sabato 21 marzo 2009

Corriere della Sera 20.3.09
Identità e destino. Il dibattito su corpo e resurrezione, su esistenza e morte. Il «prossimo» del Vangelo e la legge morale di Kant
L'inizio e la fine: ipotesi sulla vita
Fede e ragione si interrogano (e si sfidano) su che cosa definisce un essere umano
di Emanuele Severino


Quando incomincia la vita umana? Quando finisce? Cosa significa «vita umana », «uomo»? Pressoché assente, invece, quest'altra domanda: «Esiste l'uomo? ». Certo, essa sembra paradossale, un perditempo fuori luogo. Sanno tutti che un uomo è un corpo che agisce e si esprime, guidato da sentimenti e pensieri. Di uomini ne vediamo tanti ogni giorno. Ma a rendere umano un corpo sono quei sentimenti e pensieri; che però non si lasciano vedere, toccare, sperimentare, nemmeno nell'amore più profondo. Se ne deve congetturare il contenuto, l'intensità, la provenienza, la direzione. A volte si coglie nel segno; a volte no. Nella vita quotidiana, comunque, non ci si rende conto che l'esistenza stessa dei sentimenti e pensieri altrui, dunque l'esistenza stessa dell'uomo, è una congettura. Dell'uomo, dico, ossia del «prossimo» e di me stesso in quanto mi credo radicalmente legato al mio prossimo. Tanto poco «evidente», l'esistenza dell'«uomo», quanto lo è l'esistenza di «Dio». La filosofia lo sa da tempo, anche se una delle questioni più complesse è appunto il significato dell'«evidenza».
Che l'uomo, il suo esser «prossimo» esista è qualcosa di voluto. Ossia di creduto. Qualcosa di discutibile, dunque. Si ha fede nell'esistenza dell'uomo; anche se nella vita quotidiana si crede (si ha fede) che certi esseri siano indiscutibilmente degli uomini. Esistono innumerevoli «conferme» di questa fede; ma che certi eventi siano «conferme » è daccapo una fede: come è soltanto una fede che i baci siano una conferma dell'amore, visto che si può esser baciati da chi ci tradisce.
Per Gesù il prossimo è chi viene amato («Ama il tuo prossimo»); e quindi è prossimo proprio perché viene amato. Dunque è prossimo anche l'amante (il buon Samaritano lo è rispetto all'uomo derubato), giacché se l'amore rende prossimo, cioè vicino, l'amato, anche l'amante si avvicina all'amato, gli si rende prossimo. Un essere è reso «prossimo» dall'amore, ma l'amare è il contenuto della «Legge», ossia di un «Comandamento »; e non si comanda quel che si ritiene «evidente». Al sole che splende nel cielo non si comanda di illuminare la Terra, né a un albero si comanda di non essere una pietra. Se per Gesù il prossimo è l'amato-amante, l'amore è un atto di volontà (persino quando non si può fare a meno di amare); dunque anche per Gesù che il prossimo esista è qualcosa di voluto, creduto, è una fede da cui ci si può quindi allontanare. (Si può dire che il vacillare di questa fede stia all'origine del massacro che incomincia con l'uomo, ma lo si può dire stando all'interno di questa fede). Anche per Kant che certi esseri debbano essere trattati come prossimo è il contenuto della «legge morale», di un «imperativo », di un comando. È un dovere morale credere che il prossimo esista, non è la constatazione di un fatto indubitabile. All'inizio della vicenda dei mortali sulla Terra tutto è per essi «prossimo » (e demonico): luce e suolo, acque, monti, cielo, stelle, animali e piante, vento, tuono, pioggia, lampo e, certo, anche questi esseri a cui oggi abbiamo ridotto l'ampio cerchio antico del «prossimo» e che chiamiamo «uomini». Ma questa riduzione non ha fatto ancora uscire dalla semplice fede, dalla semplice volontà che certi eventi siano il «prossimo».
L'esistenza stessa della vita altrui è un grande arcano e oggi, dimenticando tutto questo, si discute con convinzione per stabilire quando la vita altrui incominci e quando finisca! Di più: si ritiene che non ci sia niente, o più niente, da dire intorno al significato dell'«incominciare» e del «finire», e a questo punto l'inadeguatezza della riflessione tocca il fondo. Dalla quale non sanno liberarsi né scienza, o cristianesimo e altre forme religiose, né arte e filosofia. Si discute con convinzione per stabilire il momento dell'inizio e della fine di qualcosa — il «prossimo» e «io» stesso in quanto mi sento legato ad esso dalle radici — che potrebbe non esserci affatto. Si può replicare dicendo che la cosa non è poi così scandalosa, giacché è lecito e tutt'altro che insensato discutere sull'inizio e la fine di qualcosa la cui esistenza è probabile; e che anzi è insensato ritenere che alle nostre certezze possa competere qualcosa di più della probabilità più o meno elevata, cioè quel di più che sarebbe la loro «verità assoluta e definitiva». Un «sogno finito»; svegliamoci. Ma — rispondiamo — è davvero finito? Sì, dato il modo in cui ci si è addormentati. No, se si riesce a scorgere che c'è dell'altro, che da sempre circonda quel sogno e quel risveglio e che è libero da entrambi.
È stato comunque, quel sogno, grandioso: il sogno della «ragione». Se lo si dimentica, il risveglio è ben poca cosa, è un altro sogno. Il sogno della ragione evoca un sapere che stia al di sopra di ogni fede e di ogni volontà, un sapere che affermi che le cose stanno in un certo modo non perché si vuole e si ha fede che così stiano, ma perché esse stanno incontrovertibilmente così. «Il morire tra ragione e fede» è appunto il tema del Convegno che si terrà in questi giorni all'Università di Padova. Ma ci si vorrà accontentare del discorso (il discorso della scienza, di cui oggi la Chiesa si fida, ossia in cui oggi ha fede) per il quale è «probabile» che l'«uomo» esista, è «probabile» che la sua vita incominci in un certo momento e in un cert'altro finisca?
Si dice che «ognuno di noi» sperimenta la morte del prossimo, non la propria. Ma poiché l'esistenza stessa del prossimo non è sperimentata, del prossimo non si può sperimentare nemmeno la morte (o la nascita). Si sperimenta il sopraggiungere di configurazioni via via diverse di ciò che chiamiamo «il corpo altrui», sino a quella, angosciante, che chiamiamo «cadavere» (e poi altre ancora, come gli scheletri e le ossa, che le feste e i riti arcaici mostrano di considerare ancora come «prossimo»).
Configurazioni via via diverse e, certo, sempre più terribili. Che tuttavia non mostrano quanto è più terribile e angosciante: l'annientamento delle precedenti configurazioni del corpo altrui. Il cadavere mostra sì qualcosa di orrendamente diverso dalla vita da cui è preceduto, ma non mostra l'annientamento di questa vita. Gli uomini hanno imparato che, quando il cadavere compare sulla scena, la vita da cui è preceduto non ha più fatto ritorno, e hanno pensato che questo mancato ritorno sia l'«annientamento » della vita. Non appare, non si fa esperienza dell'annientamento della «beltà» di Silvia («Quel tempo della tua vita mortale, / quando beltà splendea / negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi »), ma appare, dopo le configurazioni del tempo dello splendore di Silvia, il suo «chiuso morbo» e il suo cadavere.
E l'annientamento non può apparire, perché quando si crede che le cose si annientino è necessario che si creda anche che non se ne possa più fare esperienza, ed è quindi impossibile che l'esperienza mostri a quale destino siano andate incontro le cose che da essa sono uscite. Appunto per questo ogni vita e ogni cosa che dopo il proprio calvario esce dall'esperienza «può» ritornare. Se qui si potesse spingere fino in fondo il discorso, si dovrebbe dire anzi che «è necessario » che ritorni.
Sia la ragione, sia la fede (e innanzitutto la fede cristiana e delle altre due religioni monoteistiche) credono che l'annientamento delle cose e dei viventi (e il loro uscire dal niente) costituisca quanto di più «evidente» vi sia, di più manifesto, di più esperibile. Ma alterano ciò che si manifesta, gettano sul suo volto la maschera della morte-che-annienta, l'autentico «pungiglione della morte». La resurrezione dei corpi e della carne, annunciata dal cristianesimo, è certo un tratto della maschera: per risorgere, la carne deve essere diventata niente. La resurrezione è figlia legittima del pungiglione mortale. Eppure, sebbene profondamente sviante, quell'annuncio è una metafora del destino di ciò che, uscendo dalla manifestazione delle cose del mondo, non è diventato niente, ma, eterno, attende di ritornare, nella sua gloria.

All'università di Padova
Confronto tra il filosofo e il patriarca di Venezia

Si apre oggi, alle 9.15, all'Università di Padova, nella sala dell'Archivio antico di Palazzo Bo, il convegno internazionale «Il morire tra ragione e fede: universi che orientano le pratiche di aiuto». I lavori iniziano con un dibattito, moderato da Armando Torno, tra il cardinale Angelo Scola (Patriarca di Venezia) e il filosofo Emanuele Severino (del quale pubblichiamo in anteprima alcune considerazioni sull'argomento). L'iniziativa è nata da un accordo tra il rettore dell'Università Vincenzo Milanesi, il sindaco Flavio Zanonato e il preside della Facoltà Teologica del Triveneto Andrea Toniolo. La direzione scientifica si deve a Ines Testoni, con il concorso delle Facoltà di Scienze della Formazione, di Medicina e Chirurgia, del Dipartimento di Psicologia Generale.
Tra i relatori: Enrico Berti, Dora Capozza, Antonio Da Re, David Spiegel, Michael Barilan. Tra i patrocinatori figura la «World Cultural Psychiatry Research Review».

giovedì 19 marzo 2009

l'Unità 19.3.09
100 le piazze Flc-Cgil sulla Conoscenza: docenti, ricercatori, precari, collaboratori scolastici
Epifani: «L’istruzione deve tornare al centro della politica». Ma la Gelmini sceglie Mediolanum
«Per una scuola di qualità». Riparte la protesta in Italia
di Maristella Iervasi


Sciopero della Conoscenza: in migliaia nelle 100 piazze della Flc-Cgil. E la Gelmini si «blinda» a Mediolanum Corporate University. Epifani: «Contro le scelte del governo per una scuola di qualità».

Alessandra dal palco della Flc-Cigl di piazza Sant’Apostoli a Roma ha cercato il dialogo con la Gelmini maestra unica. Ha spiegato che alle elementari nelle ore di compresenza che il ministro dell’Istruzione considera spreco - «con le mie colleghe svolgiamo attività di recupero per i bambini che ne hanno bisogno. Altre volte, grazie alle compresenze - ha precisato -, riusciamo a fare attività di rinforzo linguistico con i bambini stranieri. E sempre nelle ore di compresenza ci capita addirittura di riuscire a far recuperare le lezioni agli alunni assenti per malattia». Ma la Gelmini l’accorato appello della maestra di Acilia non l’ha voluto sentire: ha preferito mettersi al riparo dalle 100 piazze d’Italia del sindacato di Guglielmo Epifani. Ha scelto l’inaugurazione di Mediolanum Corporate University di Basiglio (Milano 3) per manager finanziari. Altro che scuola pubblica.
Palloncini colorati come il 30 ottobre scorso. Il santino della «Beata Ignoranza» stampato su magliette e adesivi. Slogan e calcoli più che espliciti: «Più tagli, meno precari, meno ricerca. Uguale zero futuro». Già, perchè allo sciopero della Conoscenza c’erano anche loro: i ricercatori degli enti di ricerca, come Luigi Improta, sismologo presso l’Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv) che nonostante presenti lavori ai congressi internazionali e reperisce fondi per progetti è un precario a tempo, come altri 400 colleghi. Esattamente com’è la «vita» di di Francesca Assennato, ingegnere ambientale all’Ispra, in scadenza.
Il balletto dei numeri Dal Nord al Sud il trio Tremonti-Gelmini-Brunetta ha tenuto banco. Ogni piazza della Flc-Cgil è stata riempita. Nessun corteo disertato. Sulla carta ha aderito anche il Gilda degli insegnanti, ma sui blog sono in molti a scrivere: «Chi ha visto Rino Di Meglio? Nella mia città non c’era...». Secondo il ministero di Viale Trastere, l’operazione «cattedre deserte» non è andata a buon fine: «lo sciopero nella scuola - si legge in un comunicato su un dato parziale - registra l’9,56% delle adesioni». Eppure sono state molti gli istituti scolastici in sofferenza per le assenze per sciopero di docenti, personale amministrativo e collaboratori scolastici. Per la Flc-Cgil l’adesione allo sciopero è stata del 45% con punte del 60/70% nella scuola di base. A Bologna è stata chiusa la facoltà di Scienze della formazione. Idem ad Ancona per l’istuto musicale «Pergolesi». E ad Urbino c’è stata la «serrata» dell’Accademia delle Belle Arti.
Scuola al centro della politica
Epifani l’ha detto da Palermo. «Mi sembra che oggi si discuta di cose che non sono il cuore del problema, come il grembiulino o il 5 in condotta», ha precisato il leader della Cgil. «La nostra scuola ha tante magagne, va sicuramente riformata ma non cancellata. Senza formazione di qualità e il contrasto alla dispersione scolastica perderemo molte battaglie. In primo luogo quella della legalità. Sono troppe le cose che non vanno nella scuola - ha osservato Epifani -, a partire dalla riduzione degli spazi formativi, meno tempo per stare in aula, la riduzione delle risorse e il grande problema dei precari. È una emergenza molto importante che con la crisi andrebbe affrontata diversamente». Ecco spiegato il perchè dello sciopero: protestare contro le scelte del governo per «rivendicare una scuola di qualità».

Repubblica19.3.09
Tempo pieno, è boom di richieste ma non ci sono diecimila maestri
Nelle iscrizioni alle elementari ci sono 82 mila domande in più per le 40 ore settimanali
Invece d'aumentare gli organici il piano prevede una riduzione di dodicimila unità
di Salvo Intravaia


ROMA - Boom di richieste per il tempo peno alla scuola elementare ma quasi certamente mamme e papà resteranno delusi. Per soddisfare chi ha chiesto al ministero di far rimanere i figli a scuola anche nel pomeriggio occorrerebbero quasi 10 mila cattedre in più rispetto all´anno in corso ma il governo si appresta a tagliarne quasi 12 mila. Il maggior numero di istanze di tempo pieno provengono dalle regioni meridionali, dove questo servizio è ridotto al minimo.
E dire che lo scorso mese di ottobre sulle iscrizioni a scuola si era sbilanciato lo stesso capo del governo. «Il tempo pieno nella scuola italiana - spiegava da Bruxelles il presidente del consiglio Silvio Berlusconi - verrà confermato dove c´era e incrementato di circa il 50 o 60 per cento perché ci saranno più insegnanti a disposizione, dopo la decisione del governo di tornare al maestro unico: è importante reagire al sentimento di incertezza che hanno alcune madri e alcuni genitori sulla scuola».
Dai monitoraggi sulle iscrizioni delle scorse settimane si sta passando ai numeri reali. Gli istituti hanno ormai terminato di caricare nel cervellone del ministero i dati sulle iscrizioni alla scuola elementare per il prossimo anno scolastico e non mancano le sorprese: la richiesta di tempo pieno (40 ore settimanali, comprensive di mensa) alla primaria non è mai stata così forte. Sono quasi 82 mila in più, il 12 per cento, le famiglie italiane che vorrebbero fruire da settembre della scuola pubblica fino alle 16. Gli Uffici scolastici provinciali hanno chiesto di poter formare quasi 40 mila classi, ma per farlo occorrono gli insegnanti.
Il boom delle richieste si è verificato nelle prime classi, dove era possibile scegliere il maestro unico di riferimento con 24 ore settimanali, il sistema "stellare" (un insegnante che lavora 22 ore a settimana e altri docenti che completano l´orario con inglese e religione) a 27 e 30 ore o il tempo pieno a 40 ore. Secondo le richieste dei genitori, il prossimo anno bisognerebbe attivare oltre 10 mila prime classi a tempo pieno, con un incremento del 47 per cento rispetto a quest´anno. Oltre 3.200 in più, la maggior parte delle quali dovrebbe andare al Sud. Proprio nelle regioni meridionali il tempo pieno, a causa delle carenze strutturali e della cronica mancanza di refettori, è un miraggio. Se infatti al Nord e al Centro una classe su tre rimane piena anche nel pomeriggio, al Sud la situazione riguarda appena otto classi su 100.
E le richieste di classi a 24, 27 o 30 ore? Dovranno passare diversi mesi prima che i tecnici ministeriali possano venire in possesso delle effettive richieste di mamme e papà. Nel predisporre il monitoraggio sulle iscrizioni, i tecnici ministeriali hanno dimenticato di chiedere alla società che gestisce il sistema informativo l´adeguamento del programma alle nuove esigenze e gli unici dati richiesti alle scuole riguardano appunto il tempo pieno e il tempo normale, senza distinzione tra 24, 27 e 30 ore.

Corriere della Sera 19.3.09
Sapienza, corteo vietato Carica sugli studenti
Sei contusi. «Volevamo aderire allo sciopero Cgil»
di Paolo Brogi


La carica
Gli studenti dell'Onda vengono caricati dalla polizia mentre tentano di uscire dai cancelli della Sapienza per partecipare al corteo organizzato dalla Cgil. Le nuove norme varate dal prefetto limitano le manifestazioni

La manifestazione impedita dalla nuova regolamentazione varata dalla prefettura di Roma
ROMA — Hanno provato a fare come in Francia, lanciando pantofole sulle forze dell'ordine che li caricavano. Trenta paia di De Fonseca multicolori, da 3 euro, comprate dagli studenti dell'Onda con una colletta il giorno prima. Poi però alla terza carica, nel corso dell'ultimo tentativo di uscire dalla Sapienza interamente bloccata ieri da un grosso dispositivo di polizia, i 400 manifestanti hanno aggiunto sassi e pezzi d'asfalto. Niente da fare. Il corteo previsto per partecipare allo sciopero della Cgil è rimasto bloccato dentro l'ateneo. A impedirlo la nuova regolamentazione sulle manifestazioni a Roma appena varata dalla prefettura. Sei gli studenti alla fine contusi, due di loro ricorsi alle cure ospedaliere: Gianni di Lettere sottoposto a Tac per una lieve commozione cerebrale, Luca di Scienze politiche con un braccio ingessato e 25 giorni di prognosi.
Il rettore dell'ateneo Luigi Frati commenta: «Ci sono disposizioni, non si può fare come si vuole». Critica la Cgil di Roma che ha denunciato «un uso improprio del protocollo sui cortei, nato per regolamentarli e non per impedirli ». Gli studenti volevano disubbidire alle nuove disposizioni appena varate dal prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro, col consenso di un ampio arco di partiti e sindacati, per regolamentare le manifestazioni in città. Tra i sei luoghi permessi per i cortei non figura però la Sapienza. «L'Onda manifesta come vuole», così era stata convocata sul piazzale della Minerva alle 9.30 la manifestazione per raggiungere il ministero dell'Economia in via XX Settembre. Un modo con cui gli studenti dell'Onda pensavano di partecipare alla giornata di sciopero indetta dalla Cgil sulla scuola.
«Siamo usciti sul piazzale Aldo Moro alzando le mani di fronte a polizia e carabinieri racconta un manifestante -. Senza preavviso ci hanno caricato ». Emanuele, uno dei contusi, aggiunge: «Mi sono ritrovato per terra e mi hanno menato in quattro, col manganello girato dalla parte rigida...». Poi la stessa scena si è ripetuta anche ai varchi di via de Lollis e di viale Regina Elena. Più tardi è stata la vecchia Aula Uno di Lettere a registrare in un paio di assemblee la requisitoria contro le nuove disposizioni e a lanciare un nuovo appuntamento.
«Ci rivediamo il 28 marzo...». Ammaccati, ma decisi a manifestare. Ieri non ci sono riusciti, ci riproveranno a fine mese per la manifestazione sul G14 indetta da Cobas, Rdb e Sdl su lavoro e welfare.
«La Questura ci vorrebbe fare cambiare percorso - ha rivelato Piero Bernocchi dei Cobas -. Ma la nostra manifestazione resta da piazza della Repubblica a piazza Navona». Molte le critiche alla Cgil che come hanno ricordato polemicamente i Cobas ha controfirmato le misure: «La Cgil è il principale sponsor dell'accordo, il suo comunicato di solidarietà con gli studenti è una presa in giro».
«Pacta sunt servanda, ho firmato il protocollo - ha ricordato Gianni Sammarco, commissario di Forza Italia a Roma -. Se dopo solo otto giorni fosse stato consentito a qualche centinaio di persone di violare le regole sarebbe già carta straccia ». Il sindaco Gianni Alemanno ha rivolto un invito alla calma e «a disarmare qualsiasi tendenza alla violenza politica ». Aggiungendo poi: «Non possiamo ricominciare con cortei di due o trecento persone che si muovono per la città». Seccato il rettore Frati: «È stato comunque antipatico per chi voleva uscire a piedi o in auto dall'ateneo. Per un po' di tempo non si poteva transitare».

Repubblica 19.3.09
Allarme degli psicoanalisti sul money disorder E in Italia una linea telefonica contro il disagio
Ansia, paura e nevrosi ammalati di recessione
Quando la paura avanza anche chi può permetterselo smette di comprare e consumare
d Elena Polidori


Neurocrisi. Uomini e donne sull´orlo di una crisi di nervi, vittime della paura da recessione che non solo paralizza i consumi, frena gli investimenti ma adesso investe la psiche e influenza i comportamenti. Allarme globale degli psicoanalisti di fronte alle ansie da licenziamenti, sobbalzi di Borsa, crolli del Pil, profezie dei «guru», crac e salvataggi dei governi.
Negli States, epicentro delle turbolenze, si chiama «money disorder» il malessere della crisi, collasso emotivo da denaro che sfugge, si volatilizza, portandosi appresso i sogni dei più deboli. Chi ne è colpito soffre di mal di testa, nausea, insonnia, depressione. Talvolta si tuffa nel cibo. Oppure annega l´ansia nell´alcool. Comunque, si fa del male. L´associazione psicologi americani, in un sondaggio, scopre che il denaro e la salute economica sono al top delle fonti di stress per l´80% dei cittadini Usa. Per difendersi, raccomanda di non rintanarsi in casa, imparare qualcosa di nuovo e non farsi prendere dal panico.
In Italia, l´ordine degli psicologi lombardi, su iniziativa del presidente Enrico Molinari, docente alla Cattolica, ha attivato una linea telefonica speciale per lenire il «disagio da crisi». «E´ rivolto a chi già ne soffre, ma anche a chi ha paura della paura», spiega. «E´ uno studio virtuale». E insieme «un presidio» voluto per curare i contraccolpi interiori della grande tempesta economico-finanziaria che tanto agita gli animi di tutti. E a maggior ragione di chi (per superbia, avidità, furbizia, stoltezza,) si è lanciato sull´arena dei mercati e ora soffre per una débacle azionaria che procede a strattoni, ma dura da mesi. Oppure di chi, un brutto giorno, si scopre in mezzo a una strada o a riposo forzato, senza più riferimenti, dunque «spaesato». «E allora, conviene fermarsi a riflettere», consiglia Enrico Maria Cervellati, professore di finanza comportamentale a Bologna. Senza questa «pausa» salutare, c´è il pericolo di incappare in un «morbo» che spinge chi ne è afflitto a rischiare di più, nell´illusione di recuperare ciò che ha già perso. Un po´ come avviene al Casinò.
Quando questo accade, secondo Matteo Motterlini, professore di economia cognitiva e neuroeconomia all´Università San Raffaele, «si attivano aree del cervello deputate a intercettare emozioni negative». E sono sofferenze, anche fisiche. Ci si difende soltanto «conoscendo noi stessi e le nostre trappole mentali». Spiega: ansia, paura e panico seguono «processi cerebrali precisi che determinano le nostre decisioni». Nei momenti di crisi, «siamo in balia delle nostre emozioni, ci allontaniamo dall´agire razionale».
Paura di perdere e insieme di «mostrarsi benestante», immune dalla crisi. Cervellati è arrivato alla conclusione che questi soggetti, rari per la verità, «si vergognano» del loro stato; non investono e non consumano come chi non può permetterselo. Nella sua analisi, in tempi di vacche magre, s´attivano per ciascuno dei «conti mentali» automatici. «E´ come se mettessimo in tante piccole scatoline cerebrali, tutte ben separate, i soldi che abbiamo: si spendono solo quelli che ci fanno essere in pace con noi stessi, ciascuno secondo le proprie esigenze».
Le neurocrisi aumentano, via via che la recessione si traduce in licenziamenti, cassa integrazione. Scatta allora la paura di non riuscire più a provvedere alla famiglia, con vere e proprie «crisi d´identità». Molinari ha già notato «sfasamenti nel paterno» che «in genere si realizza attraverso la trasmissione di un ruolo, di un modello, come quello lavorativo». Dunque: «Come giustificarsi con i figli che vanno a scuola quando sei costretto a restare a casa? Ti manca il terreno sotto i piedi». Sobbalzi pericolosi anche per il «materno», pur avendo le donne «un´ancora di salvezza nella funzione primaria che consiste nell´accudire i figli». Non solo: possono «scoppiare» le coppie, che la recessione rende più traballanti. Perfino i media finiscono per «amplificare» le paure, con conseguenti «paralisi comportamentali».
La psicologia della crisi, per forza di cose, è fatta anche di numeri: sulle «percezioni» e sulle «aspettative». Per esempio, da un sondaggio Demos-Coop: gli italiani si sentono più poveri e 4 su 10 riducono i consumi. Oppure, sondaggio Censis-Confcommercio: sotto schiaffo, il 52% delle famiglie fissa proprie «soglie di sicurezza» in denaro. «Don´t panic» consiglia il Censis nel suo osservatorio sulla crisi definita per il momento «a mosaico». Sul versante delle «aspettative», s´intravede per la prima volta un «rallentamento nella velocità di peggioramento» della recessione, annunciato dal governatore Mario Draghi al G8. Questa flebile lucetta in fondo al tunnel è in un «indice» sullo stato d´animo dei manager denominato «Pmi», caro alle autorità monetarie Ue: pur restando sotto quota 50, che in gergo significa recessione, migliora ovunque. Nel caso dell´Italia è ora a 41,1, ma a dicembre era a 40,3, a novembre a 39.5. Sarà confermato? Così, mentre perfino sul sito Fmi arrivano lettere sulla «psicosi» da crisi, l´economia diventa emotiva, la recessione sposta il pendolo delle insicurezze. E, in attesa di tempi migliori, a ciascuno resta il proprio intimo «money disorder».

Repubblica 19.3.09
Intervento a sorpresa del presidente del consiglio dei beni culturali
"Mi oppongo al piano-casa, è uno scempio"
L'altolà di Carandini
di Carlo Alberto Bucci


Dal successore di Settis un "no" all´impoverimento del paesaggio
"Un intervento che rischia di far nascere nuove rughe sul volto già usurato dell´Italia"
Contrarietà davanti all´idea di "prestare" i Bronzi di Riace al G8 in Sardegna
Accordo invece per Bertolaso Commissario dell´area romana

«Il piano-casa è un allarme per il Paese». Andrea Carandini veste i panni dell´urbanista e boccia il progetto del governo Berlusconi. Seduto in pizzo alla poltrona alla quale ammette «di non essere affatto legato», tanto da «non vedere l´ora di tornare ai miei studi», il vecchio archeologo, neo presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali, ieri ha fatto un discorso di insediamento che lo mette immediatamente in bilico sullo scranno che Salvatore Settis ha lasciato in polemica con il ministro Sandro Bondi. Il sì convinto dell´allievo di Ranuccio Bianchi Bandinelli alla proposta arrivata con una telefonata di Bondi «mentre ero in ascensore», appare infatti appannato dal "piano-casa". «L´intervento, per quanto si intravede - ha detto Carandini, aspettando di leggere la proposta nella sua forma definitiva ai primi di aprile - allarma, nel suo disordinato pointillisme, che rischia di portare nuove rughe al volto già usurato del nostro paesaggio rurale e urbano».
La "puntiforme" estensione dei condoni «viene ad aggiungersi al grande ciclo espansivo dell´edilizia dell´ultimo decennio che ha interessato soprattutto la "città diffusa"». Un pericolo incombe sull´Italia: «È ragionevole temere che venga ulteriormente impoverita la sostanza paesaggistica che potremo offrire a coloro che verranno a visitare il nostro Paese». Per Carandini «bisogna completare al più presto i piani paesaggistici». E in attesa che questi vengano messi a punto (potrebbero servire anche due o tre anni, ipotizza con una buona dose di ottimismo) «non resta che regolamentare l´attività edilizia, caso per caso attraverso le norme del Codice dei beni culturali, ricordando però che la potestà del ministero sull´autorizzazione paesaggistica, secondo la norma transitoria, ben presto si esaurisce: passati i sessanta giorni dal ricevimento del progetto, e il personale tecnico disponibile è scarso».
Davanti al ministro dei Beni culturali (dicastero «con problemi di sopravvivenza», sottolineata la penuria di fondi e personale) e ai consiglieri vecchi e nuovi (i professori Elena Francesca Ghedini, Emanuele Angelo Greco e Marco Romano, nominati al posto dei cattedratici dimissionari Andrea Emiliani, Andreina Ricci e Cesare De Seta), l´archeologo dell´Università la Sapienza ha anche, innanzitutto, sottoscritto le novità portate al Collegio romano dal ministro che starebbe pensando di tornare a occuparsi del suo partito (Forza Italia): ossia nomina di un commissario speciale, il capo della protezione civile Guido Bertolaso, per l´area archeologica di Roma, e quella di un super manager, l´ex leader di MacDonald, Italia Mario Resca, per la valorizzazione dei musei italiani. Ma, in conclusione del suo intervento, Carandini ha posto l´accento sull´ultima parola che dà corpo al Consiglio superiore dei beni culturali e paesaggistici. Il paesaggio, appunto. Per l´autore di Archeologia classica (Einaudi), dal "piano-casa" vanno esclusi: «Le aree ad alto grado di tutela o a tutela integrale previste nei pochi piani paesaggistici già adottati o approvati, i beni immobili di interesse culturale sottoposti a disposizioni di tutela del codice e le zone perimetrate come "centro storico" e "città storica" dagli strumenti urbanistici vigenti».
Il ministro Bondi ha approvato la relazione definendola «un perfetto affresco sul patrimonio culturale italiano» e ha ringraziato Carandini «per lo stimolante discorso e le utili indicazioni di lavoro». Molto apprezzata soprattutto l´analisi «sul rapporto Beni Culturali-Stato-Regioni». E già, perché Carandini ha brindato all´accordo di programma tra Bondi e Bassolino in tema di gestione delle bellezze della Campania. E ha detto che «il modello, completato per l´aspetto universitario potrebbe essere esteso, gradualmente, anche alle altre Regioni, nel quadro di una prospettiva nazionale».
Anche uno stop alle mire espositive del governo c´è nella relazione del vecchio archeologo. Che prima s´è trincerato dietro un «non è di nostra competenza» alla domanda se sarebbe d´accordo a prestare i Bronzi di Riace per il G8 in Sardegna. Ma poi, ribadendo che i prestiti si possono concedere solo per rassegne di alto contenuto culturale e scientifico, ha ammesso: «Sono contrario all´esposizione dei feticci, dirò sempre no alle mostre delle belle statuine».

Repubblica 19.3.09
L'urbanista Cervellati
L'obbrobrio chiamato "villettopoli"
di Leopoldo Fabiani


«Ha fatto benissimo Andrea Carandini a condannare il progetto del governo. Tutte le persone di cultura dovrebbero mobilitarsi contro una legge che si risolverà in un´ulteriore devastazione del nostro territorio». Pierluigi Cervellati, urbanista, docente a Venezia, autore di diversi piani regolatori, si oppone ferocemente al "piano casa" del governo Berlusconi.
Professore, non ci vede almeno un tentativo di rivitalizzare l´economia?
«Nemmeno un po´. È un condono edilizio "preventivo e gratuito". Almeno quelli degli anni ´90, comunque micidiali nei loro effetti, prevedevano una sanzione economica. Tra i costi di un´operazione del genere non si può ignorare l´impoverimento del territorio e del paesaggio, bene primario per il nostro paese».
Qual è l´aspetto più criticabile?
«L´assenza totale di qualsiasi programmazione pubblica, la privatizzazione del bene comune, la crescita senza limiti di quell´obbrobrio che chiamo "villettopoli"».
Non le piacciono le villette?
«Andrebbero proibite per legge, anzi dovrebbero essere demolite. Sono uno degli elementi che più contribuiscono al degrado edilizio del nostro paese».
Ma non esiste un problema abitativo in Italia?
«Abbiamo un numero di case esagerato, e allo stesso tempo troppe persone (specie i giovani) che non dispongono di un´abitazione. Perché abbiamo il mito della casa di proprietà, e mancano gli alloggi pubblici da dare in affitto a chi non si può permettere di pagare un mutuo. La cosa che più mi indigna è che tutti saranno favorevoli a questi ampliamenti del 20% previsti dalla legge, perché le loro proprietà aumenteranno di valore. Alla fine il risultato è che in Italia abbiamo case sempre più belle, ma delle città e un territorio che fanno schifo».

i deputati "ribelli" della Mussolini
Corriere della Sera 19.3.09
Un gesto di ostilità contro l'ipoteca della cultura leghista
di Massimo Franco


Può esserci l'intento strumentale. E di certo, una dissidenza di cento parlamentari del Pdl a pochi giorni dalla nascita del partito unico è un elemento di oggettivo imbarazzo. Ma forse bisognerebbe chiedersi perché ha successo la lettera che contesta la legge sulla sicurezza, con l'obbligo per medici ed insegnanti di denunciare gli immigrati clandestini. Il vertice considera l'iniziativa un tentativo di complicare l'unificazione FI-An, che verrà perfezionata fra il 27 ed il 29 marzo. E insinua che possa essere ispirato da un Gianfranco Fini scontento. Comunque sia, la protesta appare un gesto esplicito di ostilità culturale contro la Lega. È come se alcuni settori si ribellassero a provvedimenti che considerano il sigillo del primato lumbard
sulla maggioranza. E chiedessero a Silvio Berlusconi di non accettare leggi ingombranti per un Pdl in procinto di entrare nel Ppe. La Lega ed alcuni berlusconiani parlano di «manovre interne» per complicare i rapporti fra alleati di governo. E notano maliziosamente che le firme sono per due terzi di An, e solo per un terzo di FI.
Al punto che Fini è costretto a precisare di essersi dichiarato contrario solo alla denuncia alla quale sarebbero tenuti i medici che curano i clandestini: un modo per smentire la regìa di un documento che legittima le critiche del Pd. Ma è evidente che l'obiettivo principale è di dissociarsi da una legislazione di marca leghista; di abbozzare un profilo più garantista sull' immigrazione. Il malumore è alimentato dalla competizione con la Lega in molte regioni del Nord; e dalla sensazione che Umberto Bossi riesca ad ottenere quasi tutto da palazzo Chigi.
Non solo. L'attacco dei cento parlamentari appare anche come un segnale di scontento per il dialogo fra Lega ed opposizione sul federalismo fiscale: il cuore della strategia di Bossi. Palazzo Chigi tende a ridimensionare il caso. La tesi è che alcuni firmatari non conoscessero il contenuto della lettera. Il leader del Carroccio è certo che «il provvedimento sulla sicurezza resterà uguale a come è stato approvato al Senato». A sentir lui, si sta dando troppa importanza ad una contestazione ingigantita in modo strumentale.
Nella sua analisi pesa probabilmente la certezza che Berlusconi non possa né voglia tornare indietro. Significherebbe litigare con la Lega; e rimettere sotto osservazione quel «rapporto splendido » che giura di avere con Fini. E poi, la campagna per le europee è cominciata. Berlusconi parla di un Pdl al 42,2 per cento. Ed annuncia una procedura-lampo per entrare dentro un Ppe che conta molto sugli italiani per dominare nel Parlamento di Strasburgo. Una fronda anti-Lega in questa fase sarebbe un inciampo indesiderato.

Corriere della Sera 19.3.09
Testamento biologico
La libertà del paziente
di Luigi Manconi e Marco Cappato


Caro direttore, tutti i sondaggi finora realizzati dicono che la maggioranza degli italiani è favorevole all'istituzione del Testamento biologico, che renda effettivo il consenso informato e tuteli il fondamentale diritto all'autodeterminazione del paziente. Da qui l'esigenza di una legge sulle dichiarazioni anticipate di volontà con le quali il cittadino, fino a quando è capace di intendere e di volere, possa comunicare le proprie decisioni in merito ai futuri trattamenti sanitari.
Come si sa, la questione è oggetto di una intensa controversia di natura culturale e morale, giuridica e politica: e gli attuali rapporti di forza parlamentari fanno temere una normativa, quale quella voluta dalla maggioranza di governo, modellata su una concezione illiberale e autoritaria.
Da qui la decisione delle associazioni Luca Coscioni e A Buon Diritto di promuovere una iniziativa che consenta, a quanti lo vogliano, di far conoscere la propria opinione, oltre i vincoli restrittivi e coercitivi che la legge del centrodestra prevede (per esempio, negando la possibilità di decidere su nutrizione e idratazione forzate). Abbiamo redatto, così, una Carta di vita, un Testamento biologico nel significato proprio della parola, un documento ispirato ad analoghe proposte elaborate in questi anni e, in altri paesi, già trascritte in legge. La nostra Carta di vita si presenta come un modulo diviso in sezioni, che prevede in primo luogo l'indicazione di un fiduciario, chiamato a vigilare affinché le nostre volontà siano rispettate e in grado di integrarle e aggiornarle, quando lo richiedano i progressi delle scienze biomediche. Quella Carta prevede un percorso flessibile, tale da consentire o indicazioni molto dettagliate o più semplicemente un orientamento generale, affidato alla persona di fiducia nel suo rapporto con il medico curante e con i familiari del paziente. La Carta di vita è stata pubblicata integralmente da due giornali di media tiratura. Altri quotidiani (tra i quali, il Corriere)
hanno parlato dell'iniziativa. Con questa limitata pubblicizzazione, in pochi giorni, oltre duemilacinquecento persone hanno risposto positivamente.
Ovvero hanno ritagliato il modulo o lo hanno scaricato dai nostri siti Internet (lucacoscioni.it e abuondiritto.it), lo hanno compilato, lo hanno sottoscritto, lo hanno infilato in una busta e inviato ai nostri recapiti. Si tratta, crediamo, di un segnale estremamente indicativo. Si dirà: ma cosa sono alcune migliaia di persone in rapporto alla popolazione nazionale? La questione è mal posta.
Provate a lanciare un'altra iniziativa, anche sul più popolare dei temi (ad esempio, la corruzione dei politici) e vi accorgerete che la reattività è assai minore, tanto più se implica un'azione diretta, anche elementare come inviare una lettera. Dunque, il successo della nostra proposta è un ulteriore segnale di quanto il tema sia sentito: e proprio perché esso rimanda alla questione cruciale della tutela dell'autodeterminazione del paziente.
Questione che il disegno di legge della maggioranza di governo non sembra tenere in alcun conto: non solo a proposito di nutrizione e idratazione artificiali, ma per quanto riguarda il carattere vincolante per il personale medico delle decisioni assunte dal paziente. Ora si tratta di far «pesare» la volontà espressa da queste migliaia di persone, e dalle tantissime altre che hanno aderito a iniziative simili, laddove si assumono le decisioni pubbliche. E' quanto faremo nei prossimi giorni. Fino a prevedere azioni in sede giudiziaria, a tutela dei diritti soggettivi della persona.

Corriere della Sera 19.3.09
Raccolte dal giornalista Nino Luca le segnalazioni inviate al Corriere.it sull'università italiana
Parenti in cattedra, atenei da vergogna
Favoritismi, corruzione, concorsi truccati: è l'ultimo scandalo
di Gian Antonio Stella


Se in vita vostra avete solo collaborato a un lavoro «scientifico» di una pagina (una!) scritto con altre cinque persone e presentato a un convegno ma mai pubblicato su una rivista internazionale, non disperate: potete sempre vincere un concorso universitario. Basta esser nati sotto la giusta congiunzione astrale. Come successe al «professor » Giovanni Lanteri. Che vinse appunto un posto da «associato» all'Università di Messina presentando 2 pubblicazioni. La prima («Studio preliminare sull'espressione immunoistochimica dell'Eritropoietina... ») fu subito scartata dagli stessi commissari: «Non venga presa in considerazione ai fini della presente valutazione ». La seconda («A new outbreak of photobacteriosis in Sicily») è finita nel fascicolo dell'inchiesta giudiziaria col giudizio del Ministero dell'Università consultato dai magi-strati: «Priva di rigore metodologico. Non è possibile individuare il singolo apporto di ciascuno dei sei autori».
L'episodio, sconcertante, è uno dei tantissimi raccolti da Nino Luca, un collega del «Corriere.it», in un libro appena uscito da Marsilio: Parentopoli. Quando l'università è affare di famiglia. Un reportage durissimo e spassoso su uno degli aspetti più controversi dell'università, quello dei concorsi sospetti. Che troppo spesso finiscono col consegnare la cattedra a mogli, figli, cognati, amici e amici degli amici.
Immaginiamo già l'obiezione: non ci son solo i baroni e le clientele e le apocalittiche classifiche internazionali! Giusto. È vero che la situazione «cambia drasticamente se si concentra l'analisi sulle singole aree disciplinari» (come ricorda Domenico Marinucci, direttore del Dipartimento diMatematica di Tor Vergata, 19˚ in Europa tra le eccellenze del settore e meno afflitto dalla cronica povertà di docenti stranieri), vero che nelle «hit parade» avulse la «Normale » è stabilmente nelle prime venti al mondo, vero che tanti ragazzi usciti dai nostri atenei vanno alla conquista del mondo.
Il reportage di Nino Luca, però, proprio per l'abbondanza di episodi così incredibili da risultare irresistibilmente comici, mette spavento.
A partire dalla disinvolta e allegra spudoratezza con cui tanti rettori irridono alle perplessità di chi non riesce a capacitarsi di come, ad esempio, possano essere circondati da tanti parenti.
Come Gennaro Ferrara, da 22 anni alla guida della Parthenope di Napoli: «Ma lei vuole fare un articolo serio o un articolo scherzoso? No, perché se lei vuole fare un articolo scherzoso, io ci sto». Come mai ha portato con sé all'università la seconda moglie, il di lei fratello, la figlia e i mariti delle due figlie? La risposta: «Se trattiamo “parentopoli” in termini scandalistici non va bene». Poveri figli, poi...«Devono dimostrare ogni giorno di valere...». Alcuni casi raccontati sono noti, come quello d'una torinese bocciata a un concorso che mesi fa si sfogò con «La Stampa» d'esser stata trombata, scusate il bisticcio, perché non aveva «più voluto compiacere sessualmente» il direttore della scuola di specializzazione. O quello della famiglia Massari che «porta l'Università di Bari nel Guinness dei primati» grazie al piazzamento nei dintorni della facoltà di economia di otto-Massari-otto: Antonella, Fabrizio, Francesco Saverio, Gian Siro, Gilberto, Lanfranco, Manuela e Stefania. O quello del preside di Medicina e rettore della «Sapienza» Luigi Frati («Parentopoli? Voi giornalisti sapete fare solo folclore!», ha urlato a Luca), un uomo tutto casa e ufficio dato che nella sua facoltà lavorano la moglie Luciana Angeletti, il figlio Giacomo e la figlia Paola, che nell'aula magna di Patologia ha fatto la festa di nozze.
Altri casi sono meno conosciuti. Come quello di un recentissimo concorso per due posti alla Facoltà di Medicina e Chirurgia della Bicocca di Milano con cinque soli concorrenti tra i quali tre figli (due vittoriosi, ovvio) di docenti della stessa Facoltà di Medicina e Chirurgia. O quello della condanna a un anno di reclusione per abuso d'ufficio (pena sospesa) e a uno d'interdizione dai pubblici uffici (per aver danneggiato la professoressa Antonina Alberti durante un concorso) di Fernanda Caizzi Decleva, moglie del presidente in carica della Crui, la conferenza dei rettori.
La cosa più interessante del reportage, però, al di là della sottolineatura di certe bizzarrie (come quella che riguarda l'ex rettore di Bologna Fabio Roversi Monaco, che ha incassato 11 lauree honoris causa da vari atenei mondiali distribuendone in parallelo 160 a gente varia, da Madre Teresa di Calcutta a Valentino Rossi), sono le chiacchierate tra l'autore e alcuni dei protagonisti del mondo accademico italiano.
Come quella con Augusto Preti, che diventò rettore a Brescia nel lontanissimo 1983, quando erano ancora vivi Garrincha e David Niven, e scherza: «Io sono il potere assoluto». O Pasquale Mistretta, il rettore di Cagliari, secondo il quale «molti figli illustri, proprio a causa dei complessi d'inferiorità verso i padri, a volte si sono smarriti: alcuni sono finiti anche nel tunnel della droga», quindi forse «quando un padre va in pensione, come un tempo succedeva in banca o all'Enel, è logico che ci sia un occhio di riguardo» per i figli.
Il meglio, però, lo dà il professore Giuseppe Nicotina spiegando come il suo Ludovico avesse vinto in solitaria un concorso per ricercatore: «I figli dei docenti sono più bravi perché hanno tutta una "forma mentis" che si crea nell'ambito familiare tipico di noi professori». Insomma: è una questione quasi genetica. Se poi una spintarella aiuta la forma mentis...

Corriere della Sera 19.1.09
A Roma l'opera di Gluck diretta da Muti
L'«Ifigenia in Aulide» con finale francese
di Paolo Isotta


Il rapporto tra il Teatro dell'Opera di Roma e Riccardo Muti va facendosi intenso: egli si è dichiarato disposto a dirigere alcune Opere ogni stagione, e noi sappiamo sin da ora che le prime saranno il Nabucco e l' Idomeneo. Intanto si appresta a lasciare a capo chino la carica il soprintendente Ernani, che ancora tenta macchine difensive e chiede solidarietà sindacali dopo le efferatezze di che si è reso colpevole. Il nomen juris del rapporto che vincolerà il maestro Muti al Teatro della capitale non è stato ancora trovato: si va da quello di «direttore musicale» a quello di «direttore principale ospite». Il primo è purtroppo difficile da realizzarsi atteso che il Maestro a partire dall'anno prossimo sarà, dopo una scelta effettuata entusiasticamente dai dirigenti e dai professori, il Direttore Musicale dei più importanti orchestra e coro del mondo, la Chicago Symphony. Quale che sia per essere tale nomen juris, per il Teatro della capitale si tratta di un'affermazione prestigiosa nascente dall'interesse profondissimo che il sindaco Alemanno nutre per quest'istituzione, del tutto indifferente ai suoi predecessori. Si deve purtroppo aggiungere che il ministro Bondi non ha esteso lo status particolare destinato alla Scala, al Maggio Fiorentino e all'Accademia di Santa Cecilia anche al San Carlo di Napoli e alla Fenice di Venezia, i quali lo meritano con ogni diritto per la loro importanza storica ed estetica. Il Teatro dell'Opera di Roma non ha bisogno di qualificazioni particolari giacché basta una profonda trasformazione interna a far sì che le potenzialità divengano atto. Per quanto sta facendo e farà, il sindaco Alemanno merita i migliori elogi e ringraziamenti. Non deve tacersi, tuttavia, che elogi e ringraziamenti spettano in egual misura al maestro Gianluigi Gelmetti, che da grande direttore d'orchestra ha retto il Teatro per lunghi anni realizzando spettacoli di un livello difficile a riscontrarsi in Europa.
L'Ifigenia in Aulide di Gluck è stato il secondo contatto di Muti col Teatro dell'Opera dopo l'Otello decembrino. Lo spettacolo, eccezionale sotto ogni profilo, era stato una delle inaugurazioni della Scala al Teatro degli Arcimboldi, mi pare sette anni fa. Ma ogni volta che Riccardo Muti rimette le mani su di un testo, lo fa con diversa prospettiva, approfondendo il ritratto donatoci dell'Opera. Stili diversi convergono verso un'unità soltanto potenziale se il concertatore non eserciti la sua opera unificatrice. Non sembri un paradosso affermare che differenti tipi di suono, dal «vibratissimo» di certe danze lente e piene di canto al «non vibrato» dell'orchestra resa leggerissima quando si modella sui veloci anapesti del coro, concorrono appunto a realizzare tale unità. Quando il Coro, così ben preparato dal maestro Giorgi, deve effondersi in melodia, Muti riesce a farla erompere con i suoi supporti armonici (le «seste aumentate») senza che mai la commozione nostra si ottenga di là da un rigoroso stile neoclassico. Il filo ideale è teso dal concertatore anche nei Balletti, rifiniti come non mai. Il dominio tecnico su tutto è assoluto.
La regia, i bozzetti e i figurini sono opera meravigliosa di Jannis Kokkos ripensata per il nuovo palcoscenico entro i quali si inseriscono perfettamente le coreografie di Marco Berriel. L'immobile mare è sempre in qualche modo sullo sfondo; i cantanti recitano con attitudes classiche: esemplare, sotto tal profilo, il terribile monologo di Agamennone. I rituali movimenti del coro sono ammirevoli. Il palcoscenico è ingombro di colossali e minacciose statue di Diana che fanno pensare ai numina magna deum che nel II dell'Eneide Enea, grazie al «divino collirio» (Ceronetti) concessogli dalla madre-dèa, scorge mentre si accaniscono su Troia in fiamme.
Non sono riuscito a far capire a nessuno la questione del finale dell'Opera. L'originale vede il matrimonio d'Ifigenia ed Achille e poi un lungo balletto finale. Richard Wagner, che per dedicarsi a una propria versione in tedesco dell'Opera interruppe la composizione del
Lohengrin, scrisse un finale nel quale appare Diana discendente dal cielo e ricusante l'immolazione d'Ifigenia; porterà seco la principessa affinché serva il suo culto nella barbara Tauride. Il coro si sente posseduto dal numinoso mentre si alza il vento. Sei trombe danno il segnale della partenza «Nach Troja!». Con atto di microchirurgia, il maestro Muti inserisce al punto debito tale finale ma, il che non ha capito nessuno,
ritraducendolo in francese settecentesco sotto la melodia accentuata di Wagner. Il miglioramento è straordinario.

l'Unità 19.3.09
Trent’anni dopo in un modo diverso, ma c’è stata la riconquista del territorio
Finisce An e gruppi estremisti si appropriano di zone della città. Il diverso è da combattere
A Roma avanza l’«onda nera». Tornano i luoghi off limits
di Jolanda Bufalini


L’attivismo, il ritorno di simboli un tempio considerati eversivi. E poi i successi alle elezioni studentesche. I neri nella capitale sono tornati. Sotto altre sigle, lontani da An. Giovani e non solo.

Attenti alle scritte, ai caratteri runici e agli acronimi, come acab, che non è il capitano della baleniera di Melville ma sta per «All cops are bastard» oppure - a piacimento - «all communists are bastard». Sono un indizio. Il segno che nel quartiere si «alza il livello dello scontro». Come a Portuense Arvalia, dove ha aperto a Casetta Mattei una sede di Forza Nuova. La comparsa delle scritte «Nucleo Arvales» indicano il radicamento territoriale, le aggressioni xenofobe al Trullo segnalano la costruzione identitaria di estrema destra che indica negli immigrati il nemico. A Vigne Nuove, a Borgata Fidene, dove è insediata Fiamma Tricolore, c’è la stessa difesa proprietaria del luogo: ronde e fiaccolate.
La presenza dei neri, l’intento di controllare il territorio si vede dall’intensità dell’attacchinaggio, dai manifesti sempre freschi. A piazza Giovenale, per esempio, a Balduina, o a piazza dei Giochi Delfici, incroci il gruppazzo inquietante quasi tutte le sere. Le felpe sono quelle alla Diabolik che si comprano a via Sannio, con la lampo che chiude il cappuccio lasciando solo gli occhi scoperti. Ma non siamo negli anni Settanta, la violenza, lo scontro con la sinistra non è automatica. Certo, un ragazzo con i capelli rasta non attraversa tranquillo quelle piazze, così come se entra ai giardini di Colle Oppio sa, per le croci runiche incise sui paracarri, in quale territorio sta entrando. Lo scontro, piuttosto, è programmato, calcolato politicamente. Ci fu un intensificarsi di episodi di violenza subito dopo l’elezione di Alemanno. Nell’estate del 2007 la guerra per il controllo del territorio vide l’aggressione a Villa Ada, dopo il concerto della banda Bassotti e, poi, lo scontro fra i militanti del circolo futurista di Casal Bertone e gli occupanti di sinistra di un edificio poco lontano.
Luoghi simbolo
Resistono alcune sedi storiche, come la sezione dell’Msi Fiamma Tricolore di via Acca Larentia, dove il 7 gennaio il sindaco Alemanno si è recato alle nove di mattina, per evitare la fotografia sullo sfondo dei saluti romani che concludono la fiaccolata notturna in memoria dei camerati uccisi nel 1978. Ma la ragnatela contemporanea si tesse in un altro modo. Mutuato in parte dai centri sociali di sinistra: occupazione, attività sociali, culturali, sportive. Trattativa con il Campidoglio amico. A Portuense, per esempio, Casa Pound ha occupato a gennaio il complesso destinato a una bocciofila. Poi la trattativa con il sindaco di cui Gianluca Iannone si è dichiarato soddisfatto: la bocciofila è stata liberata in cambio di una sede per la «Nuova accademia pugilistica Trastevere» e per l’associazione dei genitori della ex Anni Verdi.
I pub
Oppure con la rete dei pub. Il più famoso è il Cutty sark (nel 2003 nel locale chiuso scoppiò una bomba carta). Ma c’è anche Shamrock, vicino al Colosseo o il Maltese di piazza Epiro, vicino alla sezione di An.
Casa Pound a Esquilino, Casa Italia a via Valadier, Foro 753 a Portonaccio, le strutture madre a cui fanno riferimento anche gli studenti medi e gli universitari. Secondo la denuncia dei collettivi di Scienze Politiche a Roma Tre, nell’armadio degli studenti di destra, in facoltà, dopo l’aggressione di lunedì scorso, sono state trovate spranghe insieme agli adesivi del Foro 753 e alle scritte che inneggiano a Hitler.

l'Unità 19.3.09
Privati di ogni diritto. Arruolati con la forza, utilizzati come strumenti di morte. Bambini doppiamente traumatizzati: nelle guerre sporche e in un tormentato dopoguerra
Oltre 40 milioni ai quali è negata l’istruzione. Ieri ne hanno discusso all’Assemblea Onu Infanzia in guerra
di Umberto De Giovannangeli


Ogni bambino che «si è trovato in una situazione di conflitto, che è stato testimone, o anche peggio, ha partecipato ad azioni violente, viene disumanizzato. Quei bambini sanno che c’è qualcosa di sbagliato ma non sanno dire cosa. Si tratta di una situazione che li rende insensibili e impedisce una loro crescita normale...». È il grido d’allarme lanciato da Ted Chaiban, rappresentante in Sudan del fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef). Il Darfur e non solo. Bambini doppiamente violati: in guerra e un tormentato dopoguerra. Storie di indicibili sofferenze. In tutto il Sudan i bambini soldato sono più di 8mila, di cui 6mila solo in Darfur. E nell’inferno del Darfur due milioni di bambini sono stati colpiti dal conflitto. Un doppio trauma che non riguarda solo il Darfur. Oggi - rileva il Global Report 2008 sui «Child soldiers» - sono 9 gli eserciti che utilizzano i piccoli in guerra, per un totale di almeno 250mila minori, di cui il 40% sono bambine. Bambini combattono nell’esercito regolare in Birmania, nella lotta armata contro le minoranze etniche, ma anche in Ciad, Repubblica democratica del Congo, Somalia, Sudan, Uganda e Yemen. I guerriglieri stessi utilizzano bambini soldato: in Afghanistan, Iraq e Pakistan sono stati impiegati come attentatori suicidi. In Africa le guerriglie hanno utilizzato recentemente i minori in guerra in Burundi, Ciad, Costa d’Avorio, Liberia, Nigeria, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Somalia, Sudan e Uganda. Storie di bambini violati, ai quali sono stati sottratti gli anni dell’infanzia. Bambini ai quali si vorrebbe rubare il futuro. Le loro storie sono state al centro dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che, ieri si è riunita al Palazzo di Vetro di New York per discutere il tema dell’istruzione e delle emergenze. «Il numero delle emergenze in tutto il mondo aumenta di giorno in giorno, dai conflitti in corso in Sri Lanka e a Gaza alle recenti calamità che hanno colpito il Bangladesh e la Birmania, e con esse aumenta il numero dei bambini che non frequenta la scuola. Ogni anno una media di circa 750.000 bambini è costretto ad interrompere o a rinunciare agli studi a causa di emergenze umanitarie e di 75 milioni di bambini al mondo che non vanno a scuola, 40 milioni di essi vivono in paesi in guerra», rileva Fosca Nomis, Responsabile Advocacy e Campagne di Save the Children Italia.
Leslie Wilson, direttore di Save the Children in Afghanistan, è intervenuto in seno all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per sottolineare come negli ultimi anni il tasso d’iscrizione scolastica sia cresciuto nel Paese più velocemente che in qualsiasi altro luogo al mondo: il numero dei bambini iscritti è infatti passato da meno di un milione nel 2002 a più di sei milioni nel 2006. Il lavoro compiuto da Save the Children, pertanto, dimostra come consentire l’accesso all’educazione sia possibile anche nelle situazioni più difficili. In Afghanistan, ad esempio, nonostante il perdurare di violenza e instabilità, negli ultimi quattro anni quasi 3 milioni di bambini hanno beneficiato di un’istruzione di qualità grazie alla partnership sviluppata dall’Organizzazione con il Ministero dell’Istruzione, volta a pianificare la formazione di insegnanti e dirigenti scolastici. Nello Sri Lanka, nonostante l’intensificarsi dei combattimenti nel nord del Paese e imponenti migrazioni interne, più di 900.000 bambini hanno beneficiato di un’istruzione di qualità grazie alla partnership tra Save the Children e Unicef, che si è sostanziata in nuove modalità per assicurare l’educazione durante le emergenze, attraverso ad esempio la possibilità di svolgere le attività scolastiche a casa per i bambini che non possono frequentare la scuola a causa delle condizioni di sicurezza. Se non ci si concentrerà sui 40 milioni di bambini che non vanno a scuola perché vivono in Paesi in conflitto, avverte Save the Children, l’obiettivo del millennio relativo all’educazione non sarà raggiunto.

l'Unità 19.3.09
La testimonianza
Quando Kon e Ishmael deposero il mitra
Zlata era una ragazzina durante la guerra in Bosnia. Ora insieme
a Save The Children dà voce a tutti quei bambini strappati dalle
scuole e arruolati alla guerra. «Aiutiamoli a riscrivere il futuro»
di Zlata Filipovic


Ricordo che stavo tentando di scrivere una relazione su un libro quando udii i primi spari della mia vita; rumori che nessun bambino, in nessuna parte del mondo, dovrebbe mai sentire. Cercai di concentrarmi sui compiti preoccupata di quello che avrebbe potuto dirmi l’insegnante il giorno seguente. Nei due anni successivi funestati dal conflitto in Bosnia non avrei mai più scritto una relazione su un libro. La mia scuola di Sarajevo fu bombardata e chiusa e un enorme foro prodotto da un razzo faceva mostra di sé sulla parete della classe di letteratura. Lasciai alcuni bei temi da me scritti nell’armadietto che una granata fece saltare in aria. Non ho mai saputo cosa ne è stato della mia insegnante. Non la rividi mai più.
Sappiamo cosa sono le emergenze – le abbiamo sentite sulla nostra pelle, sono diventate parte della nostra vita, l’hanno distrutta, fatta a pezzi e ridotta ad uno specchio rotto. Le emergenze ci hanno rubato l’innocenza, l’umanità, la fanciullezza, la famiglia. In tutti i nostri casi i conflitti ci hanno portato via uno dei nostri diritti fondamentali di bambini e di ragazzi: l’istruzione. È la prima cosa che ci è stata sottratta quando gli orrori della guerra hanno avuto inizio. La chiusura della scuola era il segno che stava avvenendo qualcosa di tremendamente sbagliato. Un giorno lasciammo cadere la penna, abbandonammo i quaderni, disertammo i banchi di scuola. Le aule abbellite dai nostri disegni dove risuonavano le nostre risatine e dove ci passavamo dei bigliettini tra compagni di classe, si svuotarono. La paura di essere chiamati alla lavagna per risolvere un problema di matematica e la magia di scoprire la scrittura svanirono. Le scuole diventarono rifugi, luoghi dove venivano distribuiti gli aiuti umanitari, edifici spettrali bombardati, spazi vandalizzati, magazzini di armi, demarcazioni delle zone nemiche e del fronte di guerra. Chiusa in casa, terrorizzata dal mondo esterno dove la morte poteva sorprenderti in qualunque momento, non feci che leggere cercando di continuare a crescere. Poi un giorno, alcune giovani donne del mio quartiere aprirono una «scuola di guerra». Non c’erano delle vere aule, ma ci incontravamo di tanto in tanto nelle giornate relativamente tranquille e per un momento potevamo essere nuovamente bambini. Queste giovani donne non potevano assistere passivamente allo spettacolo di bambini abbandonati a sé stessi e così ci dedicarono il loro tempo e condivisero con noi generosamente la loro immaginazione, la loro creatività e il loro sapere. Non dimenticherò mai né loro né quanto fecero per noi – posso solo sperare che in circostanze analoghe saprei essere altrettanto generosa e troverei la forza di svolgere il nobile compito dell’insegnante.
Ogni giorno in tutto il mondo bambini come me, come noi, finiscono nelle celle, nei nascondigli, nei campi profughi o nell’esercito. Con loro scompare il futuro del loro Paese e del mondo intero. Muoiono, vengono mutilati, traumatizzati, piegati – e questa è la fine di futuri leader, servitori dello Stato, padri, madri e insegnanti.
I conflitti terminano e i bambini sono fortunati se sopravvivono o riescono a fuggire. Come per qualsiasi trauma il recupero è lento. Il processo di recupero poggia su molti elementi, ma è l’istruzione che garantisce un futuro alle vite e ai Paesi devastati, ai giovani piegati e alle coesistenze distrutte.
Kon ricorda il suo primo anno di scuola dopo essere fuggito dall’Esercito di liberazione del Sudan. Non era aggressivo con gli insegnanti e i compagni di classe, ma non si fidava di nessuno. Al pari di moltissimi soldati-bambini sapeva che il solo modo per risolvere i problemi era combattere. Imparare a fidarsi degli insegnanti e dei compagni di classe fu la sua salvezza – e l’inizio di una nuova vita. L’istruzione gli ha consentito di recuperare – dopo essere stato un bambino di guerra – il suo senso dell’umanità. Senza questo – dice oggi Kon – gli effetti della guerra te li porti dietro fin quando esplodono e ti inducono a fare del male ad altra gente. Quando Grace riuscì a fuggire dall’Esercito di Resistenza del Signore in Uganda, il mondo aveva già considerato la sua una generazione perduta. A peggiorare le cose il fatto che nella società in cui viveva, essere una donna non era certo un vantaggio. In Uganda le persone più emarginate e invisibili sono le madri-bambine che hanno dovuto subire quella situazione e hanno visto il loro futuro distrutto. Dopo la guerra in Sierra Leone, molte cose hanno aiutato Ishmael a riprendersi, in modo particolare il processo di reinserimento e una famiglia molto solida. Tuttavia la guarigione è stata possibile solo perché ha avuto la possibilità di frequentare la scuola. Grazie alla scuola ha imparato a recuperare il senso della sua umanità e a riaffermare che non è solo capace di violenza, come aveva finito per credere negli anni della sua fanciullezza, ma anche di altre cose.
È nelle scuole che realizziamo le nostre potenzialità, che diventiamo esseri sociali, cresciamo e ci sviluppiamo come persone funzionanti, socievoli e generose delle nostre comunità e del mondo. Dopo un conflitto è a scuola che si viene informati sul pericolo delle mine di terra, sulla prevenzione del virus HIV/AIDS e sul processo di riconciliazione. È a scuola che si scambiano le armi con il sapere e la formazione ed è a scuola che i messaggi portatori di pace si intrecciano con le conoscenze e le capacità professionali. Perché la pace sia sostenibile, siamo fermamente convinti che l’istruzione debba essere parte integrante di qualunque accordo di pace e che sia necessario dedicare la giusta attenzione ai progetti educativi nei Paesi tormentati dai conflitti e nei periodi che seguono la fine della guerra. L’istruzione consente ai bambini colpiti dalla guerra di recuperare la loro fanciullezza, di scoprire la loro umanità e di dare il loro contributo al genere umano. L’istruzione è anche un antidoto alla violenza in qualunque società. L’istruzione offre ai giovani la possibilità di usare la mente in maniera positiva e costruttiva o di ricostruire le basi dei loro sogni e delle loro speranze. Per questa ragione molti bambini colpiti dalla guerra stanno sostenendo iniziative quali “Riscrivere il futuro” di Save the Children che si propone di convincere i leader mondiali e le organizzazioni internazionali a garantire la possibilità di frequentare la scuola a tutti i bambini colpiti dalla guerra in Paesi dalle strutture statali distrutte e non funzionanti. Siamo stati fortunati. Siamo sopravvissuti e abbiamo potuto ricostruire la nostra vita grazie all’istruzione. Oggi possiamo far sentire la nostra voce e voi potete sentirci proprio perché abbiamo avuto la possibilità di tornare sui banchi di scuola.
Ogni anno 750.000 bambini sono costretti ad abbandonare la scuola o sono impediti dal frequentarla a causa di svariati disastri umanitari. Milioni di bambini non vedono un’aula scolastica da anni. Un terzo della popolazione mondiale ha meno di 15 anni. Tutti dovrebbero godere del diritto ad una istruzione obbligatoria e gratuita a dispetto delle guerre, dei disastri naturali, della povertà, delle malattie, delle epidemie e delle difficoltà conseguenti alla ricostruzione nell’immediato dopoguerra. Fidatevi di noi perché sappiamo di cosa stiamo parlando. Ci hanno strappato la penna di mano, ma per nostra fortuna ce la siamo ripresa. E abbiamo di nuovo una voce. Ci auguriamo che possiate sentirci anche a nome di tutti coloro che voce non hanno.

*Zlata Filipovic, nata a Sarajevo, Bosnia, ha scritto «Il diario di Zlata: vita di una bambina a Sarajevo durante la guerra» ed è tra i fondatori del Network of Young People Affected by War (NYPAW) insieme con Ishmael Beah (Sierra Leone), Kon Kelei (Sudan), Grace Akallo (Uganda), Emmanuel Jal (Sudan) e Shena A. Gacu (Uganda), co-autori dell’articolo.

mercoledì 18 marzo 2009

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