mercoledì 25 marzo 2009

Il Giornale 25.3.09
Sorpresa, Vendola folgorato dal Cavaliere
di Luca Telese


Roma. Già l’incipit è di quelli che non può passare inosservato: «Berlusconi è un individuo geniale...». Fermi tutti. «È una persona che ha veramente tratti strabilianti, un self made man che riesce a costruire un’intera epopea della vita culturale nazionale». No, a parlare così non è Sandro Bondi. E venendo a conoscenza dell’autore di questa frase farete un salto sulla sedia, visto che si tratta di uno dei politici più lontani dalle coordinate di Arcore, il presidente della Regione Puglia - nonché animatore e leader della neonata formazione Sinistra e libertà - Nichi Vendola.
Non è uno scherzo, è tutto vero. Ed è accaduto in radio, ieri mattina, anche in questo caso in un luogo non sospettabile di conflitto di interessi, visto che si trattava di uno spazio «istituzionale» per la politica italiana, come il Faccia a faccia di Radio3, dove Vendola era intervistato da una giornalista di chiara appartenenza progressista, Ritanna Armeni. Passata la sorpresa, l’analisi di Vendola si rivela interessante proprio perché proviene da fonte insospettabile, e perché infrange il cliché stereotipato dell’antiberlusconismo più duro degli ultimi anni proponendo una analisi originale del fenomeno: «Berlusconi - ha proseguito il leader della sinistra alternativa - è un prototipo di uomo nuovo che si è saputo imporre sulla scena italiana. Noi - ha aggiunto Vendola riferendosi alla classe dirigente della coalizione - abbiamo fatto un errore tragico: demonizzare il personaggio e intenderne poco il meccanismo culturale di riproduzione del consenso». Visto che Vendola non è mai tenero con il centrodestra (tre settimane fa a Ballarò duellava con gli esponenti del governo, criticando le politiche sociali del centrodestra, ieri è stato durissimo sul piano casa, «è incostituzionale. Sottrae competenze alle Regioni») la riflessione è interessante. E poi si aggiunge un piccolo retroscena: nei giorni scorsi la nuova formazione battezzata da Vendola e Fava ha scelto (al termine di un dibattito molto acceso) il proprio nome. E, alla fine, i due leader, hanno voluto quel sostantivo - «libertà» - per differenziarsi da Pd (e Margherita) che lo aveva «abbandonato nelle mani del Cavaliere». Un modo per dire che il tratto distintivo della nuova sinistra, che si candida a competere sia con il Pd che con Rifondazione, è proprio la libertà. Così, il ragionamento di Vendola su Berlusconi finisce per essere articolato, e denuncia il cedimento del principale partito di opposizione (sia di Veltroni che di Franceschini) all’egemonia culturale del Cavaliere: «La sinistra - ha spiegato Vendola - è stata molto contro Berlusconi mentre diventava berlusconiana dentro le proprie viscere e i propri accampamenti. Dico che bisogna essere sempre rispettosi nei confronti delle persone, anche Berlusconi. Anzi, apprezzare la versatilità e la genialità di un essere umano. Bisogna invece mettere a fuoco e criticare duramente, e conoscere soprattutto, il meccanismo che riproduce il berlusconismo come una specie di narrazione nazionale». Ultimo tassello di analisi: «Berlusconi ha vinto, prima che nelle urne - ha osservato Vendola - nei sogni e negli incubi degli italiani. Ha plasmato la dimensione onirica. La gente ha iniziato a non avere più sogni collettivi ma individuali. Quello per esempio, della figlia velina... La gente non ha avuto più incubi collettivi come la guerra e la crisi ambientale ma incubi individuali come lo zingaro sul pianerottolo. E questa dimensione onirica - ha concluso il leader di Sinistra e libertà - è il segreto dell’egemonia, del successo berlusconiano».
Certo Vendola non è nuovo a interpretazioni e dichiarazioni anticonformiste e, fin dai tempi della sua militanza nel Pci, si è affermato come leader fuori dai vincoli di appartenenza. E ha sempre tenuto a distinguere le sue opinioni dai rapporti istituzionali. Ma non c’è dubbio che l’intervista con la Armeni sia il primo passo di una campagna che Sinistra e libertà vuole condurre all’insegna dello smarcamento, provando a ritagliarsi un ruolo originale, del tutto distinto da quello dell’Italia dei valori e del Partito democratico. Vendola separa l’analisi sulla vittoria del Pdl (che Veltroni non ha mai ammesso) dal giudizio negativo sulle sue scelte. Fino a ieri, le uniche aperture a sinistra erano venute dall’ala più moderata, spesso sospettabile di «inciucismo», o da esponenti non politici (vedi gli Oscar de Il Riformista di Antonio Polito). Non per caso. Sul dialogo in Bicamerale D’Alema si è giocato molti consensi, mentre Veltroni ha oscillato fra il non nominare il Cavaliere («il leader dello schieramento a noi avverso», diceva), incontrarlo, convocare manifestazioni contro di lui, scavalcando Di Pietro. Chissà che il superamento dell’antiberlusconismo «da sinistra» non abbia miglior fortuna.

Corriere della Sera 25.3.09
«Silvio ha smontato l'egemonia culturale della sinistra italiana»
Cicchitto: basta complessi di inferiorità Il premier è anti establishment come Craxi
intervista a Fabrizio Cicchitto di Aldo Cazzullo


«Una delle conquiste del Pdl dev'essere quella di superare il complesso di inferiorità culturale verso la sinistra. La sinistra è sconfitta anche perché la sua egemonia è stata smontata pezzo a pezzo, sul terreno di una grande battaglia culturale. E oggi c'è un'egemonia berlusconiana».
Presidente Cicchitto, al Pdl di solito si rimprovera scarsa attenzione agli intellettuali e un deficit di elaborazione culturale.
«Non è così. Intanto, tutti gli intellettuali italiani più importanti degli ultimi trent'anni sono stati avversi alla sinistra. Renzo De Felice. Lucio Colletti. Augusto Del Noce. Luigi Giussani. E non è affatto vero che Berlusconi non c'entri nulla con loro».
Qual è il legame?
«Berlusconi ha un antico rapporto con i ciellini, in cui ha visto gli unici che, pur prendendo calci in faccia, hanno resistito al '68. Ha del fascismo la stessa visione "laica" di De Felice e in fondo della borghesia italiana: nessuna simpatia o indulgenza, ma diffidenza verso l'antifascismo di maniera e strumentale. Quanto a Del Noce, ha portato in Parlamento suo figlio. Così come Piero Melograni e Colletti: il più importante studioso italiano del marxismo, che ha distrutto il marxismo. Penso poi al rapporto con Giuliano Ferrara e Gianni Baget Bozzo».
Proprio Melograni sostiene che a Berlusconi di intellettuali e cultura non importa molto.
«E invece Berlusconi ha saputo valorizzare l'elaborazione culturale di grandi intellettuali e imporla grazie alla sua iniziativa mediatica e televisiva. La sconfitta dell'operazione giudiziaria del '92-94 è avvenuta prima sul piano culturale e mediatico e poi su quello politico: il giudizio diffuso sulla magistratura oggi non è certo quello di quindici anni fa. Lo stesso è avvenuto per la demistificazione culturale del comunismo, e di tutta un'interpretazione della storia d'Italia portata avanti dalla sinistra».
Quale interpretazione?
«È stato smontato il connubio Gramsci-Togliatti, mostrando come sulla strategia del primo, basata sulla conquista dei cervelli, sia prevalsa quella del secondo, fondata sul totalitarismo criminale sovietico. È stato smontato il mito dell'autonomia del Pci, mostrando come dietro la svolta di Salerno ci fosse Stalin. Ed è stata smontata la narrazione postcomunista, che indicava in democristiani e socialisti i grandi ladri e rimpiazzava l'operaismo e il bolscevismo con il primato della magistratura come una sorta di nuova classe generale e del giornale di Scalfari come fonte di legittimazione. La svolta di Violante, uno dei registi dell'operazione, è indicativa. Anche se riconosco che Scalfari è un grande giornalista e, aggiungerei, grande intervistatore, capace di migliorare il pensiero dell'intervistato. Ricordo due interviste a un personaggio incolore come De Martino che, riscritto da lui, pareva brillantissimo...».
Berlusconi però ha combattuto la battaglia con una superiorità schiacciante di mezzi.
«La battaglia si è combattuta anzitutto con i libri».
Quali libri?
«Il lavoro di storici come Perfetti. Le traduzioni di Furet e Glucksmann. I saggi controcorrente di Giuseppe Gargani, Giancarlo Lehner, Mauro Mellini. Gli stessi libri di Pansa ancora qualche anno fa non avrebbero avuto lo stesso successo. E poi il colpo di teatro: Berlusconi che al congresso di Verona di An, propensa (o indotta) a legittimare i postcomunisti per legittimare se stessa, porta migliaia di copie del Libro nero del comunismo.
Quale altro leader politico ha fatto qualcosa del genere?».
Quale altro leader politico possiede giornali e tv?
«Ci voleva un personaggio con la sua forza finanziaria e mediatica per affrontare l'invincibile armata di Cgil, Rai, alcune grandi banche, alcuni grandi gruppi industriali, tutte le grandi procure. E poi di qui c'è un conflitto d'interessi alla luce del sole. Il conflitto d'interessi del Pci-Pds-Ds-Pd è rimasto occulto, sino a quando è esploso con Consorte».
Ancora nel '94 però le tv di Berlusconi appoggiavano la Procura di Milano.
«Se Berlusconi si fosse presentato agli elettori come il continuatore del pentapartito sarebbe stato travolto. Ha avuto l'intelligenza di capire che doveva fare una cosa nuova, che i vecchi partiti erano morti, ma le loro culture politiche erano vive. Da qui la scelta di recuperare uomini di formazione cattolica, socialista, liberale».
Alla sinistra non resta nulla?
«Resta l'organizzazione della cultura. Finita nelle mani della sinistra peggiore, quella giustizialista. L'università. I libri di testo. Il teatro. Il cinema e la distribuzione del cinema: si rende conto che non si riesce a vedere Katyn, il film di Wajda sul massacro degli ufficiali polacchi? Lo sa che in tutta Italia lo danno solo in 12 sale? Guardi Bondi alla Cultura: uomo di grande intelligenza, alle prese con una nomenklatura di sinistra che lo pressa da ogni parte».
Lei invece si è trovato alla prese con la rivolta dei 101.
«A parte il fatto che sono di meno, molti non sapevano che in commissione si stava già lavorando a rivedere il decreto sicurezza».
Lei ha condiviso la linea del governo sul caso Eluana?
«Guardi, io non sono credente. Non sono un laico anticlericale, ma neppure un laico devoto. Sono contrario al divieto di diagnosi preimpianto sull'embrione, sulle staminali la penso come Obama, rispetto ma non condivido le idee del Papa sul condom. Credo che Welby avesse il diritto di staccare la spina, come dovrebbe averlo chi non è cosciente ma ha manifestato in passato una volontà chiara. Ma su Eluana sono stato del tutto d'accordo con il governo. Non si può far morire una persona di fame e di sete, com'è toccato a Terry Schiavo».
Com'è davvero il rapporto tra Berlusconi e Fini?
«Su due livelli diversi. E, per questo, migliore che in passato. Tanto è imprevedibile-carismatico il primo quanto è razionale-calibrato al millimetro il secondo, come ha confermato con il suo discorso di domenica. E' evidente che per tutta questa lunga fase il leader è senza dubbio Berlusconi. Il vero contraltare di Fini, in prospettiva, è Tremonti».
Come si sta comportando il ministro dell'Economia?
«È stato tra i primi a capire la crisi e il ritorno dell'intervento pubblico. Però sarebbe un errore per il governo inasprire i rapporti con la Banca d'Italia, fondamentale per la tenuta del sistema del credito e anche per il successo delle aste dei Bot».
E tra Berlusconi e Craxi, lei che ha lavorato con entrambi?
«Entrambi avevano contro l'establishment. Ma Craxi cercava lo scontro; Berlusconi, il consenso. E poi non l'ho mai visto maltrattare un amico o un collaboratore. Non posso dire lo stesso di Bettino, che aveva un carattere insieme forte e aggressivo».

Repubblica 25.3.09
Silvio e l’ultima tentazione con la smania di Cesarismo lo statuto del predellino
Berlusconi resterà padre-padrone del partito
di Filippo Ceccarelli


Nel ´94 la polemica del Cavaliere con Bobbio che aveva posto il problema del "non-partito"

Cesarismo? Sì, grazie. Non c´è di che. E in effetti tutto lascia pensare che dalle parti di Palazzo Grazioli stiano battendosi come leoni per appioppare al Pdl una sorta di «statuto del predellino» che di riffa o di raffa, in modo più o meno implicito o evidente, attribuisca a Berlusconi il potere e il rango di presidente a vita.
Nel febbraio del 44 a.C. anche Caio Giulio Cesare, peraltro in fase di accentuata divinizzazione, ottenne l´imperium a vita. Ma in fondo, già nel novembre scorso, su Libero, era uscito un plutarchianissimo articolo sulle vite parallele del Cavaliere e del suo imminente predecessore. Molto avevano i comune i due personaggi, oltre all´ansia della calvizie da attenuare a colpi di trapianti e foglie d´alloro: origine da self made man e doti oratorie, discese in campo e passaggi del Rubicone, lex Memmia e decreto Alfano, populismo e creazioni amorose in rima, Apicella docet, e perfino una certa fama di play-boy - per quanto il quotidiano puntualizzasse che solo il leader dell´antica Roma «non faceva troppe distinzioni di sesso».
Ora, forse la lettura dell´ultimo saggio di Luciano Canfora su La natura del potere (Laterza), che proprio a Cesare dedica un interessante capitolo, consiglierebbe di non enfatizzare il paragone, e magari anche di attenuare il turbo-cesarismo statutario di lunga deriva. Però l´altro giorno il portavoce berlusconiano Capezzone spiegava con qualche candore che lo spirito con cui si vanno delineando le nuove norme del Pdl sono destinate «a costruire un processo destinato a durare per i prossimi trent´anni». Forte allora dei progressi della medicina predittiva di don Verzè (processo «Quo vadis»), nel 2039 il presidentissimo Berlusconi avrà appena 102 anni. Un ragazzino.
E si può sempre scherzare sugli statuti dei partiti che sono semplici pezzi di carta, anche se in qualche modo nel loro piccolo, specie riguardo alla democrazia interna, indicano pur sempre come si intendono governare i cittadini. Così nel luglio del 1994, dopo la prima vittoria elettorale berlusconiana, il professor Norberto Bobbio, sulla Stampa, si pose seriamente il problema di cosa fosse un «non-partito» come Forza Italia. I partiti, scrisse, «debbono avere uno statuto che ne regola gli scopi e la composizione, la struttura interna e i rapporti con le istituzioni. La loro presenza sollecita inevitabilmente alcune domande: "Come vi si accede? Quali gli obblighi dell´iscritto? Fra gli obblighi esiste anche quello di democrazia interna?"».
Il giorno dopo Berlusconi rispose piccato. Certo che c´era uno statuto, legalmente registrato, in cui si parlava «esplicitamente dei fini». (E tra questi, con qualche sorpresa al giorno d´oggi, viene fuori la difesa della Costituzione e l´ispirazione liberista). Ma poi accusava Bobbio di opposizione preconcetta. Quest´ultimo aspettò qualche giorno: «Ho rinviato la risposta perché attendevo di ricevere lo statuto del nuovo raggruppamento politico che veniva presentato nella lettera, e di vederlo pubblicato su qualche giornale. Sarà per un´altra volta».
Non la si farà troppo lunga. L´oggetto misterioso c´era: depositato nel gennaio del 1994, rivisto e integrato a maggio e a giugno di quell´anno. Due anni dopo, per acclamazione, si diede incarico a Berlusconi di redigerne l´articolato definitivo. Quando si conobbe, nel 1997, e a riprova che tutto in genere non solo è già successo, ma con le stesse identiche parole, lo statuto di Forza Italia venne definito (da Marco Taradash, unico a parlarne) «cesarista». Che poi è un modo elegante per dire che del partito, anche oer ragioni di quattrini, Berlusconi è ed è comunque destinato a restare padre, padrone, padreterno e adesso, come concedeva lui stesso venerdì scorso a Bruxelles, anche «Patriarca», naturalmente maiuscolo.
A veder bene, oltretutto, neanche adesso il Cavaliere usa il termine partito, ritenendosi semmai lessicalmente alla guida di un «Popolo». E insomma, al di là delle chiacchiere sulle norme e sui poteri presidenziali, ha detto chiaro e tondo il senatore Quagliariello, con buoni studi storici e giudici alle spalle, che la presente è una «rivoluzione carismatica»; nel senso che il Pdl, come Forza Italia, nasce eminentemente da una vicenda di carisma «e non da un meccanismo democratico».
Inutile girarci intorno. L´altro giorno Berlusconi ha comunicato che per le elezioni, sui muri delle città, ci dovrà essere solo la sua faccia; e ieri sul Riformista si poteva leggere che in vista del congresso di nascita del Pdl il Cavaliere ha già scritto di suo pugno le parole del nuovo inno. Quelle del penultimo, dal significativo titolo «Meno male che Silvio c´è», di Andrea Vantini, si era limitato a cambiarle rinforzandole, forse con l´aiuto della sua brillante paroliera Loriana Lana, che tra i suoi antenati vanta il poeta romanesco Gigi Zanazzo.
Di «Meno male che Silvio c´è» esiste comunque anche una versione in inglese, più modestamente intitolata «To Silvio», pare composta e fatta eseguire ad esclusivo uso e diletto dell´ex presidente americano George W. Bush. Forse anche a Cesare, nell´ultima fase auto-divinizzante, si offrivano tali onori. Ma certo quello che colpisce è come qualcuno, dalle parti del Pdl, pensi oggi di poter imbrigliare questo genere di potere in un povero statuto.

il Riformista 25.3.09
Resistenze sulla Resistenza
Da Fini ancora uno strappo
Fosse ardeatine. parole di elogio per il «patriottismo democratico» dei partigiani che «il fascismo aveva negato». Per La Russa «fa bene Berlusconi a non andare in piazza il 25 aprile». Il presidente della Camera forse ci sarà.
di A.D.A.


E ancora una volta si materializza la distanza tra Gianfranco Fini e i suoi colonnelli. In occasione del 65esimo anniversario della strage delle Fosse Ardeatine il presidente della Camera ha sottolineato il valore del «patriottismo democratico», che il «fascismo aveva oscurato per vent'anni» e «che trovò uno dei suoi primi momenti di rinascita proprio nella scelta di continuare la guerra contro i tedeschi dopo l'8 settembre». Parole dure, pronunciate con enfasi in occasione del ricordo di Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, ufficiale dell'esercito italiano trucidato dai tedeschi alle fosse ardeatine. Uno altro strappo, l'ennesimo. Già allo scioglimento di An si erano materializzate le distanze tra Fini e il suo popolo. Mentre tutto il suo stato maggiore era impegnato rassicurare i militanti («Il Pdl sarà un partito di destra» aveva detto Ignazio La Russa) lui, nelle conclusioni aveva avvertito: «Il riferimento è il Partito popolare europeo». E giù una serie di strappi: laicità, multiculturalismo, primato della dignità della persona.
Passa un giorno. E a Porta a Porta, lunedì sera, va in scena un duro botta e risposta tra La Russa e Bersani sull'antifascismo. All'ex ministro del Pd che chiedeva come mai Berlusconi fosse l'unico premier in Europa a non partecipare alle celebrazioni del 25 aprile, La Russa aveva risposto, ricordando quando il sindaco di Milano Letizia Moratti fu fischiata al corteo: «Vorresti che si sottoponesse alla gogna mediatica? Sbaglierebbe se lo facesse». E ancora: «Perché tutti mi chiedono cosa faccio il 25 aprile e nessuno chiede a Bersani cosa fa il 4 novembre, giorno della festa delle forze armate?». I fedelissimi del presidente della Camera preferiscono non commentare. Ma ieri Gianfranco Fini è andato oltre. La condanna del fascismo l'ha ripetuta più volte. E più volte ha parlato della necessità di una memoria condivisa. L'ultima bacchettando propria La Russa che lo scorso 4 novembre dall'altare della patria aveva ricordato l'esercito della Rsi. Ieri Fini ha preso di petto un altro tabù: «È esagerato parlare - ha affermato il presidente della Camera - di morte della patria, un'espressione troppo pessimistica per indicare la smobilitazione morale militare che seguì l'8 settembre». Sembrano dettagli, ma non è da poco, visto che il tema - la morte della patria, appunto - è uno dei cavalli di battaglia anche di quegli storici che vogliono ridimensionare il valore di rinascita nazionale della resistenza. Al contrario Fini ha lodato gli uomini «che non accettarono la smobilitazione». Anzi, ha spiegato: «Il loro sacrificio è stato indicato da molti come l'atto di nascita della Resistenza: commemorando anni fa questa pagina eroica l'allora presidente Ciampi parlò di rinascita della patria. La patria sopravvisse grazie a uomini come Montezemolo, Pintor e tutti coloro che non accettarono la smobilitazione». Tutti, partigiani soldati che continuarono a combattere dopo l'8 settembre, resistenti. Non a caso cita Calamandrei: «Era giunta l'ora di resistere, era giunta l'ora di essere uomini: di morire da uomini per vivere da uomini».
Poi l'omaggio ai partigiani, termine poco gradito agli ex missini: «Parlare di Montezemolo e del suo sacrificio significa parlare anche del contributo fornito dai militari italiani, insieme con le formazioni partigiane, alla liberazione del nostro Paese dall'occupante tedesco». E il richiamo alla Costituzione, bollata poco tempo fa dal premier come scritta anche da forze filosovietiche: «Quegli ideali trovano nella Costituzione il loro fondamento morale. Un aspetto che ritengo importante sottolineare - ha spiegato Fini - è il legame ideale tra Resistenza e Risorgimento che la rievocazione dell'esperienza dei soldati italiani, insieme con quella di tanti intellettuali e tante formazioni partigiane, consente di mettere in luce. Il valore che emerge è quello del patriottismo democratico». Di qui a considerare il 25 aprile come il fondamento storico e morale della rinata democrazia italiana il passo è breve. E Fini potrebbe quest'anno compiere l'ultimo atto del suo lungo cammino: partecipare alla festa della Liberazione. Fonti a lui vicine spiegano: «Per ora non è in agenda ma se ci sono appuntamenti istituzionali parteciperà». Berlusconi, invece, non lo farà.

l’Unità 25.3.09
«Questa legge sarà sommersa dai ricorsi»
Intervista a Felice Casson di M. Ze.


In Aula il Pdl va avanti per la sua strada, respinge tutti gli emendamenti «premissivi» e la stragrande maggioranza di quelli presentati dall’opposizione.
Felice Casson, lei appartiene al partito di coloro che dicono «meglio nessuna legge che questa legge» sul fine vita?
Sicuramente sì perché con questa legge si fa un passo indietro. La Costituzione, le leggi ordinarie e le interpretazioni della magistratura, riconoscono pienamente il principio di autodeterminazione per la persone capace di intendere e volere. Questo testo, invece, pone delle limitazioni e viola palesemente la Costituzione.
La vita può essere un diritto indisponibile?
Su questo noi abbiamo presentato degli emendamenti per eliminare la definizione cosi come è altrimenti si aprirebbe la possibilità di prevedere sanzioni penali per il tentato suicidio.
Seguendo i lavori parlamentari si percepisce una certa rassegnazione da parte dell’opposizione. Una battaglia persa?
Abbiamo assistito nei giorni scorsi ad un ordine dall’alto, “serrate i ranghi” diretto ai senatori Pdl e quindi anche le voci in disaccordo sono state fatte tacere. Ricordo una quasi minaccia di sostituzione nei confronti di due senatori Pdl della Commissione Affari Costituzionali perché avevano preannunciato un voto per l’incostituzionalità del Ddl Calabrò.
Ma anche nel Pd c’è qualche problema. Stamattina Franco Marini ha chiesto al gruppo di far propri anche alcuni degli emendamenti presentati dai cattolici.
La mediazione che abbiamo raggiunto è stata molto faticosa. Io, per esempio, non condivido alcuni degli emendamenti del gruppo perché ritengo che alimentazione e idratazione artificiale siano trattamenti medici e quindi debbono essere oggetto di dichiarazione anticipata di volontà. Non si possono chiedere ulteriori mediazioni.
In questi giorni ci sono stati diversi appelli per fermare la legge. L’ultima speranza è una moratoria dopo il voto al Senato?
Gli appelli cadono nel vuoto perché la maggioranza procede come un carro armato senza ragionare sulle conseguenze di una legge così deleteria. Speriamo che nel passaggio dal Senato alla Camera ci sia un periodo di riflessione e comunque una moratoria.
Lo crede possibile dopo le ultime dichiarazioni del cardinal Bagnasco?
La Chiesa fa il suo mestiere, sta ai politici garantire scelte autonome, nell’interesse della collettività e dei singoli.
Se dovesse entrare in vigore il ddl Calabrò ci saranno una valanga di ricorsi in tribunale, come qualcuno sostiene?
Alla prima applicazione si creerà un problema di contrasto tra medico, fiduciario o il parente stretto. Ci saranno ricorsi immediati e ripetuti all’autorità giudiziaria e a questo si potrebbe aggiungere un ulteriore serie di ricorsi in sede di Corte Costituzionale.

Repubblica 25.3.09
Il testamento biologico visto dall’America
di Alexander Stille


La controversia sul testamento biologico – e le varie proposte di legge ora davanti al Parlamento italiano – sono incomprensibili visti dagli Stati Uniti dove i testamenti biologici esistono da oltre venticinque anni e sono un fatto del tutto normale. Molti, durante l´agonia della povera Eluana Englaro, hanno paragonato il suo caso a quello americano di Terry Schiavo, una donna in coma da anni, come Eluana, che è diventata, come lei, fulcro di una grande battaglia politica. Non aveva lasciato un testamento biologico e la sua famiglia era profondamente divisa: il marito voleva lasciarla morire mentre i genitori volevano fare di tutto per tenerla in vita. Ma anche all´apice di questo caso oltre il 70 per cento degli americani si oppose a un intervento governativo che potesse impedire alla famiglia di decidere.
Quando però esiste un testamento biologico – dove una persona ha la possibilità di esprimere la sua volontà – non c´è nessuna controversia. Conosco il problema perché ha toccato la mia famiglia da vicino. Quattro anni fa a mio cognato David è stato diagnosticato un tumore inoperabile, e piuttosto avanzato, al cervello. Prima di iniziare le cure, ha avuto un ictus ed è andato in coma. I medici hanno detto che non sarebbe uscito lucido dal coma e che comunque sarebbe morto nel giro di poco tempo. Mia sorella, dopo qualche settimana, ha deciso, consultandosi con la sorella di David, pienamente d´accordo, di togliere ogni sostegno, compresa la nutrizione, e lasciarlo morire. Lui le aveva lasciato le indicazioni sulle decisioni da prendere nel caso non fosse stato in grado di intendere e di volere. Gli hanno dato dei farmaci per non farlo soffrire e dopo qualche giorno è morto.
Anch´io ho preparato un testamento biologico, quasi contemporaneamente al testamento normale. L´ho fatto proprio per evitare lo scenario tragico di una lunga fine straziante per i miei cari e una perdita di dignità personale per me. Legalmente, il testamento biologico non ha niente a che fare con l´eutanasia che rimane illegale e fortemente controversa.
Il filone legale invece viene dal diritto di un paziente di essere informato prima di subire un intervento chirurgico potenzialmente doloroso o pericoloso. Per Benjamin Cardozo, grande giurista e membro della Corte Suprema, «ogni essere umano di età adulta e di mente sana ha il diritto di determinare quello che sarà fatto del proprio corpo». Da qui nasce il diritto di decidere – in anticipo – il trattamento da subire anche quando si perde la coscienza. In questa controversia è difficile da capire la posizione della Chiesa cattolica, che mi sembra profondamente contraddittoria con altre posizioni della Chiesa. Si oppone, per esempio, all´inseminazione artificiale e al controllo delle nascite perché interferiscono con i cicli naturali della vita. Ma è pronta a usare tutti i mezzi possibili per tenere in vita una persona: tubi per nutrire, idratare e aiutare la respirazione. Nel passato, l´idea della morte come parte integrante e inevitabile della vita – con il teschio accanto a tutte le raffigurazioni dei santi, la "buona morte", i richiami a sottoporsi alla volontà di Dio anche davanti alla tragedia – era legata alla visione cattolica della vita.
Viceversa il mondo moderno e laico, a volte con il feticcio della tecnologia, cercava di usare tutti i mezzi possibili per prolungare la vita. Anziché a casa, con parenti e amici intorno, nel 20esimo secolo la morte era nascosta negli ospedali, come se fosse una cosa vergognosa e imbarazzante. Il risultato è che ora negli Stati Uniti quasi il trenta per cento di tutte le spese mediche sono relative all´ultimo anno di vita. E una percentuale molto alta riguarda l´ultima settimana. Ma da qualche anno crescono le persone che scelgono di morire a casa. Un´idea che riporta alla "buona morte" come parte naturale del ciclo della vita, un fatto tutto sommato più coerente del prolungamento a ogni costo con la visione religiosa della vita.
Un nuovo studio pubblicato la settimana scorsa dal Journal of the American Medical Association ha confermato che una vasta maggioranza di americani preferisce non adoperare misure eccezionali – la respirazione meccanica, per esempio – per prolungare la vita. Ma quelli che lo fanno sono, curiosamente, i più religiosi. L´11 per cento dei pazienti più religiosi ha scelto le misure eccezionali mentre tra quelli meno religiosi la percentuale scende al 3,6 per cento. «Si pensa che i pazienti più attenti alla spiritualità siano più propensi a dire: "Mettiamoci nelle mani di Dio e vediamo che succede", ma sono in realtà quelli che vogliono le cure più aggressive», ha detto Holly G. Prigerson, uno degli autori del nuovo studio e ricercatrice al Dana-Farber Cancer Institute di Boston.

l’Unità 25.3.09
Francia e Germania insistono:
preservativo, il Papa sbaglia
di Roberto Monteforte


Si smorzano i toni della polemica internazionale per le dichiarazioni di Papa Ratzinger contrarie all’uso preservativo per contrastare il flagello dell’Aids, ma la sostanza delle critiche resta intatta. Malgrado le forti accuse del presidente dei vescovi italiani, cardinale Angelo Bagnasco, rivolte a chi ha attaccato per questo il Papa, tiene il punto il governo di Parigi. Lo fa con il portavoce del ministero degli Esteri, Eric Chevallier. Ieri ha precisato che il governo francese non aveva voluto polemizzare con Benedetto XVI quando ha criticato la sua frase sul ruolo dei preservativi nella lotta all'Aids, ma ha ribadito che quell'affermazione «può avere conseguenze drammatiche» per la salute pubblica. «Non volevamo fare alcuna polemica» ha spiegato. «Abbiamo soltanto detto, e lo ripetiamo, - puntualizza- che la frase del Papa sul preservativo può avere conseguenze drammatiche sulla politica mondiale in favore della salute». Il portavoce chiarisce: «Non abbiamo mai detto che il preservativo è l'unica soluzione del problema. Ce ne sono altre come l'assistenza medica, quella sociale, i test per individuare la presenza del virus, il sostegno psicologico». «Ma il preservativo - puntualizza - rientra fra questi e tutti i discorsi che vanno in direzione diversa, fatti per di più da una persona che ha enorme influenza, vanno contro l'interesse della salute pubblica».
La lettera su Le Monde
Una posizione che dà voce ad una critica molto diffusa «Oltralpe». È di ieri la «lettera aperta» al pontefice pubblicata da Le Monde e sottoscritta da autorevoli scienziati come il premio Nobel di medicina 2008 Francoise Barrè-Sinoussi e il professor Jean-Francois Delfraissy, direttore dell’Agenzia nazionale della ricerca su l’Aids con la quale si chiede al Papa di tornare sulle sue dichiarazioni sull’uso del preservativo. L'affermazione di Benedetto XVI, scrivono, «è contraddetta dai risultati di 25 anni di ricerca scientifica». Accusano il Papa di «cinismo insopportabile» e di esprimere una posizione «pericolosa per l'umanità». «Il suo posto le permette - aggiungono - di consultare i più eminenti esperti prima di esprimersi pubblicamente. Questi pareri avrebbero dovuto evitarle questa presa di posizione dalle conseguenze drammatiche. C'è ancora tempo per tornare sulle sue dichiarazioni».
Le critiche di Berlino
Alle critiche confermate da Parigi si aggiungono quelle di Berlino. «La nostra posizione su questo tema rimane invariata» ha detto ai giornalisti un portavoce del ministero della Sanità. «Noi sosteniamo ancora che bisogna usare i preservativi per prevenire l'Hiv e l'Aids», ha aggiunto tenendo ferma l’accusa di «irresponsabilità» mossa al pontefice dalle ministre della Sanità, Ulla Schmidt, e dello Sviluppo, Heidemarie Wieczorek-Zeul. «Noi raccomandiamo l'uso dei preservativi durante i rapporti sessuali - ha concluso - per prevenire l'Hiv e l'Aids nei casi che lo richiedano».

Resta calda la polemica sulle dichiarazioni di Benedetto XVI contrarie all’uso del condom in funzione anti Aids. Malgrado le accuse del cardinale Bagnasco Francia e Germania insistono: «Il Papa ha sbagliato, usatelo».

Repubblica 25.3.09
Biotestamento e preservativo gli italiani bocciano il Papa
di Ilvo Diamanti


Gli italiani e la Chiesa nella vita quotidiana fiducia e disobbedienza
Sul condom solo 2 su 10 d´accordo con Ratzinger
Nonostante le singole divergenze quasi il 55% si fida del Pontefice
L´80% dei cittadini dice sì a testamento biologico e fecondazione assistita

Da tempo le posizioni della Chiesa e del Pontefice non provocavano tanto dibattito. Divisioni profonde. Al di là delle stesse intenzioni del Vaticano. Lo prova la reazione del cardinale Angelo Bagnasco, Presidente della Cei, alle polemiche sollevate dall´affermazione del Papa, durante la visita in Africa, circa l´inutilità del preservativo nella lotta contro l´Aids. Il risentimento del cardinale, peraltro, sembra rivolgersi soprattutto verso la Francia, il cui governo ha ribadito ieri le proprie critiche. Marc Lazar, d´altra parte, sulla Repubblica, ha posto l´accento sulla timidezza, quasi l´imbarazzo dei commenti politici in Italia su questi argomenti. Non solo nel centrodestra, anche nel centrosinistra. Peraltro, in Italia, più che in Francia e negli altri paesi europei, il rapporto con la Chiesa e con l´identità cattolica è importante. Ma anche ambivalente.
In ambito politico ma prima ancora nella società, come emerge dagli orientamenti verso le questioni etiche e bioetiche più discusse. A partire dalla più recente: l´affermazione del Papa sull´uso del preservativo. Trova d´accordo una minoranza ridotta di persone, in Italia. Circa 2 su 10, secondo un sondaggio di Demos, condotto nei giorni scorsi. Che salgono a 3 fra i cattolici praticanti più assidui. La posizione politica non modifica questa opinione in modo sostanziale. Il disaccordo con il Papa, in questo caso, resta largo, da sinistra a destra. D´altra parte, lo stesso orientamento emerge su altri argomenti "eticamente sensibili". Circa 8 italiani su 10 ritengono giusto riconoscere alle persone il diritto di scrivere il proprio "testamento biologico", altrettanti si dicono favorevoli alla fecondazione assistita, 6 su 10 sono contrari a rivedere in senso restrittivo l´attuale legge sull´aborto. Pochi meno, infine, sono d´accordo a riconoscere alle coppie di fatto gli stessi diritti di quelle sposate. Con la parziale eccezione delle coppie di fatto, le posizioni dei cattolici praticanti, anche in questi casi, non divergono da quelle prevalenti nella società. Mentre le opinioni dei praticanti saltuari, la grande maggioranza della popolazione, coincidono con la "media sociale". Ciò potrebbe rafforzare il dubbio sulle ragioni che ispirano la timidezza delle forze politiche in Italia, visto che gran parte dei cittadini, compresi i cattolici, mostrano distacco e perfino dissenso verso le indicazioni della Chiesa. Tuttavia, occorre considerare un altro aspetto, altrettanto significativo e in apparenza contrastante. In Italia, nonostante tutto, la grande maggioranza dei cittadini - quasi il 60% - continua ad esprimere fiducia nella Chiesa. Non solo: il giudizio su Papa Benedetto XVI non è cambiato, in questa fase. Il 55% delle persone mostra fiducia nei suoi confronti. Qualcosa di più rispetto a un anno fa. Il che ripropone il contrappunto emerso in altre occasioni. Gli italiani, cioè, continuano a fidarsi della Chiesa, dei sacerdoti, delle gerarchie vaticane. Ne ascoltano le indicazioni e i messaggi. Anche se poi pensano e agiscono di testa propria. In modo diverso e spesso divergente. Si è parlato, al proposito, di una religiosità prêtàporter. Di un "dio relativo". Interpretato e usato su misura. Ma si tratta di un giudizio riduttivo. Il fatto è che la Chiesa, il Papa intervengono sui temi sensibili dell´etica pubblica e privata in modo aperto e diretto. Offrono risposte magari discutibili e spesso discusse. Contestate da sinistra, sui temi della bioetica. Ma, in altri casi, come sulla pace e sull´immigrazione, anche da destra. Tuttavia, offrono "certezze" a una società insicura. Alla ricerca di riferimenti e di valori. Per questo quasi 8 italiani su 10, tra i non praticanti, considerano importante dare ai figli un´educazione cattolica (Demos-Eurisko, febbraio 2007). Mentre una larghissima maggioranza delle famiglie destina l´8 per mille del proprio reddito alla Chiesa cattolica.
Sorprende, semmai, che, su alcuni temi etici, le posizioni politiche facciano emergere differenze maggiori rispetto alla pratica religiosa. Le opinioni degli elettori della Lega, sulle coppie di fatto, quelle degli elettori del PdL, sull´aborto, appaiono più restrittive rispetto a quelle dei cattolici praticanti. Il che ripropone una questione mai del tutto risolta. In che misura sia la Chiesa a condizionare le scelte politiche e non viceversa: la politica a usare le questioni etiche per produrre e allargare le divisioni fra gli elettori. Caricando posizioni politiche di significato religioso.
Peraltro, questi orientamenti ripropongono un´altra questione, che riguarda direttamente il messaggio della Chiesa. Che gli italiani considerano una bussola importante per orientarsi, in tempi tanto difficili. Tuttavia, quando una bussola dà indicazioni così lontane e diverse dal senso comune, dalle pratiche della vita quotidiana. E puntualmente disattese. Dai non credenti, ma anche dai credenti e dagli stessi fedeli. Allora può darsi che la bussola possa avere qualche problema di regolazione.

Corriere della Sera 25.3.09
Dietro le quinte Primi segnali di insofferenza dell'area laica. Cuperlo: ormai in direzione ci si scambia il segno di pace
E Dario il «pio» preoccupa gli ex ds
Martella: troppi silenzi su Bagnasco. Ma Castagnetti: per noi il capo è il Papa
di Maria Teresa Meli


ROMA — Massimo D'Alema, 17 marzo 2009: «La politica non se la può cavare con la libertà di coscienza sul testamento biologico, questo principio non può sostituire la linea politica ». Dario Franceschini, 22 marzo 2009: «Io dico no a una disciplina di partito per avvicinare sui temi eticamente sensibili laici e cattolici».
Rita Bernardini al presidente della Cei Angelo Bagnasco, 24 marzo 2009: «Preservativo è amore per il prossimo ». Dario Franceschini al presidente della Cei Angelo Bagnasco, 24 marzo 2009: «E' importantissima la scelta annunciata dal Cardinale di istituire un fondo di solidarietà per le famiglie in difficoltà».
Livia Turco, 19 marzo 2009: «Grave l'errore del Papa sui preservativi». Dario Franceschini, 22 marzo 2009: «La voce della Chiesa va ascoltata e rispettata anche quando dice cose scomode. Non si può dire che c'è un'interferenza da parte della Chiesa quando esprime giudizi sui quali non siamo d'accordo».
Era stato salutato come un segretario laico, il giorno della sua elezione, alla Fiera di Roma, per le parole da lui pronunciate sul testamento biologico. Per l'annuncio che l'orientamento prevalente del Pd era per il no, e che quindi non era cambiato niente rispetto alla gestione dell'ex Ds Walter Veltroni. Anzi, l'ala sinistra del Partito democratico sembrava più convinta di Dario Franceschini che del suo predecessore.
E' passato qualche tempo e sia l'area che fa capo agli ex diesse che quella radicale del Pd sembrano ricredersi. C'è chi la butta a ridere, come Gianni Cuperlo: «L'altro giorno abbiamo concluso la direzione scambiandoci il segno della pace». C'è chi si arrabbia: «Io su certe cose parlo sempre, ma vorrei che lo facesse anche il mio partito a livello ufficiale, e invece solo silenzi», sospira Paola Concia.
«E' un errore tacere», ribadisce Rita Bernardini. Scuote la testa Andrea Martella e osserva: «Su Bagnasco che, per difendere le parole del Papa a proposito dei preservativi, attacca duramente tutti i suoi critici, avremmo dovuto dire qualcosa. Ma non è successo ».
«Del resto — insiste Martella — quando una persona come Pierluigi Bersani dichiara ufficialmente che il Pd non entrerà mai nelle file dei socialisti europei, non c'è più nulla da dire. E pensare che nessuno lo ha criticato. Figuriamoci se l'avesse detto Veltroni. E figuriamoci se Walter avesse taciuto su Bagnasco».
Insomma, agli ex diesse sta un po' stretto l'abito del Partito Democratico cucito da Franceschini dopo le sortite della Chiesa.
D'altra parte, il giorno in cui il Papa, in Africa, aveva dichiarato che i preservativi a nulla servono contro l'Aids, il segretario del Partito democratico aveva preferito scegliere la via del silenzio. E aveva rinunciato ad attaccare il governo Berlusconi che al contrario di Francia, Germania e Spagna, non aveva criticato la sortita di Ratzinger. Aveva parlato solo due giorni dopo, incalzato dalle domande di un giornalista.
Ma a spiegare quella che agli ex diesse sembra una situazione assai particolare ci pensa uno degli esponenti del Pd più vicini al segretario. Ossia Pierluigi Castagnetti, cattolico ed ex popolare come Franceschini: «Gli ex diesse fanno fatica a capire. Quelli che per noi sono passi da gigante, come i passi in avanti fatti sul testamento biologico, per loro sono passettini. Noi non abbiamo una tradizione socialdemocratica o comunista. Non facciamo parte di un filone culturale: noi abbiamo due appartenenze: una alla Chiesa, l'altra alla politica. Per me, come per Franceschini, per tutti noi cattolici, insomma, il vero "capo" è lui: il Papa. Per noi è il vicario di Dio in terra, e questo gli ex diesse dovrebbero alla fine comprenderlo ».
Un altro ex collega di partito del segretario del Pd, Ciriaco De Mita, fornisce un'altra spiegazione: «Franceschini non è un democristiano ma un cristiano sociale, però non è uno sciocco e quindi ha capito che sul Papa doveva fare retromarcia».

il Riformista 25.3.09
Le astensioni del Pd
Dopo il federalismo il bio-testamento?
di Tommaso Labate


RETROSCENA. Confermata la scelta della non belligeranza: il ddl Calderoli passa. Insorgono prodiani, rutelliani e la Cgil. Marini studia un'operazione per portare alla convergenza sul tema bioetico. Occhi puntati su due emendamenti democrat.

Qualcuno la già ribattezzata «strategia dell'astensione». È su questa che si misurerà la tenuta del Partito democratico in due passaggi cruciali dell'inizio legislatura, come il voto su federalismo (alla Camera) e quello sul testamento biologico (al Senato). Sono due test decisivi e non solo dal punto di vista parlamentare. Anche perché soltanto dopo i due passaggi si capirà se il Pd arriverà alle Europee a ranghi completi, oppure perderà qualche pezzo (centrista) per strada.
Visto che le mosse del Pd sul federalismo fiscale erano note da giorni, la novità delle ultime ore riguarda il voto di palazzo Madama sul testamento biologico. È su questo terreno, dunque, che potrebbe maturare nottetempo la più clamorosa delle novità: l'astensione del Pd al disegno di legge della maggioranza. Sia chiaro: il centrodestra fino ad oggi ha chiuso tutti gli spiragli. Ma se si aprisse una breccia dentro il blocco (tutt'altro che granitico) Pdl-Lega, ecco che - d'improvviso - il testamento biologico potrebbe incasare la non belligeranza del Pd.
L'esame del ddl è ripreso ieri con una significativa scrematura: dei circa tremila emendamenti al testo firmato da Calabrò sono soltanto novecento quelli ammessi dalla presidenza dell'Aula dopo il vaglio di compatibilità. Solo che l'attenzione non è più concentrata sull'ormai celebre emendamento firmato da Anna Finocchiaro. Il punto su potrebbe maturare la convergenza tra maggioranza e opposizione è nascosto in due emendamenti: il 3.137 e il 3.162. Entrambi hanno come primo firmatario Daniele Bosone, senatore di credo mariniano (nel senso di Franco) e medico democrat.
Per usare l'efficace sintesi che si sentiva ieri nei corridoi del gruppo democrat, «quei due emendamenti presuppongono che in casi in cui non ci sia un'effettiva attività cerebrale si possano sospendere alimentazione e nutrizione». È il possibile punto di mediazione, frutto di un'operazione rimasta finora sottotraccia, che porta la firma dell'ex presidente del Senato Franco Marini e trova d'accordo anche Dario Franceschini. Un messaggio, ancorché cifrato, della trattativa in corso era nascosto in un articolo del veltroniano Giorgio Tonini apparso ieri sul quotidiano Europa. «Se il testo della maggioranza rimane così, il Pd deve votare no», scriveva il senatore. Di conseguenza, è il sottotesto, se venissero accolti gli emendamenti Bosone la musica cambierebbe. E non poco.
A Montecitorio, intanto, è passato il ddl sul federalismo fiscale: 319 i sì, 35 i no e 195 astenuti. Hanno votato a favore Pdl, Lega e Italia dei valori. Il Pd, invece, ha mantenuto fede alla promessa dell'astensione. Ma la strategia distensiva fortemente voluta da Franceschini può avere un costo. Durante l'assemblea dei parlamentari democrat sono stati undici (su una cinquantina di presenti) coloro che hanno messo a verbale il loro no. Tra questi i rutelliani Pierluigi Mantini (ormai con un piede nell'Udc) e Renzo Lusetti, i prodiani Giulio Santagata e Sandra Zampa, l'ex direttore dell'Unità Furio Colombo. «Su questo tema non c'è libertà di coscienza ma vige la disciplina del gruppo», hanno scandito a turno il capogruppo Soro e Franceschini rispondendo anche alle perplessità dell'ex ministro Linda Lanzillotta.
Ma i mal di pancia interni rispetto al «favore fatto alla Lega» (il copyright è di Mantini) non sono soltanto quelli espressi pubblicamente. Alle resistenze di Bersani, a quelle dei prodiani e dei rutelliani, s'è aggiunta ieri la presa di posizione della Cgil. Del testo approvato ieri dalla Camera i segretari confederali Vera Lamonica e Agostino Megale hanno sottolineato due punti: «Qualche luce, molte ombre». Dal corso d'Italia, poi, è trapelata «preoccupazione» per l'attuazione del provvedimento. Morale? Forse la luna di miele tra Franceschini e la Cgil, che fino ad oggi ha difeso il segretario a spada tratta, non può dirsi conclusa. Di fatto, il sindacato di Epifani ha mandato un avviso ai naviganti tutt'altro che casuale. E si ritorna così al punto di partenza. A quella «strategia dell'astensione» su cui si misurerà la tenuta del Partito democratico.

l’Unità 25.3.09
Prof, i tagli della Gelmini per il 40% saranno al Sud
Bastico: una devastazione
di Giuseppe Vittori


Il decreto ministeriale sugli organici per il prossimo anno toglierà lavoro a quasi ventimila insegnanti solo in quattro regioni del Sud. Confermati i 42mila tagli tra organico di diritto e organico di fatto.

Il 40% dei tagli sull’organico docente si realizzerà in quattro regioni: Campania, Puglia, Sicilia e Calabria. È quanto si evince dalle tabelle allegate al decreto interministeriale sugli organici per l’anno scolastico 2009-2010 che prevede 37.000 tagli nell’organico di diritto e ulteriori 5.000 in quello di fatto, confermando quindi i 42.000 posti in meno decisi con la manovra Finanziaria, seppure con una «uscita» in due fasi.
In base al provvedimento ci sarà una riduzione di 10.000 insegnanti nella scuola primaria, oltre 15.500 alle medie e circa 11.350 alle superiori a cui si aggiunge un taglio di 245 presidi (per la riduzione delle autonomie scolastiche). Per quanto riguarda i docenti di sostegno il numero rimane sostanzialmente quello dell’anno scolastico in corso (circa 90.500 unità). A fronte di ciò si prevede un aumento di 4.120 alunni nella primaria e di 10.462 nella secondaria di primo grado mentre nella secondaria di secondo grado si registra una flessione di circa 26.700 studenti. Nel provvedimento si sottolinea l’esigenza che le Regioni e gli Enti Locali vengano coinvolti nella fase di elaborazione del piano di assegnazione delle risorse alle singole province e anche per il prossimo anno saranno consentite compensazioni tra i contingenti di organico relativi ai diversi gradi di scolarità. A questo proposito «l’organizzazione del tempo pieno è realizzata nei limiti dell’organico assegnato per l’anno scolastico 2009-2009» precisando che «le ore di insegnamento residuate dalla istituzione di classi con 24 ore e dalla presenza aggiuntiva di docenti specialisti per l’insegnamento della lingua inglese e della religione cattolica, nonché dal recupero delle ore di compresenza del tempo pieno, possono essere impiegate per ampliare l’offerta formativa della scuola» e dunque anche per una estensione del tempo pieno. Per quanto riguarda l’inglese potenziato, potrà essere autorizzato «compatibilmente con le disponibilità di organico» e «solo in assenza di esubero dei docenti delle seconde lingue comunitarie sia nell’ambito della scuola interessata che a livello provinciale». «Questi non sono tagli: è una devastazione inattuabile», ha commentato Mariangela Bastico, responsabile scuola del Pd.

Repubblica 25.3.09
Scuola, arrivano i tagli del governo meno 37mila docenti, il 50% al Sud
di Mario Reggio


Dal settembre 2009 ulteriore riduzione di 5000 cattedre "Salasso" anche in Lombardia
A casa 245 presidi A pagare il prezzo più alto le medie inferiori: perdono oltre 15mila posti

ROMA - Ormai è una certezza. Quarantaduemila cattedre in meno dal settembre 2009: un primo taglio di 37mila deciso ieri. E un altro da 5000 posti che sarà definito nel luglio prossimo. Il 40 per cento concentrato in Campania, Puglia, Sicilia e Calabria, il 50% nel Sud. Ma anche in Lombardia, malgrado le rassicurazioni del presidente Formigoni, il salasso sarà pesante: meno 4 mila. Via anche 245 presidi.
A pagare il prezzo più alto le secondarie di primo grado, vale a dire le medie inferiori, con un taglio di oltre 15 mila cattedre. I numeri, allegati al decreto interministeriale presentato alle organizzazioni sindacali e agli enti locali, hanno scatenato dure reazioni. «È inaccettabile che si riduca il personale docente di oltre 42 mila unità - commenta il segretario della Cgil Mimmo Pantaleo - colpendo in maniera pesantissima il sud. È un attacco senza precedenti al diritto allo studio e alla qualità dell´istruzione pubblica». Critico anche il segretario della Uil Massimo Di Menna: «Non dimentichiamo i 15 mila lavoratori non docenti che perderanno il posto di lavoro, il che assieme al taglio degli insegnanti, al netto dei pensionamenti, si traduce in 28 mila precari che rischiano di essere tagliati fuori dalla scuola pubblica».
Insorge anche il Partito Democratico. «Questi non sono tagli, è una devastazione inattuabile - afferma Mariangela Bastico, viceministro all´Istruzione con Fioroni e responsabile scuola del Pd - chiediamo al governo di fermarsi perché i parametri scelti per decidere i tagli sono oscuri e non è vero che massacrano solo le Regioni del Sud. Tutto è stato deciso a Roma senza un confronto con le Regioni, un metodo incoerente con il tanto sbandierato federalismo del governo».
Ma cosa succederà all´apertura del prossimo anno scolastico? Diecimila docenti in meno alle elementari, più di 11 mila alle superiori e quasi 16 mila alle medie inferiori: i 37mila della prima tranche, in attesa a luglio dell´ ulteriore taglio di 5 mila cattedre (quasi esclusivamente affidate a precarie).
Che fine farà il tempo pieno alle elementari? Il governo e il ministro Gelmini hanno assicurato che dove c´è non verrà toccato. Diamo per buono questo impegno. Il problema nasce nelle Regioni del Sud, dove molte famiglie hanno chiesto per il prossimo anno le 40 ore a settimana. Per loro non c´è alcuna speranza. A rischio anche le iscrizioni per le famiglie che hanno scelto le 30 ore. Il decreto parla chiaro: solo nei casi in cui l´organico lo permette. Con l´aria che tira sembra davvero una chimera. Ma il ministero della Pubblica Istruzione lascia aperto uno spiraglio: le richieste delle 30 ore a settimana potranno essere coperte con la compresenza dei prof di religione e di quelli d´inglese. Peccato che tra i tagli siano previsti 2 mila docenti in meno proprio in quella lingua straniera. Ma chi permetterà il "potenziamento" dell´inglese, come previsto dal decreto? Da mesi sono previsti corsi "fantasma" di 150 ore per le maestre che volessero cimentarsi in quella materia. Però nessuno sa che fine abbiano fatto.
Ma la mannaia si abbatterà soprattutto sulle medie inferiori (o secondaria di primo grado). Il taglio da 11 a 9 ore settimanali delle ore di lettere è già cosa fatta. Una scelta assai opinabile, viste le carenze degli studenti italiani nella comprensione della propria lingua. A questo si aggiungono le due ore in meno per le materie tecnologiche. Un´altra trovata geniale. E infine la ciliegina sulla torta. L´aumento del numero massimo e minimo di alunni per classe sembrava congelato. Invece riappare. Ecco alcuni esempi. Scuola materna: minimo 18, massimo 26 con possibilità di arrivare a 29. Elementari: minimo 15 studenti, massimo 27. Media inferiore: da 18 a ventotto. Superiori: mai meno di 27 studenti fino ad un massimo di 30. Una boccata d´ossigeno per agevolare il rapporto tra professori e studenti.

l’Unità 25.3.09
Israele, lo strappo dei laburisti
Via al governo destra-sinistra
di Umberto De Giovannangeli


Un dibattito infuocato Molti delegati si oppongono all’«abbraccio mortale» con la destra
Contenuti e poltrone Nell’esecutivo nascente il partito di Barak avrà cinque ministeri

Grida, pianti, accuse velenose. Poi il voto: 680 sì, 507 no. In un’atmosfera incandescente i delegati laburisti approvano la scelta di Ehud Barak di far parte dell’esecutivo guidato dal leader del Likud, Netanyahu.

Fa fatica a pronunciare il discorso più difficile della sua vita. Le parole si perdono nel clamore delle grida di decine di delegati che ritmano «opposizione, opposizione». La scelta è fra essere «la ruota di scorta» dell’opposizione o diventare una forza centrale di governo in grado d’influenzare il futuro del Paese. Così Ehud Barak spiega la sua scelta di stringere un patto di coalizione con il premier designato, Benyamin «Bibi» Netanyahu, leader del partito di destra Likud.
VOTO DRAMMATICO
Il partito che fu di David Ben Gurion, Golda Meir, Yitzhak Rabin, ha vissuto ieri uno dei momenti più drammatici della sua storia. Alla fine, il «piccolo Napoleone» è riuscito a trascinare i laburisti nel governo di «Bibi», fondato anche sul sostegno di cinque partiti di destra.
L’altra notte, Barak e Netanyahu hanno stilato un documento di intesa che prefigura, in forma vaga, il rilancio del processo di pace mediorientale e accordi «con i vicini». Ieri sera, Barak è riuscito ad ottenere l'assenso alle intese da parte della maggioranza dei delegati dell'Assemblea laburista (680 sì, 507 no), convocati d'urgenza nel Centro dei congressi di Tel Aviv.
L’Assemblea vive momenti di altissima tensione vista la diffusa convinzione che il partito sia giunto ad un bivio storico. Dalla tribuna, diversi delegati sostengono che accettando di entrare in forma subalterna in un governo di destra Barak, di fatto, «sotterra una volta per sempre il laburismo israeliano». «Nel nuovo governo a dare il tono saranno Bibi (Netanyahu), Avigdor Lieberman e gli ortodossi di Shas», esclama indignata l’esponente della corrente di sinistra Shelly Yehimovic. Un’anticipazione della cultura politica emergente - osserva qualcuno nell'Assemblea laburista - si è intravista già ieri ieri nella città araba di Um el-Fahem (nel nord di Israele) dove un centinaio di estremisti di destra sono sfilati sventolando bandiere di Israele, per sottolineare la necessità che la minoranza araba sia leale allo Stato ebraico. Il tutto anche nello spirito del partito di destra radicale Israel Beitenu, principale alleato del Likud nel nuovo governo. Quanto agli impegni di portare avanti il processo di pace con i vicini arabi, la Yehimovic esprime grande scetticismo: «Sulla carta si può scrivere qualsiasi cosa», nota. Andando al governo, conclude con le lacrime agli occhi, «i laburisti si avviano verso una morte vergognosa».
SCISSIONE POSSIBILE
«Oggi si saprà - osserva lo scrittore Eli Amir, iscritto al partito - se i laburisti preferiscono le piacevolezze del potere, oppure l'ideologia».
Ma pochi minuti dopo, proprio il segretario della Histadrut (la centrale sindacale), Ofer Eini, prospetta l’altra faccia della medaglia con un discorso che commuove la platea. «Nei prossimi mesi - esordisce - 100 mila lavoratori rischiano di perdere il loro posto di lavoro. Già 20 mila saranno licenziati a fine aprile, appena conclusa la Pasqua ebraica» avverte. Eini ha dunque sollecitato i delegati ad essere pratici, ad impegnarsi (con il governo, con il sindacato, con gli industriali) per sventare una crisi sociale senza precedenti nella storia di Israele. «I lavoratori hanno bisogno di noi adesso, non in un lontano futuro» , esclama.
Gli stessi toni allarmati sono utilizzati da Barak, di fronte ad una platea che rumoreggia e talvolta lo fischia. «Come diceva Rabin, non abbiamo uno Stato di riserva», sottolinea il leader laburista, che nel nuovo governo sarà confermato alla Difesa. Poi, polemizzando con i suoi detrattori, alza la voce (ormai rauca) e assicura che nel nuovo esecutivo i laburisti «non saranno affatto una foglia di fico per Netanyahu, ma anzi saranno un contrappeso all'estrema destra». A tarda serata il voto. Barak, quasi con la forza, ha imposto la propria volontà ai laburisti: ma quel voto racconta di un partito lacerato. La scissione sembra ormai dietro l’angolo.

Corriere della Sera 25.3.09
Il ruolo dei rabbini militari
Israele e la deriva religiosa dell'esercito
di Christopher Hitchens


Le rivelazioni sulle atrocità commesse dai soldati israeliani a Gaza indicano che i rabbini militari hanno incitato alla «Guerra santa» per l'espulsione dei non ebrei dalla terra di Israele. Lo studioso israeliano Dany Zamir, che per primo ha raccolto testimonianze di soldati israeliani sotto choc, viene citato spesso come se questi insegnamenti estremisti fossero una novità. Non lo sono.
Ricordo una visita in Israele nel 1986, quando il capo cappellano dell' esercito nei territori occupati, il rabbino Shmuel Derlich, consegnò alle truppe una lettera pastorale in cui ordinava di applicare il comandamento biblico di sterminare gli Amalechiti, perché «nemici di Israele». Nessuno però si era imbattuto negli ultimi tempi in un Amalechita, e per questo motivo un funzionario dei servizi di informazione dell'esercito israeliano chiese al rabbino Derlich se poteva essere più preciso e indicare chiaramente a chi si riferiva. In maniera piuttosto evasiva — anche se allarmante — il religioso rispose, «i tedeschi». Non ci sono tedeschi in Giudea né in Samaria e neppure, a quanto io ne sappia, nell'intero Antico Testamento, e pertanto l'esortazione del rabbino a trucidare tutti i tedeschi e allo stesso modo, probabilmente, tutti i palestinesi, fu sottoposta al tribunale militare. Quaranta rabbini militari si fecero avanti pubblicamente in difesa di Derlich e la conclusione alquanto fiacca del giudice fu che il nostro uomo non aveva commesso alcun reato, ma gli consigliava in futuro di trattenersi dal fare dichiarazioni politiche a nome dell'esercito.
Il problema in questo caso è appunto che il rabbino non aveva fatto nessuna dichiarazione politica, ma adempiva al suo dovere religioso nel ricordare ai fedeli le parole esatte della Torah. Non è affatto insolito in Israele ascoltare i dibattiti dei rabbini militari su come interpretare il seguente passo del Libro dei Numeri, 31, 13-18 (nella mia traduzione del 1985). Gli Israeliti hanno infierito senza pietà contro i Midianiti, uccidendo tutti i maschi adulti. Ma, interviene il loro severo comandante, non hanno fatto il loro dovere fino in fondo: «Mosè si adirò con i comandanti dell'esercito che erano tornati dalla campagna militare. "Avete risparmiato le donne! Eppure sono state proprio loro che, su ordine di Balaam, hanno indotto gli Israeliti a peccare contro il Signore nella faccenda di Peor, e la comunità del Signore è stata punita con la pestilenza. Ora, pertanto, uccidete tutti i maschi tra i bambini e tutte le giovani donne che hanno conosciuto un uomo carnalmente, ma risparmiate quelle giovani che non hanno avuto rapporti carnali con un uomo"». (...) Se gettiamo uno sguardo all'orrenda catasta di morti tra i civili palestinesi, risultato dell'attacco israeliano, è facile intuire la strada intrapresa nel medio e lungo termine. I coloni razzisti e i loro complici tra i rabbini stanno allevando un esercito dentro l'esercito in modo che un giorno, se verrà mai presa la decisione di smantellare o evacuare gli insediamenti abusivi nei territori palestinesi, ci saranno ufficiali e soldati a sufficienza, corroborati dai rabbini e dai loro sermoni estremisti, che si rifiuteranno di eseguire gli ordini. Si scoveranno i versetti della Torah che consentono di ammazzare anche gli ebrei laici, e non solo gli arabi. Le prove di tutto ciò sono già in corso, con le attenuanti religiose ripescate per il massacro di Baruch Goldstein e i cavilli talmudici per l'assassinio di Yitzhak Rabin. Questa esegesi biblica, un tempo ritenuta estrema e metaforica, oggi si avvicina pericolosamente alla norma. È giunto il momento che gli Stati Uniti revochino tutti gli aiuti finanziari a Israele che possano venire impiegati anche indirettamente nelle attività degli insediamenti, non solo perché tale colonizzazione rappresenta il furto della terra di un altro popolo, ma anche perché la Costituzione americana ci vieta esplicitamente di spendere denaro pubblico per il sostegno di qualunque fede religiosa.
traduzione di Rita Baldassarre © Nyt Syndicate

l’Unità 25.3.09
Vi racconto come sono inciampata negli anni Settanta
di Beppe Sabaste


Anna Negri Figlia di Toni e di Paola, aveva 12 anni quando i carabinieri arrestarono il padre
L’autobiografia «Con un piede impigliato nella storia» ci narra di un’epoca amata e odiata...

Il titolo, «Con un piede impigliato nella storia», viene da una frase sul proprio disagio che un giorno lei rivolge al padre, dal quale fatica non solo a emanciparsi, ma a farsi ascoltare.

Il genere di narrazione è quello che chiamerei «autobiografia del testimone», che in questo caso è una ragazzina (solo alla fine del libro compie diciott’anni). E, come scrisse il poeta Paul Celan, «nessuno / testimonia / per i testimoni». L’epoca è quella amata e odiata (la questione è aperta e bruciante) degli anni Settanta e Ottanta, il loro crinale. L’ambientazione è il movimento, «culturale prima ancora che politico», come ricorda giustamente l’autrice, di quella che oggi si direbbe sinistra antagonista, ma che allora era semplicemente (a volte allegramente) extraparlamentare, simile in ogni città italiana. La ragazza, che a casa ha inalato fin troppa politica passiva, si affaccia alla politica attiva al liceo, quando l’onda lunga, euforica, spavalda, ricca di idee e passioni, si sta ripiegando ormai sconfitta: gli anni ’80, a cui dedica osservazioni semplici e intelligenti, assistendo al moltiplicarsi di bar e luoghi di consumo, droghe pesanti a gogò, un’ubriachezza generale che anticipa la globalizzazione della sbronza delle attuali happy hours, la nascita degli yuppies e la trasformazione dei giovani ribelli (siamo a Milano) in valenti pubblicitari, prodromo dell’attuale regime (semiotico e politico). La ragazza che scrive questa storia personale si chiama Anna, il padre Toni Negri, e la madre, devota, concreta e appassionata, e che come si addice a una donna, anche a sinistra, viene per ultima, si chiama Paola: è lei l’unica adulta per cui il personale è davvero politico, come si diceva allora. Anna Negri aveva 12 anni quando apre la porta alle forze dell’ordine che coi mitra spianati vengono ad arrestare il padre, per quel tristemente famoso «teorema-Calogero» (dal nome del giudice istruttore di Padova) che voleva fare del professore di Scienze politiche, esponente dell’Autonomia ed ex cattolico militante, addirittura il capo delle Brigate Rosse.
La famiglia Negri
Erano gli anni delle leggi d’emergenza, di una sospensione della democrazia e dei diritti così flagrante che ancora oggi si è imbarazzati ad ammetterla (a destra come a sinistra). Quando la carcerazione preventiva poteva durare, e durò, anche quattro anni: tanti quanti furono gli anni in cui la famiglia Negri si disgregò, il padre in galera in attesa di giudizio, la madre a soccorrerlo, e la dodicenne Anna promossa capofamiglia del fratello più piccolo, tra angosce, bulimie e solitudini.
Non stupisce che Anna Negri sia diventata una regista di cinema e tv. La bellezza di questa narrazione, che letteralmente si divora, è forse nel confronto del suo sguardo con quello degli adulti, soprattutto quello maschile, come se la fanciullezza fosse un espediente per dire e mostrare l’evidenza taciuta dai grandi. I quali non escono molto bene dalla storia. Verso la fine del libro lei chiede a uno dei tanti reduci amici del padre, esule riciclatosi in ristoratore a Parigi, se avessero davvero creduto di fare la «rivoluzione» (e che altro se no agli occhi di una ragazzina?). La spiazzante risposta è no, «in quegli anni volevano che l’Italia fosse un laboratorio di lotta di classe permanente», così, «grazie al movimento, il paese sarebbe andato sempre più a sinistra. Invece, con la lotta armata, era arrivata la repressione».
La memoria dei figli è pericolosa per i grandi, perché ricordano frasi e situazioni impietose. Come quando il padre Toni, astratto e distante, che vede i figli come una specie di alieni, ironizza sulle letture della moglie (L’io diviso di Ronald Laing, padre dell’anti-psichiatra inglese), e dice alla figlia che se continua a leggere quei libri sua madre diventa matta davvero. O come quando, in una delle ultime visite al carcere di Rebibbia, dopo che Anna gli racconta lo sconfortante riflusso e la riconversione dei valori nell’unico valore consentito, il denaro, il padre, ideologo operaista, le risponde con un certo cinismo di approvare il desiderio di facile guadagno dei «figli», gli yuppies, rispetto alla fatica dei «padri», gli operai).
Restare fanciulli
L’orizzonte del padre Toni è quello dell’autonomia della politica, che nonostante tutto accomuna chi fu allora accusato di insurrezione armata contro lo Stato e chi, ancora oggi, dichiara dall’alto delle istituzioni dello Stato di lasciar fare ai professionisti della politica. Occorre essere (o restare) fanciulli, paradossalmente, per denunciare la distanza della politica dalla vita. Per svelare che sono i mezzi a giustificare i fini, mai il contrario.
Per il resto gli anni Settanta, che si protrassero almeno fino ai primi anni Ottanta, e di cui questa autobiografia è un ottimo scorcio, risultano davvero anni di carne, più che di piombo. L’autrice ricorda il film di Margarethe Von Trotta, che di quel lemma così amato dai giornalisti italiani detiene il copyright, Anni di piombo appunto (del 1981). Ma per la regista tedesca, come precisò in un’intervista, gli «anni di piombo» non erano quelli che per i giornali italiani divennero sinonimo di «anni del terrorismo», cioè delle pallottole, ma quelli grigi e noiosi della sua adolescenza, quando non succedeva niente. Ricordiamocelo, questo equivoco semantico, mentre la memoria scompare e la storia si annacqua, mentre il vento gelido e omologante del conformismo spazza via ogni differenza e ogni passione.

La Repubblica 31.10.04
"Sono la pietra dello scandalo ho disturbato gli agnostici"
intervista a Buttiglione di Ezio Mauro


«Io sono la pietra di uno scandalo che è appena incominciato e andrà avanti. E sa perché? Perché le semplici parole di un cristiano, che non poteva dire diversamente, hanno costretto l´Europa a guardare dentro di sé, fino a quel fondo su cui si adagia la sua incredulità evidente ed esibita ma anche, più nascosto, il dubbio, su questa incredulità agnostica. Ho perso perché questa Europa accetta tutto, ma odia essere disturbata dalla vera domanda che adesso la interpella, quella sulla sua anima. E invece quel seme darà frutto: anche in Italia, vedrà». Rocco Buttiglione ha appena dovuto dimettersi, lasciando due volte l´Europa che l´ha bocciato, prima come commissario designato e poi come ministro delle Politiche comunitarie. Il politico è sconfitto e abbandonato anche dal suo governo, ma il filosofo non rinuncia alla sua battaglia.
Professore, lei era stato designato dal governo per rappresentare l´Italia. Il suo compito era dare scandalo o ottenere il voto del Parlamento europeo?
«Guardi che non sono io che ho introdotto il tema del peccato, questa parola che riesce a scuotere l´Europa. L´hanno fatto altri, chiedendomi di rispondere sull´omosessualità. Io ho detto "I may think", cioè posso pensare che sia peccato ma nel senso che non ha alcun interesse quel che penso, perché anche se pensassi che è peccato so che non è un delitto, dunque lo Stato non deve metterci il naso. E ripeterei le stesse cose mille volte».
Però ha chiesto scusa, giorni fa. E comunque non crede legittimo che qualche parlamentare si sia preoccupato per un commissario che programmaticamente annuncia di credere nell´opposto di ciò che dovrà fare?
«Basterebbe San Tommaso, per rispondere: se tutti i peccatori fossero puniti dallo Stato nessuno di noi sarebbe a piede libero. So distinguere tra il peccato e la legge».
È come se lei avesse spiegato all´Europa che da commissario doveva ogni volta tradurre nella lingua dei diritti ciò che nella sua lingua era invece peccato. Non c´è in questo una sorta di schizofrenia?
«Qui può rispondere il filosofo Wojtyla: la libertà degli altri non si rispetta necessariamente con il relativismo di chi non crede in nessuna verità. È sufficiente che io sia convinto che una verità riconosciuta per forza non ha nessun valore morale. Un mondo in cui tutti fanno cose giuste per forza, non somiglierebbe al paradiso, ma all´inferno».
Ma lei si è presentato dicendo in pratica: farò il contrario di ciò in cui credo. Non è lecita qualche riserva, senza bisogno di evocare la caccia alle streghe?
«No, un momento. Io opero come credo. Ripeto: è la mia fede che mi dice che devo rispettare la tua libertà. Dunque sono perfettamente coerente, come cristiano e come commissario».
Ma lei voleva togliere l´omosessualità dai comportamenti che non devono essere discriminati, si dimentica?
«Io ero contrario a quell´esemplificazione. Ma creda a me, questo non ha avuto alcuna importanza. Hanno voluto farmi fuori con regole truccate. Io ho dato la risposta canonica di tutte le società liberali. Ma nei dossier che circolano in Europa contro di me, della mia risposta non c´è traccia».
Sta dicendo che c´è stata una persecuzione organizzata?
«Non è una persecuzione se si tratta solo di un episodio, ma siamo sicuri che sia l´unico?».
Lei crede davvero che in Europa ci sia oggi un pregiudizio anticristiano?
«C´è certamente un pregiudizio contro la libertà. E dentro questo ambito ampio, c´è anche un pregiudizio anticristiano. Anzi, le dico di più: quello anticristiano è l´unico pregiudizio religioso che goda oggi di grandi legittimazioni. Potrei dire che è alla moda, se ci campiamo. È facilmente difendibile nella buona società europea».
E perché l´Europa oggi dovrebbe essere anticristiana?
«Perché ha paura di se stessa, di aprire un discorso sull´identità, su ciò che è davvero. Quel discorso che è il tema delle radici cristiane, espulso dalla Costituzione, non chiudeva - come qualcuno ha pensato - ma apriva. E invece l´Europa oscilla tra due dimensioni che non possono essere identitarie: quella esclusivamente economica e quella del politicamente corretto».
Sa spiegare culturalmente perché la destra è oggi tutta contro il politicamente corretto, che è un decalogo neutro, non di sinistra?
«Il mio caso risponderebbe da solo, perché dimostra che quella regola non è applicata nello stesso modo a tutti e contro qualcuno si può fare ciò che non è lecito fare ad altri. Ma la questione vera è che sta diventando politicamente scorretto parlare di valori, di giudizi morali. Come se oltre la politica non ci fosse una sfera in cui i comportamenti si qualificano come giusti e sbagliati, perché valgono ancora le categorie del bene e del male».
E come si può sostenere davvero che l´Europa è oggi convertita alla religione del politicamente corretto?
«Per quella che potrei chiamare una neutralizzazione delle ideologie. Infatti c´era un´alternativa al principio delle radici giudaico-cristiane dell´Europa: ed era la grande cultura immanentista che culmina nel marxismo. Ma quando il marxismo è stato sconfitto, le intelligenze marxiste hanno detto: bene, io ho torto, ma a condizione che nessuno abbia ragione. E che il concetto del bene e del male scompaia. Ecco perché in Europa dilaga il politicamente corretto».
Non vede come in questa critica ci sia il rischio di un attacco ai diritti, coniugati dal nuovo pensiero liberale di destra come disgiunti dai valori?
«Non per me. Senza valori, semplicemente non ci sono diritti. Perché dovrei rispettare la tua persona se non riconosco il tuo valore?».
Dunque un´Europa arida, spaventata dalla distinzione tra il bene e il male, neutra per scelta potenzialmente persecutoria, si è rivoltata contro di lei. Si è chiesto perché?
«Perché ho detto quel che ho detto. Che è stato letto come hanno voluto leggerlo».
Dunque crede alla congiura?
«Far circolare dossier costruiti ad arte, e senza citare le mie vere parole. Non badare a ciò che ho detto ma a ciò che appare. Costruire uno schema, divulgarlo e poi crederci. Come la vuol chiamare? Congiura? Forse non siamo lontani dal vero. Come quando qualcuno parla di odio anticattolico».
Non le pare troppo in un paese governato quasi sempre da politici cattolici, in un´Europa che ha avuto Prodi presidente per cinque anni?
«Lasci stare. Io non credo ad un´Europa dominata da quest´odio, ma pur tuttavia lo vedo, e in misura abbastanza rilevante per preoccupare non me come cattolico ma ogni uomo che ha a cuore la libertà. Per questo, se me lo lascia dire, io sono soddisfatto».
Di essere stato bocciato? Ma professore, sappiamo tutti che ha fatto il possibile per restare a Bruxelles. Non è una soddisfazione postuma?
«Aver perso quel lavoro mi dispiace. Ma aver parlato di valori in quel Parlamento, dimostrando che può essere un luogo non solo burocratico, mi inorgoglisce».
Professore, lei parla come il leader populista Pym Fortuyn: lo sa?
«Tutti quelli che si occupano di Europa sanno che c´è un problema di trasparenza, di burocrazia. Poi per chi teme il rischio di un´Europa anticristiana affiora anche la spinta di dire no all´Europa. Ma non vale per me. La battaglia per la libertà è cominciata e si gioca prima di tutto in Europa. E poi andarsene per tornare dove? L´Italia non è certo meglio di Bruxelles».
Lei mi ha detto una volta che si riconosceva nel motto dei cavalieri polacchi: ubbidire soltanto a Dio. Come avrebbe potuto da commissario?
«È il mio Dio che mi ha insegnato ad ubbidire a Cesare».
Ma questo Cesare in formazione che è l´Europa sembra fare eccezione per la destra, anche la destra cattolica. Perché?
«Le rispondo con un esempio le questioni su cui io sono stato trafitto, non sono di competenza europea ma degli Stati. Diciamo che se sono stato crocefisso, hanno usato chiodi sbagliati. Ma ecco il punto. Se qualcuno pensasse ora che con un altro commissario al mio posto si potrebbe avviare una campagna per imporre certe politiche su questi argomenti (famiglia, aborto, divorzio) agli Stati membri, allora sarebbe gravissimo».
Professore, un passo in più e anche lei si metterà a parlare di Europa massonica...
«L´Europa sono i massoni, siamo noi, sono gli omosessuali, sono le famiglie, eccetera ma le dico con chiarezza che se vedessimo il rischio che alcune correnti monopolizzassero la costituzione europea, allora bisognerebbe reagire con forza».
Ma lei che battaglie può fare? Qualche capo del governo ha detto che non la vorrebbe mai tra i suoi ministri. Cosa risponde?
«Chi l´ha detto è socialista. Nessun problema, neanch´io andrei mai con loro. Ma vede, la Commissione non è espressione del Parlamento europeo e del suo equilibrio politico. Dunque un commissario non può essere bocciato per ragioni politico-culturali, ma solo per incompetenza. Di questo non mi ha ancora accusato nessuno».
Farà un movimento cristianista, con il cristianesimo trasformato in ideologia, per uso politico?
«No. Potrei fare semmai un movimento culturale. La società cristiana deve nascere, e se deve nascere, da sé, attraverso la libertà, non attraverso la politica».
Lei ha citato René Girard: si sente capro espiatorio in un´Europa pagana?
«So che i cattolici sono capro espiatori ideali in questi tempi. Quanto all´Europa pagana, ricordiamo che i pagani adoravano non il sole ma le forze vitali, non i valori più alti ma la pura vitalità potremo dire l´usura la lussuria e il bisogno di potere, ciò che resta quando gli altri valori si ritirano il paragone regge».
Ma in Girard il capro espiatorio dei pagani è sempre colpevole. Anche lei?
«Io non lo sono. Lo sarei se per opportunismo mi fossi piegato al verbo politicamente corretto dell´Europa. Non l´ho fatto. Poi mi sono accorto che così facendo, ho dato battaglia. Quella battaglia in atto, anzi appena incominciata».
Arriverà in Italia?
«Può scommetterci. Io sono qui».

Secolo d'Italia 25.3.09
Lettera - I Radicali: Fini supera le ideologie
di Pier Paolo Segneri


Al Congresso di An, sinceramente, noi Radicali già ci aspettavamo da Gianfranco Fini un discorso innovativo e di solida prospettiva per il futuro, eppure Fini ha saputo sorprenderci. Ancora una volta. Ci ha sorpresi positivamente per il contenuto delle sue parole, per la forma dei suoi ragionamenti, per aver definitivamente messo da parte qualsiasi rigurgito ideologico a favore di una visione ampia, aperta, filosofica. Da riformatore. Contro il potere e il sottopotere delle spartizioni. Per un`idea su cui investire guardando al domani. Perché le idee muovono il mondo. Anche se, ormai, sono rimasti solo i Radicali a crederlo. E, a quanto pare. anche il presidente della Camera. Che in maniera indiretta ha risposto alle sollecitazioni e alla domanda rivoltagli pubblicamente, il giorno prima, da Marco Pannella. La domanda ora è: se il rumore della partitocrazia che copre ogni cosa lasciasse scoperto il re? Il nudo re. Se il silenzio assordante imposto dalla telecrazia ai Radicali e a Marco Pannella fosse un`omissione o, peggio, fosse il segno dell`omertà a cui si vuole condannare chi ha il coraggio della e delle verità? Se sull`assordante rumore, d`improvviso, calasse la parola? Allora, i Radicali si ritroverebbero ad ascoltarla. Come hanno fatto con il discorso di Fini. La questione è alquanto strana: il grido di libertà, di democrazia e di legalità lanciato da Pannella e dai Radicali viene sistematicamente coperto dal rumore del nulla, del regime, della telecrazia. È il chiasso del regime oligarchico italiano. Quando, però, il grido sovrasta il rumore, allora cala il silenzio.., e così, o viene tolto l`audio sulle parole di Pannella o viene spento il rumore tutto intorno e, perciò, i Radicali si ritrovano a gridare da soli apparendo come dei pazzi. Speriamo che, dopo un discorso di così alto livello politico, Fini non debba subire lo stesso trattamento riservato a Pannella. Ogni tanto, bisogna stare con gli occhi chiusi. Perché si percepisce ciò che la vista nasconde. Bisogna ascoltare il silenzio, oltre il rumore, perché si sente un grido. E’ un`urgenza, non una gravità dei toni. E’ il peso delle parole dato dall`urgenza. Parole pesate e pensate perché sono un’urgenza interiore maturata nel tempo in cui non c`era tempo. Perciò l`urgenza dei Radicali non è una fretta nè una velocità nè, tantomeno, una gravità. Ma un’esigenza di cui Fini sembra aver colto il senso. Forse perchè è anche la sua. Oltre che la nostra.

martedì 24 marzo 2009

Repubblica 24.3.09
L'egemonia perduta
di Stefano Rodotà


Un mondo vastissimo, compresi molti cattolici, è rimasto sbalordito di fronte ad alcune affermazioni del Papa, governo e istituzioni internazionali hanno protestato e i vescovi italiani, invece di interrogarsi seriamente e criticamente su una vicenda così grave, la trasformano in un pretesto per lanciare un proclama intimidatorio, un vero e proprio diktat al quale Parlamento e politica italiana dovrebbero inchinarsi. Non è nuova l´arroganza di una politica vaticana che, debole nel mondo, cerca occasioni di rivincita nel giardino di casa, in questa povera Italia che, presentata come il luogo dal quale doveva partire la riconquista cattolica del mondo, appare sempre di più come un fortilizio dove una gerarchia disorientata cerca di rassicurare se stessa alzando la voce. Con parole forti si vuole imporre l´approvazione di una legge sul testamento biologico sgangherata e incostituzionale, lesiva dei diritti delle persone.
Si urla contro una deriva verso l´eutanasia mentre il Senato sta discutendo un disegno di legge lontanissimo dall´apertura che, su questo tema, hanno mostrato le conferenze episcopali di Germania e Spagna.
Siamo di fronte ad una prova di forza, alla volontà vaticana di sottomettere il Parlamento. Sono in gioco proprio la sovranità parlamentare e, con essa, l´autonomia dello Stato. Una inerzia colpevole, una pavidità delle istituzioni lascerebbero oggi un segno profondo sulla stessa democrazia. E un intervento così diretto può addirittura far venire il sospetto che si voglia incidere sulle dinamiche interne del nascente Pdl, chiudendo ogni spiraglio di laicità e autonomia
I governi di Francia e Germania, l´Unione europea, il Fondo monetario internazionale avevano criticato le parole del Papa sull´uso del preservativo, con una presa di distanza che metteva in discussione il ruolo internazionale della Chiesa. Il governo tedesco è guidato da una donna cattolica, Benedetto XVI aveva compiuto un viaggio in Francia accompagnato da parole impegnative del presidente Sarkozy sulla necessità di passare ad una laicità "positiva", parole che lo stesso presidente aveva già pronunciato in occasione della sua visita ufficiale a Roma. Assume grande significato, allora, la decisione di governi "amici" di non riconoscersi nelle posizioni della Chiesa. A ciò dev´essere aggiunta la decisione di Obama di firmare la dichiarazione sui diritti degli omosessuali, proposta all´Onu proprio dalla Francia e che aveva suscitato una durissima reazione del Vaticano. Viene così respinta la pretesa vaticana di dettare al mondo la linea etica su grandi temi della vita, ed emerge un isolamento che non è solo diplomatico, ma rivela una perdita di egemonia culturale.
Ora il tema del conflitto è costituito dalla legge sul testamento biologico. Tardivamente ci si è accorti di quanto fosse saggia la richiesta di moratoria, di un tempo di riflessione che allontanasse emozioni e strumentalizzazioni nell´affrontare un tema che riguarda la libertà stessa delle persone. Forse anche i cento "ribelli" del Pdl che hanno firmato contro i medici-spia dovrebbero rendersi conto che quella legge è anch´essa profondamente negatrice di diritti e che è necessaria una riflessione più profonda sui rischi di un uso sbrigativo e autoritario dello strumento giuridico. Riflessione, peraltro, che dovrebbe essere estesa ad altre materie, anch´esse affrontate finora in modo sbrigativo. Non ci si è accorti dei rischi dello stillicidio di norme che riducono la tutela della privacy, della pericolosità di proposte che vogliono introdurre controlli e censure per Internet, della disinvoltura con la quale sono state approvate in prima lettura le norme sulla banca del Dna. Se la nuova sensibilità per la dimensione dei diritti non è solo una fiammata, di tutto questo è bene che si cominci a discutere seriamente e fino in fondo.
Moratoria o non moratoria, è indispensabile ribadire in ogni momento che il testo della maggioranza sul testamento biologico è un ammasso di incostituzionalità, di regressioni normative, di piccoli deliri burocratici e linguistici, di procedure che produrranno nuove contraddizioni e nuove angosce. Non vi sono astuzie parlamentari che possano redimere quel testo dai suoi peccati. Ricordiamo che appena ieri, a fine dicembre dunque già nel fuoco della polemica sul caso Englaro, la sentenza 438 della Corte costituzionale ha riconosciuto che l´autodeterminazione costituisce un "diritto fondamentale" della persona. Come si concilia con questo diritto la pratica cancellazione del consenso informato, la sua degradazione da manifestazione di volontà a semplice "orientamento", come fa il testo di maggioranza? Come non vedere che, dietro una versione assai fumosa della formula dell´"alleanza terapeutica" tra medico e paziente, il potere sul morire viene consegnato ai medici, facendo enormemente e impropriamente crescere la loro responsabilità? Come non vedere che il rifiuto da parte del medico di dare attuazione alle direttive anticipate creerà nuovi drammi, nuove rappresentazioni pubbliche del dolore e ricorsi che trasferiranno al giudice la decisione finale sul morire, cioè esattamente quello su cui si è tanto polemizzato?
Sono interrogativi provocati da pervicacia politica e incultura, dal fatto che la dimensione costituzionale non appartiene a questo governo e questa maggioranza, che vogliono cogliere ogni occasione per cercar di liberarsene. Proprio per questo si cerca di costruire una Costituzione abusiva, dove la possibilità di imporre per legge trattamenti obbligatori è svincolata dall´unica sua premessa costituzionalmente corretta, il rischio per la salute pubblica, come hanno sempre messo in evidenza gli studiosi (venerata ombra di Costantino Mortati, grande costituente cattolico, manifestati!); dove si propongono indecorosi pasticci tra rifiuto delle cure e vendita di organi; dove il rispetto della dignità è convertito in strumento per imporre una misura della dignità in conflitto con la libertà di scelta della persona.
Una vigile attenzione per i diritti dovrebbe segnare la discussione politica, il primo passo dovrebbe essere appunto il ritorno pieno nella dimensione costituzionale. E, insieme ad esso, i legislatori dovrebbero interrogarsi sui limiti della legge, su quanto si addica alla vita "l´ipotesi del non diritto", che attribuisce alla norma giuridica non un illimitato potere di ingerenza, ma la funzione di costruire le condizioni necessarie perché ciascuno possa decidere liberamente.

Repubblica 24.3.09
"Il Papa è stato deriso e offeso" vescovi al contrattacco sull´Aids
"Subito la legge sul biotestamento, basta tentennare"
di Orazio La Rocca


CITTÀ DEL VATICANO - Una legge sul testamento biologico che - «senza lungaggini o strumentali tentennamenti» - eviti «almeno» il ripetersi di nuovi casi Englaro. Ma, soprattutto, una ampia ed appassionata difesa del Papa dagli «attacchi pretestuosi, discutibili e insolenti» di quanti - nei media e persino in ambito ecclesiale - lo hanno «irriso» per aver sostenuto che il preservativo è «inutile» per la lotta all´Aids e per aver tolto la scomunica al vescovo negazionista Williamson.
Difesa a tutto campo del cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, per papa Ratzinger e per le opzioni morali cattoliche, aprendo - ieri pomeriggio - il Consiglio permanente Cei, il «governo» vescovile della Chiesa italiana. Il porporato parla, brevemente, anche dell´attuale recessione economica per la quale invita «le istituzioni» a varare provvedimenti in difesa dei soggetti più deboli, «in particolare le famiglie in difficoltà, i disoccupati, i giovani». Vero e proprio «allarme sociale» contro il quale chiede che le diocesi italiane varino «fondi di garanzia per aiutare i nuclei familiari bisognosi». Una proposta subito definita «importantissima» dal segretario del Pd Enrico Franceschini, che parla di «segno di concretezza e di grande consapevolezza della crisi da parte della Chiesa».
Durissimo il riferimento alla vicenda di Eluana Englaro, che il cardinale inquadra in una sorta di lotta tra «chi ha nella vita il bene più grande di Dio» e chi, invece, pensa che l´esistenza sia solo frutto di «casuale» evoluzionismo. «Benchè quella povera ragazza non fosse attaccata ad alcuna macchina, s´è voluto decretare - accusa Bagnasco - che a certe condizioni poteva morire... contraddicendo una intera civiltà basata sul rispetto incondizionato della vita umana e smentendo un lungo processo storico che ci aveva portato ad affermare l´indisponibilità di qualunque esistenza, non solo a fronte di soprusi o violenze, ma anche di fronte a condanne penali quali la pena di morte». Si è messo, così, in moto «una operazione tesa ad affermare un �diritto´ di libertà inedito quanto raccapricciante, il diritto a morire, cioè a darsi la morte in talune situazioni da definire». Nell´invitare a pregare per l´anima di Eluana e per «il dolore dei parenti», il cardinale si augura che «almeno ora la politica sappia fare la sua parte, varando un inequivoco dispositivo di legge che, in seguito al pronunciamento della Cassazione, preservi il Paese da altre analoghe avventure, favorendo le cure palliative per i malati e l´aiuto alle famiglie attraverso le Regioni».
Altrettanto severo il richiamo al caso Williamson, una vicenda che, lamenta il porporato, «si è prolungata oltre ogni buon senso», a causa di «un lavorìo di critica dall´Italia e soprattutto dall´estero nei riguardi del nostro amatissimo Papa». Con la stessa determinazione Bagnasco respinge gli attacchi a cui è stato sottoposto Benedetto XVI all´inizio del viaggio africano - concluso proprio ieri dopo la visita in Angola - , un pellegrinaggio che «fin dall´inizio è stato sovrastato nell´attenzione degli occidentali da una polemica, sui preservativi, che francamente non aveva ragione d´essere. Non a caso sui media africani non si è riscontrato alcun autonomo interesse... ».

l'Unità 24.3.09
L’inviato Onu per i diritti umani nei Territori: i bombardamenti su aree molto popolate sono illegali, c’erano alternative diplomatiche
«Chiedere la verità su Gaza non è antisemitismo»
Intervista a Richard Falk di U.D.G


Un’inchiesta di esperti per determinare se fosse possibile per i soldati israeliani distinguere tra la popolazione civile e obiettivi militari durante l’offensiva a Gaza e per stabilire quindi se sia stato commesso un crimine di guerra. A proporlo è Richard Falk, dal marzo 2008 Relatore Speciale Onu per i Diritti Umani nei Territori Palestinesi Occupati. «In me e nel team che ha redatto il rapporto (discusso ieri a Ginevra nel Consiglio dei diritti umani, ndr.) non c’è alcuna volontà persecutoria verso Israele. A muoverci c’è la determinazione a stabilire la verità. È quanto dobbiamo alle vittime di Gaza. Verità e giustizia», dice Falk a l’Unità. Richard Falk, professore emerito di diritto internazionale all’Università di Princeton e membro del Foro di New York, non intende pronunciare alcuna «sentenza». Ma non è neanche reticente su quanto fin qui assunto nel rapporto: «Ci sono motivi per concludere che l’offensiva militare a Gaza costituisca un crimine di guerra». Secondo il relatore speciale dell’Onu per i Territori, il «ricorso alla forza» da parte di Israele per far cessare il lancio di razzi palestinesi sul suo territorio - causa scatenante del conflitto per lo Stato ebraico - non è «giustificato dal punto di vista legale considerate le alternative diplomatiche disponibili».
Professor Falk, nel rapporto presentato oggi (ieri, ndr.) al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, Lei ha perorato l’istituzione di una commissione d’inchiesta che faccia piena luce sull’offensiva militare israeliana a Gaza. Su che basi fonda questa richiesta?
«Sulle norme del Diritto umanitario internazionale e su quelle della Convenzione di Ginevra. Le ricerche da noi effettuate offrono materiale sufficiente per affermare che se in un teatro d’operazione militare non è possibile distinguere tra obiettivi civili e militari, l’operazione è un’attività totalmente illegale e sembra costituire un crimine di guerra della maggiore gravità secondo il Diritto internazionale. Ebbene, sulla base di elementi di prova attualmente disponibili, ci sono fondati motivi per ritenere che gli attacchi (israeliani) risultano illegali di per sè e sembrano costituire un crimine di guerra della più grande portata in base al Diritto internazionale» .
Professor Falk, in passato le autorità israeliane l’hanno accusato più volte di un atteggiamento pregiudizialmente ostile nei confronti dello Stato ebraico».
«Sono accuse che respingo con la massima fermezza e con sdegno. Chiedere verità e giustizia per i civili uccisi a Gaza, denunciare l’assoluta illegalità, oltre che la disumanità, delle punizioni collettive inflitte ad una popolazione stremata dall’embargo, tutto ciò non ha nulla a che fare con l’antisemitismo. A Gaza sono state colpite aree densamente popolate. Ciò è incontestabile. Alla popolazione non è stata data possibilità di fuggire dal teatro di guerra. Occorre accertare le responsabilità e punire i responsabili. Chiedere l’accertamento della verità è essere “pregiudizialmente ostile” a Israele?. Da democratico e da ebreo mi ribello a questo assunto».
Le autorità israeliane sostengono che l’Operazione Piombo Fuso si configura come un esercizio di autodifesa?
«I bombardamenti sistematici su aree densamente popolate non possono essere giustificati dal punto di vista legale. Si tratta di un crimine di guerra. E come tale va perseguito».

Repubblica 24.2.09
L'Onu: Israele a Gaza ha usato scudi umani
Rapporto sulla guerra: un ragazzino palestinese costretto a fare da apripista ai militari
Un rapporto di 43 pagine analizza i crimini ai danni di bambini. Anche Hamas sotto accusa
di Alberto Stabile


GERUSALEMME - Non s´era ancora spenta l´eco delle gravi ammissioni fatte da alcuni soldati sul trattamento riservato ai civili durante la guerra contro Hamas a Gaza, che una nuova, sconvolgente accusa arriva dalle Nazioni Unite.
Un ragazzino palestinese di 11 anni sarebbe stato utilizzato come scudo umano da un´unità dell´esercito israeliano. Nelle 43 pagine del rapporto voluto dalla segreteria generale per la protezione dell´infanzia si dà conto di altri crimini commessi ai danni di bambini. Il che rende ancora più discutibile l´affermazione del Capo di Stato Maggiore, Gabi Ashkenazi, secondo cui le Forze armate israeliane sono «l´esercito più morale del mondo».
Era il 15 gennaio quando i carri armati israeliani sono entrati sparando nel quartiere Tel al-Hawa, a Gaza. Radhika Coomaraswamy, a capo di un gruppo di nove esperti inviati dall´Onu per indagare sulle violazioni commesse a Gaza, ricostruisce nel suo rapporto l´accaduto. In breve, le truppe di Tsahal hanno intimato al ragazzino palestinese di camminare di fronte a loro e di entrare per primo nelle case dove si sospettava la presenza di miliziani. E non basta. Secondo il rapporto, soldati israeliani hanno sparato sui bambini; una casa, con dentro una donna e un bambino, è stata abbattuta dai bulldozer; un edificio dove, il giorno prima, erano stati costretti ad entrare dei civili, è stato bombardato. Sono questi - ha detto Radhika Coomaraswamy - «soltanto pochi esempi su centinaia di incidenti che sono stati documentati e verificati».
Non poche denunce di gravi violazioni dei diritti umani riguardano anche Hamas. I miliziani islamici sono stati accusati di aver ucciso o gambizzato avversari politici, nonché di aver essi stessi fatto uso di scudi umani. Ma le Nazioni Unite, hanno detto gli esperti, devono ancora verificare queste accuse.
Quanto alle Forze amate israeliane, ieri, prima che scoppiasse il caso del ragazzino di Tel al-Hawa, era stata l´organizzazione umanitaria israeliana Medici per i Diritti Umani (Phr) a denunciare l´esercito di aver «palesemente violato il codice etico», non soltanto «non evacuando famiglie di civili assediate e ferite», ma anche «impedendo ai soccorritori palestinesi di raggiungere i feriti».
Gli stessi medici del Phr, una Ong che collabora con analoghe organizzazioni palestinesi, sono stati testimoni diretti di alcune di queste violazioni. E le raccontano. Il 3 gennaio, per esempio, la casa della famiglia Al Aaidi, nel rione Jahar Adik, venne attaccata dai soldati. Sei dei suoi venti componenti furono feriti. Il giorno dopo, in seguito alla richiesta di aiuto degli Al Aaidi, Phr si rivolse all´esercito. «Ma per sei giorni - si legge nel dossier - l´Idf ha impedito alle ambulanze di passare». Soltanto 10 giorni dopo sono stati permessi i soccorsi.
Un altro caso è quello del 16 gennaio, quando Mahmud Shar e i suoi due figli, abitanti nel quartiere Algharahi, usciti in cerca di cibo durante le due ore di cessate il fuoco umanitario, furono colpiti dal fuoco di una mitragliatrice. Uno dei due figli morì subito dopo l´attacco. L´altro fu ferito ad una gamba. Il padre subì lievi ferite da schegge. Le richieste avanzate dal Phr di soccorrere i feriti «non vennero raccolte». Risultato: anche il secondo figlio morì, dissanguato. In generale, sostengono i Medici per i Diritti Umani, l´esercito non ha mostrato rispetto per i soccorritori e per le istituzioni mediche. In guerra 16 medici e infermieri sono stati uccisi, e 25 feriti mentre facevano il loro dovere. 34 centri sanitari sono stati bombardati.

Repubblica 24.3.09
La rivoluzione del sangue artificiale "Sicuro e per tutti grazie alle staminali"
I medici britannici lo produrranno in laboratorio. "Trasfusioni fra 3 anni"
di Enrico Franceschini


Il sangue sintetico potrà essere usato quando occorre la trasfusione di emergenza
Si cercherà di riprodurre la tipologia del gruppo «0» dei donatori universali

LONDRA - È il carburante della vita, la linfa senza la quale non possiamo respirare, pensare, muoverci. È il liquido prezioso che può salvare le vittime di incidenti stradali, guerre, sciagure naturali. E fino ad ora è sempre stato difficile procurarselo, per almeno tre ragioni: la sua disponibilità dipende dall´offerta spontanea di donatori umani; è complicato trovare il tipo giusto per ciascun individuo; e bisogna stare attenti al pericolo che sia infetto. Ma adesso tutti questi problemi potrebbero essere spazzati via grazie alla creazione di sangue artificiale: in quantità illimitate, di un tipo che va bene per tutti e privo del rischio di infezioni. Scienziati britannici saranno infatti in grado di produrre sangue sintetico da cellule staminali embrionali: l´annuncio ufficiale è previsto per i prossimi giorni, ma la notizia è stata anticipata ieri dal quotidiano Independent. Entro tre anni, i ricercatori impegnati nel progetto contano di effettuare il primo test su un volontario umano: la prima trasfusione di sangue che non proviene da un uomo o una donna, ma è stato creato in laboratorio. Guidata dal professor Marc Turner dell´ università di Edimburgo, l´iniziativa promette di rivoluzionare i metodi di trasfusione sanguigna, che attualmente dipendono in ogni paese del mondo da una rete di donatori di sangue fresco. L´obiettivo degli studiosi britannici è di stimolare cellule staminali ricavate da embrioni "dimenticati", ossia da quegli embrioni creati in eccedenza nei processi di fecondazione assistita, affinché queste si sviluppino in mature cellule sanguigne portatrici di ossigeno, da utilizzare appunto per tutte le trasfusioni di emergenza. Gli scienziati cercheranno tra le staminali degli embrioni quelle in grado di produrre sangue del gruppo «O», il gruppo donatore universale che può essere trasfuso senza problemi a qualunque paziente, anche coloro che hanno altri gruppi sanguigni, senza alcun timore di un rigetto. Questo genere di sangue è piuttosto raro: lo possiede solo il 7 per cento degli esseri umani.
Raccoglierlo attraverso le donazioni è dunque complicato. Ma utilizzando le staminali embrionali, che hanno la capacità di moltiplicarsi all´infinito in laboratorio, il sangue di gruppo «O» potrà essere prodotto in quantità illimitate. Produrre sangue sintetico, inoltre, avrebbe il vantaggio di non essere a rischio di infezioni da virus dell´Aids, epatiti o altre malattie.
Sviluppare sangue artificiale susciterà certamente polemiche di carattere etico. Le associazioni per la difesa della vita saranno contrarie per principio alla distruzione di embrioni, sebbene si tratterebbe delle rimanenze inutilizzate per la fecondazione artificiale. E poi potrebbe nascere la delicata questione filosofica relativa al fatto che quel sangue proviene da una non-persona, da qualcuno che non è mai esistito: la linfa della vita, dono di Dio per i credenti, verrebbe prodotta in laboratorio. È verosimile che anche per questo l´annuncio ufficiale del progetto sia per il momento rinviato: per complesse «ragioni legali», affermano fonti dei centri di ricerca coinvolti tra cui, la Nhs Blood and Transplant e il Wellcome Trust. All´iniziativa partecipa anche la Roslin Cells, una società emersa dal famoso Roslin Institute dove nel 1996 venne clonata la pecora Dolly.
Ricerche analoghe sono in corso in Svezia, Francia, Australia, e lo scorso anno un gruppo statunitense, l´Advanced Cell Technology, aveva reso noto di essere in grado di produrre miliardi di cellule sanguigne dalle staminali, ma aveva poi abbandonato il progetto per l´interruzione dei finanziamenti decisa dall´amministrazione Bush: limitazioni che il presidente Obama ha ora rimosso.

Repubblica 24.3.09
Quei maldestri tentativi di riscrivere la storia
risponde Corrado Augias


Gentile dottor Augias, giorni fa mi sono recato con i miei studenti ad un convegno presso il milanese Liceo scientifico Vittorio Veneto. Tema: "La nascita della Repubblica". Numerosi i relatori: il preside del liceo Michele D'Elia, il prof. Massimo De Leonardis dell'Università Cattolica, il giornalista e scrittore Romano Bracalini, altri. Da numerosi interventi è risultato che dopo il 25 luglio, passando per l'8 settembre, la monarchia aveva salvato l'unità del paese, che il regio esercito ricostituito attraversò l'Italia salvando l'onore patrio, che la monarchia non era responsabile delle colpe del fascismo, ecc. Alcuni esperti hanno poi trattato il tema dei brogli e la falsa vittoria della Repubblica al referendum del 2 giugno, quando il senso di responsabilità di Umberto II evitò la guerra civile. Solo un giornalista ha fatto una timida difesa della Repubblica. Alcuni miei studenti, sconcertati, mi hanno chiesto come sia possibile difendere, oggi, tali tesi da loro definite addirittura "negazioniste". A me resta l'amarezza di constatare che in un periodo in cui chi guida il paese definisce "sovietica" la Costituzione, si tenti di delegittimare le istituzioni all'interno di un'istituzione della Repubblica.
Prof. Giovanni Ribaldone

Il giudizio sulla monarchia e su Vittorio Emanuele III è quasi unanime. Le opinioni espresse nel convegno milanese sono marginali, ispirate da fonti lacunose o di parte. Il re negli anni terribili dal 1919 al 1922 non difese lo Stato contro le aggressioni fasciste. Non lo difese nell'ottobre del 1922 quando Mussolini organizzò la Marcia su Roma. Rimase soggetto per vent'anni al Duce contento di potersi fregiare del titolo di "imperatore" dopo le conquiste africane. Non difese i suoi sudditi ebrei nel 1938 promulgando le infami leggi razziali. Vero che dopo il 25 luglio fece arrestare Mussolini. I giochi però erano ormai fatti ed erano stati gli stessi gerarchi a mettere il Duce in minoranza, la sua vita politica finì nel momento in cui il famoso Ordine del Giorno Grandi venne votato dal Gran Consiglio. L'8 settembre il re, la corte, alcuni alti ufficiali fuggirono vergognosamente mettendosi in salvo a Brindisi lasciando i romani preda della vendetta nazista. Per un comportamento regale molto diverso si veda quanto fece la regina inglese nei mesi tremendi dei martellanti bombardamenti tedeschi su Londra. I brogli in occasione del referendum istituzionale del 2 giugno sono una vecchia leggenda che si credeva ormai spenta. Vero invece che Umberto, il re di maggio, si comportò con correttezza. Appresa la vittoria della Repubblica signorilmente si eclissò. Uno dei pochi Savoia, del passato e del futuro, a sapere come agisce un sovrano nel momento in cui la sua funzione appare superata dalla Storia. Quella vera.

Repubblica 24.3.09
Destra. Le due identità del partito conservatore
Un lavoro enorme attende la sinistra italiana: la ricostruzione di un patrimonio ideale degno di questo nome. E dovrà intercettare le tendenze che usciranno dalla crisi
di Aldo Schiavone


Nella storia politica del nostro Paese non è mai esistito una forza politica di questo tipo. La Dc era un´altra cosa, e l´Msi era saldamente radicato nel neofascismo
Con la fusione tra Forza Italia e Alleanza Nazionale potrebbe nascere quel partito conservatore di massa che è sempre mancato nel nostro paese. Prospettive e rischi di un'operazione politica

Un paradosso stringe oggi da vicino la destra italiana. Il berlusconismo le ha consentito un successo clamoroso e insperato. Ma dal berlusconismo dovrà subito uscire, se vuole darsi una prospettiva che regga al futuro.
Nella storia politica del nostro Paese non è mai esistito, finora, un partito conservatore di massa. Un partito, cioè, schierato in modo conseguente sia a destra, sia sul terreno della democrazia. La Dc era un´altra cosa, anche se nel suo amalgama la destra rappresentava una componente essenziale. E un´altra cosa, naturalmente, era l´Msi, intrinsecamente minoritario, e saldamente radicato nel neofascismo fino agli inizi degli anni novanta.
Questa assenza � un´anomalia assoluta rispetto alle altre grandi democrazie dell´Occidente � si spiega con i traumi subiti dall´Italia nella prima parte del suo Novecento: un´epoca di ferro e di fuoco, in cui abbiamo inventato, insieme, il fascismo e la forma europea del comunismo, nel tentativo di venire a capo di un durissimo scontro di classe; abbiamo combattuto due guerre mondiali, e ci siamo dilaniati in un sanguinoso conflitto civile di liberazione nazionale.
Il prezzo lo abbiamo pagato ingessando per i quarant´anni successivi la nostra politica e la stessa democrazia faticosamente riconquistata, immobilizzate entrambe intorno all´ininterrotto primato del centrismo democristiano: in un primo tempo, in una condizione di vera e propria "guerra fredda civile" (negli anni cinquanta); più tardi, in un consociativismo sempre più spinto (legittimato dalla strategia del "compromesso storico"), durato sino alla fine degli anni Ottanta.
E´ stato solo il collasso del comunismo e il crollo dell´impero sovietico che ha spazzato via tutto questo, creando le condizioni per una nostra piena "normalizzazione" democratica. Il processo è stato tuttavia più faticoso del previsto, e su di esso (come ha scritto Ezio Mauro) ha messo ben presto il suo "sigillo" Silvio Berlusconi, con le ben note conseguenze.
Egli si era trovato d´improvviso un´autostrada vuota spalancata innanzi, e si è imposto in un´Italia socialmente, politicamente e culturalmente decostruita da una duplice transizione, post-industriale e post-democristiana; un Paese ansioso di voltar pagina, cui ha saputo offrire uno specchio in cui riconoscersi, una facile ideologia acquisitiva e mercatista che sembrava al passo con i tempi, e un´interpretazione scarnificata e leaderistica della democrazia, ai limiti del sovversivismo, in sintonia con alcuni caratteri profondi della nostra identità. Non è riuscito a imporre un´autentica egemonia sul Paese, ma ci è andato vicino, e soprattutto è stato capace di incunearsi nel rapporto fra sinistra e modernizzazione, che si era già spezzato negli anni Ottanta, e a interporre, nel varco che si era creato, la propria narrazione, i propri simboli, la propria messa in scena, ricongiungendo � nel sentire della maggioranza degli italiani �nuova destra e nuova modernità, antistatalismo e leggerezza consumistica.
Ma ora anche questa stagione sta finendo. La crisi sta disegnando per noi un altro orizzonte, ben lontano dall´orgia di mercato che abbiamo finora vissuto. Nell´Europa e nel mondo che usciranno dalla recessione, quello che abbiamo conosciuto e identificato finora come "berlusconismo" non avrà più spazio. È irrimediabilmente la canzone di un´altra età, di quell´Italia liquefatta dall´impeto della deindustrializzazione e stordita dalla scomparsa del vecchio sistema dei partiti, che ormai ci stiamo lasciando alle spalle. Può darsi che il vecchio leader riesca, con un colpo di teatro, a sopravvivere politicamente alla sua stessa creatura, improvvisando non saprei quale metamorfosi. Sarà tuttavia molto difficile.
Oggi la prospettiva di una nuova destra � di un partito conservatore di massa come elemento decisivo della normalizzazione democratica italiana � passa per un´altra strada. Quella di Burke e non di de Maistre, come ha scritto Eugenio Scalfari su questo giornale. La tradizione, la terra, la nazione certo; e poi innesti nuovi: la Costituzione, il presidenzialismo, la riscoperta dello Stato. Ma qui le strade si dividono, e gli eredi del berlusconismo cominciano a manifestare idee diverse, e non facilmente componibili.
C´è la visione di Fini, che ormai guarda esplicitamente oltre Berlusconi, e mette in guardia con parole forti dai rischi del leaderismo in nome di una concezione più pluralista, più laica (che non rinuncia a un filone illuministico: ancora Scalfari). E quella invece di Tremonti, che sembra avere in mente un´Italia ripiegata nel suo guscio, meno "globale" e più "locale", municipalizzata, dichiaratamente "neoguelfa", pronta a essere accolta sotto le bandiere della Chiesa.
Di fronte, un lavoro enorme attende la sinistra italiana: la ricostituzione di un patrimonio ideale degno di questo nome. Può riuscirvi. Il Paese aspetta un´indicazione forte, all´altezza della gravità del momento. Dalla recessione non si esce arretrando. La globalizzazione è senza ritorno, come lo è il rapporto fra tecnica, vita e mercato. Ma bisogna elaborane una forma più matura. La sinistra può vincere se saprà intercettare le tendenze che usciranno dalla crisi. La destra farà fatica a farlo. Non è dalle sue parti che ha mai abitato la razionalità sociale di cui abbiamo bisogno. Cerchiamo di ricordarlo.

Repubblica 24.3.09
Logica del profitto
Mercatisti senza identità
Intervista al filosofo Alain de Benoist


Esistono molte destre, ma tutte accomunate dall´adesione al liberismo mercantile. Quella attuale è senz´anima e senza idee, ma dominata dal denaro. Vedo solo elementi negativi

PARIGI. «Quella attuale è una destra senz´anima e senza idee, ma dominata dal denaro». Alain de Benoist, filosofo francese considerato uno dei teorici della nuova destra, non usa mezzi termini. «Esistono molte destre, ma tutte accomunate dall´adesione al liberalismo mercantile», spiega lo studioso. «Quelle correnti della destra che in passato guardavano con sospetto il denaro, l´individualismo e il dominio dell´economia sulla politica oggi hanno pienamente accettato questa prospettiva, aderendo in toto al capitalismo e al mercato».
In passato l´antimodernismo era un dato caratteristico della destra. È ancora vero?
«No. Paradossalmente, oggi l´idea del progresso appartiene più alla destra che alla sinistra. La critica delle forme del progresso è esercitata soprattutto dai verdi, che di solito sono collocati a sinistra. La destra ha anche aderito più apertamente alla globalizzazione e alla logica del profitto che la sottende».
La globalizzazione però rimette in discussione un principio fondatore della destra, vale a dire l´attaccamento al territorio e alla nazione...
«In effetti, nasce da qui la sua schizofrenia. Sul piano della retorica, la destra non abbandonato il legame con il territorio e la nazione, ma nella pratica essa aderisce a un sistema economico che rimette in discussione radicalmente queste nozioni, mirando a sopprimere le frontiere e le identità nazionali. Insomma, la destra difende un sistema che progressivamente distrugge tutto ciò che essa vorrebbe conservare».
Ciò spiega la sopravvivenza al suo interno di una componente estremista, spesso xenofoba e razzista?
«Solo in parte. In realtà, la destra più dura vuole salvare l´identità nazionale, pensando che la minaccia venga innanzitutto dagli immigrati. In realtà, la vera minaccia viene dal capitalismo stesso, il cui enorme mercato globale minaccia i modi di vita locali e popolari molto di più dell´immigrazione».
L´antiegualitarismo fa ancora parte dell´apparato concettuale della destra?
«Ormai non è più una discriminante forte nei confronti della sinistra. La destra ammette senza difficoltà l´eguaglianza dei diritti politici e delle opportunità. Ha anche pienamente adottato i diritti dell´uomo. Sul piano delle libertà però, tende difendere soprattutto la libertà del mercato, da qui la difficoltà di fronte all´attuale crisi economica. In realtà, oggi non esistono più un pensiero, una filosofia o una visione del mondo di destra. Le trasformazioni degli ultimi vent´anni hanno travolto le identità ideologiche e uno dei grandi problemi della destra è proprio quello di sapere cosa significhi oggi essere di destra».
Come fare allora per tentare una definizione?
«Io vedo solo elementi negativi. La destra è diventata una coalizione di interessi, che sul piano internazionale fa parte del grande club occidentale contrapposto al resto del mondo. Ciò spiega ad esempio l´enorme successo tra le sue fila del tema dello scontro di civiltà tanto caro a Huntington».
La differenza tra destra radicale e destra di governo è ancora importante?
«Tende a stemperarsi. Lo ha mostrato ad esempio la campagna elettorale di Sarkozy. Tuttavia l´esistenza dei movimenti di estrema destra fa parecchio comodo alla destra di governo, perché ne mostra per contrasto la rispettabilità. Per la destra, quindi, questi movimenti sono politicamente ininfluenti, ma molto utili».

Repubblica 24.3.09
La parabola dei neofascisti italiani
Dai covi neri alle auto blu
di Filippo Ceccarelli


Una storia fatta di fughe in avanti e sconvolgimenti, corse all´indietro e pentimenti. Accadeva qualcosa di grosso, di serio e d´imprevisto

Al congresso di scioglimento di Alleanza nazionale, in uno degli stand più vivi e frequentati, quello della Fondazione FareFuturo raccolta attorno a Gianfranco Fini, era in distribuzione un utile libricino, La destra nuova, a cura di Alessandro Campi e Angelo Mellone, che nel titolo ricalcava, adeguava e insieme superava e rovesciava, senza nemmeno troppa arroganza, l´esperienza e le suggestioni, molto anni Ottanta, della cosiddetta "Nuova destra", ormai invecchiata.
Ecco, anche solo a sfogliare questo elegante volumetto che spiega molto sull´evoluzione di Fini guardando all´esperienza di Sarkozy, del britannico Cameron e dei "nuovi moderati" svedesi, veniva voglia di entrare nella macchina del tempo: per vedere che faccia avrebbero fatto se fosse finito nelle mani di certi personaggi del Msi degli anni Cinquanta, o Sessanta, o Settanta, e pure Ottanta. Gente davvero parecchio stramba: sospetti figli naturali del Duce, aristocratici decaduti nel paracadutismo, profeti macilenti, ex promesse del regime ridotte alla fame, fascistoni tipo Tognazzi ne Il federale e poi avventurieri, mutilati, pugilatori, anarchici, pazzi. Ma anche molti altri che non si volevano riconoscere come fascisti. "Esuli in patria" vennero qualificati, ma solo tanti e tanti anni dopo.
Nello scritto introduttivo Campi e Mellone presentano questa "destra nuova", appunto, come «riformista, pragmatica, postideologica, laica, modernizzatrice»; ma proseguendo nell´analisi e calandosi nella realtà delle scelte è chiaro che si tratta di una cultura politica assai più che rispettabile, almeno per chi abbia a cuore non solo il valore, ma soprattutto l´efficacia della democrazia.
Ecco. I nonni e i padri di quell´antica destra avrebbero probabilmente pensato a uno scherzo. Oltretutto, intriso com´era di spirito tra la goliardia e I tre moschettieri, quel mondo di reduci e nostalgici adorava le beffe. In un comizio di De Gasperi, a Napoli, per dire, gli attivisti missini liberarono centinaia di topi. Però si trattava anche di una comunità compiaciuta della propria necrofilia, come documentano arredi, simboli, grafica, labari e canzoni.
Il punto è che rimanendosene pigramente a sinistra a volte si perdono non solo le prospettive, ma spesso anche il senso della topografia politica. Così circa quarant´anni orsono, in un tempo di clamori e dissennatezze, risuonò nelle vie uno slogan che intimava: «Fascisti, carogne, tornate nelle fogne!». Ecco: con il senno di poi occorrerà riconoscere che quell´appello, oltre che molto incivile, era pure sbagliatissimo, nel senso che non si trattava di fogne, ma di un´intera città sotterranea.
Non che là sotto mancassero pozzi neri maleodoranti e fiumi pericolosi. Ma oltre alle catacombe ed ad altri luoghi di culto, c´erano ambulacri, piazze, scuole, stadi, palestre, biblioteche, teatri, anche piuttosto frequentati. E laggiù non viveva un unico popolo, ma un numero abbondante di tribù, alcune perfino in guerra fra loro.
Questa era insomma la destra, quella emersa nei suoi tratti truculenti, e quella più inesplorata che misteriosa dell´ipogeo. Poi anche qui, e lì sotto, deve essere accaduto qualcosa di grosso, di serio e d´imprevisto. Fughe in avanti e sconvolgimenti, corse all´indietro e pentimenti. Un´intera cultura politica salutava il passaggio di secolo con rassegnata fiducia e trepido disincanto. L´identità diventava retorica, l´utopia saliva a bordo di un´auto blu; e tra "nuova destra" e "destra nuova" la novità è tale da non potersi più forse nemmeno nominare destra, ma in qualche altro modo per cui ancora manca la parola.

Repubblica 24.3.09
Sylvia Plath. Il fantasma di una madre
Il suicidio di Nicholas Hugues
di Tommaso Pincio


Quarantasei anni dopo il suicido di sua madre, la poetessa Sylvia Plath, Nicholas Hughes si è impiccato nella sua casa in Alaska. Da anni combatteva contro la depressione. Aveva lasciato la cattedra di Scienze oceaniche all´università di Fairbanks per mettere su una fabbrica di ceramiche. Nicholas Hughes era nato 47 anni fa dal matrimonio fra la Plath e Ted Hughes, anche lui poeta. Non era sposato e non aveva figli. Si è ucciso il 16 marzo scorso, ma la notizia è stata diffusa l´altro ieri sul Times dalla sorella Frieda.
Sylvia Plath si uccise nel 1963 con il gas. Sei anni dopo anche la nuova compagna di Ted Hughes, Assia Wevill, si tolse la vita allo stesso modo e morì anche la figlioletta della coppia. Sul poeta britannico cadde la colpa di aver spinto entrambe le donne al suicidio con i suoi adulteri. La sua versione dei fatti fu raccontata poco prima della morte, nel 1998, in Lettere di compleanno.

Il figlio della grande poetessa viveva in Alaska Quando sua madre si tolse la vita aveva solo un anno
Un mese dopo l´uscita della "Campana di vetro" la scrittrice si uccise con il gas
Aveva 47 anni, insegnava scienze oceaniche, una passione ereditata da suo padre

Non deve essere facile trovare un posto nel mondo sapendo che tua madre si è tolta la vita quando tu eri poco più di un neonato. Ancor meno deve esserlo se lei lo ha fatto in cucina, infilando la testa nel forno mentre tu, ignaro, dormivi nella camera accanto insieme alla sorellina di due anni. Se poi il gesto estremo diventa un mito della letteratura moderna e trasforma tua madre in un oggetto di culto, vivere può rivelarsi intollerabile.
Nicholas Hughes, figlio di Sylvia Plath, si è impiccato la scorsa settimana. Viveva immerso nei paesaggi aspri e selvaggi dell´Alaska. Aveva ereditato la passione per il mare e i pesci dal padre Ted che amava esaltare la potenza della natura nei suoi versi. Pare che nonostante tutto avesse mantenuto un entusiasmo e un´innocenza quasi infantili. Ma il difficile equilibrio deve essersi spezzato. I fantasmi del passato hanno preso il sopravvento. «Ha lottato per qualche tempo contro la depressione» spiega la sorella Frieda.
Si dice spesso che la tendenza al suicidio sia ereditaria. Il caso di Sylvia Plath è però assai aggrovigliato e non può essere ridotto a una questione di tara genetica. Che la scrittrice soffrisse di manie depressive è fuor di dubbio, così com´è certo che i tre elettroshock cui fu sottoposta da ragazza non l´hanno aiutata. Furono tuttavia altre le questioni sollevate all´indomani del ritrovamento del cadavere, l´11 febbraio 1963. Si parlò di pene d´amore, di tradimento, di un celebrato quanto egoista poeta inglese che aveva abbandonato una dotata quanto fragile poetessa americana per un´altra donna.
Sylvia e Ted si erano conosciuti sette anni prima, a Cambridge. Nata a Boston, Sylvia era una studentessa brillante con una sfrenata ambizione di imporsi nel mondo letterario. Ted era invece un giovanotto inglese dai progetti ancora confusi ma aveva comunque pubblicato alcune poesie, oggetto d´ammirazione per Sylvia. Al loro primo incontro lui rimase abbagliato dalla frangetta alla Veronica Lake di lei. Lei gli recitò a memoria i suoi versi. Si trovavano a una festa. Lui la invitò a ballare. Si ubriacarono e si baciarono. E con ciò giunse il momento poi diventato leggenda: i denti di lei affondarono a tal punto nella guancia di lui da farla sanguinare. Nei castigati anni Cinquanta si veniva chiacchierati per molto meno.
Nel giro di pochi mesi la coppia finisce all´altare. All´inizio è una luna di miele, uniti dalla passione per la letteratura i due fanno avanti e indietro tra l´America e il vecchio continente. Con la nascita dei figli arrivano però i problemi, e alla frustrante routine della maternità si aggiungono le scappatelle di Ted, che alla fine preferirà gettarsi tra le braccia di un´altra, Assia Wevill. Per Sylvia inizia un periodo di ristrettezze economiche ma anche di intensa attività che culmina nel 1963 con la pubblicazione sotto pseudonimo del romanzo La campana di vetro. L´accoglienza, pur non del tutto negativa, è tiepida e comunque inferiore alle speranzose attese dell´autrice, che sentiva la propria sensibilità schiacciata tra la voglia di affermarsi e il ruolo che la società del tempo imponeva a una donna. In capo a un mese, mette in camera i figli, sigilla porte e finestre della cucina, scrive un´ultima poesia e infila la testa nel forno.
La tragedia ha un´assurda replica qualche tempo dopo. Perché il 23 marzo 1969, anche Assia Wevill si toglie la vita alla stessa maniera: con il gas del forno. Diversamente da Sylvia, però, decise di uccidere pure la figlia di quattro anni. L´ignominia si abbatté fatalmente su Ted Hughes. Il poeta fu accusato di essere un uomo dal cuore di pietra che aveva indotto due donne al suicidio; qualcuno tirò via a colpi di scalpello il suo cognome dalla tomba di Sylvia Plath. Lui si è chiuso in un impenetrabile silenzio finché non diede la propria versione dei fatti in una raccolta di poesie che fece scalpore. In una di queste, ricordando il primo momento d´amore con Sylvia, scrive: «Eri sottile, sinuosa, sfuggente come un pesce».
Sinuosa e sfuggente come le creature amate da suo figlio Nicholas, verrebbe da aggiungere col senno di poi. Ma la catena dei suicidi è più lunga ancora. Nel 1974 si uccide con il gas Anne Sexton, amica di gioventù di Sylvia. Anni addietro, quando erano entrambe poetesse alle prime armi, si divertivano a chiacchierare al bar delle loro inclinazioni suicide. Chiacchierate che la Sexton ha rievocato in versi dopo la scomparsa di Sylvia: «Come hai potuto scivolare giù da sola /nella morte che così tanto e così a lungo ho desiderato /... la morte di cui così tanto parlavamo a Boston /mentre ci scolavamo tre martini extra dry». I gas con cui anche lei, in seguito, si tolse la vita furono però quelli di scarico di un´automobile. Con macabra ironia qualcuno ha commentato che fu costretta a optare per il garage perché in America i forni erano ormai tutti elettrici.
L´amante del marito, l´amica, il figlio. Un cerchio inquietante che trascende i legami di sangue. Cos´è dunque il suicidio? Una malattia contagiosa, una perversa tentazione che si trasmette alla maniera dei virus? Le paurose ragioni che spingono un essere umano a rincorrere un suo simile verso l´eterna notte sono fatte di mistero, ma devono somigliare molto alle parole che Sylvia Plath appuntò in un gelido giorno d´inverno: «Parlo a Dio ma il cielo è vuoto».

Repubblica 24.3.09
Parla Eugenio Borgna
Una famiglia stregata dalla morte
di Luciana Sica


Il dolore di vivere - nei libri di Eugenio Borgna - assume spesso volti indimenticabili, la sua conoscenza delle esperienze psicotiche rimanda ai grandi testi della filosofia e della letteratura, soprattutto della poesia. Ne Le intermittenze del cuore (titolo proustiano per un saggio uscito anni fa da Feltrinelli), Borgna ha scritto diffusamente della "smania di morire" di Sylvia Plath e di come - attraverso i suoi scritti - si colgano gli abissi più terrificanti della vita psichica.
Borgna è primario emerito di psichiatria all´Ospedale maggiore di Novara. Ma qui è anche da fine conoscitore della Plath che parla del figlio della poetessa, di Nicholas Hughes: suicida come la madre. Si potrebbe ipotizzare una "coazione a ripetere" nella drammatica conclusione di un´esistenza segnata dalla solitudine e dalla depressione. Oppure fare ricorso al modello imitativo che spesso caratterizza le condotte suicidarie.
«Intanto - dice Borgna - non sappiamo se si possa attribuire al figlio della Plath una qualche psicopatologia. Sappiamo invece che Nicholas aveva solo un anno quando ha perso sua madre e che ha potuto conoscerla solo attraverso le poesie, le lettere, i diari o anche quel romanzo - La campana di vetro - in cui la Plath descrive la catastrofica esperienza dell´elettroshock praticato senza anestesia... Sono scritti riempiti di deliri, allucinazioni, angosce, paure, disperazioni. Testimoniano di un nocciolo psicotico più forte di ogni altra possibilità di vita, di una assoluta volontà di morire. Sono testi che avranno costituito una tragica forma di richiamo - sia pure per un lungo tratto respinto o almeno arginato - verso un´identificazione profonda e radicale con il destino della madre».
Borgna non parla dunque tanto di mimesi, di un processo di imitazione, quanto proprio di immedesimazione - di meccanismi di natura inconscia che possono entrare in gioco all´interno di un gruppo familiare. Tanto più se si pensa al ruolo complesso e ambiguo di Ted Hughes, l´uomo che favorisce il suicidio di Sylvia Plath e determina quello della sua nuova compagna, Assia Wevill. Un padre che Nicholas difficilmente avrà mai perdonato. «Evitiamo invece - conclude Borgna - quel corto circuito per cui ogni esperienza psicotica si trasmetterebbe ereditariamente: una tesi inaccettabile e scientificamente falsa. Di Nicholas Hughes, del suo destino stregato dalla morte, colpisce piuttosto l´equivalenza psicologica e umana con la solitudine radicale della madre... E anche quel modo determinato, maschile, di togliersi la vita, impiccandosi. Senza lasciare alcuna breccia alla speranza, cancellata dai morsi di un malessere stratificato nel tempo a cui alla fine si è abbandonato».

Corriere della Sera 24.3.09
Tutti scrittori, ecco i libri fai da te
Nel 2008 sono stati pubblicati in Italia 180 titoli al giorno. Offerta online.
Le cifre. L'84% dei volumi pubblicati in Italia vende meno di 500 copie. Con 99 euro si stampano 20 copie di un testo di 96 pagine
Gli autori «La produzione di opere cartacee è in continuo aumento». Il fenomeno incontrollato di quelle non registrate
Editoria universitaria: una copia per volta
di Armando Torno


Dopo la nascita di Kindle2, prodotto da Amazon, sappiamo che una macchinetta di tre etti può contenere le notizie, i dati o le storie di circa 1500 libri. È una biblioteca portatile che verrà sempre più perfezionata e ampliata. È capace di nuove funzionalità, ha un disegno grazioso — il primo Kindle era più brutto dell'anatroccolo delle fiabe — nonché un rinnovato sistema di navigazione, sedici tonalità di grigio e alta risoluzione. Insomma, è più «umana».
Altre biblioteche simili sono allo studio e in via di perfezionamento e tra non molto saranno in grado di interagire in rete con infinite possibilità. Un nuovo scenario tecnologico nel quale si inserisce il momento d'oro in atto per il libro fai-da-te; è, per dirla in soldoni, scoppiato il caso self-publishing. Se si desidera dare alla luce un'opera senza rivolgersi a una tradizionale tipografia o tentare le consuete vie editoriali, niente è più semplice. Decine di siti — dagli internazionali a quelli appena nati in casa nostra — offrono la possibilità di farlo a cifre modestissime. In particolare, da noi sta vivendo una stagione fiorente la casa editrice Lampi di Stampa, che pubblica anche opere a bassa tiratura (persino in una sola copia), personalizzandole ai bisogni. Ma per non rimanere nel vago, entriamo meglio nella questione, dopo aver ricordato che il self-publishing e Kindle rappresentano un'editoria che passa dalla creazione alla lettura riducendo al minimo, se non azzerando, la macchina della distribuzione e mettendo in crisi gli intermediari tradizionali. Del resto, il dossier Patino, consegnato al governo francese alla fine del 2008, prevede a medio termine la morte delle librerie. A meno che le stesse non si riorganizzino alternando novità a modernariato o antiquariato o a prodotti multimediali. Che fine sta facendo il libro? È giunto il momento di porsi questa domanda.
L'abbiamo rivolta in prima battuta a Giuliano Vigini, fondatore dell'Editrice Bibliografica e docente di sociologia dell'editoria contemporanea. Ricorda che la stampa digitale, ormai attiva da un decennio, «realizza mille pagine al minuto», ovvero occorre più tempo per distribuire un libro che per editarlo. «La produzione di opere cartacee — sottolinea Vigini — è continuamente in aumento e costa sempre meno. Oggi sono in crescita quelle stampate in proprio, anche se non è facile quantizzarle, giacché moltissime non sono registrate e hanno un utilizzo limitato, domestico». Le pubblicazioni fai-da-te, se sono fornite del numero Isbn, il codice a barre, possono essere messe in vendita attraverso i canali normali; quelle, invece, senza la registrazione sono fuori controllo, come i libri alla macchia dei secoli scorsi. Nel 2008 si sono pubblicati in Italia — tra novità, riedizioni e ristampe — circa 180 libri al giorno, praticamente 7 e mezzo all'ora. La tiratura media di ogni opera è intorno alle 4.364 copie, edizioni scolastiche comprese (dati Istat); scende a 3.524 se si tolgono i libri di scuola. Ma quel che fa più impressione — ricorda Roberto Miglio, direttore generale delle Messaggerie, la grande catena che distribuisce tra l'altro Garzanti, Longanesi, Vallardi e la stessa Lampi di Stampa — è che l'84% dei titoli in Italia vende meno di 500 copie e che da noi i lettori di almeno un libro al mese sono soltanto 3,2 milioni (24 milioni, nel 2007, sono quelli di un libro l'anno). Agli editori, sottolinea Vigini, «arrivano annualmente circa 300 mila manoscritti (cifra che deve tener conto anche di più spedizioni di una stessa opera); una media casa editrice ne riceve circa 800-1000». Con tali numeri non occorrono particolari teorie per dedurre che il libro fai-da-te avrà sempre più spazio, con un pubblico vastissimo che diventa contemporaneamente autore e lettore.
Lampi di Stampa è una casa nata per conservare in catalogo una certa opera e anche per microtirature. Se un libro sta esaurendosi, se ne ripropongono alcune decine di esemplari evitando la scomparsa; oppure, grazie al digitale, è possibile ripescare un titolo introvabile e rioffrirlo in poche copie. Mariano Settembri, il direttore editoriale, fa un esempio: «Da noi 20 copie di 96 pagine costano 99 euro e sono dotate del codice Isbn; sono libri a tutti gli effetti, entrano quindi nel circuito nazionale». Lampi di Stampa, per dirla in breve, alterna un'editoria tradizionale al servizio di microtiratura e al fai-da-te; è una specie di ponte tra l'editoria del passato e quella che potrebbe nascere. Ha in catalogo, tra l'altro, il romanzo storico di Petta e Colavito Ipazia scienziata alessandrina, che ha venduto quasi 5 mila copie in diverse edizioni; nel suo sito si trova un foglio word, «Tuttiautori», che offre un preventivo di costi, le indicazioni per impaginare e realizzare il libro da soli. Settembri confida: «Nel volgere di due, tre anni ci saranno in Italia almeno sette-ottomila persone che ricorreranno a "Tuttiautori" per la propria opera. Noi, per taluni aspetti, siamo ancora degli editori perché offriamo a chi lo desidera un servizio di editing e respingiamo opere oscene o plagi».
Ma il fai-da-te è ormai anche una soluzione per l'editoria universitaria. Roberto Radice, ordinario di Filosofia Antica alla Cattolica di Milano, ha lavorato per Mondadori, Bompiani, Vita & Pensiero, Bibliopolis e altri editori nazionali, ma i suoi importanti lessici li realizza in microtirature. Dopo quelli di Platone, Plotino, Aristotele e Stoici, Radice è pronto con due volumi dedicati a Filone e il Pentateuco. «Ne tirerò — dichiara — dieci copie con la sigla di Biblia (autore del software), poi si procederà come nei precedenti casi: a richiesta. Ne stampiamo una copia alla volta, per una biblioteca, un privato o una libreria. La maggior parte è stata venduta online, anzi addirittura qualcuno ha chiesto il solo cd».
Questi lessici sono quanto di più avanzato sia stato tentato su tali autori (gli Stoici erano in vetrina alle Belles Lettres, a Parigi; una copia di Platone e Aristotele si possono trovare a Milano da Hoepli e da Cortina, o a Napoli da Guida), ma ormai l'università non può adottare opere del genere, soprattutto dopo la riforma e i moduli. Precisa Radice: «Anche l'editoria accademica tradizionale è mutata. Pubblica senza remunerazione testi pronti in forma editoriale già definitiva, richiede il finanziamento o una quota di adozione o anche entrambe. È finita l'epoca crociana in cui un libro utilizzato in un corso era poi diffuso tra il pubblico colto delle librerie con una sigla prestigiosa, ormai siamo all'editoria curtense. Le tirature? Trecento, se va bene quattrocento copie. E non mancano casi con rese superiori alle cifre dichiarate».
Insomma, con la rete è possibile stampare una propria opera senza stare con il cappello in mano nelle anticamere degli editori; l'università, dopo non illuminanti riforme, è arrivata al fai-da-te; i siti si organizzano giacché le microtirature rappresentano l'avvenire. Gutenberg è morto? Non ancora, ma soffre di una strana malattia, dai sintomi sconosciuti. Che fare? Per non correre rischi, qualcuno gli ha inviato l'estrema unzione e altri hanno già scritto il necrologio. In rete, ovviamente.
Armando Torno

Corriere della Sera 24.3.09
Un accordo politico consente oggi l'apertura della mostra sui capolavori toscani, ma è solo una tregua
Il Lippi dei veleni, guerra a Parigi
I curatori italiani contro il gestore del Luxembourg, inchiesta in Francia
di Massimo Nava


PARIGI — Fra veleni, sospetti e carte bollate, si apre oggi, al Palais de Luxembourg, sede del Senato francese, la mostra dedicata a Filippo e Filippino Lippi, con il sottotitolo La renaissance à Prato, luogo di origine degli artisti e di provenienza di alcuni dei capolavori esposti. L'omaggio all'arte italiana è oscurato infatti da una più prosaica faccenda di gestione di fondi e rivalità fra curatori che il presidente del Senato francese Gérard Larcher e il ministro per i Beni culturali italiano Sandro Bondi hanno faticosamente messo fra parentesi almeno per riuscire a far aprire i battenti. Ma è solo una tregua: i grandi progetti per il futuro sono per il momento azzerati.
Stamane, il pubblico si metterà in coda per ammirare, forse per l'ultima volta, i frutti di una collaborazione che, negli ultimi anni, ha portato a Parigi Raffaello, Botticelli, Veronese, Tiziano e Arcimboldo e che ha fruttato anche diversi milioni di incassi al museo. Ed è proprio dalla ripartizione degli utili che sono scoppiati contrasti fra curatori e gestori, al punto da raffreddare le relazioni culturali fra Italia e Francia e mettere in discussione progetti per altre grandi esposizioni.
Fino all'ultimo, la querelle ha messo in pericolo anche l'esposizione di Lippi, salvata in extremis da una sorta di accordo fra autorità francesi e italiane per salvare il salvabile ed evitare una rottura controproducente per tutti. Ma strette di mano e discreti contatti fra ministeri e ambasciate hanno soltanto messo la sordina su rivalità e oscuri retroscena sulla gestione delle precedenti esposizioni, attualmente sotto inchiesta.
La diatriba del Luxembourg scoppiò nella primavera scorsa quando la curatrice italiana, Patrizia Nitti, fu costretta a lasciare l'incarico per contrasti sulla gestione artistica e dei fondi con Sylvestre Verger, l'organizzatore delle mostre, diventato il factotum del museo. L'avvocato della Nitti ha parlato di «quattro milioni» di danni, il che dà un'idea del giro d'affari del museo. Al di là delle cifre, il contrasto riguarderebbe la ripartizione delle commissioni pattuite per le precedenti esposizioni e il numero effettivo di visitatori su cui si stabiliscono le commissioni stesse. Sulla vicenda, il nuovo presidente del Senato, Gérard Larcher, ha sollecitato un'inchiesta. In una lettera all' «Express», Verger, titolare di una società di gestione delle esposizioni, sotto contratto con il Senato, ha respinto le insinuazioni e sostiene che l'incarico alla Nitti era in scadenza. «La mia società, con oltre cinque milioni di visitatori, ha assicurato il successo di un museo dimenticato e divenuto uno dei luoghi più popolari della capitale ». La prima conseguenza dell'uscita di scena della Nitti furono a settembre le dimissioni dei cinque membri italiani del comitato scientifico, alcuni fra i più noti curatori del nostro patrimonio : Antonio Paolucci, direttore generale dei Musei vaticani; Francesco Buranelli, segretario della commissione pontificia per i beni della Chiesa; Giandomenico Romanelli, direttore dei musei veneziani; Nicola Spinosa, soprintendente a Napoli e Claudio Strinati, soprintendente del polo museale di Roma, il quale ricorda le ragioni del gesto: «Siamo stati chiamati dalla Nitti e la nostra presenza era diventata incompatibile. È stato un gesto di sincera solidarietà».
La seconda conseguenza è stata l'annullamento del grande progetto di esposizione del «Tesoro dei Medici» e il prevedibile congelamento di iniziative future che potrebbero privare il pubblico dei grandi capolavori italiani. Le mostre al Luxembourg, dedicate all'Italia e in passato inaugurate dai presidenti Ciampi e Napolitano, erano infatti diventate una sorta di appuntamento stagionale.
La mostra dedicata a Lippi lascia aperto uno spiraglio, anche se da più parti vengono espresse riserve sull'effettiva importanza (almeno per numero) dei capolavori esposti. I retroscena della vicenda non lasciano ben sperare per il futuro. Da fonti italiane si fa notare che Sylvestre Verger avrebbe portato a Parigi la mostra su Lippi già allestita a Prato, integrata con prestiti sollecitati alle autorità italiane dal presidente del Senato francese per assicurare comunque un buon livello dell'iniziativa. Il presidente del Senato si sarebbe fatto garante dei prestiti stessi, concessi dai musei di Prato e di Firenze.
Si sa inoltre che i ministri dei Beni culturali italiani — prima Francesco Rutelli, oggi Sandro Bondi — avevano espresso perplessità, rimaste senza risposta, al presidente del Senato e al suo predecessore Christian Poncelet. Sulla vicenda ha alzato la voce anche l'opposizione con un'interrogazione del senatore del Pd, Luigi Zanda, il quale ha chiesto al ministro di conoscere le ragioni delle dimissioni dei cinque membri italiani; si domanda inoltre se, in assenza di adeguato presidio scientifico, non siano venute meno le ragioni di prestiti di grande importanza, tenendo anche conto di esigenze di assoluta sicurezza nelle fasi di trasporto e esposizione.
«È stato un atto di cortesia nei confronti della presidenza del Senato, in attesa di una ripresa dei rapporti su basi nuove», spiegano al ministero dei Beni culturali.