domenica 29 marzo 2009

l'Unità 30.3.09
Intervista a Paolo Ferrero
«Il Pdl è il partito della P2. Fini? Fa l’ala sinistra ma il disegno è lo stesso»


È un partito nato per costruire una svolta reazionaria in Italia, il partito della P2, con l’obiettivo di realizzare compiutamente il piano di Gelli». Paolo Ferrero, leader del Prc, dà un giudizio nettissimo sulla nascita del Pdl.
Spieghi perché.
«L’attacco al sindacato, alla magistratura, al bilanciamento dei poteri, il presidenzialismo. Si tratta di una modifica complessiva del sistema democratico, del bilanciamento dei poteri istituzionali e sociali. Berlusconi lavora allo sfondamento di entrambi questi cardini della Costituzione. Per lui c’è spazio per un sindacato simile a quelli dei paesi dell’Est: uffici di collocamento delle imprese».
Vede realmente un disegno eversivo?
«Parlo di svolta autoritaria, non del nazismo. Ci sono democrazie che sono solo dei simulacri, soprattutto quando chi governa controlla anche l’informazione. Questo disegno, per funzionare, ha bisogno di un’opposizione non in grado di opporre un disegno alternativo. E il Pd non ce l’ha, neppure sul piano istituzionale. La sfida di Fini sul referendum e sulle riforme disegna uno scenario di democrazia deprivata e il Pd, almeno sul referendum, rischia di offrire dei pericolosi assist. Ma se mettiamo insieme bipartitismo e presidenzialismo, viene fuori un regime che ha poco a vedere con la nostra Costituzione».
Anche gli Usa sono un sistema bipartitico e presidenziale. Eppure vince Obama...
«Obama per certi versi è un incidente della storia, figlio di una congiunzione astrale. Ma la democrazia italiana degli anni 60 e 70 era molto più forte degli Usa di oggi: nel Pci venivano eletti anche gli operai».
Torniamo al discorso di Fini: a sinistra è stato apprezzato,..
«Fini ha detto cose di buonsenso che mi ha fatto piacere ascoltare. Ma non si pensi che ci sia una distanza reale tra lui e Berlusconi sulle scelte di fondo: condividono un disegno reazionario. Fini dimostra che il Pdl è così forte da poter contenere al suo interno una destra e una sinistra. Sono così egemoni da potersi permettere anche delle sfaccettature...»
Ha detto cose “di sinistra” su immigrazione e temi etici?
«Cose normali in qualunque paese europeo. Eppure più a sinistra di una parte del Pd».
Lui realizza il piano della P2. E voi come reagite? Dividendovi?
«Io sarei per il massimo di unità possibile. Ma referendum e bipartitismo sono un pezzo del regime di Berlusconi e il Pd c’entra. Per questo dico: facciamo una battaglia insieme contro il referendum e per il sistema tedesco, è l’unico che potrebbe disarticolare questa destra. Altrimenti vincono per 30 anni».

il Riformista 29.3.09
Europee. Matrimonio di convenienza (dopo dieci anni) tra Prc e Pdci per superare lo sbarramento
Riecco i comunisti uniti dalla falce e dal martello
di Sonia Oranges


Torna il simbolo di falce e martello sulla scheda delle elezioni europee, in un cartello elettorale che non soltanto raggruppa dopo dieci anni di separazione i comunisti di Rifondazione e del Pdci, ma stempera il marchio della bandiera rossa con la presenza del movimento Socialismo 2000 (che fa capo a Cesare Salvi) e dei Consumatori Uniti di Bruno De Vita

CARTELLO ELETTORALE. Presentata la lista che rimette insieme Ferrero e Diliberto, con Socialismo 2000 e i consumatori di Bruno De Vita. L'obiettivo è raggiungere il 4 per cento, contendendo l'elettorato radicale a Sinistra e Libertà. Ma anche a Di Pietro.

Torna il simbolo di falce e martello sulla scheda delle elezioni europee, in un cartello elettorale che non soltanto raggruppa dopo dieci anni di separazione i comunisti di Rifondazione e del Pdci, ma stempera il marchio della bandiera rossa con la presenza del movimento Socialismo 2000 (che fa capo a Cesare Salvi) e dei Consumatori Uniti di Bruno De Vita. Ieri hanno presentato il simbolo, e il documento che sta alla base della «lista anticapitalista» che «lavora per un'uscita dalla crisi fondata sulla democrazia economica, sulla giustizia sociale e sulla solidarietà». Impegnandosi «a continuare il coordinamento della loro iniziativa politica anche dopo le elezioni europee». Il lessico sembra quello del vecchio che avanza con la scorta del solito, pesante e polveroso bagaglio ideologico. Ma non è detto.
«Questa lista, che lavora per un'uscita dalla crisi fondata sulla democrazia economica, sulla giustizia sociale e sulla solidarietà, rappresenterà un importante raggruppamento anticapitalista, comunista, socialista di sinistra, ambientalista in Italia e in Europa, e si ritrova intorno ai valori e ai simboli storici del movimento operaio italiano» ha detto il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero, senza dubbio il motore trainante dell'operazione, che così corre ai ripari dopo la scissione dei vendoliani. E parla chiaro su dove e come si porrà la lista in Europa. A cominciare dal gruppo cui si iscriverà, in caso di (probabile) superamento della soglia del 4%: quello di Sinistra Europea «e cioè all'opposizione delle politiche liberiste di Maastricht e di Lisbona, che hanno prodotto l'attuale devastante crisi economica europea e mondiale, politiche che vengono da molti anno votate e sostenute da tutti gli altri gruppi politici eletti in Europa, dai popolari ai socialisti, passando per i liberali», ha aggiunto Ferrero, puntando il dito anche contro i protagonisti della politica italiana, «una grande coalizione liberista e antipopolare che vede e vedrà unite tutte le forze politiche che oggi fanno finta di contrapporsi in Italia, dalla Pdl di Fini e Berlusconi, al Pd di Franceschini, passando per Di Pietro e Casini». Insomma, la proposta politica dei ritrovatisi comunisti, insieme con una pattuglia di socialisti e un'altra di consumatori, intende contrapporre «più libertà e più eguaglianza» alle «politiche di un governo di destra che invece punta al totale e sfrenato liberismo e deregulation in economia, ma che promuove politiche antiliberali e totalitarie nel campo dei diritti civili».
Fin qui la versione del comunismo rifondato (ci ha tenuto a specificarlo, un po' ironico, il segretario del Prc), lasciando al segretario del Pdci Oliviero Diliberto, la nostalgica celebrazione del "c'eravamo tanto amati": «Finalmente i comunisti tornano a presentarsi uniti alle elezioni dopo tanti anni. Torna la falce e martello sulle schede; o meglio, per la prima volta da tanto tempo ci sarà solo "una" falce e martello - affermava ieri sorridente davanti alle telecamere - Dopo tanti anni sotto la stessa falce e martello c'è un ricongiungimento familiare. Noi del Pdci ci abbiamo creduto molto: è un coronamento politico».
A decidere del coronamento e del futuro politico del cartello, però, saranno gli elettori orfani della sinistra, che dovranno scegliere tra loro e Sinistra e libertà, l'altro cartello dei più radicali, che pure riunisce i comunisti del Mps di Vendola, verdi e socialisti di varia natura, oltre alla Sinistra democratica di cui Salvi è stato fondatore. Ma ieri Salvi era l'unico a rammaricarsi di non essere riuscito a mettere insieme tutti.

il Riformista 29.3.09
Salvi: «Resto un socialista, ma bisogna fermare Silvio»
L'intervista. L'ex ministro ds spiega il ritorno a casa base
di S.O.


Cesare Salvi estrae dalla tasca la stampata della pagina internet del gruppo di Sinistra europea, traducendo al volo che parla di socialismo. E ci tiene a specificarlo.
Però questo sembra proprio il ritorno dei comunisti.
L'obiettivo è arrivare, in futuro, a una lista unitaria di tutta la sinistra. Purtroppo stavolta a prevalere sono state le opposte rigidità, nonostante il rischio di non superare lo sbarramento. Io aderisco come rappresentante del socialismo di sinistra. Onestamente, l'anticomunismo mi sembra un po' anacronistico, nel 2009, anche se non avrei partecipato se si fosse trattato di rifare un partito comunista.
Che senso ha la riunione di Prc e Pdci?
Il berlusconismo è dilagante, il Pd è in grave difficoltà e la sinistra rischia di scomparire. C'è bisogno di qualcuno che proponga un diverso modello di società. Sentivo il dovere di dare una mano per la storia mia e del movimento che rappresento. E poi, diciamocelo, c'è ancora una fetta dell'elettorato che si riconosce nella falce e il martello. Lo spazio a sinistra del Pd, chi lo copre? Di Pietro?
La sua storia, appunto. Non si sente un po' a disagio a fare il percorso a ritroso?
Guardi, il mio movimento si chiama 2000 perché allora passai con la minoranza di sinistra del partito, di fronte a un Paese in cui crescevano disoccupazione e diseguaglianze. Non bisognava essere comunisti per vederle. E, per la cronaca, facevo il ministro. Mica mi hanno cacciato.
Certo che i socialisti con i comunisti...
Ci sono altri esempi in Europa. Pensi alla Linke o a tanti esempi di socialismo di sinistra che in noreduropa funzionano. Persino Michele Salvati ha scritto che davanti a questa crisi servono idee nuove. E dove sono le idee socialiste in questo momento? Io sono un europeista. E ho votato contro il trattato europeo proprio perché non volevo un'Unione europea senza poteri. Sono tante le questioni da affrontare. A cominciare da quella morale. Poi casomai ne parliamo.
Anche adesso...
Prendiamo l'esempio di Napoli. Lì ci presenteremo in alternativa a Nicolais. Serve una sinistra autonoma e noi proviamo a esserlo, anche usando il simbolo di falce e martello, per farne una battaglia sulla questione morale, su un sistema di potere unico che a sud ha dato i frutti che ha dato. Ma ci pensa che, dopo tutte le scenette cui abbiamo assistito, pare che Di Pietro si alleerà con Bassolino? Ci stanno tutti dentro. Lo abbiamo visto al sud, ma anche a Firenze. E in Abruzzo. I capibastone di cui parlava Veltroni sono ancora tutti al loro posto. Scusi, ma con questi presupposti perché la gente non dovrebbe votare Berlusconi?
L'antiberlusconismo è un boomerang, però.
Il berlusconismo rappresenta un blocco dei valori in Italia. Ma, mi dispiace dirlo, la sinistra della seconda repubblica gli ha dato una mano, abdicando a una versione di se stessa rigidamente ideologica e subalterna al liberismo. Oggi si può essere antiberlusconiani se si è in grado di dire cose diverse, con un'idea di società diversa. Se lo si insegue sulle sue stesse politiche, non si può essere che perdenti.
Decise le candidature?
Non la mia, preferisco che lo faccia Massimo Villone.

l'Unità 30.3.09
L’impegno delle “toghe rosse”: «Difenderemo la Carta»
di Claudia Fusani


Si chiude a Modena il congresso di Magistratura democratica. Raggiunta una faticosa mediazione in un documento di 8 pagine. I voti premiano la linea radicale. Sanlorenzo segretario, Castelli verso la presidenza.

Il documentopunta su professionalità ed efficienza, indispensabili autonomia e credibilità
Le animeUna sensibilità più radicale e una più pragmatica. Cascini: «Risultato unitario»
«Resistere» e soprattutto «reagire agli attacchi che da tempo e in forma sempre più grave sono in corso all’assetto costituzionale dello stato repubblicano». La difesa dei diritti e dei più deboli, dunque, come sempre al primo posto, utilizzando però «la massima professionalità ed efficienza» e abbandonando una volta per tutte «la difesa corporativa».
Sono le linee guida principali con cui faticosamente, dopo quattro giorni di confronti duri, a un passo dalla spaccatura interna, Magistratura democratica chiude a Modena il congresso forse più difficile dei suoi 45 anni di vita. Una vita per scelta in prima fila e impegnata politicamente e da quindici anni vera ossessione del premier Berlusconi che ancora indica le toghe rosse («l’armata rossa») come uno dei mali supremi, e quindi da debellare.
Il dibattito congressuale e della vigilia aveva due anime contrapposte. Da una parte quella più identitaria e schierata che dice basta al compromesso politico («il dialogo con Mastella ha solo prodotto guai») e predica la «schiena dritta in un momento di crisi che è economica ma ancora prima culturale» e che per sintesi fa riferimento a Livio Pepino, uno dei padri fondatori di Md e attuale membro del Csm. Dall’altra quella più pragmatica, che ha ben chiaro il codice genetico di Md - rifiuto del conformismo e della passività culturale e difesa dei diritti - ma al tempo stesso sa anche che è necessaria l’autocritica, riformarsi, dialogare di volta in volta sui vari punti con l’interlocutore del momento. È la linea che ha prevalso in questi mesi nell’Anm – con la segreteria di Giuseppe Cascini anche lui iscritto a Md – un po’ meno nel Csm (il vicepresidente Mancino non è venuto al congresso, segno di forti tensioni)e coltivata da alcune delle menti più brillanti di Md, da Nello Rossi a Claudio Castelli, da Donatella Donati a Anna Canepa per finire con il presidente uscente Edmondo Bruti Liberati che dopo anni ringrazia, a sua volta è ringraziato con standing ovation, ma lascia ogni incarico.
I diritti dei clandestini
La divisione ha fatto sì che per la prima volta dagli anni settanta la corrente di sinistra della magistratura sia andata al rinnovo delle cariche in ordine sparso, senza un’indicazione di voto precisa.
Quasi en plein di voti per Rita Sanlorenzo (400 su 506 votanti), segretario uscente, seguita da Donatella Donati e Claudio Castelli (250) candidato alla presidenza. Se i numeri sembrano premiare la linea più radicale, va detto che Sanlorenzo ha puntato nel suo intervento alla mediazione tra le varie sensibilità e che il distacco nei confronti di Castelli-Canepa-Donati non è così marcato. «Un risultato unitario e non di spaccatura» dichiara Cascini.
Unità che si ritrova nel documento finale, miracolo di mediazione e tessitura di Vittorio Borraccetti e invocato dal palco da Beniamino Deidda, il procuratore generale di Firenze che ha declinato l’invito a fare il presidente.
Gravissimi attacchi alla Carta
Il futuro e l’azione di Md vanno quindi ricercate nelle sette pagine del documento che scandiscono le linee guida della corrente. La premessa è un manifesto politico: «Nel nostro paese sono in corso da tempo e in forma sempre più grave attacchi all’assetto costituzionale dello stato repubblicano». Seguono gli esempi: «Il disegno di legge sul testamento biologico è in aperta violazione dei principi universali della libertà personale e dell’autodeterminazione dell’individuo»; il progetto di riforma delle intercettazioni «pregiudica l’efficacia dell’azione investigativa e mette in discussione la libertà dell’informazione»; le norme sui clandestini «espellono dalla moderna concezione di cittadinanza il diritto primario e universale alla salute, ad avere un’identità e ad essere titolare di diritti». Vengono messi in discussione il diritto allo sciopero e il sistema della contrattazione collettiva, «tutela inderogabile delle condizioni del lavoratore». Mentre, si legge ancora, «lo spazio privatissimo del corpo umano viene pubblicizzato, lo spazio pubblico viene all’inverso privatizzato destinandosi la tutela della sicurezza all’opera dei volontari delle ronde». Poi l’accusa, netta, senza ombre, «alla politica di maggioranza che promuove momenti di rottura della legalità costituzionale«.
Un manifesto molto chiaro. Politico oltre che giudiziario. Lontanissimo da quello pronunciato da Berlusconi nel giorno in cui è diventato re del suo popolo.

l'Unità 30.3.09
Piombo Fuso a Gaza
«I rabbini incitarono i soldati alla guerra santa»
di Umberto De Giovannangeli


Drammatiche testimonianze dei militari coinvolti nelle operazioni militari nella Striscia. «Sembrava una missione religiosa» dice il soldato Ram. Un altro accusa i rabbini: «Dicevano: per i nemici punizione divina».

Guerra agli infedeli. Gli «infedeli» di Gaza. Racconta il soldato Ram: «Il loro messaggio è stato molto chiaro: noi siamo i giudei, noi siamo arrivati in questa terra per miracolo, Dio ci ha riportato qui e ora noi dobbiamo combattere per espellere gli infedeli che stanno interferendo con la nostra conquista di questa terra occupata». Ram ha fatto parte di un reparto di élite di Tsahal nei giorni dell’operazione «Piombo Fuso» nella Striscia. Quando parla di «loro», Ram si riferisce ai rabbini ortodossi e ultranazionalisti dell’esercito. L’Unità ha avuto modo di prendere visione delle testimonianze di soldati e ufficiali che hanno partecipato ad un meeting organizzato dalla Scuola di Preparazione Militare dell’accademia Oranim, nel nord d’Israele. Alla conferenza erano presenti decine di allievi della scuola militare: tutti hanno prestato servizio nelle unità di combattimento di Tsahal e hanno partecipato attivamente agli attacchi israeliani contro la Striscia di Gaza condotti dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009 (oltre 1300 morti, più di 5000 feriti, secondo stime palestinesi e internazionali).
È sempre il soldato Ram a parlare: «Abbiamo provato – dice – sensazioni simili a quelle di una missione religiosa». Le operazioni sono cominciate con un sergente credente che «ha riunito l’intero plotone e ha guidato la preghiera per coloro che stavano per partire in missione». «Anche quando eravamo in missione hanno spedito opuscoli pieni di salmi. Credo che nella casa dove alloggiavamo avremmo potuto riempire una stanza con tutti i salmi che avevamo ricevuto».
I RACCONTI
«Nessuno di noi contestava la legittimità di colpire quelli di Hamas, ma l’uccisione di decine di civili non poteva essere liquidata come un “effetto collaterale”… E a chi poneva questi problemi, un rabbino estremista ha risposto: I nemici di Eretz Israel si meritano la punizione divina, voi siete lo strumento…», racconta il soldato Yossi. Aviv, ufficiale della riserva, ricorda che nel vivo dell’offensiva a Gaza, rabbini oltranzisti inviarono lettere aperte al premier Ehud Olmert nelle quali si utilizzavano passi della Torah per giustificare il pugno di ferro contro i palestinesi. La legge della Torah autorizza l’uccisione di uomini, donne, anziani, neonati e animali (del nemico), afferma il rabbino Yisrael Rozin.
Per parte sua, il rabbino ultraortodosso Shlomo Elyaho ha sottolineato che «Se noi uccidiamo 100 dei loro ma loro rifiutano di smetterla (di lanciare razzi), allora dovremmo ucciderne 1000; e se noi uccidiamo 1000 dei loro e loro non la smettono, allora dovremmo ucciderne 10.000 e dobbiamo continuare ad ucciderli anche se arrivano ad un milione, con tutto il tempo necessario per ucciderli. I Salmi dicono: «Io devo continuare a cacciare i miei nemici ed a fermarli, ed io non smetterò fino a che non li avrò completamente finiti».
IL GUARDIAN RILANCIA
Sulla «sporca guerra» di Gaza torna anche il quotidiano britannico The Guardian, con un dossier documentato sul campo, dal quale emerge che i militari dell’Idf (le forze armate dello Stato ebraico) avrebbero utilizzato bambini palestinesi come scudi umani per difendersi dagli attacchi dei miliziani di Hamas, come avrebbero bombardato scuole e ospedali e come avrebbero infine colpito la popolazione civile con i droni radiocomandati. I vertici di Tsahal accusano il tabloid inglese di «lettura unilaterale, forzata dei fatti». «Le prove raccolte, le testimonianze, sono a disposizione di chiunque voglia davvero accertare la verità», è la risposta che viene da Londra.

Repubblica 30.3.09
L´ultima metamorfosi del leader anti-borghese
di Filippo Ceccarelli


Venite, adoremus: e dopo tre giorni ancora una volta il presidentissimo Berlusconi si conferma all´altezza della sua fama.
Il ruggito e lo sberleffo, il maxi-schermo e lo stacchetto musicale, la gloria e il merchandising, le salmodie dei ministri e il più sonante dispendio di quattrini, tre milioni e rotti di euro, in tempi di crisi, per fare bella figura, alberghi a quattro stelle, bianche tovaglie e delizie di catering per i delegati. Programma minimo scandito alla platea: "Non accontentarsi mai".
Chissà se è davvero "la fine della lunghissima transizione italiana". Quando ieri mattina il Cavaliere ha annunciato questo passaggio di ordine storico e politico, per sincronica assonanza veniva da pensare a quanto il professor Aldo Schiavone ha scritto in un libro uscito da pochi giorni, L´Italia contesa (Laterza), e che a proposito della pretesa tempestività berlusconiana dice esattamente il contrario: "Il leader della transizione italiana è diventato oggi il solo ostacolo al suo definitivo compimento. La normalizzazione della nostra politica non aspetta che la sua uscita di scena per potersi concludere".
Ecco, si vedrà. Ma intanto mai come in questo congresso è apparsa più evidente la fine di una certa idea della destra. Ed è proprio nell´evoluta potenza tecnica del berlusconismo, nelle sue forme e nei suoi linguaggi che si coglie il senso dello stravolgimento terminale di un antico decoro. E attenzione. Una volta Massimo Cacciari ha qualificato Berlusconi: "Una catastrofe estetica prima ancora che politica". Ma qui non si tratta di interpretare la novità secondo i codici del consueto (e vano) anti-berlusconismo di sinistra, filosofico o snob che sia, comunque spocchiosetto nei suoi stilemi di pretesa superiorità morale e di buongusto.
No. Il dubbio è come avrebbero reagito un Indro Montanelli o una Oriana Fallaci di fronte alla scena del Cavaliere che fa mettere "le nostre dame" in primo piano, si mette a cantare Fratelli d´Italia e al momento di "siam pronti alla morte" strizza l´occhio alle telecamere e fa così così con la mano. La curiosità è di indovinare come Spadolini avrebbe giudicato le tante invocazioni auto-messianiche, la rivendicatissima "lucida follia" del Cavaliere o la promozione a ministro di una ex starlette come Mara Carfagna. L´interrogativo è come il grande Giovanni Ansaldo, l´autore de "Il vero signore", avrebbe descritto l´invasione della cosmetica nella vita pubblica o la dislocazione delle giovani e sospette figuranti interinali sotto le volte posticce della Nuova Fiera di Roma.
Detta altrimenti: il sospetto è che con il proverbiale colpo di spada Berlusconi abbia definitivamente tagliato i legami che da anni e anni in Italia tenevano assieme il potere con i canoni stilistici e comportamentali cosiddetti "borghesi": misura, riserbo, ipocrisia, rispetto delle regole, pudore dei propri sentimenti, diffidenza per tutto ciò che fa rumore e spettacolo. L´ipotesi è che si tratti di un leader ormai compiutamente extra-borghese o forse addirittura anti-borghese.
E dunque: bisognava vederlo, ieri mattina, annunciare alla platea il suo personale e prezioso dono ai delegati, una "carineria", come dice lui, una "speciale edizione in carta pergamena", proclamava radioso, un incredibile codice miniato che riproduceva il discorso audiovisivo della discesa in campo � e che poi il Cavaliere ha puntualmente declamato al congresso auto-ri-citandosi per quattro buoni minuti. Ecco, fa un certo effetto anche solo immaginarsi cosa avrebbe scritto a proposito della finta pergamena il fondatore del Borghese, Leo Longanesi. Nel 1953 questi pubblicò un libro dall´interrogativo titolo: "Ci salveranno le vecchie zie?", intese queste ultime come l´emblema e le custodi di un mondo fatto di compostezza, parsimonia, fedeltà alle cose solide, ben fatte, per nulla appariscenti. E se la faccenda può sembrare estranea al dibattito politico e ai destini del Pdl, beh, non lo è tanto perché le vecchie zie accompagnano la vita del potere, e Andreotti per dire ne aveva una, la celebre zia Mariannina, che da bimba aveva vissuto addirittura la presa di Roma da parte dei piemontesi traendone il seguente e andreottianissimo insegnamento: "Tutto si aggiusta". Bene: neanche a farlo apposta, pure il Berlusconi aveva diverse vecchie zie, alcune anche suore, altre, sembra di ricordare, formidabili pasticcere. Ma soprattutto ce n´era una, di nome Marina, appunto anziana e non molto avvenente, che un giorno imprecisato il futuro presidente sorprese con un abito a fiori davanti a uno specchio che si accarezzava dicendo: "Come sei bella! Come sei bella!". Al che: "Ma, zia, che fai?". E lei, di rimando: "Ora che nessuno me lo dice più, me lo dico da sola".
Ebbene, il turbo-narcisismo ottimistico-consolatorio della zia berlusconiana a suo modo dice parecchio sulla rottura con i costumi e gli atteggiamenti tradizionali della destra, ma forse altrettanto sulla fondazione del primo partito carismatico dell´era repubblicana. Un´autocrazia che si riconosce nei "tanti nostri meriti", nell´"altissima qualità della nostra classe dirigente" per cui "io vi nomino tutti missionari di libertà", e adesso venite qui con me a cantare, e mi raccomando, "le nostre dame in primo piano!". Sovrano acclamato con tanto di ratifica notarile visibile in led e pixel sui mega schermi della conclusa transizione italiana. Un re rivoluzionario populista e plebiscitario, l´ennesimo scherzetto della storia, che sempre insegna d´altra parte a diffidare degli slogan risonanti nelle piazze: "Fascisti, borghesi, ancora pochi mesi!". Ecco, ci volevano in realtà diversi anni, ma visto dal congresso del Popolo della libertà l´esito, più o meno, è proprio quello lì.

Repubblica 30.3.09
La società decisionista che piace al Cavaliere
di Edmondo Berselli


Nonostante le allegre foto di gruppo, il coro, l´Inno alla gioia, il congresso di fondazione del Pdl non è stato soltanto una cerimonia.
Al termine di un cammino cominciato un anno e mezzo fa con il discorso del predellino, la destra ha effettivamente cambiato pelle. L´unione di Fi e An cambia nel dna il "partito dei moderati" e ora occorre fare i conti con l´entità politica nuova. Il problema è se oltre alla pelle è cambiato anche il corpo, ossia se dalla confluenza nasce una destra moderna o no.
In sintesi. Il Pdl ha visto confermarsi un vistoso dualismo al suo interno, che prelude già a una complessa linea di successione tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini; a ques´ultimo, il premier non ha offerto nessuna risposta sulle questioni più brucianti, a cominciare dai dilemmi di laicità sul biotestamento. Si sono manifestate infatti fra i due leader differenze di concezione così esplicite che si faranno inevitabilmente sentire all´interno del partito anche nel prossimo futuro. Ma l´aspetto più importante è un altro: il Pdl non è più la forza liberal-modernista, fondata sugli «istinti di mercato» e sugli slanci di vitalismo libertario a cui si rifaceva il primo Berlusconi.
Il Pdl è oggi una realtà tutta da interpretare. Nei suoi due discorsi congressuali, probabilmente Silvio Berlusconi ha perso l´occasione di presentare un progetto moderno per la società italiana. Come nei momenti di ispirazione più fiacca si è concentrato sui dettagli, talvolta sfidando il grottesco (come per l´attenzione all´ambiente, «che comincia dal non lordare i muri dei nostri palazzi»). Tuttavia è stato chiarissimo su alcuni aspetti cruciali, che riguardano essenzialmente la nuova concezione ideologica del Pdl. Il nuovo partito è «il partito degli italiani». La formula è rivelatrice e, a suo modo, preoccupante. Perché testimonia ben più che una intenzione maggioritaria, annunciata con il riferimento euforizzante all´obiettivo del 51 per cento.
Sotto questo aspetto, il ripetuto richiamo alla «rivoluzione liberale» è un esercizio retorico. L´etichetta «partito degli italiani» disegna un perimetro al di fuori del quale sembra non esserci legittimità pubblica. All´esterno del Pdl, nel grigiore di una «sinistra senza volto», secondo Berlusconi ci sono oppositori a cui non si riconosce una dignità politica sufficiente per un confronto sulle «missioni» del governo e della maggioranza, a cominciare dal rifacimento dell´impianto costituzionale.
La definizione «partito degli italiani» appare infelice proprio perché segnala una volta ancora l´orientamento ultraideologico del berlusconismo. Nel 1994 Berlusconi prometteva «un nuovo grande miracolo italiano»; oggi evoca il miracolo vicario di uscire dalla crisi. Tuttavia la formula della salvezza è sempre la stessa: il premier traccia una linea che esclude, dal buonsenso, dalla democrazia, e in ultimo dall´italianità, la metà del paese.
Da un lato ci sono gli italiani legittimati dal consenso al Pdl, dall´altro i nemici della libertà, e tutti coloro che non accettano di essere complementari al disegno di potere del premier. C´è da augurarsi che la missione di uscire dalla crisi economica abbia successo, altrimenti una minoranza «che come ha detto Tremonti fa opposizione non al governo ma al paese» potrebbe benissimo essere accusata di sabotaggio alla nazione.
Nella sua opacità democratica, l´idea del «partito degli italiani» ha una certa forza perché prospetta una soluzione permanente ai rischi dell´instabilità politica. Anzi, rappresenta un concetto fondante, in quanto comincia a rendere visibili i tratti politici, e anche socio-economici, del Pdl. L´idea di Berlusconi consiste nel costituire un blocco sociale integrato, in cui gli interessi si coordinano costituendo un assetto di potere permanente, praticamente inscalfibile.
Quindi Berlusconi prova a consolidare il suo regime. Quali siano gli interessi che il premier sta intrecciando nel suo progetto di stabilizzazione lo ha ricordato ieri Eugenio Scalfari: «Le partite Iva, le piccole imprese, il lavoro autonomo, le clientele del Sud e delle isole, i disoccupati e i giovani in cerca di lavoro». Ma non viene a nessuno il sospetto che non ci sia niente di autenticamente liberale in tutto questo? L´egemonia a cui punta Berlusconi tenta di rendere non contendibile il potere in Italia; ma soprattutto precostituisce un ordine sociale in cui gli interessi citati sono resi complementari, in un modello evidentemente organicista.
Non si sentono obiezioni, in proposito, da parte dei liberali di casa nostra. Nessuno che dica che il disegno berlusconiano rievoca una società premoderna, basata su un´architettura corporativa, in cui le membra del corpo sociale cooperano sotto la guida del leader. Il Pdl non è l´ingresso nella modernità, è un´esperienza che affonda le radici nel «pensiero italiano», in un Novecento chiuso e corporativo, per non dire altro.
La società decisionista che Berlusconi vuole è eclettica: unisce conservatorismo compassionevole e sbrigative modernizzazioni dall´alto, il tutto garantito dalla mobilitazione continua del popolo e dalla benevolenza lungimirante, dalla «lucida follia», del capo. In quanto tale rappresenta un´evoluzione profonda nella qualità democratica italiana. Prelude a una democrazia sotto tutela, governata con un chiaro accento paternalistico. Prima che l´ascesa di Berlusconi verso il 51 per cento abbia successo, tocca alla sinistra tenere vivi gli anticorpi istituzionali e, ebbene sì, liberali del sistema; e per il momento almeno la possibilità di una dialettica che eviti di bloccare per un altro quarantennio, un altro ventennio, insomma per un´altra fastidiosa eternità, il potere in Italia.

Repubblica 30.3.09
"Ho fatto un mutuo per diventare mamma" boom di viaggi all´estero
Fecondazione, domani decide la Consulta
Nel 2008 diecimila coppie italiane sono "emigrate" per poter fare un bambino
I ricorsi contro la legge 40 che per alcune associazioni non tutela il diritto alla salute
di Caterina Pasolini


ROMA - Un bambino a rate. Sognato, desiderato tanto da ritrovarsi a ipotecare la casa pur di continuare a sperare di diventare genitori, tanto da chiedere un mutuo o un prestito come Barbara per cercare oltre confine di realizzare il desiderio di «un figlio che possa vivere. Senza la condanna della mia malattia. E siamo sempre di più quelli costretti ad emigrare, a fare i debiti perché in Italia, nonostante medici bravissimi, non sarebbe stato possibile. Perché la legge 40 non rispetta la Costituzione, il diritto alla salute, all´eguaglianza». Lo dice Barbara. Veneta volitiva che dopo diverse trasferte in Spagna si balocca a turno col marito la sua piccolina. Lo dicono ora - dopo quelle di Firenze e del Tar Lazio - anche altre due ordinanze del tribunale di Milano che sollevano dubbi sulla Costituzionalità della legge che «non rispetta la dignità e non tutela la salute». Dando ragione ai ricorsi presentati dalle associazioni Sos Infertilità, Hera e Cittadinanza Attiva che danno voce a migliaia di coppie costrette a costose trasferte.
Come Fabio e Laura, impiegati milanesi che dopo 16 tentativi adesso spesso non dormono per i vagiti di Luca ma anche per il muto ipotecario sulla casa, che hanno dovuto fare per pagarsi le trasferte della fecondazione assistita.
Come loro più di 10mila coppie italiane nel 2008, secondo le associazioni, si sono rivolte alle cliniche straniere - dalla Spagna alla Repubblica Ceca - dove la diagnosi pre-impianto, la fecondazione eterologa, la conservazione degli embrioni sono legali. A differenza del nostro Paese dove la legge 40 le vieta o le rende «praticamente inutili», spiega il professor Nino Guglielmino del centro Hera di Catania.
«Per chi ha malattie genetiche come la talassemia o la fibrosi cistica la diagnosi pre-impianto è l´unica via per sperare di avere figli sani. Ma la legge consente al massimo la creazione di tre embrioni, numero troppo basso per diagnosi statisticamente utili, e in più vieta di congelarli, obbligando le donne a più bombardamenti ormonali, e poi prevede di impiantarli tutti, anche quelli malati. Con la «libera scelta» di fare poi un aborto terapeutico al terzo mese, aggiungendo dolore al dolore», scrive Anna sui blog delle associazioni che si battono per cambiare la legge. Anche a furia di ricorsi, come quelli già vinti contro la 40: «ingiusta, incostituzionale che non rispetta la salute, l´eguaglianza, il diritto di scelta», sottolinea Filomena Gallo di Amicacicogna.
Quando in primavera è uscita la sentenza del Tar Lazio che autorizzava la diagnosi pre-impianto molte coppie hanno atteso. Poi l´esodo è ricominciato, più intenso. «Sono persone con malattie genetiche o donne sterili che non se la sentono di fare bombardamenti ormonali a rischio della salute, producendo magari 30 ovuli che non verranno fecondati perché la legge prevede un massimo di tre e vieta il congelamento degli embrioni», spiega Rosella Bartolucci, madre di due gemelli e presidente di Sos infertilità che ha raccolto dati e storie dei viaggi della speranza.
Viaggi sempre più numerosi. Tanto che, ricorda il professor Andrea Borini, presidente dell´Osservatorio del Turismo Procreativo, «grazie alle limitazioni della nostra legge i centri esteri proliferano e hanno aperto 40 siti web in italiano visto che, dalle mille richieste del 2001, nel 2006 erano già 4.200 le coppie in trasferta». E l´anno scorso in una sola clinica a Barcellona hanno trattato mille donne italiane.
Esodo a prezzi variabili: dai 3.000 ai 9.000 euro. Troppo spesso, denunciano le associazioni, senza ricevute. E c´è chi come Silvia ne ha fatti 16 prima di conoscere suo figlio. Anche lei aspetta con ansia il 31 marzo. Domani la Corte Costituzionale deciderà se la legge 40 viola "il diritto alla salute, alla libertà di cura, all´eguaglianza» stabiliti dai padri della patria. «Perché noi non cerchiamo un figlio perfetto, su misura, ma un figlio che abbia una speranza», dicono Fabio e Silvia, portatori sani di atrofia muscolare spinale.

Repubblica 30.3.09
Una lettera inedita del '44. Il poeta non apprezzò le critiche all´Urss
Eliot: Orwell non va pubblicato


LONDRA. La storia della letteratura mondiale abbonda di grandi romanzi bocciati da editori poco lungimiranti, e poi fortunatamente pubblicati lo stesso, ma il caso rivelato ora in Inghilterra merita forse il titolo di bocciatura del secolo. Quello scorso, ovviamente: nel 1944 il poeta T.S. Eliot, che all´epoca lavorara per la Faber & Faber, una delle più prestigiose case editrici britanniche, respinse il manoscritto di La fattoria degli animali, la celebre allegoria del comunismo, scritto da George Orwell, destinato a diventare il più famoso scrittore di fantapolitica del suo tempo. «Poco convincente», lo liquidò Eliot, pur ammettendo che era «ben scritto» e apprezzandone «la fondamentale integrità». Ciò che non gli andava, tuttavia, era la visione politica del romanzo, una feroce satira dello stalinismo e dell´Unione Sovietica: in un momento in cui il Regno Unito era alleato dell´Urss nella guerra contro Hitler, il poeta trovava l´apparizione di un libro simile politicamente scorretta, per usare un´espressione odierna.
«Non siamo convinti che questo sia il corretto punto di vista da cui criticare la situazione politica corrente», osservava Eliot nel giudizio editoriale con cui veniva respinto il manoscritto. «La visione politica espressa, che a mio parere si potrebbe definire trozkista, non ci convince». Il poeta entrava poi nell´analisi speficica del romanzo, ambientato in una fattoria i cui animali, sfruttati dal padrone, decidono di ribellarsi e instaurare una loro democrazia, con una rivoluzione capeggiata dai maiali che ben presto degenera in una tragicomica dittatura. «Dopo tutto, i suoi maiali sono di gran lunga più intelligenti degli altri animali, e dunque i meglio qualificati per dirigere la fattoria», scriveva Eliot a Orwell. «In effetti non ci sarebbe nemmeno stata una fattoria senza i maiali, cosicché ciò di cui ci sarebbe bisogno, potrebbe sostenere qualcuno, non è una maggior dose di comunismo, ma maiali animati da migliori intenzioni».
Il libro fu poi pubblicato l´anno seguente da Secker & Warburg, un altro editore londinese, e diventò gradualmente un classico, seguito dall´altra satira del comunismo scritta da Orwell, ancora più amara, 1984, apparso nel 1948. Lo scrittore, a lungo militante di sinistra, aveva partecipato alla guerra civile spagnola a fine anni Trenta, tornandone però con posizioni di dura critica verso il partito comunista spagnolo e verso l´Urss, accusati di avere distrutto la sinistra anarchica, così favorendo involontariamente la vittoria dei falangisti di Franco. Eliot, nato negli Stati Uniti e poi diventato cittadino britannico, è morto nel 1965. La sua bocciatura di La fattoria degli animali è stata rivelata dalla vedova, Valerie, sua seconda moglie, oggi 81enne, con cui si sposò nel 1957, nonostante fosse più vecchio di trentotto anni. La lettera fa parte di documenti inediti sul poeta forniti alla Bbc per un documentario che andrà in onda questa estate.

Corriere della Sera 30.3.09
Dopo la sfida del presidente della Camera
Fine vita, Bondi apre. E i laici: ora si cambi la legge


ROMA — Alla bocciatura di Fini della legge sul testamento biologico votata dal Senato (è degna di uno «Stato etico») Berlusconi nel suo discorso non replica in alcun modo. D'altra parte, come commenta il capogruppo alla Camera del Pdl Cicchitto, è giusto che sia così, perché serve «cautela» nel trattare un tema così delicato, serve «tempo» e servono «approfondimenti», perché le divisioni ci sono e alla Camera la pattuglia dei «laici» è consistente e agguerrita. Se Berlusconi non si espone, lo fa però Sandro Bondi: «C'è in me la consapevolezza che è la sfera politica che deve ricercare una mediazione. E io credo che ferma restando la proibizione dell'eutanasia, quando tuttavia l'alimentazione o l'idratazione significhi accanimento o irragionevole ostinazione, debba scattare la libera volontà del paziente». La sferzata di Fini insomma ha colpito nel segno. E infatti se ne rallegrano i laici come Benedetto Della Vedova: «Ho sempre detto che alla Camera almeno una cinquantina di deputati del Pdl avrebbero votato no al testo Calabrò, oggi ne sono ancora più convinto: da Montecitorio uscirà una legge molto diversa». Ci spera Margherita Boniver, che pure preferirebbe che una legge non ci fosse proprio: «Sono certa che qui alla Camera si arriverà a una mediazione, Fini è stato importante». «Non si può certo ignorare l'esistenza di una grande parte di elettori laici nei confronti dei quali abbiamo l'obbligo di cercare una mediazione tra il testo uscito dal Senato e l'esigenza di garantire la libera scelta dell'individuo», ragiona Chiara Moroni.
Mentre già echeggiano le proteste dei cattolici più estremi: «Alla Camera — avverte Alfredo Mantovano — il ddl può essere reso ancora più chiaro: la gran parte dei deputati del Pdl è orientata per la tutela della vita». Con lui si schiera buona parte della vecchia An, da Gasparri ad Alemanno, ma anche un ex socialista come Sacconi, mentre altri ministri come Matteoli, Brunetta e la Prestigiacomo sono sulla linea di Fini. In attesa che qualcuno tiri fuori dal cilindro la soluzione che fin qui non si è trovata. E che secondo i maliziosi è una sola: infilare il ddl in un cassetto, e dimenticarlo lì.
P.D.C.

Corriere della Sera 30.3.09
Dialoghi L'epistemologo e lo scienziato discutono del rapporto tra nuovi costumi sociali, determinismo biologico e libero arbitrio
Un piercing contro la tirannia dei valori
Giorello: «È un segno per opporsi all'estetica di Stato». Boncinelli: «No, è conformismo»
di Edoardo Boncinelli e Giulio Giorello


Boncinelli — Se facciamo un passo indietro nella storia dell'umana avventura, riscontriamo periodi lunghissimi in cui l'individuo era ben poco libero, perché pesava su di lui una grande quantità di vincoli propriamente materiali, oltre a essere costretto dal sovrano, dalle leggi del Paese, dalla necessità di lavorare quindici o più ore al giorno. La situazione è cambiata, almeno nelle aree più sviluppate, e quindi le costrizioni sono meno materiali di una volta. Insomma, rischi di meno di essere sequestrato in casa tua come in un carcere; ma puoi ancora autosequestrarti! Non stiamo constatando un aumento di conformismo persino nelle nostre società aperte, libere e democratiche? Uno degli aspetti che più mi infastidiscono è che tutti parlano degli stessi argomenti magari usando anche parole identiche: è un conformismo strisciante, subdolo, e pure spesso difeso con le unghie e con i denti, un vero «conformismo militante», perché molti non ne sono neanche consapevoli. Non è una novità, visto che nel secolo che si è appena concluso qualcuno ha battezzato fuga dalla libertà l'impulso che ti respinge nel gregge. (...) Se considero quante persone si lasciano trascinare dalla corrente, mi rendo conto di come il fenomeno sia capillare. Pensiamo a quante coppie si sono reciprocamente rovinate grazie all'idea di una falsa uguaglianza, al principio per cui bisognava prima affermare certi valori e poi viverli, che il privato fosse pubblico ecc. Guardiamoci da quegli utopisti che predicano l'emancipazione dai vincoli sociali e poi sono i primi a opprimere coloro che non pensano come loro vorrebbero!
Giorello — Ma questa perversa deriva è, per me, solo un caso particolare di quella che è stata chiamata «la tirannia dei valori». In una delle sue più provocatorie riflessioni il giurista tedesco Carl Schmitt ha mostrato come questo tipo di dispotismo «non faccia che fomentare e inasprire l'antica, perdurante lotta delle convinzioni e degli interessi». L'elevare una convinzione o un interesse a «valore», infatti, finisce col giustificare qualunque mezzo per instaurare l'autentico «regno dei fini», il che fa della nostra Terra quel «paradiso dei valori» che non è altro che l'inferno per le persone in carne e ossa.
Boncinelli — Sui valori avrei veramente tanto da dire. Un mio aforisma suona così: «I valori sono cose sulle quali non si discute, o non si discute più». Un altro: «I valori sono i padri nobili di tutte le guerre». Questo è connesso con il famoso problema dell'autenticità, che è stato sollevato in sede filosofica, ma a cui si è attinto a piene mani in sede psicoanalitica. Quante volte ho sentito psicoanalisti più o meno capaci accusare qualcuno, in particolare un paziente, di non essere «autentico». Che bella frase, e come suona bene! Richiama il precetto delfico e socratico Conosci te stesso.
Ma quello che mi chiedo è: chi può mai sapere quale sia la mia «vera» autenticità? Forse, c'è qualcosa nel nostro animo che, come dire, ci spinge ad autoincatenarci, almeno ideologicamente, visto che esserlo materialmente non sembra piacere a nessuno. Non ci dimentichiamo, però, che i ragazzi di oggi si riempiono di
piercing per propria scelta quando, se la stessa cosa fosse stata loro imposta dallo Stato, avrebbero fatto una rivoluzione con le unghie e con i denti.
Giorello — Non amo particolarmente il
piercing, ma vorrei spezzare una lancia in difesa di quei ragazzi, o meglio in difesa della loro insofferenza per un'estetica di Stato. Del resto, persino un piacere talmente «vizioso» come, poniamo, il whiskey diverrebbe una costrizione se imposto dallo Stato... Il male è che, talvolta, come nel caso del proibizionismo Usa del secolo scorso, l'autorità si guarda bene dall'imporre il whiskey, semmai lo vieta. Chissà se è peggio il vizio imposto o la virtù coatta.
Boncinelli — Tu vorresti sempre meno divieti e sempre meno imposizioni. Non sei troppo ottimista?
Giorello — Niente affatto! Vorrei commentare insieme con te la principale obiezione che già Spinoza si sentiva rivolgere. La illustro ricordando una vignetta statunitense ormai celebre. L'avvocato difensore di un assassino portato di fronte al giudice proclama: «Il mio cliente è innocente! Ha ucciso, sì: ma non ha ucciso perché lo volesse, ha ucciso perché è un aggressivo e la sua biologia è di un certo tipo». Potremmo mettere al posto di biologia
che so io educazione infantile o i traumi che ha subito fino a tre anni, e la cosa non cambia. Se per bocca del suo avvocato questo signore rinuncia alla propria libertà, non è più responsabile, e allora perché non assolverlo? Magari non per rimetterlo in libertà, ma per confinarlo in una qualche casa di cura. E procedendo in questo modo, a che cosa si arriva? Si paga con una rinuncia alla libertà il cadere sempre in piedi, l'essere «socialmente perdonato». Viceversa, se uno rivendica la propria libertà, deve anche pagare il fio della propria responsabilità.
Boncinelli — Considerare un individuo responsabile delle sue azioni significa ritenerlo veramente libero. Se aumenti il numero delle scusanti, riduci di fatto la libertà.
Giorello — Non c'è libertà senza responsabilità. Lo possiamo assodare senza invocare il libero arbitrio. Ma alcuni ne propongono una concezione performativa: se noi crediamo nel libero arbitrio, allora ci comportiamo da persone libere.
Boncinelli — È quella che studiosi statunitensi chiamano anticipazione determinante:
se io penso una cosa, mi comporto in una certa maniera per soddisfare a quello che ho pensato.
Giorello — Io, invece, non ritengo che sia il credere nel libero arbitrio a renderci liberi. Ci rende liberi a livello osservativo, dal di fuori,
semplicemente l'assunzione di responsabilità. Siamo, ovviamente, «determinati» (nel mio senso) a questo gesto, o al suo contrario — la ricerca delle scusanti o magari la pratica «papista » della confessione. Che bravi questi «pensatori », ossequiosi dell'istituzione nota come Chiesa cattolica romana, che teorizzano insieme il siamo tutti peccatori e il basta che io mi penta e vado via «assolto»!
Boncinelli — Sotto questo profilo la dottrina che ci vede tutti inesorabilmente come dei peccatori è esiziale; se mi ritengo schiavo di Satana, ho una scusante «interna» per comportarmi male. Quindi, la teoria del peccato inevitabile e tentatore è una concezione non propulsiva, ma frenante. Se mi considero libero, invece, mi comporto un po' meglio.

Corriere della Sera 30.3.09
Rosario Villari racconta il suo 1956
Budapest in fiamme e Stalin a Posillipo
di Paolo Franchi


«Ti devi chiavare 'n capa, ti devi mettere bene in testa, che, quando a Mosca decidono una cosa, decidono la cosa giusta». In bocca a Salvatore Cacciapuoti, segretario nei plumbei anni Cinquanta della federazione comunista napoletana, l'affermazione non suona troppo sorprendente: Caccia è fatto così, la sua concezione del partito è questa, e i compagni che non lo sapevano hanno avuto modo di impararlo a loro spese. Ma Rosario Villari, all'epoca giovane storico, redattore della rivista Cronache meridionali (direttori Giorgio Amendola, Mario Alicata e Francesco De Martino), nonché membro del comitato federale di Napoli, resta di stucco lo stesso: quella che Cacciapuoti gli sta notificando in forme così colorite è l'espulsione dal partito. E la sua sorpresa e il suo smarrimento aumentano quando apprende che a Bologna anche un altro giovane studioso destinato a un brillante futuro nel Pci, Renato Zangheri, è nei guai. Adesso, a fargli tornare alla memoria la vicenda è stata la visione di Pane e libertà, la fiction su Giuseppe Di Vittorio diretta per la Rai da Alberto Negrin, in cui si narra anche del duro scontro tra il grande sindacalista pugliese e Palmiro Togliatti nei giorni della rivolta ungherese del 1956. Il 26 ottobre, mentre a Budapest si combatte, la segreteria della Cgil, in un comunicato, ravvisa in quella tragedia «la condanna storica e definitiva di metodi antidemocratici di governo e di direzione politica che determinano il distacco tra dirigenti e masse popolari», e deplora l'idea stessa che se ne possa venire a capo con un intervento militare. Con ogni probabilità, a prendere l'iniziativa sono i dirigenti socialisti della Cgil, ma certo Di Vittorio la fa subito propria: il giorno successivo, in una dichiarazione, rende noto che quel giudizio è anche il suo, perché in Ungheria «non ci sono forze di popolo che richiedono il ritorno del capitalismo o del regime di terrore fascista di Horthy». È l'esatto opposto di quel che sostiene il gruppo dirigente del Pci, convinto che, di fronte alla controrivoluzione, occorra stare «da una parte della barricata», come recita il titolo di un celebre editoriale di Pietro Ingrao sull'Unità. «Come si può solidarizzare — dirà Togliatti in polemica con Di Vittorio — con chi ci spara addosso, e mentre si cerca di creare una grande ondata reazionaria »?
Cresce, nel Pci, il dissenso, soprattutto tra gli intellettuali. A Roma, è in programma un convegno di storici presso l'Istituto Gramsci. Secondo la ricostruzione di Albertina Vittoria ( Togliatti e gli intellettuali. Storia dell'Istituto Gramsci negli anni Cinquanta e Sessanta, Editori Riuniti, 1992) alcuni, tra i quali Ernesto Ragionieri, Saverio Francesco Romano e gli stessi Villari e Zangheri, decidono di fare appello a Di Vittorio perché si rechi subito a Budapest. Ma Villari ha ricordi un po' diversi: «Zangheri e io chiedemmo al partito, senza tanti giri di parole, di fare propria la posizione di Di Vittorio. E probabilmente l'espulsione arrivò anche perché della nostra richiesta dette notizia Il Giorno ».
E Villari come la visse, l'espulsione dal Pci? «Capisco che la cosa possa apparire strana, ma, almeno nel mio caso, non ci fu alcun ostracismo, e non ci furono nemmeno particolari conseguenze. Nel senso che, Cacciapuoti a parte, nessuno, né Amendola né Giorgio Napolitano né Gerardo Chiaromonte, mi disse nulla in proposito. La mia vita non cambiò. La mattina andavo in biblioteca, all'una mi vedevo con Chiaromonte, che era il direttore responsabile di Cronache meridionali, in una rosticceria vicino piazza Municipio, Pizzicato, io per mangiare un boccone, lui peperoni ripieni. Poi Chiaromonte se ne tornava nella sede della federazione comunista, e io in biblioteca a lavorare. Verso le sei del pomeriggio, me ne andavo esattamente come prima in via Carducci, nella libreria di Gaetano Macchiaroli, il nostro editore, per lavorare alla rivista. Cronache meridionali, in pratica, la facevamo tutta Chiaromonte e io, perché Amendola, Alicata e De Martino, i direttori, non si vedevano quasi mai. L'espulsione non mise fine a questa esperienza molto bella in una Napoli che a quell'epoca era davvero, e non solo ai miei occhi di calabrese, una capitale: debbo in gran parte al lavoro di quegli anni uno dei miei libri a cui tengo di più, Il Sud nella storia d'Italia ».
Qualche anno dopo Villari viene riammesso nel partito: senza clamori, proprio come quando era stato espulso. «Mi arrivò per lettera l'invito a seguire i lavori del congresso, e ne fui piacevolmente stupito. Ma restai più stupito ancora quando, al congresso, mi chiamarono alla presidenza. Come se non fosse successo nulla».

Repubblica 29.3.09
Meno male che c'è Fini
di Eugenio Scalfari


Era stato concepito come un congresso-show e così si è svolto, ma sarebbe grave errore interpretarlo solo come un evento mediatico. Il Popolo della libertà ha ancora l´apparenza d´un partito di plastilina, malleabile e manipolabile con facilità, ma ha un´armatura di ferro costituita da interessi largamente diffusi nella società italiana: le partite Iva, le piccole imprese, il lavoro autonomo, le clientele del Sud e delle isole, i disoccupati e i giovani in cerca di lavoro. A suo modo è un blocco sociale che crede di aver trovato la sua rappresentanza e la sua tutela nel carisma berlusconiano.
Lo show fa parte della rappresentazione, serve a celebrare il Capo che oggi sarà incoronato; ha anche i suoi aspetti impietosi che rivelano lo spirito del luogo. Uno di tali aspetti l´abbiamo colto nell´esibizione dei quattro giovani che hanno parlato in apertura del congresso. Non tanto per i discorsetti che hanno letto quanto per i gesti di commento del Capo seduto in platea. Quando uno di essi l´ha chiamato eroe lui ha alzato il dito pollice in segno di euforica approvazione e di nuovo l´ha alzato quando un altro ha aggiunto che tutto quanto di buono è stato fatto in Italia lo si deve soltanto a lui. Il giorno dopo, durante il discorso di Fini nei suoi passaggi più dissenzienti, la maschera del Capo era del tutto diversa: un sorriso-smorfia gli increspava le labbra e il teleschermo diffondeva quell´immagine di evidente fastidio che le parole del presidente della Camera gli suscitavano.
Intanto la colonna sonora dello show passava dall´inno di Mameli all´inno alla gioia beethoveniano per affidare alla canzone "Meno male che Silvio c´è" la conclusione della sigla musicale.
Un´altra osservazione, per restare ancora sullo show: nella grande platea predominavano le bionde e nelle primissime file i giovani e le giovani di bell´aspetto perché al Capo piacevano così e così è stato fatto. Alcune (attendibili) malelingue dicono che per esaurire in modo conveniente i 56 posti a sedere di ogni fila, gli organizzatori siano anche ricorsi ad appositi centri di ricerca di figuranti e comparse, ma forse non è vero.
Ci sarebbe molto altro materiale per irridere, ma sarebbe inadatto a commentare un congresso serio e importante; perciò cambiamo registro.
La prima conclusione da trarre contrasta con quanto dicono alcuni attendibili sondaggi circa la durata del nuovo partito quando il suo leader non sarà più Silvio Berlusconi. Quei sondaggi dicono a forte maggioranza che il partito si dissolverà, non sopravviverà al suo fondatore. Ma a noi sembra sbagliato. La fusione con Alleanza nazionale non gli porta idee diverse con le quali confrontarsi, ma gli porta una prospettiva di durata che va oltre la sua leadership. Questo sì, è il plusvalore che Forza Italia, se fosse rimasta sola, non aveva. An è meno liquida di Forza Italia, perciò ha maggior resistenza al trascorrere del tempo e questo è il valore aggiunto di questa fusione.
Perciò, quale che sarà il leader che verrà dopo Berlusconi, il partito nato oggi ci sarà ancora per lunghi anni e non sarà facile smontare il blocco sociale che intorno ad esso si è coagulato. In altri tempi l´abbiamo creduto ma oggi crederlo ancora sarebbe profondamente sbagliato. La sinistra si dovrà confrontare a lungo e seriamente con questa realtà a cominciare da subito se ci riuscirà.
* * *
La parola popolo è stata quella più pronunciata nei vari interventi congressuali e soprattutto nel discorso di apertura del premier. Il quale ha fatto di quella parola il pilastro della sua concezione politica e istituzionale. Il popolo sovrano esprime il leader. Nel caso nostro è piuttosto il leader che ha costruito politicamente quel popolo, questo merito (o demerito) gli va onestamente riconosciuto.
Tra il popolo e il leader non ci sono intermediari e se ci sono vanno spazzati via o conservati come semplici simboli senza funzioni.
Il popolo si esprime plebiscitando il leader e votando per il suo partito e instaura in Parlamento, nelle Regioni, nei Comuni, la legittima dittatura della maggioranza che è lo strumento tecnico per trasformare in norme giuridiche e atti di governo le decisioni del Capo.
Nel suo discorso di apertura Berlusconi ha fatto un elenco dei valori comuni a tutto il Popolo della libertà. Il primo valore è, ovviamente, la libertà stessa. Il secondo la modernizzazione. Il terzo la meritocrazia. Il quarto l´identità nazionale a formare la quale entrano in gioco il mito della romanità, i Comuni e le Repubbliche marinare del medioevo, il Rinascimento, il Risorgimento, De Gasperi e ovviamente la Chiesa, Craxi e infine lui, il nuovo eroe (scusate se torno ad usare questa parola ma essa fa parte integrante della sostanza della concezione politica berlusconiana).
In quel lungo discorso di 90 minuti manca del tutto una menzione. Si parla di libertà, si parla di democrazia, si parla di Costituzione, si parla di giustizia sociale, ma non una menzione e neppure il concetto della divisione dei poteri. Cioè di stato di diritto. Cioè di controllo. I poteri di controllo politico del Parlamento. I poteri di controllo costituzionale del Capo dello Stato e della Corte. I poteri di controllo di legalità della magistratura.
Neppure un cenno alla natura indipendente di tali poteri. Si parla invece diffusamente del potere sovraordinato del leader scelto dal popolo di fronte al quale tutti gli altri debbono essere subordinati, rotelle d´un ingranaggio, o debbono scomparire perché inutilmente lenti, frenanti, ostacolanti, incompatibili con la cultura del fare.
Il fare non è un obbligo, è inerente alla vita di ciascuno, il fare costituisce il senso stesso della vita. Una vita inerte è una non vita. Non è dunque una cultura, quella del fare, ma un fattore biologico come il respiro, il movimento, il desiderio, la speranza. Insomma il senso.
Oppure il fare è una nevrosi, un´egolatria, un´ipertrofia dell´io, che per realizzarsi deve sopra-fare: fare intorno il deserto, sbarazzarsi dei corpi intermedi, di ogni opposizione, di ogni stato di diritto, di ogni organo di controllo. Perciò l´aspirazione e l´evocazione d´un consenso che superi il 50 per cento degli elettori.
Le monarchie di diritto divino, quelle dell´"ancien régime", erano collegate al popolo senza intermediari, in lotta perenne contro i Parlamenti e contro i nobili. Lo Stato faceva tutt´uno col patrimonio del Principe, che riuniva in sé il potere di fare le leggi e di eseguirle oppure di ignorarle a suo piacimento. Le monarchie costituzionali (lo dice la parola stessa) furono tali perché soggette alla Costituzione. Perché la magistratura conquistò l´indipendenza. E i Parlamenti divennero i destinatari delle scelte del popolo sovrano.
Tutto questo per dire che la concezione politica di Silvio Berlusconi fa a pugni con l´obiettivo della rivoluzione liberale da lui indicato come il fine principale del Popolo della libertà.
Ma ci sono altre ragioni per le quali quella rivoluzione non si farà e non s´è mai fatta: gran parte degli interessi agglomerati e rappresentati dal centrodestra sono contrari ad essa così come gli sono contrari gran parte degli interessi rappresentati dalla sinistra. Perciò i tentativi di rivoluzione liberale in questo paese sono sempre falliti. Per il conservatorismo innato nella destra e nella sinistra. Li ha sostenuti soltanto il riformismo nei brevissimi periodi in cui ha governato: nel quindicennio giolittiano del primo Novecento, nella fase riformatrice di De Gasperi-Vanoni, nelle regioni centro-settentrionali guidate dall´egemonia socialdemocratica del Partito comunista e nel triennio prodiano del 1996-´98 abbattuto dalla sinistra.
C´è ancora una pepita di riformismo nel Partito democratico che stenta tuttavia a farne un valore condiviso dai suoi aderenti. Sarà una lotta lunga e dura.
Quella di Berlusconi è più facile perché fa appello ad una costante psicologica degli italiani: l´antipolitica. In nessun paese dell´Occidente l´antipolitica è un sentimento così diffuso e questa è una delle cause che ha ridotto la politica ad un livello poco meno che abietto; è un corpo separato e quindi aggredito e aggredibile da tutte le disfunzioni e da tutti gli inquinamenti.
* * *
Nel secondo giorno il congresso del Popolo della libertà ha cambiato faccia con il discorso congressuale di Gianfranco Fini. Non sembri una sviolinatura al "compagno" Fini, premio di consolazione ai disagi della sinistra, ma è invece un´analisi oggettiva d´un intervento degno di un uomo politico che ormai ha acquisito lo spessore d´un uomo di Stato.
Gran parte di quel discorso Fini l´aveva già pronunciata al congresso di scioglimento del suo partito pochi giorni fa, ma averlo ripetuto al congresso del nuovo partito in presenza del suo re incoronato e del suo pubblico devoto e osannante è un atto di coraggio che non si può sottovalutare.
All´inizio ha dovuto bruciare qualche grano d´incenso alla lungimiranza di Silvio, alla perseveranza e alle capacità di Silvio, alla sua lealtà e qualche altro grano di assenzio nei confronti della sinistra, della sua incapacità riformatrice e del suo sguardo perennemente rivolto al passato. (Ma Fini ha voluto dimenticare che vengono dalla cultura della sinistra alcune regole di mercato come la creazione della Consob e dell´Autorità antitrust, l´obbligo di trasparenza delle società quotate in Borsa, la legge sull´Offerta pubblica di acquisto-Opa e infine la massima delle riforme della storia italiana, l´abbandono della lira e l´adozione dell´euro. Non sono fatti che smentiscono le sue affermazioni, onorevole Fini?).
Ma poi è cominciata la parte vera del discorso ed è allora che il volto del Capo si è impietrito nel sorriso-smorfia e la variazione somatica è apparsa anche evidente sui volti dei suoi ex colonnelli di An.
Fini ha detto che il nuovo partito dev´essere pluralista. Che su Berlusconi, capo indiscusso, incombe però il compito di garantire quel pluralismo. Che è necessario intraprendere una riforma costituzionale per instaurare una democrazia governante. Ha insistito tre volte su questo binomio e la terza volta l´ha scandito perché entrasse nella memoria degli ascoltatori. E ne ha spiegato il senso: maggior potere al governo e al premier per governare con la rapidità richiesta dai tempi; ma anche maggiori poteri di controllo democratico al Parlamento. Se non è governante la democrazia affonda, se non è democratica si trasforma in autocrazia. Le due parole stanno insieme o affondano insieme.
Ha parlato del principio di legalità (che Berlusconi non aveva neppure nominato) come dire dello stato di diritto. Ha auspicato che il Partito democratico si riconsolidi ricordando che esso è portatore di valori necessari ad una democrazia compiuta. Ha descritto come sarà l´Italia tra dieci anni, pluri-etnica, pluri-religiosa, pluri-culturale, e quindi la necessità di prepararsi a questi eventi soprattutto nella scuola, nelle norme di integrazione e nel rispetto dei diritti ai quali debbono corrispondere i doveri sia dei cittadini che degli immigrati. Ha ricordato il diritto di esser curati anche per gli immigrati clandestini.
Il finale a sorpresa l´ha introdotto con una citazione latina: «In cauda venenum». E poi: «La legge che avete votato al Senato sul testamento biologico è una cattiva legge, lede i diritti di libertà. So di essere in minoranza su questa questione e sul mio concetto di laicità dello Stato, ma mi auguro che ci ripensiate».
Così ha concluso. Se avesse un Apicella, forse gli scriverebbe una canzone e la intitolerebbe "Meno male che Fini c´è" ma forse lui invece di alzare il pollice, gliela strapperebbe in faccia. O almeno così si spera.

Repubblica 29.3.09
Crescita folle
Parla l´intellettuale francese Alain Minc: non è lotta di classe, ma rabbia populista
"La rivolta arriverà in Italia stipendi e pensioni dei manager hanno raggiunto livelli assurdi"
di Giampiero Martinotti


La finanza è stata folle, ma ha sostenuto una crescita folle Espansioni del 5-6% sarebbero state impos-sibili senza gli eccessi della finanza

PARIGI - Una rabbia populista contro manager che non hanno saputo darsi un comportamento in tempi di crisi si aggira per l´Europa, ma non siamo tornati alla lotta di classe: Alain Minc, intellettuale molto ascoltato nelle stanze del potere francese, ha scritto pochi giorni fa una lettera aperta ai dirigenti francesi per criticare il loro atteggiamento in materia di retribuzioni, stock option e bonus.
C´è chi parla di rabbia populista, chi intravede un ritorno della lotta di classe: cosa c´è dietro il pesante clima sociale di questi giorni?
«Non si può parlare di lotta di classe: non c´è un salariato organizzato, né una classe dirigente omogenea. Mi sembra casomai più giusto parlare di rabbia populista».
Per questo ha fatto un appello ai manager?
«Credo si debba tener conto di un clima psicologico, legato alla crisi più grave degli ultimi cinquant´anni, anche se è meno drammatica di quel che si dice. Le atmosfere sono una realtà politica e bisogna muoversi facendo i gesti necessari, ma non si deve buttar via il bambino con l´acqua sporca. Se la Confindustria francese avesse suggerito a tutti i dirigenti di società quotate di rinunciare per un anno alla parte variabile del loro stipendio e all´emissione di stock option, il problema sarebbe stato risolto, fra un anno la vita sarebbe ripresa come prima. L´incoscienza di alcuni, perlomeno in Francia, è come gettare olio sul fuoco populista».
Perché la crisi è più acuta in Francia?
«Non credo che il clima sociale sia peggiore da noi. In Gran Bretagna la violenza e la rabbia verso alcune persone sono terribili: Fred Goodwin, ex ad della Royal Bank of Scotland, è stato attaccato in casa sua, in Francia le persone chiamate in causa non si sentono fisicamente in pericolo. In Inghilterra si attaccano le persone, da noi i concetti».
Ma nelle fabbriche francesi si sequestrano i quadri dirigenti.
«Non è la stessa cosa. Sono azioni che avvengono quando ci sono impianti che stanno per chiudere: la reazione è deplorevole, non nuova e abbastanza naturale, il che non vuol dire accettabile. Penso invece che se il padronato francese, italiano e spagnolo avessero firmato, come ha fatto quello tedesco, un codice di comportamento che fissa l´atteggiamento verso le ristrutturazioni, il grado di concertazione, la politica di remunerazione, le cose sarebbero state più semplici. In certi frangenti spetta ai manager esprimersi come un gruppo sociale e assumersi un certo tipo di doveri. Si creano molte tensioni lasciando le cose in balia del caso o dei comportamenti individuali».
Ma il loro comportamento non è uguale a quello di prima, non è il frutto di una politica che viene da lontano, ben prima della crisi?
«No. Molte aziende dove si sono manifestate tensioni per le remunerazioni dei dirigenti sono aziende che hanno avuto una gestione sociale eccellente, penso alla Société Générale o a Suez-Gdf. Non si può dire che sono aziende in cui il comportamento dirigenziale è stato arcaico. E non dimentichiamo che non sono presi di mira i tycoon, gli imprenditori capitalisti. Sono invece nel mirino i manager, che possono avere un sovrappiù di stipendio senza il minimo rischio».
D´accordo, ma perché questo tema è così dilaniante proprio in Francia?
«Questo tipo di contestazione arriverà anche da voi: la situazione dei manager italiani è assurda rispetto alle norme europee. Il loro comfort è senza equivalenti in Europa».
A chi si riferisce?
«Non farò nomi, tutto è pubblico nelle società quotate, basta andare a guardare, è il vostro lavoro di giornalisti. In Italia ci sono meno stock options, ma ci sono stipendi assurdi, pensioni deliranti, liquidazioni esorbitanti».
Tutto ciò non è il frutto di un sistema che fino a un anno fa tutti, dico tutti, esaltavano? Stipendi da favola e liquidazioni d´oro non erano la regola?
«Sono stato fra quelli che hanno fissato lo stipendio di Antoine Zacharias, presidente e amministratore delegato di Vinci. Forse ha guadagnato fra i 150 e i 200 milioni, ma il corso di Borsa dell´azienda è stato moltiplicato per dieci, i dipendenti avevano il 14% del capitale e ognuno di loro ha potuto comprarsi una piccola casa con le azioni, l´azienda assumeva ogni anno 5 mila persone. Per me non è un problema che a queste condizioni i manager guadagnino una fortuna».
Gli eccessi della finanza ci sono pur stati: non è per questo che viviamo la crisi peggiore del dopoguerra?
«La finanza è stata folle, ma ha finanziato una crescita folle. Dieci anni di espansione del 5-6% all´anno sarebbero stati impossibili senza gli eccessi della finanza, perché non ci sarebbero stati i soldi per finanziare la crescita. Bisognerà valutare sul medio periodo, ma quando usciremo dalla crisi la crescita mondiale sarà del 3% e sarà rimpianta la finanza folle che permetteva un ritmo del 6%. La vita è fatta così: il sistema bancario è adesso in una situazione di oligopolio controllato dallo Stato e oggi è la risposta adeguata. Fra tre o quattro anni riapparirà il desiderio di una liberalizzazione, perché un sistema finanziario bloccato limita la crescita».

Repubblica 29.3.09
Englaro: la legge è un´offesa alla libertà dei cittadini


FIRENZE - «Più che un´offesa a Eluana, il ddl sul testamento biologico è un´offesa alle libertà fondamentali di tutti i cittadini». Lo ha detto Beppino Englaro durante una conferenza stampa a Firenze, città che domani gli conferirà la cittadinanza onoraria. Il padre di Eluana ha poi usato le parole del presidente della Camera Gianfranco Fini pronunciate dal palco del Pdl per affermare che il ddl sul biotestamento è «più da stato etico che laico». Englaro ha poi replicato all´arcivescovo Giuseppe Betori che aveva criticato fortemente la decisione del Comune (22 voti contro 16) di nominarlo cittadino onorario. «Ho il massimo rispetto per le istituzioni religiose - ha commentato Englaro - ma penso che loro non abbiano il massimo rispetto per me».

Repubblica 29.3.09
Ecco il viaggio alfa l´homo sapiens dall´Africa all´Australia
di Paolo Rumiz


Settantasettemila anni fa iniziò la migrazione più lenta della storia. Fu allora che l´uomo si mise in marcia dal continente nero per arrivare in India e poi, cinquemila anni dopo, in Oceania. Gli scienziati hanno ricostruito quell´esodo in un libro che sembra un thriller. Dove gli indizi sono orme e ossa millenarie

Succede che un giorno in Australia, ai piedi di una bassa cordigliera, nella sabbia di quarzo di un lago asciutto da diciottomila anni gli archeologi trovano resti molto speciali. È il corpo di una donna di vent´anni, cremato, accuratamente sminuzzato, ricoperto di polvere d´ocra e poi sepolto. Gli studiosi non credono ai loro occhi: le ossa hanno sessantaduemila anni, ventimila in più degli uomini delle grotte dipinte di Lascaux in Francia. La più antica cremazione della storia.
Ma l´esame del dna offre altre sorprese. La giovane antenata appartiene alla stessa razza - "homo sapiens" - degli anglosassoni colonizzatori. Niente a che fare con gli scimmieschi australopitechi o con il "neanderthal man" dalla fronte rocciosa. Come gli abitanti di Lascaux, la progenitrice è discendente dei cacciatori che popolarono l´Africa sud-orientale, la "culla della civiltà" dove l´uomo cominciò a dipingere, socializzare, seppellire i morti. E non solo: la sua gente sbarcò in Australia almeno diecimila anni prima che l´uomo nuovo arrivasse in Europa.
Ma se fu l´Africa la Grande Madre, come arrivarono fino in Oceania quegli antenati simili a noi? Come superarono il mare, visto che l´Australia è sempre stata un´isola, anche quando il gran freddo teneva basso il livello degli oceani? Già quarant´anni fa il genetista Luca Cavalli Sforza verificò che il mondo venne colonizzato da discendenti di una singola tribù africana di "homo sapiens", al massimo settecento individui di pelle nera, partiti verso il Mar Rosso settantasettemila anni fa.
Ma il primo grande viaggio dell´umanità non era mai stato rifatto. Ora degli scienziati hanno colmato la lacuna, armati di strumenti di datazione, "carbonio 14", isotopi, mappe genetiche, rivelatori di "termoluminescenza", e delle ultime conoscenze di paleo-antropologia. Per anni hanno seguito le tracce di quelli che andarono verso il sole nascente lungo le coste dell´Oceano Indiano, attraversando il Mar Rosso come gli ebrei, e poi gli stretti di Bab el Mandeb fino al subcontinente indiano e all´arcipelago dell´Indonesia.
Uragani ed eruzioni
Ne è uscito un libro appassionante - The Bone Readers, i lettori di ossa, appena uscito a Sydney e nel Regno Unito - che ripercorre in termini divulgativi quell´emigrazione primordiale durata cinquemila anni e ne segue le tappe in una Terra battuta da uragani, freddi polari e spaventose eruzioni. Uno degli autori è italiano, Claudio Tuniz, del Centro di fisica di Trieste, specialista in datazioni con gli acceleratori di particelle. Con lui, Richard Gillespie, archeologo di Sydney, e Cheryl Jones, giornalista scientifica di antenati aborigeni.
Più che un romanzo è un thriller. Un viaggio dove le vie - per dirla come Chatwin - si svelano non attraverso i "canti" ma attraverso micro-segnali captati dallo stetoscopio di apprendisti stregoni. Un´esplorazione nel tempo, che parte dal capolinea-Australia, terra dove basta grattare per toccare l´età della pietra. Orme umane, come quelle trovate pochi anni fa sul lago Wilandra, a ovest di Sydney. Vecchie di ventimila anni e perfettamente conservate.
All´origine c´è l´Africa, predisse Charles Darwin prendendo atto dell´enorme quantità di scimmie sul "Rift", la frattura nord-sud che taglia l´Africa Orientale. Oggi tutto conferma quell´intuizione; ed è dall´Africa, nella Pompei dell´età della pietra, la grotta di Sterkfontein, che parte la ricerca dei primi viaggiatori. C´è tutto in quel precipizio dove i corpi cadono restando intrappolati in un antico fondale marino. I primi ominidi di tre milioni e mezzo di anni, preservati quasi intatti.
Lì si legge come in un film la storia della scimmia nuda che si alza in piedi, afferra una pietra, la sgrezza, poi - centomila anni fa - comincia a esprimere linguaggi complessi come i riti di sepoltura e infine, settantasettemila anni fa, spinta da un´irrefrenabile inquietudine migratoria, decide di partire. La pattuglia avanzata di un popolo mangiatore di pesce, capace di navigare e organizzato in tribù.
Allora la Penisola Arabica è terra fertile e il Sahara popolato di elefanti. Il Golfo Persico è in gran parte libero dal mare a causa delle glaciazioni, e poiché le montagne sono coperte di ghiacci, non resta che la costa. È così che l´homo sapiens raggiunge l´India e l´Andra Pradesh, dove lascia strumenti in pietra molto simili a quelli sudafricani.
Bivio epocale
In quegli anni una gigantesca eruzione cambia il clima della Terra e porta i nostri antenati viaggianti a un passo dall´estinzione. «Di questa tappa ci sono rimasti solo i manufatti», spiega Tuniz. «Non abbiamo ancora resti umani, ma la strada dell´homo sapiens in India è chiara». L´orologio del tempo segna settantamila anni fa. E la strada si avvicina a un bivio epocale, nel Bangladesh. Qui il popolo in movimento si divide. Una parte sale verso i fiumi della Cina, per raggiungere lo stretto di Bering, trampolino verso le Americhe. Un´altra parte scende verso la Malacca e, di isola in isola, attraversa l´ultimo stretto di mare per l´Australia.
Anche qui mancano resti umani, ma c´è un segnale del passaggio che surclassa tutti gli altri: lo sterminio dei grandi animali. Non si sa cosa sia stato: una caccia indiscriminata, l´incendio delle foresta vergine, oppure una mutazione climatica contemporanea. Fatto sta che scompaiono all´improvviso, in simultanea. Giganteschi struzzi, marsupiali grossi come orsi grizzly, ippopotami dalla faccia di cammello. Non ne rimane traccia, dopo l´arrivo del grande cacciatore.
Lo stesso accade con le altre razze umane. Homo sapiens elimina i possibili concorrenti. Via neanderthal; via l´homo erectus arroccato da due milioni di anni in Cina; via i piccoli "hobbit" rifugiatisi nell´isola di Flores, Indonesia, dov´erano convissuti con microscopici elefanti (oggi estinti) e aggressivi lucertoloni di quattro metri, ancora oggi padroni della giungla.
Ovviamente gli aborigeni esultano. Orgogliosi di sapersi più antichi degli europei, all´apertura delle olimpiadi di Sydney hanno vantato i loro «sessantamila anni di cultura» per avanzare diritti sul territorio australiano, in antagonismo con i conquistatori bianchi. La rivoluzione biologica generata da Darwin, si legge nel libro, aveva incoraggiato la rapina ai danni dei primitivi, degradati al ruolo di sotto-uomini e costretti a subire insulti come l´esposizione dei loro scheletri nei musei occidentali.
Oggi l´Australia sta facendosi restituire da mezzo mondo le ceneri dei progenitori ma succede che, quando i legittimi eredi ne vengono in possesso, questi provvedono a una nuova cremazione purificatrice secondo i riti degli antenati, il che genera inevitabili tensioni col mondo della ricerca. Stranezze del secolo Ventunesimo: guerre scientifiche e scontri politici attorno a ossa del paleolitico. Forse gli apprendisti stregoni hanno messo in moto una macchina che nessuno riesce a fermare.

Repubblica 29.3.09
Giulio Einaudi: l'uomo che pensava i libri
di Nello Ajello


Dieci anni fa moriva il grande editore che divideva gli autori in due categorie: "astri sorgenti" e "vecchi tromboni" Lo ricordiamo con un suo scritto inedito e profetico sul difficile mestiere di vendere cultura senza tramutare il mondo in un mercato
Quando gli si addebitava di circondarsi, in azienda, di gente di sinistra, rispondeva: "Io non gli chiedo la tessera, però se lavorano qui sono quanto meno dei democratici"

il ritratto più efficace di Giulio Einaudi lo scattò Natalia Ginzburg in una lettera che gli inviò al culmine della sua carriera di editore. «Quello che succede a te è questo», gli scrisse. «Una volta che hai stampato un libro, la figura dell´autore passa nel regno delle ombre. Stampato il libro, ti metti in testa che il libro sia tuo». Ne hai costruiti più di Balzac, sottintendeva l´amica scrittrice, assai più di Dumas padre. Puoi guardare dall´alto Gogol e Molière.
È verosimile che l´editore entrasse nello scherzo con un cenno d´assenso. Lui era da sempre oggetto di una mitologia ridondante ma in fondo complice. A sorreggere simili storielle non mancavano d´altronde i numeri: un catalogo Einaudi uscito nel 1991 parlava, già allora, di seimila volumi stampati. A maggior ragione, perciò, cercare nell´aneddotica che riguarda il «divo Giulio» le definizioni più o meno ammirative sarebbe come consultare d´un sol fiato un´enciclopedia. Ne firmavano le voci coloro che gli erano più vicini. «Gelido quasi fosse stato costruito di ghiaccio», lo descriveva il vecchio collaboratore Norberto Bobbio. Il critico Cesare Segre lo trovava «bizzoso e capriccioso». Giudicandolo «elegante», con «gli occhi azzurri un po´ freddi», Rossana Rossanda notava che egli «non parlava molto, ascoltava e dirigeva».
Spesso Giulio - detto "il Cavaliere Esistente" per distinguerne l´imperiosa e silente corposità dal modello effigiato da Italo Calvino - usava sottrarsi con la massima cura a chi gli chiedeva un incontro. Il numero della casa editrice, a Torino, fu per molti anni facile da mandare a memoria: 553761. E Carlo Levi gli costruì intorno un epigramma. Diceva così: «Cinque cinque tre sette sei uno - Giulio Einaudi è figliolo di re - Giulio Einaudi non c´è per nessuno - Giulio Einaudi, mi spiace, non c´è».
Cesare Cases, prezioso consulente, sosteneva che Giulio divideva l´umanità in due categorie: «Astri sorgenti» e «vecchi tromboni». Corollario implicito: i primi si scorgono da lontano, i secondi vanno lasciati ai propri clamori.
Perfezionista e aggressivo, Giulio veniva paragonato dal suo omonimo e dipendente Giulio Bollati a Luigi XIV per la fiducia che riponeva nei propri collaboratori. Perseguitato da una nomèa di scialacquatore, egli secondava con esultanza quest´inclinazione quando c´era da correggere qualcosa che non gli andava a genio. Era capace di mandare al macero montagne di copertine già stampate. Il suo amico Vittorio Foa - che aveva fra l´altro condiviso con lui il vagone cellulare nel tragitto Torino-Regina Coeli quando i fascisti li arrestarono come sovversivi nel 1935 in una retata di "einaudiani" e simili - sosteneva che lui, l´editore, «i libri non li leggeva, li annusava».
Sto percorrendo la leggenda d´un uomo e di un´impresa negli anni d´oro. Va tuttavia colto un momento nel quale l´inno intonato a gloria di Einaudi e della Einaudi ha rischiato di mutarsi in elegia. Fu quando, messa in mora l´esperienza comunista, vennero addebitate alla casa editrice sostanziali responsabilità nel far prevalere in Italia l´egemonia culturale della sinistra. Simili addebiti avrebbero accompagnato l´ultimo decennio di vita dell´editore, già amareggiato dalle ricorrenti crisi aziendali che preludevano all´assimilazione della Einaudi nell´impero berlusconiano.
Non sono certo mancati, allora e in seguito, i difensori appassionati del «divo Giulio». Bobbio fra i primi invitò i detrattori a scorrere il catalogo Einaudi: ci si accorgerebbe, allora, che «sono più numerose le opere di Wittgenstein che quelle di Marx». Ci fu chi parlò di «sciacallaggio». Chi di «bestemmia». A Luisa Mangoni, che ha dedicato dieci anni fa un volume alla Einaudi, Pensare i libri, bastò enumerare i filoni culturali, presenti nella casa editrice, che non andavano in direzione della falce e martello: dalla famosa "collana viola" a cura di De Martino e Pavese, alle opere di Jung, di James G. Frazer (Il ramo d´oro) o di quel Mircea Eliade che a sinistra è visto come un controrivoluzionario.
Lui, il creatore dello Struzzo, rispondeva più annoiato che sdegnato. Citava fra i «suoi» autori Hemingway e Sartre, Salvemini, Franco Venturi e De Felice. Quando gli si addebitava di circondarsi, in azienda, di gente di sinistra, rispondeva: «Io non gli chiedo la tessera, però se lavorano alla Einaudi sono quanto meno dei democratici». Uno di questi collaboratori "storici", Guido Davico Bonino, ha raccontato i primi approdi in casa editrice di Renzo De Felice, intorno al ´61. Già timido di suo, lo storico vedeva peggiorare durante queste visite la propria latente balbuzie. Padron Giulio, pur cosciente che il Mussolini defeliciano si vendeva come il pane, lo salutava di malavoglia. Lo molestava il fatto che in quella interminabile biografia Mussolini non venisse descritto come il male assoluto. «Era una cosa di pelle, non ideologica», commenta il divulgatore dell´aneddoto.
Come dire che, ai propri capricci, un Capo così non si cura di reagire.

sabato 28 marzo 2009

l'Unità 28.3.09
Conversazione con Pietro Ingrao
«Sì, la sinistra non sta bene ma nel mondo oggi c’è una grande novità: Obama»
Intervista di Pietro Spataro


Tu domanda, io rispondo...», ripete spesso Pietro Ingrao. Ha voglia di parlare: della sinistra, del mondo in crisi, della speranza Obama, della lotta per la pace, di Di Vittorio e anche di se stesso. In un angolo del salotto della sua casa a Roma c’è una marionetta di Charlot, l’eroe buffo di Chaplin che tanto ha amato. Su un mobile, tra una foto di Che Guevara e una che lo ritrae con Togliatti, c’è l’immagine (che pubblichiamo qui sotto) di un giovane direttore de “l’Unità” che fa la diffusione. Gliela regalammo noi del giornale per i suoi novantanni. «Mi piaceva molto il lavoro all’Unità...», dice. Il 30 marzo questo storico leader del Pci, ex presidente della Camera e poeta, compie 94 anni.
Cominciamo da qui: il Pd fatica, Rifondazione è in crisi. Che fine ha fatto la sinistra in Italia?
«Tu parli degli errori e della confusione della sinistra italiana: ma io credo che il Pd non sia una forza di sinistra. È un partito moderato, centrista. Quanto alla sinistra – “Rifondazione” e gli altri – purtroppo si è spaccata nelle sue risse. M’auguro ardentemente che torni a discutere costruendo».
Insomma sei pessimista?
«No, non sono pessimista. Cerco di guardare in viso le nostre debolezze. Ma nel mondo ci sono oggi figure e novità profonde. Faccio un nome prima di tutto: Obama. So bene che in Italia il panorama è profondamente diverso. E non è alle viste un Obama italiano».
Dobbiamo rassegnarci a Berlusconi?
«No. Ci mancherebbe altro. Berlusconi ha vinto soprattutto per la debolezza e gli errori dei suoi avversari: ma non ha legami e comunicazione con le forti novità che maturano nel pianeta. È uomo del passato, la sua è una destra vecchia».
Eppure l'Italia somiglia sempre più a lui. Basta pensare alla cultura della paura, alle ronde...
«Io non penso che l’Italia sia diventata tutta berlusconiana. Ma c’è un tumulto più alto e più drammatico nel globo. Si sta scatenando una crisi economica che ha fatto ricordare quella terribile del ’29. Sono prove dure che evocano e ripropongono fortemente la questione del ruolo e della forza del soggetto di classe: le sue forme preziose di autonomia, la sua lettura del mondo, il patrimonio di idee che ha seminato e che ha alimentato una grande storia. Proprio in questi giorni abbiamo visto raccontata in tv la vicenda straordinaria di un umile bracciante pugliese: Giuseppe Di Vittorio, che visse e guidò lo scendere in campo del proletariato del Sud e, attraverso lotte memorabili, divenne un grande capopopolo, un trascinante protagonista della battaglia di libertà e di riscatto delle masse lavoratrici italiane».
Che ricordo hai di lui?
«Ricordo un episodio del lontano ’56: quando pressoché tutto il Pci, me compreso, si schierò a favore dell'aggressione sovietica all'Ungheria, Di Vittorio disse di no e rimase nel partito: e anche per questa ardita limpidezza nelle decisioni, lo amammo molto. Lo rispettavamo tutti, persino Togliatti che pure era cocciuto nelle sue convinzioni, in alcuni momenti anche feroce come fu nella disgraziata polemica con Elio Vittorini».
Abbiamo evocato la crisi economica del 1929. Ci sono somiglianze con le vicende di oggi?
«Credo ci siano tratti in comune su un nodo essenziale: la sorte del lavoro subalterno e la caduta dello sviluppo produttivo. Manca lavoro per gli operai e si producono meno beni».
La crisi del capitalismo sembra ridare vitalità al pensiero di Marx e a quello di Gramsci...
«Tu evochi grandi maestri. Ma da allora tante cose sono mutate. C'è una lettura di un secolo- il grande e terribile Novecento- tutta da rifare. E qui nemmeno Marx e Gramsci bastano. E lo sguardo deve allargarsi all’intero globo».
Ma non sarà che è in crisi il modello del consumismo? Zanzotto, un poeta che conosci, parla di teologia del prodotto interno lordo...
«Amo Zanzotto, ma ho dubbi su questa lettura. Penso alla grande fame che c’è ancora oggi nel mondo, basta pensare all'Africa, all’Asia, all'America Latina. E c’è tanta fame anche qui in Italia, a cominciare dal mio amato Sud. Conosco tanti lavoratori che guadagnano molto poco e hanno scarsissime garanzie quanto al posto di lavoro. Chiedetelo a Epifani e vi dirà se ho ragione».
Rievocando Berlinguer non c’è bisogno, oggi, di austerità, di maggiore sobrietà?
«L'idea dell'austerità non mi convinceva ai tempi di Berlinguer e ancor meno la credo attuale oggi. La grande massa degli uomini non mangia troppo ma troppo poco: alcuni non hanno nemmeno un tozzo di pane...».
Abbiamo ricordato che alla Casa Bianca è cambiato inquilino. Che novità è?
«Prima di tutto la novità sta nell'avere un presidente degli Stati Uniti "nero". Ricordo un libro che si chiamava “La capanna dello zio Tom”: mi prese e mi affascinò, quando lo lessi da adolescente. E non lo dimenticai più. Ebbene, oggi un erede dello zio Tom è presidente degli Stati Uniti. A me colpisce e dà speranza. Poi – certo - è da vedere quanto tutti noi nel mondo sapremo aiutare i tentativi di quel "nero". Intanto però alla Casa Bianca c'è lui, con quel nome: Obama».
Il presidente americano ha già compiuto alcuni passi contro l'idea della guerra. Ma tu credi davvero che sia possibile scacciare la guerra dall'orizzonte degli uomini?
«È una speranza che mi porto da tanto nel cuore. Certo so bene, e amaramente, che la lotta per la pace ha avuto sinora confini troppo limitati e subìto troppe omissioni. È rimasta l'idea di una minoranza. Io stesso per la mia parte sono riuscito a fare troppo poco. Eppure resto testardamente convinto che tener viva l’idea di un mondo in pace sia scegliere un cammino dell’uomo, un’idea di civiltà. Significa leggere in altro modo le facce degli esseri umani che incontriamo per strada ogni mattina».
Alle prossime elezioni Ingrao per chi voterà?
«Per Rifondazione comunista. Non condivido numerose delle posizioni di Ferrero. Tuttavia ritengo che nell’attuale lotta politica sia essenziale la presenza a sinistra di un soggetto politico organizzato. Faccio qualche esempio: in Sinistra e Libertà ci sono tanti compagni che stimo e che mi hanno dato speranza. Penso però che quello che hanno da dire persone come Bertinotti, Vendola, Mussi e la Bandoli è meglio che lo dicano e facciano vivere operando dentro la struttura di un partito, di un soggetto politico “formato”».
Sollecitiamo il poeta: dovessi scegliere una poesia che rappresenti il tempo presente?
«Ti dirò invece la poesia che fra tutte mi piace di più al mondo: “L'infinito” di Leopardi, grande testo lirico su una enorme domanda umana. Se poi dovessi citare due autori del mio tempo che amo da matti ti rispondo: Joyce e Kafka».
E da cinefilo, un regista e un film?
«Dico subito Chaplin: quello di “Tempi moderni”, straordinaria rappresentazione dello sfruttamento capitalistico nella macchina fordista. E poi ne aggiungo un altro, italiano, più scarno, più malinconico: penso a Ladri di biciclette (di De Sica) con quel suo stupendo finale: lui, lo sconfitto, solo nella strada con il figlioletto accanto».
Sembri quasi pentito di non aver fatto cinema, la tua grande passione...
«No, alla fine mi piaceva di più la musica delle parole: più delle immagini».
Ingrao, hai intitolato una tua autobiografia “Volevo la luna”. A 94 anni come ti definiresti: deluso, sconfitto, ottimista?
«Deluso no. La vita è appassionante: mi piace vivere. Mi piacciono i colori della terra, e anche le musiche che da essa stranamente si diramano. Quanto alla luna - se posso dire - l’ho desiderata molto. Sconfitto? Forse mi ci sento e accetto la botta. Ottimista, invece, mi pare difficile esserlo con tanti e tanti anni sulle spalle».

Repubblica 28.3.09
La Federazione degli Ordini: serve diritto mite e condiviso
Medici su testamento biologico "Il Parlamento si fermi a riflettere"


ROMA - Fermarsi e riflettere, in modo che nel passaggio alla Camera, il disegno di legge della maggioranza sul testamento biologico possa essere migliorato. E´ l´appello lanciato non solo dall´opposizione, ma anche dalla Federazione degli Ordini dei Medici, che si sono riuniti appositamente per valutare il testo sul fine vita uscito ieri dall´Aula del Senato.
Il documento degli Ordini dei Medici punta il dito su uno dei punti più controversi del provvedimento: idratazione e nutrizione artificiale, scrivono, «per la comunità scientifica sono trattamenti assicurati da competenze mediche e sanitarie e non forme di sostegno vitale». Per questo i medici, ai quali il ddl lascia l´ultima parola anche in presenza di dichiarazioni anticipate di trattamento, si augurano che il Parlamento sappia produrre «su questa materia così intima e delicata, un diritto mite e condiviso nella certezza di un´etica forte delle persone».
All´interno della maggioranza, intanto, anche il Pri di Francesco Nucara boccia il ddl Calabrò e si dice pronto a sostenere un eventuale referendum. Ma secondo il senatore del Pd Ignazio Marino, che per primo aveva aperto a questa possibilità, non si dovrà arrivare a tanto, perché «ci saranno talmente tanti conflitti negli ospedali» che arriverà prima l´intervento della Corte Costituzionale.

Repubblica 28.3.09
L'Italia che vuole il rispetto del biotestamento
risponde Corrado Augias


Gent. Dr. Augias, la progettata legge sul testamento biologico è frutto di cinque arroganze: etica; scientifica; giuridica; logica in quanto aggirabile varcando una qualunque frontiera. Certo costa, qui viene la quinta: solo chi ha i soldi potrà farlo.
Giovanni Moschini giovanni.moschini4tin.it
Egregio dottor Augias, se la legge sul testamento biologico sarà approvata così, avremo idratazione e alimentazione di Stato. Domanda: chi si occuperà di questi ammalati in coma anche per anni? Non l´ospedale che solleciterà i parenti a trasferire il paziente in struttura adeguata. Chi sono gli Enti gestori di queste strutture?
Lino D. Preatoni lino.preatonipreatoni.com
Caro Augias, si chiama Partito delle libertà. Ma ci nega la libertà di morire in modo naturale, come si è morti da sempre, da millenni, quando la scienza non conosceva ancora sondini e altre tecniche per prolungare una vita vegetale, senza coscienza.
Ezio Pelino pelinoeziotiscali.it
Decine di lettere come ogni volta che un evento percuote in profondità la coscienza degli italiani. La loro maggioranza se dobbiamo stare ai ripetuti e concordi sondaggi. Ancora una volta come nel caso della legge 40 sulla fecondazione assistita ha vinto la gerarchia cattolica imponendo la sua volontà ad un ramo del Parlamento. Per avere un´idea dell´atmosfera in cui si è svolta la discussione ricordo due emendamenti presentati dal senatore Ignazio Marino e respinti dalla maggioranza. Il primo chiedeva che tutte le informazioni per la compilazione del "testamento" fossero pubblicate sul sito del ministero insieme al testo, qual che fosse. Questo elementare diritto all´informazione è stato negato. Il secondo recitava: «La dichiarazione anticipata di trattamento può contenere disposizioni in ordine all´eventuale donazione del proprio corpo, di organi o tessuti a scopo di trapianto, ricerca o didattica, alle modalità di sepoltura e alla assistenza religiosa». Respinto. La coscienza della libertà e la libertà di coscienza sono inseparabili. Al Senato la seconda ha violentato la prima.

Repubblica 28.3.09
Gli scienziati di Lancet sfidano il papa
La rivista inglese attacca Benedetto XVI per le parole contro il preservativo nella lotta all'Aids


Rilievi alla posizione di Ratzinger anche da parte del primate cattolico del Belgio
"Chi pronuncia una falsa affermazione scientifica ha l´obbligo di ritrattarla"

Papa Ratzinger ancora nel mirino di scienziati, politici e, persino, di qualche cardinale per le sue critiche all´uso del preservativo per fermare l´Aids. Contro la posizione del pontefice si è espressa una delle più prestigiose riviste scientifiche del mondo, l´inglese Lancet, che chiede a Ratzinger di «rettificare» quanto sostenuto, perché «ha pubblicamente distorto le prove scientifiche per promuovere la dottrina cattolica sul tema».
«Non è chiaro», scrive la rivista, «se l´errore del Papa sia dovuto a ignoranza o se sia un deliberato tentativo di manipolare la scienza per appoggiare l´ideologia cattolica». Di certo il pontefice «ha detto ai giornalisti che la lotta contro la malattia è un problema che non può essere superato con la distribuzione dei preservativi. I condom, al contrario, possono peggiorare la situazione». Con quest´ultima affermazione, sostiene la rivista, «il papa ha distorto l´evidenza scientifica». È noto infatti che il preservativo «è l´unico e il più efficace fra gli strumenti disponibili per ridurre la trasmissione per via sessuale dell´Hiv».
Nel mezzo della bufera scatenata da queste affermazioni, prosegue Lancet, «il Vaticano ha tentato di moderare le parole del papa, che sul sito web della Santa Sede sono diventate "c´è il rischio che il condom possa esacerbare il problema". Ma quando un personaggio influente fa una falsa affermazione scientifica che potrebbe avere conseguenze devastanti per la salute di milioni di persone, questi dovrebbe ritrattare o correggere la linea».
In difesa delle parole del pontefice si schiera l´associazione cattolica "Scienza e Vita": «Anche con l´editoriale di Lancet ancora una volta ci troviamo di fronte ad una palese forma di disinformazione», controbatte il portavoce Domenico Delle Foglie, «perché non si è voluto capire che il Papa in realtà ha detto che l´Aids non si combatte solo con il condom, ma prima di tutto con la formazione e l´educazione, come è successo in Uganda, che ha ottenuto importanti successi contro l´Aids promuovendo castità, monogamia e, in ultimo, anche il condom. Il Papa non è uno scienziato, è il pastore cattolico che parla ai cattolici».
In difesa di Ratzinger anche il vescovo di Orleans, monsignor Andrè Fort, secondo il quale «tutti gli scienziati sanno che il virus dell´Aids è infinitamente più piccolo di uno spermatozoo. Questo significa che il preservativo non garantisce al 100 per cento». Contro questa tesi è intervenuto il direttore dell´Agenzia nazionale di ricerca sull´Aids, Jean-Francois Delfraissy, che si è detto «scandalizzato da questa presa di posizione completamente falsa». Non meno dure le critiche che arrivano dal Belgio, dove sei deputati hanno proposto al governo il richiamo dell´ambasciatore belga presso la Santa Sede. E una sorprendente critica giunge anche dal primate cattolico del Belgio, il cardinale Godfried Danneels, a parere del quale il Papa sull´uso del preservativo e Aids «non è stato diplomatico». Il porporato ha dichiarato di essere «convinto che con i preservativi non risolve il problema dell´Aids. Ma il Papa avrebbe fatto meglio a non dirlo perché ci sono occasioni in cui l´uso del condom è l´unico modo per salvare una vita».

Repubblica 28.3.09
Gilberto Corbellini, storico della medicina
La Chiesa manipola la scienza ma in Italia si fa finta di niente


«La denuncia di Lancet? Totalmente condivisibile. Solo in Italia nessuno ha il coraggio di dire questa elementare verità», sostiene Gilberto Corbellini, professore di Storia della medicina e Bioetica all´Università La Sapienza di Roma.
Condivide l´accusa sulla manipolazione?
«È dall´evo segnato da Camillo Ruini che le gerarchie ecclesiastiche manipolano sistematicamente la scienza. Il disprezzo per le prove scientifiche era già evidente nel dibattito intorno alla legge 40 sulla fecondazione artificiale. Anche le recenti posizioni espresse sul "fine vita" tradiscono una manifesta volontà di piegare la medicina alla dottrina cattolica. Ma in Italia anche le tesi più antiscientifiche riescono a passare. Nel nostro paese, culturalmente arretrato e affetto da un congenito analfabetismo scientifico, non ci sono più argini».
La colpisce l´attacco di Lancet?
«Non è la prima volta che una rivista scientifica di peso critichi la Chiesa. Anche Science contestò il pontefice a proposito della dottrina degli embrioni. Ora l´accusa di Lancet assume toni molto severi, a ragione: la manipolazione scientifica sull´Aids può avere gravissime conseguenze».

Corriere della Sera 28.3.09
Lancet contro il Papa sul no al preservativo «Manipola la scienza»
di Bruno Bartoloni


ROMA — Lancet, una delle più prestigiose riviste scientifiche del mondo, attacca pesantemente Benedetto XVI per la sua dichiarazione sui preservativi nel corso del recente viaggio in Camerun ed in Angola. Il Papa, afferma in un editoriale, «ha pubblicamente distorto le prove scientifiche per promuovere la dottrina cattolica sul tema». Ed ancora: «Non è chiaro se l'errore del Papa sia dovuto ad ignoranza o se sia un deliberato tentativo di manipolare la scienza». Secondo The Lancet, «quando qualsiasi personaggio influente, che sia una personalità religiosa o politica, fa una falsa affermazione scientifica che potrebbe risultare devastante per la salute di milioni di persone, questi dovrebbe ritrattare o correggere». E commenta così: «Qualsiasi cosa di meno di questo da parte di papa Benedetto sarebbe un immenso disservizio per la salute pubblica, inclusa quella di molte migliaia di cattolici che lavorano senza posa per cercare di prevenire la diffusione dell'Hiv nel mondo».
La Bbc, che ha diffuso con molta evidenza l'editoriale della rivista, lo giudica «di una virulenza senza precedenti». Padre Lombardi, il direttore della Sala Stampa della Santa Sede, ha replicato che «non c'è nulla da aggiungere» a quanto è andato ripetendo su questo argomento da più di una settimana.
«Si è detto di tutto e di più — ha commentato —. Non mi sembra che si possa dire altro». A sostegno del Papa è intervenuto il vescovo d'Orleans, monsignor André Fort, con considerazioni dal sapore scientifico: «Sapete benissimo e tutti gli scienziati lo sanno: il virus dell'Aids è infinitamente più piccolo di uno spermatozoo. Questa è la prova del fatto che il condom non è una garanzia al cento per cento contro l'Aids». Per il presule francese sui pacchetti di profilattici si dovrebbe scrivere «affidabilità incerta», proprio come sui pacchetti di sigarette è scritto «pericolo».
Il capo dell'agenzia nazionale per la ricerca sull'Aids, Jean François Delfraisey, l'ha immediatamente smentito ai microfoni di Radio France: «Il condom è fondamentale per bloccare il virus dell'Aids: è un dato acquisito e dimostrato». Sempre a difesa del Papa, ma in modo più cauto del vescovo d'Oltralpe, un alto prelato vaticano rimasto anonimo, ha affermato che «è quasi un'ovvietà che il preservativo può fare da barriera al virus, seppure non al cento per cento, ma il punto è che l'illusione di un facile antidoto può incoraggiare comportamenti sociali che sono invece alla base della pandemia».

Repubblica Firenze 28.3.09
Englaro a Firenze "Onorato della cittadinanza"
Lunedì il conferimento. Betori sarà fuori città
Lettera del socialista Falciani per invitare l'arcivescovo alla cerimonia
di Simona Poli


Betori riceve una nuova lettera sul caso Englaro. A portarla in Curia ieri mattina il consigliere comunale dei Socialisti Alessandro Falciani, che scrive all´arcivescovo per chiedergli di partecipare lunedì prossimo alla cerimonia in Palazzo Vecchio in cui verrà conferita al padre di Eluana la cittadinanza onoraria di Firenze. Falciani, che aveva presentato la mozione poi approvata a maggioranza dal consiglio comunale, ricorda la contrarietà del vescovo all´iniziativa ma sottolinea come la scelta riguardi «i valori e le scelte individuali, il senso più intimo dell´esistenza e dunque la spiritualità di ogni persona». Un invito, quindi, ad una riconciliazione su un tema che ha provocato fin qui molte divisioni, sia dentro che fuori Palazzo Vecchio. Ma per sapere se e cosa l´arcivescovo risponderà a questo messaggio bisognerà aspettare qualche giorno. «Monsignor Betori, arcivescovo di Firenze, è da lunedì scorso a Roma dove ha partecipato al Consiglio permanente della Cei», spiegano dalla Diocesi, «e in questi giorni, è impegnato nei lavori del Forum del Progetto culturale della Chiesa italiana». E lunedì, nel giorno in cui Englaro diventerà cittadino onorario di Firenze dove sarà Betori? «All´Argentario», è la risposta, «dove si tiene la Conferenza episcopale toscana». E la lettera di Falciani l´arcivescovo «non potrà leggerla prima del suo rientro in città».
In realtà Beppino Englaro a Firenze arriverà già oggi. Alle 9,30 NovaradioCittàFutura, all´interno del programma "6inCittà" trasmette l´intervista con il direttore Leonardo Sacchetti registrata ieri in cui Englaro si dice «onorato dal conferimento della cittadinanza» e liquida le polemiche che hanno accompagnato il voto del consiglio comunale con questa frase: «Il tema che io ho affrontato è un tema che spacca le coscienze, non è facile l´approfondimento e quindi può succedere che ci siano queste polemiche». Quanto alla legge approvata dal Senato sul testamento biologico Englaro ripete ancora una volta che «per quanto concerne le direttive anticipate di trattamento ci vuole una legge molto semplice che consenta alle persone di non essere discriminate quando si trovano nella situazione di non essere più capaci di intendere e di volere».
Domattina alle 10,30 Englaro incontrerà la Comunità dell´Isolotto (via degli Aceri 1) e alle 16,30 andrà alle Piagge per parlare con don Santoro.

Repubblica Firenze 28.3.09
Testamento biologico, medici in rivolta
Il presidente Panti: "La legge dice il contrario del nostro codice"
Zuppiroli, fondatore di "Liberi di decidere": "Provo vergogna e indignazione"
di Gaia Rau


Una contraddizione insanabile. La legge sul testamento biologico appena approvata dal Senato «dice l´esatto contrario di quanto stabilito dal codice deontologico dei medici». A spiegarlo è Antonio Panti, presidente dell´ordine fiorentino: «Il codice prevede che il medico informi il paziente, ne acquisisca il consenso e solo sulla base di questo agisca, somministrando o interrompendo un trattamento. Ora, la legge dice l´esatto contrario, calpestando la volontà del cittadino che non è più giudicato in grado di stabilire da sé quanta sofferenza può sopportare: non è vero che sarà il medico a decidere, ma è il Parlamento che si è arrogato la facoltà di farlo per tutti, in deroga all´articolo 32 della Costituzione».
Questo, secondo Panti, è l´aspetto più grave della legge. Ma soprattutto la più evidente incompatibilità con il documento che da 2.500 anni indica le regole di condotta dei medici. «La legge non può cambiare il codice, solo i medici possono farlo: questo non significa che il Parlamento non possa legiferare in materia, ma noi abbiamo il dovere di rispettare il codice prima ancora della legge, come è avvenuto quando abbiamo deciso di disattendere la norma che imponeva di denunciare gli immigrati irregolari». Significa che i medici violeranno la legge sul testamento biologico? «E´ presto per dirlo. Tutta questa situazione ci mette in grave imbarazzo, e i vertici dell´ordine sono già stati convocati per discuterne». Grave è, per Panti, anche l´aspetto delle spese legate al «sostegno vitale», «un concetto - avverte il medico - che non riguarda soltanto l´alimentazione e l´idratazione, ma tutte quelle cure che permettono di limitare le sofferenze del malato. Se Eluana è rimasta in vita 17 anni, è perché ha goduto di un´assistenza meravigliosa. Ora la legge, all´articolo 5, prevede che siano le singole Regioni a stabilire le linee guida dell´assistenza, e questo implicherà che non tutti i cittadini italiani saranno trattati nello stesso modo».
«Vergogna e indignazione» sono le prime reazioni di Alfredo Zuppiroli, cardiologo, presidente della commissione regionale di bioetica e tra i fondatori dell´associazione "Liberi di decidere", che nelle scorse settimane ha raccolto 500 carte di autodeterminazione alle quali si aggiungono 3.500 moduli scaricati da internet: «Così si violano principi costituzionali fondamentali: l´articolo 2 sulla libertà personale e il 3 sul divieto di discriminazioni legate alle condizioni personali: perché una persona affetta da una grave insufficienza renale può decidere di andarsene in pace rinunciando alla dialisi mentre una in stato vegetativo permanente non può rifiutare il sondino?». Per lui, l´unica strategia possibile è quella indicata da Umberto Veronesi sulle pagine di Repubblica: «La legge non è ancora in vigore: approfittiamo del poco tempo che abbiamo prima che passi alla Camera per raccogliere più testamenti biologici possibile, e poi aprire un contenzioso di massa». Il prossimo appuntamento è domani dalle 20 al teatro Puccini, con il notaio Luigi Aricò che autenticherà i testamenti. Ospite d´onore della serata, Beppino Englaro. Il gazebo di "Liberi di decidere" sarà poi in piazza dei Ciompi il 4 aprile e in piazza della Repubblica l´11.

Corriere della Sera 28.3.09
Parte la campagna di disobbedienza civile dei radicali
Manifesto sulla bioetica Mobilitate le parrocchie
In piazza per il sì alla vita. I medici: pausa di riflessione
L'associazione Coscioni: da settembre 200 richieste di intervento di «soccorso civile» e 2.500 testamenti biologici online

di M.Antonietta Calabrò

ROMA — «Non possiamo decidere da soli» dicono i medici di famiglia. «Chiediamo una pausa di riflessione» afferma all'unanimità la Federazione degli Ordini dei medici commentando il disegno di legge approvato dal Senato sul testamento biologico. Mentre è al via una mobilitazione del laicato cattolico, con la pubblicazione di un'inserzione a pagamento di una pagina-manifesto su Avvenire contro l'eutanasia e l'abbandono terapeutico. I radicali dell'Associazione Coscioni intanto affermano di aver avuto dal settembre scorso duecento richieste di intervento «di soccorso civile» (sia legale che medico) in tema di fine vita e di aver raccolto oltre 2.500 testamenti biologici telematici.
Claudio Cricelli, presidente della Società Italiana di Medicina Generale (SIMG) ha messo in evidenza in particolare che nel nuovo ddl si «attribuiscono forti responsabilità al medico di fiducia della persona e della famiglia, cioè al medico di medicina generale, che vanno ben al di là dei compiti attuali ». Mentre nel documento della Federazione nazionale degli Ordini dei medici (Fnomceo) si ribadisce che
Il corteo
La manifestazione di giovedì dei Radicali a Roma in favore dell'eutanasia e contro il Ddl Calabrò sul testamento biologico
«nutrizione e idratazione artificiali sono, come da parere pressoché unanime della comunità scientifica, trattamenti assicurati da competenze mediche e sanitarie».
Domani invece sul quotidiano della Cei comparirà il Manifesto- appello di tre associazioni cattoliche (Scienza e Vita, il Forum delle associazioni familiari e Retinopera) che lanciano una mobilitazione capillare su tutto il territorio, a cominciare dalle parrocchie, sui temi del fine vita. Il Manifesto si intitola «Liberi per vivere-Amare la vita sino alla fine» e contiene «tre sì» (alla vita, alla medicina palliativa, ad accrescere e umanizzare l'assistenza ai malati e agli anziani) e «tre No» (all'eutanasia, all'accanimento terapeutico e all'abbandono di chi è più fragile). Sono previsti incontri e pubblici dibattiti che si intensificheranno dopo le festività pasquali.
Sul fronte opposto, i radicali di «Soccorso Civile» — che come ha annunciato da Emma Bonino, metteranno in atto «una vera e propria campagna di disobbedienza civile», con autodenunce e ricorsi alla magistratura — rendono noto di aver ricevuto, a partire da settembre scorso, circa duecento tra email e telefonate, su testamento biologico e eutanasia. Con richieste di assistenza legale e medica. Come una signora che si lamenta della «situazione disperata» di suo padre in stato vegetativo permanente «senza alcuna prospettiva (a detta dei medici) di ripresa (...)» di cui «non riesco a far rispettare la volontà, non riesco a far esercitare il suo "diritto a morire" (per usare sue parole) poiché i medici dell'ospedale sono tutti molto timorosi(...) Vi chiedo solo di mettermi in contatto con un medico anestesista per "un consulto" (...)». Dal momento che la donna ritiene «che l'eutanasia sia davvero "un atto di carità" così come dice il prof. Veronesi, un atto dovuto per non ledere la dignità di ogni uomo».

Corriere della Sera 28.3.09
Londra, uno psichiatra su sei tenta di curare l'omosessualità
di Adriana Bazzi


MILANO — Rodney era felicemente sposato da anni, poi il colpo di fulmine per un uomo. La sua psichiatra aveva provato, con l'ipnosi, a riportarlo sulla strada dell'eterosessualità per salvarne il matrimonio, ma non ci era riuscita. Adesso lui è divorziato dalla moglie e sta con una persona del suo stesso sesso.
A Warren, che si era accorto di essere gay fin dall'adolescenza, i medici hanno fatto anche di peggio. Erano erano ancora gli anni Settanta e gli è toccata una terapia da Arancia Meccanica: scariche elettriche sul corpo tutte le volte che preferiva guardare foto di uomini invece che di donne. È la terapia avversativa che, nel famoso film di Stanley Kubrick, veniva usata per disassuefare dai comportamenti violenti.
Storie che non sono passate di moda, anche se i trattamenti sono un po' cambiati. In Gran Bretagna un'indagine condotta dall'University of London su 1.400 psichiatri e pubblicata su Bmc Psychiatry, ha dimostrato che almeno uno specialista su sei ha tentato di curare l'omosessualità e lo fa tuttora, anche se solo il quattro per cento degli intervistati ha dichiarato di essere disposto a farlo su richiesta del paziente. Nonostante l'omosessualità non sia una malattia e nonostante queste terapie si siano rivelate inutili e qualche volta dannose.
«Fin dal 1973 l'omosessualità — commenta Massimo Ammaniti, psicoanalista a Roma — era stata cancellata dal Manuale dei disturbi mentali (il famoso Dsm, oggi arrivato alla sua quarta edizione, ndr). E successivamente nel 1987 è scomparsa anche la voce "omosessualità egodistonica", quella cioè che procura disagio, ansia e rifiuto della propria persona».
Da qualche anno è nata anche la psichiatria «di genere», per la quale esistono cinque generi: eterosessuali maschi e femmine, gay, lesbiche e transessuali. «A ciascuno si riconoscono caratteristiche specifiche — dice Claudio Mencacci, psichiatra all'ospedale Fatebenefratelli di Milano — e l'omosessualità oggi è riconosciuta come una condizione fisiologica e naturale; non più come un disturbo dell'identità sessuale e tanto meno una perversione». D'altra parte nessun trial clinico ha mai dimostrato che certe terapie, praticate fino a oggi, funzionino. Anzi, in molti casi, si sono rivelate dannose perché provocano ansia, depressione e persino danni fisici. Come, per esempio, certi ormoni femminili somministrati ai gay nel tentativo di ridurre l'attrazione omosessuale o alle lesbiche per aumentarne la femminilità. O sistemi che suggerivano agli omosessuali di masturbarsi, pensando a una persona dello stesso sesso, e di passare, nel momento dell'orgasmo, a fantasie eterosessuali.
«Anche in Italia — continua Ammaniti — c'è ancora chi ritiene che l'omosessualità sia una fissazione dello sviluppo pulsionale e vada curata. Non sono in molti, ma ci sono».
Rimane però il problema di chi, emarginato dalla famiglia, oppresso dall'ambiente sociale, condizionato da una fede religiosa, chiede aiuto per modificare il suo orientamento sessuale.
«Bisogna distinguere — avverte Mencacci —. Se l'identità è forte e consolidata, noi diciamo "sintona" con la persona, qualsiasi tentativo per modificarla è un atto di prepotenza e di violazione della persona. La questione si apre, invece, quando l'identità è "dissintona", cioè crea sofferenza e lacerazione nell'individuo: va allora cercata la vera natura della persona». Con l'aiuto della psicoterapia, della psicoanalisi e anche dell'ipnosi.
Tutte le persone, comunque, a prescindere dal loro orientamento sessuale, possono soffrire di ansie, depressioni, disturbi bipolari e per questo hanno sempre diritto a essere curate. Con tutte le terapie disponibili.

Repubblica 28.3.09
Principe e popolo
di Ezio Mauro


Concepito come una "cerimonia" (lo ha detto Emilio Fede) più che come un congresso, l´atto fondativo del Popolo della Libertà è tutto nel profilo biografico dell´avventura politica berlusconiana che il Cavaliere ha celebrato ieri dal palco, consacrando se stesso non soltanto nel fondatore della destra moderna ma nel destino perenne del Paese, o almeno del 51 per cento degli italiani.
La rivisitazione eroica degli ultimi quindici anni consente al paesaggio politico e retorico attorno al Cavaliere di rimanere immobile, tutto ideologico come nel ´94. Così per il Premier la sinistra resta ancora e per sempre comunista, il Pd è un bluff, il riformismo è un´illusione, anzi la sinistra sta addirittura uscendo di scena, e la stessa parola "non piace più". Un ideologismo coatto, che vuole tenere l´Italia dentro uno schema vecchio e impaurito, mentre rinuncia a parlare all´intero Paese.
Non è infatti al Paese che guarda Berlusconi, ma al "popolo", vero soggetto politico del nuovo movimento, strumento di consacrazione quotidiana del carisma egemone, che nel popolo più che nelle istituzioni cerca la sua forza e la sua legittimazione. Anche il concetto di libertà è giocato in questa chiave, con una diffidente separazione-contrapposizione tra il cittadino e lo Stato, come se la politica - adesso che Berlusconi ha compiuto la sua rivoluzione "liberale, borghese, popolare, moderata e interclassista" - si riassumesse nella delega al Principe, con la fine del discorso pubblico così come lo abbiamo finora conosciuto in Occidente.
La Costituzione resta sullo sfondo, citata dopo il Papa, sovrastata da un moderno "patriottismo della nazione", della tradizione, delle radici cristiane dell´Italia in cui si recupera anche la "romanità". È il profilo classico di una destra carismatica che può forse illudere il Paese di semplificare la complessità della crisi ma che rischia di non governarla: perché il vecchio populismo non può reggere a lungo la sfida della modernità nel cuore dell´Europa.

Repubblica Roma 28.3.09
È polemica sulle autorizzazioni. La questura: dagli universitari nessuna richiesta. In piazza anche i centri sociali
Cortei, la sfida di studenti e Cobas
La rivolta contro il "G8 lavoro" Onda in marcia dalla Sapienza
La questura: non hanno chiesto l´autorizzazione
Gli studenti hanno inviato una lettera alla città e alla polizia, ma non una richiesta formale
Pomeriggio di manifestazioni anti-G8. "Percorreremo le vie vietate dal protocollo"
di Maria Elena Vincenzi


I grandi della Terra si incontrano a Roma e la città si prepara ad una giornata di cortei. La manifestazione ufficiale, indetta dai sindacati, partirà alle ore 15 da piazza della Repubblica e arriverà a piazza Navona passando anche per strade vietate dal protocollo sui cortei. A percorrere vie "off limits" saranno anche i centri sociali e gli studenti dell´Onda che, riferisce la Questura, «non hanno chiesto nessuna autorizzazione formale per il loro percorso». Bisognerà dunque vedere quale sarà il comportamento delle forze dell´ordine, ma gli universitari avvertono: «Ci incontreremo alle 14 a piazzale Aldo Moro e non piegheremo la testa al protocollo sui cortei».

Riunione ministeriale del "G8 lavoro" e cortei, ancora attriti tra forze dell´ordine e manifestanti. Prima ancora che tutto inizi, i nervi sono già tesi. Da un lato, prefettura e questura. San Vitale conferma di non aver ricevuto la richiesta dell´Onda per marciare dalla Sapienza a piazza della Repubblica. Nonostante la disponibilità, annunciata anche dal prefetto Giuseppe Pecoraro, ad accettare richieste tardive: la legge stabilisce infatti che i preavvisi debbano essere presentati tre giorni prima. Stavolta, tuttavia, c´era la disponibilità a fare uno strappo alla regola accogliendo la comunicazione anche all´ultimo momento. Gli studenti però lo hanno comunicato alla città, con una lettera spedita ai giornali. E dicono di averla inviata anche alla questura e al Campidoglio, oltre che ai giornali. Ma per la questura non si tratta di una richiesta formale.
Il percorso deciso dagli studenti non fa parte del protocollo sui cortei: la Sapienza non è centro storico. E gli universitari vogliono partire proprio da piazzale Aldo Moro per poi unirsi al corteo dei sindacati di base. Ma se gli studenti non hanno intenzione di chiedere autorizzazioni, anche le parti sociali sfidano il Viminale dicendo no ai cambiamenti di percorso richiesti dalla polizia. Lo slogan "La crisi la paghino i banchieri, i padroni e gli evasori" è perentorio. «Nonostante la questura ci abbia chiesto di dirottare la manifestazione in ossequio al protocollo sulla regolamentazione dei cortei, sfileremo lungo il classico percorso delle grandi manifestazioni, da piazza della Repubblica fino a piazza Navona, passando per alcune zone proibite dal "protocollo ammazzacortei"». Queste le dichiarazioni dei sindacati di base.
Il corteo - che era stato autorizzato prima della sigla del protocollo - percorrerà dalle 15 alcune zone ritenute "off-limits" dal successivo accordo sulla regolamentazione dei cortei, come l´ultimo tratto di via Cavour, via dei Fori Imperiali, piazza Venezia e via delle Botteghe Oscure. «Avevamo già ottenuto l´autorizzazione a fine gennaio - spiegano gli organizzatori - il corteto non sarà dirottato verso Porta Maggiore e San Giovanni, come ci aveva chiesto la questura». Per la manifestazione, organizzata da Cub, Confederazione Cobas, SdL e a cui aderiranno anche i movimenti studenteschi, sono stati organizzati oltre 70 pullman e due treni speciali.

Repubblica Roma 28.3.09
Dalla "battaglia dei cuscini" degli studenti medi davanti al Virgilio fino alla manifestazione dei Cobas
Sit-in, blocchi stradali, cortei ecco il lungo giorno della protesta
Si dividono gli universitari: Roma Tre e Tor Vergata non partiranno da piazzale Aldo Moro
di Laura Mari


Il corteo ufficiale, quello indetto da Cub, Cobas e Sdl, è previsto alle ore 15. Ma la lunga giornata delle contestazioni contro il G8 lavoro inizierà molto prima. Con blocchi stradali a sorpresa, sit-in non autorizzati e iniziative che intendono sfidare il protocollo sui cortei. Manifestazioni in zone off-limits che però dividono anche il popolo dell´Onda, perché una parte degli universitari (tra cui gli studenti di Roma Tre e Tor Vergata) partirà comunque da piazza della Repubblica e non da piazzale Aldo Moro. Ma andiamo con ordine.
I primi problemi potrebbero nascere intorno le ore 13, quando dalla stazione Tiburtina inizieranno a confluire verso il centro i manifestanti dei centri sociali e delle realtà antagoniste che hanno già annunciato blocchi stradali e mini-cortei non autorizzati diretti a piazza della Repubblica. Altre due manifestazioni non autorizzate dalla questura e dalla prefettura partiranno, sempre attorno alle ore 13, da via De Lollis (nel quartiere San Lorenzo) e da Porta Pia. Un´ora dopo, invece, a piazzale Aldo Moro si raduneranno gli studenti dell´Onda e della Sapienza, che dopo le cariche delle forze dell´ordine e le polemiche dei giorni scorsi, intendono ribadire il loro «diritto a manifestare senza dover sottostare ad un protocollo mai sottoscritto dall´Onda». Da piazzale Aldo Moro gli studenti (accompagnati dai Verdi e dalla Sinistra) se non saranno bloccati dalle forze dell´ordine, dovrebbero arrivare a piazza della Repubblica per unirsi al corteo dei sindacati.
In mattinata, invece, gli studenti medi dei licei romani si incontreranno a via Giulia per inscenare, davanti all´ingresso del Virgilio, una maxi battaglia dei cuscini. Un "pillow-fight" che vuole essere di buonaugurio ad una giornata dove si prevede che non mancheranno momenti di tensione.

Corriere della Sera 28.3.09
La sconfitta della pace. Israele e i pacifisti estinti
«Le destre sono un rischio per l'avvenire»
di Mario Vargas Llosa


Ho passato buona parte degli anni '70 a difendere Israele contro gli scrittori latinoamericani di sinistra che per conformismo attaccano il sionismo e l'imperialismo americano.
Non mi sono mai pentito di aver combattuto quest'esagerazione e di aver difeso il diritto di Israele a esistere e a garantirsi la sicurezza. Inoltre, ho sempre creduto, e scritto, che tale diritto a mio giudizio gli israeliani se lo sono guadagnato non per ragioni divine (nelle quali, essendo agnostico, non credo) ma per il fatto di aver costruito Israele praticamente dal nulla, con il loro sudore e le loro lacrime.
Da allora, ogni volta che sono stato in Israele — tranne l'ultima, della quale tratta questo libro — ho sempre trovato un settore significativo della società israeliana che, mentre lottava per la sopravvivenza del Paese contro coloro che si impegnavano nel distruggerlo, voleva la pace e il dialogo con i palestinesi e riconosceva il diritto di questi ultimi ad avere un proprio Stato sovrano. Gli accordi di Oslo (1993-1995) rappresentarono il momento più avanzato per questa corrente di pensiero grazie alla quale le forze democratiche e progressiste di Israele e Palestina furono sul punto di sconfiggere i fanatici e gli estremisti di entrambe le parti.
Dall'assassinio di Yitzhak Rabin e, soprattutto, dal fallimento dei negoziati di Camp David e di Taba del 2000, tutto è tornato indietro. Sia in Israele che in Palestina coloro che hanno guadagnato terreno sono stati i falchi e i violenti, come dimostrano la vittoria elettorale di Hamas, con cui ottenne il controllo della Striscia di Gaza, e il dominio quasi assoluto in Israele da parte della destra di Kadima, della destra estrema del Likud e dei partiti religiosi. Il movimento «Pace Subito» è praticamente estinto e i promotori della pace e della convivenza sono gruppi e figure isolate senza alcun reale significato nell'opinione pubblica.
Per lo più questa narrazione rende conto, con la maggior obiettività di cui sono stato capace, dell'indebolimento e della quasi totale scomparsa in Israele dell'influente forza elettorale rappresentata dai partiti della pace e della coesistenza e, di contro, dell'esaltazione di un arrogante estremismo convinto che l'unica politica efficace per garantire il futuro di Israele sia la supremazia militare, la repressione sistematica e l'intimidazione dei palestinesi fino all'obbligo di accettare una pace imposta, nella quale i territori del futuro Stato palestinese sarebbero ristretti, recintati e inquadrati da un numero proliferante di insediamenti e colonie israeliane sorvegliate da diversi sistemi di controllo, come il muro e gli sbarramenti militari. Questa corrente, che è sempre esistita come marginale e minoritaria, sfortunatamente oggigiorno può contare sul sostegno della maggioranza della popolazione ed è un ostacolo per la pace, nonché una fonte di ingiustizia e sofferenza per i palestinesi grande quanto il terrorismo di Hamas per gli israeliani.
Gli articoli e i reportage che compongono questo libro non sono esenti da quelle contraddizioni, dubbi e interrogativi senza risposta, inevitabili per chi avvicini la realtà del Medio Oriente senza preconcetti e parti pris. Eppure, forse proprio per questo, potranno aiutare i lettori italiani a farsi un'idea propria della situazione di quell'esplosivo angolo di mondo più di quei testi che, invece di sforzarsi di capire ciò che succede, propongono ricette preconfezionate, atti di fede che prescindono dalla realtà per adattare al meglio le testimonianze e le opinioni ai dogmi e all'ideologia.
Il muro che ha diviso un villaggio. Sopra: lo scrittore con militanti di Hamas e, sotto, manifestazione contro il ritiro dei coloni israeliani (foto di Morgana Vargas Llosa)

Corriere della Sera 28.3.09
Nomine Università
La Gelmini il prof Masia e la missione salva-baroni
di Gian Antonio Stella


Baroni, baronetti e baroncini impicciati in concorsi sospetti comincino a tremare. Il nuovo dominus dell'Università italiana è Antonello Masia.
L'uomo che, dovendo azzerare la nomina dei docenti finiti in cattedra dopo una selezione condannata come truffaldina anche in Corte di Cassazione, ha lasciato tutti al loro posto perché «l'annullamento d'un atto non può fondarsi sulla mera esigenza di ripristino della legalità».
Sintesi burocratica d'un adagio: «chi ha dato ha dato, chi ha avuto avuto».
Non poteva scegliere giorno migliore, il ministro Mariastella Gelmini, per nominare il suo nuovo braccio destro. Poche ore prima, l'Ansa aveva informato dell'ennesimo scandalo: «La squadra mobile, su delega del pm di Reggio Calabria Beatrice Ronchi, ha acquisito al Rettorato dell'Università di Messina la documentazione relativa al concorso per due posti di ricercatore alla facoltà di Giurisprudenza. Un esame che, secondo gli inquirenti, sarebbe stato pilotato per favorire gli unici due candidati, Vittoria Berlingò, figlia del preside di Giurisprudenza, e Salvatore Siciliano, figlio del procuratore aggiunto di Messina. Secondo gli inquirenti, gli altri aspiranti concorrenti sarebbero stati "sconsigliati" dal partecipare alla selezione: ipotesi che ha portato già ad alcune iscrizioni nel registro degli indagati per corruzione».
I candidati a quel concorso, svoltosi tra il novembre 2006 e il gennaio 2007, erano in realtà cinque. Ma, spiega il verbale, una certa Sebastianella Calandra si era presentata così, come fosse un bando per l'assunzione di segretarie d'azienda, «assolutamente priva di esperienza scientifica e didattica ». Un certo Pietro Falletta aveva sì un «curriculum didattico assai buono» e diceva d'avere «pubblicato sette lavori» però, incredibile ma vero, non ne aveva allegato manco uno... Quanto all'ultima incomoda, Aurora Vesto, non aveva «alcun titolo e alcuna pubblicazione, non risultando utile l'attestato di frequenza di un corso di lingua inglese».
Fatto sta che, tolti questi tre che forse non erano figuranti venuti per far numero ma certo ne avevano tutta l'aria, i veri candidati per i due posti risultarono due giovani dai bei natali: Vittoria e Salvatore.
Figlia la prima di Salvatore Berlingò, il preside di Giurisprudenza, figlio il secondo del procuratore Pino Siciliano. Una coincidenza? Certamente! L'ateneo messinese, del resto, dimostra una recente inchiesta di Michele Schinella per la rivista «Centonove», trabocca di coincidenze. Soprattutto nei concorsi varati non per tappare i vuoti di organico ma in quelli decisi, citiamo il magnifico rettore Franco Tomasello, «per motivi strategici».
Tra i vincitori, ad esempio, Marco Centorrino era casualmente figlio di Mario, il pro rettore. Mario Vermiglio era casualmente fratello di Francesco, ordinario a Economia. Rossana Stancanelli era casualmente figlia di Paola Ficarra (ordinario a Farmacia) nonché nipote di Rita (associato alla stessa facoltà) e del marito di questa Giuseppe Altavilla, associato a Medicina. Antonino Astone era casualmente genero di Raffaele Tommasini, docente e delegato del Rettore per le questioni giuridiche. Massimo Galletti era casualmente il quarto di quattro figli del barone Cosimo, tutti e quattro professori nel solco universitario tracciato da papà...
Mettetevi al posto di Mariastella Gelmini: non trovereste intollerabile l'andazzo? E infatti il ministro, fedele alla proposta di legge 3423 presentata nella scorsa legislatura nella quale per 37 volte (trentasette) invocava il ritorno al «merito», l'ha detto e ripetuto: non ne può più. Parole testuali pronunciate qualche settimana fa agli studenti di Galatina: «Non è più possibile andare avanti con una forma di nepotismo dentro le università». Basta! Detto fatto, come dicevamo, ha deciso ieri di nominare Antonello Masia capo Dipartimento per «università, alta formazione artistica, musicale e coreutica e ricerca». Auguri. Il nuovo plenipotenziario chiamato a rinnovare il mondo accademico è imbullonato alle poltrone ministeriali da 38 anni. Teorizza che «i ministri passano, i direttori generali restano». Dice che «non bisogna dare alle baronie un significato così negativo» perché se lui «pensa al barone, pensa al "maestro"». Sbuffa davanti agli allarmi sulle condizioni disastrose dei nostri atenei: «Non credo alle classifiche internazionali ». Irride agli scandali e alle inchieste giudiziarie che descrivono decine e decine di concorsi sospetti perché secondo lui i casi di nepotismo in tutti questi anni «saranno stati cinque, sei, sette...». Il suo capolavoro risale a due anni fa, quando si ritrovò sul tavolo, nei giorni in cui la Moratti se n'era già andata e Mussi doveva ancora insediarsi, l'incartamento di un famigerato concorso di Otorinolaringoiatria bandito nel 1988. Un concorso truccato, vinto da sedici figli di papà o raccomandati di ferro. E sanzionato con la condanna dei baroni coinvolti in Assise, in Appello e in Cassazione. E con sentenze che parlavano di «totale assenza di correttezza, di senso etico, di rispetto della legge». Di «plurime e prolungate condotte criminose». Di «profonda e amorale illegalità».
Bene: di ricorso in ricorso, di rinvio in rinvio, di ostruzionismo in ostruzionismo, tutti i colpevoli e i beneficiati erano rimasti al loro posto. Finché la pratica finì appunto sul tavolo di Masia. Che ci mise una pietra sopra con le parole citate: «Visto che la sentenza penale non annulla automaticamente l'atto amministrativo senza la pronuncia del giudice amministrativo, mai intervenuta» e che «l'annullamento di un atto non può fondarsi sulla mera esigenza di ripristino della legalità, ma deve tener conto della sussistenza di un interesse pubblico», il concorso taroccato «non» andava annullato. Un messaggio davvero «educativo» per i giovani universitari italiani: fatevi furbi, tanto non paga mai nessuno.
Scelto
Antonello Masia è stato nominato ieri dal ministro Mariastella Gelmini capo Dipartimento per «università, alta formazione artistica, musicale e coreutica e ricerca».

Repubblica 28.3.09
Giappone, il mistero della foresta dei suicidi
Settantotto cadaveri sono stati recuperati, altri 200 attendono di essere riconosciuti
di Renata Pisu


Uno dei luoghi più incantevoli del paese, sotto il monte Fuji, è diventato la meta di chi decide di togliersi la vita E le autorità ora lanciano l´allarme: "Con la crisi economica il fenomeno sta raggiungendo picchi da record"

L´anno scorso le squadre speciali di ricerca cadaveri della foresta di Aoikigahara, alle pendici del Monte Fuji, hanno trovato 78 corpi, altri giacciano ancora nei crepacci o sotto la fitta vegetazione di questa foresta primordiale il cui nome significa "mare di alberi" ma che è nota come "foresta dei suicidi".
Dall´inizio degli anni Settanta il numero di coloro che decidono di darsi volontariamente la morte in un luogo diventato meta famosa dei viaggi senza ritorno continua ad aumentare e si teme che il 2009 segnerà un triste record. A Tokyo, alla stazione di Shinjuku, in questi giorni sono guardate sospetto le persone che acquistano un biglietto di sola andata per il Parco Naturale del Monte Fuji del cui complesso fa parte la foresta dei suicidi. Marzo è un mese orribile per i giapponesi, l´anno fiscale si chiude, i conti non tornano, la crisi sta investendo tutti i settori, il numero di chi decide di uccidersi raggiunge il picco. Ogni anno è così, ma quest´anno si teme il peggio per i guasti della bad economy. Le guardie forestali controllano gli uomini soli che acquistano un biglietto di sola andata e sono vestiti non come escursionisti ma in giacca e cravatta: non è raro che il percorso sia diretto, dall´ufficio, senza neanche passare da casa a cambiarsi - a che serve? - all´ultima destinazione. Invano vengono affissi cartelli con sopra scritto "Pensa ai tuoi bambini" o "Non cercare di risolvere i tuoi problemi da solo. Chiedi aiuto".
Nei tre comuni che contornano la foresta dei suicidi, le autorità non si danno pace. Puntavano sul turismo, oggi pensano di reclamizzarsi come "Città dei suicidi - località specializzata, seconda solo al Golden Gate di San Francisco". Ma hanno l´amaro in bocca. Già, perché secondo la legge sono loro i responsabili del recupero cadaveri, dell´identificazione e della garanzia, nel caso non vengano riconosciuti, della loro adeguata sepoltura o cremazione. Un enorme onere finanziario, uno strazio umano rinnovato da una giacenza di oltre 200 corpi a tutt´oggi non identificati che vengono custoditi in stanzette a due letti: un giaciglio per il suicida, l´altro per una guardia forestale. Questo perché, secondo una superstizione diffusa, un cadavere abbandonato nella notte si trasforma in uno spirito maligno. Le guardie forestali tirano a sorte ogni sera il nome di chi dovrà giacere con il suicida.
Ci si interroga in Giappone su come la montagna abbia potuto diventare meta dei disperati: si incolpano i mass media, romanzi e serie televisive, ma in realtà il luogo è sempre stato contornato da leggende di morte. Era lì che le famiglie povere abbandonavano i bambini che non riuscivano a mantenere, tanti Pollicini simili a quelli che vagavano nelle nostre selve nere.
Per il 2009 si attende la raccolta di molti più cadaveri. Peccato, perché la foresta di Aoikigahara è forse il posto più bello del Paese del Sol Levante.

Corriere della Sera 28.3.09
Dopo la riforma del sistema penale voluta dall'Ue, che punisce gli omicidi dei clan, centinaia di casi soprattutto nelle zone curde
Turchia, la strage delle ragazze suicide «per onore»
Costrette ad uccidersi dai parenti, perché hanno «macchiato» il nome della loro famiglia
di Monica Ricci Sargentini


A Derya, 17 anni, la sentenza di morte è arrivata via sms: «Hai infangato il nostro nome — scriveva uno dei tanti zii — ora o ti uccidi o ti ammazziamo noi». A Nuran Unca, 25 anni, l'hanno detto i genitori, entrambi insegnanti. Lei ha resistito per un po', poi si è impiccata nel bagno di casa. Elif, invece, non ce l'ha fatta a togliersi la vita e ha deciso di scappare. Da otto mesi vive come una clandestina, costretta all'anonimato da un'assurda sentenza di morte emessa per aver rifiutato un matrimonio combinato.
Sono solo alcuni dei tanti nomi di ragazze costrette al suicidio per motivi d'onore in Turchia. Un tempo venivano uccise dal fratello più giovane che se la cavava con qualche anno di galera, grazie alla sua età e alla legge che prevedeva forti attenuanti in casi del genere. Ma nel 2005, per avvicinarsi all'Europa, Ankara ha riformato il codice penale prevendendo l'ergastolo per il delitto d'onore. Così le famiglie sono corse ai ripari e, per non perdere due figli, hanno pensato di indurre le giovani ad uccidersi.
In poco tempo le percentuali dei suicidi si sono impennate. Soprattutto nel sud-est del Paese, l'area abitata dai curdi, profondamente influenzata dall'Islam più conservatore. Batman, una cittadina grigia e polverosa di 250mila anime, vanta il triste primato di morti sospette, tanto da essere citata da Orhan Pamuk nel romanzo
Neve in cui un giornalista investiga sulla strana epidemia di suicidi tra le adolescenti. Ma il fenomeno dilaga ormai anche nel resto del Paese. Nella moderna Istanbul, per esempio, si conta un delitto d'onore a settimana. Sui suicidi dati certi non ce ne sono, si parla di centinaia di casi. Gli esperti sostengono che l'emigrazione dei curdi verso le grandi città porta a un'esasperazione del conflitto tra modernità e tradizione. Le teenager scoprono Mtv, i jeans stretti, le feste, l'amore. Basta un'occhiata a un ragazzo o una gonna troppo corta e il loro destino è segnato: il consiglio di famiglia si riunisce e le condanna a morte. «Questo scontro di civiltà — ha spiegato a una troupe della britannica
Channel Four Vildan Yirmibesoglu, capo del dipartimento dei diritti umani a Istanbul - sta rendendo la situazione ancora peggiore. Aumenta la pressione sulle donne perché rispettino i dettami conservatori della tradizione. E, chiaramente, ci sono più tentazioni ».
Ogni giorno decine di giovani bussano alla porta di
Ka-mer, il centro fondato nel 1997 da Nebahat Akkoc per aiutare le donne in pericolo. La sede di Diyarbakir ha le pareti color corallo e una poltrona di pelle dove le ragazze sprofondano raccontando la loro storia. L'associazione le aiuta a trovare una casa-rifugio e a rivolgersi a un tribunale. Per rendere le cose più facili è stata creata anche un'hotline, ma telefonare e denunciare la propria famiglia può diventare improponibile nella regione curda dove, secondo i dati delle Nazioni Unite, si stima che il 58% delle donne sia vittima di abusi e che il 55% sia analfabeta. Vista da qui l'Europa appare ancora più lontana.

Il libro: Meglio morte che senza velo
La storia in «Neve» di Pamuk Un'epidemia di ragazze che si suicidano per difendere i loro ideali contro le imposizioni della Turchia laica: studentesse universitarie che non possono portare il velo in aula e preferiscono la morte.
È la storia al centro di Neve,
romanzo capolavoro del nobel Orhan Pamuk. Il protagonista è un giornalista turco che dopo oltre 10 anni anni passati in Germania torna nella sua terra e scopre le contraddizioni fra la Turchia moderna e laica e le sue profonde radici islamiche.

l'Unità 28.3.09
Il «suicidio d'onore» delle donne turche
di Marina Mastroluca


Per favore, ucciditi». Niente a che vedere con una battuta, non c’è niente da ridere in questa storia. Che poi è la storia di Elif e di altre come lei, messe all’indice dalle famiglie offese nell’onore e per questo indirizzate verso l’ultima versione di lavanderia morale escogitata in Turchia: il suicidio d’onore, opportunamente istigato dai familiari, altrimenti costretti a sporcarsi le mani di sangue e a pagarne il fio dietro le sbarre. Una legge del 2005 ha introdotto l’ergastolo per punire i delitti d’onore: una macchia, questa sì, che ogni anno si replica in oltre 200 casi, nella sola Istanbul ce n’è uno a settimana. Per sfuggire al carcere, l’onore ha trovato altre vie. E il numero delle donne suicide si è impennato.
«Per favore ucciditi». Elif è in fuga da otto mesi, per non dover subire la punizione della famiglia. Ha detto di no al matrimonio combinato dai parenti, che volevano farle sposare un uomo più anziano dei suoi 18 anni. E ha detto no anche quando il padre le ha chiesto di torgliersi la vita: per risparmiargli il carcere una volta che l’avesse uccisa. «Lo amavo così tanto che lo avrei fatto, anche se non potevo rimproverarmi nulla di sbagliato - ha raccontato Elif al britannico Independent -. Ma non ci sono riuscita. Amo troppo la vita». Da allora la sua esistenza è appesa a un filo, i parenti sono venuti a cercarla persino nel rifugio dove ha trovato accoglienza. Erano armati.
Elif in questa storia è l’anomalia, la ciambella mal riuscita, la classica eccezione dove la regola avrebbe voluto una silenziosa obbedienza. La sua, del resto, è chiamata la «Città dei suicidi»: sulla carta geografica non c’è scritto, naturalmente, la località si chiama Batman, sud-est della Turchia. Ma è qui che tre quarti dei suicidi sono commessi da donne, quando nel resto del pianeta sono più spesso gli uomini a togliersi la vita. Per il procuratore generale è sospetto. «Credo che nella maggior parte dei casi siano suicidi forzati».
Un cappio, una pistola o più banalmente del veleno per topi. Di solito va così. Le chiudono in una stanza con quel che serve, aspettando che decidano di togliersi di mezzo da sole. E non è difficile immaginare come possano finire per cedere, quando a chiedergli di sparire sono quelli che più di altri dovrebbero volerle vive, i familiari più stretti, il sangue del sangue. Elif non c’è riuscita. Anche se sapeva di sue compagne di scuola uccise dai familiari. Anche se sapeva che la fuga da sola non l’avrebbe messa al sicuro.
Delitti d’onore. Molti si concentrano tra i curdi, ma non solo tra loro. Chi si occupa di diritti umani denuncia una tacita benevolenza, che travalica la severità annunciata dalla legge. Non sempre si investiga, i casi sospetti smettono di essere tali, se chi dovrebbe indagare e punire ha lo stesso codice d’onore.
«È questo il Paese che vuole entrare in Europa? Dio ci aiuti», è la domanda che rimbalza sul sito dell’Independent. Molti concordano, sembra di vederli mentre scuotono la testa. «Questi omicidi non sono solo contro le leggi Ue, ma contro quelle della Turchia», prova a dire Mimarkhoran. «Forse dovremmo far entrare in Europa solo le donne turche». Forse, chissà.

Corriere della Sera 28.3.09
Mentre esce da SugarCo «Una zampillante fontana», lo scrittore torna sulla Shoah, critica i grandi pensatori e non risparmia i contemporanei
Martin Walser contro Günter Grass «Vuole fermare la Storia, una follia»
Sotto accusa gli intellettuali che si sono sempre opposti alla Germania unita
di Danilo Taino


ÜBERLINGEN (Germania meridionale) — Dopo due ore di colloquio con Martin Walser non avete fatto un'intervista. Ne avete fatte quattro o cinque. Lo scrittore — uno dei maggiori in lingua tedesca — è uno tsunami di idee originali, sue. Tutte, in fondo, riconducibili al fatto che l'equazione «Germania uguale a senso di colpa» è errata. Senza negare nulla del passato e degli orrori nazisti, naviga fuori dalla bolla intellettuale e mediatica che inflaziona, cioè annacqua, le tragedie. Vent'anni dopo la caduta del muro di Berlino, non smette di tenersi lontano da quella che tempo fa definì, tra lo scandalo, «industria dell'Olocausto»: successi intellettuali e politici costruiti su di esso.
Walser — che ha dato questa intervista al Corriere in occasione dell'uscita in Italia di un suo romanzo del 1998, Una zampillante fontana (SugarCo), ha un'idea del suo lavoro diversa dalla maggioranza degli scrittori contemporanei. Non pensa di avere una missione sociale. «Uno scrittore non può credere di avere una funzione di aiuto— dice —. Nemmeno nella crisi che stiamo attraversando. Certo, ha un'influenza, ma come migliaia di altri. Deve semplicemente fare il suo lavoro. Se qualcuno mi ringrazia perché un mio romanzo l'ha aiutato, sono contento. Ma non è il mio scopo ». E su questo, già, si potrebbero scrivere mille righe. Quando Una zampillante fontana uscì in Germania, per dire, Walser fu criticato perché il romanzo — il cui protagonista, Johann, è lo scrittore stesso negli anni che vanno dal 1932 alla fine della guerra — non parla di Auschwitz.
«Ma nei romanzi io sto vicino al protagonista — spiega — Johann non poteva sapere di Auschwitz. Il fatto è che Auschwitz, come è trattato da molti, è un'emozione tedesca, un'atmosfera ideologica riscaldata artificialmente. Un obbligo che non permette l'estetica perché manca la prospettiva ». Ci sono momenti topici, nella cultura tedesca, nei quali si affermano concetti che non hanno senso, a suo parere. La famosa frase di Theodor Adorno, «dopo Auschwitz tutta la cultura è spazzatura», secondo Walser «non ha significato: la cultura non svanisce perché nella storia avviene qualcosa difficile da spiegare. Anche il "Dio è morto" di Friedrich Nietzsche non ha significato. Io preferisco Nietzsche ad Adorno, ma devo ammettere che non ha senso: è come dire "Urrah, sono paralizzato"».
Vent'anni dopo la caduta del muro di Berlino, Walser osserva che oggi molti intellettuali tedeschi si perdono per i prati perché non riescono ad avere un legame con la realtà. Chiedetegli che cosa pensa del fatto che il premio Nobel Günter Grass sostenga che l'unificazione tedesca è stata un takeover del capitalismo occidentale sulla Germania dell'Est. «Bah, bah, bah — risponde —. Devo trattenermi enormemente su questo argomento ». Ma poi non si trattiene granché: «Ancora nel novembre 1989 (quando il muro cadde, ndr) gli intellettuali con Christa Wolf e Grass volevano una confederazione con due monete, due Paesi diversi ma con un confine aperto. E chi avrebbe lavorato ancora per uno stipendio dell'Est che sarebbe stato un terzo di quello dell'Ovest? Prima che il muro cadesse, ero a Dresda e ho visto carovane di umanità che urlavano «Wir wollen raus», vogliamo uscire. Tutto il Paese era una rivoluzione e questi intellettuali arrivano e dicono che le cose si devono fare in un altro modo. Una follia». Altre duemila righe, qui, ci vorrebbero.
«Tra questi intellettuali — continua Walser — c'erano anche quelli da sempre favorevoli a due Germanie, per motivi morali e politici, a causa di Auschwitz dicevano. Ma la divisione della Germania non fu fatta per Auschwitz, fu creata dalla Guerra Fredda, dai Mitterrand e dagli Andreotti. I nostri vicini non si interessavano del fatto che la Germania fosse divisa. Anche Willy Brandt, a un certo punto, disse che non dovevamo irritare gli altri con la nostra idea di riunificazione: tutta la Spd era per la divisione. Le cose sono molto più semplici di come le raccontano alcuni intellettuali: siamo stati divisi per 40 anni e serviranno 40 anni per riunificarci. L'idea che la Germania del-l'Est e quella dell'Ovest fossero due Kulturnationen era insostenibile, serviva solo a lasciare 17 milioni di tedeschi sotto lo stalinismo».
Vent'anni dopo, però, siamo nel pieno della crisi più drammatica dagli anni Trenta. Già, dice Walser, «ma non si può usare la stessa parola: quella era una catastrofe, questa è una crisi, una differenza totale». Rassicurante e ottimista. «Tra cinque anni sapremo che abbiamo avuto una crisi e che il nostro sistema ha imparato qualcosa: non è immaginabile che, a quel punto, le speculazioni finanziarie abbiano ancora la possibilità di creare tanti danni. Una crisi è come un corso serio all'università ». A suo parere, gli intellettuali e l'informazione, di destra e di sinistra, su questo argomento sono del tutto non interessanti: «Scrivono perché per loro è una grande occasione, per istinto darwinista». Ma a suo parere dalla crisi usciremo migliori: in Germania, spiega, ci sono imprese in cui sindacati e padroni si accordano per il bene dell'azienda, tipo lavoro per 37 ore e stipendio per 35. Un'altra intervista di due pagine, meriterebbe. «Oggi, di fronte alla crisi, la scelta tra Angela Merkel e Frank-Walter Steinmeier (i candidati avversari alle elezioni del prossimo settembre, ndr) è una questione di gusto, non di politica — dice —. A me piace Frau Merkel, nonostante sia corsa da Bush quando Gerhard Schröder si oppose alla guerra in Iraq. E nonostante io pensi che lei non abbia, in quanto protestante del Nord, diritto di criticare Benedetto XVI, come invece ha fatto. Per criticare Ratzinger e i suoi si devono conoscere i meccanismi e i significati del loro agire. Ratzinger è sempre stato conservatore, anche da cardinale, ma di lui e di quelli che lo circondano mi piace il modo allegro del loro credere. Avere la capacità di essere religiosi è come avere un dono musicale: non tutti l'hanno. Mi piace così tanto questa cosa e questo mondo degli angeli che nel mio prossimo romanzo voglio che gli angeli abbiano un ruolo». Altra intervista sul Papa.
A proposito del suo prossimo romanzo, Walser rivela che sta pensando alla riabilitazione del «mammone», il figlio di mamma. Il termine tedesco Muttersöhnchen, negativo, lo ha trasformato in Muttersohn (che prima non esisteva), positivo. «Sarà la storia di un trentenne — dice — al quale la madre spiega di averlo concepito senza un rapporto sessuale». Già sentita, come trama: ma l'abilità dello scrittore starà nel convincere il mammone della verità dell'evento con argomenti forti, seri, credibili. E, ovviamente, anche qui si preparano mille interviste fuori dall'ortodossia tedesca dei tempi. Intanto, dalla finestra di casa, Walser guarda la neve e il sole che, assieme, si stendono sul suo lago di Costanza. Anzi, sul Bodensee suo e di Johann, il ragazzo della zampillante fontana, il quale come lui aveva una madre iscritta al partito nazista, che teneva in piedi casa, e un padre antifascista, che suonava il pianoforte.