lunedì 23 marzo 2009

l'Unità 23.3.09
L’era Bush È tramontato lo spirito di scontro religioso che ha animato gli ultimi 8 anni
L’era Obama Gli americani, secondo un sondaggio, si fidano più della scienza che della fede
America: Staminali gay, aborto La crisi spazza via le crociate
di Roberto Rezzo

Staminali, aborto, nozze tra gay, uso terapeutico della marijuana, tutti questi temi scivolosi per Bill Clinton e ossessionanti per Bush sono stati spazzati via dalla crisi economica. L’America non ha più voglia di fare crociate.

Spariti all’improvviso dalle pagine di giornali e notiziari gli embrioni congelati, i feti da tutelare, le coppie da santificare. Negli Usa la crisi finanziaria fa dimenticare seni scoperti, viodeogiochi violenti, gay impenitenti. L’acceso dibattito sulla questioni morali che si strascinava dagli anni di Bill Clinton e che sotto George W. Bush aveva assunto toni da crociata non interessa più a nessuno. Le guerre culturali sembrano diventate un lusso che gli americani non possono più permettersi. E persino i conservatori sembrano infischiarsene. Una svolta incredibilmente repentina.
Il 9 agosto del 2001, tre giorni dopo aver ricevuto un rapporto dei servizi segreti su un imminente attacco di Bin Laden, Bush pronuncia il suo primo discorso alla nazione. Il tema – pomposamente definito dalla Casa Bianca come «uno dei più profondi del nostro tempo», sono le cellule staminali. E ancora nell’estate del 2006 Michael Steele, allora presidente del Partito repubblicano, in campagna elettorale paragona la ricerca sugli embrioni agli esperimenti medici dei nazisti nei lager. Obama due settimane fa ha cancellato per decreto le restrizioni sulla ricerca imposte dal suo predecessore. Via libera ai finanziamenti pubblici per trovare una cura contro patologie come l’Alzheimer e il Parkinson. La reazione dei vertici repubblicani? Silenzio assoluto.
LA MINISTRA ALLA SALUTE
Quando Obama ha scelto come segretario alla Salute Kathleen Sebelius, la governatrice del Kansas che pur essendo cattolica difende il diritto di scelta delle donne sull’interruzione di gravidanza, Tony Perkins, leader di Family Research Council, ha tuonato: «Se i repubblicani non insorgono ora, quando mai lo faranno?». Non lo hanno fatto. La ratifica di Sebelius al Senato è passata anche con il voto a favore di due noti anti abortisti: Sam Brownback e Pat Roberts.
Gli storici assicurano che oggi si sta ripetendo esattamente la stessa dinamica che gli Usa hanno vissuto tra gli anni ’20 e gli anni ‘30. Praticamente da Al Capone al New Deal passando per la Grande depressione. Quando Franklin Delano Roosevelt entra per la prima volta alla Casa Bianca, i paladini della morale sono concentrati sul proibizionismo delle bevande alcoliche, causa assoluta di tutti i mali della società. La Anti Saloon League ha consenso e potere sufficiente da scoraggiare qualsiasi iniziativa del presidente contro i ben pensanti. È solo con il tracollo di Wall Street del 1929 che il governo interrompe la caccia a mescite e distillerie clandestine. E Roosevelt viene rieletto contro Hoover, schierato con I proibizionisti.
Il gesto di Roosevelt per molti americani fu una rassicurazione: il presidente non solo aveva a cuore il loro benessere economico, ma si preoccupava di liberarli dalle indebite intromissioni del governo nella loro vita privata. «Avendone persa molta durante la depressione – come spiega Michael Lerner, autore di Dry Manhattan, storia del proibizionismo a New York - la gente non ha intenzione di perdere altri pezzi di libertà per compiacere una vociante minoranza che si picca di voler chiudere i bar».La vera crociata americana dell’ultimo decennio, prima della guerra globale al terrorismo, è stata quella contro la droga. Combattuta specialmente contro consumatori e campesinos. Nel primo caso il risultato è stato quello d’ingolfare i tribunali e di riempire le patrie galere. Nel secondo, di mettere a repentaglio la sopravvivenza d’intere popolazioni andine, dispiegando truppe speciali dell’esercito e cargo dell’aviazione imbottiti di pesticidi contro i coltivatori di coca in Colombia. La svolta si preannuncia drastica anche su questo fronte.
LE MAFIE DEI NARCOS
L’amministrazione Obama ha deciso di affrontare di petto le mafie dei narcotrafficanti e di ragionare sul controllo delle diverse sostanze classificate come stupefacenti in base a criteri scientifici e non più ideologici. Il primo atto è stato quello del segretario alla Giustizia Eric Holder che annuncia la fine dei raid della polizia federale contro i dispensari di marijuana per uso medico autorizzati con leggi locali in diversi Stati dell’Unione. Una decisione che sconfessa l’indirizzo della Corte suprema motivate con logica disarmante: «È l’ora di finirla di perseguitare i malati la gente che non fa danno a nessuno». In California e Vermont sono in discussione due disegni di legge per legalizzare coltivazione e vendita di cannabis, con relativa imposta fiscal.
Frederick Lewis Allen, storico e sociologo, nota che come negli anni della Grade depressione sarebbe stato facile immaginare un arroccamento degli americani su posizioni ideologiche dettate dalla fede. Ma oggi come allora sta accadendo esattamente il contrario. Di fronte alla crisi la gente non si rifugia nelle chiese ma si aspetta e pretende un approccio razionale da parte di chi la governa. Teoria ampiamente confermata dall’ultimo autorevole sondaggio condotto da General Social Survey. Gli americani che hanno fiducia nella scienza sono il doppio di quelli che si affidano alla religione.

l'Unità 23.3.09
Ecco i conflitti ideologici superati

Cellule staminali
Obama cancella il bando ai finanziamenti pubblici alla ricerca sulle staminali. Il decreto viene subito chiamato Legge Superman, in omaggio allo scomparso attore Reeve. Il bando imposto da Bush per compiacere la destra religiosa aveva aperto una spaccatura anche fra i repubblicani. Una delle più celebri dissidenti era stata Nancy Reagan. Il 60% degli americani è favorevole alla decisione di Obama.
Diritti dei gay
L’amministrazione Obama non impugna la sentenza che in California riconosce i benefit per i coniugi dello stesso sesso ai dipendenti del governo federale. Il referendum che nello scorso novembre ha bandito i matrimoni fra gay è all’esame della Corte suprema statale per vizio di costituzionalità. I sondaggi dicono che al 55% va bene che i gay possano sposarsi o avere un riconoscimento attraverso le unioni civili. Il 75% è favorevole ai gay nelle Forze armate.
Religioni
La crisi allontana gli americani dalla religione. Nell’ultimo sondaggio condotto da American Religious Identification Survey gli interpellati che non si identificano in nessuna confessione balzano dall’8 al 15%. E diventano la terza denominazione negli Usa dopo cattolici e battisti. Questo non significa necessariamente un abbandono della spiritualità ma piuttosto un allontanamento dalle Chiese organizzate.
Guerra alla droga
Il Dipartimento alla Giustizia annuncia la sospensione con effetto immediate dei raid contro i dispensari di marijuana per uso terapeutico, ignorando una sentenza dei giudici della Corte suprema nominate da Bush. In California e Vermont sono in discussione due disegni di legge per la legalizzazione della coltivazione e della vendita di cannabis per sottrarre risorse alla criminalità organizzata, tutelare i consumatori e aumentare il gettito fiscale.
Aborto
Ribaltare la storica sentenza della Corte suprema a favore della libertà di scelta in materia di interruzione di gravidanza era stata l’ultima promessa di Bush alla destra religiosa. L’argomento è sparito dal dibattito politico e la nomina di Kathleen Sebelius, una cattolica a favore dell’attuale legge sull’aborto, a capo del dipartimento alla Sanità non incontra alcuna opposizione da parte repubblicana.

l'Unità 23.3.09
Rivelazioni e magliette shock
I dubbi di Israele sull’etica dei soldati
di Umberto De Giovannangeli

Dopo le testimonianze, le t-shirt della vergogna. Quelle indossate da soldati israeliani. Con immagini di bambini trucidati, madri in lacrime sulla tomba dei loro figli, foto di ragazzini con una pistola puntata alla testa...

Testimonianze drammatiche. T-shirt agghiaccianti. Non si spegne la polemica in Israele sui sospetti di violenze gratuite su civili da parte di militari impegnati nell’operazione Piombo Fuso contro Hamas, nella Striscia di Gaza. Sospetti riportati con evidenza dai media sulla base di racconti fatti da reduci durante i corsi del «Seminario militare Rabin», istituzione vicina al movimento dei kibbutz. L'esercito ha fatto filtrare ieri i primi esiti di «accertamenti interni» secondo cui una parte dei racconti più sconvolgenti non sarebbe attendibile. Ma il giornale Haaretz, sulle cui colonne sono comparse le prime rivelazioni, rilancia denunciando la scoperta di elementi stando ai quali - asserisce - almeno un'unità si sarebbe ritenuta autorizzata a far fuoco finanche sui soccorritori della Croce Rossa o della Mezzaluna Rossa nei 22 giorni di guerra di Piombo Fuso ( oltre 1.400 morti secondo stime palestinesi).
IL DEGRADO
Per Gideon Levy, firma di punta di Haaretz il quadro generale rivela l’immagine di giovani soldati che a casa «hanno una morale», ma a Gaza «cambiano codice di comportamento» essendo ormai «addestrati a pensare che la vita e i beni dei Palestinesi non abbiano alcun valore». L'immagine di un esercito che a suo dire «ha cessato da lungo tempo d’essere il più morale al mondo» E dal quale non c’è da attendersi «alcuna seria investigazione».
Bambini palestinesi trucidati, madri in lacrime sulla tomba dei loro figli, foto di ragazzini con una pistola puntata alla testa, moschee bombardate.
SCRITTE MACABRE
Sono queste le macabre immagini che soldati israeliani chiedono di stampare sulle magliette, accompagnate da slogan che fanno rabbrividire. «On shot, two kills» (un colpo. due morti) è l’inquietante frase stampata sulla t-shirt di un militare in borghese, ripreso di spalle da Haaretz. Sopra la scritta, la foto di una donna palestinese incinta, centrata in un mirino. Gli uffici di «Adiv», il negozio di magliette nella zona sud di Tel Aviv, stanno ricevendo un numero crescente di richieste da parte di militari israeliani. Una maglietta appena uscita dalla stampante è stata prenotata da un cecchino di Tsahal. Sotto la foto del corpo di un bambino palestinese, con accanto la madre in lacrime, campeggia la scritta «Better use Durex» (meglio usare il profilattico»). «Scommetti che sarai violentata?», è la domanda stampata sulla maglia di un altro soldato, accanto all’immagine di una ragazza piena di lividi. Diverse magliette portano la scritta «conforming the kill» (verifica di avere ucciso), con l’invito a sparare un colpo di pistola alla testa alle proprie vittime. Su altre t-shirt, le immagini di moschee bombardate. Poi, cadaveri e devastazioni.
In attesa di formalizzare «l'inchiesta approfondita» promessa venerdì, lo Stato maggiore ha lasciato trapelare sul quotidiano Maariv anticipazioni che provano a ridimensionare l'accaduto, sostenendo che alcuni dei fatti più gravi denunciati (come l’uccisione a sangue freddo di un'anziana donna) non risultano mai avvenuti. E sarebbero solo «voci» di seconda mano. Ma Haaretz non si ferma. E ieri ha denunciato, attraverso un reporter inviato a Gaza, il ritrovamento in una casa occupata a suo tempo da militari israeliani di un inquietante biglietto in ebraico in cui si legge: «Regole di ingaggio: fuoco anche sui soccorritori. Non su donne e bambini».
Riflette Amy Ayalon, già capo di Shin Bet (il servizio segreto interno d’Israele): «Un tempo Tsahal era fondato su etica e sacrificio, mentre oggi, dopo l’offensiva contro Gaza, si basa solo sulla forza». Una forza senza regole né pietà.

l'Unità 23.3.09
T-shirt con bambini morti e donne violentate

Un negozio di Tel Aviv sta facendo affari producendo magliette con foto di bambini palestinesi trucidati o moschee bombardate. Con scritte non meno scioccanti. Tipo: «Scommetti che sarai violentata?»; «Verifica di aver ucciso», con l’invito a sparare un colpo di pistola alla testa alle proprie vittime. E ancora: «Un colpo, due morti», con la foto di una donna palestinese incinta, centrata in un mirino

l'Unità 23.3.09
I «refusnik»

Hanno combattuto in prima linea. A Gaza. In Cisgiordania. Poi hanno detto basta. Basta a essere «strumento» di oppressione. Sono i «refusnik»: soldati e graduati, riservisti, di Tsahal che hanno deciso di unire la loro protesta individuale trasformandola in un «signor no» collettivo. Per essersi rifiutati di prestare servizio militare nei Territori, diversi riservisti hanno conosciuto il carcere. Ma la loro protesta non si è arrestata. Il loro movimento è divenuto parte integrande del movimento pacifista israeliano. Coscienza critica di Tsahal.

Repubblica 23.3.09
Gli strani silenzi sul Papa e i profilattici
di Marc Lazar

Le recenti affermazioni del papa, secondo cui «il problema dell´Aids non si può superare con la distribuzione dei preservativi, che anzi lo aggravano» hanno sollevato in Francia un uragano di proteste, mentre in Italia regna un silenzio assordante. È dunque forte la tentazione di vedere in questo sconcertante contrasto un ulteriore esempio dell´antica contrapposizione tra una Francia ostinatamente laica e un´Italia profondamente cattolica. In verità, la situazione è più complessa. La difformità delle reazioni va certo ascritta al peso delle differenze storiche tra questi due Paesi, ma anche a scelte politiche divergenti.
In Francia le reazioni più virulente sono state quelle dei rappresentanti del governo di destra. Il portavoce del ministro degli Affari esteri ha espresso la sua «viva preoccupazione per le conseguenze delle parole di Benedetto XVI», le quali « mettono a repentaglio le politiche di sanità pubblica e gli imperativi di tutela della vita umana». Si potrebbe obiettare che quel ministero è affidato a Bernard Kouchner, uno dei rappresentanti dell´apertura a sinistra del presidente Sarkozy, che ama ricordare di non aver cambiato le proprie idee. Ma anche Roselyne Bachot, ministra della Salute responsabile dell´Ump (il partito di Sarkozy) ha giudicato quelle parole «assolutamente catastrofiche e totalmente irresponsabili».
Quanto ad Alain Juppé, già primo ministro di Jacques Chirac e grande dirigente gollista, a suo giudizio «Benedetto XVI vive in una situazione di totale autismo». «Questo Papa», ha poi aggiunto, «incomincia a diventare un vero problema». Queste fragorose condanne da parte di eminenti rappresentanti della destra hanno eclissato quelle, più consuete, provenienti dalla sinistra e dagli ambienti massonici. La destra si è dunque definitivamente convertita alla laicità? Sì, ma solo in parte. Dopo averla combattuta, in particolare tra la fine del XIX secolo e l´inizio del XX, dagli anni ´60 l´ha fatta propria. Tuttavia Nicolas Sarkozy (che peraltro non si è espresso sulle parole del Papa) è stato il primo presidente della Repubblica a dichiarare «esaurita» ed «esposta al fanatismo» quella laicità francese che il suo predecessore Jacques Chirac aveva definito «monumento inviolabile». E il 20 luglio 2007, a San Giovanni in Laterano, Sarkozy ha proclamato che «le radici della Francia sono essenzialmente cristiane», tessendo gli elogi «dei sacerdoti e dei credenti»; e ha ribadito questo concetto nel gennaio 2008 a Ryad. Da tempo il presidente francese postula una «laicità positiva», più rispettosa delle libertà religiose, secondo una filosofia a un tempo più liberale e più comunitarista, rompendo così la tradizione repubblicana francese. Come interpretare queste diverse posizioni in seno alla destra? Differenze ideologiche personali? O ripartizione dei ruoli, col presidente Sarkozy più proteso verso i cattolici praticanti, che rappresentano una parte consistente del suo elettorato, e i suoi amici impegnati ad attirare altre fasce di elettori? O forse la destra fa ormai una distinzione chiara tra la funzione spirituale delle religioni, in quanto dispensatrici di senso in un mondo sempre più incerto, e le responsabilità dei politici - e ciò può indurli a contestare le posizioni delle autorità religiose, a incominciare da quelle incarnate dal Papa, quando contrastano col buon senso e indispongono l´opinione pubblica, non esclusa quella cattolica? Tutti questi interrogativi restano aperti. Ma le prese di posizione della destra francese hanno il merito di alimentare un vero dibattito pubblico.
Per converso, il mutismo dei politici italiani è stupefacente. Il ministro degli Esteri non ha voluto commentare «le parole del Papa». Il presidente del Consiglio Berlusconi si è limitato a dire: «Ciascuno svolge la sua missione in coerenza col suo ruolo», dichiarando poi di difendere la libertà della Chiesa anche quando proclama principi e concetti «difficili e impopolari». Al di là della sua discrezione su questa questione, la destra italiana è vicina alla Chiesa; la quale se ne rallegra, pur criticando talune misure del governo, in particolare per quanto riguarda l´immigrazione. Questa differenza di posizione rispetto alla destra francese ha varie spiegazioni. La prima è storica: in Italia la Chiesa occupa un posto assai più importante che in Francia, benché anche qui sia esposta al movimento di secolarizzazione e a una seria crisi delle vocazioni. Sul piano sociologico, benché i cattolici italiani siano ormai dispersi, i praticanti regolari sono assai più numerosi che in Francia e votano largamente in favore del centro-destra. Infine, all´interno di quest´area hanno avuto la meglio i teocon, o atei devoti, che si sforzano di dare un´identità cristiana non solo alla destra, ma all´Italia e magari all´Europa. In breve, la destra italiana ha fatto una scelta più conservatrice di quella francese.
Ma in Italia le maggiori sorprese vengono dal centro-sinistra. Dario Franceschini si è limitato a dire che il profilattico «èindispensabile per combattere la malattia in Africa e nei paesi poveri». Una dichiarazione quanto mai timida, che a confronto con i toni degli esponenti della destra francese li fa apparire come temibili avversari del papato. I motivi di questa prudenza sono chiari. Il Pd ospita nel suo seno diverse sensibilità, e data la crisi che attraversa, i suoi dirigenti evitano di aprire nuove polemiche interne per non indebolire ulteriormente il partito. Molti dei cattolici che militano nei suoi ranghi sono estremamente vigili su questi temi. Dal canto loro, gli ex Ds perpetuano una tradizione comunista che consiste nel cercare in ogni modo di non mettersi in urto con la Chiesa cattolica. È sostenibile questa politica dello struzzo? Oggi gli italiani di sinistra, siano essi laici, agnostici, atei, oppure cattolici tendenti al «fai da te», nel tentativo di conciliare le proprie convinzioni profonde con le raccomandazioni della Chiesa e delle sfide quotidiane della modernità, sono senza dubbio più avanti di quanto pensi il Pd. Infine e soprattutto, Benedetto XVI ha precisato più volte che esistono valori «non negoziabili», tra cui ad esempio la vita e la bioetica. In altri termini, il Pd dovrà scegliere e prendere posizione, soprattutto in un Paese in cui la Chiesa è in prima linea. Quanto più rinvierà questa scadenza, tanto più grave sarà la sua crisi di identità.
Traduzione di Elisabetta Horvat

Repubblica 23.3.09
Quando la madonna assomiglia alla regina di Saba
L´esposizione "Nigra sum sed formosa" a Ca´ Foscari
di Paolo Rumiz

A Venezia l´arte di quel mondo cristiano isolato per secoli e ricco di tradizioni altrove scomparse
Una varietà infinita di croci, che si impugnano come ostensori o spade
Sono immagini antichissime che sposano Bisanzio e negritudine

VENEZIA. Madonne sensuali come regine di Saba, vestite in fascinose tuniche fucsia e blu oltremare. Pupille dilatate di santi che sbucano dalla penombra, icone che non svelano Dio ma favole vecchie di secoli, formule magiche contro demoni e malattie. E ancora croci come talismani, alberi della vita che gemmano all´infinito, si arrampicano nello spazio in direzioni ortogonali fino a diventare misura del mondo. E poi mappamondi veneziani che, già prima della scoperta dell´America, disegnano l´Africa fino alle misteriose sorgenti del Nilo e ai monasteri della prima nazione cristiana della storia.
E che dire del viaggio dei frati esploratori che battono gli altopiani del mitico "Prete Gianni" e insegnano ai popoli nomadi l´uso delle icone portatili, perfette per la loro vita pellegrinante. O di quel Gesù dipinto su legno che scende negli Inferi, prende teneramente per mano i progenitori, Eva e Adamo, e li porta alla luce in una resurrezione che non discrimina buoni e cattivi, ma porta l´umanità intera fuori dalla tenebra. Che cristianesimo vitale, carico di forza primitiva, quello che si scopre nella mostra inaugurata alla Ca´ Foscari di Venezia - al motto "Nigra sum sed formosa"- su sacro e bellezza nell´arte dell´Etiopia cristiana. La prima in Italia dedicata all´argomento.
Altro che radici occidentali del cristianesimo. La fonte la trovi qui, meglio ancora che a Gerusalemme, in questo viaggio fascinoso, provocatorio e multimediale all´università di Venezia. «Abbiamo dato un taglio alle mostre, vagamente colonialiste, sull´Etiopia dalla stele di Aksum allo scacciamosche di Menelik» sorride il professor Giampaolo Fraccadori, ordinario di storia dell´arte della tarda antichità e del medioevo alla Statale di Milano. «Stavolta abbiamo dato uno sguardo specifico a un mondo cristiano che prima, con l´espansione islamica, è rimasto isolato per secoli sugli altopiani rielaborando all´infinito tradizioni scomparse altrove, senza conoscere mai l´iconoclastia. Un mondo che poi si è aperto, stabilendo contatti fecondi con il Mediterraneo, e in particolare con Venezia».
Ed ecco che le pitture su tavola rilanciano con tecniche nuove - imparate dal francescano Niccolò Brancaleon, rimasto in Etiopia per quarant´anni alla fine del Quattrocento - immagini antichissime che sposano Bisanzio e negritudine con un taglio veterotestamentario che all´occhio europeo pare tanto ebraismo. Il patto di misericordia di Cristo con la Madonna; l´onnipresenza di San Giorgio come grande mallevadore di intercessione presso i primi due; la centralità assoluta di Maria come grande benefattrice dei viventi e implacabile nemica del diavolo.
E poi le croci, in una varietà infinita, illuminate dalla luce di marzo che filtra dai finestroni sul Canal Grande. «In nessun altro posto al mondo ce ne sono di così diverse - spiega appassionato Mario Di Salvo, massimo esperto italiano sul tema - noi in Europa al massimo ne abbiamo qualche povera variante». Croci prolifiche, fitomorfe, che nascono dalla tomba di Adamo; croci iscritte nel cerchio, croci in legno e in bronzo, scolpite o coperte di iscrizioni; croci spesso senza Cristo, perché Dio non può soffrire; croci che si impugnano come ostensori o si innalzano come spade di luce. «L´Etiopia cristiana svela un mondo straordinario, di cui l´Europa non si è occupata fino a venti, trenta anni fa» si entusiasma Valeria Finocchi, curatrice multimediale e segretaria scientifica della mostra. «Io stessa ne sapevo poco, e ora non vedo l´ora di andare anch´io sugli altopiani per capire di più», e mostra le straordinarie acqueforti sulla Gerusalemme etiope - Lalibela - disegnate dal trevigiano Lino Bianchi Barriviera nella spedizione scientifica del �38-´39 a seguito dell´impresa coloniale fascista.
Baricentro della mostra è il favoloso mappamondo di Fra´ Mauro, domenicano in Venezia, che alla metà del Quattrocento costruisce una raffigurazione quasi perfetta dell´Eurasia e dell´Africa, con quest´ultima già circumnavigabile e la prima che spazia fino al Mar del Giappone. Prestato con qualche resistenza dalla contigua Biblioteca Marciana, esso contiene, in un cerchio di meno di due metri di diametro, quasi tremila toponimi, maniacalmente esatti, e una morfologia dei fiumi, delle pianure e delle montagne che tiene conto delle relazioni di tutti i grandi viaggiatori passati all´epoca per Venezia.
In alto a destra (il mappamondo ha il Nord in basso) ecco l´Etiopia, piena di dettagli come la sorgente del Nilo, il Lago Tana, il castello del Prete Gianni e le terre della Regina di Saba. Google-Earth non accende la fantasia meglio di questo straordinario planisfero. «Fra Mauro raccolse tutti questi dati topografici da una delegazione etiope giunta in Italia nel 1439, per gli stati generali della cristianità a Firenze», racconta Giuseppe Barbieri, insegnante di metodologia della ricerca storico-artistica alla Ca´ Foscari. Ma tutto nel mappamondo è frutto di notizie di prima o seconda mano: dalle fonti arabe al racconto di Marco Polo, fondamentale per la ricostruzione dell´Asia Centrale.
Poi accade che nelle sale venerande dell´università veneziana ti appaia in più punti - da un caminetto o una nicchia - la figura tridimensionale viva del novantaquattrenne Stanislaw Choynacki, il polacco dalla vita romanzesca che nel secondo dopoguerra fu capo della biblioteca di Addis Abeba e poi patriarca dei cultori d´Etiopia nel mondo, il quale ti porta alle sorgenti del Nilo e della cristianità in poche frasi folgoranti (in perfetto italiano) che ti schiudono il senso del tuo viaggio nel tempo nei mille metri quadrati della mostra. Nel vestibolo d´ingresso, proiettato sul soffitto, uno di quei rotoli magici apparentemente simili alla Torah degli ebrei, che contiene le preghiere terapeutiche. Prima un lungo testo di scongiuri in lingua liturgica, poi una sfolgorante parte figurata con presenze in bilico tra il sacro e il profano - come l´angelo della vigilanza, i demoni in catene, Alessandro il Grande, gli apostoli, San Giorgio, il re Davide, Mosè.
Davvero un altro mondo, che varrebbe la pena di conoscere meglio anche per evitare che l´offensiva dell´Islam wahabita - favorito dalla nostra distrazione - abbia la meglio anche qui, nella culla della cristianità.

Corriere della Sera 23.3.09
La provocazione Tranfaglia d'accordo con D'Orsi: rischi autoritari. Ma Cacciari e De Giovanni: la democrazia è salda
Archiviare l'antifascismo? Ed è subito dibattito
di Pa. Fo.

Storico. Nicola Tranfaglia: «Rischio autoritarismo»
Filosofo. Massimo Cacciari: «Nulla è eterno»
Analisi. Biagio De Giovanni: «Non ci sono rischi»

ROMA — «Archiviato quel che del fascismo rimaneva, si può archiviare l'antifascismo? »: è la domanda posta ieri dallo storico Angelo D'Orsi sulle pagine del quotidiano comunista Liberazione, nel giorno dello scioglimento di An. E la risposta data da lui stesso è netta: «No chiaro e tondo». L'antifascismo dunque secondo D'Orsi non deve andare in soffitta, per almeno due motivi: perché l'assorbimento di Alleanza nazionale nel Pdl «intensificherà la nascita di gruppi fascisti duri e puri». E perché «lo scioglimento di An nel Pdl appare un atto formale che si inserisce nel quadro del passaggio alla postdemocrazia che è il volto del nuovo fascismo». Una tesi che ha subito diviso gli intellettuali di sinistra.
«Ha ragione Angelo D'Orsi — ha commentato lo storico Nicola Tranfaglia — ma non tanto perché c'è il rischio concreto di un ritorno al fascismo, che come tale è un fenomeno superato e non potrà mai tornare. Ma perché c'è il rischio di un consolidamento del modello di autoritarismo populista mediatico che con Berlusconi già abbiamo e che è molto sviluppato, per esempio, in Francia con Sarkozy o in Venezuela con Chávez. E' giusto vigilare prendendo come riferimento i valori dell'antifascismo per evitare derive di questo tipo, che sono una nuova forma di fascismo per molti versi ».
Massimo Cacciari, filosofo e sindaco di Venezia, è invece in disaccordo: «Nulla è eterno e anche la democrazia come la intendiamo noi oggi un giorno non ci sarà più, come del resto era caduto l'Impero romano che sembrava invincibile. Il rischio di un ritorno al fascismo però non esiste nel quadro politico attuale e con gli attuali leader politici. Certo, è giusto vigilare contro gli autoritarismi e semmai intervenire con prontezza, ma in Italia la democrazia non è in pericolo ». Posizione condivisa dallo storico Biagio De Giovanni: «L'antifascismo come categoria filosofica non va in pensione e deve essere presente nella memoria storica di tutti, perché ha segnato in maniera importante il secolo scorso. Ma adesso non è il caso di scomodare l'antifascismo, non c'è alcun rischio di deriva anti-democratica nel nostro Paese».

Corriere della Sera 23.3.09
La giornata mondiale L'Onu: dal 2030 metà della popolazione della Terra potrebbe essere al di sotto della soglia minima
Accordo fallito, l'acqua non diventa diritto
Per il forum di Istanbul è solo un «bisogno». Impegni generici nel documento finale
di Mario Porqueddu

Si è concluso il vertice tra le polemiche di Francia, Spagna e di molti Stati sudamericani e africani

MILANO — L'acqua è una «necessità umana fondamentale ». Un bisogno riconosciuto. Nessuno, però, ha «diritto » all'acqua. Le aspettative di tante Ong e agenzie internazionali, di Paesi africani e latinoamericani, ma anche di Spagna e Francia, sono andate deluse. Nella dichiarazione finale del V Forum mondiale sull'acqua, che si è chiuso ieri a Istanbul, la nozione di «diritto dell'accesso all'acqua» non ha trovato posto. «Siamo rattristati. Ci è stato impedito di apportare modifiche al documento » protesta la delegazione etiope. Ed esce sconfitto anche il ministro dell'Ambiente transalpino, Chantal Jouanno, che venerdì scorso aveva chiaramente chiesto che il testo conclusivo fosse rafforzato in quella direzione: «Come si può parlare di diritti dell'uomo — domandava polemicamente — se non si parla di diritto all'accesso all'acqua? È il diritto che condiziona tutti gli altri».
Per una settimana sul Bosforo si sono confrontate 25.000 persone, capi di Stato e di governo e delegati provenienti da 155 Paesi. Alla fine, nella dichiarazione presentata da 95 tra ministri e vice-ministri, si concorda sulla necessità di «migliorare l'accesso all'acqua e l'azione di bonifica in tutto il mondo», di «economizzare l'acqua» in particolare nel settore agricolo, e di «contrastare l'inquinamento, di fiumi e falde». Tutti d'accordo anche su un altro punto: è urgente. Perché ogni anno sono attribuite alla carenza di acqua e servizi igienico-sanitari 8 milioni di morti. Perché sono più di 1 miliardo le persone che hanno limiti di accesso all'acqua potabile. E perché secondo il rapporto Onu presentato in parallelo al Forum, il rischio è che nel 2030 metà della popolazione mondiale resti assetata.
Sono gli «impatti umani diretti » di cui ha parlato, tra gli altri, Jonathan Greenblatt, professore alla University of California di Los Angeles e consulente al team di transizione alla Casa Bianca di Barack Obama. «Credo che l'acqua debba diventare parte dell'agenda dei legislatori — ha detto Greenblatt — e di chi decide in politica». Secondo l'Organizzazione mondiale della sanità sarebbe un gioco a somma positiva. Ogni dollaro speso in acqua e misure igieniche, calcola l'Oms, può portare un beneficio economico tra i 7 e 12 dollari. Su scala mondiale questo significa che le agenzie sanitarie potrebbero risparmiare 7 miliardi di dollari all'anno. Più acqua vorrebbe dire più istruzione: si registrerebbero 272 milioni di giorni in più di frequenza scolastica all'anno. E migliori condizioni di salute: si conterebbero più di 1 miliardo e mezzo di giornate di buona salute per i bambini con meno di 5 anni.
Due miliardi e mezzo di cittadini del mondo sono privi di acqua per uso igienico. E a sottolineare quanto sia stretto il legame tra acqua e salute è Rose George, autrice del saggio «The Big Necessity». Il libro parla di quello che di solito si cerca di tenere il più possibile a distanza: le deiezioni umane. «È come la lotta per togliere la sordina ai rischi di contagio dell'Aids negli anni '80 — dice la George —. Oggi poche celebrità e pochi esponenti politici accetterebbero di sposare una campagna sui problemi igienico-sanitari, facendosi fotografare davanti a una latrina». Ma ormai più della metà della popolazione mondiale vive in città e si calcola che quasi 3 miliardi di persone abitino in case prive di sistema fognario. «Pochi si rendono conto del ruolo cruciale di questa battaglia» spiega David Trouba, del Water Supply and Sanitation Collaborative Council, una Ong di Ginevra. Stima che 1,2 miliardi di persone, più della metà in India, defechino all'aperto. E non succede solo a Mumbai: ci sono 140 milioni di europei che non hanno accesso ad acqua pulita e servizi sanitari. In Albania e Georgia, in Montenegro e in Macedonia. Gli investimenti in questo campo, però, non superano lo 0,3 del Pil mondiale.

Corriere della Sera 23.3.09
Michael C. Corballis e Philip Lieberman ribaltano molti dati e inquadrano il linguaggio al termine di un processo evolutivo a lungo dominato dai gesti
E l'uomo un giorno incominciò a parlare
Così gli organi della respirazione e deglutizione sono stati «riconvertiti»
di Sandro Modeo

Le muraglie più resistenti, a livello di pregiudizio culturale, sono spesso le più eteree e impalpabili. Così per il linguaggio umano, unicum dell'universo che Cartesio riteneva spiegabile solo come «dono divino»; e che i «neocartesiani» — costellazione vasta e composita, comprensiva di filosofi, linguisti e psicanalisti — continua a inquadrare più o meno come un'entità platonica e astratta, irriducibile alla matassa prosaica del nostro cervello.
Un libro dello psicologo australiano Michael C. Corballis, uscito nel 2002 e appena tradotto da Raffaello Cortina, intitolato Dalla mano alla bocca, può servire non solo a rovesciare la prospettiva, inquadrando nel linguaggio umano uno degli esiti più complessi dell'evoluzione, ma rilancia anche un'ipotesi audace (abbozzata già da Étienne Bonnot de Condillac) che vedrebbe nella parola l'approdo conclusivo di un percorso a lungo dominato dalla gestualità, e per un tratto connotato dal condominio delle due modalità comunicative, come mostrerebbe la nostra abitudine «residuale» di gesticolare conversando, anche al telefono.
Corballis articola la sua tesi per sequenze incalzanti. Vede nell'acquisizione della postura bipede, intorno a 5 o 6 milioni di anni fa (non si sa se in un habitat di savana crescente, con nuove pressioni di fuga e predazione, o in siti semiacquatici, con la camminata conseguente al nuoto) la possibilità di «liberare» gli arti superiori incanalandoli verso la prensione e il lancio, premesse per un salto di manualità tecnologica. Quindi, individua nella «lateralizzazione» emisferica cerebrale a sinistra — specie nella famosa «area di Broca» — la svolta neuroanatomica decisiva nella scrematura delle funzioni comunicative, in quanto responsabile sia delle «vocalizzazioni» di tante specie animali (da quelle delle scimmie a quelle vertiginose degli uccelli), sia, appunto, del linguaggio gestuale umano, sviluppato a partire da schemi basici quali «l'additare» (per esempio un nemico, una belva, un compagno). E infine, delinea la genesi della parola (anticipata da ansiti e grugniti) e la sua emancipazione dal gesto dopo dettagliati mutamenti anatomici e neurofisiologici, in un processo graduale giunto a compimento circa 175 mila anni fa: l'abbassamento della laringe, l'allungamento del tratto sopralaringeo e le modificazioni cerebrali (non solo quantitative) legate alla necessità di leggere e decifrare un ambiente carico di nuove e diverse pressioni selettive.
Secondo Corballis, insomma, a un certo punto la matrice «iconica» del linguaggio gestuale (che pure può coprire molte sfumature espressive, come mostrano i 4.500 segni impiegati dai sordi) ha dovuto lasciare il passo a quella «simbolica » della parola, coi suoi molteplici vantaggi adattativi: l'arbitrarietà (e quindi la maggior precisione, per esempio nel nominare frutti e animali), l'impiego al buio e a distanza (capitale nel comunicare stati di allarme) e, viceversa, la graduazione fonetica (il sussurro per non farsi udire). Ma — ecco il punto — l'incontestabilità di questa successione filogenetica gesto-parola, per Corballis, sarebbe dimostrata dalla controprova ontogenetica del linguaggio infantile: i bambini, infatti — nella loro poderosa scrematura costruttiva, con 10-15 mila vocaboli acquisiti tra l'anno e mezzo e i cinque anni, cioè uno per ogni ora di veglia — impiegano i gesti due o tre mesi prima delle parole.
Per quanto corretto (e seducente) nel dimostrare la sua tesi, Corballis è però parziale nel rendere le origini del linguaggio nell'insieme. Un'utile integrazione viene così da un libro (2006) di Philip Lieberman, docente di scienze cognitive alla Brown University: Toward an Evolutionary Biology of Language («Verso una biologia evoluzionistica del linguaggio», da tradurre al più presto).
Infoltendo e affinando i risultati dei lavori precedenti, Lieberman condivide con Corballis la svolta «cronologica» del linguaggio umano (intorno a 150 mila anni fa), valutandola però più come un'accelerazione in cui diverse strutture fisiologiche preesistenti (cerebrali in particolare) si «riconfigurano» interagendo tra loro in rapporto ai nuovi stimoli, ed esaltando così la facoltà ricombinatoria di quello che François Jacob chiamava il «bricolage» evolutivo. Lo mostra bene — motivo accennato anche da Corballis — la conversione di organi deputati a funzioni primarie quali la deglutizione o la respirazione (dalla lingua alla laringe stessa) in strumenti di emissione e articolazione della parola.
Sono due, per Lieberman, i passaggi decisivi. Il primo è l'incidenza linguistica del cervello antico o «rettiliano», coi «gangli basali» deputati a molte funzioni motorie umane (camminare, correre, danzare, ma anche alla coordinazione delle zampe negli insetti o al trotto-galoppo nei cavalli), dalle quali si sarebbe sviluppata una «sintassi di base», ovviamente in interazione con aree sensoriali-cognitive della corteccia (Broca e Wernicke incluse) e con la memoria (nell'ippocampo). Prova di tale incidenza sono i malati di Parkinson, il cui deficit di dopamina nei gangli basali comporta disturbi cinetici, sintattico- verbali e cognitivi (pensiero rallentato). Il secondo passaggio è l'azione del gene regolatore FOXP2, a partire, forse, da 100 mila anni fa: gene non specifico dell'uomo (si trova in topi e scimpanzé) né del cervello (viene espresso anche nei polmoni), ma decisivo nel coordinare una dinamica, fondata proprio sui gangli basali, alla base dell'elaborazione del linguaggio. Tutti e due i casi confermano nell'evoluzione (nella selezione) un processo ad altissima flessibilità, in cui ogni struttura — insieme generale e specifica — è coinvolta in più funzioni con ruoli variabili (ora prevalente, ora gregaria, ora addirittura inibita e silente), così come uno strumento, in un'orchestrazione, può essere voce solista, parte della polifonia o «in pausa».
Correggendo e integrando Corballis (vedi la notevole analisi su come il cervello discrimini suono e senso di una voce dall'intricato spettro di segnali acustici del mondo esterno), Lieberman ne rinsalda alla fine le acquisizioni polemiche: sull'inesistenza, per esempio, di una «grammatica universale», smentita sia a livello di linguaggi «segnati» (spesso molto diversi tra loro) sia a livello di lingua parlata (ci sono lingue, come il dialetto indonesiano Riau, che non distinguono nomi, verbi, aggettivi). E più estesamente, i due libri vedono nel linguaggio — sottratto a ogni dimensione trascendente — una lenta, laboriosa conquista del sapiens per riuscire a comunicare, anche a se stesso, i paesaggi emotivi e cognitivi, consci e inconsci, estesi nel rapporto tra il cervello e il mondo.

Corriere della Sera 23.3.09
Kierkegaard fidanzato impossibile
di Armando Torno

Søren Kierkegaard fu un moroso difficile da gestire per la povera Regina Olsen. Quello che per la storia resta un grande filosofo, per la donna si trasformò in una disperazione. Convinto che esista un fidanzamento celeste, presso il Padre, e un altro visibile, tangibile, che si consuma sulla terra con baci, carezze e quel che è necessario, il giorno dopo essersi promesso alla diciassettenne signorina — era il 10 settembre 1840 — il ventisettenne pensatore si pentì, considerandosi incapace di una vera passione umana. E poi Regina gli pareva troppo vanitosa, incline alle cose del mondo, senza una vera disposizione religiosa. La faccenda finì con la restituzione dell'anello alla signorina (11 agosto 1841), quindi con la rottura definitiva (11 ottobre). L'«antiamore» cristiano e la sicurezza erotica non riuscirono ad abbracciarsi, come testimonia Kierkegaard in queste Lettere del fidanzamento (a cura di Gianni Garrera, Editrice Morcelliana, pp. 118, e 10). Un libro delizioso che precede, sempre da Morcelliana, la nuova edizione del Diario in due ponderosi tomi. Il primo dei quali uscirà a maggio.

domenica 22 marzo 2009

l'Unità 22.3.09
Derive di carta
Quotidiani sull’orlo di una crisi di copie: è il film che si sta girando in tutte le redazioni del mondo da New York a Parigi, da Londra a Berlino, da Milano a Roma. La ricetta è la stessa: tagliare i costi e prepararsi a uscire solo sul web. Ma è questa la vera soluzione?
intervista a Stefano Rodotà di Jolanda Bufalini


«Internet non uccide i giornali»
Viviamo in una democrazia cognitiva e l’accesso alla conoscenza (con quali mezzi, a quali condizioni), la possibilità di avere informazioni diventano problemi capitali».

Un panorama da brividi presentiamo in questo dossier: le verosimili macerie del sistema dell’informazione imperniato sull’acquisto in edicola, così come si presenteranno alla fine del 2009. Abbiamo chiesto a Stefano Rodotà che fine farà, dopo il terremoto, quello che lui chiama, citando Salvemini, «lo spazio pubblico di confronto dove si forma il cittadino democratico». Rodotà, oltre che studioso della democrazia, è, da sempre, interessato alle nuove tecnologie. C’è il rischio di un gap, fra il vecchio che scompare (il giornale) e il nuovo non ancora pronto a raccogliere il testimone? «Il rischio c’è», risponde. «Una volta si diceva l’ho letto sul giornale quindi è vero. Ora, con internet, c’è un enorme problema di fonti che devo imparare a maneggiare». Ma «sarei cauto prima di pronunciare la condanna a morte dei giornali. Le nuove tecnologie producono effetti cumulativi più che sostitutivi, si aggiungono e spesso rilanciano i media tradizionali».
C’è un problema di autorevolezza di internet?
«I sostenitori più convinti dicono che la rete è fortemente critica ed espelle da sé il falso. Io sarei meno ottimista. Avevamo immaginato la presa diretta e invece abbiamo disperatamente bisogno di mediatori sociali: Google è arrivato a tre trilioni di pagine, un materiale inaccessibile se non ci fosse la mediazione».
E viene fuori un problema di democrazia?
«Digito una parola e vengono fuori risultati da uno a dieci su, poniamo, 4 milioni 750mila. Perché qualcuno è ai primi dieci posti e un altro è al quattromilionesimo? I criteri sono tanti: le domande più frequenti, i riferimenti correnti. Un pensiero minoritario è sacrificato al principio del più cliccato. E non è secondario il rapporto con la pubblicità, Chirac si era posto il problema - poi non se ne fece nulla - di finanziare un motore di ricerca europeo. Si chiamava Quero (dal latino cerco).
C’è una nuova generazione di mediatori ma non c’è controllo democratico?
«Google è proprietario di You Tube. Alcuni Stati, la Turchia, la Tailandia hanno chiesto “leva questo film” e il film è stato levato. Una notizia non gradita è arivata dalla Cina agli Usa, il governo cinese ha chiesto di sapere il nome di chi l’aveva diffusa. Yahoo ha dato quel nome e la persona è stata arrestata e condannata a 10 anni. Quei mediatori non danno garanzie. C’è un problema di trasparenza, non di controllo repressivo: al Congresso americano è depositata una proposta bipartisan per la quale Yahoo e Goggle dovrebbero riferire se hanno operato dei filtraggi su richiesta di stati nazionali».
I social network, qualcuno li considera uno strumento formidabile di democrazia. Altri mettono in guardia: sono solo minoranze attive.
«Non voglio sopravvalutare la vicenda di Obama, anche perché nasce in un paese dove l’uso di internet è molto più democratico che nel resto del mondo. Obama ha utilizzato il web come strumento per la raccolta dei fondi: un sistema capillare gli ha permesso di raggiungere un numero sterminato di persone e di sottrarsi al potere assoluto della businness community. Questa prima operazione lo ha messo nelle condizioni di una minore dipendenza dalla forza degli interessi economici. Poi i contattati per il finanziamento sono diventati minoranza attiva che entra direttamente nel processo politico. Barak Obama, attraverso il social networking, è riuscito ad avere una mobilitazione che ha contribuito a creare una sfera pubblica che è stata importante per il suo successo. Ma non è stato il primo a tentare, il primo fu il governatore del Vermont Howard Dean».
Ma la grande maggioranza non è ancora orientata dalla televisione generalista?
«intanto, se non ci fossero le minoranze attive, la cappa della televisione tradizionale sarebbe totale. E poi, nell’ultimo giorno buono per la campagna elettorale Obama ha speso tre milioni di dollari per spot televisivi. Non si era completamente trasferito nella dimensione di internet. È una novità molto diversa da quella che si rappresenta il politico nostrano che ritiene, creando il suo blog, di essere entrato nella modernità. L’operazione di Obama ha creato la saldatura fra le due sfere. Non dico che sia generalizzabile ma, pensiamo ai giornali, capire se con l’on line c’è soltanto conflitto o ci possa essere alleanza è centrale».
Nelle redazioni dei vecchi giornali si taglia il costo del lavoro, ovvero, soprattutto i giornalisti ma così viene meno la qualità e, in un circolo vizioso, il giornale perde ancora più copie e pubblicità.
«È vero, c’è una sorta di outsourcing: ti do un cellulare e tu, quando hai una notizia, la filmi e la mandi. Io non sottovaluto affatto questa informazione in diretta che può arrivare da paesi che sarebbe stato impossibile, in altri tempi, raggiungere. Però andrebbe vista attraverso l’effetto cumulativo e non sostitutivo, anche perché faccio prima a trovare quel tipo di notizia su You Tube che sul giornale di carta».
Quale ruolo vede per il giornale di carta in futuro?
«Si è investito poco, dal punto di vista delle idee, di fronte a questa ricchezza di fonti. Siamo in una civiltà dove l’immagine è tutto, mentre il giornale è scrittura. Il giornale penso debba offrire valutazioni ulteriori, metodo critico praticato quotidianamente per stare meglio nella società della conoscenza e dell’immagine».
Un’enorme metamorfosi?
«C’è una molteplicità di fonti e un allargamento della platea. Il giornale deve trovare, in questo cambiamento di dimensioni gigantesche, il punto in cui si colloca: prima era centrale, ora si deve riorganizzare ponendosi al centro di un sistema per le quali si richiedono anche altre competenze».

l'Unità 22.3.09
Europa, la decimazione è in programma per il 2010
Il Financial Times ha già scritto cupamente il necrologio: nato nel 1764 defunto nel 2009
E se l’ammiraglia taglia è facile immaginare cosa stia accadendo nelle testate minori
Il dramma è che il vecchio sta morendo ma il nuovo non è ancora pronto a prenderne il posto


Uno su dieci dovrà cambiare pelle o chiudere baracca e burattini. Uno su dieci, letteralmente una decimazione: le previsioni, nel buio di un’età di mezzo dove il vecchio è decrepito ma il nuovo non ha ancora gambe robuste, parlano chiaro. «Uno su dieci tra giornali e riviste potrebbe essere costretto il prossimo anno a ridurre della metà le sue pubblicazioni, migrare su internet o chiudere del tutto», sentenzia uno studio della Deloitte, una delle più grandi aziende di consulenza e revisione del mondo. E nel numero non c’è solo l’America della crisi, che chiude testate storiche. Anche l’Europa naviga nelle stesse acque. Il Financial Times, cupamente, ha già scritto il necrologio della carta stampata sotto due date: 1764-2009. 2009: adesso.
Il Financial Times ha le sue buone ragioni per vedere nero. Dopo un taglio di 80 posti di lavoro per far fronte alla riduzione delle entrate, la testata è costretta a tagliare ancora. L’ipotesi allo studio è una settimana lavorativa di tre-quattro giorni, per i prossimi mesi estivi. Obiettivo: stare a galla, per provare a vedere che cosa c’è dall’altra parte. E se un’ammiraglia come il Financial Times tira la cinghia, il resto viene da sé.
Si taglia, un po’ da per tutto in Europa. Dopo aver ridotto all’osso le spese, si è arrivati al dunque di affondare il coltello anche nel corpo redazionale. La Spagna sembra essere il Paese più colpito, o forse solo quello che ha anticipato una tendenza. Dalla scorsa estate hanno perso il lavoro 1600 giornalisti, le stime di qui al 2010 prevedono un’ecatombe: 5000 posti in meno, il 20% dell’intero settore. «Siamo una specie in via d’estinzione», chiosa Magis Iglesias presidente dell’Associazione dei giornalisti spagnoli. Un parere condiviso. Il gruppo del britannico Guardian taglia 150 posti dai suoi giornali regionali, dopo un crollo dei profitti per il biennio 2008-2009 stimato all’85%. «Le peggiori condizioni a memoria umana», così sintetizzano la situazione. Il francese Le Monde aggiorna la grafica e taglia 60 posti, dopo un calo del 5,3% delle vendite nel 2008. Axel Spriger, il gruppo editoriale più grande d’Europa - Bild e Die Welt - per ora cancella premi e appuntamenti mondani. Ma la Suddeutsche Zeitung pensa a tagli per un quinto del suo staff.
La crisi c’entra, ma fino a un certo punto. Agisce come un catalizzatore, accelerando un processo che non è cominciato ora. I giornali su carta vendono meno copie e risentono della concorrenza del web che sottrae pubblicità, già ridimensionata dalla crisi. Ma la virata verso il solo on line non è ancora matura. Senza il supporto dei giornali di carta, i siti non sono in grado di stare in piedi da sé. «Neppure il sito on line più di successo può compensare le perdite del suo corrispettivo cartaceo», dece Howard Davies co-autore del rapporto Deloitte.
Internet trabocca di pubblicità, ma non necessariamente sui siti dei giornali. La scelta di Google di aprire le sue news alla pubblicità ha gettato nello sconforto l’informazione on-line: la tendenza già era alla concentrazione sui grandi motori di ricerca e network sociali. Per gli altri restano briciole. E gli annunci come unica fonte di entrata sono comunque un boomerang: in Spagna ha chiuso i battenti il free-press Metro, che distribuiva 1,8 milioni di copie, penalizzato da una contrazione della pubblicità che per il 2009 in Europa è stimata tra il 30 e il 35%. La ricetta per venirne fuori ancora non c’è. Deloitte suggerisce l’on line più uscite ridotte, magari al fine settimana, e risparmi sui fornitori. Ma non sul personale. Perché la qualità è la sola carta che resta in mano agli editori.

l'Unità 22.3.09
«L’ultima copia? Arriverà presto se non facciamo pagare le notizie su Internet»
Intervista a Vittorio Sabadin


L'ultima copia del New York Times? Potrebbe andare in stampa da un giorno all'altro, non siamo mai stati così vicini», riflette Vittorio Sabadin, giornalista de la Stampa e autore tre anni fa di un libro che si intitolava proprio così: “L' ultima copia del «New York Times». Il futuro dei giornali di carta”.
Che sta succedendo al mondo dell'editoria?
«La crisi sta accelerando un processo che era già in atto. Quando sarà passata, niente sarà più come prima. Il New York Times ha 400 milioni di debiti e pochi milioni in cassa. In gravissime condizioni è anche El País».
In Italia com'è la situazione?
«Da noi editori e giornalisti si sono mossi con un ritardo ancora più grave rispetto agli altri paesi perché la crisi è stata nascosta dal successo economico dei gadget venduti insieme ai giornali».
Qual è stato il ruolo di Internet in tutto questo?
«Mettere on line le notizie gratis è stata l'altra grande sciagura di cui ci pentiremo per generazioni».
Non è una posizione di arroccamento in una fase in cui sta incominciando a correre la pubblicità su Internet?
«L'informazione prodotta dai giornalisti fa prosperare decine di altri siti come Dagospia o altri “aggregatori” di notizie. Ma il materiale che loro usano viene realizzato da agenzie o da giornali e non è gratis. È il frutto di professionalità retribuite».
Quindi, 5 centesimi a notizia per salvare giornali e giornalisti?
«È l'unica possibilità. Non vedo perché un ragazzo non debba farsi nessun problema a spendere 15 centesimi per un sms e non debba spendere niente per leggere una notizia».
E le copie cartacee? Hanno il destino già segnato?
«Ora una copia costa 1,40 euro e viene venduta a 1,00 euro. Con il crollo dei rendimenti pubblicitari non c'è molto margine di sopravvivenza».
Idee a cui aggrapparsi?
«Poche pagine, grande qualità. Smettere di inseguire le notizie e dedicarsi agli approfondimenti. Settorializzarsi e inventarsi formule che non sono mai state sperimentate prima. D'altronde, i giornali generalisti con decine di pagine sono un'invenzione degli anni '90. Ma, soprattutto, gli editori devono capire che non sopravvivono solo tagliando i costi e riducendo il personale».

l'Unità 22.3.09
A proposito di Dio... «Non mi interessa sapere se esiste o no - scrive Fernando Savater - ma vorrei sapere se l’eutanasia o l’aborto in Spagna dipendano da patti con la Santa Sede»
Laici, come Democrazia comanda
di Fernando Savater


L’abc del cittadino
L’intervento inedito di Fernando Savater che ospitiamo in questa pagina sarà pubblicato a partire da domani su www.labreccia.it, il blog del Vocabolario laico di Vladimiro Polchi. Il blog ha già pubblicato interventi di Luciano Canfora, Massimo Salvadori e Michele Ainis e riceve il testimone dal libro appena uscito per Laterza «Da Aborto a Zapatero. Un vocabolario laico» di Vladimiro Polchi.
La «Breccia». A metà tra il blog e la rivista on-line, «La breccia» fotografa dall’alto i tanti terreni di scontro tra laici e cattolici. Perché, mai come oggi, il confine tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio si è fatto ambiguo e passa su terre ancora da esplorare.
Un inedito dello scrittore

È da non credersi quanto Dio faccia ancora parlare di sé. Ora che il cardinal Bertone è tornato ai patri lari (a proposito, sembra un po’ il malvagio mago Sokhura, interpretato in modo geniale da Torin Thatcher in Il settimo viaggio di Simbad) e che le nostre pie autorità si sono scosse di dosso l’odore d’incenso, forse potremmo parlare con franchezza dei cosiddetti «autobus atei» (?). Riconosco che mi costa fatica non simpatizzare con qualunque iniziativa che sia motivo di scandalo per il vescovado, ma in questo caso lo slogan («Probabilmente Dio non esiste. Non ci pensare e goditi la vita») mi sembra un’ingenuità tipicamente… anglosassone, un po’ nello stile di Richard Dawkins, ma anche in quello, opposto, del poco compianto George W. Bush.
Si possono muovere due obiezioni a questa professione motorizzata di scetticismo. Tanto per cominciare, i credenti adorano Dio proprio per contenere la loro preoccupazione principale - la morte - e dunque potersi godere la vita più o meno bene, come cerchiamo di fare anche noialtri.
L’ESISTENZA DI DIO
Al giorno d’oggi, coloro ai quali la religione causa più sofferenza che consolazione non ci mettono molto ad abbandonarla. In secondo luogo, dire che Dio «probabilmente non esiste» è dire troppo o troppo poco. Immaginiamo che qualcuno ci domandi se esiste la Banca Nazionale del Lavoro: poiché quest’istituto ha molte sedi, molti dirigenti e molti dipendenti, persone che gli affidano i propri risparmi, è quotato in borsa e si suddivide utili succulenti eccetera... non c’è cosa più logica e sensata che rispondere affermativamente. Ma se il mio interlocutore mi assicura di aver appena incontrato la Banca Nazionale del Lavoro per la strada, la quale gli ha rivelato alcune formule per uscire dalla crisi, mi rifiuterò di credergli... perché la banca in questione non esiste, cioè non esiste nel senso in cui esistono i passanti, Barack Obama, il Monte Bianco o gli invertebrati. Credo che con Dio accada la stessa cosa: in un senso è impossibile negarne l’esistenza, ma in un altro è impossibile affermarla. Ciò che non capisco è che Rouco, arcivescovo di Madrid, consideri una «offesa a Dio» il prudente motto riportato sulla fiancata dell’autobus: avrebbe potuto considerarlo un alibi (Stendhal disse che «l’unica scusa di Dio è che non esiste») o una conferma alla sua fede (il grande teologo Bonhoeffer, assassinato dai nazisti, assicurava che «un Dio che è, non è»).
Non mi piace che qualcuno sia chiamato «ateo», «agnostico» o con altri qualificativi religiosi: è come affibbiare una di quelle patenti per non guidatori che esistono negli Usa, che hanno lo scopo di non privare nessuno di un così indispensabile documento d’identità. Ma se devo rassegnarmi a una definizione, allora dirò che mi pare impossibile rendere l’ateismo compatibile con la smania missionaria: non nego che la cosa eserciti una certa attrazione morbosa, ma è incoerente come una suora che si dedichi allo strip-tease. Ben diverso è che a un ateo piaccia molto discutere con i credenti, come al mio buon amico Paolo Flores d’Arcais (che adesso, stanco dell’impantanamento politico italiano, vuole promuovere un nuovo partito ed è stato rimproverato perché «non ce n’è bisogno» e «ce ne sono fin troppi»: la stessa cosa che è accaduta in Spagna quando abbiamo promosso Unión Progreso y Democracia). La sua specialità sono i cardinali, che in Italia sono come i cuochi nei Paesi Baschi, cioè sono dappertutto e ve ne sono di vari tipi: dal sottile e post-heideggeriano Angelo Scola (vedi Dio? Ateismo della ragione e ragioni della fede, Marsilio) fino allo stesso Ratzinger prima di diventare papa (Dio esiste?, Micromega), più convenzionale. Il meglio di quest’ultimo libretto è l’appendice di Paolo, Ateismo e verità, e la sua ancor più gustosa discussione con due filosofi (Michel Onfray e Gianni Vattimo) in Atei o credenti? (Fazi). Non credo che ci sia qualcuno capace di argomentare con una pazienza e un rispetto maggiori di quelli dimostrati da Flores d’Arcais, sebbene anche lui si permetta di scherzare un po’: «le credenze religiose sono come un dado di senso nel brodo dell’esistenza».
GUSTAVO BUENO
Il contestato discorso di papa Ratzinger a Ratisbona ha meritato un intero libro di difesa, Dio salvi la ragione (Cantagalli). Fra i vari apologeti nazionali e stranieri che vi hanno collaborato, nessuno è più illustre e paradossale di Gustavo Bueno, un pensatore del nostro materialismo autoctono, ovvero quel che gli italiani definiscono un «ateo devoto», vale a dire un sostenitore del papa al di fuori della fede. Secondo Bueno, rispetto alle superstizioni e alle derive dell’infiacchita ragione postmoderna, è l’ortodossia cattolica l’erede della retta tradizione razionalista, malgrado le sue episodiche concessioni al miracoloso. Si scaglia perfino contro «l’estrema benevolenza umanistica» dei governi che nel laicismo trovano il canale per un’educazione razionale la quale, non potendo accettare il materialismo universale, finisce per adattarsi, nel suo relativismo, meglio dell’ortodossia alla dispersione dell’attuale analfabetismo. In altre parole, poiché il pontificato veramente auspicabile, cioè quello di Gustavo Bueno, viene posticipato indefinitamente, ben venga intanto quello di Benedetto XVI. Insomma...
Mi spiace ammetterlo, ma non mi preoccupa granché sapere se Dio esiste, come esiste e per chi esiste. Invece, quel che mi piacerebbe sapere è se in Spagna esiste veramente per tutti uno Stato laico come democrazia comanda, in cui l’educazione civica non sia un attentato totalitario commissionato dai vescovi né questioni come l’aborto, l’eutanasia o l’indottrinamento religioso nella scuola pubblica dipendano da patti con la Santa Sede basati su opportunismi elettorali. Quanto al resto... beh, mi viene in mente un aneddoto sulla festa di san Fermín. La plaza de toros di Pamplona traboccante di gente, baldoria generale, botti di vino a innaffiare le fette di prosciutto col pomodoro: improvvisamente capita un incidente nell’arena e qualcuno sbotta in un sonoro «Porc..!». La folla, sboccata ma devota, rimprovera il blasfemo, che replica a sua difesa: «Non vi preoccupate, non mi riferisco al vostro... ma a quello vero».

l'Unità 22.3.09
L’onda del sapere per tutti
di Beppe Sabaste


Conosco e stimo il ministro per la Pubblica amministrazione e l’Innovazione. Mi disse: «Le rivoluzioni si fanno in tempi brevi, sono delle rotture, è la costruzione di modelli culturali che avviene in tempi lunghi». Ma la sua esternazione sugli studenti (La Stampa di sabato) che dall’ottobre scorso hanno manifestato il loro disagio, mi ha turbato come se parlasse di un altro film. Quegli studenti li avevo osservati da vicino. Nelle università occupate, la didattica non fu bloccata ma resa pubblica, come il sapere che si voleva difendere. Nelle città era come se fosse in corso un grande festival culturale, le piazze teatro di lezioni en plein air, di fisica, filosofia, economia, ecc... L’imponente comunità fu detta «onda anomala», e l’anomalia era nell’essere così pacifica e immune dall’ideologica che gli adulti di oggi trovano impossibile un paragone coi movimenti del passato. Li ho ascoltati, osservati. I loro slogan sono pragmatici, di chi si preoccupa del futuro, del senso della vita, delle scelte di conoscenza. Preoccupazioni che hanno in genere i migliori studenti. Nell’attuale messa al bando di investimenti e strategie a lungo termine, si sentono più che superflui. Gridavano: «Pubblica / Università». Lo slogan più violento fu: «La forza della cultura / contro la nuova dittatura». Potrei giocare col significato antico della parola dittatura (un regime linguistico: i dictatores erano i «padroni» dello stile retorico, dell’ars dictandi). Ma anche di questa «provocazione» sta a chi governa negare i fondamenti: con l’ascolto, il dialogo, entrando nel merito delle proposte e proteste contro il disinvestimento vistoso nella scuola, nell’educazione, nella ricerca, nei «tempi lunghi» di cui mi parlava il Ministro. A meno che «la costruzione di modelli culturali» non miri radicalmente ad altro: come l’Onda irreggimentata e sazia dell’omonimo film.

Repubblica 22.3.09
La nuova destra che forse non nascerà
di Eugenio Scalfari


Oggi Gianfranco Fini darà l´addio al suo partito che si scioglie nel grande mare del Pdl, il Partito del Popolo della Libertà, tre lettere maiuscole sulle quali campeggia il Capo carismatico Silvio Berlusconi, fondatore, presidente e leader intramontabile.
Un addio, quello di Fini, ma anche un arrivederci, almeno nelle sue intenzioni. L´esortazione e anzi il comando alla sua gente è di restare unita, custode di una tradizione, di valori propri e d´una propria identità, d´una propria egemonia che non deve disperdersi - così spera Fini - nel magma indistinto di Forza Italia. Dovrà costituire anzi un punto di riferimento per più ampie aggregazioni dentro il nuovo partito e fuori di esso, per dare vita ad una nuova destra capace di guidare il paese anche quando il Capo carismatico deciderà di ritirarsi per sazietà o per stanchezza, comunque per l´inevitabile trascorrere del tempo che «va dintorno con le force».
Si tratta d´una proposta di larghe vedute, che non è soltanto politica ma anche istituzionale e culturale. Fini dà molta importanza a fondazioni culturali che avranno il compito di piantare nuovi innesti e nuove radici nelle tradizioni della destra. Il presidente della Camera sovrintenderà a questo lavoro ed ha come riferimenti il conservatorismo del XIX secolo, quello che si oppose al trinomio "libertà, eguaglianza, fraternità" in nome dei principi della tradizione e della terra, cioè della nazione, senza tuttavia rinunciare al filone laico di derivazione illuministica. Perciò Burke ma non De Maistre.
E dunque: lo Stato da riscoprire come depositario di un disegno-paese e di un certo grado di eticità; la Costituzione come quadro di rapporti sociali e custodia di pluralismo; il presidenzialismo che garantirà l´unità contro le spinte centrifughe e l´eguaglianza delle prestazioni pubbliche tra le Regioni e i cittadini che vi risiedono; la separazione dei poteri; l´economia mista dove lo Stato non si limita a formulare le regole e a farle rispettare ma, al bisogno, interviene direttamente come operatore di ultima istanza.
Questa è la piattaforma della nuova destra costituzionale che Fini indica al Pdl e in particolare ai militanti di An nell´atto stesso dello scioglimento di quel partito. Lo seguiranno? Riusciranno a realizzare gli obiettivi che il discorso di oggi ha con chiarezza indicato? Saranno in grado di fertilizzare il corpaccione di Forza Italia e di arruolare per quell´impresa che non gli somiglia affatto anche il "boss dei boss", il Capo carismatico che ha ancora dinanzi a sé un altro decennio di potere?
* * *
Per rispondere a queste domande occorre esaminare la natura profonda del berlusconismo, il suo rapporto con la Lega, le tendenze che emergono dalla società italiana, il ruolo di alcuni possibili successori del Capo, l´attrazione del centrismo, le capacità potenziali dell´opposizione riformista. Infine l´esito della crisi che infuria sull´economia mondiale. Nei limiti che lo spazio ci impone cercheremo di analizzare questi vari elementi del problema.
Può essere utile un confronto tra fascismo e berlusconismo. In fondo si tratta di due regimi; il fascismo durò vent´anni, il berlusconismo ne ha già alle spalle quindici e si avvia a raggiungere la durata del precedente e probabilmente a superarla.
Al di là di alcune somiglianze che indubbiamente ci sono e possono riassumersi nel carisma populista del Capo, essi divergono profondamente su un punto di capitale importanza. Mussolini e il fascismo volevano costruire un uomo nuovo, ispirato dai valori della forza, dai doveri verso lo Stato, dalla cultura della guerra e della conquista, dagli ideali dell´imperialismo, dal mito della Roma imperiale. La maggior cura la dedicarono all´educazione della gioventù a questi valori e a questa mitologia. I successi che ottennero si rivelarono effimeri non appena si scontrarono con la durezza della realtà.
Il berlusconismo ha invece avuto come obiettivo la decostruzione del rapporto tra l´individuo e la collettività, la decostruzione delle ideologie, l´esaltazione della felicità immediata nell´immediato presente, l´antipolitica, il pragmatismo come solo fondamento delle decisioni individuali, il trasformismo come pratica quotidiana. La corruttela pubblica come peccato veniale.
Berlusconi è un uomo di gomma laddove Mussolini si atteggiava a uomo di ferro. Berlusconi galleggia e padroneggia la democrazia cercando di renderla invertebrata; Mussolini distrusse la democrazia. Mussolini volle lo Stato etico, Berlusconi appoggia il suo potere sull´incompatibilità degli italiani nei confronti dello Stato, salvo adottare lo statalismo quando una società impaurita lo invoca come il protettore di ultima istanza.
Si tratta, come si vede, di differenze profonde anche se il fine è analogo: un Capo carismatico, plebiscitato da un popolo che ha rinunciato ad esser popolo ed ha trasferito in blocco la sua sovranità al Capo.
Di fronte a queste caratteristiche dell´amico-nemico il disegno di Fini ha scarse possibilità di successo. Del resto i suoi "colonnelli" hanno da tempo introitato questa realtà e vi si sono adeguati. Quando in una recente trasmissione televisiva il ministro Ronchi (che di Fini è il portavoce) parlò di una guida duale del nuovo partito, fu interrotto dal ministro Matteoli (anche lui di An) che rifiutò pubblicamente l´idea stessa di un consolato Berlusconi-Fini affermando che il Capo non poteva che essere uno e c´era già. Resta da vedere fino a che punto la base di An sia rappresentata da Fini o dai suoi ex colonnelli. Ma per aderire al disegno del presidente della Camera ci vorrebbe un ritorno all´Msi, al fascismo puro e duro che esiste ancora ma non certo sulla linea laica e costituzionale di Fini. In una società di gomma il cemento del potere e del sottopotere è un collante formidabile; quel collante è nelle mani di un Capo proprietario del suo partito nel quale Fini entra da ospite dopo esser stato svestito dei suoi paramenti salvo quelli, abbastanza innocui, di natura istituzionale. L´esperienza di Casini da questo punto di vista è eloquente.
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Visto che ho accennato a Casini, aggiungerò che l´attrazione del centro è assai modesta, almeno nello schema originario di ago della bilancia tra due forze contrapposte e di analoga dimensione.
Le analoghe dimensioni sono un´ipotesi del passato destinata a non replicarsi per parecchio tempo, sicché contemporaneamente è scomparsa l´ipotesi stessa del centro come ago della bilancia. La strada di Casini a questo punto è segnata ed è quella dell´irrilevanza, dentro o fuori dal Pdl che sia. I contrasti possono alimentare tutt´al più una fronda, ma non possono aspirare né al potere né all´opposizione.
I successori sono di due tipi: il successore scelto dal proprietario quando il momento sarà deciso dal proprietario medesimo. Una scelta "alta" sarebbe Gianni Letta, una scelta servile sarebbe Alfano o (perché no?) una donna. Tutto può accadere nei regimi basati sulla proprietà e sulla gomma.
Oppure il successore emerge per forza propria. Può essere il caso di Formigoni, ma con molte più probabilità quello di Tremonti. La crisi economica favorisce il secondo ed anche il suo rapporto con la Lega. Piace perfino ad una parte della sinistra per il suo colbertismo statalista, ma non piace la scelta valoriale di Dio, Patria, Famiglia. Tremonti comunque aspetta, non precorrerà mai i tempi. Fini si è già esposto, Tremonti no. Per ora si contenta del fatto che il Capo (che non lo ama) abbia bisogno di lui.
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Resta l´opposizione riformista che ora sta lottando per la sopravvivenza.
Franceschini è una scoperta e qualche risultato l´ha già ottenuto, qualche piccolo passo avanti l´ha fatto, qualche punto di consenso l´ha riguadagnato. L´esame arriverà con le elezioni europee.
Dal punto di vista formale la sopravvivenza consiste nell´asticella da superare. Ragionevolmente sta a metà strada tra il 25 e il 30 per cento. Sotto a quel livello la sopravvivenza oggettivamente non c´è e comincerà l´implosione; ma significherebbe la scomparsa della sinistra riformista e laica dalla scena dopo la scomparsa politica già avvenuta della sinistra radical-massimalista.
Ammettiamo (e speriamolo per la democrazia italiana) che la sopravvivenza sia realizzata con le elezioni europee. Quale può essere il ruolo del Pd, oltre quello di darsi finalmente un´organizzazione ed una struttura? Capace di rieducare una parte consistente della società? Di alfabetizzare politicamente e moralmente quella parte consistente? Di ricostruire il rapporto tra la società e lo Stato, decostruito dal berlusconismo?
Il ruolo della sinistra riformista consiste proprio nelle risposte a queste domande che si riassumono nella riconquista della società alla democrazia partecipata e modernizzata.
Nell´esercizio di questo ruolo il riformismo può incontrare il disegno degli ambientalisti, il disegno dei cattolici cristiani, il disegno dei liberali socialisti, il disegno della sinistra democratica ed anche il disegno di una destra repubblicana e costituzionale.
L´obiettivo comune è quello di ristrutturare una società destrutturata e modernizzare le istituzioni. Si può fare ma ci vorrà tempo. Tempo e veduta lunga. Uscire dal presente puntinista ed entrare coraggiosamente nell´avvenire.

Repubblica 22.3.09
Presidenzialismo all´italiana
di Ilvo Diamanti


Le polemiche sullo stravolgimento della nostra Costituzione trascurano un aspetto importante. Il nostro sistema istituzionale è già cambiato profondamente. Senza bisogno di grandi riforme, approvate in sede parlamentare oppure referendaria.
Ad esempio, siamo da tempo avviati verso il presidenzialismo. Anzitutto, attraverso il rafforzamento dell´esecutivo e, al suo interno, della figura del primo ministro (definito, non a caso, "premier", echeggiando il modello inglese). Poi, attraverso la mutazione dei partiti, che oggi è improprio definire "personali" (secondo la nota formula di Mauro Calise, fra i più attenti a registrare questi cambiamenti). Meglio chiamarli, appunto, "presidenziali". Perché tutti � e non solo l´archetipo Forza Italia � sono organizzati intorno a leader da proporre e imporre come candidati alla guida del governo del paese (ma anche degli enti locali). Al punto che, al momento del voto, sulle schede elettorali partiti e coalizioni accostano al proprio marchio il nome del candidato. Un segno di stravolgimento istituzionale, secondo Giovanni Sartori. Infine, il mutamento � per definizione � più visibile. Causa ed effetto degli altri. La mediatizzazione. La centralità assunta dai leader nella comunicazione politica.
Si tratta, ripetiamo, di un percorso comune ad altre democrazie occidentali. (Ne hanno fornito, di recente, una ricostruzione puntuale i politologi Thomas Poguntke and Paul Webb). Ma in Italia ha assunto un formato del tutto originale per l´interpretazione che ne ha dato Silvio Berlusconi. Un imprenditore mediatico, che conosce a fondo i meccanismi della comunicazione. E li possiede. In senso letterale. Berlusconi ha trasferito le logiche del marketing alla politica e ai partiti. Ne ha personalizzato l´immagine e il potere. Ha, inoltre, trasformato in modo rapido e profondo anche la forma di governo, rendendo il ruolo dell´esecutivo preminente sul Parlamento, come sottolinea il ricorso sempre più frequente alla legislazione per decreto (peraltro già abusata).
Alla preminenza dell´esecutivo sul Parlamento, d´altronde, si aggiunge la preminenza del premier sul governo. Che Berlusconi ha di fatto personalizzato. Visto che i ministri e i leader della maggioranza si incontrano a casa sua. A Palazzo Grazioli, Arcore, oppure nella sua villa in Sardegna. Dove riceve anche i "grandi della Terra", secondo un modello monarchico, più che presidenziale. La tendenza presidenzialista, inoltre, corre parallela all´affermarsi della "democrazia del pubblico", come la definisce il filosofo Bernard Manin. Dove il rapporto fra il leader e i cittadini diventa diretto, (im)mediato dai media. Una sorta di populismo mediatico che trasforma i cittadini in spettatori; misura il consenso per le politiche e i politici in base all´auditel.
Al principio di legittimazione offerto dal voto se ne è affiancato un altro, espresso dall´Opinione Pubblica. Descritta e, anzi, prodotta dai sondaggi riverberati dai media. Cittadini e Opinione Pubblica. Istituzioni e media. Berlusconi governa entrambi i settori. E li fa reagire, reciprocamente, in modo efficace. Utilizza l´Opinione Pubblica per rafforzare il potere sulle istituzioni ma anche sui cittadini. Per lui è naturale. Commentando i ripetuti sfoghi del premier, negli ultimi tempi, Vittorio Feltri, che se ne intende, ha scritto: «Berlusconi è talmente sincero che dice la verità anche quando racconta balle». Ragionamento, peraltro, reversibile. Ma certamente Berlusconi è sincero quando esprime fastidio verso le procedure � ahimé lunghe e complesse � della democrazia rappresentativa. E avanza l´idea di far votare i capigruppo per tutti i parlamentari. È altrettanto sincero quando manifesta tutta la sua insofferenza verso le cariche dello Stato, che interferiscono troppo sulle decisioni del governo. Verso Giorgio Napolitano: il Presidente della Repubblica parlamentare. Ridotto, dal presidenzialismo all´italiana, a un contrappeso istituzionale. Un garante della Costituzione. Una specie di Magistrato. Quindi, per Berlusconi, un avversario. Verso Gianfranco Fini. I cui continui richiami, la cui pretesa di contrastare il solo, vero Presidente, a Berlusconi appaiono irritanti e inattuali. Le resistenze di un passato che non vuol passare. Con l´aggravante che Fini, leader di An, con le sue critiche, danneggia l´immagine monocratica del nascente Popolo della Libertà. Napolitano e Fini: colpevoli, di fronte a Berlusconi, di essere più "popolari" di lui.
D´altronde, per il premier, la legittimazione fondata sull´Opinione Pubblica conta più di quella costituzionale. Da ciò la polemica continua � quasi un mantra � contro i media, colpevoli di distorcere la realtà. La fretta di rimodellare il sistema radiotelevisivo pubblico (cioè, le nomine). L´irritazione verso Sky: concorrente, politicamente non condizionabile. L´intento di intervenire anche sui giornali "indipendenti" più importanti. Berlusconi. Ha bisogno di legittimarsi ancora e a lungo presso l´Opinione Pubblica per rafforzare la sua autorità sulle istituzioni e sui cittadini. Non può permettersi, come avvenne tra il 2001 e il 2006, che crescano l´insoddisfazione e insieme la sfiducia. Parafrasando quanto scrisse Ernest Renan a proposito della nazione: la democrazia del pubblico è un plebiscito di tutti i giorni. Una lotta quotidiana, dura e insidiosa. Per Berlusconi. Anche per la democrazia. Anche per noi.

Repubblica 22.3.09
Angola, due morti nella calca per il Papa
All´incontro con i giovani: 18 i feriti. Il Vaticano: niente condanna per l´aborto terapeutico
di Marco Politi


La notizia della tragedia è arrivata al seguito del Pontefice solo dopo la fine del meeting

LUANDA - Due giovani morti nella festa per vedere il Papa. La notizia è piombata a notte sul seguito di Benedetto XVI, dopo che il pontefice si era ritirano nel suo appartamento felice per l´incontro allegro e colorato con decine di migliaia di giovani cattolici nello stadio di Coqueiros.
Nessuno si è accorto della disgrazia durante la riunione. Per il gran caldo, che ha messo a dura prova l´ottantaduenne Ratzinger, molti giovani nello stadio cadevano come mosche e venivano portati via svenuti dagli infermieri. Ma nessuno ha pensato al peggio. Non si sa ancora se si tratta di due ragazze, come riferiscono fonti scout, oppure se sono deceduti un giovane e una giovane. Alcuni raccontano che è successo all´entrata dello stadio, dove già quattro ore prima dell´arrivo del papa migliaia di ragazzi si accalcavano per partecipare all´evento. C´è chi dice che i due siano morti calpestati. Ma le fonti scout raccontano che le due ragazze, colpite dall´eccessivo calore o forse stremate per avere camminato a lungo e non aver bevuto e mangiato da parecchie ore, si siano accasciate quando già avevano trovato un posto nello stadio. Trasportate in ospedale, sono morte. Altri diciotto sarebbero i feriti nella calca.
Era già successo una volta, in proporzioni ancora più tragiche, durante un pellegrinaggio papale. Fu quando Giovanni Paolo II arrivò a Kinshasa nel Congo (allora Zaire) e per la celebrazione della sua prima messa con riti africani venne una folla immensa. Quando si aprirono i cancelli della spianata dove si teneva la messa, nove persone furono inesorabilmente schiacciate dalla folla e altri settantotto i feriti ricoverati negli ospedali della capitale congolese.
La notizia è stata un dolore per Benedetto XVI, che aveva partecipato con grande gioia all´incontro lasciandosi rapire dal suono dei tamburi e dai canti tradizionali eseguiti da diversi gruppi regionali. Commosso, il pontefice aveva seguito in piedi la melodia di un giovane handicappato, che seduto in carrozzella gli aveva cantato la «canzone dell´amico del mio cuore, il mio amico Gesù».
Il pontefice ha esortato i giovani cattolici al coraggio della fede e al coraggio delle scelte di vita. Assumendo il rischio di impegnarsi per tutta la vita sia nel matrimonio sia nel sacerdozio o nei voti religiosi. In mattinata Benedetto XVI aveva ammonito i fedeli, durante la messa, a combattere la credenza popolare nella stregoneria che porta a uccidere come stregoni «bambini della strada e anche i più anziani».
Nell´incontro con i giovani Ratzinger non è entrato in argomenti di etica sessuale. Il portavoce Lombardi ha chiarito in mattinata che il pontefice al suo arrivo aveva condannato l´aborto come mezzo di controllo delle nascite, ma non l´aborto «terapeutico». Tuttavia nell´accezione della dottrina classica cattolica (e per evitare una equiparazione all´aborto terapeutico previsto dalle legislazioni europee) padre ha subito chiarito che «nella morale della Chiesa si parla da sempre dell´aborto indiretto, quando vi è una malattia grave che mette in pericolo la vita della madre e che deve essere curata, anche se ciò può implicare la morte del figlio». Solo questo è possibile. «In ogni altro caso si ha l´uccisione di un innocente».

Repubblica 22.3.09
La Cassazione: prescrizione. Fu arrestato per abusi su una ragazzina. Ma deve risarcire la vittima
"Prosciogliete il prete pedofilo" La Curia: ora torni a dire messa
L´ex procuratore Tarfusser in disaccordo con la decisione di reintegrarlo
di Pierluigi Depentori


BOLZANO - Ancora pochi giorni e don Giorgio Carli, giovane prete bolzanino, potrà tornare a celebrare messa nella sua parrocchia di via Resia. Nulla di clamoroso, se in mezzo non ci fosse un caso giudiziario di violenza sessuale che sta spaccando in due la città. Don Giorgio fu arrestato nel 2003 dopo che una ragazza della sua parrocchia ricordò - nel corso di una seduta di psicoanalisi - gli abusi subiti dal prete molti anni prima, quando la giovane aveva soltanto 15 anni. Da allora è stato un susseguirsi di colpi di scena: assoluzione in primo grado, condanna a sette anni e mezzo di carcere in appello. Fino all´altro ieri, quando la Cassazione si è pronunciata con una sentenza che non ha fatto altro che alimentare la tensione sul caso: proscioglimento per prescrizione.
Per la curia altoatesina, una decisione da salutare con soddisfazione: «Don Carli non può essere considerato colpevole, essendo stata annullata la sentenza di condanna in secondo grado. Così rimane in vigore solo la prima sentenza di assoluzione. Abbiamo sempre creduto nell´innocenza di don Giorgio, per questo è confermato nel suo incarico di parroco». Dunque sarà questione di giorni: forse già martedì don Giorgio potrà tornare a dir messa nella sua parrocchia, nel cuore del quartiere italiano di Bolzano, magari proprio davanti alla ragazza che l´ha trascinato in questa vicenda giudiziaria.
Tutto bene, dunque? Macché. L´ex procuratore Cuno Tarfusser, da pochi giorni giudice della Corte internazionale dell´Aja, è tutt´altro che d´accordo con la curia: «La Cassazione ha valutato il reato contestato, lo dimostra il fatto che i giudici hanno confermato i risarcimenti alle parti civili». Don Carli dovrà, infatti, pagare oltre 700mila euro. «Condannare un innocente a un risarcimento di questo tipo sarebbe una barzelletta», ha aggiunto Tarfusser che ha rivolto alla curia l´invito ad essere «più cauta nei suoi commenti».
Dopo la condanna in secondo grado a sette anni e mezzo di reclusione il prete aveva lasciato Bolzano e la sua parrocchia. «Sono innocente e ora sarò assente per un po´», aveva scritto in una lettera aperta ai suoi parrocchiani. La decisione della Cassazione è stata accolta dal sacerdote � ha raccontato il suo legale Alberto Valenti � «con la serenità di sempre. Fa invidia la sua tranquillità nell´accettare le cose più paradossali, come questa sentenza alla Ponzio Pilato. La gente si stringe intorno a lui e lo sta aspettando».

Corriere della Sera 22.3.09
Berlusconi: Pdl con la Chiesa, ma non sarà la Dc
«No ai collateralismi, da laici difenderemo la sacralità della vita». E sul Pd: diffonde il panico
Le linee-guida del Cavaliere: «Crediamo nell'autonomia, nella sovranità della politica rispetto alla religione»


ROMA — La «sacralità della vita e la dignità della persona sono valori irrinunciabili». La Chiesa «può e deve parlare liberamente anche quando si trova a proclamare principi e concetti magari difficili e impopolari ». Ma il Pdl, che «segnerà la storia dell'Italia sarà un partito laico e non ripercorrerà la via del collateralismo con la Chiesa che è stata la linea della Dc».
A una settimana dalla nascita e mentre An si scioglie per fondersi nel nuovo partito unitario del centrodestra, Silvio Berlusconi delinea la fisionomia del Popolo della libertà. L'occasione per farlo è il messaggio di saluto che indirizza (in collegamento telefonico) al convegno dei Popolari liberali del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Carlo Giovanardi, anche se non lesina critiche all'opposizione che «sulla crisi diffonde il panico con spregiudicatezza ». «Crediamo — sostiene — nei valori della vita umana, fondamentali principi indiscutibili e squisitamente liberali e nella libertà della vita che si deve esercitare in una cornice di leggi e di principi, anche se non tutto quello che è fattibile è giusto». Un modo implicito per criticare quanti credono nell'ingegneria genetica e ritengono che staccare la spina (come nel caso Englaro) sia nella disponibilità degli uomini. Detto questo, però, Berlusconi chiarisce: «Siamo certi che il Pdl deve essere ed è un partito laico e rispettoso della libertà di ciascuno sui temi di coscienza. È giusto e doveroso che sia così ma non rinuncerà a dare una linea, a scegliere e difendere determinati valori che sono i nostri valori, in base ai quali dovrà svolgere la sua azione cercando soluzioni ai problemi che l'etica e la modernità ci porrà davanti». Ed ecco il punto chiave, la discriminante primaria: «Cerchiamo e cercheremo sempre soluzioni il più possibile condivise, ma con un punto di riferimento che consideriamo irrinunciabile: la sacralità della vita e la dignità della persona».
Il passaggio successivo Berlusconi lo dedica alla Chiesa, visto che la platea che lo sta ascoltando è particolarmente sensibile al messaggio del-l'episcopato, ma la sua sottolineatura riguarda la distinzione netta dei campi politico e religioso. «Il Pdl — ricorda— sarà un partito laico, non ripercorreremo la via di quel collateralismo con la Chiesa che è stata la linea della Democrazia cristiana. Crediamo nell'autonomia, nella sovranità della politica rispetto alla religione ». Tuttavia, rimarca, «crediamo anche che la Chiesa possa e debba parlare liberamente e svolgere quello che è un suo insostituibile ruolo nella società. Rispettiamo la Chiesa e ne difendiamo la libertà anche quando si trova a proclamare principi e concetti magari difficili e impopolari, lontani da quelle che sono le opinioni di moda e che vanno di moda tra giornalisti e intellettuali».

il Riformista 22.3.09
Sempre più traballante la poltrona di Mieli
La guerra del Corriere
Tra scenari di tagli e conti in rosso si infittisce la trama che porta al cambio di direttore. Dietro la discussione tra i soci Rcs il piano di Berlusconi per espugnare il salotto buono.


Ieri è andata in scena un'altra puntata della partita per la scelta del nuovo direttore del Corriere della Sera. È stato proposto il nome di Carlo Verdelli, oggi direttore della Gazzetta dello Sport, come sostituto di Paolo Mieli, sfiduciato lo scorso 19 marzo. Quel giorno sono infatti stati diffusi i risultati di bilancio del gruppo editoriale e ha prevalso la preoccupazione degli azionisti che si preparano ad affrontare una fase difficile anche da un punto di vista industriale: è aumentato l'indebitamento, salito a 1,15 miliardi di euro e cresciuto di 180 milioni rispetto all'anno precedente. Con un comunicato l'azienda ha fatto sapere che le cose andranno peggio nel 2009, anno in cui «si presume che il gruppo raggiunga risultati inferiori rispetto al precedente esercizio». Colpa della Grande Recessione che costringerà, si legge nella nota di bilancio 2008, a soluzione drastiche.
Dice la nota: «Attenzione sarà rivolta alla soluzione finanziaria, non escludendosi revisioni del perimetro, compatibilmente con l'andamento del mercato, rispetto alle attività che verranno ritenute non core». Tradotto, significa che sarà necessario un gruppo dirigente in grado di andare fino in fondo anche nel rapporto con i dipendenti. Alcuni osservatori ritengono che proprio questa ipotesi di «revisione del perimetro», dietro la quale si intravedono le forbici dei tagli, ha favorito una crisi al buio nella partita per il primo quotidiano italiano e avrebbe indotto i grandi azionisti Rcs a sfiduciare il direttore Paolo Mieli, garante del corpo redazionale, prima ancora che fosse pronto un compromesso sulla sua successione.
Da quanto risulta al Riformista - per riprendersi dalla crisi, ripianare i conti aziendali e tagliare l'indebitamento - la società avrebbe intenzione di adottare politiche che incentivino i giornalisti più anziani, oltre i 57-58 anni, a uscire con scivoli al prepensionamento, un provvedimento che riguarderebbe circa 60-70 redattori del Corriere su 380. C'è anche chi parla di tagli di 100-150 giornalisti per l'intero gruppo Rcs. Circola anche una voce secondo cui le riviste Io Donna e Corriere Magazine si fonderanno per fare spazio a un nuovo prodotto, meno giornalistico, ma in grado di attirare più pubblicità.
Ma alle difficoltà editoriali si sommano quelle dovute al tentativo di raggiungere soluzioni condivise da un assetto proprietario in cui sono presenti fazioni contrapposte. Ormai le agenzie di stampa stanno giocando un ruolo attivo in un toto-nomine che fa apparire Rcs sempre più simile alla Rai, con informazioni che vengono fatte filtrare per poi essere subito smentite e nomi dati per certi così da assicurarsi la loro bruciatura. Ieri l'Adnkronos, infatti, ha dedicato due agenzie alla società editoriale che starebbe attraversando un «week end è fitto di febbrili contatti e frenetiche telefonate in vista del patto di sindacato di Rcs Mediagroup, la cui convocazione è attesa per lunedì dopo lo slittamento di martedì scorso». L'Adnkronos spiega che al centro dei colloqui vi sarebbe l'individuazione di un sostituto di Mieli e «l'orientamento che sta emergendo in queste ore - scrive sempre l'agenzia - sarebbe quello di puntare su una risorsa interna per conservare e valorizzare al meglio la professionalità e la tradizione del grande quotidiano». Il profilo che sarebbe stato tracciato corrisponde a quello del direttore della Gazzetta dello Sport, Carlo Verdelli (autore del successo di Vanity Fair), che venne chiamato proprio da Mieli a dirigere prima il magazine del Corriere, che allora si chiamava Sette, e poi come vicedirettore del quotidiano.
La notizia diffusa è stata smentita due ore più tardi dall'agenzia Ansa in un lancio in cui si legge che «proseguono i contatti tra i grandi soci Rcs», ma si aggiunge che il patto di sindacato della società si dovrebbe riunire «lunedì 30 o martedì 31 marzo». E, in questo scenario alternativo, l'ipotesi Verdelli alla guida del Corriere sembra già tramontata. Scrive infatti l'Ansa: «Nelle ultime ore si è tornato a parlare di Carlo Verdelli a supportare una linea aziendalista, ma non avrebbe trovato una convergenza tra le preferenze dei grandi soci». Per la prima agenzia italiana qualcuno «guarda a Carlo Rossella, e qualcun altro a Ferruccio de Bortoli, ma nel toto-nomi in queste settimane sono entrati anche Piero Ostellino e Roberto Napoletano».
Secondo le ricostruzioni più accreditate, la vera partita si sta giocando all'interno dei grandi azionisti del patto di sindacato di Rcs, su tre assi portanti: il primo è quello rappresentato dalla Mediobanca di Cesare Geronzi (principale garante degli equilibri tra governo e azienda) e dall'immobiliarista Salvatore Ligresti; il secondo fa capo a Giovanni Bazoli e a Corrado Passera, vertici di Intesa Sanpaolo; il terzo, in posizione intermedia tra i primi due, comprende la Fiat di Luca Cordero di Montezemolo e Diego Della Valle.
In un primo momento per la direzione del Corriere è stato fatto il nome di Rossella, candidatura sostenuta da Montezemolo e molto gradita da Palazzo Chigi. Ipotesi saltata in quanto non avrebbe ottenuto la maggioranza dei consensi. Poi è stata proposta la nomina dell'attuale direttore del Messaggero, Roberto Napoletano, che non avrebbe trovato l'appoggio di Intesa Sanpaolo che la considera troppo "politica". Sarebbe dunque riemersa la pista Rossella. Ma il nome dell'ex direttore di Panorama continua da più parti a non essere considerato in grado di garantire il necessario equilibrio rispetto alle esigenze della maggioranza dei soci del Patto.

il Riformista 22.3.09
Forza Nuova raduna a Milano i neonazi europei
di Sonia Oranges


DESTRA. Prc contro il Comune (che se ne lava le mani).
Ad aprile il raduno di Forza Nuova. Il sindaco di Milano Letizia Moratti non interviene

«Bene, ma ci sarà da divertirsi come a Berghem?»: rispondeva così, all'inizio di marzo, uno degli utenti del forum di Forza Nuova all'annuncio dell'organizzazione nel centro di Milano di «un grande evento politico internazionale che vedrà la partecipazione del segretario Roberto Fiore e degli esponenti del Bnp, del Fn e dell'Ndp», per il prossimo 5 aprile. Berghem sta per Bergamo dove, alla fine di febbraio, in occasione dell'inaugurazione della sede di Forza Nuova, simpatizzanti di estrema destra e di estrema sinistra se le sono date di santa ragione fra loro e con la polizia, devastando il centro cittadino. E, a quanto pare, a Milano si preparano a fare il bis. Il tam tam già corre in rete. Da un lato i forzanovisti che stanno aderendo da tutt'Italia all'iniziativa meneghina (presentata come manifestazione/convegno sul tema: "La nostra Europa. Popoli e Tradizioni contro banche e usura"), dall'altro la sinistra radicale e antifascista dei centri sociali ma anche dell'Anpi, che raccoglie firme contro il raduno dell principale organizzazioni della destra xenofoba europea, e che non esclude una contromanifestazione come «adeguata risposta».
Insomma, i presupposti per lo scontro urbano ci sono tutti. Mancano solamente i dettagli logistici (Forza Nuova, al solito, diffonderà soltanto all'ultimo momento il dove e quando), e i nomi di peso della destra più estrema inglese, tedesca e francese, invitati a intervenire. Contro la manifestazione (che dopo Bergamo suona come un invito allo scontro di piazza), si è mobilitato il Prc lombardo. Il consigliere regionale Luciano Muhlbauer ha chiesto al sindaco Letizia Moratti di «impedire il raduno nazifascista»: «Rompa il clima di tolleranza nei confronti dell'estremismo neofascista e si attivi in prima persona perché venga impedito il raduno». Come? «Le chiediamo semplicemente di fare come il sindaco di Colonia, di centrodestra anche lui, che nell'autunno scorso si mise alla testa della mobilitazione contro un'iniziativa analoga nella sua città».
Ma a Palazzo Marino sembrano non sentirci da quest'orecchio. «Il sindaco non è mica il Questore - rispondeva ieri il vice della Moratti, Riccardo De Corato - Che c'entriamo noi con l'ordine pubblico? Noi non abbiamo vietato i cortei di sinistra che hanno devastato il centro, e non lo facciamo con le manifestazioni di destra. Sarà il questore, nel caso a valutare». Ma come? Nessun indicazione politica dopo i fatti di Bergamo? «Ma perché? Il sindaco di Bergamo, che è del centrosinistra, ha per caso fatto qualcosa? No. Perché non gli competeva. Poi, se volete, vi confermo che non condividiamo nemmeno una virgola della manifestazione di Forza Nuova. Ma noi non vietiamo manifestazioni. L'ordine pubblico è una questione di competenza di questore e prefetto».
Ma a sinistra, evidentemente, si aspettavano che l'amministrazione comunale si sarebbe lavata le mani di Fiore&co. E la prossima settimana si rivolgeranno al prefetto.

Repubblica 20.3.09
Hanno due mamme o due papà: in Italia sono più di centomila i ragazzi di genitori gay
Due mamme o due papà così vivono i bambini nelle famiglie dei gay
di Maria Novella De Luca


In Italia circa il 20% degli omosessuali e delle lesbiche ha uno o più figli Nuclei "senza diritti". Eppure, per gli esperti, "relazioni che funzionano

Hanno due mamme. O due papà. A volte tre genitori. Sono centomila in Italia secondo le ultime stime, ma forse molti di più. I più grandi sfiorano l´adolescenza, i più piccoli, concepiti all´estero nei centri di fecondazione assistita, hanno pochi anni, alcuni pochi mesi. Figli e figlie di genitori gay. Di una sola metà del cielo. Bimbi sereni dicono gli psicologi, gli insegnanti, i pediatri che li analizzano e li «monitorano» fin dalla culla negli Stati Uniti, in Francia, in Germania, in Inghilterra, e adesso anche in Italia. Nati da relazioni eterosessuali o nella coppia omosessuale stessa, tra due donne o due uomini, complice la Scienza e le più ardite tecniche di procreazione artificiale: sono l´ultima frontiera della famiglia, la più inedita, la meno riconosciuta, la più controversa.
Si chiamano nuclei «omogenitoriali», adattamento dal francese homoparentalité, per l´anagrafe italiana non esistono, la legge li ignora, la Chiesa li condanna, le istituzioni li osteggiano. Invece sono sempre di più, nel nostro paese il 17,7% degli omosessuali e il 20,5% delle lesbiche con più di 40 anni ha uno o più figli, e il 49% delle coppie omosessuali dichiara di voler diventare genitore, un vero e proprio gayby boom, come lo hanno definito i sociologi americani, un boom di bambini nati dalle unioni gay. Scrive Giulia Porretti, maestra di Pordenone: «Martina nei suoi disegni rappresenta mamma Alessia e mamma Franca, più il gatto di casa. Non è stato facile, all´inizio, comprendere. Poi ci siamo abituate. Martina ci guarda con occhi sereni ed è la più brava della classe».
Cronache da un mondo sommerso che inizia a chiedere rispetto, diritti, visibilità. In Francia, pochi giorni fa, il Governo di Nicolas Sarkozy ha presentato un disegno di legge che legittima, in modo esplicito, «i nuclei composti tra due adulti dello stesso sesso tra le nuove configurazioni familiari». In Italia le famiglie omosessuali si sono consorziate in «Famiglie arcobaleno», una proposta di legge del Pd chiede i loro bimbi vengano tutelati, ma restano nuclei fantasma. Intanto i figli nascono, crescono, vanno a scuola, fanno la vita dei loro coetanei...E ieri giorno del papà, hanno festeggiato a Genova la "festa delle famiglie". Anche quelle in cui si cresce con due genitori dello stesso sesso.
Nella stanza di Arianna, 6 anni, figlia di Federica che vive con Cecilia, sua nuova compagna, Cenerentola e il principe volteggiano abbracciati sul muro, mentre Minni e Topolino si guardano complici. Siamo a Roma, nella periferia che si estende verso la Via del Mare, tra case nuove e scheletri di palazzi. Federica Bruni, 34 anni, infermiera, descrive la faticosa scoperta e poi la conquista di un amore gay, dopo una vita eterosessuale, un matrimonio, la separazione, la messa al bando dalla famiglia e le minacce dell´ex marito. «Arianna sa che per me Cecilia è un affetto grande, adesso dice che ha due mamme, ci vede dividere il letto matrimoniale come prima lo dividevo con suo padre. Certo per lei l´amore resta quello tra un uomo e una donna, mi sembra naturale che sia così� Sa anche che presto arriverà un altro bambino, Cecilia ed io andremo a Copenaghen e Cecilia farà l´inseminazione artificiale con il seme di un donatore: saremo una famiglia a tutti gli effetti, anche se per la legge italiana il nostro bambino sarà soltanto figlio di Cecilia, lo Stato riconosce unicamente il padre o la madre "biologici". Io semplicemente non esisto».
Federica tocca il cuore del problema, quello che ha portato Giuseppina La Delfa, docente di francese, trapiantata in Italia da 19 anni in un minuscolo paesino vicino ad Avellino e mamma di una bambina di 5 anni, a fondare insieme ad altri genitori le "Famiglie Arcobaleno". «Siamo migliaia ma c´è ancora una gran paura a mostrarsi, a dichiararsi. In "Famiglie Arcobaleno" siamo circa 500 tra adulti e bambini, quasi tutti i nostri figli sono nati "nella coppia", con la fecondazione assistita per le donne, attraverso il seme di un donatore o di un amico, e con le "maternità surrogate" per i maschi. La mia compagna Raphaella ed io siamo andate in Belgio, nel centro "Azvub", volevamo che fosse lei a portare avanti la gravidanza, ma c´erano dei problemi e così è toccato a me�La cosa assurda però è che la mia compagna per la legge italiana non può prendersi cura di nostra figlia, se io morissi la bambina resterebbe sola pur avendo un altro genitore...». È particolare la storia di Giuseppina, che oggi ha 46 anni, è nata in Francia da genitori emigrati dalla Sicilia, ed è poi tornata a vivere in un minuscolo borgo campano, senza fare mistero della propria omosessualità. Anzi, dando il via ad una vera campagna di outing durante la gravidanza. «Volevo che la gente del paese fosse preparata all´evento, all´arrivo di una bambina figlia di due lesbiche, e l´accoglienza è stata superiore alle aspettative, L. è piena di amici, allegra solare...No, non mi sento egoista ad averla privata del padre: io le ho dato la vita, cosa può esserci di più bello?».
Una famiglia come le altre, si potrebbe obiettare, con un padre e una madre, ed è questa infatti la tesi di chi ritiene che le famiglie gay siano dannose per lo sviluppo di un bambino. Ma è proprio un esperto di infanzia e adolescenza, Gustavo Pietropolli Charmet, a chiarire perché invece si può crescere bene anche in un contesto così atipico. «Oggi è in corso una modificazione cruciale sia della maternità che della paternità: si va sempre di più verso situazioni in cui i genitori si occupano a staffetta dei figli o verso famiglie monogenitoriali. Questo vuol dire - spiega Charmet - che di volta in volta il padre e la madre incarnano entrambi i ruoli, sono cioè le due figure insieme, i maschi si "maternalizzano" e le donne acquistano autorità. Ed è ciò che accade nelle coppie omosessuali: se un figlio viene allevato da due padri è inevitabile che questi sviluppino anche una parte materna, e così accade nel caso di famiglia con due madri. E i bambini cresciuti in questi contesti non manifestano alcun problema diverso dai loro coetanei». Aggiunge Margherita Bottino, sociologa, autrice di diversi saggi sulla «omogenitorialità», tra cui il libro "La gaia famiglia": «Quando una coppia gay decide di fare un figlio, i due padri o le due madri preparano il terreno e invece di nascondersi cercano la massima visibilità. E la società di solito è più pronta di quanto si creda. Il vero problema è la non esistenza giuridica di queste famiglie. I pediatri americani hanno dimostrato che nelle realtà dove il loro status è riconosciuto i bambini sono più sereni�».
Ed è infatti un percorso di assoluta trasparenza quello intrapreso da Tommaso e Gianfranco, insegnanti romani quarantenni, oggi padri di una piccola di tre anni e di un bimbo di 6 mesi, nati in California attraverso due «maternità» surrogate. Una sorta di «acrobazia» procreativa, ma i due neo-padri, impegnati in un full time di biberon e pannolini, affermano di cavarsela benissimo. «Prima di lanciarci in questa avventura - spiega Tommaso - abbiamo cercato di capire effettivamente come vivono i bambini nati da coppie gay. Ci siamo interrogati sull´eventualità che ai nostri figli potesse mancare una figura femminile, ma ci sono due nonne, diverse zie, e abbiamo deciso mantenere un rapporto anche con la mamma portatrice». «Nostra figlia va al nido pubblico - continua Gianfranco -all´inizio le maestre erano sconvolte, smarrite, poi hanno iniziato a fidarsi, hanno addirittura inventato una favola in cui ci sono le zebre con due mamme, e i cuccioli di leone con due papà... Le difficoltà arriveranno, perché la campagna contro l´omogenitorialità è forte, ma adesso siamo una famiglia, ed è questo che conta».

Corriere della Sera 21.3.09
Il vescovo della bimba in Brasile
«Quei medici uguali a Hitler»
di Rocco Cotroneo


RIO DE JANEIRO — Nemmeno la presa di distanza del Vaticano fa vacillare le convinzioni dell'arcivescovo brasiliano sul caso della bambina di 9 anni vittima di stupro a Recife. E' dura la replica della diocesi retta da José Cardoso Sobrinho a un articolo dell'Osservatore Romano,
che pone dubbi sulla scomunica dei medici che hanno effettuato l'aborto sulla piccola, incinta di due gemelli dopo essere stata violentata dal patrigno. «Abbiamo dato risalto pubblico alla scomunica perché ciò farà bene a molti cattolici, permettendo loro di evitare questo peccato grave - sostiene una lettera pubblicata sul sito della diocesi di Recife - . Il silenzio della Chiesa sarebbe molto dannoso, soprattutto considerando i cinque milioni di aborti che ogni anno avvengono in giro per il mondo». Lo stesso Cardoso, qualche giorno fa, ha dichiarato in una intervista che l'aborto è un delitto al pari dell'Olocausto: «Hitler voleva eliminare il popolo ebraico e si dice che arrivò a sterminare sei milioni di persone. Perché dobbiamo restare il silenzio quando le vittima dell' aborto sono ancora di più? Si tratta di un olocausto silenzioso».
A differenza del prelato brasiliano, che non arretra di un centimetro, il Vaticano nei giorni scorsi aveva calibrato le parole per smussare le divergenze con la diocesi di Recife. All'inizio, non appena la notizia dell'aborto sulla bambina fece il giro del mondo, da Roma era arrivata una sostanziale approvazione alla scomunica dei medici, per voce di Gianfranco Grieco, capo ufficio del Pontificio Consiglio per la Famiglia («La Chiesa non può mai tradire il suo annuncio»). Poi però monsignor Rino Fisichella, dalle colonne dell'Osservatore, aveva rettificato la posizione. «Sono altri coloro che meritano la scomunica e il nostro perdono.
Era più urgente salvaguardare una vita innocente — ha scritto il presidente dell'Accademia Pontificia per la vita —. Non era necessaria tanta fretta nel dare pubblicità e dichiarare un fatto che si attua in maniera automatica (la scomunica, ndr),
mentre sarebbe stato più importante un gesto di misericordia ».
Il Vaticano è ben conscio della valanga di critiche che si sono abbattute sulla Chiesa dopo il caso. Tanto che monsignor Fisichella si dice preoccupato, perché «ne risente la credibilità del nostro insegnamento, che appare agli occhi di tanti come insensibile, incomprensibile e privo di misericordia». Per l'arcivescovo di Recife, invece, il silenzio e la discrezione sarebbero stati scambiati per collusione o complicità. Anche la conferenza episcopale brasiliana, nei giorni scorsi, aveva preso le distanze dalle posizione di Cardoso. E un paio di vescovi si sono ufficialmente dichiarati a favore dell'uso del preservativo.

Corriere della Sera 21.3.09
All'Art Institute di Chicago raffinate tecnologie per un progetto di conservazione delle opere d'arte
Picasso, il genio del risparmio
Tra i «segreti» del pittore anche l'uso di vernice industriale
di Adriana Bazzi


CHICAGO — E' una specie di detective story che mescola scienza e arte, gascromatografi e vernici colorate, acquisti su eBay e analisi microscopiche, alla ricerca di indizi che potranno essere sfruttati per conservare e restaurare i quadri di uno dei grandi maestri dell'arte moderna: Pablo Picasso.
A capo dell'indagine è Francesca Casadio, chimica laureata a Milano e da sei anni all' Art Institute di Chicago dove dirige come «conservation scientist» il laboratorio scientifico. Il rapporto preliminare della ricerca sarà presto pubblicato a sua firma sulla rivista Applied spectroscopy.
«Il progetto Picasso — dice Casadio — è nato parallelamente alla costruzione della nuova ala per l'arte moderna, ideata da Renzo Piano, all'Art Institute di Chicago. Così si è deciso di sottoporre ad analisi scientifiche due suoi capolavori conservati al museo ». Picasso in queste opere, The Red Armchair (1931) e Still life (1922), non ha usato soltanto pittura da tubetti per artisti, ma anche vernici industriali che un occhio esperto identifica già per l'effetto tipo smalto, diverso dalla pennellata di colore. Il motivo della scelta dell' artista? Sperimentare nuovi materiali, ottenere un'asciugatura più rapida, ma anche risparmiare sui costi.
Da qui la domanda: come si conserveranno nel tempo queste vernici e come evitare che si degradino? E' quella che i tecnici chiamano conservazione preventiva.
«Intanto bisogna capire che cosa Picasso ha usato — continua Casadio —. Prendiamo The Red Armchair: l'effetto visivo non basta per giudicare, è indispensabile ricorrere a un'analisi dei materiali».
Materiali dei quadri che vengono prelevati con una sorta di biopsia, come avviene in medicina, e che vengono poi analizzati con tecniche varie come la microscopia elettronica (che permette di visualizzare, per esempio, pigmenti microscopici) o la microspettrofotometria a infrarossi che rileva i composti chimici presenti in un campione. E materiali di confronto, in questo caso tubetti (di colore per artisti) e barattoli (di vernice, quella industriale).
«Fra le carte di Picasso — aggiunge Casadio — sono stati trovati ordini per barattoli di Ripolin, una marca di vernici piuttosto diffusa soprattutto in Francia». Che Picasso la usasse è dimostrato anche dal fatto che nella scultura Figure (del 1935, conservata sempre all'Art Institute) la faccia è costruita con il coperchio di un barattolo di Ripolin.
«Per trovare campioni di Ripolin dell'epoca — continua Casadio — abbiamo cercato su eBay: anche lo shopping online serve alla ricerca scientifica. Adesso abbiamo una collezione di barattoli di Ripolin e persino le brochures della ditta dove è addirittura specificata la composizione delle vernici ».
Gli elementi per il confronto ci sono tutti. E così pure i risultati. Eccone uno: «L'analisi di un frammento del violetto in The Red Armchair — spiega Casadio — ci ha rivelato la presenza di sali di metalli pesanti. Questo sta a significare che Picasso ha usato, come base, il bianco Ripolin cui ha aggiunto il violetto di cobalto, usato dagli artisti e piuttosto costoso. La presenza di quest'ultimo è stata svelata dall'identificazione di grossi pigmenti visibili al microscopio, che contengono, come rilevato dallo spettro infrarosso, cobalto e fosforo. Il colore bianco della faccia, invece, è Ripolin puro, assolutamente paragonabile a quello contenuto nei barattoli e nei campioni delle brochure». Il prossimo passo è analizzare come queste vernici invecchiano e quali provvedimenti poi adottare per conservare i dipinti. Un esempio: il colore bianco contiene zinco che reagendo con l'olio forma saponi idrosolubili, particolarmente sensibili a quei trattamenti a base acquosa usati di solito per la pulizia.

Corriere della Sera 21.3.09
Riflessioni I confini della vita: così viene riscattato un destino che appare come condanna capitale
«La morte non è un puro crepare ma investe la libertà dell'uomo»
di Angelo Scola, patriarca di Venezia


Morire tra ragione e fede. Dopo l'articolo di Emanuele Severino, pubblicato ieri, sul tema interviene il cardinale Angelo Scola.

Un grido irrompe nella storia dell'umanità e la attraversa per sorprendere la storia personale di ognuno di noi. Lo raccoglie la Chiesa nella Veglia pasquale. È il grido del Crocifisso risorto: «Mors ero mors tua» (Morte sarò la tua morte). Nella vittoria del Crocifisso l'elemento della morte come condanna, castigo per il peccato, è assunto dentro un'inedita prospettiva di compimento. Proviamo ad addentrarci, per quanto a tentoni, nell'esperienza di Colui che ha svelenito il pungiglione della morte.
Uno dei momenti più drammatici dell'esperienza umana del Figlio di Dio è la notte del Giovedì santo. Gesù ha appena consegnato ai suoi il dono eucaristico e, afferrato dalla morsa dell'angoscia di fronte alla lucida consapevolezza di ciò che sta per avvenire, si è diretto verso il Monte degli Ulivi. Resta solo. E, dopo aver umanissimamente invocato dal Padre che gli allontanasse l'amaro calice, riafferma: «Tuttavia non sia fatta la mia volontà, ma la tua volontà». Egli si avvia quindi al processo e poi si lascia illividire sul palo ignominioso della croce. Entra in tal modo con la sua morte estrema in una morte qualitativamente singolare. La sua è una forma del tutto speciale di morte che combatte e vince il duello con la forma comune, quella nostra, della morte. Perché? Non solo perché, come ha affermato Sant'Anselmo, la morte del Nazareno è la morte immeritata del perfetto innocente, e neppure solo perché Gesù assume la morte
sponte (cioè per libera elezione). Per comprendere l'unicità singolare della morte di Cristo è necessario aggiungere un altro dato fondamentale. Gesù sconfigge la morte mediante l'atto di obbedienza umana di una persona divina. Nel libero «Sì» di Gesù agonizzante al Getsemani il destino di condanna capitale che accompagna ogni morire è abbracciato ed assunto in un più radicale morire. La morte di Gesù Cristo è perciò l'espressione della sua eterna vitalità trinitaria. Nel libero «Sì» di colui che poteva non morire viene spezzato il giogo della condanna capitale. La morte è definitivamente sconfitta. Il di più di mortalità contenuto nella scelta sovrana di colui che ha deciso di lasciarsi mandare nel corpo per morire e risorgere libera tutti gli uomini dalla morte trascinandoli con sé, se Lo accolgono, nel destino di gloria. Su questa base la Chiesa non annuncia semplicemente la possibilità di una morte serena, ma la fede nella risurrezione della carne. (...) La singolare morte di Cristo, diversa dalla morte
comune perché in essa entra direttamente in gioco l'elemento «scelta», ma entra in gioco come puro, obbediente abbandono al Padre, è l'unico atto di libertà umana compiuto in senso pieno. È «conveniente» allora abbracciare la speranza della Risurrezione, perché è ragionevole che la morte di Gesù sia considerata come garanzia che la nostra comune morte non sia un cadere nel nulla.
In questa prospettiva la morte appare proprio come la mia morte personale, dal momento che la mia libertà è da sempre al lavoro di fronte alla mia propria morte. Si può dire che la mia morte, nella sua radicalità, provoca la mia libertà a compiersi. La tende al massimo delle sue possibilità perché mette in campo il suo articolato organismo. In un certo senso non esiste un evento che chiami in causa la mia libertà lungo tutto l'arco dell'esistenza come la mia morte. Come ci insegna la tradizione cristiana e come mi testimoniano decine di malati estremi che ho il dono di incontrare, quell'angosciante rumore di fondo tendenzialmente rimosso che è la morte chiede di trasformarsi nella libera capacità di stare di fronte alla propria morte.
Certo, molti tratti della società attuale possono far pensare alla morte come un puro «crepare». Ma, se guardiamo in faccia la realtà, proprio perché la morte investe tutto l'orizzonte della mia libertà, nessuno me la può sottrarre, neanche l'uomo-bomba che mi sorprendesse del tutto inatteso mentre al bar sorseggio il caffè. Così nell'ottica della ragionevole fede cristiana la morte non potrà ghermire l'io a se stesso. Al contrario, per la risurrezione, lo invererà nel «suo vero corpo ». Allora nell'atto del mio morire in Gesù Cristo sarà il mio dies natalis.