domenica 22 marzo 2009

l'Unità 22.3.09
Derive di carta
Quotidiani sull’orlo di una crisi di copie: è il film che si sta girando in tutte le redazioni del mondo da New York a Parigi, da Londra a Berlino, da Milano a Roma. La ricetta è la stessa: tagliare i costi e prepararsi a uscire solo sul web. Ma è questa la vera soluzione?
intervista a Stefano Rodotà di Jolanda Bufalini


«Internet non uccide i giornali»
Viviamo in una democrazia cognitiva e l’accesso alla conoscenza (con quali mezzi, a quali condizioni), la possibilità di avere informazioni diventano problemi capitali».

Un panorama da brividi presentiamo in questo dossier: le verosimili macerie del sistema dell’informazione imperniato sull’acquisto in edicola, così come si presenteranno alla fine del 2009. Abbiamo chiesto a Stefano Rodotà che fine farà, dopo il terremoto, quello che lui chiama, citando Salvemini, «lo spazio pubblico di confronto dove si forma il cittadino democratico». Rodotà, oltre che studioso della democrazia, è, da sempre, interessato alle nuove tecnologie. C’è il rischio di un gap, fra il vecchio che scompare (il giornale) e il nuovo non ancora pronto a raccogliere il testimone? «Il rischio c’è», risponde. «Una volta si diceva l’ho letto sul giornale quindi è vero. Ora, con internet, c’è un enorme problema di fonti che devo imparare a maneggiare». Ma «sarei cauto prima di pronunciare la condanna a morte dei giornali. Le nuove tecnologie producono effetti cumulativi più che sostitutivi, si aggiungono e spesso rilanciano i media tradizionali».
C’è un problema di autorevolezza di internet?
«I sostenitori più convinti dicono che la rete è fortemente critica ed espelle da sé il falso. Io sarei meno ottimista. Avevamo immaginato la presa diretta e invece abbiamo disperatamente bisogno di mediatori sociali: Google è arrivato a tre trilioni di pagine, un materiale inaccessibile se non ci fosse la mediazione».
E viene fuori un problema di democrazia?
«Digito una parola e vengono fuori risultati da uno a dieci su, poniamo, 4 milioni 750mila. Perché qualcuno è ai primi dieci posti e un altro è al quattromilionesimo? I criteri sono tanti: le domande più frequenti, i riferimenti correnti. Un pensiero minoritario è sacrificato al principio del più cliccato. E non è secondario il rapporto con la pubblicità, Chirac si era posto il problema - poi non se ne fece nulla - di finanziare un motore di ricerca europeo. Si chiamava Quero (dal latino cerco).
C’è una nuova generazione di mediatori ma non c’è controllo democratico?
«Google è proprietario di You Tube. Alcuni Stati, la Turchia, la Tailandia hanno chiesto “leva questo film” e il film è stato levato. Una notizia non gradita è arivata dalla Cina agli Usa, il governo cinese ha chiesto di sapere il nome di chi l’aveva diffusa. Yahoo ha dato quel nome e la persona è stata arrestata e condannata a 10 anni. Quei mediatori non danno garanzie. C’è un problema di trasparenza, non di controllo repressivo: al Congresso americano è depositata una proposta bipartisan per la quale Yahoo e Goggle dovrebbero riferire se hanno operato dei filtraggi su richiesta di stati nazionali».
I social network, qualcuno li considera uno strumento formidabile di democrazia. Altri mettono in guardia: sono solo minoranze attive.
«Non voglio sopravvalutare la vicenda di Obama, anche perché nasce in un paese dove l’uso di internet è molto più democratico che nel resto del mondo. Obama ha utilizzato il web come strumento per la raccolta dei fondi: un sistema capillare gli ha permesso di raggiungere un numero sterminato di persone e di sottrarsi al potere assoluto della businness community. Questa prima operazione lo ha messo nelle condizioni di una minore dipendenza dalla forza degli interessi economici. Poi i contattati per il finanziamento sono diventati minoranza attiva che entra direttamente nel processo politico. Barak Obama, attraverso il social networking, è riuscito ad avere una mobilitazione che ha contribuito a creare una sfera pubblica che è stata importante per il suo successo. Ma non è stato il primo a tentare, il primo fu il governatore del Vermont Howard Dean».
Ma la grande maggioranza non è ancora orientata dalla televisione generalista?
«intanto, se non ci fossero le minoranze attive, la cappa della televisione tradizionale sarebbe totale. E poi, nell’ultimo giorno buono per la campagna elettorale Obama ha speso tre milioni di dollari per spot televisivi. Non si era completamente trasferito nella dimensione di internet. È una novità molto diversa da quella che si rappresenta il politico nostrano che ritiene, creando il suo blog, di essere entrato nella modernità. L’operazione di Obama ha creato la saldatura fra le due sfere. Non dico che sia generalizzabile ma, pensiamo ai giornali, capire se con l’on line c’è soltanto conflitto o ci possa essere alleanza è centrale».
Nelle redazioni dei vecchi giornali si taglia il costo del lavoro, ovvero, soprattutto i giornalisti ma così viene meno la qualità e, in un circolo vizioso, il giornale perde ancora più copie e pubblicità.
«È vero, c’è una sorta di outsourcing: ti do un cellulare e tu, quando hai una notizia, la filmi e la mandi. Io non sottovaluto affatto questa informazione in diretta che può arrivare da paesi che sarebbe stato impossibile, in altri tempi, raggiungere. Però andrebbe vista attraverso l’effetto cumulativo e non sostitutivo, anche perché faccio prima a trovare quel tipo di notizia su You Tube che sul giornale di carta».
Quale ruolo vede per il giornale di carta in futuro?
«Si è investito poco, dal punto di vista delle idee, di fronte a questa ricchezza di fonti. Siamo in una civiltà dove l’immagine è tutto, mentre il giornale è scrittura. Il giornale penso debba offrire valutazioni ulteriori, metodo critico praticato quotidianamente per stare meglio nella società della conoscenza e dell’immagine».
Un’enorme metamorfosi?
«C’è una molteplicità di fonti e un allargamento della platea. Il giornale deve trovare, in questo cambiamento di dimensioni gigantesche, il punto in cui si colloca: prima era centrale, ora si deve riorganizzare ponendosi al centro di un sistema per le quali si richiedono anche altre competenze».

l'Unità 22.3.09
Europa, la decimazione è in programma per il 2010
Il Financial Times ha già scritto cupamente il necrologio: nato nel 1764 defunto nel 2009
E se l’ammiraglia taglia è facile immaginare cosa stia accadendo nelle testate minori
Il dramma è che il vecchio sta morendo ma il nuovo non è ancora pronto a prenderne il posto


Uno su dieci dovrà cambiare pelle o chiudere baracca e burattini. Uno su dieci, letteralmente una decimazione: le previsioni, nel buio di un’età di mezzo dove il vecchio è decrepito ma il nuovo non ha ancora gambe robuste, parlano chiaro. «Uno su dieci tra giornali e riviste potrebbe essere costretto il prossimo anno a ridurre della metà le sue pubblicazioni, migrare su internet o chiudere del tutto», sentenzia uno studio della Deloitte, una delle più grandi aziende di consulenza e revisione del mondo. E nel numero non c’è solo l’America della crisi, che chiude testate storiche. Anche l’Europa naviga nelle stesse acque. Il Financial Times, cupamente, ha già scritto il necrologio della carta stampata sotto due date: 1764-2009. 2009: adesso.
Il Financial Times ha le sue buone ragioni per vedere nero. Dopo un taglio di 80 posti di lavoro per far fronte alla riduzione delle entrate, la testata è costretta a tagliare ancora. L’ipotesi allo studio è una settimana lavorativa di tre-quattro giorni, per i prossimi mesi estivi. Obiettivo: stare a galla, per provare a vedere che cosa c’è dall’altra parte. E se un’ammiraglia come il Financial Times tira la cinghia, il resto viene da sé.
Si taglia, un po’ da per tutto in Europa. Dopo aver ridotto all’osso le spese, si è arrivati al dunque di affondare il coltello anche nel corpo redazionale. La Spagna sembra essere il Paese più colpito, o forse solo quello che ha anticipato una tendenza. Dalla scorsa estate hanno perso il lavoro 1600 giornalisti, le stime di qui al 2010 prevedono un’ecatombe: 5000 posti in meno, il 20% dell’intero settore. «Siamo una specie in via d’estinzione», chiosa Magis Iglesias presidente dell’Associazione dei giornalisti spagnoli. Un parere condiviso. Il gruppo del britannico Guardian taglia 150 posti dai suoi giornali regionali, dopo un crollo dei profitti per il biennio 2008-2009 stimato all’85%. «Le peggiori condizioni a memoria umana», così sintetizzano la situazione. Il francese Le Monde aggiorna la grafica e taglia 60 posti, dopo un calo del 5,3% delle vendite nel 2008. Axel Spriger, il gruppo editoriale più grande d’Europa - Bild e Die Welt - per ora cancella premi e appuntamenti mondani. Ma la Suddeutsche Zeitung pensa a tagli per un quinto del suo staff.
La crisi c’entra, ma fino a un certo punto. Agisce come un catalizzatore, accelerando un processo che non è cominciato ora. I giornali su carta vendono meno copie e risentono della concorrenza del web che sottrae pubblicità, già ridimensionata dalla crisi. Ma la virata verso il solo on line non è ancora matura. Senza il supporto dei giornali di carta, i siti non sono in grado di stare in piedi da sé. «Neppure il sito on line più di successo può compensare le perdite del suo corrispettivo cartaceo», dece Howard Davies co-autore del rapporto Deloitte.
Internet trabocca di pubblicità, ma non necessariamente sui siti dei giornali. La scelta di Google di aprire le sue news alla pubblicità ha gettato nello sconforto l’informazione on-line: la tendenza già era alla concentrazione sui grandi motori di ricerca e network sociali. Per gli altri restano briciole. E gli annunci come unica fonte di entrata sono comunque un boomerang: in Spagna ha chiuso i battenti il free-press Metro, che distribuiva 1,8 milioni di copie, penalizzato da una contrazione della pubblicità che per il 2009 in Europa è stimata tra il 30 e il 35%. La ricetta per venirne fuori ancora non c’è. Deloitte suggerisce l’on line più uscite ridotte, magari al fine settimana, e risparmi sui fornitori. Ma non sul personale. Perché la qualità è la sola carta che resta in mano agli editori.

l'Unità 22.3.09
«L’ultima copia? Arriverà presto se non facciamo pagare le notizie su Internet»
Intervista a Vittorio Sabadin


L'ultima copia del New York Times? Potrebbe andare in stampa da un giorno all'altro, non siamo mai stati così vicini», riflette Vittorio Sabadin, giornalista de la Stampa e autore tre anni fa di un libro che si intitolava proprio così: “L' ultima copia del «New York Times». Il futuro dei giornali di carta”.
Che sta succedendo al mondo dell'editoria?
«La crisi sta accelerando un processo che era già in atto. Quando sarà passata, niente sarà più come prima. Il New York Times ha 400 milioni di debiti e pochi milioni in cassa. In gravissime condizioni è anche El País».
In Italia com'è la situazione?
«Da noi editori e giornalisti si sono mossi con un ritardo ancora più grave rispetto agli altri paesi perché la crisi è stata nascosta dal successo economico dei gadget venduti insieme ai giornali».
Qual è stato il ruolo di Internet in tutto questo?
«Mettere on line le notizie gratis è stata l'altra grande sciagura di cui ci pentiremo per generazioni».
Non è una posizione di arroccamento in una fase in cui sta incominciando a correre la pubblicità su Internet?
«L'informazione prodotta dai giornalisti fa prosperare decine di altri siti come Dagospia o altri “aggregatori” di notizie. Ma il materiale che loro usano viene realizzato da agenzie o da giornali e non è gratis. È il frutto di professionalità retribuite».
Quindi, 5 centesimi a notizia per salvare giornali e giornalisti?
«È l'unica possibilità. Non vedo perché un ragazzo non debba farsi nessun problema a spendere 15 centesimi per un sms e non debba spendere niente per leggere una notizia».
E le copie cartacee? Hanno il destino già segnato?
«Ora una copia costa 1,40 euro e viene venduta a 1,00 euro. Con il crollo dei rendimenti pubblicitari non c'è molto margine di sopravvivenza».
Idee a cui aggrapparsi?
«Poche pagine, grande qualità. Smettere di inseguire le notizie e dedicarsi agli approfondimenti. Settorializzarsi e inventarsi formule che non sono mai state sperimentate prima. D'altronde, i giornali generalisti con decine di pagine sono un'invenzione degli anni '90. Ma, soprattutto, gli editori devono capire che non sopravvivono solo tagliando i costi e riducendo il personale».

l'Unità 22.3.09
A proposito di Dio... «Non mi interessa sapere se esiste o no - scrive Fernando Savater - ma vorrei sapere se l’eutanasia o l’aborto in Spagna dipendano da patti con la Santa Sede»
Laici, come Democrazia comanda
di Fernando Savater


L’abc del cittadino
L’intervento inedito di Fernando Savater che ospitiamo in questa pagina sarà pubblicato a partire da domani su www.labreccia.it, il blog del Vocabolario laico di Vladimiro Polchi. Il blog ha già pubblicato interventi di Luciano Canfora, Massimo Salvadori e Michele Ainis e riceve il testimone dal libro appena uscito per Laterza «Da Aborto a Zapatero. Un vocabolario laico» di Vladimiro Polchi.
La «Breccia». A metà tra il blog e la rivista on-line, «La breccia» fotografa dall’alto i tanti terreni di scontro tra laici e cattolici. Perché, mai come oggi, il confine tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio si è fatto ambiguo e passa su terre ancora da esplorare.
Un inedito dello scrittore

È da non credersi quanto Dio faccia ancora parlare di sé. Ora che il cardinal Bertone è tornato ai patri lari (a proposito, sembra un po’ il malvagio mago Sokhura, interpretato in modo geniale da Torin Thatcher in Il settimo viaggio di Simbad) e che le nostre pie autorità si sono scosse di dosso l’odore d’incenso, forse potremmo parlare con franchezza dei cosiddetti «autobus atei» (?). Riconosco che mi costa fatica non simpatizzare con qualunque iniziativa che sia motivo di scandalo per il vescovado, ma in questo caso lo slogan («Probabilmente Dio non esiste. Non ci pensare e goditi la vita») mi sembra un’ingenuità tipicamente… anglosassone, un po’ nello stile di Richard Dawkins, ma anche in quello, opposto, del poco compianto George W. Bush.
Si possono muovere due obiezioni a questa professione motorizzata di scetticismo. Tanto per cominciare, i credenti adorano Dio proprio per contenere la loro preoccupazione principale - la morte - e dunque potersi godere la vita più o meno bene, come cerchiamo di fare anche noialtri.
L’ESISTENZA DI DIO
Al giorno d’oggi, coloro ai quali la religione causa più sofferenza che consolazione non ci mettono molto ad abbandonarla. In secondo luogo, dire che Dio «probabilmente non esiste» è dire troppo o troppo poco. Immaginiamo che qualcuno ci domandi se esiste la Banca Nazionale del Lavoro: poiché quest’istituto ha molte sedi, molti dirigenti e molti dipendenti, persone che gli affidano i propri risparmi, è quotato in borsa e si suddivide utili succulenti eccetera... non c’è cosa più logica e sensata che rispondere affermativamente. Ma se il mio interlocutore mi assicura di aver appena incontrato la Banca Nazionale del Lavoro per la strada, la quale gli ha rivelato alcune formule per uscire dalla crisi, mi rifiuterò di credergli... perché la banca in questione non esiste, cioè non esiste nel senso in cui esistono i passanti, Barack Obama, il Monte Bianco o gli invertebrati. Credo che con Dio accada la stessa cosa: in un senso è impossibile negarne l’esistenza, ma in un altro è impossibile affermarla. Ciò che non capisco è che Rouco, arcivescovo di Madrid, consideri una «offesa a Dio» il prudente motto riportato sulla fiancata dell’autobus: avrebbe potuto considerarlo un alibi (Stendhal disse che «l’unica scusa di Dio è che non esiste») o una conferma alla sua fede (il grande teologo Bonhoeffer, assassinato dai nazisti, assicurava che «un Dio che è, non è»).
Non mi piace che qualcuno sia chiamato «ateo», «agnostico» o con altri qualificativi religiosi: è come affibbiare una di quelle patenti per non guidatori che esistono negli Usa, che hanno lo scopo di non privare nessuno di un così indispensabile documento d’identità. Ma se devo rassegnarmi a una definizione, allora dirò che mi pare impossibile rendere l’ateismo compatibile con la smania missionaria: non nego che la cosa eserciti una certa attrazione morbosa, ma è incoerente come una suora che si dedichi allo strip-tease. Ben diverso è che a un ateo piaccia molto discutere con i credenti, come al mio buon amico Paolo Flores d’Arcais (che adesso, stanco dell’impantanamento politico italiano, vuole promuovere un nuovo partito ed è stato rimproverato perché «non ce n’è bisogno» e «ce ne sono fin troppi»: la stessa cosa che è accaduta in Spagna quando abbiamo promosso Unión Progreso y Democracia). La sua specialità sono i cardinali, che in Italia sono come i cuochi nei Paesi Baschi, cioè sono dappertutto e ve ne sono di vari tipi: dal sottile e post-heideggeriano Angelo Scola (vedi Dio? Ateismo della ragione e ragioni della fede, Marsilio) fino allo stesso Ratzinger prima di diventare papa (Dio esiste?, Micromega), più convenzionale. Il meglio di quest’ultimo libretto è l’appendice di Paolo, Ateismo e verità, e la sua ancor più gustosa discussione con due filosofi (Michel Onfray e Gianni Vattimo) in Atei o credenti? (Fazi). Non credo che ci sia qualcuno capace di argomentare con una pazienza e un rispetto maggiori di quelli dimostrati da Flores d’Arcais, sebbene anche lui si permetta di scherzare un po’: «le credenze religiose sono come un dado di senso nel brodo dell’esistenza».
GUSTAVO BUENO
Il contestato discorso di papa Ratzinger a Ratisbona ha meritato un intero libro di difesa, Dio salvi la ragione (Cantagalli). Fra i vari apologeti nazionali e stranieri che vi hanno collaborato, nessuno è più illustre e paradossale di Gustavo Bueno, un pensatore del nostro materialismo autoctono, ovvero quel che gli italiani definiscono un «ateo devoto», vale a dire un sostenitore del papa al di fuori della fede. Secondo Bueno, rispetto alle superstizioni e alle derive dell’infiacchita ragione postmoderna, è l’ortodossia cattolica l’erede della retta tradizione razionalista, malgrado le sue episodiche concessioni al miracoloso. Si scaglia perfino contro «l’estrema benevolenza umanistica» dei governi che nel laicismo trovano il canale per un’educazione razionale la quale, non potendo accettare il materialismo universale, finisce per adattarsi, nel suo relativismo, meglio dell’ortodossia alla dispersione dell’attuale analfabetismo. In altre parole, poiché il pontificato veramente auspicabile, cioè quello di Gustavo Bueno, viene posticipato indefinitamente, ben venga intanto quello di Benedetto XVI. Insomma...
Mi spiace ammetterlo, ma non mi preoccupa granché sapere se Dio esiste, come esiste e per chi esiste. Invece, quel che mi piacerebbe sapere è se in Spagna esiste veramente per tutti uno Stato laico come democrazia comanda, in cui l’educazione civica non sia un attentato totalitario commissionato dai vescovi né questioni come l’aborto, l’eutanasia o l’indottrinamento religioso nella scuola pubblica dipendano da patti con la Santa Sede basati su opportunismi elettorali. Quanto al resto... beh, mi viene in mente un aneddoto sulla festa di san Fermín. La plaza de toros di Pamplona traboccante di gente, baldoria generale, botti di vino a innaffiare le fette di prosciutto col pomodoro: improvvisamente capita un incidente nell’arena e qualcuno sbotta in un sonoro «Porc..!». La folla, sboccata ma devota, rimprovera il blasfemo, che replica a sua difesa: «Non vi preoccupate, non mi riferisco al vostro... ma a quello vero».

l'Unità 22.3.09
L’onda del sapere per tutti
di Beppe Sabaste


Conosco e stimo il ministro per la Pubblica amministrazione e l’Innovazione. Mi disse: «Le rivoluzioni si fanno in tempi brevi, sono delle rotture, è la costruzione di modelli culturali che avviene in tempi lunghi». Ma la sua esternazione sugli studenti (La Stampa di sabato) che dall’ottobre scorso hanno manifestato il loro disagio, mi ha turbato come se parlasse di un altro film. Quegli studenti li avevo osservati da vicino. Nelle università occupate, la didattica non fu bloccata ma resa pubblica, come il sapere che si voleva difendere. Nelle città era come se fosse in corso un grande festival culturale, le piazze teatro di lezioni en plein air, di fisica, filosofia, economia, ecc... L’imponente comunità fu detta «onda anomala», e l’anomalia era nell’essere così pacifica e immune dall’ideologica che gli adulti di oggi trovano impossibile un paragone coi movimenti del passato. Li ho ascoltati, osservati. I loro slogan sono pragmatici, di chi si preoccupa del futuro, del senso della vita, delle scelte di conoscenza. Preoccupazioni che hanno in genere i migliori studenti. Nell’attuale messa al bando di investimenti e strategie a lungo termine, si sentono più che superflui. Gridavano: «Pubblica / Università». Lo slogan più violento fu: «La forza della cultura / contro la nuova dittatura». Potrei giocare col significato antico della parola dittatura (un regime linguistico: i dictatores erano i «padroni» dello stile retorico, dell’ars dictandi). Ma anche di questa «provocazione» sta a chi governa negare i fondamenti: con l’ascolto, il dialogo, entrando nel merito delle proposte e proteste contro il disinvestimento vistoso nella scuola, nell’educazione, nella ricerca, nei «tempi lunghi» di cui mi parlava il Ministro. A meno che «la costruzione di modelli culturali» non miri radicalmente ad altro: come l’Onda irreggimentata e sazia dell’omonimo film.

Repubblica 22.3.09
La nuova destra che forse non nascerà
di Eugenio Scalfari


Oggi Gianfranco Fini darà l´addio al suo partito che si scioglie nel grande mare del Pdl, il Partito del Popolo della Libertà, tre lettere maiuscole sulle quali campeggia il Capo carismatico Silvio Berlusconi, fondatore, presidente e leader intramontabile.
Un addio, quello di Fini, ma anche un arrivederci, almeno nelle sue intenzioni. L´esortazione e anzi il comando alla sua gente è di restare unita, custode di una tradizione, di valori propri e d´una propria identità, d´una propria egemonia che non deve disperdersi - così spera Fini - nel magma indistinto di Forza Italia. Dovrà costituire anzi un punto di riferimento per più ampie aggregazioni dentro il nuovo partito e fuori di esso, per dare vita ad una nuova destra capace di guidare il paese anche quando il Capo carismatico deciderà di ritirarsi per sazietà o per stanchezza, comunque per l´inevitabile trascorrere del tempo che «va dintorno con le force».
Si tratta d´una proposta di larghe vedute, che non è soltanto politica ma anche istituzionale e culturale. Fini dà molta importanza a fondazioni culturali che avranno il compito di piantare nuovi innesti e nuove radici nelle tradizioni della destra. Il presidente della Camera sovrintenderà a questo lavoro ed ha come riferimenti il conservatorismo del XIX secolo, quello che si oppose al trinomio "libertà, eguaglianza, fraternità" in nome dei principi della tradizione e della terra, cioè della nazione, senza tuttavia rinunciare al filone laico di derivazione illuministica. Perciò Burke ma non De Maistre.
E dunque: lo Stato da riscoprire come depositario di un disegno-paese e di un certo grado di eticità; la Costituzione come quadro di rapporti sociali e custodia di pluralismo; il presidenzialismo che garantirà l´unità contro le spinte centrifughe e l´eguaglianza delle prestazioni pubbliche tra le Regioni e i cittadini che vi risiedono; la separazione dei poteri; l´economia mista dove lo Stato non si limita a formulare le regole e a farle rispettare ma, al bisogno, interviene direttamente come operatore di ultima istanza.
Questa è la piattaforma della nuova destra costituzionale che Fini indica al Pdl e in particolare ai militanti di An nell´atto stesso dello scioglimento di quel partito. Lo seguiranno? Riusciranno a realizzare gli obiettivi che il discorso di oggi ha con chiarezza indicato? Saranno in grado di fertilizzare il corpaccione di Forza Italia e di arruolare per quell´impresa che non gli somiglia affatto anche il "boss dei boss", il Capo carismatico che ha ancora dinanzi a sé un altro decennio di potere?
* * *
Per rispondere a queste domande occorre esaminare la natura profonda del berlusconismo, il suo rapporto con la Lega, le tendenze che emergono dalla società italiana, il ruolo di alcuni possibili successori del Capo, l´attrazione del centrismo, le capacità potenziali dell´opposizione riformista. Infine l´esito della crisi che infuria sull´economia mondiale. Nei limiti che lo spazio ci impone cercheremo di analizzare questi vari elementi del problema.
Può essere utile un confronto tra fascismo e berlusconismo. In fondo si tratta di due regimi; il fascismo durò vent´anni, il berlusconismo ne ha già alle spalle quindici e si avvia a raggiungere la durata del precedente e probabilmente a superarla.
Al di là di alcune somiglianze che indubbiamente ci sono e possono riassumersi nel carisma populista del Capo, essi divergono profondamente su un punto di capitale importanza. Mussolini e il fascismo volevano costruire un uomo nuovo, ispirato dai valori della forza, dai doveri verso lo Stato, dalla cultura della guerra e della conquista, dagli ideali dell´imperialismo, dal mito della Roma imperiale. La maggior cura la dedicarono all´educazione della gioventù a questi valori e a questa mitologia. I successi che ottennero si rivelarono effimeri non appena si scontrarono con la durezza della realtà.
Il berlusconismo ha invece avuto come obiettivo la decostruzione del rapporto tra l´individuo e la collettività, la decostruzione delle ideologie, l´esaltazione della felicità immediata nell´immediato presente, l´antipolitica, il pragmatismo come solo fondamento delle decisioni individuali, il trasformismo come pratica quotidiana. La corruttela pubblica come peccato veniale.
Berlusconi è un uomo di gomma laddove Mussolini si atteggiava a uomo di ferro. Berlusconi galleggia e padroneggia la democrazia cercando di renderla invertebrata; Mussolini distrusse la democrazia. Mussolini volle lo Stato etico, Berlusconi appoggia il suo potere sull´incompatibilità degli italiani nei confronti dello Stato, salvo adottare lo statalismo quando una società impaurita lo invoca come il protettore di ultima istanza.
Si tratta, come si vede, di differenze profonde anche se il fine è analogo: un Capo carismatico, plebiscitato da un popolo che ha rinunciato ad esser popolo ed ha trasferito in blocco la sua sovranità al Capo.
Di fronte a queste caratteristiche dell´amico-nemico il disegno di Fini ha scarse possibilità di successo. Del resto i suoi "colonnelli" hanno da tempo introitato questa realtà e vi si sono adeguati. Quando in una recente trasmissione televisiva il ministro Ronchi (che di Fini è il portavoce) parlò di una guida duale del nuovo partito, fu interrotto dal ministro Matteoli (anche lui di An) che rifiutò pubblicamente l´idea stessa di un consolato Berlusconi-Fini affermando che il Capo non poteva che essere uno e c´era già. Resta da vedere fino a che punto la base di An sia rappresentata da Fini o dai suoi ex colonnelli. Ma per aderire al disegno del presidente della Camera ci vorrebbe un ritorno all´Msi, al fascismo puro e duro che esiste ancora ma non certo sulla linea laica e costituzionale di Fini. In una società di gomma il cemento del potere e del sottopotere è un collante formidabile; quel collante è nelle mani di un Capo proprietario del suo partito nel quale Fini entra da ospite dopo esser stato svestito dei suoi paramenti salvo quelli, abbastanza innocui, di natura istituzionale. L´esperienza di Casini da questo punto di vista è eloquente.
* * *
Visto che ho accennato a Casini, aggiungerò che l´attrazione del centro è assai modesta, almeno nello schema originario di ago della bilancia tra due forze contrapposte e di analoga dimensione.
Le analoghe dimensioni sono un´ipotesi del passato destinata a non replicarsi per parecchio tempo, sicché contemporaneamente è scomparsa l´ipotesi stessa del centro come ago della bilancia. La strada di Casini a questo punto è segnata ed è quella dell´irrilevanza, dentro o fuori dal Pdl che sia. I contrasti possono alimentare tutt´al più una fronda, ma non possono aspirare né al potere né all´opposizione.
I successori sono di due tipi: il successore scelto dal proprietario quando il momento sarà deciso dal proprietario medesimo. Una scelta "alta" sarebbe Gianni Letta, una scelta servile sarebbe Alfano o (perché no?) una donna. Tutto può accadere nei regimi basati sulla proprietà e sulla gomma.
Oppure il successore emerge per forza propria. Può essere il caso di Formigoni, ma con molte più probabilità quello di Tremonti. La crisi economica favorisce il secondo ed anche il suo rapporto con la Lega. Piace perfino ad una parte della sinistra per il suo colbertismo statalista, ma non piace la scelta valoriale di Dio, Patria, Famiglia. Tremonti comunque aspetta, non precorrerà mai i tempi. Fini si è già esposto, Tremonti no. Per ora si contenta del fatto che il Capo (che non lo ama) abbia bisogno di lui.
* * *
Resta l´opposizione riformista che ora sta lottando per la sopravvivenza.
Franceschini è una scoperta e qualche risultato l´ha già ottenuto, qualche piccolo passo avanti l´ha fatto, qualche punto di consenso l´ha riguadagnato. L´esame arriverà con le elezioni europee.
Dal punto di vista formale la sopravvivenza consiste nell´asticella da superare. Ragionevolmente sta a metà strada tra il 25 e il 30 per cento. Sotto a quel livello la sopravvivenza oggettivamente non c´è e comincerà l´implosione; ma significherebbe la scomparsa della sinistra riformista e laica dalla scena dopo la scomparsa politica già avvenuta della sinistra radical-massimalista.
Ammettiamo (e speriamolo per la democrazia italiana) che la sopravvivenza sia realizzata con le elezioni europee. Quale può essere il ruolo del Pd, oltre quello di darsi finalmente un´organizzazione ed una struttura? Capace di rieducare una parte consistente della società? Di alfabetizzare politicamente e moralmente quella parte consistente? Di ricostruire il rapporto tra la società e lo Stato, decostruito dal berlusconismo?
Il ruolo della sinistra riformista consiste proprio nelle risposte a queste domande che si riassumono nella riconquista della società alla democrazia partecipata e modernizzata.
Nell´esercizio di questo ruolo il riformismo può incontrare il disegno degli ambientalisti, il disegno dei cattolici cristiani, il disegno dei liberali socialisti, il disegno della sinistra democratica ed anche il disegno di una destra repubblicana e costituzionale.
L´obiettivo comune è quello di ristrutturare una società destrutturata e modernizzare le istituzioni. Si può fare ma ci vorrà tempo. Tempo e veduta lunga. Uscire dal presente puntinista ed entrare coraggiosamente nell´avvenire.

Repubblica 22.3.09
Presidenzialismo all´italiana
di Ilvo Diamanti


Le polemiche sullo stravolgimento della nostra Costituzione trascurano un aspetto importante. Il nostro sistema istituzionale è già cambiato profondamente. Senza bisogno di grandi riforme, approvate in sede parlamentare oppure referendaria.
Ad esempio, siamo da tempo avviati verso il presidenzialismo. Anzitutto, attraverso il rafforzamento dell´esecutivo e, al suo interno, della figura del primo ministro (definito, non a caso, "premier", echeggiando il modello inglese). Poi, attraverso la mutazione dei partiti, che oggi è improprio definire "personali" (secondo la nota formula di Mauro Calise, fra i più attenti a registrare questi cambiamenti). Meglio chiamarli, appunto, "presidenziali". Perché tutti � e non solo l´archetipo Forza Italia � sono organizzati intorno a leader da proporre e imporre come candidati alla guida del governo del paese (ma anche degli enti locali). Al punto che, al momento del voto, sulle schede elettorali partiti e coalizioni accostano al proprio marchio il nome del candidato. Un segno di stravolgimento istituzionale, secondo Giovanni Sartori. Infine, il mutamento � per definizione � più visibile. Causa ed effetto degli altri. La mediatizzazione. La centralità assunta dai leader nella comunicazione politica.
Si tratta, ripetiamo, di un percorso comune ad altre democrazie occidentali. (Ne hanno fornito, di recente, una ricostruzione puntuale i politologi Thomas Poguntke and Paul Webb). Ma in Italia ha assunto un formato del tutto originale per l´interpretazione che ne ha dato Silvio Berlusconi. Un imprenditore mediatico, che conosce a fondo i meccanismi della comunicazione. E li possiede. In senso letterale. Berlusconi ha trasferito le logiche del marketing alla politica e ai partiti. Ne ha personalizzato l´immagine e il potere. Ha, inoltre, trasformato in modo rapido e profondo anche la forma di governo, rendendo il ruolo dell´esecutivo preminente sul Parlamento, come sottolinea il ricorso sempre più frequente alla legislazione per decreto (peraltro già abusata).
Alla preminenza dell´esecutivo sul Parlamento, d´altronde, si aggiunge la preminenza del premier sul governo. Che Berlusconi ha di fatto personalizzato. Visto che i ministri e i leader della maggioranza si incontrano a casa sua. A Palazzo Grazioli, Arcore, oppure nella sua villa in Sardegna. Dove riceve anche i "grandi della Terra", secondo un modello monarchico, più che presidenziale. La tendenza presidenzialista, inoltre, corre parallela all´affermarsi della "democrazia del pubblico", come la definisce il filosofo Bernard Manin. Dove il rapporto fra il leader e i cittadini diventa diretto, (im)mediato dai media. Una sorta di populismo mediatico che trasforma i cittadini in spettatori; misura il consenso per le politiche e i politici in base all´auditel.
Al principio di legittimazione offerto dal voto se ne è affiancato un altro, espresso dall´Opinione Pubblica. Descritta e, anzi, prodotta dai sondaggi riverberati dai media. Cittadini e Opinione Pubblica. Istituzioni e media. Berlusconi governa entrambi i settori. E li fa reagire, reciprocamente, in modo efficace. Utilizza l´Opinione Pubblica per rafforzare il potere sulle istituzioni ma anche sui cittadini. Per lui è naturale. Commentando i ripetuti sfoghi del premier, negli ultimi tempi, Vittorio Feltri, che se ne intende, ha scritto: «Berlusconi è talmente sincero che dice la verità anche quando racconta balle». Ragionamento, peraltro, reversibile. Ma certamente Berlusconi è sincero quando esprime fastidio verso le procedure � ahimé lunghe e complesse � della democrazia rappresentativa. E avanza l´idea di far votare i capigruppo per tutti i parlamentari. È altrettanto sincero quando manifesta tutta la sua insofferenza verso le cariche dello Stato, che interferiscono troppo sulle decisioni del governo. Verso Giorgio Napolitano: il Presidente della Repubblica parlamentare. Ridotto, dal presidenzialismo all´italiana, a un contrappeso istituzionale. Un garante della Costituzione. Una specie di Magistrato. Quindi, per Berlusconi, un avversario. Verso Gianfranco Fini. I cui continui richiami, la cui pretesa di contrastare il solo, vero Presidente, a Berlusconi appaiono irritanti e inattuali. Le resistenze di un passato che non vuol passare. Con l´aggravante che Fini, leader di An, con le sue critiche, danneggia l´immagine monocratica del nascente Popolo della Libertà. Napolitano e Fini: colpevoli, di fronte a Berlusconi, di essere più "popolari" di lui.
D´altronde, per il premier, la legittimazione fondata sull´Opinione Pubblica conta più di quella costituzionale. Da ciò la polemica continua � quasi un mantra � contro i media, colpevoli di distorcere la realtà. La fretta di rimodellare il sistema radiotelevisivo pubblico (cioè, le nomine). L´irritazione verso Sky: concorrente, politicamente non condizionabile. L´intento di intervenire anche sui giornali "indipendenti" più importanti. Berlusconi. Ha bisogno di legittimarsi ancora e a lungo presso l´Opinione Pubblica per rafforzare la sua autorità sulle istituzioni e sui cittadini. Non può permettersi, come avvenne tra il 2001 e il 2006, che crescano l´insoddisfazione e insieme la sfiducia. Parafrasando quanto scrisse Ernest Renan a proposito della nazione: la democrazia del pubblico è un plebiscito di tutti i giorni. Una lotta quotidiana, dura e insidiosa. Per Berlusconi. Anche per la democrazia. Anche per noi.

Repubblica 22.3.09
Angola, due morti nella calca per il Papa
All´incontro con i giovani: 18 i feriti. Il Vaticano: niente condanna per l´aborto terapeutico
di Marco Politi


La notizia della tragedia è arrivata al seguito del Pontefice solo dopo la fine del meeting

LUANDA - Due giovani morti nella festa per vedere il Papa. La notizia è piombata a notte sul seguito di Benedetto XVI, dopo che il pontefice si era ritirano nel suo appartamento felice per l´incontro allegro e colorato con decine di migliaia di giovani cattolici nello stadio di Coqueiros.
Nessuno si è accorto della disgrazia durante la riunione. Per il gran caldo, che ha messo a dura prova l´ottantaduenne Ratzinger, molti giovani nello stadio cadevano come mosche e venivano portati via svenuti dagli infermieri. Ma nessuno ha pensato al peggio. Non si sa ancora se si tratta di due ragazze, come riferiscono fonti scout, oppure se sono deceduti un giovane e una giovane. Alcuni raccontano che è successo all´entrata dello stadio, dove già quattro ore prima dell´arrivo del papa migliaia di ragazzi si accalcavano per partecipare all´evento. C´è chi dice che i due siano morti calpestati. Ma le fonti scout raccontano che le due ragazze, colpite dall´eccessivo calore o forse stremate per avere camminato a lungo e non aver bevuto e mangiato da parecchie ore, si siano accasciate quando già avevano trovato un posto nello stadio. Trasportate in ospedale, sono morte. Altri diciotto sarebbero i feriti nella calca.
Era già successo una volta, in proporzioni ancora più tragiche, durante un pellegrinaggio papale. Fu quando Giovanni Paolo II arrivò a Kinshasa nel Congo (allora Zaire) e per la celebrazione della sua prima messa con riti africani venne una folla immensa. Quando si aprirono i cancelli della spianata dove si teneva la messa, nove persone furono inesorabilmente schiacciate dalla folla e altri settantotto i feriti ricoverati negli ospedali della capitale congolese.
La notizia è stata un dolore per Benedetto XVI, che aveva partecipato con grande gioia all´incontro lasciandosi rapire dal suono dei tamburi e dai canti tradizionali eseguiti da diversi gruppi regionali. Commosso, il pontefice aveva seguito in piedi la melodia di un giovane handicappato, che seduto in carrozzella gli aveva cantato la «canzone dell´amico del mio cuore, il mio amico Gesù».
Il pontefice ha esortato i giovani cattolici al coraggio della fede e al coraggio delle scelte di vita. Assumendo il rischio di impegnarsi per tutta la vita sia nel matrimonio sia nel sacerdozio o nei voti religiosi. In mattinata Benedetto XVI aveva ammonito i fedeli, durante la messa, a combattere la credenza popolare nella stregoneria che porta a uccidere come stregoni «bambini della strada e anche i più anziani».
Nell´incontro con i giovani Ratzinger non è entrato in argomenti di etica sessuale. Il portavoce Lombardi ha chiarito in mattinata che il pontefice al suo arrivo aveva condannato l´aborto come mezzo di controllo delle nascite, ma non l´aborto «terapeutico». Tuttavia nell´accezione della dottrina classica cattolica (e per evitare una equiparazione all´aborto terapeutico previsto dalle legislazioni europee) padre ha subito chiarito che «nella morale della Chiesa si parla da sempre dell´aborto indiretto, quando vi è una malattia grave che mette in pericolo la vita della madre e che deve essere curata, anche se ciò può implicare la morte del figlio». Solo questo è possibile. «In ogni altro caso si ha l´uccisione di un innocente».

Repubblica 22.3.09
La Cassazione: prescrizione. Fu arrestato per abusi su una ragazzina. Ma deve risarcire la vittima
"Prosciogliete il prete pedofilo" La Curia: ora torni a dire messa
L´ex procuratore Tarfusser in disaccordo con la decisione di reintegrarlo
di Pierluigi Depentori


BOLZANO - Ancora pochi giorni e don Giorgio Carli, giovane prete bolzanino, potrà tornare a celebrare messa nella sua parrocchia di via Resia. Nulla di clamoroso, se in mezzo non ci fosse un caso giudiziario di violenza sessuale che sta spaccando in due la città. Don Giorgio fu arrestato nel 2003 dopo che una ragazza della sua parrocchia ricordò - nel corso di una seduta di psicoanalisi - gli abusi subiti dal prete molti anni prima, quando la giovane aveva soltanto 15 anni. Da allora è stato un susseguirsi di colpi di scena: assoluzione in primo grado, condanna a sette anni e mezzo di carcere in appello. Fino all´altro ieri, quando la Cassazione si è pronunciata con una sentenza che non ha fatto altro che alimentare la tensione sul caso: proscioglimento per prescrizione.
Per la curia altoatesina, una decisione da salutare con soddisfazione: «Don Carli non può essere considerato colpevole, essendo stata annullata la sentenza di condanna in secondo grado. Così rimane in vigore solo la prima sentenza di assoluzione. Abbiamo sempre creduto nell´innocenza di don Giorgio, per questo è confermato nel suo incarico di parroco». Dunque sarà questione di giorni: forse già martedì don Giorgio potrà tornare a dir messa nella sua parrocchia, nel cuore del quartiere italiano di Bolzano, magari proprio davanti alla ragazza che l´ha trascinato in questa vicenda giudiziaria.
Tutto bene, dunque? Macché. L´ex procuratore Cuno Tarfusser, da pochi giorni giudice della Corte internazionale dell´Aja, è tutt´altro che d´accordo con la curia: «La Cassazione ha valutato il reato contestato, lo dimostra il fatto che i giudici hanno confermato i risarcimenti alle parti civili». Don Carli dovrà, infatti, pagare oltre 700mila euro. «Condannare un innocente a un risarcimento di questo tipo sarebbe una barzelletta», ha aggiunto Tarfusser che ha rivolto alla curia l´invito ad essere «più cauta nei suoi commenti».
Dopo la condanna in secondo grado a sette anni e mezzo di reclusione il prete aveva lasciato Bolzano e la sua parrocchia. «Sono innocente e ora sarò assente per un po´», aveva scritto in una lettera aperta ai suoi parrocchiani. La decisione della Cassazione è stata accolta dal sacerdote � ha raccontato il suo legale Alberto Valenti � «con la serenità di sempre. Fa invidia la sua tranquillità nell´accettare le cose più paradossali, come questa sentenza alla Ponzio Pilato. La gente si stringe intorno a lui e lo sta aspettando».

Corriere della Sera 22.3.09
Berlusconi: Pdl con la Chiesa, ma non sarà la Dc
«No ai collateralismi, da laici difenderemo la sacralità della vita». E sul Pd: diffonde il panico
Le linee-guida del Cavaliere: «Crediamo nell'autonomia, nella sovranità della politica rispetto alla religione»


ROMA — La «sacralità della vita e la dignità della persona sono valori irrinunciabili». La Chiesa «può e deve parlare liberamente anche quando si trova a proclamare principi e concetti magari difficili e impopolari ». Ma il Pdl, che «segnerà la storia dell'Italia sarà un partito laico e non ripercorrerà la via del collateralismo con la Chiesa che è stata la linea della Dc».
A una settimana dalla nascita e mentre An si scioglie per fondersi nel nuovo partito unitario del centrodestra, Silvio Berlusconi delinea la fisionomia del Popolo della libertà. L'occasione per farlo è il messaggio di saluto che indirizza (in collegamento telefonico) al convegno dei Popolari liberali del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Carlo Giovanardi, anche se non lesina critiche all'opposizione che «sulla crisi diffonde il panico con spregiudicatezza ». «Crediamo — sostiene — nei valori della vita umana, fondamentali principi indiscutibili e squisitamente liberali e nella libertà della vita che si deve esercitare in una cornice di leggi e di principi, anche se non tutto quello che è fattibile è giusto». Un modo implicito per criticare quanti credono nell'ingegneria genetica e ritengono che staccare la spina (come nel caso Englaro) sia nella disponibilità degli uomini. Detto questo, però, Berlusconi chiarisce: «Siamo certi che il Pdl deve essere ed è un partito laico e rispettoso della libertà di ciascuno sui temi di coscienza. È giusto e doveroso che sia così ma non rinuncerà a dare una linea, a scegliere e difendere determinati valori che sono i nostri valori, in base ai quali dovrà svolgere la sua azione cercando soluzioni ai problemi che l'etica e la modernità ci porrà davanti». Ed ecco il punto chiave, la discriminante primaria: «Cerchiamo e cercheremo sempre soluzioni il più possibile condivise, ma con un punto di riferimento che consideriamo irrinunciabile: la sacralità della vita e la dignità della persona».
Il passaggio successivo Berlusconi lo dedica alla Chiesa, visto che la platea che lo sta ascoltando è particolarmente sensibile al messaggio del-l'episcopato, ma la sua sottolineatura riguarda la distinzione netta dei campi politico e religioso. «Il Pdl — ricorda— sarà un partito laico, non ripercorreremo la via di quel collateralismo con la Chiesa che è stata la linea della Democrazia cristiana. Crediamo nell'autonomia, nella sovranità della politica rispetto alla religione ». Tuttavia, rimarca, «crediamo anche che la Chiesa possa e debba parlare liberamente e svolgere quello che è un suo insostituibile ruolo nella società. Rispettiamo la Chiesa e ne difendiamo la libertà anche quando si trova a proclamare principi e concetti magari difficili e impopolari, lontani da quelle che sono le opinioni di moda e che vanno di moda tra giornalisti e intellettuali».

il Riformista 22.3.09
Sempre più traballante la poltrona di Mieli
La guerra del Corriere
Tra scenari di tagli e conti in rosso si infittisce la trama che porta al cambio di direttore. Dietro la discussione tra i soci Rcs il piano di Berlusconi per espugnare il salotto buono.


Ieri è andata in scena un'altra puntata della partita per la scelta del nuovo direttore del Corriere della Sera. È stato proposto il nome di Carlo Verdelli, oggi direttore della Gazzetta dello Sport, come sostituto di Paolo Mieli, sfiduciato lo scorso 19 marzo. Quel giorno sono infatti stati diffusi i risultati di bilancio del gruppo editoriale e ha prevalso la preoccupazione degli azionisti che si preparano ad affrontare una fase difficile anche da un punto di vista industriale: è aumentato l'indebitamento, salito a 1,15 miliardi di euro e cresciuto di 180 milioni rispetto all'anno precedente. Con un comunicato l'azienda ha fatto sapere che le cose andranno peggio nel 2009, anno in cui «si presume che il gruppo raggiunga risultati inferiori rispetto al precedente esercizio». Colpa della Grande Recessione che costringerà, si legge nella nota di bilancio 2008, a soluzione drastiche.
Dice la nota: «Attenzione sarà rivolta alla soluzione finanziaria, non escludendosi revisioni del perimetro, compatibilmente con l'andamento del mercato, rispetto alle attività che verranno ritenute non core». Tradotto, significa che sarà necessario un gruppo dirigente in grado di andare fino in fondo anche nel rapporto con i dipendenti. Alcuni osservatori ritengono che proprio questa ipotesi di «revisione del perimetro», dietro la quale si intravedono le forbici dei tagli, ha favorito una crisi al buio nella partita per il primo quotidiano italiano e avrebbe indotto i grandi azionisti Rcs a sfiduciare il direttore Paolo Mieli, garante del corpo redazionale, prima ancora che fosse pronto un compromesso sulla sua successione.
Da quanto risulta al Riformista - per riprendersi dalla crisi, ripianare i conti aziendali e tagliare l'indebitamento - la società avrebbe intenzione di adottare politiche che incentivino i giornalisti più anziani, oltre i 57-58 anni, a uscire con scivoli al prepensionamento, un provvedimento che riguarderebbe circa 60-70 redattori del Corriere su 380. C'è anche chi parla di tagli di 100-150 giornalisti per l'intero gruppo Rcs. Circola anche una voce secondo cui le riviste Io Donna e Corriere Magazine si fonderanno per fare spazio a un nuovo prodotto, meno giornalistico, ma in grado di attirare più pubblicità.
Ma alle difficoltà editoriali si sommano quelle dovute al tentativo di raggiungere soluzioni condivise da un assetto proprietario in cui sono presenti fazioni contrapposte. Ormai le agenzie di stampa stanno giocando un ruolo attivo in un toto-nomine che fa apparire Rcs sempre più simile alla Rai, con informazioni che vengono fatte filtrare per poi essere subito smentite e nomi dati per certi così da assicurarsi la loro bruciatura. Ieri l'Adnkronos, infatti, ha dedicato due agenzie alla società editoriale che starebbe attraversando un «week end è fitto di febbrili contatti e frenetiche telefonate in vista del patto di sindacato di Rcs Mediagroup, la cui convocazione è attesa per lunedì dopo lo slittamento di martedì scorso». L'Adnkronos spiega che al centro dei colloqui vi sarebbe l'individuazione di un sostituto di Mieli e «l'orientamento che sta emergendo in queste ore - scrive sempre l'agenzia - sarebbe quello di puntare su una risorsa interna per conservare e valorizzare al meglio la professionalità e la tradizione del grande quotidiano». Il profilo che sarebbe stato tracciato corrisponde a quello del direttore della Gazzetta dello Sport, Carlo Verdelli (autore del successo di Vanity Fair), che venne chiamato proprio da Mieli a dirigere prima il magazine del Corriere, che allora si chiamava Sette, e poi come vicedirettore del quotidiano.
La notizia diffusa è stata smentita due ore più tardi dall'agenzia Ansa in un lancio in cui si legge che «proseguono i contatti tra i grandi soci Rcs», ma si aggiunge che il patto di sindacato della società si dovrebbe riunire «lunedì 30 o martedì 31 marzo». E, in questo scenario alternativo, l'ipotesi Verdelli alla guida del Corriere sembra già tramontata. Scrive infatti l'Ansa: «Nelle ultime ore si è tornato a parlare di Carlo Verdelli a supportare una linea aziendalista, ma non avrebbe trovato una convergenza tra le preferenze dei grandi soci». Per la prima agenzia italiana qualcuno «guarda a Carlo Rossella, e qualcun altro a Ferruccio de Bortoli, ma nel toto-nomi in queste settimane sono entrati anche Piero Ostellino e Roberto Napoletano».
Secondo le ricostruzioni più accreditate, la vera partita si sta giocando all'interno dei grandi azionisti del patto di sindacato di Rcs, su tre assi portanti: il primo è quello rappresentato dalla Mediobanca di Cesare Geronzi (principale garante degli equilibri tra governo e azienda) e dall'immobiliarista Salvatore Ligresti; il secondo fa capo a Giovanni Bazoli e a Corrado Passera, vertici di Intesa Sanpaolo; il terzo, in posizione intermedia tra i primi due, comprende la Fiat di Luca Cordero di Montezemolo e Diego Della Valle.
In un primo momento per la direzione del Corriere è stato fatto il nome di Rossella, candidatura sostenuta da Montezemolo e molto gradita da Palazzo Chigi. Ipotesi saltata in quanto non avrebbe ottenuto la maggioranza dei consensi. Poi è stata proposta la nomina dell'attuale direttore del Messaggero, Roberto Napoletano, che non avrebbe trovato l'appoggio di Intesa Sanpaolo che la considera troppo "politica". Sarebbe dunque riemersa la pista Rossella. Ma il nome dell'ex direttore di Panorama continua da più parti a non essere considerato in grado di garantire il necessario equilibrio rispetto alle esigenze della maggioranza dei soci del Patto.

il Riformista 22.3.09
Forza Nuova raduna a Milano i neonazi europei
di Sonia Oranges


DESTRA. Prc contro il Comune (che se ne lava le mani).
Ad aprile il raduno di Forza Nuova. Il sindaco di Milano Letizia Moratti non interviene

«Bene, ma ci sarà da divertirsi come a Berghem?»: rispondeva così, all'inizio di marzo, uno degli utenti del forum di Forza Nuova all'annuncio dell'organizzazione nel centro di Milano di «un grande evento politico internazionale che vedrà la partecipazione del segretario Roberto Fiore e degli esponenti del Bnp, del Fn e dell'Ndp», per il prossimo 5 aprile. Berghem sta per Bergamo dove, alla fine di febbraio, in occasione dell'inaugurazione della sede di Forza Nuova, simpatizzanti di estrema destra e di estrema sinistra se le sono date di santa ragione fra loro e con la polizia, devastando il centro cittadino. E, a quanto pare, a Milano si preparano a fare il bis. Il tam tam già corre in rete. Da un lato i forzanovisti che stanno aderendo da tutt'Italia all'iniziativa meneghina (presentata come manifestazione/convegno sul tema: "La nostra Europa. Popoli e Tradizioni contro banche e usura"), dall'altro la sinistra radicale e antifascista dei centri sociali ma anche dell'Anpi, che raccoglie firme contro il raduno dell principale organizzazioni della destra xenofoba europea, e che non esclude una contromanifestazione come «adeguata risposta».
Insomma, i presupposti per lo scontro urbano ci sono tutti. Mancano solamente i dettagli logistici (Forza Nuova, al solito, diffonderà soltanto all'ultimo momento il dove e quando), e i nomi di peso della destra più estrema inglese, tedesca e francese, invitati a intervenire. Contro la manifestazione (che dopo Bergamo suona come un invito allo scontro di piazza), si è mobilitato il Prc lombardo. Il consigliere regionale Luciano Muhlbauer ha chiesto al sindaco Letizia Moratti di «impedire il raduno nazifascista»: «Rompa il clima di tolleranza nei confronti dell'estremismo neofascista e si attivi in prima persona perché venga impedito il raduno». Come? «Le chiediamo semplicemente di fare come il sindaco di Colonia, di centrodestra anche lui, che nell'autunno scorso si mise alla testa della mobilitazione contro un'iniziativa analoga nella sua città».
Ma a Palazzo Marino sembrano non sentirci da quest'orecchio. «Il sindaco non è mica il Questore - rispondeva ieri il vice della Moratti, Riccardo De Corato - Che c'entriamo noi con l'ordine pubblico? Noi non abbiamo vietato i cortei di sinistra che hanno devastato il centro, e non lo facciamo con le manifestazioni di destra. Sarà il questore, nel caso a valutare». Ma come? Nessun indicazione politica dopo i fatti di Bergamo? «Ma perché? Il sindaco di Bergamo, che è del centrosinistra, ha per caso fatto qualcosa? No. Perché non gli competeva. Poi, se volete, vi confermo che non condividiamo nemmeno una virgola della manifestazione di Forza Nuova. Ma noi non vietiamo manifestazioni. L'ordine pubblico è una questione di competenza di questore e prefetto».
Ma a sinistra, evidentemente, si aspettavano che l'amministrazione comunale si sarebbe lavata le mani di Fiore&co. E la prossima settimana si rivolgeranno al prefetto.

Repubblica 20.3.09
Hanno due mamme o due papà: in Italia sono più di centomila i ragazzi di genitori gay
Due mamme o due papà così vivono i bambini nelle famiglie dei gay
di Maria Novella De Luca


In Italia circa il 20% degli omosessuali e delle lesbiche ha uno o più figli Nuclei "senza diritti". Eppure, per gli esperti, "relazioni che funzionano

Hanno due mamme. O due papà. A volte tre genitori. Sono centomila in Italia secondo le ultime stime, ma forse molti di più. I più grandi sfiorano l´adolescenza, i più piccoli, concepiti all´estero nei centri di fecondazione assistita, hanno pochi anni, alcuni pochi mesi. Figli e figlie di genitori gay. Di una sola metà del cielo. Bimbi sereni dicono gli psicologi, gli insegnanti, i pediatri che li analizzano e li «monitorano» fin dalla culla negli Stati Uniti, in Francia, in Germania, in Inghilterra, e adesso anche in Italia. Nati da relazioni eterosessuali o nella coppia omosessuale stessa, tra due donne o due uomini, complice la Scienza e le più ardite tecniche di procreazione artificiale: sono l´ultima frontiera della famiglia, la più inedita, la meno riconosciuta, la più controversa.
Si chiamano nuclei «omogenitoriali», adattamento dal francese homoparentalité, per l´anagrafe italiana non esistono, la legge li ignora, la Chiesa li condanna, le istituzioni li osteggiano. Invece sono sempre di più, nel nostro paese il 17,7% degli omosessuali e il 20,5% delle lesbiche con più di 40 anni ha uno o più figli, e il 49% delle coppie omosessuali dichiara di voler diventare genitore, un vero e proprio gayby boom, come lo hanno definito i sociologi americani, un boom di bambini nati dalle unioni gay. Scrive Giulia Porretti, maestra di Pordenone: «Martina nei suoi disegni rappresenta mamma Alessia e mamma Franca, più il gatto di casa. Non è stato facile, all´inizio, comprendere. Poi ci siamo abituate. Martina ci guarda con occhi sereni ed è la più brava della classe».
Cronache da un mondo sommerso che inizia a chiedere rispetto, diritti, visibilità. In Francia, pochi giorni fa, il Governo di Nicolas Sarkozy ha presentato un disegno di legge che legittima, in modo esplicito, «i nuclei composti tra due adulti dello stesso sesso tra le nuove configurazioni familiari». In Italia le famiglie omosessuali si sono consorziate in «Famiglie arcobaleno», una proposta di legge del Pd chiede i loro bimbi vengano tutelati, ma restano nuclei fantasma. Intanto i figli nascono, crescono, vanno a scuola, fanno la vita dei loro coetanei...E ieri giorno del papà, hanno festeggiato a Genova la "festa delle famiglie". Anche quelle in cui si cresce con due genitori dello stesso sesso.
Nella stanza di Arianna, 6 anni, figlia di Federica che vive con Cecilia, sua nuova compagna, Cenerentola e il principe volteggiano abbracciati sul muro, mentre Minni e Topolino si guardano complici. Siamo a Roma, nella periferia che si estende verso la Via del Mare, tra case nuove e scheletri di palazzi. Federica Bruni, 34 anni, infermiera, descrive la faticosa scoperta e poi la conquista di un amore gay, dopo una vita eterosessuale, un matrimonio, la separazione, la messa al bando dalla famiglia e le minacce dell´ex marito. «Arianna sa che per me Cecilia è un affetto grande, adesso dice che ha due mamme, ci vede dividere il letto matrimoniale come prima lo dividevo con suo padre. Certo per lei l´amore resta quello tra un uomo e una donna, mi sembra naturale che sia così� Sa anche che presto arriverà un altro bambino, Cecilia ed io andremo a Copenaghen e Cecilia farà l´inseminazione artificiale con il seme di un donatore: saremo una famiglia a tutti gli effetti, anche se per la legge italiana il nostro bambino sarà soltanto figlio di Cecilia, lo Stato riconosce unicamente il padre o la madre "biologici". Io semplicemente non esisto».
Federica tocca il cuore del problema, quello che ha portato Giuseppina La Delfa, docente di francese, trapiantata in Italia da 19 anni in un minuscolo paesino vicino ad Avellino e mamma di una bambina di 5 anni, a fondare insieme ad altri genitori le "Famiglie Arcobaleno". «Siamo migliaia ma c´è ancora una gran paura a mostrarsi, a dichiararsi. In "Famiglie Arcobaleno" siamo circa 500 tra adulti e bambini, quasi tutti i nostri figli sono nati "nella coppia", con la fecondazione assistita per le donne, attraverso il seme di un donatore o di un amico, e con le "maternità surrogate" per i maschi. La mia compagna Raphaella ed io siamo andate in Belgio, nel centro "Azvub", volevamo che fosse lei a portare avanti la gravidanza, ma c´erano dei problemi e così è toccato a me�La cosa assurda però è che la mia compagna per la legge italiana non può prendersi cura di nostra figlia, se io morissi la bambina resterebbe sola pur avendo un altro genitore...». È particolare la storia di Giuseppina, che oggi ha 46 anni, è nata in Francia da genitori emigrati dalla Sicilia, ed è poi tornata a vivere in un minuscolo borgo campano, senza fare mistero della propria omosessualità. Anzi, dando il via ad una vera campagna di outing durante la gravidanza. «Volevo che la gente del paese fosse preparata all´evento, all´arrivo di una bambina figlia di due lesbiche, e l´accoglienza è stata superiore alle aspettative, L. è piena di amici, allegra solare...No, non mi sento egoista ad averla privata del padre: io le ho dato la vita, cosa può esserci di più bello?».
Una famiglia come le altre, si potrebbe obiettare, con un padre e una madre, ed è questa infatti la tesi di chi ritiene che le famiglie gay siano dannose per lo sviluppo di un bambino. Ma è proprio un esperto di infanzia e adolescenza, Gustavo Pietropolli Charmet, a chiarire perché invece si può crescere bene anche in un contesto così atipico. «Oggi è in corso una modificazione cruciale sia della maternità che della paternità: si va sempre di più verso situazioni in cui i genitori si occupano a staffetta dei figli o verso famiglie monogenitoriali. Questo vuol dire - spiega Charmet - che di volta in volta il padre e la madre incarnano entrambi i ruoli, sono cioè le due figure insieme, i maschi si "maternalizzano" e le donne acquistano autorità. Ed è ciò che accade nelle coppie omosessuali: se un figlio viene allevato da due padri è inevitabile che questi sviluppino anche una parte materna, e così accade nel caso di famiglia con due madri. E i bambini cresciuti in questi contesti non manifestano alcun problema diverso dai loro coetanei». Aggiunge Margherita Bottino, sociologa, autrice di diversi saggi sulla «omogenitorialità», tra cui il libro "La gaia famiglia": «Quando una coppia gay decide di fare un figlio, i due padri o le due madri preparano il terreno e invece di nascondersi cercano la massima visibilità. E la società di solito è più pronta di quanto si creda. Il vero problema è la non esistenza giuridica di queste famiglie. I pediatri americani hanno dimostrato che nelle realtà dove il loro status è riconosciuto i bambini sono più sereni�».
Ed è infatti un percorso di assoluta trasparenza quello intrapreso da Tommaso e Gianfranco, insegnanti romani quarantenni, oggi padri di una piccola di tre anni e di un bimbo di 6 mesi, nati in California attraverso due «maternità» surrogate. Una sorta di «acrobazia» procreativa, ma i due neo-padri, impegnati in un full time di biberon e pannolini, affermano di cavarsela benissimo. «Prima di lanciarci in questa avventura - spiega Tommaso - abbiamo cercato di capire effettivamente come vivono i bambini nati da coppie gay. Ci siamo interrogati sull´eventualità che ai nostri figli potesse mancare una figura femminile, ma ci sono due nonne, diverse zie, e abbiamo deciso mantenere un rapporto anche con la mamma portatrice». «Nostra figlia va al nido pubblico - continua Gianfranco -all´inizio le maestre erano sconvolte, smarrite, poi hanno iniziato a fidarsi, hanno addirittura inventato una favola in cui ci sono le zebre con due mamme, e i cuccioli di leone con due papà... Le difficoltà arriveranno, perché la campagna contro l´omogenitorialità è forte, ma adesso siamo una famiglia, ed è questo che conta».

Corriere della Sera 21.3.09
Il vescovo della bimba in Brasile
«Quei medici uguali a Hitler»
di Rocco Cotroneo


RIO DE JANEIRO — Nemmeno la presa di distanza del Vaticano fa vacillare le convinzioni dell'arcivescovo brasiliano sul caso della bambina di 9 anni vittima di stupro a Recife. E' dura la replica della diocesi retta da José Cardoso Sobrinho a un articolo dell'Osservatore Romano,
che pone dubbi sulla scomunica dei medici che hanno effettuato l'aborto sulla piccola, incinta di due gemelli dopo essere stata violentata dal patrigno. «Abbiamo dato risalto pubblico alla scomunica perché ciò farà bene a molti cattolici, permettendo loro di evitare questo peccato grave - sostiene una lettera pubblicata sul sito della diocesi di Recife - . Il silenzio della Chiesa sarebbe molto dannoso, soprattutto considerando i cinque milioni di aborti che ogni anno avvengono in giro per il mondo». Lo stesso Cardoso, qualche giorno fa, ha dichiarato in una intervista che l'aborto è un delitto al pari dell'Olocausto: «Hitler voleva eliminare il popolo ebraico e si dice che arrivò a sterminare sei milioni di persone. Perché dobbiamo restare il silenzio quando le vittima dell' aborto sono ancora di più? Si tratta di un olocausto silenzioso».
A differenza del prelato brasiliano, che non arretra di un centimetro, il Vaticano nei giorni scorsi aveva calibrato le parole per smussare le divergenze con la diocesi di Recife. All'inizio, non appena la notizia dell'aborto sulla bambina fece il giro del mondo, da Roma era arrivata una sostanziale approvazione alla scomunica dei medici, per voce di Gianfranco Grieco, capo ufficio del Pontificio Consiglio per la Famiglia («La Chiesa non può mai tradire il suo annuncio»). Poi però monsignor Rino Fisichella, dalle colonne dell'Osservatore, aveva rettificato la posizione. «Sono altri coloro che meritano la scomunica e il nostro perdono.
Era più urgente salvaguardare una vita innocente — ha scritto il presidente dell'Accademia Pontificia per la vita —. Non era necessaria tanta fretta nel dare pubblicità e dichiarare un fatto che si attua in maniera automatica (la scomunica, ndr),
mentre sarebbe stato più importante un gesto di misericordia ».
Il Vaticano è ben conscio della valanga di critiche che si sono abbattute sulla Chiesa dopo il caso. Tanto che monsignor Fisichella si dice preoccupato, perché «ne risente la credibilità del nostro insegnamento, che appare agli occhi di tanti come insensibile, incomprensibile e privo di misericordia». Per l'arcivescovo di Recife, invece, il silenzio e la discrezione sarebbero stati scambiati per collusione o complicità. Anche la conferenza episcopale brasiliana, nei giorni scorsi, aveva preso le distanze dalle posizione di Cardoso. E un paio di vescovi si sono ufficialmente dichiarati a favore dell'uso del preservativo.

Corriere della Sera 21.3.09
All'Art Institute di Chicago raffinate tecnologie per un progetto di conservazione delle opere d'arte
Picasso, il genio del risparmio
Tra i «segreti» del pittore anche l'uso di vernice industriale
di Adriana Bazzi


CHICAGO — E' una specie di detective story che mescola scienza e arte, gascromatografi e vernici colorate, acquisti su eBay e analisi microscopiche, alla ricerca di indizi che potranno essere sfruttati per conservare e restaurare i quadri di uno dei grandi maestri dell'arte moderna: Pablo Picasso.
A capo dell'indagine è Francesca Casadio, chimica laureata a Milano e da sei anni all' Art Institute di Chicago dove dirige come «conservation scientist» il laboratorio scientifico. Il rapporto preliminare della ricerca sarà presto pubblicato a sua firma sulla rivista Applied spectroscopy.
«Il progetto Picasso — dice Casadio — è nato parallelamente alla costruzione della nuova ala per l'arte moderna, ideata da Renzo Piano, all'Art Institute di Chicago. Così si è deciso di sottoporre ad analisi scientifiche due suoi capolavori conservati al museo ». Picasso in queste opere, The Red Armchair (1931) e Still life (1922), non ha usato soltanto pittura da tubetti per artisti, ma anche vernici industriali che un occhio esperto identifica già per l'effetto tipo smalto, diverso dalla pennellata di colore. Il motivo della scelta dell' artista? Sperimentare nuovi materiali, ottenere un'asciugatura più rapida, ma anche risparmiare sui costi.
Da qui la domanda: come si conserveranno nel tempo queste vernici e come evitare che si degradino? E' quella che i tecnici chiamano conservazione preventiva.
«Intanto bisogna capire che cosa Picasso ha usato — continua Casadio —. Prendiamo The Red Armchair: l'effetto visivo non basta per giudicare, è indispensabile ricorrere a un'analisi dei materiali».
Materiali dei quadri che vengono prelevati con una sorta di biopsia, come avviene in medicina, e che vengono poi analizzati con tecniche varie come la microscopia elettronica (che permette di visualizzare, per esempio, pigmenti microscopici) o la microspettrofotometria a infrarossi che rileva i composti chimici presenti in un campione. E materiali di confronto, in questo caso tubetti (di colore per artisti) e barattoli (di vernice, quella industriale).
«Fra le carte di Picasso — aggiunge Casadio — sono stati trovati ordini per barattoli di Ripolin, una marca di vernici piuttosto diffusa soprattutto in Francia». Che Picasso la usasse è dimostrato anche dal fatto che nella scultura Figure (del 1935, conservata sempre all'Art Institute) la faccia è costruita con il coperchio di un barattolo di Ripolin.
«Per trovare campioni di Ripolin dell'epoca — continua Casadio — abbiamo cercato su eBay: anche lo shopping online serve alla ricerca scientifica. Adesso abbiamo una collezione di barattoli di Ripolin e persino le brochures della ditta dove è addirittura specificata la composizione delle vernici ».
Gli elementi per il confronto ci sono tutti. E così pure i risultati. Eccone uno: «L'analisi di un frammento del violetto in The Red Armchair — spiega Casadio — ci ha rivelato la presenza di sali di metalli pesanti. Questo sta a significare che Picasso ha usato, come base, il bianco Ripolin cui ha aggiunto il violetto di cobalto, usato dagli artisti e piuttosto costoso. La presenza di quest'ultimo è stata svelata dall'identificazione di grossi pigmenti visibili al microscopio, che contengono, come rilevato dallo spettro infrarosso, cobalto e fosforo. Il colore bianco della faccia, invece, è Ripolin puro, assolutamente paragonabile a quello contenuto nei barattoli e nei campioni delle brochure». Il prossimo passo è analizzare come queste vernici invecchiano e quali provvedimenti poi adottare per conservare i dipinti. Un esempio: il colore bianco contiene zinco che reagendo con l'olio forma saponi idrosolubili, particolarmente sensibili a quei trattamenti a base acquosa usati di solito per la pulizia.

Corriere della Sera 21.3.09
Riflessioni I confini della vita: così viene riscattato un destino che appare come condanna capitale
«La morte non è un puro crepare ma investe la libertà dell'uomo»
di Angelo Scola, patriarca di Venezia


Morire tra ragione e fede. Dopo l'articolo di Emanuele Severino, pubblicato ieri, sul tema interviene il cardinale Angelo Scola.

Un grido irrompe nella storia dell'umanità e la attraversa per sorprendere la storia personale di ognuno di noi. Lo raccoglie la Chiesa nella Veglia pasquale. È il grido del Crocifisso risorto: «Mors ero mors tua» (Morte sarò la tua morte). Nella vittoria del Crocifisso l'elemento della morte come condanna, castigo per il peccato, è assunto dentro un'inedita prospettiva di compimento. Proviamo ad addentrarci, per quanto a tentoni, nell'esperienza di Colui che ha svelenito il pungiglione della morte.
Uno dei momenti più drammatici dell'esperienza umana del Figlio di Dio è la notte del Giovedì santo. Gesù ha appena consegnato ai suoi il dono eucaristico e, afferrato dalla morsa dell'angoscia di fronte alla lucida consapevolezza di ciò che sta per avvenire, si è diretto verso il Monte degli Ulivi. Resta solo. E, dopo aver umanissimamente invocato dal Padre che gli allontanasse l'amaro calice, riafferma: «Tuttavia non sia fatta la mia volontà, ma la tua volontà». Egli si avvia quindi al processo e poi si lascia illividire sul palo ignominioso della croce. Entra in tal modo con la sua morte estrema in una morte qualitativamente singolare. La sua è una forma del tutto speciale di morte che combatte e vince il duello con la forma comune, quella nostra, della morte. Perché? Non solo perché, come ha affermato Sant'Anselmo, la morte del Nazareno è la morte immeritata del perfetto innocente, e neppure solo perché Gesù assume la morte
sponte (cioè per libera elezione). Per comprendere l'unicità singolare della morte di Cristo è necessario aggiungere un altro dato fondamentale. Gesù sconfigge la morte mediante l'atto di obbedienza umana di una persona divina. Nel libero «Sì» di Gesù agonizzante al Getsemani il destino di condanna capitale che accompagna ogni morire è abbracciato ed assunto in un più radicale morire. La morte di Gesù Cristo è perciò l'espressione della sua eterna vitalità trinitaria. Nel libero «Sì» di colui che poteva non morire viene spezzato il giogo della condanna capitale. La morte è definitivamente sconfitta. Il di più di mortalità contenuto nella scelta sovrana di colui che ha deciso di lasciarsi mandare nel corpo per morire e risorgere libera tutti gli uomini dalla morte trascinandoli con sé, se Lo accolgono, nel destino di gloria. Su questa base la Chiesa non annuncia semplicemente la possibilità di una morte serena, ma la fede nella risurrezione della carne. (...) La singolare morte di Cristo, diversa dalla morte
comune perché in essa entra direttamente in gioco l'elemento «scelta», ma entra in gioco come puro, obbediente abbandono al Padre, è l'unico atto di libertà umana compiuto in senso pieno. È «conveniente» allora abbracciare la speranza della Risurrezione, perché è ragionevole che la morte di Gesù sia considerata come garanzia che la nostra comune morte non sia un cadere nel nulla.
In questa prospettiva la morte appare proprio come la mia morte personale, dal momento che la mia libertà è da sempre al lavoro di fronte alla mia propria morte. Si può dire che la mia morte, nella sua radicalità, provoca la mia libertà a compiersi. La tende al massimo delle sue possibilità perché mette in campo il suo articolato organismo. In un certo senso non esiste un evento che chiami in causa la mia libertà lungo tutto l'arco dell'esistenza come la mia morte. Come ci insegna la tradizione cristiana e come mi testimoniano decine di malati estremi che ho il dono di incontrare, quell'angosciante rumore di fondo tendenzialmente rimosso che è la morte chiede di trasformarsi nella libera capacità di stare di fronte alla propria morte.
Certo, molti tratti della società attuale possono far pensare alla morte come un puro «crepare». Ma, se guardiamo in faccia la realtà, proprio perché la morte investe tutto l'orizzonte della mia libertà, nessuno me la può sottrarre, neanche l'uomo-bomba che mi sorprendesse del tutto inatteso mentre al bar sorseggio il caffè. Così nell'ottica della ragionevole fede cristiana la morte non potrà ghermire l'io a se stesso. Al contrario, per la risurrezione, lo invererà nel «suo vero corpo ». Allora nell'atto del mio morire in Gesù Cristo sarà il mio dies natalis.

sabato 21 marzo 2009

Corriere della Sera 20.3.09
Identità e destino. Il dibattito su corpo e resurrezione, su esistenza e morte. Il «prossimo» del Vangelo e la legge morale di Kant
L'inizio e la fine: ipotesi sulla vita
Fede e ragione si interrogano (e si sfidano) su che cosa definisce un essere umano
di Emanuele Severino


Quando incomincia la vita umana? Quando finisce? Cosa significa «vita umana », «uomo»? Pressoché assente, invece, quest'altra domanda: «Esiste l'uomo? ». Certo, essa sembra paradossale, un perditempo fuori luogo. Sanno tutti che un uomo è un corpo che agisce e si esprime, guidato da sentimenti e pensieri. Di uomini ne vediamo tanti ogni giorno. Ma a rendere umano un corpo sono quei sentimenti e pensieri; che però non si lasciano vedere, toccare, sperimentare, nemmeno nell'amore più profondo. Se ne deve congetturare il contenuto, l'intensità, la provenienza, la direzione. A volte si coglie nel segno; a volte no. Nella vita quotidiana, comunque, non ci si rende conto che l'esistenza stessa dei sentimenti e pensieri altrui, dunque l'esistenza stessa dell'uomo, è una congettura. Dell'uomo, dico, ossia del «prossimo» e di me stesso in quanto mi credo radicalmente legato al mio prossimo. Tanto poco «evidente», l'esistenza dell'«uomo», quanto lo è l'esistenza di «Dio». La filosofia lo sa da tempo, anche se una delle questioni più complesse è appunto il significato dell'«evidenza».
Che l'uomo, il suo esser «prossimo» esista è qualcosa di voluto. Ossia di creduto. Qualcosa di discutibile, dunque. Si ha fede nell'esistenza dell'uomo; anche se nella vita quotidiana si crede (si ha fede) che certi esseri siano indiscutibilmente degli uomini. Esistono innumerevoli «conferme» di questa fede; ma che certi eventi siano «conferme » è daccapo una fede: come è soltanto una fede che i baci siano una conferma dell'amore, visto che si può esser baciati da chi ci tradisce.
Per Gesù il prossimo è chi viene amato («Ama il tuo prossimo»); e quindi è prossimo proprio perché viene amato. Dunque è prossimo anche l'amante (il buon Samaritano lo è rispetto all'uomo derubato), giacché se l'amore rende prossimo, cioè vicino, l'amato, anche l'amante si avvicina all'amato, gli si rende prossimo. Un essere è reso «prossimo» dall'amore, ma l'amare è il contenuto della «Legge», ossia di un «Comandamento »; e non si comanda quel che si ritiene «evidente». Al sole che splende nel cielo non si comanda di illuminare la Terra, né a un albero si comanda di non essere una pietra. Se per Gesù il prossimo è l'amato-amante, l'amore è un atto di volontà (persino quando non si può fare a meno di amare); dunque anche per Gesù che il prossimo esista è qualcosa di voluto, creduto, è una fede da cui ci si può quindi allontanare. (Si può dire che il vacillare di questa fede stia all'origine del massacro che incomincia con l'uomo, ma lo si può dire stando all'interno di questa fede). Anche per Kant che certi esseri debbano essere trattati come prossimo è il contenuto della «legge morale», di un «imperativo », di un comando. È un dovere morale credere che il prossimo esista, non è la constatazione di un fatto indubitabile. All'inizio della vicenda dei mortali sulla Terra tutto è per essi «prossimo » (e demonico): luce e suolo, acque, monti, cielo, stelle, animali e piante, vento, tuono, pioggia, lampo e, certo, anche questi esseri a cui oggi abbiamo ridotto l'ampio cerchio antico del «prossimo» e che chiamiamo «uomini». Ma questa riduzione non ha fatto ancora uscire dalla semplice fede, dalla semplice volontà che certi eventi siano il «prossimo».
L'esistenza stessa della vita altrui è un grande arcano e oggi, dimenticando tutto questo, si discute con convinzione per stabilire quando la vita altrui incominci e quando finisca! Di più: si ritiene che non ci sia niente, o più niente, da dire intorno al significato dell'«incominciare» e del «finire», e a questo punto l'inadeguatezza della riflessione tocca il fondo. Dalla quale non sanno liberarsi né scienza, o cristianesimo e altre forme religiose, né arte e filosofia. Si discute con convinzione per stabilire il momento dell'inizio e della fine di qualcosa — il «prossimo» e «io» stesso in quanto mi sento legato ad esso dalle radici — che potrebbe non esserci affatto. Si può replicare dicendo che la cosa non è poi così scandalosa, giacché è lecito e tutt'altro che insensato discutere sull'inizio e la fine di qualcosa la cui esistenza è probabile; e che anzi è insensato ritenere che alle nostre certezze possa competere qualcosa di più della probabilità più o meno elevata, cioè quel di più che sarebbe la loro «verità assoluta e definitiva». Un «sogno finito»; svegliamoci. Ma — rispondiamo — è davvero finito? Sì, dato il modo in cui ci si è addormentati. No, se si riesce a scorgere che c'è dell'altro, che da sempre circonda quel sogno e quel risveglio e che è libero da entrambi.
È stato comunque, quel sogno, grandioso: il sogno della «ragione». Se lo si dimentica, il risveglio è ben poca cosa, è un altro sogno. Il sogno della ragione evoca un sapere che stia al di sopra di ogni fede e di ogni volontà, un sapere che affermi che le cose stanno in un certo modo non perché si vuole e si ha fede che così stiano, ma perché esse stanno incontrovertibilmente così. «Il morire tra ragione e fede» è appunto il tema del Convegno che si terrà in questi giorni all'Università di Padova. Ma ci si vorrà accontentare del discorso (il discorso della scienza, di cui oggi la Chiesa si fida, ossia in cui oggi ha fede) per il quale è «probabile» che l'«uomo» esista, è «probabile» che la sua vita incominci in un certo momento e in un cert'altro finisca?
Si dice che «ognuno di noi» sperimenta la morte del prossimo, non la propria. Ma poiché l'esistenza stessa del prossimo non è sperimentata, del prossimo non si può sperimentare nemmeno la morte (o la nascita). Si sperimenta il sopraggiungere di configurazioni via via diverse di ciò che chiamiamo «il corpo altrui», sino a quella, angosciante, che chiamiamo «cadavere» (e poi altre ancora, come gli scheletri e le ossa, che le feste e i riti arcaici mostrano di considerare ancora come «prossimo»).
Configurazioni via via diverse e, certo, sempre più terribili. Che tuttavia non mostrano quanto è più terribile e angosciante: l'annientamento delle precedenti configurazioni del corpo altrui. Il cadavere mostra sì qualcosa di orrendamente diverso dalla vita da cui è preceduto, ma non mostra l'annientamento di questa vita. Gli uomini hanno imparato che, quando il cadavere compare sulla scena, la vita da cui è preceduto non ha più fatto ritorno, e hanno pensato che questo mancato ritorno sia l'«annientamento » della vita. Non appare, non si fa esperienza dell'annientamento della «beltà» di Silvia («Quel tempo della tua vita mortale, / quando beltà splendea / negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi »), ma appare, dopo le configurazioni del tempo dello splendore di Silvia, il suo «chiuso morbo» e il suo cadavere.
E l'annientamento non può apparire, perché quando si crede che le cose si annientino è necessario che si creda anche che non se ne possa più fare esperienza, ed è quindi impossibile che l'esperienza mostri a quale destino siano andate incontro le cose che da essa sono uscite. Appunto per questo ogni vita e ogni cosa che dopo il proprio calvario esce dall'esperienza «può» ritornare. Se qui si potesse spingere fino in fondo il discorso, si dovrebbe dire anzi che «è necessario » che ritorni.
Sia la ragione, sia la fede (e innanzitutto la fede cristiana e delle altre due religioni monoteistiche) credono che l'annientamento delle cose e dei viventi (e il loro uscire dal niente) costituisca quanto di più «evidente» vi sia, di più manifesto, di più esperibile. Ma alterano ciò che si manifesta, gettano sul suo volto la maschera della morte-che-annienta, l'autentico «pungiglione della morte». La resurrezione dei corpi e della carne, annunciata dal cristianesimo, è certo un tratto della maschera: per risorgere, la carne deve essere diventata niente. La resurrezione è figlia legittima del pungiglione mortale. Eppure, sebbene profondamente sviante, quell'annuncio è una metafora del destino di ciò che, uscendo dalla manifestazione delle cose del mondo, non è diventato niente, ma, eterno, attende di ritornare, nella sua gloria.

All'università di Padova
Confronto tra il filosofo e il patriarca di Venezia

Si apre oggi, alle 9.15, all'Università di Padova, nella sala dell'Archivio antico di Palazzo Bo, il convegno internazionale «Il morire tra ragione e fede: universi che orientano le pratiche di aiuto». I lavori iniziano con un dibattito, moderato da Armando Torno, tra il cardinale Angelo Scola (Patriarca di Venezia) e il filosofo Emanuele Severino (del quale pubblichiamo in anteprima alcune considerazioni sull'argomento). L'iniziativa è nata da un accordo tra il rettore dell'Università Vincenzo Milanesi, il sindaco Flavio Zanonato e il preside della Facoltà Teologica del Triveneto Andrea Toniolo. La direzione scientifica si deve a Ines Testoni, con il concorso delle Facoltà di Scienze della Formazione, di Medicina e Chirurgia, del Dipartimento di Psicologia Generale.
Tra i relatori: Enrico Berti, Dora Capozza, Antonio Da Re, David Spiegel, Michael Barilan. Tra i patrocinatori figura la «World Cultural Psychiatry Research Review».

giovedì 19 marzo 2009

l'Unità 19.3.09
100 le piazze Flc-Cgil sulla Conoscenza: docenti, ricercatori, precari, collaboratori scolastici
Epifani: «L’istruzione deve tornare al centro della politica». Ma la Gelmini sceglie Mediolanum
«Per una scuola di qualità». Riparte la protesta in Italia
di Maristella Iervasi


Sciopero della Conoscenza: in migliaia nelle 100 piazze della Flc-Cgil. E la Gelmini si «blinda» a Mediolanum Corporate University. Epifani: «Contro le scelte del governo per una scuola di qualità».

Alessandra dal palco della Flc-Cigl di piazza Sant’Apostoli a Roma ha cercato il dialogo con la Gelmini maestra unica. Ha spiegato che alle elementari nelle ore di compresenza che il ministro dell’Istruzione considera spreco - «con le mie colleghe svolgiamo attività di recupero per i bambini che ne hanno bisogno. Altre volte, grazie alle compresenze - ha precisato -, riusciamo a fare attività di rinforzo linguistico con i bambini stranieri. E sempre nelle ore di compresenza ci capita addirittura di riuscire a far recuperare le lezioni agli alunni assenti per malattia». Ma la Gelmini l’accorato appello della maestra di Acilia non l’ha voluto sentire: ha preferito mettersi al riparo dalle 100 piazze d’Italia del sindacato di Guglielmo Epifani. Ha scelto l’inaugurazione di Mediolanum Corporate University di Basiglio (Milano 3) per manager finanziari. Altro che scuola pubblica.
Palloncini colorati come il 30 ottobre scorso. Il santino della «Beata Ignoranza» stampato su magliette e adesivi. Slogan e calcoli più che espliciti: «Più tagli, meno precari, meno ricerca. Uguale zero futuro». Già, perchè allo sciopero della Conoscenza c’erano anche loro: i ricercatori degli enti di ricerca, come Luigi Improta, sismologo presso l’Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv) che nonostante presenti lavori ai congressi internazionali e reperisce fondi per progetti è un precario a tempo, come altri 400 colleghi. Esattamente com’è la «vita» di di Francesca Assennato, ingegnere ambientale all’Ispra, in scadenza.
Il balletto dei numeri Dal Nord al Sud il trio Tremonti-Gelmini-Brunetta ha tenuto banco. Ogni piazza della Flc-Cgil è stata riempita. Nessun corteo disertato. Sulla carta ha aderito anche il Gilda degli insegnanti, ma sui blog sono in molti a scrivere: «Chi ha visto Rino Di Meglio? Nella mia città non c’era...». Secondo il ministero di Viale Trastere, l’operazione «cattedre deserte» non è andata a buon fine: «lo sciopero nella scuola - si legge in un comunicato su un dato parziale - registra l’9,56% delle adesioni». Eppure sono state molti gli istituti scolastici in sofferenza per le assenze per sciopero di docenti, personale amministrativo e collaboratori scolastici. Per la Flc-Cgil l’adesione allo sciopero è stata del 45% con punte del 60/70% nella scuola di base. A Bologna è stata chiusa la facoltà di Scienze della formazione. Idem ad Ancona per l’istuto musicale «Pergolesi». E ad Urbino c’è stata la «serrata» dell’Accademia delle Belle Arti.
Scuola al centro della politica
Epifani l’ha detto da Palermo. «Mi sembra che oggi si discuta di cose che non sono il cuore del problema, come il grembiulino o il 5 in condotta», ha precisato il leader della Cgil. «La nostra scuola ha tante magagne, va sicuramente riformata ma non cancellata. Senza formazione di qualità e il contrasto alla dispersione scolastica perderemo molte battaglie. In primo luogo quella della legalità. Sono troppe le cose che non vanno nella scuola - ha osservato Epifani -, a partire dalla riduzione degli spazi formativi, meno tempo per stare in aula, la riduzione delle risorse e il grande problema dei precari. È una emergenza molto importante che con la crisi andrebbe affrontata diversamente». Ecco spiegato il perchè dello sciopero: protestare contro le scelte del governo per «rivendicare una scuola di qualità».

Repubblica19.3.09
Tempo pieno, è boom di richieste ma non ci sono diecimila maestri
Nelle iscrizioni alle elementari ci sono 82 mila domande in più per le 40 ore settimanali
Invece d'aumentare gli organici il piano prevede una riduzione di dodicimila unità
di Salvo Intravaia


ROMA - Boom di richieste per il tempo peno alla scuola elementare ma quasi certamente mamme e papà resteranno delusi. Per soddisfare chi ha chiesto al ministero di far rimanere i figli a scuola anche nel pomeriggio occorrerebbero quasi 10 mila cattedre in più rispetto all´anno in corso ma il governo si appresta a tagliarne quasi 12 mila. Il maggior numero di istanze di tempo pieno provengono dalle regioni meridionali, dove questo servizio è ridotto al minimo.
E dire che lo scorso mese di ottobre sulle iscrizioni a scuola si era sbilanciato lo stesso capo del governo. «Il tempo pieno nella scuola italiana - spiegava da Bruxelles il presidente del consiglio Silvio Berlusconi - verrà confermato dove c´era e incrementato di circa il 50 o 60 per cento perché ci saranno più insegnanti a disposizione, dopo la decisione del governo di tornare al maestro unico: è importante reagire al sentimento di incertezza che hanno alcune madri e alcuni genitori sulla scuola».
Dai monitoraggi sulle iscrizioni delle scorse settimane si sta passando ai numeri reali. Gli istituti hanno ormai terminato di caricare nel cervellone del ministero i dati sulle iscrizioni alla scuola elementare per il prossimo anno scolastico e non mancano le sorprese: la richiesta di tempo pieno (40 ore settimanali, comprensive di mensa) alla primaria non è mai stata così forte. Sono quasi 82 mila in più, il 12 per cento, le famiglie italiane che vorrebbero fruire da settembre della scuola pubblica fino alle 16. Gli Uffici scolastici provinciali hanno chiesto di poter formare quasi 40 mila classi, ma per farlo occorrono gli insegnanti.
Il boom delle richieste si è verificato nelle prime classi, dove era possibile scegliere il maestro unico di riferimento con 24 ore settimanali, il sistema "stellare" (un insegnante che lavora 22 ore a settimana e altri docenti che completano l´orario con inglese e religione) a 27 e 30 ore o il tempo pieno a 40 ore. Secondo le richieste dei genitori, il prossimo anno bisognerebbe attivare oltre 10 mila prime classi a tempo pieno, con un incremento del 47 per cento rispetto a quest´anno. Oltre 3.200 in più, la maggior parte delle quali dovrebbe andare al Sud. Proprio nelle regioni meridionali il tempo pieno, a causa delle carenze strutturali e della cronica mancanza di refettori, è un miraggio. Se infatti al Nord e al Centro una classe su tre rimane piena anche nel pomeriggio, al Sud la situazione riguarda appena otto classi su 100.
E le richieste di classi a 24, 27 o 30 ore? Dovranno passare diversi mesi prima che i tecnici ministeriali possano venire in possesso delle effettive richieste di mamme e papà. Nel predisporre il monitoraggio sulle iscrizioni, i tecnici ministeriali hanno dimenticato di chiedere alla società che gestisce il sistema informativo l´adeguamento del programma alle nuove esigenze e gli unici dati richiesti alle scuole riguardano appunto il tempo pieno e il tempo normale, senza distinzione tra 24, 27 e 30 ore.

Corriere della Sera 19.3.09
Sapienza, corteo vietato Carica sugli studenti
Sei contusi. «Volevamo aderire allo sciopero Cgil»
di Paolo Brogi


La carica
Gli studenti dell'Onda vengono caricati dalla polizia mentre tentano di uscire dai cancelli della Sapienza per partecipare al corteo organizzato dalla Cgil. Le nuove norme varate dal prefetto limitano le manifestazioni

La manifestazione impedita dalla nuova regolamentazione varata dalla prefettura di Roma
ROMA — Hanno provato a fare come in Francia, lanciando pantofole sulle forze dell'ordine che li caricavano. Trenta paia di De Fonseca multicolori, da 3 euro, comprate dagli studenti dell'Onda con una colletta il giorno prima. Poi però alla terza carica, nel corso dell'ultimo tentativo di uscire dalla Sapienza interamente bloccata ieri da un grosso dispositivo di polizia, i 400 manifestanti hanno aggiunto sassi e pezzi d'asfalto. Niente da fare. Il corteo previsto per partecipare allo sciopero della Cgil è rimasto bloccato dentro l'ateneo. A impedirlo la nuova regolamentazione sulle manifestazioni a Roma appena varata dalla prefettura. Sei gli studenti alla fine contusi, due di loro ricorsi alle cure ospedaliere: Gianni di Lettere sottoposto a Tac per una lieve commozione cerebrale, Luca di Scienze politiche con un braccio ingessato e 25 giorni di prognosi.
Il rettore dell'ateneo Luigi Frati commenta: «Ci sono disposizioni, non si può fare come si vuole». Critica la Cgil di Roma che ha denunciato «un uso improprio del protocollo sui cortei, nato per regolamentarli e non per impedirli ». Gli studenti volevano disubbidire alle nuove disposizioni appena varate dal prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro, col consenso di un ampio arco di partiti e sindacati, per regolamentare le manifestazioni in città. Tra i sei luoghi permessi per i cortei non figura però la Sapienza. «L'Onda manifesta come vuole», così era stata convocata sul piazzale della Minerva alle 9.30 la manifestazione per raggiungere il ministero dell'Economia in via XX Settembre. Un modo con cui gli studenti dell'Onda pensavano di partecipare alla giornata di sciopero indetta dalla Cgil sulla scuola.
«Siamo usciti sul piazzale Aldo Moro alzando le mani di fronte a polizia e carabinieri racconta un manifestante -. Senza preavviso ci hanno caricato ». Emanuele, uno dei contusi, aggiunge: «Mi sono ritrovato per terra e mi hanno menato in quattro, col manganello girato dalla parte rigida...». Poi la stessa scena si è ripetuta anche ai varchi di via de Lollis e di viale Regina Elena. Più tardi è stata la vecchia Aula Uno di Lettere a registrare in un paio di assemblee la requisitoria contro le nuove disposizioni e a lanciare un nuovo appuntamento.
«Ci rivediamo il 28 marzo...». Ammaccati, ma decisi a manifestare. Ieri non ci sono riusciti, ci riproveranno a fine mese per la manifestazione sul G14 indetta da Cobas, Rdb e Sdl su lavoro e welfare.
«La Questura ci vorrebbe fare cambiare percorso - ha rivelato Piero Bernocchi dei Cobas -. Ma la nostra manifestazione resta da piazza della Repubblica a piazza Navona». Molte le critiche alla Cgil che come hanno ricordato polemicamente i Cobas ha controfirmato le misure: «La Cgil è il principale sponsor dell'accordo, il suo comunicato di solidarietà con gli studenti è una presa in giro».
«Pacta sunt servanda, ho firmato il protocollo - ha ricordato Gianni Sammarco, commissario di Forza Italia a Roma -. Se dopo solo otto giorni fosse stato consentito a qualche centinaio di persone di violare le regole sarebbe già carta straccia ». Il sindaco Gianni Alemanno ha rivolto un invito alla calma e «a disarmare qualsiasi tendenza alla violenza politica ». Aggiungendo poi: «Non possiamo ricominciare con cortei di due o trecento persone che si muovono per la città». Seccato il rettore Frati: «È stato comunque antipatico per chi voleva uscire a piedi o in auto dall'ateneo. Per un po' di tempo non si poteva transitare».

Repubblica 19.3.09
Allarme degli psicoanalisti sul money disorder E in Italia una linea telefonica contro il disagio
Ansia, paura e nevrosi ammalati di recessione
Quando la paura avanza anche chi può permetterselo smette di comprare e consumare
d Elena Polidori


Neurocrisi. Uomini e donne sull´orlo di una crisi di nervi, vittime della paura da recessione che non solo paralizza i consumi, frena gli investimenti ma adesso investe la psiche e influenza i comportamenti. Allarme globale degli psicoanalisti di fronte alle ansie da licenziamenti, sobbalzi di Borsa, crolli del Pil, profezie dei «guru», crac e salvataggi dei governi.
Negli States, epicentro delle turbolenze, si chiama «money disorder» il malessere della crisi, collasso emotivo da denaro che sfugge, si volatilizza, portandosi appresso i sogni dei più deboli. Chi ne è colpito soffre di mal di testa, nausea, insonnia, depressione. Talvolta si tuffa nel cibo. Oppure annega l´ansia nell´alcool. Comunque, si fa del male. L´associazione psicologi americani, in un sondaggio, scopre che il denaro e la salute economica sono al top delle fonti di stress per l´80% dei cittadini Usa. Per difendersi, raccomanda di non rintanarsi in casa, imparare qualcosa di nuovo e non farsi prendere dal panico.
In Italia, l´ordine degli psicologi lombardi, su iniziativa del presidente Enrico Molinari, docente alla Cattolica, ha attivato una linea telefonica speciale per lenire il «disagio da crisi». «E´ rivolto a chi già ne soffre, ma anche a chi ha paura della paura», spiega. «E´ uno studio virtuale». E insieme «un presidio» voluto per curare i contraccolpi interiori della grande tempesta economico-finanziaria che tanto agita gli animi di tutti. E a maggior ragione di chi (per superbia, avidità, furbizia, stoltezza,) si è lanciato sull´arena dei mercati e ora soffre per una débacle azionaria che procede a strattoni, ma dura da mesi. Oppure di chi, un brutto giorno, si scopre in mezzo a una strada o a riposo forzato, senza più riferimenti, dunque «spaesato». «E allora, conviene fermarsi a riflettere», consiglia Enrico Maria Cervellati, professore di finanza comportamentale a Bologna. Senza questa «pausa» salutare, c´è il pericolo di incappare in un «morbo» che spinge chi ne è afflitto a rischiare di più, nell´illusione di recuperare ciò che ha già perso. Un po´ come avviene al Casinò.
Quando questo accade, secondo Matteo Motterlini, professore di economia cognitiva e neuroeconomia all´Università San Raffaele, «si attivano aree del cervello deputate a intercettare emozioni negative». E sono sofferenze, anche fisiche. Ci si difende soltanto «conoscendo noi stessi e le nostre trappole mentali». Spiega: ansia, paura e panico seguono «processi cerebrali precisi che determinano le nostre decisioni». Nei momenti di crisi, «siamo in balia delle nostre emozioni, ci allontaniamo dall´agire razionale».
Paura di perdere e insieme di «mostrarsi benestante», immune dalla crisi. Cervellati è arrivato alla conclusione che questi soggetti, rari per la verità, «si vergognano» del loro stato; non investono e non consumano come chi non può permetterselo. Nella sua analisi, in tempi di vacche magre, s´attivano per ciascuno dei «conti mentali» automatici. «E´ come se mettessimo in tante piccole scatoline cerebrali, tutte ben separate, i soldi che abbiamo: si spendono solo quelli che ci fanno essere in pace con noi stessi, ciascuno secondo le proprie esigenze».
Le neurocrisi aumentano, via via che la recessione si traduce in licenziamenti, cassa integrazione. Scatta allora la paura di non riuscire più a provvedere alla famiglia, con vere e proprie «crisi d´identità». Molinari ha già notato «sfasamenti nel paterno» che «in genere si realizza attraverso la trasmissione di un ruolo, di un modello, come quello lavorativo». Dunque: «Come giustificarsi con i figli che vanno a scuola quando sei costretto a restare a casa? Ti manca il terreno sotto i piedi». Sobbalzi pericolosi anche per il «materno», pur avendo le donne «un´ancora di salvezza nella funzione primaria che consiste nell´accudire i figli». Non solo: possono «scoppiare» le coppie, che la recessione rende più traballanti. Perfino i media finiscono per «amplificare» le paure, con conseguenti «paralisi comportamentali».
La psicologia della crisi, per forza di cose, è fatta anche di numeri: sulle «percezioni» e sulle «aspettative». Per esempio, da un sondaggio Demos-Coop: gli italiani si sentono più poveri e 4 su 10 riducono i consumi. Oppure, sondaggio Censis-Confcommercio: sotto schiaffo, il 52% delle famiglie fissa proprie «soglie di sicurezza» in denaro. «Don´t panic» consiglia il Censis nel suo osservatorio sulla crisi definita per il momento «a mosaico». Sul versante delle «aspettative», s´intravede per la prima volta un «rallentamento nella velocità di peggioramento» della recessione, annunciato dal governatore Mario Draghi al G8. Questa flebile lucetta in fondo al tunnel è in un «indice» sullo stato d´animo dei manager denominato «Pmi», caro alle autorità monetarie Ue: pur restando sotto quota 50, che in gergo significa recessione, migliora ovunque. Nel caso dell´Italia è ora a 41,1, ma a dicembre era a 40,3, a novembre a 39.5. Sarà confermato? Così, mentre perfino sul sito Fmi arrivano lettere sulla «psicosi» da crisi, l´economia diventa emotiva, la recessione sposta il pendolo delle insicurezze. E, in attesa di tempi migliori, a ciascuno resta il proprio intimo «money disorder».

Repubblica 19.3.09
Intervento a sorpresa del presidente del consiglio dei beni culturali
"Mi oppongo al piano-casa, è uno scempio"
L'altolà di Carandini
di Carlo Alberto Bucci


Dal successore di Settis un "no" all´impoverimento del paesaggio
"Un intervento che rischia di far nascere nuove rughe sul volto già usurato dell´Italia"
Contrarietà davanti all´idea di "prestare" i Bronzi di Riace al G8 in Sardegna
Accordo invece per Bertolaso Commissario dell´area romana

«Il piano-casa è un allarme per il Paese». Andrea Carandini veste i panni dell´urbanista e boccia il progetto del governo Berlusconi. Seduto in pizzo alla poltrona alla quale ammette «di non essere affatto legato», tanto da «non vedere l´ora di tornare ai miei studi», il vecchio archeologo, neo presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali, ieri ha fatto un discorso di insediamento che lo mette immediatamente in bilico sullo scranno che Salvatore Settis ha lasciato in polemica con il ministro Sandro Bondi. Il sì convinto dell´allievo di Ranuccio Bianchi Bandinelli alla proposta arrivata con una telefonata di Bondi «mentre ero in ascensore», appare infatti appannato dal "piano-casa". «L´intervento, per quanto si intravede - ha detto Carandini, aspettando di leggere la proposta nella sua forma definitiva ai primi di aprile - allarma, nel suo disordinato pointillisme, che rischia di portare nuove rughe al volto già usurato del nostro paesaggio rurale e urbano».
La "puntiforme" estensione dei condoni «viene ad aggiungersi al grande ciclo espansivo dell´edilizia dell´ultimo decennio che ha interessato soprattutto la "città diffusa"». Un pericolo incombe sull´Italia: «È ragionevole temere che venga ulteriormente impoverita la sostanza paesaggistica che potremo offrire a coloro che verranno a visitare il nostro Paese». Per Carandini «bisogna completare al più presto i piani paesaggistici». E in attesa che questi vengano messi a punto (potrebbero servire anche due o tre anni, ipotizza con una buona dose di ottimismo) «non resta che regolamentare l´attività edilizia, caso per caso attraverso le norme del Codice dei beni culturali, ricordando però che la potestà del ministero sull´autorizzazione paesaggistica, secondo la norma transitoria, ben presto si esaurisce: passati i sessanta giorni dal ricevimento del progetto, e il personale tecnico disponibile è scarso».
Davanti al ministro dei Beni culturali (dicastero «con problemi di sopravvivenza», sottolineata la penuria di fondi e personale) e ai consiglieri vecchi e nuovi (i professori Elena Francesca Ghedini, Emanuele Angelo Greco e Marco Romano, nominati al posto dei cattedratici dimissionari Andrea Emiliani, Andreina Ricci e Cesare De Seta), l´archeologo dell´Università la Sapienza ha anche, innanzitutto, sottoscritto le novità portate al Collegio romano dal ministro che starebbe pensando di tornare a occuparsi del suo partito (Forza Italia): ossia nomina di un commissario speciale, il capo della protezione civile Guido Bertolaso, per l´area archeologica di Roma, e quella di un super manager, l´ex leader di MacDonald, Italia Mario Resca, per la valorizzazione dei musei italiani. Ma, in conclusione del suo intervento, Carandini ha posto l´accento sull´ultima parola che dà corpo al Consiglio superiore dei beni culturali e paesaggistici. Il paesaggio, appunto. Per l´autore di Archeologia classica (Einaudi), dal "piano-casa" vanno esclusi: «Le aree ad alto grado di tutela o a tutela integrale previste nei pochi piani paesaggistici già adottati o approvati, i beni immobili di interesse culturale sottoposti a disposizioni di tutela del codice e le zone perimetrate come "centro storico" e "città storica" dagli strumenti urbanistici vigenti».
Il ministro Bondi ha approvato la relazione definendola «un perfetto affresco sul patrimonio culturale italiano» e ha ringraziato Carandini «per lo stimolante discorso e le utili indicazioni di lavoro». Molto apprezzata soprattutto l´analisi «sul rapporto Beni Culturali-Stato-Regioni». E già, perché Carandini ha brindato all´accordo di programma tra Bondi e Bassolino in tema di gestione delle bellezze della Campania. E ha detto che «il modello, completato per l´aspetto universitario potrebbe essere esteso, gradualmente, anche alle altre Regioni, nel quadro di una prospettiva nazionale».
Anche uno stop alle mire espositive del governo c´è nella relazione del vecchio archeologo. Che prima s´è trincerato dietro un «non è di nostra competenza» alla domanda se sarebbe d´accordo a prestare i Bronzi di Riace per il G8 in Sardegna. Ma poi, ribadendo che i prestiti si possono concedere solo per rassegne di alto contenuto culturale e scientifico, ha ammesso: «Sono contrario all´esposizione dei feticci, dirò sempre no alle mostre delle belle statuine».

Repubblica 19.3.09
L'urbanista Cervellati
L'obbrobrio chiamato "villettopoli"
di Leopoldo Fabiani


«Ha fatto benissimo Andrea Carandini a condannare il progetto del governo. Tutte le persone di cultura dovrebbero mobilitarsi contro una legge che si risolverà in un´ulteriore devastazione del nostro territorio». Pierluigi Cervellati, urbanista, docente a Venezia, autore di diversi piani regolatori, si oppone ferocemente al "piano casa" del governo Berlusconi.
Professore, non ci vede almeno un tentativo di rivitalizzare l´economia?
«Nemmeno un po´. È un condono edilizio "preventivo e gratuito". Almeno quelli degli anni ´90, comunque micidiali nei loro effetti, prevedevano una sanzione economica. Tra i costi di un´operazione del genere non si può ignorare l´impoverimento del territorio e del paesaggio, bene primario per il nostro paese».
Qual è l´aspetto più criticabile?
«L´assenza totale di qualsiasi programmazione pubblica, la privatizzazione del bene comune, la crescita senza limiti di quell´obbrobrio che chiamo "villettopoli"».
Non le piacciono le villette?
«Andrebbero proibite per legge, anzi dovrebbero essere demolite. Sono uno degli elementi che più contribuiscono al degrado edilizio del nostro paese».
Ma non esiste un problema abitativo in Italia?
«Abbiamo un numero di case esagerato, e allo stesso tempo troppe persone (specie i giovani) che non dispongono di un´abitazione. Perché abbiamo il mito della casa di proprietà, e mancano gli alloggi pubblici da dare in affitto a chi non si può permettere di pagare un mutuo. La cosa che più mi indigna è che tutti saranno favorevoli a questi ampliamenti del 20% previsti dalla legge, perché le loro proprietà aumenteranno di valore. Alla fine il risultato è che in Italia abbiamo case sempre più belle, ma delle città e un territorio che fanno schifo».

i deputati "ribelli" della Mussolini
Corriere della Sera 19.3.09
Un gesto di ostilità contro l'ipoteca della cultura leghista
di Massimo Franco


Può esserci l'intento strumentale. E di certo, una dissidenza di cento parlamentari del Pdl a pochi giorni dalla nascita del partito unico è un elemento di oggettivo imbarazzo. Ma forse bisognerebbe chiedersi perché ha successo la lettera che contesta la legge sulla sicurezza, con l'obbligo per medici ed insegnanti di denunciare gli immigrati clandestini. Il vertice considera l'iniziativa un tentativo di complicare l'unificazione FI-An, che verrà perfezionata fra il 27 ed il 29 marzo. E insinua che possa essere ispirato da un Gianfranco Fini scontento. Comunque sia, la protesta appare un gesto esplicito di ostilità culturale contro la Lega. È come se alcuni settori si ribellassero a provvedimenti che considerano il sigillo del primato lumbard
sulla maggioranza. E chiedessero a Silvio Berlusconi di non accettare leggi ingombranti per un Pdl in procinto di entrare nel Ppe. La Lega ed alcuni berlusconiani parlano di «manovre interne» per complicare i rapporti fra alleati di governo. E notano maliziosamente che le firme sono per due terzi di An, e solo per un terzo di FI.
Al punto che Fini è costretto a precisare di essersi dichiarato contrario solo alla denuncia alla quale sarebbero tenuti i medici che curano i clandestini: un modo per smentire la regìa di un documento che legittima le critiche del Pd. Ma è evidente che l'obiettivo principale è di dissociarsi da una legislazione di marca leghista; di abbozzare un profilo più garantista sull' immigrazione. Il malumore è alimentato dalla competizione con la Lega in molte regioni del Nord; e dalla sensazione che Umberto Bossi riesca ad ottenere quasi tutto da palazzo Chigi.
Non solo. L'attacco dei cento parlamentari appare anche come un segnale di scontento per il dialogo fra Lega ed opposizione sul federalismo fiscale: il cuore della strategia di Bossi. Palazzo Chigi tende a ridimensionare il caso. La tesi è che alcuni firmatari non conoscessero il contenuto della lettera. Il leader del Carroccio è certo che «il provvedimento sulla sicurezza resterà uguale a come è stato approvato al Senato». A sentir lui, si sta dando troppa importanza ad una contestazione ingigantita in modo strumentale.
Nella sua analisi pesa probabilmente la certezza che Berlusconi non possa né voglia tornare indietro. Significherebbe litigare con la Lega; e rimettere sotto osservazione quel «rapporto splendido » che giura di avere con Fini. E poi, la campagna per le europee è cominciata. Berlusconi parla di un Pdl al 42,2 per cento. Ed annuncia una procedura-lampo per entrare dentro un Ppe che conta molto sugli italiani per dominare nel Parlamento di Strasburgo. Una fronda anti-Lega in questa fase sarebbe un inciampo indesiderato.

Corriere della Sera 19.3.09
Testamento biologico
La libertà del paziente
di Luigi Manconi e Marco Cappato


Caro direttore, tutti i sondaggi finora realizzati dicono che la maggioranza degli italiani è favorevole all'istituzione del Testamento biologico, che renda effettivo il consenso informato e tuteli il fondamentale diritto all'autodeterminazione del paziente. Da qui l'esigenza di una legge sulle dichiarazioni anticipate di volontà con le quali il cittadino, fino a quando è capace di intendere e di volere, possa comunicare le proprie decisioni in merito ai futuri trattamenti sanitari.
Come si sa, la questione è oggetto di una intensa controversia di natura culturale e morale, giuridica e politica: e gli attuali rapporti di forza parlamentari fanno temere una normativa, quale quella voluta dalla maggioranza di governo, modellata su una concezione illiberale e autoritaria.
Da qui la decisione delle associazioni Luca Coscioni e A Buon Diritto di promuovere una iniziativa che consenta, a quanti lo vogliano, di far conoscere la propria opinione, oltre i vincoli restrittivi e coercitivi che la legge del centrodestra prevede (per esempio, negando la possibilità di decidere su nutrizione e idratazione forzate). Abbiamo redatto, così, una Carta di vita, un Testamento biologico nel significato proprio della parola, un documento ispirato ad analoghe proposte elaborate in questi anni e, in altri paesi, già trascritte in legge. La nostra Carta di vita si presenta come un modulo diviso in sezioni, che prevede in primo luogo l'indicazione di un fiduciario, chiamato a vigilare affinché le nostre volontà siano rispettate e in grado di integrarle e aggiornarle, quando lo richiedano i progressi delle scienze biomediche. Quella Carta prevede un percorso flessibile, tale da consentire o indicazioni molto dettagliate o più semplicemente un orientamento generale, affidato alla persona di fiducia nel suo rapporto con il medico curante e con i familiari del paziente. La Carta di vita è stata pubblicata integralmente da due giornali di media tiratura. Altri quotidiani (tra i quali, il Corriere)
hanno parlato dell'iniziativa. Con questa limitata pubblicizzazione, in pochi giorni, oltre duemilacinquecento persone hanno risposto positivamente.
Ovvero hanno ritagliato il modulo o lo hanno scaricato dai nostri siti Internet (lucacoscioni.it e abuondiritto.it), lo hanno compilato, lo hanno sottoscritto, lo hanno infilato in una busta e inviato ai nostri recapiti. Si tratta, crediamo, di un segnale estremamente indicativo. Si dirà: ma cosa sono alcune migliaia di persone in rapporto alla popolazione nazionale? La questione è mal posta.
Provate a lanciare un'altra iniziativa, anche sul più popolare dei temi (ad esempio, la corruzione dei politici) e vi accorgerete che la reattività è assai minore, tanto più se implica un'azione diretta, anche elementare come inviare una lettera. Dunque, il successo della nostra proposta è un ulteriore segnale di quanto il tema sia sentito: e proprio perché esso rimanda alla questione cruciale della tutela dell'autodeterminazione del paziente.
Questione che il disegno di legge della maggioranza di governo non sembra tenere in alcun conto: non solo a proposito di nutrizione e idratazione artificiali, ma per quanto riguarda il carattere vincolante per il personale medico delle decisioni assunte dal paziente. Ora si tratta di far «pesare» la volontà espressa da queste migliaia di persone, e dalle tantissime altre che hanno aderito a iniziative simili, laddove si assumono le decisioni pubbliche. E' quanto faremo nei prossimi giorni. Fino a prevedere azioni in sede giudiziaria, a tutela dei diritti soggettivi della persona.

Corriere della Sera 19.3.09
Raccolte dal giornalista Nino Luca le segnalazioni inviate al Corriere.it sull'università italiana
Parenti in cattedra, atenei da vergogna
Favoritismi, corruzione, concorsi truccati: è l'ultimo scandalo
di Gian Antonio Stella


Se in vita vostra avete solo collaborato a un lavoro «scientifico» di una pagina (una!) scritto con altre cinque persone e presentato a un convegno ma mai pubblicato su una rivista internazionale, non disperate: potete sempre vincere un concorso universitario. Basta esser nati sotto la giusta congiunzione astrale. Come successe al «professor » Giovanni Lanteri. Che vinse appunto un posto da «associato» all'Università di Messina presentando 2 pubblicazioni. La prima («Studio preliminare sull'espressione immunoistochimica dell'Eritropoietina... ») fu subito scartata dagli stessi commissari: «Non venga presa in considerazione ai fini della presente valutazione ». La seconda («A new outbreak of photobacteriosis in Sicily») è finita nel fascicolo dell'inchiesta giudiziaria col giudizio del Ministero dell'Università consultato dai magi-strati: «Priva di rigore metodologico. Non è possibile individuare il singolo apporto di ciascuno dei sei autori».
L'episodio, sconcertante, è uno dei tantissimi raccolti da Nino Luca, un collega del «Corriere.it», in un libro appena uscito da Marsilio: Parentopoli. Quando l'università è affare di famiglia. Un reportage durissimo e spassoso su uno degli aspetti più controversi dell'università, quello dei concorsi sospetti. Che troppo spesso finiscono col consegnare la cattedra a mogli, figli, cognati, amici e amici degli amici.
Immaginiamo già l'obiezione: non ci son solo i baroni e le clientele e le apocalittiche classifiche internazionali! Giusto. È vero che la situazione «cambia drasticamente se si concentra l'analisi sulle singole aree disciplinari» (come ricorda Domenico Marinucci, direttore del Dipartimento diMatematica di Tor Vergata, 19˚ in Europa tra le eccellenze del settore e meno afflitto dalla cronica povertà di docenti stranieri), vero che nelle «hit parade» avulse la «Normale » è stabilmente nelle prime venti al mondo, vero che tanti ragazzi usciti dai nostri atenei vanno alla conquista del mondo.
Il reportage di Nino Luca, però, proprio per l'abbondanza di episodi così incredibili da risultare irresistibilmente comici, mette spavento.
A partire dalla disinvolta e allegra spudoratezza con cui tanti rettori irridono alle perplessità di chi non riesce a capacitarsi di come, ad esempio, possano essere circondati da tanti parenti.
Come Gennaro Ferrara, da 22 anni alla guida della Parthenope di Napoli: «Ma lei vuole fare un articolo serio o un articolo scherzoso? No, perché se lei vuole fare un articolo scherzoso, io ci sto». Come mai ha portato con sé all'università la seconda moglie, il di lei fratello, la figlia e i mariti delle due figlie? La risposta: «Se trattiamo “parentopoli” in termini scandalistici non va bene». Poveri figli, poi...«Devono dimostrare ogni giorno di valere...». Alcuni casi raccontati sono noti, come quello d'una torinese bocciata a un concorso che mesi fa si sfogò con «La Stampa» d'esser stata trombata, scusate il bisticcio, perché non aveva «più voluto compiacere sessualmente» il direttore della scuola di specializzazione. O quello della famiglia Massari che «porta l'Università di Bari nel Guinness dei primati» grazie al piazzamento nei dintorni della facoltà di economia di otto-Massari-otto: Antonella, Fabrizio, Francesco Saverio, Gian Siro, Gilberto, Lanfranco, Manuela e Stefania. O quello del preside di Medicina e rettore della «Sapienza» Luigi Frati («Parentopoli? Voi giornalisti sapete fare solo folclore!», ha urlato a Luca), un uomo tutto casa e ufficio dato che nella sua facoltà lavorano la moglie Luciana Angeletti, il figlio Giacomo e la figlia Paola, che nell'aula magna di Patologia ha fatto la festa di nozze.
Altri casi sono meno conosciuti. Come quello di un recentissimo concorso per due posti alla Facoltà di Medicina e Chirurgia della Bicocca di Milano con cinque soli concorrenti tra i quali tre figli (due vittoriosi, ovvio) di docenti della stessa Facoltà di Medicina e Chirurgia. O quello della condanna a un anno di reclusione per abuso d'ufficio (pena sospesa) e a uno d'interdizione dai pubblici uffici (per aver danneggiato la professoressa Antonina Alberti durante un concorso) di Fernanda Caizzi Decleva, moglie del presidente in carica della Crui, la conferenza dei rettori.
La cosa più interessante del reportage, però, al di là della sottolineatura di certe bizzarrie (come quella che riguarda l'ex rettore di Bologna Fabio Roversi Monaco, che ha incassato 11 lauree honoris causa da vari atenei mondiali distribuendone in parallelo 160 a gente varia, da Madre Teresa di Calcutta a Valentino Rossi), sono le chiacchierate tra l'autore e alcuni dei protagonisti del mondo accademico italiano.
Come quella con Augusto Preti, che diventò rettore a Brescia nel lontanissimo 1983, quando erano ancora vivi Garrincha e David Niven, e scherza: «Io sono il potere assoluto». O Pasquale Mistretta, il rettore di Cagliari, secondo il quale «molti figli illustri, proprio a causa dei complessi d'inferiorità verso i padri, a volte si sono smarriti: alcuni sono finiti anche nel tunnel della droga», quindi forse «quando un padre va in pensione, come un tempo succedeva in banca o all'Enel, è logico che ci sia un occhio di riguardo» per i figli.
Il meglio, però, lo dà il professore Giuseppe Nicotina spiegando come il suo Ludovico avesse vinto in solitaria un concorso per ricercatore: «I figli dei docenti sono più bravi perché hanno tutta una "forma mentis" che si crea nell'ambito familiare tipico di noi professori». Insomma: è una questione quasi genetica. Se poi una spintarella aiuta la forma mentis...

Corriere della Sera 19.1.09
A Roma l'opera di Gluck diretta da Muti
L'«Ifigenia in Aulide» con finale francese
di Paolo Isotta


Il rapporto tra il Teatro dell'Opera di Roma e Riccardo Muti va facendosi intenso: egli si è dichiarato disposto a dirigere alcune Opere ogni stagione, e noi sappiamo sin da ora che le prime saranno il Nabucco e l' Idomeneo. Intanto si appresta a lasciare a capo chino la carica il soprintendente Ernani, che ancora tenta macchine difensive e chiede solidarietà sindacali dopo le efferatezze di che si è reso colpevole. Il nomen juris del rapporto che vincolerà il maestro Muti al Teatro della capitale non è stato ancora trovato: si va da quello di «direttore musicale» a quello di «direttore principale ospite». Il primo è purtroppo difficile da realizzarsi atteso che il Maestro a partire dall'anno prossimo sarà, dopo una scelta effettuata entusiasticamente dai dirigenti e dai professori, il Direttore Musicale dei più importanti orchestra e coro del mondo, la Chicago Symphony. Quale che sia per essere tale nomen juris, per il Teatro della capitale si tratta di un'affermazione prestigiosa nascente dall'interesse profondissimo che il sindaco Alemanno nutre per quest'istituzione, del tutto indifferente ai suoi predecessori. Si deve purtroppo aggiungere che il ministro Bondi non ha esteso lo status particolare destinato alla Scala, al Maggio Fiorentino e all'Accademia di Santa Cecilia anche al San Carlo di Napoli e alla Fenice di Venezia, i quali lo meritano con ogni diritto per la loro importanza storica ed estetica. Il Teatro dell'Opera di Roma non ha bisogno di qualificazioni particolari giacché basta una profonda trasformazione interna a far sì che le potenzialità divengano atto. Per quanto sta facendo e farà, il sindaco Alemanno merita i migliori elogi e ringraziamenti. Non deve tacersi, tuttavia, che elogi e ringraziamenti spettano in egual misura al maestro Gianluigi Gelmetti, che da grande direttore d'orchestra ha retto il Teatro per lunghi anni realizzando spettacoli di un livello difficile a riscontrarsi in Europa.
L'Ifigenia in Aulide di Gluck è stato il secondo contatto di Muti col Teatro dell'Opera dopo l'Otello decembrino. Lo spettacolo, eccezionale sotto ogni profilo, era stato una delle inaugurazioni della Scala al Teatro degli Arcimboldi, mi pare sette anni fa. Ma ogni volta che Riccardo Muti rimette le mani su di un testo, lo fa con diversa prospettiva, approfondendo il ritratto donatoci dell'Opera. Stili diversi convergono verso un'unità soltanto potenziale se il concertatore non eserciti la sua opera unificatrice. Non sembri un paradosso affermare che differenti tipi di suono, dal «vibratissimo» di certe danze lente e piene di canto al «non vibrato» dell'orchestra resa leggerissima quando si modella sui veloci anapesti del coro, concorrono appunto a realizzare tale unità. Quando il Coro, così ben preparato dal maestro Giorgi, deve effondersi in melodia, Muti riesce a farla erompere con i suoi supporti armonici (le «seste aumentate») senza che mai la commozione nostra si ottenga di là da un rigoroso stile neoclassico. Il filo ideale è teso dal concertatore anche nei Balletti, rifiniti come non mai. Il dominio tecnico su tutto è assoluto.
La regia, i bozzetti e i figurini sono opera meravigliosa di Jannis Kokkos ripensata per il nuovo palcoscenico entro i quali si inseriscono perfettamente le coreografie di Marco Berriel. L'immobile mare è sempre in qualche modo sullo sfondo; i cantanti recitano con attitudes classiche: esemplare, sotto tal profilo, il terribile monologo di Agamennone. I rituali movimenti del coro sono ammirevoli. Il palcoscenico è ingombro di colossali e minacciose statue di Diana che fanno pensare ai numina magna deum che nel II dell'Eneide Enea, grazie al «divino collirio» (Ceronetti) concessogli dalla madre-dèa, scorge mentre si accaniscono su Troia in fiamme.
Non sono riuscito a far capire a nessuno la questione del finale dell'Opera. L'originale vede il matrimonio d'Ifigenia ed Achille e poi un lungo balletto finale. Richard Wagner, che per dedicarsi a una propria versione in tedesco dell'Opera interruppe la composizione del
Lohengrin, scrisse un finale nel quale appare Diana discendente dal cielo e ricusante l'immolazione d'Ifigenia; porterà seco la principessa affinché serva il suo culto nella barbara Tauride. Il coro si sente posseduto dal numinoso mentre si alza il vento. Sei trombe danno il segnale della partenza «Nach Troja!». Con atto di microchirurgia, il maestro Muti inserisce al punto debito tale finale ma, il che non ha capito nessuno,
ritraducendolo in francese settecentesco sotto la melodia accentuata di Wagner. Il miglioramento è straordinario.

l'Unità 19.3.09
Trent’anni dopo in un modo diverso, ma c’è stata la riconquista del territorio
Finisce An e gruppi estremisti si appropriano di zone della città. Il diverso è da combattere
A Roma avanza l’«onda nera». Tornano i luoghi off limits
di Jolanda Bufalini


L’attivismo, il ritorno di simboli un tempio considerati eversivi. E poi i successi alle elezioni studentesche. I neri nella capitale sono tornati. Sotto altre sigle, lontani da An. Giovani e non solo.

Attenti alle scritte, ai caratteri runici e agli acronimi, come acab, che non è il capitano della baleniera di Melville ma sta per «All cops are bastard» oppure - a piacimento - «all communists are bastard». Sono un indizio. Il segno che nel quartiere si «alza il livello dello scontro». Come a Portuense Arvalia, dove ha aperto a Casetta Mattei una sede di Forza Nuova. La comparsa delle scritte «Nucleo Arvales» indicano il radicamento territoriale, le aggressioni xenofobe al Trullo segnalano la costruzione identitaria di estrema destra che indica negli immigrati il nemico. A Vigne Nuove, a Borgata Fidene, dove è insediata Fiamma Tricolore, c’è la stessa difesa proprietaria del luogo: ronde e fiaccolate.
La presenza dei neri, l’intento di controllare il territorio si vede dall’intensità dell’attacchinaggio, dai manifesti sempre freschi. A piazza Giovenale, per esempio, a Balduina, o a piazza dei Giochi Delfici, incroci il gruppazzo inquietante quasi tutte le sere. Le felpe sono quelle alla Diabolik che si comprano a via Sannio, con la lampo che chiude il cappuccio lasciando solo gli occhi scoperti. Ma non siamo negli anni Settanta, la violenza, lo scontro con la sinistra non è automatica. Certo, un ragazzo con i capelli rasta non attraversa tranquillo quelle piazze, così come se entra ai giardini di Colle Oppio sa, per le croci runiche incise sui paracarri, in quale territorio sta entrando. Lo scontro, piuttosto, è programmato, calcolato politicamente. Ci fu un intensificarsi di episodi di violenza subito dopo l’elezione di Alemanno. Nell’estate del 2007 la guerra per il controllo del territorio vide l’aggressione a Villa Ada, dopo il concerto della banda Bassotti e, poi, lo scontro fra i militanti del circolo futurista di Casal Bertone e gli occupanti di sinistra di un edificio poco lontano.
Luoghi simbolo
Resistono alcune sedi storiche, come la sezione dell’Msi Fiamma Tricolore di via Acca Larentia, dove il 7 gennaio il sindaco Alemanno si è recato alle nove di mattina, per evitare la fotografia sullo sfondo dei saluti romani che concludono la fiaccolata notturna in memoria dei camerati uccisi nel 1978. Ma la ragnatela contemporanea si tesse in un altro modo. Mutuato in parte dai centri sociali di sinistra: occupazione, attività sociali, culturali, sportive. Trattativa con il Campidoglio amico. A Portuense, per esempio, Casa Pound ha occupato a gennaio il complesso destinato a una bocciofila. Poi la trattativa con il sindaco di cui Gianluca Iannone si è dichiarato soddisfatto: la bocciofila è stata liberata in cambio di una sede per la «Nuova accademia pugilistica Trastevere» e per l’associazione dei genitori della ex Anni Verdi.
I pub
Oppure con la rete dei pub. Il più famoso è il Cutty sark (nel 2003 nel locale chiuso scoppiò una bomba carta). Ma c’è anche Shamrock, vicino al Colosseo o il Maltese di piazza Epiro, vicino alla sezione di An.
Casa Pound a Esquilino, Casa Italia a via Valadier, Foro 753 a Portonaccio, le strutture madre a cui fanno riferimento anche gli studenti medi e gli universitari. Secondo la denuncia dei collettivi di Scienze Politiche a Roma Tre, nell’armadio degli studenti di destra, in facoltà, dopo l’aggressione di lunedì scorso, sono state trovate spranghe insieme agli adesivi del Foro 753 e alle scritte che inneggiano a Hitler.

l'Unità 19.3.09
Privati di ogni diritto. Arruolati con la forza, utilizzati come strumenti di morte. Bambini doppiamente traumatizzati: nelle guerre sporche e in un tormentato dopoguerra
Oltre 40 milioni ai quali è negata l’istruzione. Ieri ne hanno discusso all’Assemblea Onu Infanzia in guerra
di Umberto De Giovannangeli


Ogni bambino che «si è trovato in una situazione di conflitto, che è stato testimone, o anche peggio, ha partecipato ad azioni violente, viene disumanizzato. Quei bambini sanno che c’è qualcosa di sbagliato ma non sanno dire cosa. Si tratta di una situazione che li rende insensibili e impedisce una loro crescita normale...». È il grido d’allarme lanciato da Ted Chaiban, rappresentante in Sudan del fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef). Il Darfur e non solo. Bambini doppiamente violati: in guerra e un tormentato dopoguerra. Storie di indicibili sofferenze. In tutto il Sudan i bambini soldato sono più di 8mila, di cui 6mila solo in Darfur. E nell’inferno del Darfur due milioni di bambini sono stati colpiti dal conflitto. Un doppio trauma che non riguarda solo il Darfur. Oggi - rileva il Global Report 2008 sui «Child soldiers» - sono 9 gli eserciti che utilizzano i piccoli in guerra, per un totale di almeno 250mila minori, di cui il 40% sono bambine. Bambini combattono nell’esercito regolare in Birmania, nella lotta armata contro le minoranze etniche, ma anche in Ciad, Repubblica democratica del Congo, Somalia, Sudan, Uganda e Yemen. I guerriglieri stessi utilizzano bambini soldato: in Afghanistan, Iraq e Pakistan sono stati impiegati come attentatori suicidi. In Africa le guerriglie hanno utilizzato recentemente i minori in guerra in Burundi, Ciad, Costa d’Avorio, Liberia, Nigeria, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Somalia, Sudan e Uganda. Storie di bambini violati, ai quali sono stati sottratti gli anni dell’infanzia. Bambini ai quali si vorrebbe rubare il futuro. Le loro storie sono state al centro dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che, ieri si è riunita al Palazzo di Vetro di New York per discutere il tema dell’istruzione e delle emergenze. «Il numero delle emergenze in tutto il mondo aumenta di giorno in giorno, dai conflitti in corso in Sri Lanka e a Gaza alle recenti calamità che hanno colpito il Bangladesh e la Birmania, e con esse aumenta il numero dei bambini che non frequenta la scuola. Ogni anno una media di circa 750.000 bambini è costretto ad interrompere o a rinunciare agli studi a causa di emergenze umanitarie e di 75 milioni di bambini al mondo che non vanno a scuola, 40 milioni di essi vivono in paesi in guerra», rileva Fosca Nomis, Responsabile Advocacy e Campagne di Save the Children Italia.
Leslie Wilson, direttore di Save the Children in Afghanistan, è intervenuto in seno all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per sottolineare come negli ultimi anni il tasso d’iscrizione scolastica sia cresciuto nel Paese più velocemente che in qualsiasi altro luogo al mondo: il numero dei bambini iscritti è infatti passato da meno di un milione nel 2002 a più di sei milioni nel 2006. Il lavoro compiuto da Save the Children, pertanto, dimostra come consentire l’accesso all’educazione sia possibile anche nelle situazioni più difficili. In Afghanistan, ad esempio, nonostante il perdurare di violenza e instabilità, negli ultimi quattro anni quasi 3 milioni di bambini hanno beneficiato di un’istruzione di qualità grazie alla partnership sviluppata dall’Organizzazione con il Ministero dell’Istruzione, volta a pianificare la formazione di insegnanti e dirigenti scolastici. Nello Sri Lanka, nonostante l’intensificarsi dei combattimenti nel nord del Paese e imponenti migrazioni interne, più di 900.000 bambini hanno beneficiato di un’istruzione di qualità grazie alla partnership tra Save the Children e Unicef, che si è sostanziata in nuove modalità per assicurare l’educazione durante le emergenze, attraverso ad esempio la possibilità di svolgere le attività scolastiche a casa per i bambini che non possono frequentare la scuola a causa delle condizioni di sicurezza. Se non ci si concentrerà sui 40 milioni di bambini che non vanno a scuola perché vivono in Paesi in conflitto, avverte Save the Children, l’obiettivo del millennio relativo all’educazione non sarà raggiunto.

l'Unità 19.3.09
La testimonianza
Quando Kon e Ishmael deposero il mitra
Zlata era una ragazzina durante la guerra in Bosnia. Ora insieme
a Save The Children dà voce a tutti quei bambini strappati dalle
scuole e arruolati alla guerra. «Aiutiamoli a riscrivere il futuro»
di Zlata Filipovic


Ricordo che stavo tentando di scrivere una relazione su un libro quando udii i primi spari della mia vita; rumori che nessun bambino, in nessuna parte del mondo, dovrebbe mai sentire. Cercai di concentrarmi sui compiti preoccupata di quello che avrebbe potuto dirmi l’insegnante il giorno seguente. Nei due anni successivi funestati dal conflitto in Bosnia non avrei mai più scritto una relazione su un libro. La mia scuola di Sarajevo fu bombardata e chiusa e un enorme foro prodotto da un razzo faceva mostra di sé sulla parete della classe di letteratura. Lasciai alcuni bei temi da me scritti nell’armadietto che una granata fece saltare in aria. Non ho mai saputo cosa ne è stato della mia insegnante. Non la rividi mai più.
Sappiamo cosa sono le emergenze – le abbiamo sentite sulla nostra pelle, sono diventate parte della nostra vita, l’hanno distrutta, fatta a pezzi e ridotta ad uno specchio rotto. Le emergenze ci hanno rubato l’innocenza, l’umanità, la fanciullezza, la famiglia. In tutti i nostri casi i conflitti ci hanno portato via uno dei nostri diritti fondamentali di bambini e di ragazzi: l’istruzione. È la prima cosa che ci è stata sottratta quando gli orrori della guerra hanno avuto inizio. La chiusura della scuola era il segno che stava avvenendo qualcosa di tremendamente sbagliato. Un giorno lasciammo cadere la penna, abbandonammo i quaderni, disertammo i banchi di scuola. Le aule abbellite dai nostri disegni dove risuonavano le nostre risatine e dove ci passavamo dei bigliettini tra compagni di classe, si svuotarono. La paura di essere chiamati alla lavagna per risolvere un problema di matematica e la magia di scoprire la scrittura svanirono. Le scuole diventarono rifugi, luoghi dove venivano distribuiti gli aiuti umanitari, edifici spettrali bombardati, spazi vandalizzati, magazzini di armi, demarcazioni delle zone nemiche e del fronte di guerra. Chiusa in casa, terrorizzata dal mondo esterno dove la morte poteva sorprenderti in qualunque momento, non feci che leggere cercando di continuare a crescere. Poi un giorno, alcune giovani donne del mio quartiere aprirono una «scuola di guerra». Non c’erano delle vere aule, ma ci incontravamo di tanto in tanto nelle giornate relativamente tranquille e per un momento potevamo essere nuovamente bambini. Queste giovani donne non potevano assistere passivamente allo spettacolo di bambini abbandonati a sé stessi e così ci dedicarono il loro tempo e condivisero con noi generosamente la loro immaginazione, la loro creatività e il loro sapere. Non dimenticherò mai né loro né quanto fecero per noi – posso solo sperare che in circostanze analoghe saprei essere altrettanto generosa e troverei la forza di svolgere il nobile compito dell’insegnante.
Ogni giorno in tutto il mondo bambini come me, come noi, finiscono nelle celle, nei nascondigli, nei campi profughi o nell’esercito. Con loro scompare il futuro del loro Paese e del mondo intero. Muoiono, vengono mutilati, traumatizzati, piegati – e questa è la fine di futuri leader, servitori dello Stato, padri, madri e insegnanti.
I conflitti terminano e i bambini sono fortunati se sopravvivono o riescono a fuggire. Come per qualsiasi trauma il recupero è lento. Il processo di recupero poggia su molti elementi, ma è l’istruzione che garantisce un futuro alle vite e ai Paesi devastati, ai giovani piegati e alle coesistenze distrutte.
Kon ricorda il suo primo anno di scuola dopo essere fuggito dall’Esercito di liberazione del Sudan. Non era aggressivo con gli insegnanti e i compagni di classe, ma non si fidava di nessuno. Al pari di moltissimi soldati-bambini sapeva che il solo modo per risolvere i problemi era combattere. Imparare a fidarsi degli insegnanti e dei compagni di classe fu la sua salvezza – e l’inizio di una nuova vita. L’istruzione gli ha consentito di recuperare – dopo essere stato un bambino di guerra – il suo senso dell’umanità. Senza questo – dice oggi Kon – gli effetti della guerra te li porti dietro fin quando esplodono e ti inducono a fare del male ad altra gente. Quando Grace riuscì a fuggire dall’Esercito di Resistenza del Signore in Uganda, il mondo aveva già considerato la sua una generazione perduta. A peggiorare le cose il fatto che nella società in cui viveva, essere una donna non era certo un vantaggio. In Uganda le persone più emarginate e invisibili sono le madri-bambine che hanno dovuto subire quella situazione e hanno visto il loro futuro distrutto. Dopo la guerra in Sierra Leone, molte cose hanno aiutato Ishmael a riprendersi, in modo particolare il processo di reinserimento e una famiglia molto solida. Tuttavia la guarigione è stata possibile solo perché ha avuto la possibilità di frequentare la scuola. Grazie alla scuola ha imparato a recuperare il senso della sua umanità e a riaffermare che non è solo capace di violenza, come aveva finito per credere negli anni della sua fanciullezza, ma anche di altre cose.
È nelle scuole che realizziamo le nostre potenzialità, che diventiamo esseri sociali, cresciamo e ci sviluppiamo come persone funzionanti, socievoli e generose delle nostre comunità e del mondo. Dopo un conflitto è a scuola che si viene informati sul pericolo delle mine di terra, sulla prevenzione del virus HIV/AIDS e sul processo di riconciliazione. È a scuola che si scambiano le armi con il sapere e la formazione ed è a scuola che i messaggi portatori di pace si intrecciano con le conoscenze e le capacità professionali. Perché la pace sia sostenibile, siamo fermamente convinti che l’istruzione debba essere parte integrante di qualunque accordo di pace e che sia necessario dedicare la giusta attenzione ai progetti educativi nei Paesi tormentati dai conflitti e nei periodi che seguono la fine della guerra. L’istruzione consente ai bambini colpiti dalla guerra di recuperare la loro fanciullezza, di scoprire la loro umanità e di dare il loro contributo al genere umano. L’istruzione è anche un antidoto alla violenza in qualunque società. L’istruzione offre ai giovani la possibilità di usare la mente in maniera positiva e costruttiva o di ricostruire le basi dei loro sogni e delle loro speranze. Per questa ragione molti bambini colpiti dalla guerra stanno sostenendo iniziative quali “Riscrivere il futuro” di Save the Children che si propone di convincere i leader mondiali e le organizzazioni internazionali a garantire la possibilità di frequentare la scuola a tutti i bambini colpiti dalla guerra in Paesi dalle strutture statali distrutte e non funzionanti. Siamo stati fortunati. Siamo sopravvissuti e abbiamo potuto ricostruire la nostra vita grazie all’istruzione. Oggi possiamo far sentire la nostra voce e voi potete sentirci proprio perché abbiamo avuto la possibilità di tornare sui banchi di scuola.
Ogni anno 750.000 bambini sono costretti ad abbandonare la scuola o sono impediti dal frequentarla a causa di svariati disastri umanitari. Milioni di bambini non vedono un’aula scolastica da anni. Un terzo della popolazione mondiale ha meno di 15 anni. Tutti dovrebbero godere del diritto ad una istruzione obbligatoria e gratuita a dispetto delle guerre, dei disastri naturali, della povertà, delle malattie, delle epidemie e delle difficoltà conseguenti alla ricostruzione nell’immediato dopoguerra. Fidatevi di noi perché sappiamo di cosa stiamo parlando. Ci hanno strappato la penna di mano, ma per nostra fortuna ce la siamo ripresa. E abbiamo di nuovo una voce. Ci auguriamo che possiate sentirci anche a nome di tutti coloro che voce non hanno.

*Zlata Filipovic, nata a Sarajevo, Bosnia, ha scritto «Il diario di Zlata: vita di una bambina a Sarajevo durante la guerra» ed è tra i fondatori del Network of Young People Affected by War (NYPAW) insieme con Ishmael Beah (Sierra Leone), Kon Kelei (Sudan), Grace Akallo (Uganda), Emmanuel Jal (Sudan) e Shena A. Gacu (Uganda), co-autori dell’articolo.