco Carraro e Giampaolo Cresci, un dinamico duo che riuscì ad accumulare un deficit di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze. Nicola Sani e Francesco Ernani invece sono persone oneste e dall'efficienza professionale assoluta, ma è la sciagurata pratica di democratizzare gli enti lirici, affidandosi al dualismo sovrintendente-direttore artistico fino ad arrivare al conferimento di poteri artistici al consiglio d'amministrazione che è bacata ed invece si perpetua senza che nessuno ne rilevi la perniciosa sostanza; che è quella di lottizzare partiticamente ogni istituzione, dalla sanità fino appunto agli enti lirici.
Fedele d'Amico, che negli anni Settanta si battè a lungo contro tutto ciò, scriveva profetico nel 1978: «All'estero i teatri sono retti da "un" responsabile, si chiami esso Intendant, Administrateur, Manager o come volete; e sarà costui un compositore, un direttore d'orchestra, un regista, un organizzatore, sempre però una personalità unica "e perciò" responsabile…solo da noi si finge che democrazia implichi organo collegiale, invece di significare semplicemente che il responsabile (assistito da quanti comitati si vogliano ma privi di poteri deliberativi) dev'essere eletto e revocabile…sì che un bel giorno faremo decidere il tempo di Va pensiero da una commissione interna».
In questo momento, caro sindaco, le si presenta un'occasione irripetibile, portare a Roma Riccardo Muti, non solo offrendogli la direzione musicale ma dandogli pieni poteri, per rifondare una istituzione che da troppi anni aspetta un evento simile. Il teatro stesso attraverso il sindacato Fials-Cisal come riportato in un articolo di Valerio Cappelli sul Corriere della Sera del 5 marzo scorso aveva manifestato disponibilità in tal senso. E nello stesso articolo anche lei, caro sindaco, aveva parlato di «…bisogno di aprire una fase nuova».
E allora apriamola questa fase nuova: il Maestro Muti non è soltanto un eccelso direttore d'orchestra e sommo concertatore d'opera, ma una personalità di prestigio internazionale e di valore assoluto e dotato di un carattere che potrebbe essere adatto a far cambiare mentalità alle stanche istituzioni artistiche della capitale. Certo i melomani, non rappresentano che una fetta esigua di elettori, ma le garantisco che adoperarsi in tal senso le garantirebbe eterna gloria non solo tra di loro.
Roma è la capitale del paese dove l'opera è nata e il suo teatro dovrebbe essere l'eccellenza, non la sufficienza. Quando un italiano va in viaggio a New York, nel pacchetto base di qualsiasi agenzia di viaggio c'è il biglietto per il musical di Broadway, perché non facciamo lo stesso con l'opera? Vedi Roma e ascolti la Tosca. È tanto difficile? Quel teatro dovrebbe e potrebbe essere pieno 365 giorni all'anno. E fare tanti, tanti soldi.
Questa sera al teatro Costanzi, Riccardo Muti dirigerà Ifigenia in Aulide di C.W. Gluck (1714-1827), il presidente Napolitano sarà presente e spero anche lei. Il mio consiglio è questo: alla fine della recita fatevi accompagnare dalle vostre scorte fin sulla soglia del suo camerino e chiudetevi dentro con lui. Poi (come nel film Il Padrino) fategli un'offerta che non può rifiutare.

Liberazione 17.3.09
Spari, molotov e pietre contro la polizia dopo la morte di un giovane
La banlieue di Parigi torna a bruciare
di Paolo Persichetti

Da un po' di tempo la scena è sempre la stessa. Siamo in una banlieue, in questo caso francese ma potrebbe essere ovunque, tanto il teatro metropolitano comincia a essere identico. Una di quelle periferie sterminate che popolano le cinture urbane. Un paesaggio che alterna grandi assi di circolazione, tangenziali, autostrade, anelli di raccordo, zone industriali ricoperte da grandi capannoni. Nel mezzo aree residenziali, villini a schiera, alternate da piccoli lotti che si perdono a vista d'occhio e poi a macchia di leopardo enormi barre di cemento a delimitare l'orizzonte. Alveari umani. Quartieri ghetto. La sera è l'illuminazione pubblica che offre la migliore mappatura dei luoghi, brillanti di luce dove spuntano enormi centri commerciali, punti di ritrovo costruiti attorno ai tempi della postmodernità che accolgono il sacro rito del consumo. Enormi distese metropolitane abitate da pendolari, deserte dal lunedì al venerdì, animate nei pomeriggi del week end.
Accade così che all'imbrunire di un sabato, in uno dei tanti parcheggi che sorgono sotto le torri, bruci una macchina. Il fumo arriva alle finestre circostanti e l'odore acre dei pneumatici allerta i vicini che chiamano i numeri d'emergenza. Arrivano pompieri e polizia ma subito una fitta sassaiola li accoglie. Vola di tutto, sassi, pezzi di cemento, vecchie suppellettili. C'è chi usa fionde. Il commissariato invia rinforzi, ma non bastano. La notte sarà calda, giungono le compagnie antisommossa, il quartiere è accerchiato e asfissiato con i gas, proiettili in caucciù vengono esplosi con i flash ball, mentre gli uomini della Bac, la brigata speciale anticriminalità, costituita da poliziotti volontari dai modi estremamente violenti (spesso personale aderente ai sindacati di polizia d'estrema destra), odiati dai giovani, guidano il rastrellamento, scendono negli scantinati, entrano nelle hall delle torri, salgono sulle terrazze. Questo film si ripete quasi ogni fine settimana, per protrarsi a volte alcuni giorni finché la febbre scema per trasferirsi nella «cité» accanto. È successo anche sabato 14 marzo, nel quartiere della Vigne-Blanche, a Mureaux, nel dipartimento delle Yvelines, area metropolitana a nord-ovest di Parigi, al culmine di una settimana di tensione iniziata il mercoledì precedente con il lancio di pietre contro le vetture della polizia, proseguita nei giorni successivi fino all'imboscata, da manuale di guerriglia metropolitana, attuato nella serata di sabato. Intorno alle 20 è arrivata la consueta chiamata ai pompieri. Per attirare la polizia era stata incendiata un'automobile. L'arrivo della forza pubblica è stato accolto dalla solita sassaiola, quindi nel quartiere è caduto il buio (sabotata la centralina elettrica). Nella confusione che è seguita diversi colpi di fucile a pompa hanno attinto almeno 24 poliziotti, dieci di loro sono rimasti feriti alle gambe da pallini di piccolo calibro. Un individuo è stato visto sparare da una scarpata. Bilancio della serata: oltre 30 bottiglie molotov ritrovate, 8 giovani fermati.
Ad originare gli incidenti sembra essere stata la reazione per la morte di un abitante del quartiere, un «mediatore municipale» (una delle figure che fanno da intermediari sociali tra giovani e amministrazione comunale). L'uomo era stato ucciso l'8 marzo da un membro della Bac che avrebbe sparato, secondo la versione ufficiale, «in situazione di legittima difesa» alla fine di un inseguimento automobilistico. Ma la vittima non era armata. Subito dopo, scontri con colpi d'arma da fuoco si erano avuti nello stesso quartiere. Questi incidenti hanno suscitato grosso allarme nei servizi di polizia. Uno dei responsabili della sotto-direzione dell'informazione generale, l'attuale Sdig (ex Renseignements généraux ), sezione dei servizi preposta, tra l'altro, al monitoraggio delle violenze urbane, ha spiegato che ormai «un tabù è venuto meno. Sempre più frequente è l'uso delle armi nelle tensioni che esplodono in banlieue».
Il 2 febbraio, nel quartiere della Grande Borne a Grigny, 4 agenti di polizia erano stati feriti da tiri con cartucce caricate a piombini. Episodi analoghi si sono svolti nel marzo 2007 nella banlieue sud di Parigi. Furono esplosi almeno 20 colpi di carabina calibro 22 con binocolo di precisione. Tiri che ferirono un funzionario. E poi ancora a Alnauy-sous-Bois (zona est della capitale francese) vennero rinvenuti degli ordigni esplosivi di fattura artigianale. Anche durante la lunga rivolta del novembre 2005 furono stati esplosi colpi d'arma da fuoco in diversi quartieri della cinta periferica parigina. Più recentemente armi da fuoco sono state impiegate durante la mobilitazione sociale di febbraio-marzo in Guadalupa, Martinica e nell'isola della Réunion. Scene di guerra. E, in effetti, ormai di una vera e propria guerra sociale si tratta. Secondo i Servizi queste violenze sarebbero una risposta indiretta ai colpi portati contro il traffico di stupefacenti che tiene in piedi l'economia illegale controllata dalle numerose bande sorte nelle periferie. Ma la realtà è più complessa: le bande spiegano l'abilità organizzativa, l'uso delle armi, il controllo del territorio, ma attirarsi addosso la polizia non è economicamente redditizio. C'è dell'altro. Questi scontri scaturiscono sempre da incidenti nei quali hanno trovato la morte dei giovani. Episodi che cristallizzano il sentimento d'ingiustizia e scatenano la rivolta nel vuoto della politica. Non a caso i dispositivi messi in piedi dal governo evocano apertamente la figura del nemico interno . Dispiegamento di tutte le ultime tecnologie antisommossa (elicotteri e droni), fino alla spettacolarizzazione delle retate di polizia con massiccio dispiegamento di forze sotto gli occhi delle telecamere, fermi in massa e creazione d'istituti giuridici come la «testimonianza sotto anonimato». Un vero stato di eccezione.

Liberazione 17.3.09
Il primo numero in italiano della rivista europea "transform!", presentato domani a Roma
Rivoluzione, la parola persa per strada
di Tonino Bucci

E' quasi una certezza del senso comune. La politica, se è buona, si vede dai fatti. Difficile da smentire, manco a provarci. Però quasi sempre la politica si fa anche con le parole - e non necessariamente nel senso negativo dell'espressione. C'è un lato profondo nel lessico dei politici, persino nella tanto deprecata propaganda, che spesso passa inosservata. Il linguaggio della politica non è cosa da niente. Dietro la retorica del discorso politico c'è un laboratorio delle parole, un linguaggio che entra in cortocircuito con il lessico del senso comune e si spaccia per discorso da bar. Una mimesi, appunto. Ogni volta che un politico si legittima a fare da portavoce al fantomatico "uomo della strada" lì c'è un'operazione linguistica e culturale. Insomma, nelle parole, nel modo in cui vengono usate e trasformate di significato, è all'opera l' egemonia . Il riferimento a Gramsci non è casuale. Basta pensare a come, per esempio, il termine "rivoluzione" nel linguaggio politico è stato neutralizzato, depurato degli aspetti meno negoziabili. Oggi, a Novecento concluso, a parlare di rivoluzione, di passaggio a una società alternativa a quella esistente, non c'è rimasto quasi più nessuno. La sinistra moderata - socialdemocratica, si sarebbe detto un tempo - ha smesso da un pezzo di pensarci, fos'anche la rivoluzione come la immaginava Kautsky e compagnia, per evoluzione graduale e ineluttabile dal capitalismo al socialismo. La sinistra moderata preferisce chiamarsi "riformista", anche se lo stesso termine "riformismo" ha perso smalto. Per riforme sono state spacciate operazioni politiche di segno regressivo, di smatellamento dello stato sociale, della scuola, dei sistemi pensionistici, che sarebbe più appropriato definire "controriforme". Per paradosso dei nostri tempi, della parola "rivoluzione" se ne sono invece appropriate le forze di destra. Per dirla in altro modo, il neoliberismo, dagli anni Ottanta in poi, è stato una "rivoluzione senza rivoluzione", un cambiamento nella produzione materiale e negli stili di vita e di pensiero che ha incorporato anche le istanze di movimenti sessantottini - la libertà dell'individuo dallo Stato - ma in un processo senza partecipazione, diretto dall'alto dalle classi dominanti. Lo spartito di questi anni non è stato forse questo, che, la sinistra è conservatrice e difende i privilegi, mentre la destra è rivoluzionaria e scardina le regole dello statalismo oppressivo? E' un lavoro di contro-egemonia quello che la sinistra dovrebbe fare per riprendere il discorso interrotto della rivoluzione. E questo è anche il filo conduttore degli articoli raccolti nel primo numero in versione italiana della rivista europea transform! (edita in lingua inglese) che sarà presentata domani a Roma (ore 18, libreria Odradek, via dei Banchi vecchi 57) con Scipione Semeraro, Giuseppe Prestipino e Stefano Ciccone.
Transform! Italia è una «rete di ricerca-azione», così si definisce, per rimarcare il fatto che oggi, senza ricerca non si può fare politica. Riunisce gruppi, collettivi, studiosi, attivisti sindacali e di movimento, accomunati dall'indagine su come sono cambiati il lavoro, la rappresentanza democratica e l'agire politico. La prima parte del numero è monografica e riprende i contenuti di un seminario organizzato due anni fa da transform su "La riforma della rivoluzione" - con una evidente ispirazione gramsciana - con contributi, tra gli altri, di Mimmo Porcaro, Birge Krondorfer, Juha Koivisto, Patrice Cohen-Seat, Roger Martelli, Jean Louis Sagot-Duvaroux, Dieter Klein, Michael Brie, Michael Löwy e Lia Cigarini. La seconda parte del numero traccia lo scenario delle diverse sinistre europee. La rivista si apre con un intervento a firma di Walter Baier, Marco Berlinguer, Mario Candeias e Scipione Semeraro. Mutatis mutandis ci troviamo in una situazione analoga a quella in cui si trovò Gramsci. Anche allora c'era bisogno di una «revisione critica del concetto di rivoluzione nel mondo occidentale capitalistico. La sconfitta in Occidente, insieme alla semplificazione, in quello specifico contesto, della concezione della trasformazione ridotta a una questione di "presa di potere", portarono Gramsci a formulare originali ipotesi di analisi e nuove categorie teoriche». Allora erano l'americanismo e il fordismo le nuove "invenzioni" delle classi di governo e del sistema capitalistico, capaci di incorporare nella propria politica le aspirazioni dei sublaterni antagonisti, «sebbene allo stesso tempo indebolendone e subordinandone le aspirazioni individuali». Oggi, c'è da capire se la nozione gramsciana di rivoluzione passiva - di questo si tratta - sia utile per mettere a fuoco l'egemonia di quella «rivoluzione senza rivoluzione» scatenata dalle nuove tecnologie e chiamata in vari modi, ora globalizzazione, ora neoliberismo, ora postfordismo, al cui cuore, in ogni modo, c'è un nuovo sistema di accumulazione del capitale. Il paradosso, oggi, è che «molte sollecitazioni provenienti dai movimenti politici degli anni '60 del secolo scorso siano state asorbite in una nuova forma di capitalismo. Il nuovo spirito del capitalismo, i suoi nuovi valori, la capacità di mobilitare le sue energie produttive, la forza egemonica che è riuscita a imporre, tutto questo è il risultato di un processo ambivalente e diversificato caratterizzato non solo dalla repressione, ma anche dalla cooptazione di alcuni aspetti, e di alcuni nuovi attori, del processo di trasformazione sociale». Il postfordismo ha recuperato da destra l'istanza "sessantottina" dell'individuo e della sua affermazione contro «gli aspetti oppressivi di uno stato sociale patriarcale e paternalista che costringeva il libero sviluppo degli individui in un percorso di vita standardizzato e ingessato. Il movimento neo-liberista ha fatto sua questa critica, l'ha rivoltata e estremizzata». L'anticapitalismo deve ritrovare la parola rivoluzione nel proprio discorso in alternativa «all'agitazione populista di destra, autoritaria, fascista, razzista» - scrive Wolfgang Haug - intrecciando i tre conflitti, di classe, di genere e ambientale.

lunedì 16 marzo 2009

l’Unità 16.3.09
Coppie di fatto senza legge
Ma è boom tra gli italiani
di Maria Zegarelli


Aumentano le coppie di fatto
Sempre più italiani chiedono una legge
I Dico sono stati dimenticati
Il governo li ignora. Il Parlamento è fermo

Malgrado la maggioranza degli italiani sia favorevole a una legge sulle coppie di fatto (in costante aumento), la politica non la ritiene degna del dibattito parlamentare. Otto testi depositati, tutto fermo.

In Europa
OLTRE IL 50% delle coppie sceglie la convivenza come prima forma di unione in Gran Bretagna, Germania, Francia, Danimarca e Finlandia. Negli Usa sono 50,3% le coppie che scelgono la convivenza come prima unione.

«Il paese è più avanti del suo governo». Lo dice il Rapporto Italia 2009 dell’Eurispes. I fatti lo confermano. Il nostro è un paese nel quale il 58,5% degli italiani è favorevole al riconoscimento delle unioni civili, senza distinzione di sesso; il 52,5% considera l’omosessualità una forma di amore come le altre. Per il 40,4% gay e lesbiche avrebbero diritto di sposarsi. In Parlamento il tema semplicemente non si sfiora. La società cambia, (piccoli) passi verso il futuro, malgrado la crisi economica voglia spezzarglielo. Negli anni Settanta i matrimoni erano 400mila l’anno, oggi non superano i 270mila (i dati arrivano con due anni di ritardo rispetto alla data di riferimento degli eventi)e nel 2015 si prevede siano sorpassati dal numero dei conviventi che attualmente sono 637mila. Anche i matrimoni civili sono in crescita: il 32,45%: dieci anni fa erano poco meno del 20%. Un bambino su cinque nasce fuori dal matrimonio e ancora oggi vengono divisi in figli legittimi e figli naturali.
Il mercato
Anche il mercato cerca di cogliere questi segnali: la banca tedesca specializzata Bhw Bausparkasse, attiverà in Italia il mutuo per le coppie di fatto, comprese quelle omosessuali e tagliando lo «spread» dello 0,15% permetterà di calcolare i redditi cumulati. La Cassazione, dal canto suo, con la sentenza numero 20647 ha spianato la strada all’equiparazione tra coppie di fatto e matrimoni. Ha stabilito, infatti - confermando il carcere preventivo nei confronti di un 45enne di Torre del Greco che aveva picchiato la convivente -, «che non assume alcun rilievo la circostanza che l’azione delittuosa sia commessa ai danni di una persona convivente more uxorio».
Soltanto il parlamento è immobile. Attualmente tra Camera e Senato risultano depositati 8 testi, fra disegni di legge e proposte. nessuna di queste è calendarizzata. Materia che scotta, il Vaticano è troppo vicino, troppo ingombrante. Il governo Prodi che aveva provato a dare un segnale, con un ddl firmato da Barbara Pollastrini e Rosi Bindi - i Dico - rischiò la crisi. In commissione Giustizia la palla passò a Cesare Salvi che provò a lavorare a un testo unico: nacquero così i «Contratti di unione solidale».
Il IV governo Berlusconi ci ha riprovato con un annuncio ad effetto - ma «a titolo personale» - dei ministri Renato Brunetta e Gianfranco Rotondi. Il capogruppo alla Camera Maurizio Gasparri ha lanciato tuoni e fulmini. Alla fine il testo è stato depositato alla Camera, primi firmatari Barani - De Luca, sparite le firme dei ministri, ed ecco i Didore. Non sono una filastrocca, ma l’acronimo di «Disciplina dei diritti e doveri di reciprocità dei conviventi».
La destra fa solo annunci
Il testo mira innanzitutto a ribadire che non è una legge che miri in alcun modo a minare «la famiglia fondata sul matrimonio», in quanto unica «unione possibile destinataria delle politiche di sostegno economiche e sociali, messe in atto dallo Stato». Si cita anche la Chiesa Cattolica, nella persona del Cardinale Carlo Martini, che riconosce che «è possibile prendere in considerazione la rilevanza giuridica di forme di convivenza diverse da quelle fondate sul matrimonio». Detto e premesso tutto ciò, regola le convivenze tra persone unite «da legami affettivi e di solidarietà ai fini di reciproca assistenza e solidarietà» senza mai fare riferimento alla formula invisa dai cattolici «anche dello stesso sesso». Non le esclude e di questo prende atto la minoranza.
Il Pd, con un ddl a firma Vittoria Franco, (depositato il 29 aprile 2008) ripropone le Unioni di fatto e riproduce il testo presentato in Senato durante la scorsa legislatura e nel suo articolo 2 stabilisce che «Ai fini della presente legge si intende per unione civile l’accordo tra due persone, anche dello stesso sesso, stipulato al fine di regolare i rapporti personali e patrimoniali relativi alla loro vita in comune». Un patto vero e proprio. Un impegno. Intanto, mentre tutto resta fermo, in Italia se uno dei due partner ha bisogno di un intervento medico urgente e rischioso, l’altro non può autorizzarlo. Perché non è un parente. Punto. Non può neanche chiedere permessi di lavoro se il partner si ammala. Perché per la legge non esiste. Anche se convive da dieci o venti anni. Se un convivente partecipa all’impresa dell’altro non ha alcun diritto, a meno che non abbia stipulato un regolare contratto di società o di lavoro dipendente. Cose così, vita quotidiana.

l’Unità 16.3.09
Gli elettori Pdl vogliono le unioni e il divorzio breve


Il 70% degli elettori del Pdl è d'accordo con il testamento biologico; per il 50% va bene dare un riconoscimento giuridico alle coppie di fatto, mentre per il 61% è giusto il pugno di ferro per le droghe leggere. È un sondaggio di Crespi Ricerche per l’associazione “Libertiamo”, su un campione di mille interviste telefoniche, svolto tra il 4 e il 6 marzo. La prima domanda riguarda l'ipotesi di stabilire per legge la possibilità di rifiutare un trattamento sanitario, anche in caso di incoscienza, e il 70% degli elettori del Pdl intervistati è favorevole.
Il 69% degli elettori del Pdl è d'accordo con l'accorciamento dei tempi per il divorzio, solo il 28% è contrario.

l’Unità 16.3.09
«Sfidiamo il centrodestra al confronto in Parlamento. Non servono annunci spot»
intervista a Vittoria Franco


Vittoria Franco, responsabile Pari Opportunità del Pd, nonché prima firmataria di ddl sulle unioni civili, sfida il Pdl: «Pronti a discutere il vostro testo».
Senatrice, non si parla più di coppie di fatto perché c’è la crisi economica o perché resta un argomento che scotta?
«Durante la scorsa legislatura i diritti civili erano in primo piano nell’azione di governo e nel dibattito parlamentare, tanto che in commissione Giustizia al Senato era stato approvato il testo per riconoscere ai figli il cognome della madre. Oggi c’è il silenzio».
Vero, ma neanche il Pd ne parla più. Perché, dal momento che il numero delle coppie di fatto continua ad aumentare?
«Il Pd è un partito giovane, con diversi problemi, eppure abbiamo messo al centro del dibattito il testamento biologico, un tema delicato sul quale abbiamo cercato di raggiungere una posizione comune, cosiddetta prevalente e questo è stato un passo avanti verso la cultura politica del partito. Ma non basta, ne sono convinta, non a caso il primo ddl che ho presentato all’inizio di questa legislatura riguarda proprio le coppie di fatto alle quali vanno date risposte legislative. Siamo l’unico paese in Europa a non aver dato un minimo di regolamentazione».
Ma la lacuna è della politica. Perché non affrontate questo tema come uno di quelli prioritari?
«Perché il problema resta sempre lo stesso: c’è una Chiesa molto arretrata su questo. Quando noi presentammo i Dico durante la scorsa legislatura fu organizzato come risposta il Family Day».
Adesso il Pdl vi sfida: c’è un ddl che propone i Didore. Quali sono le differenze rispetto alle Unioni civili?
«Sono molte nel dettaglio, ma fin da quando il ministro Rotondi presentò i Didore dissi che sarei stata disponibile a sottoscriverli se si fosse impegnato a portarli avanti fino in fondo non limitandosi a depositare un testo. Dico questo malgrado loro impostino tutto sui diritti individuali dei conviventi mentre per noi si tratta di un vero e proprio patto tra due persone che firmano il loro impegno».
Ci sono le proposte, ma giacciono in Parlamento. Qualcuno dovrà dare il là...
«Sfido il Pdl a portare fino in fondo il loro disegno di legge. Noi siamo pronti al confronto, come lo siamo stati noi in Commissione Sanità al Senato sul testamento biologico. Non possiamo restare l’unico paese in Europa a non affrontare i temi che riguardano i diritti civili dei propri cittadini. Intanto prendo atto che Rotondi e Brunetta l’hanno affidato ai propri parlamentari per non farlo sembrare un ddl di iniziativa governativa e prendo atto che ogni volta c’è un’emergenza diversa per rimandare il dibattito».
Anche sulle coppie di fatto sarà necessario nel Pd arrivare ad una «posizione prevalente»?
«Nel programma del Pd questo è un punto assunto, insieme al testamento biologico, quindi sicuramente si dovrà arrivare ad una posizione». M.ZE

l’Unità 16.3.09
Un Pacs ogni due matrimoni. Il successo in Francia
di Luca Sebastiani


I Pacs francesi hanno celebrato pochi giorni fa il decimo compleanno. Le cifre dicono che la scelta ha funzionato. E adesso la legislazione propone anche delle tutele fiscali. La sinistra li volle, la destra li rafforza.

Quando vide la luce dieci anni fa, sotto il fuoco di sbarramento della destra gollista, nessuno avrebbe scommesso un euro sul suo successo. Oggi invece, con più di un milione di francesi pacsati e un incremento annuale medio del trenta per cento, non si trova nessuno in giro per la Francia che non parli di vero e proprio trionfo per il Patto civile di solidarietà. Toccata la cifra record di un pacs ogni due matrimoni lo scorso anno, la riuscita sociale del provvedimento voluto dai socialisti ha spinto anche la destra a fare ammenda dei propri errori passati. E finalmente il Pacs può festeggiare il proprio decimo compleanno concedendosi un raro consenso politico intorno alla propria esistenza.
La pubblicazione dei dati relativi allo scorso anno ha infatti confermato la rivoluzione che in pochi anni il Patto ha introdotto nel panorama delle unioni, entrando nella vita quotidiana e nelle abitudini dei francesi. Tanto che l’anno passato il tradizionale «Salone del matrimonio» è stato ribattezzato «Salone del matrimonio e del pacs». Secondo i dati dell’Insee, l’istituto di statistica francese, recentemente pubblicati dal ministero della Giustizia, il 2008 si è chiuso con la cifra record di 140mila pacs sottoscritti. Se si pensa che erano stati 102mila nel 2007, 77mila nel 2006, 25mila nel 2002 e solo 6mila nel 1999, anno della sua introduzione, si vede bene che lentamente, ma in maniera costante, i pacs hanno trovato un ampio pubblico. E non necessariamente tra le coppie omosessuali.
Contrariamente alle previsioni degli ideatori dei Patti, sono in stralarga maggioranza le coppie eterosessuali ad unirsi civilmente attraverso i Pacs. Quando furono introdotti su iniziativa del governo di Lionel Jospin, la preoccupazione maggiore dei socialisti era invece d’inscrivere attraverso i Patti le coppie omosessuali nel codice civile al posto di introdurre un contratto specifico considerato come discriminatorio. Secondo le stime disponibili, le coppie omo pacsate nel 2008 sono intorno al 6 per cento del totale, mentre erano il 42 nel 1999.
Le coppie eterosessuali
Le coppie eterosessuali, dunque, preferiscono sempre di più i Pacs perché rappresentano uno strumento più adatto alle loro esigenze, soprattutto dal 2005, anno in cui si è cominciata a registrare una forte accelerazione. Quell’anno infatti, su iniziativa del governo di destra di Dominique de Villepin, fu introdotta una modifica legislativa che ha avvicinato i regimi fiscali di Patti civili e matrimoni. In particolare, da allora le coppie pacsate possono presentare una dichiarazione dei redditi congiunta. Inoltre i pacs sono meno solenni e più facili da dissolvere. Per farlo non occorre rivolgersi ad un giudice, ma basta depositare una dichiarazione in tribunale. Nonostante la destra prevedesse nel 1999 la fine della famiglia e la caduta della natalità, oggi la percentuale dei pacs dissolti si aggira intorno al 18 per cento, più o meno al livello dei divorzi, e il tasso di natalità in Francia è il più alto d’Europa.
Nel ’99, quando i socialisti proposero i Patti civili di solidarietà all’Assemblea, l’opposizione di centro e di destra menò una vera e propria battaglia. Gridò alla legalizzazione della pedofilia, alla destabilizzazione della società e alla decadenza della civiltà.

Repubblica 16.3.09
La sinistra invertebrata
di Nadia Urbinati


España Invertebrada era il titolo di un noto libro di Ortega y Gasset del quale Giovanni Sartori si è alcuni anni fa servito per descrivere il nostro paese.
Un paese che secoli di sudditanza a una religione controriformatrice e a conquistatori stranieri hanno reso conformista e abituato a cercare soluzioni di ripiego, strade oblique. In un articolo apparso il 12 marzo scorso sulla London Review of Books, Perry Anderson, storico dei movimenti politici di sinistra, ascrive questi vizi alla sinistra italiana, accusandola di aver sperperato un patrimonio di potenzialità a causa di un'endogena disposizione al compromesso. Egli mette sotto processo tutta la sinistra del dopo-guerra, quella comunista, quella socialista e quella radicale, ma soprattutto la prima, le cui mancanze si sono rivelate più gravi perché proporzionate alle più grandi aspettative che aveva destato a partire dalla guerra di Liberazione. Infine, e soprattutto, la sinistra più recente, per quella insistenza autodistruttiva a perseguire la politica della mediazione a dispetto di tutto, e soprattutto della natura dell'avversario, la quale non consente compromessi. Una sinistra dunque senza spina dorsale perché senza coraggio di scelte forti e chiare anche se all´apparenza o nell'immediato impopolari. A mancare non sono state le idealità di giustizia, ma lo stile culturale, quello storicismo paralizzante che cerca la giustificazione ai propri errori e non educa alla responsabilità della scelta; che vuole l´assoluzione e teme il rischio. A mancare non è stata la cultura politica civile e morale, quella ineguagliata educazione alla politica come servizio che la vita dei partiti ha consentito a milioni di italiani, ma invece la struttura anti-democratica e oligarchica dei partiti che si è mostrata non appena la corazza ideologica si è rotta.
La rappresentazione che offre Anderson è impietosa, il giudizio a tratti risentito, a tratti sommario; ma non inutile a chi voglia con mente libera cercare di trarre qualche indicazione che serva alla rinascita dell'opposizione e al suo radicamento nel paese e nella cultura politica diffusa. Almeno tre osservazioni sono meritevoli di riflessione. La prima riguarda la frattura tra cultura d'élite e cultura popolare, sulla quale si è edificata la fortuna di Mediaset prima e di Forza Italia poi. Questa frattura non è un fatto nuovo nella storia nazionale. L'ha studiata in maniera illuminante Antonio Gramsci, un autore canonico per la sinistra anche se la canonizzazione lo ha reso un mito invece che una fonte di ricerca sociale e una guida pragmatica. Anderson fa perno su questa frattura per spiegare il paradosso di come si sia prodotta una sinistra invertebrata da quella che è stata senza ombra di dubbio la sinistra più importante dell´Europa occidentale, capace di stimolare energie culturali e civili straordinarie, di ispirare la cultura letteraria e quella cinematografica, la storiografia e la filosofia per almeno due decenni. Capace tuttavia di cadere proprio sotto il peso di quella "straordinaria congerie di energie sociali e morali". Il pregiudizio umanista della classe intellettuale della sinistra italiana, innamorata delle "battaglie delle idee" ma poco capace di studiare le trasformazioni prodotte dal consumismo e dalla cultura di massa nella mentalità popolare, ha facilitato la separazione a tratti abissale tra un'élite raffinata e d´avanguardia e un popolo sempre meno acculturato e informato, giudicato dall'alto e spesso disprezzato. Da questa Italia popolare ignota alle élite della sinistra è partita l'ascesa del populismo leghista e dell'anti-civismo berlusconiano. E ancora oggi, a ogni sconfitta elettorale, si rinnova l'incredulità della sinistra per un "fenomeno" che le appare permanentemente strano ed estraneo. La scomparsa dal Nordest è il segno della persistenza nella sinistra di una cultura politica che è insofferente verso la democrazia (non sempre esteticamente attraente), tarda nella comprensione della cultura liberale e della sua tensione con i processi identitari e comunitari, timorosa dell'incontro con culture diverse, e infine non sufficientemente convinta della necessità di avere un sistema informativo nazionale sganciato dalle coalizioni politiche e davvero pubblico.
La seconda osservazione è conseguente alla prima. Essa riguarda il risvolto pratico-politico della cultura idealista e storicista che ha animato molta parte (benché non tutta) della sinistra italiana: la refrattarietà a comprendere e praticare il conflitto politico, e al contrario, la ricerca della mediazione e del consenso. Antagonismo e conflitto come segno di contraddizioni insolute e non invece anche come opportunità per cambiare scenari politici. Eppure, questa prudente radicalità è stata spesso scambiata per populismo o cieco radicalismo. La timidezza dimostrata dalla sinistra nei mesi successivi all´ultima sconfitta elettorale, la sua incapacità a vedere nella politica dell´opposizione, sociale oltre che istituzionale, una forza positiva ha le sue radici in una cultura politica che Sartori ha associato all´abito gesuitico alla mediazione compromissoria. Anderson dice una cosa giusta: la politica, anche quella ordinaria e parlamentare, deve saper usare strategie da "guerra di posizione" e da "guerra di movimento". Ciò significa per esempio che il dialogo a volte deve essere interrotto, che sul conflitto di interessi, su una riforma della giustizia che favorisce gli interessi del capo della maggioranza, sulle leggi liberticide e razziste, sulla distruzione della scuola pubblica, sulla laicità dello Stato non si può transigere, non si può cercare il compromesso. Interrompere il dialogo è parte della dialettica democratica tanto quando aiutarlo.
E questo ci porta alla terza osservazione, quella relativa al valore dell'intransigenza in politica, un valore che non si addice con l'essere invertebrati. L'intransigenza non è radicalismo fanatico, ma strategia di coerenza quando è in gioco non tanto o semplicemente l'identità politica di un partito o di una coalizione, ma soprattutto il patto costituzionale, la natura dell'ordine politico, i fondamenti del nostro vivere civile. La Costituzione non è un oggetto di compromesso e sulla sua difesa non si può transigere. La politica costituzionale e l´intransigenza che essa ispira sono la spina dorsale di una sinistra democratica, ciò che la distingue e la oppone alla destra. Libera dalle ingessature dogmatiche, più diretta e chiara nel linguaggio e negli obiettivi, essa è il naturale asse portante di una politica coraggiosa e non invertebrata.

Repubblica 16.3.09
Celle strapiene e prigioni fantasma i detenuti tornano all’era preindulto
di Paolo Berizzi


Da Bergamo a Reggio Calabria intanto venti nuovi istituti di pena restano chiusi
A San Vittore si dorme su materassi messi a terra: non c´è posto neanche per le brandine

BERGAMO - C´è tutto: le piastrelle, i bagni. Belle toilette verde acqua, una per cella. In fondo ai corridoi luminosi, spezzati dalle cancellate di ferro, verdi anche quelle, larghi finestroni e scale di marmo che collegano i due piani dell´edificio. Ecco le telecamere a circuito chiuso. All´interno e all´esterno. Gli spazi sono umani; non gli otto metri cubi previsti (per ogni detenuto) dall´Unione europea - nessuna regione italiana è in regola - , ma insomma, non si dovrebbe stare affatto male. Un padiglione nuovo di zecca. Ancora incellofanato. Una trentina di celle, quattro detenuti per ognuna. A vederlo così, il carcere Gleno, pare di essere tornati agli anni �80 quando lo chiamavano "Grand Hotel", e chi veniva spedito qui sembrava dovesse andare in vacanza dietro le sbarre. Peccato che nella nuovissima ala della casa circondariale di Bergamo (complessivamente 525 reclusi, posti regolari 340) non c´è un anima. Vuota. Pronta da un anno e mezzo ma disabitata.
Come una ventina di carceri italiane. Alle quali se ne aggiungono almeno altre venti. Inutilizzate o sotto utilizzate. La mappa delle prigioni fantasma va da Pinerolo a Reggio Calabria, da Castelnuovo Daunia a San Valentino in Abruzzo: migliaia di celle lasciate marcire, impolverate. Addirittura occupate da senza tetto e sfrattati. Come a Monopoli, nel cuore della Puglia maglia nera dell´abbandono dell´edilizia carceraria. Il tutto mentre le carceri italiane scoppiano: in nove mesi siamo passati da 52.992 detenuti (fine aprile 2008) ai 60.570 attuali. A questo ritmo - il flusso è di 700 nuovi detenuti al mese - entro marzo si supererà nuovamente il livello pre-indulto (60.710 detenuti al 31 luglio 2006). Una bomba pronta a deflagrare, e che oltre al danno conterrà anche la beffa. Perché alle attuali e precarie condizioni di detenzione - tra strutture fatiscenti, sovraffollamento e suicidi (48 nel 2008) - fa da sfondo uno scenario che rischia di essere imbarazzante per il Ministero della giustizia. Angelino Alfano ha annunciato che costruirà 75 nuovi penitenziari: 17 mila nuovi posti entro il 2012. Lo prevede il piano carceri (approvato dal Cdm il 23 gennaio scorso) la cui realizzazione è affidata al commissario straordinario Franco Ionta, già capo del Dap. Nei documenti ufficiali si parla di un programma di interventi «ampiamente di massima». In effetti la prudenza pare quanto mai opportuna. Per diversi motivi. Prima di analizzarli conviene dare un´occhiata a tutti quei penitenziari che, a fronte di un quadro esplosivo - con carceri tipo San Vittore (Milano) o l´Ucciardone (Palermo) dove i detenuti vivono uno sull´altro - restano deserti e in naftalina.
Molti offrono lo stesso scenario, paradossale, del nuovo padiglione di Bergamo. A piano terra ci sono cataste di mobili impilati, tavolini, sedie, armadi, mensole, brande, materassi ancora confezionati. «In un giorno sarebbe tutto arredato», dice il guardiano. Per farlo funzionare manca solo una cosa: gli agenti di polizia penitenziaria. È uno dei punti dolenti del progetto Alfano. Le "guardie" sono già sotto organico: 5.250 in meno rispetto alle 44.406 previste dall´organico. Come se non bastasse, secondo le previsioni del ministero della giustizia, quest´anno gli stanziamenti per il personale sono in diminuzione: da 1.276 milioni del 2008 a 1.184 milioni nel 2009 (-7,2%). Risultato: saranno tagliati da 500 a 1000 altri "secondini". Attacca il parlamentare Pd Antonio Misiani: «Come pensa il ministro Alfano di far funzionare le carceri che vuole costruire se taglia le risorse per gli agenti? Non gli basta vedere che ci sono almeno una decina di penitenziari vuoti proprio perché mancano le guardie? In generale, il piano carceri appare in gran parte come un libro dei sogni...». A una recente interrogazione di Misiani, proprio sul caso Bergamo, Alfano ha risposto così: «Allo stato, la situazione non permette di destinare presso l´istituto ulteriori risorse umane oltre le 9 unità recentemente assegnate».
Magari il problema fossero soltanto le carceri fantasma. Il problema sono anche quelle nuove. Alfano le vuole "ecosostenibili", a energia solare. Ma prima di decidere con quali materiali tirarle su, bisogna capire dove trovare i soldi. Il piano prevede «nuovi interventi» per 1,1 miliardi: 356 milioni, stando a fonti del ministero, sarebbero coperti. Altri 200 sono stati stanziati una settimana fa dal Cipe. I restanti 460 sono da cercare. La prima ipotesi è il coinvolgimento dei privati con il project financing: peccato che a smontarlo sia proprio una relazione del Dap (2008), che definisce la soluzione «impraticabile in quanto non sostenibile per la parte finanziaria a carico dello Stato». La seconda è il ricorso alla Cassa ammende dell´amministrazione penitenziaria, i cui fondi, in teoria, sarebbero riservati a programmi di reinserimento dei detenuti.
In tutto questo a Reggio Calabria c´è un carcere chiuso perché manca la strada per arrivarci. Finito nel 2005, è costato 90 milioni e potrebbe ospitare fino a 300 detenuti. La via d´accesso è un sentiero che passa tra i vigneti. Tra imbarazzi e fiumi di denaro pubblico sprecato (per custodirlo vuoto ci sono voluti finora 2,5 milioni), il provveditore regionale Paolo Quattrone dice che questa «è una telenovela infinita». Mille chilometri più su, a San Vittore, ci sono detenuti che dormono su materassi per terra. «Non c´è spazio per le brandine da campo», ammette Luigi Pagano, provveditore lombardo alle carceri. La prima prigione di Milano è datata 1872. Ogni giorno arrivano 50 nuovi detenuti («È il risultato di un sistema giudiziario dove il carcere è visto come una discarica sociale», ragiona il deputato radicale Maurizio Turco). Potrebbe ospitarne 700, ce ne sono 1500. Alla faccia del grand hotel.

Repubblica 16.3.09
Parigi, agguato nella banlieue colpi di fucile contro la polizia
Agenti attirati in una trappola poi gli scontri con le molotov
Miseria e disoccupazione alle stelle, il disagio giovanile, la rabbia contro lo Stato
di Giampiero Martinotti


PARIGI - Un agguato in piena regola, di quelli che si vedono spesso in "banlieue" per attirare pompieri e poliziotti in una trappola e prenderli a sassate. Ma questa volta i giovani non si sono limitati ai sampietrini: dieci agenti sono stati feriti leggermente con pallini di piombo. Sono stati presi di mira da un uomo con una carabina ad aria compressa, mentre un quartiere dei Mureaux, periferia-ghetto della regione parigina, viveva due ore di fortissime tensioni. Un´azione organizzata, un gesto premeditato che dà un´idea dell´escalation di violenza nelle "banlieues" francesi, dove la rivolta del 2005 si è trasformata in uno stillicidio di notti agitate, di scontri più o meno brutali tra giovani e forze dell´ordine. Con sullo sfondo la miseria di sempre, la disoccupazione alle stelle, le buone parole del governo e le scontate indignazioni delle opposizioni.
Non c´è niente di nuovo sotto il sole, verrebbe voglia di dire, se non fosse che ogni volta si raggiungono nuovi livelli di violenza. Nelle settimane scorse si è visto più volte l´uso di armi contro poliziotti e gendarmi nei dipartimenti d´oltremare, in Guadalupa, Martinica, Riunione. Sabato sera le stesse scene si sono ripetute a poco più di trenta chilometri dagli Champs-Elysées, in una delle borgate più abbandonate della regione.
Tutto è cominciato subito dopo le otto, quando polizia e pompieri sono stati chiamati per un auto in fiamme. Al loro arrivo, sono stati presi a sassate da una decina di ragazzi. «Fin qui eravamo di fronte a una forma "classica" di violenze - ha spiegato un dirigente della prefettura. Un lancio ripetuto di oggetti contro i nostri uomini che provoca il lancio di lacrimogeni». Sabato sera, però, la violenza è salita di un gradino. Iniziati nel quartiere dei Musicisti, gli scontri si sono spostati verso la borgata della Vigna Bianca. Qui, verso le 21,40 un individuo sbuca da una scarpata, armato con una carabina ad aria compressa. E´ caricata con pallini di piombo da dodici millimetri, usati di solito per la caccia alla selvaggina. L´uomo spara in direzione delle forze dell´ordine: dieci agenti sono leggermente feriti (nessuno è stato ricoverato), altri quattordici sono colpiti, ma sono protetti dalle loro tenute anti-sommossa. Poco dopo, i giovani rivoltosi si disperdono, i poliziotti bloccano otto persone, ma solo un ragazzino di quindici anni è stato mantenuto in stato di fermo per aver lanciato sassi. Poco più in là, sono stati ritrovate quaranta bottiglie molotov pronte all´impiego, segno che l´agguato era stato accuratamente preparato. All´alba di ieri, a Montgeron, sempre nell´Ile-de-France, un commissariato di polizia è stato attaccato a colpi di fucile.
Le violenze di sabato sera sono state l´apice di una settimana carica di tensioni: fin da lunedì ci sono state piccole schermaglie, giovedì e venerdì qualche incidente più grave. Il motivo, secondo la prefettura, è da cercare in un episodio avvenuto l´8 marzo in un altro dipartimento: un ragazzo originario dei Mureaux è stato ucciso dalla polizia dopo un inseguimento. Il giovane, insieme ad altri tre uomini, era bordo di un´auto rubata: hanno cercato di investire alcuni poliziotti, che hanno risposto aprendo il fuoco. Anche in questo caso, si tratta di uno scenario per così dire classico: la rivolta delle "banlieues" dell´autunno 2005 fu innescata dalla morte di due ragazzi e in generale è sempre un episodio di questo tipo a scatenare le violenze nelle periferie. Stavolta, però, l´escalation preoccupa, in primis i sindacati della polizia: «Ormai non si esita più a sparare contro i nostri colleghi. Se non si puniscono più duramente gli aggressori, andiamo verso la catastrofe e non ne usciremo. Siamo particolarmente preoccupati per l´aumento della violenza organizzata e armata». Il ministro dell´Interno, Michèle Alliot-Marie, ha dal canto suo reso omaggio al sangue freddo mostrato dalle forze dell´ordine.

Repubblica 16.3.09
Per il commissario Sabel "la crisi aggrava la frattura"
"Nelle nostre periferie rischiamo l’apartheid"
"Per gli immigrati in Francia stiamo costruendo delle frontiere interne"


PARIGI - «Stiamo scavando un solco che ci porta dritti dritti verso l´apartheid sociale e territoriale». A parlare così non è un sindacalista o un rappresentante dell´estrema sinistra, ma l´Alto Commissario alla Diversità, nominato tre mesi fa da Nicolas Sarkozy. Yazid Sabeg è praticamente l´unico imprenditore di successo di origini extracomunitarie (è nato in Algeria) ed è uno dei pochi a parlare senza peli sulla lingua dei problemi legati all´immigrazione. E sulla situazione della popolazione di origini straniere ha le idee chiare: «In Francia stiamo costruendo delle frontiere interne. L´apartheid non esiste nella legge, ma esiste nei fatti. Le cose si aggravano e la crisi rischia di aggravare ancora questa frattura. In questo caso, sono queste popolazioni, le più fragili, che soffriranno di più. Dobbiamo fare presto».
Difficile dire se Sabeg saprà dare una scossa. Per il momento, i piani per aiutare le banlieue hanno dato scarsi risultati. L´ultimo in ordine di tempo è stato lanciato dallo stesso Sarkozy all´inizio del 2008, ma i risultati, ha ammesso la responsabile del progetto, il sottosegretario Fadela Amara, sono poco consistenti. Colpa della burocrazia, dice lei. Colpa della mancanza di fondi, dicono altri. Gli obiettivi fissati sono lontani: lo Stato non ha ancora nominato tutti i 350 delegati prefettizi che devono coordinare le diverse azioni del piano; i contratti di lavoro per combattere la disoccupazione giovanile nelle borgate (40 per cento) sono in ritardo e ne sono stati firmati la metà del previsto; il programma per mandare i bambini in scuole migliori e favorirne l´integrazione stenta a decollare.
Solo i soldi per riabilitare l´edilizia sono arrivati, ma secondo i sindaci i costi sono stati largamente sottovalutati. Oltretutto, il piano è criticato dalle fondamenta e Sabeg è in competizione con chi lo deve applicare: «Secondo me non è abbastanza ambizioso. Bisogna andare più lontano. L´occupazione e l´educazione sono centrali. Le pari opportunità, la diversita e la banlieue sono problematiche che richiedono risposte all´altezza».
(g.mar.)

Repubblica 16.3.09
Musei affollati e boom di vendite per i libri. La crisi spinge i consumi per la cultura, lo svago e la bellezza. Come in tempo di guerra
di Anais Ginori


Concerti e stadi di nuovo affollati. Record di visitatori nei musei. Boom di vendite per i libri Aumenta la ricerca dell´estetica, con relativi exploit di dopobarba e rossetti. Quando l´orizzonte si fa scuro, la cultura e la bellezza diventano un rifugio. Si riscopre la voglia di divertirsi. E anche di essere più gentili
L´antropologo Marc Augé: succede come in guerra, ci si stringe insieme per essere più forti

È la fine del mondo, e io mi sento bene. La canzone dei Rem è vecchia di vent´anni, ma sembra scritta oggi. Mai così pieni i musei, mai così piene le librerie. Mai così tanta gente ai concerti, nelle sale da ballo. I centri termali tutti prenotati, le vendite di cosmetici che resistono al crollo generalizzato dei consumi. "La crisi senza andare in crisi" ha titolato qualche giorno fa Libération. Paradosso di una recessione che evoca gli spettri del 1929. O forse il riflesso pavloviano che scatta una volta affacciati sul baratro. Le persone riscoprono la gentilezza, la voglia di divertirsi, l´ascolto del prossimo. Si mostrano capaci di generosità. "E sorridono di più" nota il quotidiano francese. Una visione troppo ottimista, ammonisco accigliati gli esperti. Certo è che la cultura - bene immateriale per eccellenza - sta vivendo una stagione d´oro.
«Quando il mondo cambia e il futuro preoccupa - spiega Marie-Christine Labourdette, direttrice dei musei di Francia - l´intangibilità delle opere d´arte rassicura». Ci sono, ci saranno anche dopo. Lo stato d´animo pare sia condiviso anche dagli italiani. A febbraio, le visite ai musei sono aumentate del 31 per cento rispetto al 2008. Record agli Uffizi (+45%) e alla Reggia di Caserta (+70%). La Pinacoteca di Brera ha abbondantemente raddoppiato gli ingressi con la mostra sul Caravaggio che terminerà alla fine del mese, nonostante l´aumento del prezzo del biglietto.
«È una legge psicologica antica». Giorgio Assumma, presidente della Siae che fornisce in anteprima le ultime rilevazioni sull´andamento dello spettacolo, non si scompone. Nell´ultimo anno, gli italiani non hanno rinunciano ai concerti (+6,47%) e allo sport (+18,15%). Qualche dato suggerirebbe la sindrome da Titanic tanto evocata in questi giorni. Si balla sulla tolda della nave, consapevoli del suo imminente naufragio. Non tutti i dati, infatti, sono positivi. Cinema e teatro hanno già cominciato a scontare l´effetto della recessione (rispettivamente un calo di spettatori pari al 5,34% e all´11,97%). «Meglio non farsi illusioni: la crisi colpirà presto tutte le attività dello spettacolo» conclude Assumma. Ma almeno in questi primi mesi dell´anno, la reazione istintiva alla crisi è stata una sana voglia di evasione. A Natale gli italiani hanno comprato più libri di un anno fa (+5%). E dall´inizio del 2009 la congiuntura economica non ha ancora colpito gli editori. Non è un fenomeno nuovo. Anche durante la crisi del ´29, ricordano gli storici, i cinema erano pieni. Il bestseller della Grande Depressione fu "Via col vento". Oggi, fanno notare alcuni editori italiani, c´è un maggiore bisogno di capire e riflettere, e così vendono bene anche saggi e analisi internazionali. Un altro segnale che gli imprenditori culturali trovano incoraggiante.
«Di sicuro non stiamo andando verso una società monacale e più triste» dice Monica Fabris, presidente dell´istituto Gpf, che da anni osserva le mutazioni della società italiana. «La cultura continuerà a essere un bene rifugio anche nel lungo periodo», è la sua previsione. Un recente studio a campione (panel online di 400 persone tra i 18 e i 54 anni) mostra che il 48% degli italiani è seriamente intenzionato a "consumare" beni culturali nei prossimi mesi. Il 3% in più del 2005. Il 40% degli intervistati mostra anche un tenace attaccamento alla "ricerca dell´estetica". «Non nel senso di superfluo, ma come cura del corpo e della persona» è l´opportuna precisazione di Monica Fabris. I centri di benessere registrano un aumento delle prenotazioni e le multinazionali di cosmetici sono tra quelle che resistono meglio alla crisi. Ci sono aziende - come un noto marchio di gel dopobarba - che vivono addirittura un piccolo boom. Anche qui nulla di nuovo. Nel 2001, gli economisti lo chiamarono lipstick index. Dopo l´11 settembre, le donne americane reagirono comprando più rossetti.
La paura è un sentimento prevedibile durante congiunture economiche fortemente negative. Ma non è detto che sia sempre così. Anzi, c´è chi nella crisi è capace di vedere un´opportunità. «È come durante la guerra, ci si stringe insieme per essere più forti» racconta l´antropologo Marc Augé. «Le crisi rappresentano un momento unico e irripetibile per cambiare le mentalità, abbandonare il conformismo - aggiunge il sociologo francese - In un certo senso, è solo affrontando grandi prove che le società progrediscono».
Anche in Gran Bretagna il crollo finanziario ha fatto nascere un´associazione che vende "buone azioni" con tanto di manifesto per riscoprire la gentilezza. «Fa bene a sé e agli altri. E non costa niente», hanno scritto sul Guardian i promotori, lo psicologo Adam Philips e la storica Barbara Taylor. «È il più grande dei piaceri» ricordano gli studiosi, citando una frase dell´imperatore Marco Aurelio. «La gentilezza - scrive ancora il manifesto britannico ripreso anche in copertina da Courrier International - ha sempre fatto parte delle relazioni umane ma ha subito corsi e ricorsi».
L´individualismo sfrenato degli anni Ottanta l´aveva affondata, ora sta riaffiorando. Se ne intravedono alcune tracce, disseminate un po´ ovunque. "L´arte di essere buoni: osare essere gentili", dell´oncologo svedese Stefan Einhorn, è stato un inaspettato bestseller internazionale. «Le donazioni degli italiani non sono ancora diminuite», dice a sorpresa Sergio Marelli, presidente dell´associazione delle Organizzazioni non governative. «Non si tratta solo di una forma superficiale di cortesia, ma di un atteggiamento profondo come il calore, la generosità, l´umiltà, la gratitudine» spiega lo psicoterapeuta Piero Ferrucci, autore di un saggio "La forza della gentilezza", pubblicato da Mondadori, con prefazione del Dalai Lama.
Sono gesti minimi, certo. E diventare buoni forse non ci salverà dalla mareggiata. Eppure non va dimenticato che "frugalità" è stata eletta parola dell´anno dal New Oxford American Dictionnary, e non per caso. «Uno stile di vita frugale - scrive la voce del prestigioso dizionario - capace però di rimanere alla moda e in buona salute, scambiando vestiti, comprando di seconda mano e coltivando orti». A supporto della scelta operata dagli insigni linguisti americani su una nuova etica dei consumi, arriva anche una piccola notizia di casa nostra. "Fa´ la costa giusta", la fiera del consumo critico che si è svolta questo weekend a Milano, ha registrato il suo record assoluto di visitatori ed espositori. «Ma in Italia non stiamo assistendo al cocooning» osserva Fabris. Durante le crisi, spesso si verifica la tendenza ad "avvolgersi nel bozzolo", al chiuso delle mura domestiche. «Piuttosto riscontriamo un´apertura orizzontale alla ricerca di relazioni, laddove la fiducia nella rete verticale di istituzioni e politica è crollata». Gli oltre quattro milioni di "amici" di Facebook potrebbero essere uno dei segnali di quella che Fabris chiama "nuova catena di solidarietà". «Ma ci sono anche azioni concrete. Le mamme che organizzano navette per prendere a turno i bambini a scuola. La donna anziana che regolarizza una immigrata clandestina». Più buoni, appunto. Lo sostiene anche l´antropologo Alberto Salza, in un libro che esce in questi giorni: "Niente. Come si vive quando manca tutto". Salza ha vissuto per quarant´anni in Africa. Osservando le baraccopoli, dice, possiamo anche imparare come superare questa crisi. Un bambino di Nairobi forse ha qualcosa da insegnare anche ai manager di Wall Street. È la fine del mondo come lo conosciamo, dice la canzone. Ma domani può essere ancora un altro giorno.

Repubblica 16.3.09
La teoria spiegata in un libro appena uscito in Gran Bretagna e già diventato un cult
E l’uguaglianza fa bene alla crescita della società
di Enrico Franceschini


Secondo i due sociologi autori del volume, la stabilità vacilla dov´è più ampio il gap tra chi è ricco e chi vive in povertà
I modelli vincenti: Scandinavia e Giappone. Gli Stati con più problemi, invece, sono gli Usa, il Portogallo e il Regno Unito

L´ineguaglianza è la madre di tutti i mali: più ampio è il gap tra ricchi e poveri in una società, peggio quella società funziona da ogni punto di vista. È meno solida, meno stabile, più vittima del crimine, con più ignoranza, più gravidanze minorili, più detenuti, più malattie, più obesi, più depressi, più infelicità. Ecco un teorema che piacerebbe ai nostalgici del socialismo vecchia maniera. Eppure, sorpresa, viene da due sociologi che non vogliono affatto ricostruire il socialismo: consigliano semplicemente alle nazioni della terra di seguire il modello della Scandinavia o del Giappone, se vogliono avere una vita migliore. Lo spiegano, con tanto di cifre, grafici, statistiche, in un volume pubblicato in questi giorni in Gran Bretagna: The spirit level. Why more equal societies almost always do better.
Dalle aule di Oxford e Cambridge fino ai corridoi di Downing Street e Westminster, se ne parla come del libro dell´anno, un testo che ogni leader politico, sindacalista, imprenditore illuminato, dovrebbe leggere, specie nel momento in cui, di fronte a una recessione economica e finanziaria forse senza precedenti, tutti si chiedono come ricostruire il capitalismo.
Gli autori, gli inglesi Richard Wilkinson e Kate Pickett, cominciano affermando qualcosa che molti pensano ma non tutti si azzardano a dire, per timore di passare per oscurantisti, improduttivi o lunatici: siamo già abbastanza ricchi. La crescita economica dell´ultimo mezzo secolo ha fatto abbastanza per migliorare le condizioni materiali nei paesi industrializzati (e ha cominciato a migliorarle anche in quelle in via di sviluppo). Ora il compito dell´Occidente sviluppato sarebbe di concentrare i propri sforzi nel tentativo di rendere il reddito dei propri cittadini più ugualitario, almeno quanto quello di Giappone e Scandinavia: non per ragioni morali, non per sentirsi più buoni, non in nome di un egualitarismo socialista, ma perché, così facendo, saremmo tutti meno grassi, staremmo meglio di salute, vivremmo mediamente almeno un anno di più, faremmo vacanze più lunghe, ci fideremmo di più gli uni degli altri, insomma le nostre società sarebbero più armoniose e felici.
Dati alla mano (raccolti dall´Onu, dalla Banca Mondiale, dall´Organizzazione Mondiale della Sanità), i due ricercatori britannici dimostrano che il peggioramento della qualità della vita, come risultato di un aumento della diseguaglianza, risalta ovunque. Praticamente in ogni indice della qualità della vita, si può osservare una forte correlazione tra il livello di ineguaglianza economico di un paese e i suoi risultati sociali.
L´America, ad esempio, è il paese più ricco del mondo, con il reddito medio più alto, ma ha la longevità più bassa tra le nazioni sviluppate, il più alto numero di omicidi, la più alta percentuale di carcerati in rapporto alla popolazione, ed è ai primi posti della classifiche di obesi, di ragazze-madri, di alcolismo, tossicodipendenza, nevrosi. E il paese europeo che ha il più ampio gap tra ricchi e poveri, la Gran Bretagna (dove questo divario è enormemente aumentato, anziché diminuito, nei dodici anni di potere laburista, prima con Tony Blair, ora con Brown), è quello che è in cima alle stesse graduatorie sui problemi sociali e sulla violenza sociale nel nostro continente.
I paesi occidentali dove si vive meglio, afferma il libro, sono quelli dove l´ineguaglianza è più ridotta, e precisamente (nell´ordine) Giappone, Finlandia, Norvegia, Svezia, Danimarca, Belgio, Austria. Quelli dove invece i problemi sociali sono più forti sono quelli nei quali è più forte la diseguaglianza: Stati Uniti, Portogallo, Gran Bretagna, Australia, Nuova Zelanda, Israele e, al settimo posto, l´Italia, dove il quinto più ricco della popolazione è 6,7 volte più ricco del quinto più povero (negli Usa la differenza è 8,5 volte, in Giappone 3,4).
Concludono gli autori: diventare ricchi aveva l´effetto automatico di rendere una nazione più sana e più soddisfatta, e non c´è dubbio che il miracolo economico del dopoguerra, in Italia e altrove, sia servito a questo. Ma - nei paesi industrializzati - non funziona più così, anche perché la forbice dell´arricchimento si allarga a beneficio di una élite sempre più ristretta. Si può concordare o meno con la tesi, ma ecco un libro da tradurre subito in italiano e da far leggere ai nostri leader, al governo e all´opposizione.

Repubblica 16.3.09
Hiroshige. Il maestro della natura
Museo Fondazione Roma. Dal 17 marzo.


La mostra, curata da Giancarlo Calza, presenta duecento opere del celebre artista giapponese, provenienti dall'Honolulu Academy of Arts, Hawaii. La produzione di Hiroshige consiste nella realizzazione di stampe policrome, il principale mezzo di diffusione dell'arte del Mondo Fluttuante, con fogli singoli e libri di illustrazioni. Considerato uno dei più grandi autori del suo tempo, il pittore esercita una notevole influenza sull'arte europea e soprattutto sull'impressionismo e post impressionismo. A cominciare da van Gogh che si ispira profondamente alla sua tecnica e alle sue tematiche e riproduce in modo fedele alcune delle sue opere in quadri famosissimi.

Corriere della Sera 16.3.09
Molestie Partenza a razzo della nuova legge
Stalking, due arresti al giorno
di Alessandra Arachi


Molestie Il ministro Carfagna: al via un team di carabinieri specializzato
Stalking, 2 arresti al giorno Parte a razzo la nuova legge
Quaranta in manette in tutta Italia da fine febbraio
L'impennata dei casi negli ultimi due giorni: sono stati una dozzina. Il primo provvedimento a Milano

ROMA — Da quando è entrato in vigore il decreto legge sui molestatori che minacciano, ingiuriano e perseguitano, gli inquirenti si sono attivati. E gli arresti si susseguono a ritmo frenetico. Circa quaranta in una ventina di giorni. Praticamente due al giorno. Si tratta anche di aggressioni o di persecuzioni telefoniche, sms compresi.
Il ministro per le Pari opportunità, Mara Carfagna, ispiratrice del decreto, annuncia ora la creazione di un nuovo gruppo di carabinieri dedicati esclusivamente allo stalking.

ROMA — Siamo un popolo di stalker. Ce ne siamo accorti da quando esiste il nuovo reato che ha, appunto, un nome inglese: lo stalking. I molestatori che minacciavano, ingiuriavano e perseguitavano non se li filava nessuno. Da quando invece, una ventina di giorni fa, è entrato in vigore il decreto legge che ha messo tutti insieme questi reati (creando lo
stalking) gli inquirenti si sono attivati. E gli arresti si susseguono a ritmo frenetico. Circa quaranta in una ventina di giorni. Praticamente due al giorno. In una caccia senza confini: da Trento a Caltanissetta, passando per L'Aquila, Sanremo, Sassari, Catanzaro, Ascoli Piceno, Milano, Bologna, Savona, Bari, Ravenna, Genova, Arezzo, San Benedetto del Tronto, Treviso, Arezzo, Sorrento.
Il decreto legge del governo è diventato operativo il 25 febbraio. E il 2 marzo Stefano Savasta, cinquantenne di Milano, ha varcato le soglie del carcere inaugurando la serie di arresti: alla sua «ex» recalcitrante aveva fatto bere del te condito con interiora di topo morto.
Il 4 marzo è toccato ad un sessantacinquenne di Sorrento: il suo desiderio maniacale per una donna lo ha portato a perseguitarla ovunque e sfregiarla anche con una lametta. Il 5 marzo un altro arresto a Milano, il 7 a Sanremo, l'8 a Genova. Poi la serie è diventata esponenziale. Ed è schizzata su con un picco altissimo, come fosse un sismografo impazzito.
Ed ecco che soltanto negli ultimi due giorni sono finiti nelle carceri italiane una dozzina di stalker. E se soltanto si volesse proseguire, non ci sarebbe che l'imbarazzo della scelta su chi sbattere nelle patrie galere. Almeno a giudicare dagli ultimi dati Istat che ci segnalano che dal 2002 al 2007 sono stati ben due italiani su dieci a rimanere vittima dello stalking.
La maggior parte sono donne. La stragrande maggioranza degli stalker sono partner o, preferibilmente, ex. Ma non soltanto.
La nuova legge sullo
stalking non si limita a punire i delitti a sfondo sentimentale, passionale o sessuale. Persecuzioni, molestie, ingiurie e minacce vengono perseguite a trecentosessanta gradi. Si tratti di aggressioni o di persecuzioni telefoniche, sms compresi. Ce n'è di lavoro, volendo.
E Mara Carfagna, ministro per le Pari Opportunità, su questo tasto ha intenzione di continuare a lavorare. È stata lei che ha fortemente voluto l'introduzione di questo reato. È sempre lei che adesso annuncia la creazione di un nuovo gruppo di carabinieri dedicati soltanto allo
stalking. Spiega, infatti: «Abbiamo firmato un protocollo d'intesa con il ministero della Difesa, seguito dalla convenzione con il mio ministero e il comando generale dell'Arma così da creare questo gruppo. Ovvero una dozzina di carabinieri scelti tra ufficiali e sottufficiali che lavorerà preso il ministero per dedicarsi allo stalking».
Non è soltanto una storia di semplici persecuzioni e molestie verbali. Troppo spesso la follia che acchiappa la mente per motivi di gelosia o di cieca vendetta, degenera nelle tragedie più buie. Ce lo spiegano ancora i dati del nostro Istituto di statistica. Sono numeri che fanno venire i brividi. Dicono che ben il 39% dei delitti commessi tra partner o ex partner erano crimini ampiamente annunciati. Per capire: la vittima era stata esplicitamente minacciata di morte. Com'è successo ad Ozieri, Sassari, dove un uomo di 34 anni è stato arrestato per aver più volte minacciato di morte la sua ex convivente di 31 anni e anche suo fratello.
Ma pur senza arrivare all'omicidio la violenza è pane quotidiano per il nostro popolo di stalker. Pensiamo ad Ivano Biffi, 38 anni, ex portiere della Sanremese, oggi pizzaiolo. Il 7 marzo, finalmente, è stato portato dietro le sbarre. Ma nel frattempo aveva avuto il tempo di provocare un trauma facciale all'ex moglie. Come mai? Non voleva che la donna si ricostruisse un'altra vita, al di là di lui.
Oltre la violenza fisica, c'è anche una grande componente di violenza psicologica. Ad Asiago, Vicenza, le minacce violente e ripetute di Enzo Mussarra, 47 anni di Messina, stavano impedendo alla sua ex fidanzata di poter condurre una vita normale. La sua esistenza era diventata un alternarsi di stati di ansia e di paura. Come quasi sempre succede alle vittime degli stalker.

L'espresso n.11 19 marzo 2009
Ultima chiamata a sinistra
Divisi e litigiosi, senza intese nemmeno sul nome della lista. Ma costretti a stare insieme.
Così ex schegge di Rifondazione, Pdci e Sd cercano di salvarsi dall'estinzione politica
di Marco Damilano


Fare come c1 Fermo.Non è la Russia, non è la socialdemocrazia tedesca, non e neppure Porto Alegre, patria fino a pochi anni fa dei No global, ma pazienza. Dalla paciosa provincia marchigiana è arrita l'unica buona notizia per la sinistra da un anno a questa parte: l'ex deputato dcll'Ulivo, Fabrizio Cedetti, sostenuto da Rifondazione, Verdi, Sinistra democratica e Comunisti italiani, ha battuto alle primarie l'uomo del Pd Renzo Offidani per la candidatura alla presidenza della Provincia. Un pugno di voti e realtà locale, localissima, d'accordo. Ma tanto basta a far gridare agli esponenti a sinistra del Pd che l'izquierda è viva, anche se non troppo unita. E far sperare nelle repliche, quando verrà il momento di elezioni più impegnative. Il 22 marzo, quando si voterà alle primarie per le provinciali di Napoli: il candidato del Pd è l'ex ministro Luigi Nicolais, contro di lui è sceso in campo 11 sindaco di Castellmare Salvatore Vozza, ex deputato ds, potrebbe dare molto fastidio, come ha capito Antonio Bassolino che ha voluto riceverlo e fargli gli auguri. E soprattutto il 7 giugno, la data delle eiezioni europee. Un appuntamento che per i partiti ex sinistra arcobaleno, dopo 11 disastro di un anno fa quando non riuscirono a entrare neppure in Parlamento, è questione di vita o di morte. O risorgere dalle ceneri o sparire dal panorama politico, definitivamente.
Alla prova della riscossa i nostri arrivano come sempre: divisi e litigiosi. Con due liste firmate da leader e partiti che per anni sono stati in competizione tra loro e ora sono costretti a convivere. Tutta colpa della riforma della legge elettorale. lo sbarramento del quattro per cento voluto da Bedusconi e dalia coppia Vclrroni-Franceschini per salvare il bipartitismo uscito dalle elezioni politiche del 2008. Per una beffa atroce, la riforma è arrivata il giorno dopo l'annuncio dell'ennesima scissione a sinistra, quella dci gruppo capeggiato dal governatore pugliese Nichi Vendola da Rifondazione. Un micro-spostamento che ha rimescolato tutte le alleanze. Il risultato è che la sinistra andrà alle elezioni europee con una formazionc neo-comunista fondata sul patto tra quel che resta di Rifondazione e i Comunisti italiani di Oliviero Diliberto. E un cartello di nuovo conio che raggruppa il resto del mondo: la Sinistra democratica di Claudio Fava e Fabio Mussi, i vendoliani del Movimento per la sinistra, i Verdi e i socialisti di Riccardo Nencini. Mica facile tenere insieme storie così diverse, come dimostra la discusslune sul nome della lista. Un dibattito avvincente: meglio chiamarsi "Sinistra per la libertà" oppure "Sinistra e libertà"? Troppo berlusconiano il primo, hanno obiettato alcuni, mentre il secondo, secondo altri, sarehbe equivoco: farebbe capire che la sinistra e la libertà sono due cose separate. Disquisizioni degne del Concilio di Nicea, fanno comprendere meglio di tante analisi perché la gauche sia sparita dal gradimento degli elettori. Eppure, lo spazio elettorale ci sarehbe: insieme, secondo l'ultimo sondaggio Ipr-Marketing, il cartello vale il sei per cento. Fanno cinque o sei europarlamentari e un bel rimborso elettorale che garantirebbe la sopravvivenza.
Nell'altra lista, quella neo-comunista, almeno in teoria l'unione dovrebbe essere più facile. Nessun problema sul simbolo: la gloriosa falce e il tradizionale martello, orgogliosamente esibiti. E qualche pasticcìo grafico: alla dicitura partito della Rlfondazione sarà aggiunta la scritta "comunisti italiani". E poi un riferimento alla sinistra europea, ecologista, femminista e anti-capitalista, per accontentare le richieste di Sinistra critica, la new entry nel cartello Rifondazione-Pdci, che alle ultime elezioni conquistò lo 0,4 per cento, e dell'Unione democratica dei consumatori di Bruno de Vita, che porta in dote i 91mila voti raccolti il 13 aprile 2008: pari allo 0,2 dell'elettorato. Sommando uno zero virgola di qua e uno di là i neo-comunisti sperano di superare Il quattro per cento: per ora i sondaggi li danno in bilico, inrorno al tre. E le divisioni interne non mancano. Il Pdci è più piccolo, ma più compatto, attorno al leader carismatico Diliberto. L'unico oppositore interno, il forzato dei talk show televisivi Marco Rizzo, euro-parlamentare uscente, è caduto in disgrazia e prova a riciclarsi. Prima ha bussato alla porta dell'Idv, ma Antonio Di Pietro lo ha cortesemente pregato di lasciar perdere. Poi ha dato vita a un'associazione dal nome immaginifico, Proletaria. Obiettivo: dare voce a movimenti, disoccupati, immigrati, ambientalisti. E soprattutto, malignano, portare Rizzo al tavolo delle trattative, dove si faranno le candidature. Nell'attesa è in gara come sindaco a Collegno, il paese dello smemorato.
Rizzo a parte, il Pdci sosterrà compatto la candidatura Diliberto in tutta Italia: un bel bagaglio di preferenze che mette in difficoltà il partner Paolo Ferrero, il segretario di Rifondazione guida un partito diviso: ci sono i bertinottiani dell'ex vice-presidente del Senato Milziade Caprili e di Augusto Rocchi, che non hanno seguito Vendola, controllano un terzo del partito e sono ancora in stretto contatto con l'ex presidente della Camera, e chiederanno un congresso straordinario subito dopo le Europee. Ci sono poi i "destri" di Claudio Grassi, l'uomo dell'organizzazione che da sempre punta a ricucire la scissione di dieci anni fa con il Pdci, e ci sono gli immancabili trotzkisti. Come se non bastasse, potrebbero arrivare altre candidature: qualche esponente della Fiom-Cgil per esempio. Il più corteggiato è un nome di peso deglì ex Ds. l'ex ministro Cesare Salvi: non ha mai aderito al Pd, ha lasciato il partito dì Fava-Mussi ed è in cerca di nuove collocazioni politiche. Conclusione: li povero
Ferrero rischia di non venire votato con le preferenze nemmeno da tutto il suo partito. Per questo all'inizio aveva fatto sapere di non volersi candidare. E ora medita di emigrare in Germania, presentarsi nelle liste della Linke di Oskar Lafontaine, in cambio di un posto per un importante tedesco in Italia. Un espatrio che gli permetterebbe dì evitare la conta delle preferenze contro Diliberto, anche in vìsta di una possibile riunificazione deI due partiti della falce c martello e di una gara per la leadershìp tra i due segretari.
Ancora più complicato il puzzle delle candidature di Sinistra e libertà, Tanti eurodeputati uscenti da ricandidare, Claudio Fava, Roberto Musacchio, Monica Frassoni, tutti nella top ten dci più presenti e attivi ai lavori del Parlamento dì Strasburgo, più i nomi di 4 partiti da accontentare. L'idea è affidare due terzi delle candidature ai militanti: il 19 aprile sarà possibile votare nelle assemblee per i nomi da mettere in lista. Nel terzo restante correranno i big. con qualche esterno di prestigio: Moni Ovadia, che fece parte dcll'Assembiea costituente del Pd, oppure Rita Borsellino. Nomi che devno attirare gli elettori del Pd di sinistra delusi dalla segreteria dell'ex dc Franccschini. Mentre a Vendola, Franco Giordano e Gennaro Migliore tocca strappare quadri dirigenti e voti a Rifondazione: ogni giorno in perìferia è uno scontro, l'ultimo sul commissariamento della federazione di Brescia. Bertinotti benedice, ma resta a guardare: nell'ultima settimana ha partecipato a un'iniziativa dei vendoliani e a un convegno di Rocchi e Caprili rimasti in Rifondazione. L'eleganza del padre nobile. Intanto, il cartello della gauche libertaria ha perso qualche pezzo per
strada: tra i Verdi è in subbuglio il veneto Gianfonco Bettin, nei socialisti ha fatto sapere che cercherà migliore compagnia l'europarlamenrarc uscente Gianni De Michelis. In moltì hanno tirato un sospiro di sollievo. Ora bisogna prendere i voti, però.