Intervista a Paolo Ferrero
«Il Pdl è il partito della P2. Fini? Fa l’ala sinistra ma il disegno è lo stesso»
È un partito nato per costruire una svolta reazionaria in Italia, il partito della P2, con l’obiettivo di realizzare compiutamente il piano di Gelli». Paolo Ferrero, leader del Prc, dà un giudizio nettissimo sulla nascita del Pdl.
Spieghi perché.
«L’attacco al sindacato, alla magistratura, al bilanciamento dei poteri, il presidenzialismo. Si tratta di una modifica complessiva del sistema democratico, del bilanciamento dei poteri istituzionali e sociali. Berlusconi lavora allo sfondamento di entrambi questi cardini della Costituzione. Per lui c’è spazio per un sindacato simile a quelli dei paesi dell’Est: uffici di collocamento delle imprese».
Vede realmente un disegno eversivo?
«Parlo di svolta autoritaria, non del nazismo. Ci sono democrazie che sono solo dei simulacri, soprattutto quando chi governa controlla anche l’informazione. Questo disegno, per funzionare, ha bisogno di un’opposizione non in grado di opporre un disegno alternativo. E il Pd non ce l’ha, neppure sul piano istituzionale. La sfida di Fini sul referendum e sulle riforme disegna uno scenario di democrazia deprivata e il Pd, almeno sul referendum, rischia di offrire dei pericolosi assist. Ma se mettiamo insieme bipartitismo e presidenzialismo, viene fuori un regime che ha poco a vedere con la nostra Costituzione».
Anche gli Usa sono un sistema bipartitico e presidenziale. Eppure vince Obama...
«Obama per certi versi è un incidente della storia, figlio di una congiunzione astrale. Ma la democrazia italiana degli anni 60 e 70 era molto più forte degli Usa di oggi: nel Pci venivano eletti anche gli operai».
Torniamo al discorso di Fini: a sinistra è stato apprezzato,..
«Fini ha detto cose di buonsenso che mi ha fatto piacere ascoltare. Ma non si pensi che ci sia una distanza reale tra lui e Berlusconi sulle scelte di fondo: condividono un disegno reazionario. Fini dimostra che il Pdl è così forte da poter contenere al suo interno una destra e una sinistra. Sono così egemoni da potersi permettere anche delle sfaccettature...»
Ha detto cose “di sinistra” su immigrazione e temi etici?
«Cose normali in qualunque paese europeo. Eppure più a sinistra di una parte del Pd».
Lui realizza il piano della P2. E voi come reagite? Dividendovi?
«Io sarei per il massimo di unità possibile. Ma referendum e bipartitismo sono un pezzo del regime di Berlusconi e il Pd c’entra. Per questo dico: facciamo una battaglia insieme contro il referendum e per il sistema tedesco, è l’unico che potrebbe disarticolare questa destra. Altrimenti vincono per 30 anni».
il Riformista 29.3.09
Europee. Matrimonio di convenienza (dopo dieci anni) tra Prc e Pdci per superare lo sbarramento
Riecco i comunisti uniti dalla falce e dal martello
di Sonia Oranges
Torna il simbolo di falce e martello sulla scheda delle elezioni europee, in un cartello elettorale che non soltanto raggruppa dopo dieci anni di separazione i comunisti di Rifondazione e del Pdci, ma stempera il marchio della bandiera rossa con la presenza del movimento Socialismo 2000 (che fa capo a Cesare Salvi) e dei Consumatori Uniti di Bruno De Vita
CARTELLO ELETTORALE. Presentata la lista che rimette insieme Ferrero e Diliberto, con Socialismo 2000 e i consumatori di Bruno De Vita. L'obiettivo è raggiungere il 4 per cento, contendendo l'elettorato radicale a Sinistra e Libertà. Ma anche a Di Pietro.
Torna il simbolo di falce e martello sulla scheda delle elezioni europee, in un cartello elettorale che non soltanto raggruppa dopo dieci anni di separazione i comunisti di Rifondazione e del Pdci, ma stempera il marchio della bandiera rossa con la presenza del movimento Socialismo 2000 (che fa capo a Cesare Salvi) e dei Consumatori Uniti di Bruno De Vita. Ieri hanno presentato il simbolo, e il documento che sta alla base della «lista anticapitalista» che «lavora per un'uscita dalla crisi fondata sulla democrazia economica, sulla giustizia sociale e sulla solidarietà». Impegnandosi «a continuare il coordinamento della loro iniziativa politica anche dopo le elezioni europee». Il lessico sembra quello del vecchio che avanza con la scorta del solito, pesante e polveroso bagaglio ideologico. Ma non è detto.
«Questa lista, che lavora per un'uscita dalla crisi fondata sulla democrazia economica, sulla giustizia sociale e sulla solidarietà, rappresenterà un importante raggruppamento anticapitalista, comunista, socialista di sinistra, ambientalista in Italia e in Europa, e si ritrova intorno ai valori e ai simboli storici del movimento operaio italiano» ha detto il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero, senza dubbio il motore trainante dell'operazione, che così corre ai ripari dopo la scissione dei vendoliani. E parla chiaro su dove e come si porrà la lista in Europa. A cominciare dal gruppo cui si iscriverà, in caso di (probabile) superamento della soglia del 4%: quello di Sinistra Europea «e cioè all'opposizione delle politiche liberiste di Maastricht e di Lisbona, che hanno prodotto l'attuale devastante crisi economica europea e mondiale, politiche che vengono da molti anno votate e sostenute da tutti gli altri gruppi politici eletti in Europa, dai popolari ai socialisti, passando per i liberali», ha aggiunto Ferrero, puntando il dito anche contro i protagonisti della politica italiana, «una grande coalizione liberista e antipopolare che vede e vedrà unite tutte le forze politiche che oggi fanno finta di contrapporsi in Italia, dalla Pdl di Fini e Berlusconi, al Pd di Franceschini, passando per Di Pietro e Casini». Insomma, la proposta politica dei ritrovatisi comunisti, insieme con una pattuglia di socialisti e un'altra di consumatori, intende contrapporre «più libertà e più eguaglianza» alle «politiche di un governo di destra che invece punta al totale e sfrenato liberismo e deregulation in economia, ma che promuove politiche antiliberali e totalitarie nel campo dei diritti civili».
Fin qui la versione del comunismo rifondato (ci ha tenuto a specificarlo, un po' ironico, il segretario del Prc), lasciando al segretario del Pdci Oliviero Diliberto, la nostalgica celebrazione del "c'eravamo tanto amati": «Finalmente i comunisti tornano a presentarsi uniti alle elezioni dopo tanti anni. Torna la falce e martello sulle schede; o meglio, per la prima volta da tanto tempo ci sarà solo "una" falce e martello - affermava ieri sorridente davanti alle telecamere - Dopo tanti anni sotto la stessa falce e martello c'è un ricongiungimento familiare. Noi del Pdci ci abbiamo creduto molto: è un coronamento politico».
A decidere del coronamento e del futuro politico del cartello, però, saranno gli elettori orfani della sinistra, che dovranno scegliere tra loro e Sinistra e libertà, l'altro cartello dei più radicali, che pure riunisce i comunisti del Mps di Vendola, verdi e socialisti di varia natura, oltre alla Sinistra democratica di cui Salvi è stato fondatore. Ma ieri Salvi era l'unico a rammaricarsi di non essere riuscito a mettere insieme tutti.
il Riformista 29.3.09
Salvi: «Resto un socialista, ma bisogna fermare Silvio»
L'intervista. L'ex ministro ds spiega il ritorno a casa base
di S.O.
Cesare Salvi estrae dalla tasca la stampata della pagina internet del gruppo di Sinistra europea, traducendo al volo che parla di socialismo. E ci tiene a specificarlo.
Però questo sembra proprio il ritorno dei comunisti.
L'obiettivo è arrivare, in futuro, a una lista unitaria di tutta la sinistra. Purtroppo stavolta a prevalere sono state le opposte rigidità, nonostante il rischio di non superare lo sbarramento. Io aderisco come rappresentante del socialismo di sinistra. Onestamente, l'anticomunismo mi sembra un po' anacronistico, nel 2009, anche se non avrei partecipato se si fosse trattato di rifare un partito comunista.
Che senso ha la riunione di Prc e Pdci?
Il berlusconismo è dilagante, il Pd è in grave difficoltà e la sinistra rischia di scomparire. C'è bisogno di qualcuno che proponga un diverso modello di società. Sentivo il dovere di dare una mano per la storia mia e del movimento che rappresento. E poi, diciamocelo, c'è ancora una fetta dell'elettorato che si riconosce nella falce e il martello. Lo spazio a sinistra del Pd, chi lo copre? Di Pietro?
La sua storia, appunto. Non si sente un po' a disagio a fare il percorso a ritroso?
Guardi, il mio movimento si chiama 2000 perché allora passai con la minoranza di sinistra del partito, di fronte a un Paese in cui crescevano disoccupazione e diseguaglianze. Non bisognava essere comunisti per vederle. E, per la cronaca, facevo il ministro. Mica mi hanno cacciato.
Certo che i socialisti con i comunisti...
Ci sono altri esempi in Europa. Pensi alla Linke o a tanti esempi di socialismo di sinistra che in noreduropa funzionano. Persino Michele Salvati ha scritto che davanti a questa crisi servono idee nuove. E dove sono le idee socialiste in questo momento? Io sono un europeista. E ho votato contro il trattato europeo proprio perché non volevo un'Unione europea senza poteri. Sono tante le questioni da affrontare. A cominciare da quella morale. Poi casomai ne parliamo.
Anche adesso...
Prendiamo l'esempio di Napoli. Lì ci presenteremo in alternativa a Nicolais. Serve una sinistra autonoma e noi proviamo a esserlo, anche usando il simbolo di falce e martello, per farne una battaglia sulla questione morale, su un sistema di potere unico che a sud ha dato i frutti che ha dato. Ma ci pensa che, dopo tutte le scenette cui abbiamo assistito, pare che Di Pietro si alleerà con Bassolino? Ci stanno tutti dentro. Lo abbiamo visto al sud, ma anche a Firenze. E in Abruzzo. I capibastone di cui parlava Veltroni sono ancora tutti al loro posto. Scusi, ma con questi presupposti perché la gente non dovrebbe votare Berlusconi?
L'antiberlusconismo è un boomerang, però.
Il berlusconismo rappresenta un blocco dei valori in Italia. Ma, mi dispiace dirlo, la sinistra della seconda repubblica gli ha dato una mano, abdicando a una versione di se stessa rigidamente ideologica e subalterna al liberismo. Oggi si può essere antiberlusconiani se si è in grado di dire cose diverse, con un'idea di società diversa. Se lo si insegue sulle sue stesse politiche, non si può essere che perdenti.
Decise le candidature?
Non la mia, preferisco che lo faccia Massimo Villone.
l'Unità 30.3.09
L’impegno delle “toghe rosse”: «Difenderemo la Carta»
di Claudia Fusani
Si chiude a Modena il congresso di Magistratura democratica. Raggiunta una faticosa mediazione in un documento di 8 pagine. I voti premiano la linea radicale. Sanlorenzo segretario, Castelli verso la presidenza.
Il documentopunta su professionalità ed efficienza, indispensabili autonomia e credibilità
Le animeUna sensibilità più radicale e una più pragmatica. Cascini: «Risultato unitario»
«Resistere» e soprattutto «reagire agli attacchi che da tempo e in forma sempre più grave sono in corso all’assetto costituzionale dello stato repubblicano». La difesa dei diritti e dei più deboli, dunque, come sempre al primo posto, utilizzando però «la massima professionalità ed efficienza» e abbandonando una volta per tutte «la difesa corporativa».
Sono le linee guida principali con cui faticosamente, dopo quattro giorni di confronti duri, a un passo dalla spaccatura interna, Magistratura democratica chiude a Modena il congresso forse più difficile dei suoi 45 anni di vita. Una vita per scelta in prima fila e impegnata politicamente e da quindici anni vera ossessione del premier Berlusconi che ancora indica le toghe rosse («l’armata rossa») come uno dei mali supremi, e quindi da debellare.
Il dibattito congressuale e della vigilia aveva due anime contrapposte. Da una parte quella più identitaria e schierata che dice basta al compromesso politico («il dialogo con Mastella ha solo prodotto guai») e predica la «schiena dritta in un momento di crisi che è economica ma ancora prima culturale» e che per sintesi fa riferimento a Livio Pepino, uno dei padri fondatori di Md e attuale membro del Csm. Dall’altra quella più pragmatica, che ha ben chiaro il codice genetico di Md - rifiuto del conformismo e della passività culturale e difesa dei diritti - ma al tempo stesso sa anche che è necessaria l’autocritica, riformarsi, dialogare di volta in volta sui vari punti con l’interlocutore del momento. È la linea che ha prevalso in questi mesi nell’Anm – con la segreteria di Giuseppe Cascini anche lui iscritto a Md – un po’ meno nel Csm (il vicepresidente Mancino non è venuto al congresso, segno di forti tensioni)e coltivata da alcune delle menti più brillanti di Md, da Nello Rossi a Claudio Castelli, da Donatella Donati a Anna Canepa per finire con il presidente uscente Edmondo Bruti Liberati che dopo anni ringrazia, a sua volta è ringraziato con standing ovation, ma lascia ogni incarico.
I diritti dei clandestini
La divisione ha fatto sì che per la prima volta dagli anni settanta la corrente di sinistra della magistratura sia andata al rinnovo delle cariche in ordine sparso, senza un’indicazione di voto precisa.
Quasi en plein di voti per Rita Sanlorenzo (400 su 506 votanti), segretario uscente, seguita da Donatella Donati e Claudio Castelli (250) candidato alla presidenza. Se i numeri sembrano premiare la linea più radicale, va detto che Sanlorenzo ha puntato nel suo intervento alla mediazione tra le varie sensibilità e che il distacco nei confronti di Castelli-Canepa-Donati non è così marcato. «Un risultato unitario e non di spaccatura» dichiara Cascini.
Unità che si ritrova nel documento finale, miracolo di mediazione e tessitura di Vittorio Borraccetti e invocato dal palco da Beniamino Deidda, il procuratore generale di Firenze che ha declinato l’invito a fare il presidente.
Gravissimi attacchi alla Carta
Il futuro e l’azione di Md vanno quindi ricercate nelle sette pagine del documento che scandiscono le linee guida della corrente. La premessa è un manifesto politico: «Nel nostro paese sono in corso da tempo e in forma sempre più grave attacchi all’assetto costituzionale dello stato repubblicano». Seguono gli esempi: «Il disegno di legge sul testamento biologico è in aperta violazione dei principi universali della libertà personale e dell’autodeterminazione dell’individuo»; il progetto di riforma delle intercettazioni «pregiudica l’efficacia dell’azione investigativa e mette in discussione la libertà dell’informazione»; le norme sui clandestini «espellono dalla moderna concezione di cittadinanza il diritto primario e universale alla salute, ad avere un’identità e ad essere titolare di diritti». Vengono messi in discussione il diritto allo sciopero e il sistema della contrattazione collettiva, «tutela inderogabile delle condizioni del lavoratore». Mentre, si legge ancora, «lo spazio privatissimo del corpo umano viene pubblicizzato, lo spazio pubblico viene all’inverso privatizzato destinandosi la tutela della sicurezza all’opera dei volontari delle ronde». Poi l’accusa, netta, senza ombre, «alla politica di maggioranza che promuove momenti di rottura della legalità costituzionale«.
Un manifesto molto chiaro. Politico oltre che giudiziario. Lontanissimo da quello pronunciato da Berlusconi nel giorno in cui è diventato re del suo popolo.
l'Unità 30.3.09
Piombo Fuso a Gaza
«I rabbini incitarono i soldati alla guerra santa»
di Umberto De Giovannangeli
Drammatiche testimonianze dei militari coinvolti nelle operazioni militari nella Striscia. «Sembrava una missione religiosa» dice il soldato Ram. Un altro accusa i rabbini: «Dicevano: per i nemici punizione divina».
Guerra agli infedeli. Gli «infedeli» di Gaza. Racconta il soldato Ram: «Il loro messaggio è stato molto chiaro: noi siamo i giudei, noi siamo arrivati in questa terra per miracolo, Dio ci ha riportato qui e ora noi dobbiamo combattere per espellere gli infedeli che stanno interferendo con la nostra conquista di questa terra occupata». Ram ha fatto parte di un reparto di élite di Tsahal nei giorni dell’operazione «Piombo Fuso» nella Striscia. Quando parla di «loro», Ram si riferisce ai rabbini ortodossi e ultranazionalisti dell’esercito. L’Unità ha avuto modo di prendere visione delle testimonianze di soldati e ufficiali che hanno partecipato ad un meeting organizzato dalla Scuola di Preparazione Militare dell’accademia Oranim, nel nord d’Israele. Alla conferenza erano presenti decine di allievi della scuola militare: tutti hanno prestato servizio nelle unità di combattimento di Tsahal e hanno partecipato attivamente agli attacchi israeliani contro la Striscia di Gaza condotti dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009 (oltre 1300 morti, più di 5000 feriti, secondo stime palestinesi e internazionali).
È sempre il soldato Ram a parlare: «Abbiamo provato – dice – sensazioni simili a quelle di una missione religiosa». Le operazioni sono cominciate con un sergente credente che «ha riunito l’intero plotone e ha guidato la preghiera per coloro che stavano per partire in missione». «Anche quando eravamo in missione hanno spedito opuscoli pieni di salmi. Credo che nella casa dove alloggiavamo avremmo potuto riempire una stanza con tutti i salmi che avevamo ricevuto».
I RACCONTI
«Nessuno di noi contestava la legittimità di colpire quelli di Hamas, ma l’uccisione di decine di civili non poteva essere liquidata come un “effetto collaterale”… E a chi poneva questi problemi, un rabbino estremista ha risposto: I nemici di Eretz Israel si meritano la punizione divina, voi siete lo strumento…», racconta il soldato Yossi. Aviv, ufficiale della riserva, ricorda che nel vivo dell’offensiva a Gaza, rabbini oltranzisti inviarono lettere aperte al premier Ehud Olmert nelle quali si utilizzavano passi della Torah per giustificare il pugno di ferro contro i palestinesi. La legge della Torah autorizza l’uccisione di uomini, donne, anziani, neonati e animali (del nemico), afferma il rabbino Yisrael Rozin.
Per parte sua, il rabbino ultraortodosso Shlomo Elyaho ha sottolineato che «Se noi uccidiamo 100 dei loro ma loro rifiutano di smetterla (di lanciare razzi), allora dovremmo ucciderne 1000; e se noi uccidiamo 1000 dei loro e loro non la smettono, allora dovremmo ucciderne 10.000 e dobbiamo continuare ad ucciderli anche se arrivano ad un milione, con tutto il tempo necessario per ucciderli. I Salmi dicono: «Io devo continuare a cacciare i miei nemici ed a fermarli, ed io non smetterò fino a che non li avrò completamente finiti».
IL GUARDIAN RILANCIA
Sulla «sporca guerra» di Gaza torna anche il quotidiano britannico The Guardian, con un dossier documentato sul campo, dal quale emerge che i militari dell’Idf (le forze armate dello Stato ebraico) avrebbero utilizzato bambini palestinesi come scudi umani per difendersi dagli attacchi dei miliziani di Hamas, come avrebbero bombardato scuole e ospedali e come avrebbero infine colpito la popolazione civile con i droni radiocomandati. I vertici di Tsahal accusano il tabloid inglese di «lettura unilaterale, forzata dei fatti». «Le prove raccolte, le testimonianze, sono a disposizione di chiunque voglia davvero accertare la verità», è la risposta che viene da Londra.
Repubblica 30.3.09
L´ultima metamorfosi del leader anti-borghese
di Filippo Ceccarelli
Venite, adoremus: e dopo tre giorni ancora una volta il presidentissimo Berlusconi si conferma all´altezza della sua fama.
Il ruggito e lo sberleffo, il maxi-schermo e lo stacchetto musicale, la gloria e il merchandising, le salmodie dei ministri e il più sonante dispendio di quattrini, tre milioni e rotti di euro, in tempi di crisi, per fare bella figura, alberghi a quattro stelle, bianche tovaglie e delizie di catering per i delegati. Programma minimo scandito alla platea: "Non accontentarsi mai".
Chissà se è davvero "la fine della lunghissima transizione italiana". Quando ieri mattina il Cavaliere ha annunciato questo passaggio di ordine storico e politico, per sincronica assonanza veniva da pensare a quanto il professor Aldo Schiavone ha scritto in un libro uscito da pochi giorni, L´Italia contesa (Laterza), e che a proposito della pretesa tempestività berlusconiana dice esattamente il contrario: "Il leader della transizione italiana è diventato oggi il solo ostacolo al suo definitivo compimento. La normalizzazione della nostra politica non aspetta che la sua uscita di scena per potersi concludere".
Ecco, si vedrà. Ma intanto mai come in questo congresso è apparsa più evidente la fine di una certa idea della destra. Ed è proprio nell´evoluta potenza tecnica del berlusconismo, nelle sue forme e nei suoi linguaggi che si coglie il senso dello stravolgimento terminale di un antico decoro. E attenzione. Una volta Massimo Cacciari ha qualificato Berlusconi: "Una catastrofe estetica prima ancora che politica". Ma qui non si tratta di interpretare la novità secondo i codici del consueto (e vano) anti-berlusconismo di sinistra, filosofico o snob che sia, comunque spocchiosetto nei suoi stilemi di pretesa superiorità morale e di buongusto.
No. Il dubbio è come avrebbero reagito un Indro Montanelli o una Oriana Fallaci di fronte alla scena del Cavaliere che fa mettere "le nostre dame" in primo piano, si mette a cantare Fratelli d´Italia e al momento di "siam pronti alla morte" strizza l´occhio alle telecamere e fa così così con la mano. La curiosità è di indovinare come Spadolini avrebbe giudicato le tante invocazioni auto-messianiche, la rivendicatissima "lucida follia" del Cavaliere o la promozione a ministro di una ex starlette come Mara Carfagna. L´interrogativo è come il grande Giovanni Ansaldo, l´autore de "Il vero signore", avrebbe descritto l´invasione della cosmetica nella vita pubblica o la dislocazione delle giovani e sospette figuranti interinali sotto le volte posticce della Nuova Fiera di Roma.
Detta altrimenti: il sospetto è che con il proverbiale colpo di spada Berlusconi abbia definitivamente tagliato i legami che da anni e anni in Italia tenevano assieme il potere con i canoni stilistici e comportamentali cosiddetti "borghesi": misura, riserbo, ipocrisia, rispetto delle regole, pudore dei propri sentimenti, diffidenza per tutto ciò che fa rumore e spettacolo. L´ipotesi è che si tratti di un leader ormai compiutamente extra-borghese o forse addirittura anti-borghese.
E dunque: bisognava vederlo, ieri mattina, annunciare alla platea il suo personale e prezioso dono ai delegati, una "carineria", come dice lui, una "speciale edizione in carta pergamena", proclamava radioso, un incredibile codice miniato che riproduceva il discorso audiovisivo della discesa in campo � e che poi il Cavaliere ha puntualmente declamato al congresso auto-ri-citandosi per quattro buoni minuti. Ecco, fa un certo effetto anche solo immaginarsi cosa avrebbe scritto a proposito della finta pergamena il fondatore del Borghese, Leo Longanesi. Nel 1953 questi pubblicò un libro dall´interrogativo titolo: "Ci salveranno le vecchie zie?", intese queste ultime come l´emblema e le custodi di un mondo fatto di compostezza, parsimonia, fedeltà alle cose solide, ben fatte, per nulla appariscenti. E se la faccenda può sembrare estranea al dibattito politico e ai destini del Pdl, beh, non lo è tanto perché le vecchie zie accompagnano la vita del potere, e Andreotti per dire ne aveva una, la celebre zia Mariannina, che da bimba aveva vissuto addirittura la presa di Roma da parte dei piemontesi traendone il seguente e andreottianissimo insegnamento: "Tutto si aggiusta". Bene: neanche a farlo apposta, pure il Berlusconi aveva diverse vecchie zie, alcune anche suore, altre, sembra di ricordare, formidabili pasticcere. Ma soprattutto ce n´era una, di nome Marina, appunto anziana e non molto avvenente, che un giorno imprecisato il futuro presidente sorprese con un abito a fiori davanti a uno specchio che si accarezzava dicendo: "Come sei bella! Come sei bella!". Al che: "Ma, zia, che fai?". E lei, di rimando: "Ora che nessuno me lo dice più, me lo dico da sola".
Ebbene, il turbo-narcisismo ottimistico-consolatorio della zia berlusconiana a suo modo dice parecchio sulla rottura con i costumi e gli atteggiamenti tradizionali della destra, ma forse altrettanto sulla fondazione del primo partito carismatico dell´era repubblicana. Un´autocrazia che si riconosce nei "tanti nostri meriti", nell´"altissima qualità della nostra classe dirigente" per cui "io vi nomino tutti missionari di libertà", e adesso venite qui con me a cantare, e mi raccomando, "le nostre dame in primo piano!". Sovrano acclamato con tanto di ratifica notarile visibile in led e pixel sui mega schermi della conclusa transizione italiana. Un re rivoluzionario populista e plebiscitario, l´ennesimo scherzetto della storia, che sempre insegna d´altra parte a diffidare degli slogan risonanti nelle piazze: "Fascisti, borghesi, ancora pochi mesi!". Ecco, ci volevano in realtà diversi anni, ma visto dal congresso del Popolo della libertà l´esito, più o meno, è proprio quello lì.
Repubblica 30.3.09
La società decisionista che piace al Cavaliere
di Edmondo Berselli
Nonostante le allegre foto di gruppo, il coro, l´Inno alla gioia, il congresso di fondazione del Pdl non è stato soltanto una cerimonia.
Al termine di un cammino cominciato un anno e mezzo fa con il discorso del predellino, la destra ha effettivamente cambiato pelle. L´unione di Fi e An cambia nel dna il "partito dei moderati" e ora occorre fare i conti con l´entità politica nuova. Il problema è se oltre alla pelle è cambiato anche il corpo, ossia se dalla confluenza nasce una destra moderna o no.
In sintesi. Il Pdl ha visto confermarsi un vistoso dualismo al suo interno, che prelude già a una complessa linea di successione tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini; a ques´ultimo, il premier non ha offerto nessuna risposta sulle questioni più brucianti, a cominciare dai dilemmi di laicità sul biotestamento. Si sono manifestate infatti fra i due leader differenze di concezione così esplicite che si faranno inevitabilmente sentire all´interno del partito anche nel prossimo futuro. Ma l´aspetto più importante è un altro: il Pdl non è più la forza liberal-modernista, fondata sugli «istinti di mercato» e sugli slanci di vitalismo libertario a cui si rifaceva il primo Berlusconi.
Il Pdl è oggi una realtà tutta da interpretare. Nei suoi due discorsi congressuali, probabilmente Silvio Berlusconi ha perso l´occasione di presentare un progetto moderno per la società italiana. Come nei momenti di ispirazione più fiacca si è concentrato sui dettagli, talvolta sfidando il grottesco (come per l´attenzione all´ambiente, «che comincia dal non lordare i muri dei nostri palazzi»). Tuttavia è stato chiarissimo su alcuni aspetti cruciali, che riguardano essenzialmente la nuova concezione ideologica del Pdl. Il nuovo partito è «il partito degli italiani». La formula è rivelatrice e, a suo modo, preoccupante. Perché testimonia ben più che una intenzione maggioritaria, annunciata con il riferimento euforizzante all´obiettivo del 51 per cento.
Sotto questo aspetto, il ripetuto richiamo alla «rivoluzione liberale» è un esercizio retorico. L´etichetta «partito degli italiani» disegna un perimetro al di fuori del quale sembra non esserci legittimità pubblica. All´esterno del Pdl, nel grigiore di una «sinistra senza volto», secondo Berlusconi ci sono oppositori a cui non si riconosce una dignità politica sufficiente per un confronto sulle «missioni» del governo e della maggioranza, a cominciare dal rifacimento dell´impianto costituzionale.
La definizione «partito degli italiani» appare infelice proprio perché segnala una volta ancora l´orientamento ultraideologico del berlusconismo. Nel 1994 Berlusconi prometteva «un nuovo grande miracolo italiano»; oggi evoca il miracolo vicario di uscire dalla crisi. Tuttavia la formula della salvezza è sempre la stessa: il premier traccia una linea che esclude, dal buonsenso, dalla democrazia, e in ultimo dall´italianità, la metà del paese.
Da un lato ci sono gli italiani legittimati dal consenso al Pdl, dall´altro i nemici della libertà, e tutti coloro che non accettano di essere complementari al disegno di potere del premier. C´è da augurarsi che la missione di uscire dalla crisi economica abbia successo, altrimenti una minoranza «che come ha detto Tremonti fa opposizione non al governo ma al paese» potrebbe benissimo essere accusata di sabotaggio alla nazione.
Nella sua opacità democratica, l´idea del «partito degli italiani» ha una certa forza perché prospetta una soluzione permanente ai rischi dell´instabilità politica. Anzi, rappresenta un concetto fondante, in quanto comincia a rendere visibili i tratti politici, e anche socio-economici, del Pdl. L´idea di Berlusconi consiste nel costituire un blocco sociale integrato, in cui gli interessi si coordinano costituendo un assetto di potere permanente, praticamente inscalfibile.
Quindi Berlusconi prova a consolidare il suo regime. Quali siano gli interessi che il premier sta intrecciando nel suo progetto di stabilizzazione lo ha ricordato ieri Eugenio Scalfari: «Le partite Iva, le piccole imprese, il lavoro autonomo, le clientele del Sud e delle isole, i disoccupati e i giovani in cerca di lavoro». Ma non viene a nessuno il sospetto che non ci sia niente di autenticamente liberale in tutto questo? L´egemonia a cui punta Berlusconi tenta di rendere non contendibile il potere in Italia; ma soprattutto precostituisce un ordine sociale in cui gli interessi citati sono resi complementari, in un modello evidentemente organicista.
Non si sentono obiezioni, in proposito, da parte dei liberali di casa nostra. Nessuno che dica che il disegno berlusconiano rievoca una società premoderna, basata su un´architettura corporativa, in cui le membra del corpo sociale cooperano sotto la guida del leader. Il Pdl non è l´ingresso nella modernità, è un´esperienza che affonda le radici nel «pensiero italiano», in un Novecento chiuso e corporativo, per non dire altro.
La società decisionista che Berlusconi vuole è eclettica: unisce conservatorismo compassionevole e sbrigative modernizzazioni dall´alto, il tutto garantito dalla mobilitazione continua del popolo e dalla benevolenza lungimirante, dalla «lucida follia», del capo. In quanto tale rappresenta un´evoluzione profonda nella qualità democratica italiana. Prelude a una democrazia sotto tutela, governata con un chiaro accento paternalistico. Prima che l´ascesa di Berlusconi verso il 51 per cento abbia successo, tocca alla sinistra tenere vivi gli anticorpi istituzionali e, ebbene sì, liberali del sistema; e per il momento almeno la possibilità di una dialettica che eviti di bloccare per un altro quarantennio, un altro ventennio, insomma per un´altra fastidiosa eternità, il potere in Italia.
Repubblica 30.3.09
"Ho fatto un mutuo per diventare mamma" boom di viaggi all´estero
Fecondazione, domani decide la Consulta
Nel 2008 diecimila coppie italiane sono "emigrate" per poter fare un bambino
I ricorsi contro la legge 40 che per alcune associazioni non tutela il diritto alla salute
di Caterina Pasolini
ROMA - Un bambino a rate. Sognato, desiderato tanto da ritrovarsi a ipotecare la casa pur di continuare a sperare di diventare genitori, tanto da chiedere un mutuo o un prestito come Barbara per cercare oltre confine di realizzare il desiderio di «un figlio che possa vivere. Senza la condanna della mia malattia. E siamo sempre di più quelli costretti ad emigrare, a fare i debiti perché in Italia, nonostante medici bravissimi, non sarebbe stato possibile. Perché la legge 40 non rispetta la Costituzione, il diritto alla salute, all´eguaglianza». Lo dice Barbara. Veneta volitiva che dopo diverse trasferte in Spagna si balocca a turno col marito la sua piccolina. Lo dicono ora - dopo quelle di Firenze e del Tar Lazio - anche altre due ordinanze del tribunale di Milano che sollevano dubbi sulla Costituzionalità della legge che «non rispetta la dignità e non tutela la salute». Dando ragione ai ricorsi presentati dalle associazioni Sos Infertilità, Hera e Cittadinanza Attiva che danno voce a migliaia di coppie costrette a costose trasferte.
Come Fabio e Laura, impiegati milanesi che dopo 16 tentativi adesso spesso non dormono per i vagiti di Luca ma anche per il muto ipotecario sulla casa, che hanno dovuto fare per pagarsi le trasferte della fecondazione assistita.
Come loro più di 10mila coppie italiane nel 2008, secondo le associazioni, si sono rivolte alle cliniche straniere - dalla Spagna alla Repubblica Ceca - dove la diagnosi pre-impianto, la fecondazione eterologa, la conservazione degli embrioni sono legali. A differenza del nostro Paese dove la legge 40 le vieta o le rende «praticamente inutili», spiega il professor Nino Guglielmino del centro Hera di Catania.
«Per chi ha malattie genetiche come la talassemia o la fibrosi cistica la diagnosi pre-impianto è l´unica via per sperare di avere figli sani. Ma la legge consente al massimo la creazione di tre embrioni, numero troppo basso per diagnosi statisticamente utili, e in più vieta di congelarli, obbligando le donne a più bombardamenti ormonali, e poi prevede di impiantarli tutti, anche quelli malati. Con la «libera scelta» di fare poi un aborto terapeutico al terzo mese, aggiungendo dolore al dolore», scrive Anna sui blog delle associazioni che si battono per cambiare la legge. Anche a furia di ricorsi, come quelli già vinti contro la 40: «ingiusta, incostituzionale che non rispetta la salute, l´eguaglianza, il diritto di scelta», sottolinea Filomena Gallo di Amicacicogna.
Quando in primavera è uscita la sentenza del Tar Lazio che autorizzava la diagnosi pre-impianto molte coppie hanno atteso. Poi l´esodo è ricominciato, più intenso. «Sono persone con malattie genetiche o donne sterili che non se la sentono di fare bombardamenti ormonali a rischio della salute, producendo magari 30 ovuli che non verranno fecondati perché la legge prevede un massimo di tre e vieta il congelamento degli embrioni», spiega Rosella Bartolucci, madre di due gemelli e presidente di Sos infertilità che ha raccolto dati e storie dei viaggi della speranza.
Viaggi sempre più numerosi. Tanto che, ricorda il professor Andrea Borini, presidente dell´Osservatorio del Turismo Procreativo, «grazie alle limitazioni della nostra legge i centri esteri proliferano e hanno aperto 40 siti web in italiano visto che, dalle mille richieste del 2001, nel 2006 erano già 4.200 le coppie in trasferta». E l´anno scorso in una sola clinica a Barcellona hanno trattato mille donne italiane.
Esodo a prezzi variabili: dai 3.000 ai 9.000 euro. Troppo spesso, denunciano le associazioni, senza ricevute. E c´è chi come Silvia ne ha fatti 16 prima di conoscere suo figlio. Anche lei aspetta con ansia il 31 marzo. Domani la Corte Costituzionale deciderà se la legge 40 viola "il diritto alla salute, alla libertà di cura, all´eguaglianza» stabiliti dai padri della patria. «Perché noi non cerchiamo un figlio perfetto, su misura, ma un figlio che abbia una speranza», dicono Fabio e Silvia, portatori sani di atrofia muscolare spinale.
Repubblica 30.3.09
Una lettera inedita del '44. Il poeta non apprezzò le critiche all´Urss
Eliot: Orwell non va pubblicato
LONDRA. La storia della letteratura mondiale abbonda di grandi romanzi bocciati da editori poco lungimiranti, e poi fortunatamente pubblicati lo stesso, ma il caso rivelato ora in Inghilterra merita forse il titolo di bocciatura del secolo. Quello scorso, ovviamente: nel 1944 il poeta T.S. Eliot, che all´epoca lavorara per la Faber & Faber, una delle più prestigiose case editrici britanniche, respinse il manoscritto di La fattoria degli animali, la celebre allegoria del comunismo, scritto da George Orwell, destinato a diventare il più famoso scrittore di fantapolitica del suo tempo. «Poco convincente», lo liquidò Eliot, pur ammettendo che era «ben scritto» e apprezzandone «la fondamentale integrità». Ciò che non gli andava, tuttavia, era la visione politica del romanzo, una feroce satira dello stalinismo e dell´Unione Sovietica: in un momento in cui il Regno Unito era alleato dell´Urss nella guerra contro Hitler, il poeta trovava l´apparizione di un libro simile politicamente scorretta, per usare un´espressione odierna.
«Non siamo convinti che questo sia il corretto punto di vista da cui criticare la situazione politica corrente», osservava Eliot nel giudizio editoriale con cui veniva respinto il manoscritto. «La visione politica espressa, che a mio parere si potrebbe definire trozkista, non ci convince». Il poeta entrava poi nell´analisi speficica del romanzo, ambientato in una fattoria i cui animali, sfruttati dal padrone, decidono di ribellarsi e instaurare una loro democrazia, con una rivoluzione capeggiata dai maiali che ben presto degenera in una tragicomica dittatura. «Dopo tutto, i suoi maiali sono di gran lunga più intelligenti degli altri animali, e dunque i meglio qualificati per dirigere la fattoria», scriveva Eliot a Orwell. «In effetti non ci sarebbe nemmeno stata una fattoria senza i maiali, cosicché ciò di cui ci sarebbe bisogno, potrebbe sostenere qualcuno, non è una maggior dose di comunismo, ma maiali animati da migliori intenzioni».
Il libro fu poi pubblicato l´anno seguente da Secker & Warburg, un altro editore londinese, e diventò gradualmente un classico, seguito dall´altra satira del comunismo scritta da Orwell, ancora più amara, 1984, apparso nel 1948. Lo scrittore, a lungo militante di sinistra, aveva partecipato alla guerra civile spagnola a fine anni Trenta, tornandone però con posizioni di dura critica verso il partito comunista spagnolo e verso l´Urss, accusati di avere distrutto la sinistra anarchica, così favorendo involontariamente la vittoria dei falangisti di Franco. Eliot, nato negli Stati Uniti e poi diventato cittadino britannico, è morto nel 1965. La sua bocciatura di La fattoria degli animali è stata rivelata dalla vedova, Valerie, sua seconda moglie, oggi 81enne, con cui si sposò nel 1957, nonostante fosse più vecchio di trentotto anni. La lettera fa parte di documenti inediti sul poeta forniti alla Bbc per un documentario che andrà in onda questa estate.
Corriere della Sera 30.3.09
Dopo la sfida del presidente della Camera
Fine vita, Bondi apre. E i laici: ora si cambi la legge
ROMA — Alla bocciatura di Fini della legge sul testamento biologico votata dal Senato (è degna di uno «Stato etico») Berlusconi nel suo discorso non replica in alcun modo. D'altra parte, come commenta il capogruppo alla Camera del Pdl Cicchitto, è giusto che sia così, perché serve «cautela» nel trattare un tema così delicato, serve «tempo» e servono «approfondimenti», perché le divisioni ci sono e alla Camera la pattuglia dei «laici» è consistente e agguerrita. Se Berlusconi non si espone, lo fa però Sandro Bondi: «C'è in me la consapevolezza che è la sfera politica che deve ricercare una mediazione. E io credo che ferma restando la proibizione dell'eutanasia, quando tuttavia l'alimentazione o l'idratazione significhi accanimento o irragionevole ostinazione, debba scattare la libera volontà del paziente». La sferzata di Fini insomma ha colpito nel segno. E infatti se ne rallegrano i laici come Benedetto Della Vedova: «Ho sempre detto che alla Camera almeno una cinquantina di deputati del Pdl avrebbero votato no al testo Calabrò, oggi ne sono ancora più convinto: da Montecitorio uscirà una legge molto diversa». Ci spera Margherita Boniver, che pure preferirebbe che una legge non ci fosse proprio: «Sono certa che qui alla Camera si arriverà a una mediazione, Fini è stato importante». «Non si può certo ignorare l'esistenza di una grande parte di elettori laici nei confronti dei quali abbiamo l'obbligo di cercare una mediazione tra il testo uscito dal Senato e l'esigenza di garantire la libera scelta dell'individuo», ragiona Chiara Moroni.
Mentre già echeggiano le proteste dei cattolici più estremi: «Alla Camera — avverte Alfredo Mantovano — il ddl può essere reso ancora più chiaro: la gran parte dei deputati del Pdl è orientata per la tutela della vita». Con lui si schiera buona parte della vecchia An, da Gasparri ad Alemanno, ma anche un ex socialista come Sacconi, mentre altri ministri come Matteoli, Brunetta e la Prestigiacomo sono sulla linea di Fini. In attesa che qualcuno tiri fuori dal cilindro la soluzione che fin qui non si è trovata. E che secondo i maliziosi è una sola: infilare il ddl in un cassetto, e dimenticarlo lì.
P.D.C.
Corriere della Sera 30.3.09
Dialoghi L'epistemologo e lo scienziato discutono del rapporto tra nuovi costumi sociali, determinismo biologico e libero arbitrio
Un piercing contro la tirannia dei valori
Giorello: «È un segno per opporsi all'estetica di Stato». Boncinelli: «No, è conformismo»
di Edoardo Boncinelli e Giulio Giorello
Boncinelli — Se facciamo un passo indietro nella storia dell'umana avventura, riscontriamo periodi lunghissimi in cui l'individuo era ben poco libero, perché pesava su di lui una grande quantità di vincoli propriamente materiali, oltre a essere costretto dal sovrano, dalle leggi del Paese, dalla necessità di lavorare quindici o più ore al giorno. La situazione è cambiata, almeno nelle aree più sviluppate, e quindi le costrizioni sono meno materiali di una volta. Insomma, rischi di meno di essere sequestrato in casa tua come in un carcere; ma puoi ancora autosequestrarti! Non stiamo constatando un aumento di conformismo persino nelle nostre società aperte, libere e democratiche? Uno degli aspetti che più mi infastidiscono è che tutti parlano degli stessi argomenti magari usando anche parole identiche: è un conformismo strisciante, subdolo, e pure spesso difeso con le unghie e con i denti, un vero «conformismo militante», perché molti non ne sono neanche consapevoli. Non è una novità, visto che nel secolo che si è appena concluso qualcuno ha battezzato fuga dalla libertà l'impulso che ti respinge nel gregge. (...) Se considero quante persone si lasciano trascinare dalla corrente, mi rendo conto di come il fenomeno sia capillare. Pensiamo a quante coppie si sono reciprocamente rovinate grazie all'idea di una falsa uguaglianza, al principio per cui bisognava prima affermare certi valori e poi viverli, che il privato fosse pubblico ecc. Guardiamoci da quegli utopisti che predicano l'emancipazione dai vincoli sociali e poi sono i primi a opprimere coloro che non pensano come loro vorrebbero!
Giorello — Ma questa perversa deriva è, per me, solo un caso particolare di quella che è stata chiamata «la tirannia dei valori». In una delle sue più provocatorie riflessioni il giurista tedesco Carl Schmitt ha mostrato come questo tipo di dispotismo «non faccia che fomentare e inasprire l'antica, perdurante lotta delle convinzioni e degli interessi». L'elevare una convinzione o un interesse a «valore», infatti, finisce col giustificare qualunque mezzo per instaurare l'autentico «regno dei fini», il che fa della nostra Terra quel «paradiso dei valori» che non è altro che l'inferno per le persone in carne e ossa.
Boncinelli — Sui valori avrei veramente tanto da dire. Un mio aforisma suona così: «I valori sono cose sulle quali non si discute, o non si discute più». Un altro: «I valori sono i padri nobili di tutte le guerre». Questo è connesso con il famoso problema dell'autenticità, che è stato sollevato in sede filosofica, ma a cui si è attinto a piene mani in sede psicoanalitica. Quante volte ho sentito psicoanalisti più o meno capaci accusare qualcuno, in particolare un paziente, di non essere «autentico». Che bella frase, e come suona bene! Richiama il precetto delfico e socratico Conosci te stesso.
Ma quello che mi chiedo è: chi può mai sapere quale sia la mia «vera» autenticità? Forse, c'è qualcosa nel nostro animo che, come dire, ci spinge ad autoincatenarci, almeno ideologicamente, visto che esserlo materialmente non sembra piacere a nessuno. Non ci dimentichiamo, però, che i ragazzi di oggi si riempiono di
piercing per propria scelta quando, se la stessa cosa fosse stata loro imposta dallo Stato, avrebbero fatto una rivoluzione con le unghie e con i denti.
Giorello — Non amo particolarmente il
piercing, ma vorrei spezzare una lancia in difesa di quei ragazzi, o meglio in difesa della loro insofferenza per un'estetica di Stato. Del resto, persino un piacere talmente «vizioso» come, poniamo, il whiskey diverrebbe una costrizione se imposto dallo Stato... Il male è che, talvolta, come nel caso del proibizionismo Usa del secolo scorso, l'autorità si guarda bene dall'imporre il whiskey, semmai lo vieta. Chissà se è peggio il vizio imposto o la virtù coatta.
Boncinelli — Tu vorresti sempre meno divieti e sempre meno imposizioni. Non sei troppo ottimista?
Giorello — Niente affatto! Vorrei commentare insieme con te la principale obiezione che già Spinoza si sentiva rivolgere. La illustro ricordando una vignetta statunitense ormai celebre. L'avvocato difensore di un assassino portato di fronte al giudice proclama: «Il mio cliente è innocente! Ha ucciso, sì: ma non ha ucciso perché lo volesse, ha ucciso perché è un aggressivo e la sua biologia è di un certo tipo». Potremmo mettere al posto di biologia
che so io educazione infantile o i traumi che ha subito fino a tre anni, e la cosa non cambia. Se per bocca del suo avvocato questo signore rinuncia alla propria libertà, non è più responsabile, e allora perché non assolverlo? Magari non per rimetterlo in libertà, ma per confinarlo in una qualche casa di cura. E procedendo in questo modo, a che cosa si arriva? Si paga con una rinuncia alla libertà il cadere sempre in piedi, l'essere «socialmente perdonato». Viceversa, se uno rivendica la propria libertà, deve anche pagare il fio della propria responsabilità.
Boncinelli — Considerare un individuo responsabile delle sue azioni significa ritenerlo veramente libero. Se aumenti il numero delle scusanti, riduci di fatto la libertà.
Giorello — Non c'è libertà senza responsabilità. Lo possiamo assodare senza invocare il libero arbitrio. Ma alcuni ne propongono una concezione performativa: se noi crediamo nel libero arbitrio, allora ci comportiamo da persone libere.
Boncinelli — È quella che studiosi statunitensi chiamano anticipazione determinante:
se io penso una cosa, mi comporto in una certa maniera per soddisfare a quello che ho pensato.
Giorello — Io, invece, non ritengo che sia il credere nel libero arbitrio a renderci liberi. Ci rende liberi a livello osservativo, dal di fuori,
semplicemente l'assunzione di responsabilità. Siamo, ovviamente, «determinati» (nel mio senso) a questo gesto, o al suo contrario — la ricerca delle scusanti o magari la pratica «papista » della confessione. Che bravi questi «pensatori », ossequiosi dell'istituzione nota come Chiesa cattolica romana, che teorizzano insieme il siamo tutti peccatori e il basta che io mi penta e vado via «assolto»!
Boncinelli — Sotto questo profilo la dottrina che ci vede tutti inesorabilmente come dei peccatori è esiziale; se mi ritengo schiavo di Satana, ho una scusante «interna» per comportarmi male. Quindi, la teoria del peccato inevitabile e tentatore è una concezione non propulsiva, ma frenante. Se mi considero libero, invece, mi comporto un po' meglio.
Corriere della Sera 30.3.09
Rosario Villari racconta il suo 1956
Budapest in fiamme e Stalin a Posillipo
di Paolo Franchi
«Ti devi chiavare 'n capa, ti devi mettere bene in testa, che, quando a Mosca decidono una cosa, decidono la cosa giusta». In bocca a Salvatore Cacciapuoti, segretario nei plumbei anni Cinquanta della federazione comunista napoletana, l'affermazione non suona troppo sorprendente: Caccia è fatto così, la sua concezione del partito è questa, e i compagni che non lo sapevano hanno avuto modo di impararlo a loro spese. Ma Rosario Villari, all'epoca giovane storico, redattore della rivista Cronache meridionali (direttori Giorgio Amendola, Mario Alicata e Francesco De Martino), nonché membro del comitato federale di Napoli, resta di stucco lo stesso: quella che Cacciapuoti gli sta notificando in forme così colorite è l'espulsione dal partito. E la sua sorpresa e il suo smarrimento aumentano quando apprende che a Bologna anche un altro giovane studioso destinato a un brillante futuro nel Pci, Renato Zangheri, è nei guai. Adesso, a fargli tornare alla memoria la vicenda è stata la visione di Pane e libertà, la fiction su Giuseppe Di Vittorio diretta per la Rai da Alberto Negrin, in cui si narra anche del duro scontro tra il grande sindacalista pugliese e Palmiro Togliatti nei giorni della rivolta ungherese del 1956. Il 26 ottobre, mentre a Budapest si combatte, la segreteria della Cgil, in un comunicato, ravvisa in quella tragedia «la condanna storica e definitiva di metodi antidemocratici di governo e di direzione politica che determinano il distacco tra dirigenti e masse popolari», e deplora l'idea stessa che se ne possa venire a capo con un intervento militare. Con ogni probabilità, a prendere l'iniziativa sono i dirigenti socialisti della Cgil, ma certo Di Vittorio la fa subito propria: il giorno successivo, in una dichiarazione, rende noto che quel giudizio è anche il suo, perché in Ungheria «non ci sono forze di popolo che richiedono il ritorno del capitalismo o del regime di terrore fascista di Horthy». È l'esatto opposto di quel che sostiene il gruppo dirigente del Pci, convinto che, di fronte alla controrivoluzione, occorra stare «da una parte della barricata», come recita il titolo di un celebre editoriale di Pietro Ingrao sull'Unità. «Come si può solidarizzare — dirà Togliatti in polemica con Di Vittorio — con chi ci spara addosso, e mentre si cerca di creare una grande ondata reazionaria »?
Cresce, nel Pci, il dissenso, soprattutto tra gli intellettuali. A Roma, è in programma un convegno di storici presso l'Istituto Gramsci. Secondo la ricostruzione di Albertina Vittoria ( Togliatti e gli intellettuali. Storia dell'Istituto Gramsci negli anni Cinquanta e Sessanta, Editori Riuniti, 1992) alcuni, tra i quali Ernesto Ragionieri, Saverio Francesco Romano e gli stessi Villari e Zangheri, decidono di fare appello a Di Vittorio perché si rechi subito a Budapest. Ma Villari ha ricordi un po' diversi: «Zangheri e io chiedemmo al partito, senza tanti giri di parole, di fare propria la posizione di Di Vittorio. E probabilmente l'espulsione arrivò anche perché della nostra richiesta dette notizia Il Giorno ».
E Villari come la visse, l'espulsione dal Pci? «Capisco che la cosa possa apparire strana, ma, almeno nel mio caso, non ci fu alcun ostracismo, e non ci furono nemmeno particolari conseguenze. Nel senso che, Cacciapuoti a parte, nessuno, né Amendola né Giorgio Napolitano né Gerardo Chiaromonte, mi disse nulla in proposito. La mia vita non cambiò. La mattina andavo in biblioteca, all'una mi vedevo con Chiaromonte, che era il direttore responsabile di Cronache meridionali, in una rosticceria vicino piazza Municipio, Pizzicato, io per mangiare un boccone, lui peperoni ripieni. Poi Chiaromonte se ne tornava nella sede della federazione comunista, e io in biblioteca a lavorare. Verso le sei del pomeriggio, me ne andavo esattamente come prima in via Carducci, nella libreria di Gaetano Macchiaroli, il nostro editore, per lavorare alla rivista. Cronache meridionali, in pratica, la facevamo tutta Chiaromonte e io, perché Amendola, Alicata e De Martino, i direttori, non si vedevano quasi mai. L'espulsione non mise fine a questa esperienza molto bella in una Napoli che a quell'epoca era davvero, e non solo ai miei occhi di calabrese, una capitale: debbo in gran parte al lavoro di quegli anni uno dei miei libri a cui tengo di più, Il Sud nella storia d'Italia ».
Qualche anno dopo Villari viene riammesso nel partito: senza clamori, proprio come quando era stato espulso. «Mi arrivò per lettera l'invito a seguire i lavori del congresso, e ne fui piacevolmente stupito. Ma restai più stupito ancora quando, al congresso, mi chiamarono alla presidenza. Come se non fosse successo nulla».
Repubblica 29.3.09
Meno male che c'è Fini
di Eugenio Scalfari
Era stato concepito come un congresso-show e così si è svolto, ma sarebbe grave errore interpretarlo solo come un evento mediatico. Il Popolo della libertà ha ancora l´apparenza d´un partito di plastilina, malleabile e manipolabile con facilità, ma ha un´armatura di ferro costituita da interessi largamente diffusi nella società italiana: le partite Iva, le piccole imprese, il lavoro autonomo, le clientele del Sud e delle isole, i disoccupati e i giovani in cerca di lavoro. A suo modo è un blocco sociale che crede di aver trovato la sua rappresentanza e la sua tutela nel carisma berlusconiano.
Lo show fa parte della rappresentazione, serve a celebrare il Capo che oggi sarà incoronato; ha anche i suoi aspetti impietosi che rivelano lo spirito del luogo. Uno di tali aspetti l´abbiamo colto nell´esibizione dei quattro giovani che hanno parlato in apertura del congresso. Non tanto per i discorsetti che hanno letto quanto per i gesti di commento del Capo seduto in platea. Quando uno di essi l´ha chiamato eroe lui ha alzato il dito pollice in segno di euforica approvazione e di nuovo l´ha alzato quando un altro ha aggiunto che tutto quanto di buono è stato fatto in Italia lo si deve soltanto a lui. Il giorno dopo, durante il discorso di Fini nei suoi passaggi più dissenzienti, la maschera del Capo era del tutto diversa: un sorriso-smorfia gli increspava le labbra e il teleschermo diffondeva quell´immagine di evidente fastidio che le parole del presidente della Camera gli suscitavano.
Intanto la colonna sonora dello show passava dall´inno di Mameli all´inno alla gioia beethoveniano per affidare alla canzone "Meno male che Silvio c´è" la conclusione della sigla musicale.
Un´altra osservazione, per restare ancora sullo show: nella grande platea predominavano le bionde e nelle primissime file i giovani e le giovani di bell´aspetto perché al Capo piacevano così e così è stato fatto. Alcune (attendibili) malelingue dicono che per esaurire in modo conveniente i 56 posti a sedere di ogni fila, gli organizzatori siano anche ricorsi ad appositi centri di ricerca di figuranti e comparse, ma forse non è vero.
Ci sarebbe molto altro materiale per irridere, ma sarebbe inadatto a commentare un congresso serio e importante; perciò cambiamo registro.
La prima conclusione da trarre contrasta con quanto dicono alcuni attendibili sondaggi circa la durata del nuovo partito quando il suo leader non sarà più Silvio Berlusconi. Quei sondaggi dicono a forte maggioranza che il partito si dissolverà, non sopravviverà al suo fondatore. Ma a noi sembra sbagliato. La fusione con Alleanza nazionale non gli porta idee diverse con le quali confrontarsi, ma gli porta una prospettiva di durata che va oltre la sua leadership. Questo sì, è il plusvalore che Forza Italia, se fosse rimasta sola, non aveva. An è meno liquida di Forza Italia, perciò ha maggior resistenza al trascorrere del tempo e questo è il valore aggiunto di questa fusione.
Perciò, quale che sarà il leader che verrà dopo Berlusconi, il partito nato oggi ci sarà ancora per lunghi anni e non sarà facile smontare il blocco sociale che intorno ad esso si è coagulato. In altri tempi l´abbiamo creduto ma oggi crederlo ancora sarebbe profondamente sbagliato. La sinistra si dovrà confrontare a lungo e seriamente con questa realtà a cominciare da subito se ci riuscirà.
* * *
La parola popolo è stata quella più pronunciata nei vari interventi congressuali e soprattutto nel discorso di apertura del premier. Il quale ha fatto di quella parola il pilastro della sua concezione politica e istituzionale. Il popolo sovrano esprime il leader. Nel caso nostro è piuttosto il leader che ha costruito politicamente quel popolo, questo merito (o demerito) gli va onestamente riconosciuto.Tra il popolo e il leader non ci sono intermediari e se ci sono vanno spazzati via o conservati come semplici simboli senza funzioni.
Il popolo si esprime plebiscitando il leader e votando per il suo partito e instaura in Parlamento, nelle Regioni, nei Comuni, la legittima dittatura della maggioranza che è lo strumento tecnico per trasformare in norme giuridiche e atti di governo le decisioni del Capo.
Nel suo discorso di apertura Berlusconi ha fatto un elenco dei valori comuni a tutto il Popolo della libertà. Il primo valore è, ovviamente, la libertà stessa. Il secondo la modernizzazione. Il terzo la meritocrazia. Il quarto l´identità nazionale a formare la quale entrano in gioco il mito della romanità, i Comuni e le Repubbliche marinare del medioevo, il Rinascimento, il Risorgimento, De Gasperi e ovviamente la Chiesa, Craxi e infine lui, il nuovo eroe (scusate se torno ad usare questa parola ma essa fa parte integrante della sostanza della concezione politica berlusconiana).
In quel lungo discorso di 90 minuti manca del tutto una menzione. Si parla di libertà, si parla di democrazia, si parla di Costituzione, si parla di giustizia sociale, ma non una menzione e neppure il concetto della divisione dei poteri. Cioè di stato di diritto. Cioè di controllo. I poteri di controllo politico del Parlamento. I poteri di controllo costituzionale del Capo dello Stato e della Corte. I poteri di controllo di legalità della magistratura.
Neppure un cenno alla natura indipendente di tali poteri. Si parla invece diffusamente del potere sovraordinato del leader scelto dal popolo di fronte al quale tutti gli altri debbono essere subordinati, rotelle d´un ingranaggio, o debbono scomparire perché inutilmente lenti, frenanti, ostacolanti, incompatibili con la cultura del fare.
Il fare non è un obbligo, è inerente alla vita di ciascuno, il fare costituisce il senso stesso della vita. Una vita inerte è una non vita. Non è dunque una cultura, quella del fare, ma un fattore biologico come il respiro, il movimento, il desiderio, la speranza. Insomma il senso.
Oppure il fare è una nevrosi, un´egolatria, un´ipertrofia dell´io, che per realizzarsi deve sopra-fare: fare intorno il deserto, sbarazzarsi dei corpi intermedi, di ogni opposizione, di ogni stato di diritto, di ogni organo di controllo. Perciò l´aspirazione e l´evocazione d´un consenso che superi il 50 per cento degli elettori.
Le monarchie di diritto divino, quelle dell´"ancien régime", erano collegate al popolo senza intermediari, in lotta perenne contro i Parlamenti e contro i nobili. Lo Stato faceva tutt´uno col patrimonio del Principe, che riuniva in sé il potere di fare le leggi e di eseguirle oppure di ignorarle a suo piacimento. Le monarchie costituzionali (lo dice la parola stessa) furono tali perché soggette alla Costituzione. Perché la magistratura conquistò l´indipendenza. E i Parlamenti divennero i destinatari delle scelte del popolo sovrano.
Tutto questo per dire che la concezione politica di Silvio Berlusconi fa a pugni con l´obiettivo della rivoluzione liberale da lui indicato come il fine principale del Popolo della libertà.
Ma ci sono altre ragioni per le quali quella rivoluzione non si farà e non s´è mai fatta: gran parte degli interessi agglomerati e rappresentati dal centrodestra sono contrari ad essa così come gli sono contrari gran parte degli interessi rappresentati dalla sinistra. Perciò i tentativi di rivoluzione liberale in questo paese sono sempre falliti. Per il conservatorismo innato nella destra e nella sinistra. Li ha sostenuti soltanto il riformismo nei brevissimi periodi in cui ha governato: nel quindicennio giolittiano del primo Novecento, nella fase riformatrice di De Gasperi-Vanoni, nelle regioni centro-settentrionali guidate dall´egemonia socialdemocratica del Partito comunista e nel triennio prodiano del 1996-´98 abbattuto dalla sinistra.
C´è ancora una pepita di riformismo nel Partito democratico che stenta tuttavia a farne un valore condiviso dai suoi aderenti. Sarà una lotta lunga e dura.
Quella di Berlusconi è più facile perché fa appello ad una costante psicologica degli italiani: l´antipolitica. In nessun paese dell´Occidente l´antipolitica è un sentimento così diffuso e questa è una delle cause che ha ridotto la politica ad un livello poco meno che abietto; è un corpo separato e quindi aggredito e aggredibile da tutte le disfunzioni e da tutti gli inquinamenti.
* * *
Nel secondo giorno il congresso del Popolo della libertà ha cambiato faccia con il discorso congressuale di Gianfranco Fini. Non sembri una sviolinatura al "compagno" Fini, premio di consolazione ai disagi della sinistra, ma è invece un´analisi oggettiva d´un intervento degno di un uomo politico che ormai ha acquisito lo spessore d´un uomo di Stato.Gran parte di quel discorso Fini l´aveva già pronunciata al congresso di scioglimento del suo partito pochi giorni fa, ma averlo ripetuto al congresso del nuovo partito in presenza del suo re incoronato e del suo pubblico devoto e osannante è un atto di coraggio che non si può sottovalutare.
All´inizio ha dovuto bruciare qualche grano d´incenso alla lungimiranza di Silvio, alla perseveranza e alle capacità di Silvio, alla sua lealtà e qualche altro grano di assenzio nei confronti della sinistra, della sua incapacità riformatrice e del suo sguardo perennemente rivolto al passato. (Ma Fini ha voluto dimenticare che vengono dalla cultura della sinistra alcune regole di mercato come la creazione della Consob e dell´Autorità antitrust, l´obbligo di trasparenza delle società quotate in Borsa, la legge sull´Offerta pubblica di acquisto-Opa e infine la massima delle riforme della storia italiana, l´abbandono della lira e l´adozione dell´euro. Non sono fatti che smentiscono le sue affermazioni, onorevole Fini?).
Ma poi è cominciata la parte vera del discorso ed è allora che il volto del Capo si è impietrito nel sorriso-smorfia e la variazione somatica è apparsa anche evidente sui volti dei suoi ex colonnelli di An.
Fini ha detto che il nuovo partito dev´essere pluralista. Che su Berlusconi, capo indiscusso, incombe però il compito di garantire quel pluralismo. Che è necessario intraprendere una riforma costituzionale per instaurare una democrazia governante. Ha insistito tre volte su questo binomio e la terza volta l´ha scandito perché entrasse nella memoria degli ascoltatori. E ne ha spiegato il senso: maggior potere al governo e al premier per governare con la rapidità richiesta dai tempi; ma anche maggiori poteri di controllo democratico al Parlamento. Se non è governante la democrazia affonda, se non è democratica si trasforma in autocrazia. Le due parole stanno insieme o affondano insieme.
Ha parlato del principio di legalità (che Berlusconi non aveva neppure nominato) come dire dello stato di diritto. Ha auspicato che il Partito democratico si riconsolidi ricordando che esso è portatore di valori necessari ad una democrazia compiuta. Ha descritto come sarà l´Italia tra dieci anni, pluri-etnica, pluri-religiosa, pluri-culturale, e quindi la necessità di prepararsi a questi eventi soprattutto nella scuola, nelle norme di integrazione e nel rispetto dei diritti ai quali debbono corrispondere i doveri sia dei cittadini che degli immigrati. Ha ricordato il diritto di esser curati anche per gli immigrati clandestini.
Il finale a sorpresa l´ha introdotto con una citazione latina: «In cauda venenum». E poi: «La legge che avete votato al Senato sul testamento biologico è una cattiva legge, lede i diritti di libertà. So di essere in minoranza su questa questione e sul mio concetto di laicità dello Stato, ma mi auguro che ci ripensiate».
Così ha concluso. Se avesse un Apicella, forse gli scriverebbe una canzone e la intitolerebbe "Meno male che Fini c´è" ma forse lui invece di alzare il pollice, gliela strapperebbe in faccia. O almeno così si spera.
Repubblica 29.3.09
Crescita folle
Parla l´intellettuale francese Alain Minc: non è lotta di classe, ma rabbia populista
"La rivolta arriverà in Italia stipendi e pensioni dei manager hanno raggiunto livelli assurdi"
di Giampiero Martinotti
La finanza è stata folle, ma ha sostenuto una crescita folle Espansioni del 5-6% sarebbero state impos-sibili senza gli eccessi della finanza
PARIGI - Una rabbia populista contro manager che non hanno saputo darsi un comportamento in tempi di crisi si aggira per l´Europa, ma non siamo tornati alla lotta di classe: Alain Minc, intellettuale molto ascoltato nelle stanze del potere francese, ha scritto pochi giorni fa una lettera aperta ai dirigenti francesi per criticare il loro atteggiamento in materia di retribuzioni, stock option e bonus.
C´è chi parla di rabbia populista, chi intravede un ritorno della lotta di classe: cosa c´è dietro il pesante clima sociale di questi giorni?
«Non si può parlare di lotta di classe: non c´è un salariato organizzato, né una classe dirigente omogenea. Mi sembra casomai più giusto parlare di rabbia populista».
Per questo ha fatto un appello ai manager?
«Credo si debba tener conto di un clima psicologico, legato alla crisi più grave degli ultimi cinquant´anni, anche se è meno drammatica di quel che si dice. Le atmosfere sono una realtà politica e bisogna muoversi facendo i gesti necessari, ma non si deve buttar via il bambino con l´acqua sporca. Se la Confindustria francese avesse suggerito a tutti i dirigenti di società quotate di rinunciare per un anno alla parte variabile del loro stipendio e all´emissione di stock option, il problema sarebbe stato risolto, fra un anno la vita sarebbe ripresa come prima. L´incoscienza di alcuni, perlomeno in Francia, è come gettare olio sul fuoco populista».
Perché la crisi è più acuta in Francia?
«Non credo che il clima sociale sia peggiore da noi. In Gran Bretagna la violenza e la rabbia verso alcune persone sono terribili: Fred Goodwin, ex ad della Royal Bank of Scotland, è stato attaccato in casa sua, in Francia le persone chiamate in causa non si sentono fisicamente in pericolo. In Inghilterra si attaccano le persone, da noi i concetti».
Ma nelle fabbriche francesi si sequestrano i quadri dirigenti.
«Non è la stessa cosa. Sono azioni che avvengono quando ci sono impianti che stanno per chiudere: la reazione è deplorevole, non nuova e abbastanza naturale, il che non vuol dire accettabile. Penso invece che se il padronato francese, italiano e spagnolo avessero firmato, come ha fatto quello tedesco, un codice di comportamento che fissa l´atteggiamento verso le ristrutturazioni, il grado di concertazione, la politica di remunerazione, le cose sarebbero state più semplici. In certi frangenti spetta ai manager esprimersi come un gruppo sociale e assumersi un certo tipo di doveri. Si creano molte tensioni lasciando le cose in balia del caso o dei comportamenti individuali».
Ma il loro comportamento non è uguale a quello di prima, non è il frutto di una politica che viene da lontano, ben prima della crisi?
«No. Molte aziende dove si sono manifestate tensioni per le remunerazioni dei dirigenti sono aziende che hanno avuto una gestione sociale eccellente, penso alla Société Générale o a Suez-Gdf. Non si può dire che sono aziende in cui il comportamento dirigenziale è stato arcaico. E non dimentichiamo che non sono presi di mira i tycoon, gli imprenditori capitalisti. Sono invece nel mirino i manager, che possono avere un sovrappiù di stipendio senza il minimo rischio».
D´accordo, ma perché questo tema è così dilaniante proprio in Francia?
«Questo tipo di contestazione arriverà anche da voi: la situazione dei manager italiani è assurda rispetto alle norme europee. Il loro comfort è senza equivalenti in Europa».
A chi si riferisce?
«Non farò nomi, tutto è pubblico nelle società quotate, basta andare a guardare, è il vostro lavoro di giornalisti. In Italia ci sono meno stock options, ma ci sono stipendi assurdi, pensioni deliranti, liquidazioni esorbitanti».
Tutto ciò non è il frutto di un sistema che fino a un anno fa tutti, dico tutti, esaltavano? Stipendi da favola e liquidazioni d´oro non erano la regola?
«Sono stato fra quelli che hanno fissato lo stipendio di Antoine Zacharias, presidente e amministratore delegato di Vinci. Forse ha guadagnato fra i 150 e i 200 milioni, ma il corso di Borsa dell´azienda è stato moltiplicato per dieci, i dipendenti avevano il 14% del capitale e ognuno di loro ha potuto comprarsi una piccola casa con le azioni, l´azienda assumeva ogni anno 5 mila persone. Per me non è un problema che a queste condizioni i manager guadagnino una fortuna».
Gli eccessi della finanza ci sono pur stati: non è per questo che viviamo la crisi peggiore del dopoguerra?
«La finanza è stata folle, ma ha finanziato una crescita folle. Dieci anni di espansione del 5-6% all´anno sarebbero stati impossibili senza gli eccessi della finanza, perché non ci sarebbero stati i soldi per finanziare la crescita. Bisognerà valutare sul medio periodo, ma quando usciremo dalla crisi la crescita mondiale sarà del 3% e sarà rimpianta la finanza folle che permetteva un ritmo del 6%. La vita è fatta così: il sistema bancario è adesso in una situazione di oligopolio controllato dallo Stato e oggi è la risposta adeguata. Fra tre o quattro anni riapparirà il desiderio di una liberalizzazione, perché un sistema finanziario bloccato limita la crescita».
Repubblica 29.3.09
Englaro: la legge è un´offesa alla libertà dei cittadini
FIRENZE - «Più che un´offesa a Eluana, il ddl sul testamento biologico è un´offesa alle libertà fondamentali di tutti i cittadini». Lo ha detto Beppino Englaro durante una conferenza stampa a Firenze, città che domani gli conferirà la cittadinanza onoraria. Il padre di Eluana ha poi usato le parole del presidente della Camera Gianfranco Fini pronunciate dal palco del Pdl per affermare che il ddl sul biotestamento è «più da stato etico che laico». Englaro ha poi replicato all´arcivescovo Giuseppe Betori che aveva criticato fortemente la decisione del Comune (22 voti contro 16) di nominarlo cittadino onorario. «Ho il massimo rispetto per le istituzioni religiose - ha commentato Englaro - ma penso che loro non abbiano il massimo rispetto per me».
Repubblica 29.3.09
Ecco il viaggio alfa l´homo sapiens dall´Africa all´Australia
di Paolo Rumiz
Settantasettemila anni fa iniziò la migrazione più lenta della storia. Fu allora che l´uomo si mise in marcia dal continente nero per arrivare in India e poi, cinquemila anni dopo, in Oceania. Gli scienziati hanno ricostruito quell´esodo in un libro che sembra un thriller. Dove gli indizi sono orme e ossa millenarie
Succede che un giorno in Australia, ai piedi di una bassa cordigliera, nella sabbia di quarzo di un lago asciutto da diciottomila anni gli archeologi trovano resti molto speciali. È il corpo di una donna di vent´anni, cremato, accuratamente sminuzzato, ricoperto di polvere d´ocra e poi sepolto. Gli studiosi non credono ai loro occhi: le ossa hanno sessantaduemila anni, ventimila in più degli uomini delle grotte dipinte di Lascaux in Francia. La più antica cremazione della storia.
Ma l´esame del dna offre altre sorprese. La giovane antenata appartiene alla stessa razza - "homo sapiens" - degli anglosassoni colonizzatori. Niente a che fare con gli scimmieschi australopitechi o con il "neanderthal man" dalla fronte rocciosa. Come gli abitanti di Lascaux, la progenitrice è discendente dei cacciatori che popolarono l´Africa sud-orientale, la "culla della civiltà" dove l´uomo cominciò a dipingere, socializzare, seppellire i morti. E non solo: la sua gente sbarcò in Australia almeno diecimila anni prima che l´uomo nuovo arrivasse in Europa.
Ma se fu l´Africa la Grande Madre, come arrivarono fino in Oceania quegli antenati simili a noi? Come superarono il mare, visto che l´Australia è sempre stata un´isola, anche quando il gran freddo teneva basso il livello degli oceani? Già quarant´anni fa il genetista Luca Cavalli Sforza verificò che il mondo venne colonizzato da discendenti di una singola tribù africana di "homo sapiens", al massimo settecento individui di pelle nera, partiti verso il Mar Rosso settantasettemila anni fa.
Ma il primo grande viaggio dell´umanità non era mai stato rifatto. Ora degli scienziati hanno colmato la lacuna, armati di strumenti di datazione, "carbonio 14", isotopi, mappe genetiche, rivelatori di "termoluminescenza", e delle ultime conoscenze di paleo-antropologia. Per anni hanno seguito le tracce di quelli che andarono verso il sole nascente lungo le coste dell´Oceano Indiano, attraversando il Mar Rosso come gli ebrei, e poi gli stretti di Bab el Mandeb fino al subcontinente indiano e all´arcipelago dell´Indonesia.
Uragani ed eruzioni
Ne è uscito un libro appassionante - The Bone Readers, i lettori di ossa, appena uscito a Sydney e nel Regno Unito - che ripercorre in termini divulgativi quell´emigrazione primordiale durata cinquemila anni e ne segue le tappe in una Terra battuta da uragani, freddi polari e spaventose eruzioni. Uno degli autori è italiano, Claudio Tuniz, del Centro di fisica di Trieste, specialista in datazioni con gli acceleratori di particelle. Con lui, Richard Gillespie, archeologo di Sydney, e Cheryl Jones, giornalista scientifica di antenati aborigeni.
Più che un romanzo è un thriller. Un viaggio dove le vie - per dirla come Chatwin - si svelano non attraverso i "canti" ma attraverso micro-segnali captati dallo stetoscopio di apprendisti stregoni. Un´esplorazione nel tempo, che parte dal capolinea-Australia, terra dove basta grattare per toccare l´età della pietra. Orme umane, come quelle trovate pochi anni fa sul lago Wilandra, a ovest di Sydney. Vecchie di ventimila anni e perfettamente conservate.
All´origine c´è l´Africa, predisse Charles Darwin prendendo atto dell´enorme quantità di scimmie sul "Rift", la frattura nord-sud che taglia l´Africa Orientale. Oggi tutto conferma quell´intuizione; ed è dall´Africa, nella Pompei dell´età della pietra, la grotta di Sterkfontein, che parte la ricerca dei primi viaggiatori. C´è tutto in quel precipizio dove i corpi cadono restando intrappolati in un antico fondale marino. I primi ominidi di tre milioni e mezzo di anni, preservati quasi intatti.
Lì si legge come in un film la storia della scimmia nuda che si alza in piedi, afferra una pietra, la sgrezza, poi - centomila anni fa - comincia a esprimere linguaggi complessi come i riti di sepoltura e infine, settantasettemila anni fa, spinta da un´irrefrenabile inquietudine migratoria, decide di partire. La pattuglia avanzata di un popolo mangiatore di pesce, capace di navigare e organizzato in tribù.
Allora la Penisola Arabica è terra fertile e il Sahara popolato di elefanti. Il Golfo Persico è in gran parte libero dal mare a causa delle glaciazioni, e poiché le montagne sono coperte di ghiacci, non resta che la costa. È così che l´homo sapiens raggiunge l´India e l´Andra Pradesh, dove lascia strumenti in pietra molto simili a quelli sudafricani.
Bivio epocale
In quegli anni una gigantesca eruzione cambia il clima della Terra e porta i nostri antenati viaggianti a un passo dall´estinzione. «Di questa tappa ci sono rimasti solo i manufatti», spiega Tuniz. «Non abbiamo ancora resti umani, ma la strada dell´homo sapiens in India è chiara». L´orologio del tempo segna settantamila anni fa. E la strada si avvicina a un bivio epocale, nel Bangladesh. Qui il popolo in movimento si divide. Una parte sale verso i fiumi della Cina, per raggiungere lo stretto di Bering, trampolino verso le Americhe. Un´altra parte scende verso la Malacca e, di isola in isola, attraversa l´ultimo stretto di mare per l´Australia.
Anche qui mancano resti umani, ma c´è un segnale del passaggio che surclassa tutti gli altri: lo sterminio dei grandi animali. Non si sa cosa sia stato: una caccia indiscriminata, l´incendio delle foresta vergine, oppure una mutazione climatica contemporanea. Fatto sta che scompaiono all´improvviso, in simultanea. Giganteschi struzzi, marsupiali grossi come orsi grizzly, ippopotami dalla faccia di cammello. Non ne rimane traccia, dopo l´arrivo del grande cacciatore.
Lo stesso accade con le altre razze umane. Homo sapiens elimina i possibili concorrenti. Via neanderthal; via l´homo erectus arroccato da due milioni di anni in Cina; via i piccoli "hobbit" rifugiatisi nell´isola di Flores, Indonesia, dov´erano convissuti con microscopici elefanti (oggi estinti) e aggressivi lucertoloni di quattro metri, ancora oggi padroni della giungla.
Ovviamente gli aborigeni esultano. Orgogliosi di sapersi più antichi degli europei, all´apertura delle olimpiadi di Sydney hanno vantato i loro «sessantamila anni di cultura» per avanzare diritti sul territorio australiano, in antagonismo con i conquistatori bianchi. La rivoluzione biologica generata da Darwin, si legge nel libro, aveva incoraggiato la rapina ai danni dei primitivi, degradati al ruolo di sotto-uomini e costretti a subire insulti come l´esposizione dei loro scheletri nei musei occidentali.
Oggi l´Australia sta facendosi restituire da mezzo mondo le ceneri dei progenitori ma succede che, quando i legittimi eredi ne vengono in possesso, questi provvedono a una nuova cremazione purificatrice secondo i riti degli antenati, il che genera inevitabili tensioni col mondo della ricerca. Stranezze del secolo Ventunesimo: guerre scientifiche e scontri politici attorno a ossa del paleolitico. Forse gli apprendisti stregoni hanno messo in moto una macchina che nessuno riesce a fermare.
Repubblica 29.3.09
Giulio Einaudi: l'uomo che pensava i libri
di Nello Ajello
Dieci anni fa moriva il grande editore che divideva gli autori in due categorie: "astri sorgenti" e "vecchi tromboni" Lo ricordiamo con un suo scritto inedito e profetico sul difficile mestiere di vendere cultura senza tramutare il mondo in un mercato
Quando gli si addebitava di circondarsi, in azienda, di gente di sinistra, rispondeva: "Io non gli chiedo la tessera, però se lavorano qui sono quanto meno dei democratici"
il ritratto più efficace di Giulio Einaudi lo scattò Natalia Ginzburg in una lettera che gli inviò al culmine della sua carriera di editore. «Quello che succede a te è questo», gli scrisse. «Una volta che hai stampato un libro, la figura dell´autore passa nel regno delle ombre. Stampato il libro, ti metti in testa che il libro sia tuo». Ne hai costruiti più di Balzac, sottintendeva l´amica scrittrice, assai più di Dumas padre. Puoi guardare dall´alto Gogol e Molière.
È verosimile che l´editore entrasse nello scherzo con un cenno d´assenso. Lui era da sempre oggetto di una mitologia ridondante ma in fondo complice. A sorreggere simili storielle non mancavano d´altronde i numeri: un catalogo Einaudi uscito nel 1991 parlava, già allora, di seimila volumi stampati. A maggior ragione, perciò, cercare nell´aneddotica che riguarda il «divo Giulio» le definizioni più o meno ammirative sarebbe come consultare d´un sol fiato un´enciclopedia. Ne firmavano le voci coloro che gli erano più vicini. «Gelido quasi fosse stato costruito di ghiaccio», lo descriveva il vecchio collaboratore Norberto Bobbio. Il critico Cesare Segre lo trovava «bizzoso e capriccioso». Giudicandolo «elegante», con «gli occhi azzurri un po´ freddi», Rossana Rossanda notava che egli «non parlava molto, ascoltava e dirigeva».
Spesso Giulio - detto "il Cavaliere Esistente" per distinguerne l´imperiosa e silente corposità dal modello effigiato da Italo Calvino - usava sottrarsi con la massima cura a chi gli chiedeva un incontro. Il numero della casa editrice, a Torino, fu per molti anni facile da mandare a memoria: 553761. E Carlo Levi gli costruì intorno un epigramma. Diceva così: «Cinque cinque tre sette sei uno - Giulio Einaudi è figliolo di re - Giulio Einaudi non c´è per nessuno - Giulio Einaudi, mi spiace, non c´è».
Cesare Cases, prezioso consulente, sosteneva che Giulio divideva l´umanità in due categorie: «Astri sorgenti» e «vecchi tromboni». Corollario implicito: i primi si scorgono da lontano, i secondi vanno lasciati ai propri clamori.
Perfezionista e aggressivo, Giulio veniva paragonato dal suo omonimo e dipendente Giulio Bollati a Luigi XIV per la fiducia che riponeva nei propri collaboratori. Perseguitato da una nomèa di scialacquatore, egli secondava con esultanza quest´inclinazione quando c´era da correggere qualcosa che non gli andava a genio. Era capace di mandare al macero montagne di copertine già stampate. Il suo amico Vittorio Foa - che aveva fra l´altro condiviso con lui il vagone cellulare nel tragitto Torino-Regina Coeli quando i fascisti li arrestarono come sovversivi nel 1935 in una retata di "einaudiani" e simili - sosteneva che lui, l´editore, «i libri non li leggeva, li annusava».
Sto percorrendo la leggenda d´un uomo e di un´impresa negli anni d´oro. Va tuttavia colto un momento nel quale l´inno intonato a gloria di Einaudi e della Einaudi ha rischiato di mutarsi in elegia. Fu quando, messa in mora l´esperienza comunista, vennero addebitate alla casa editrice sostanziali responsabilità nel far prevalere in Italia l´egemonia culturale della sinistra. Simili addebiti avrebbero accompagnato l´ultimo decennio di vita dell´editore, già amareggiato dalle ricorrenti crisi aziendali che preludevano all´assimilazione della Einaudi nell´impero berlusconiano.
Non sono certo mancati, allora e in seguito, i difensori appassionati del «divo Giulio». Bobbio fra i primi invitò i detrattori a scorrere il catalogo Einaudi: ci si accorgerebbe, allora, che «sono più numerose le opere di Wittgenstein che quelle di Marx». Ci fu chi parlò di «sciacallaggio». Chi di «bestemmia». A Luisa Mangoni, che ha dedicato dieci anni fa un volume alla Einaudi, Pensare i libri, bastò enumerare i filoni culturali, presenti nella casa editrice, che non andavano in direzione della falce e martello: dalla famosa "collana viola" a cura di De Martino e Pavese, alle opere di Jung, di James G. Frazer (Il ramo d´oro) o di quel Mircea Eliade che a sinistra è visto come un controrivoluzionario.
Lui, il creatore dello Struzzo, rispondeva più annoiato che sdegnato. Citava fra i «suoi» autori Hemingway e Sartre, Salvemini, Franco Venturi e De Felice. Quando gli si addebitava di circondarsi, in azienda, di gente di sinistra, rispondeva: «Io non gli chiedo la tessera, però se lavorano alla Einaudi sono quanto meno dei democratici». Uno di questi collaboratori "storici", Guido Davico Bonino, ha raccontato i primi approdi in casa editrice di Renzo De Felice, intorno al ´61. Già timido di suo, lo storico vedeva peggiorare durante queste visite la propria latente balbuzie. Padron Giulio, pur cosciente che il Mussolini defeliciano si vendeva come il pane, lo salutava di malavoglia. Lo molestava il fatto che in quella interminabile biografia Mussolini non venisse descritto come il male assoluto. «Era una cosa di pelle, non ideologica», commenta il divulgatore dell´aneddoto.
Come dire che, ai propri capricci, un Capo così non si cura di reagire.