martedì 31 marzo 2009

l’Unità 31.3.09
Ingrao, 94 anni festeggiati col suo primo amore: il cinema
di Luca Del Fra


Il primo amore non si scorda mai, neppure superati i novant’anni: soprattutto se a ricordarlo ci sono molte persone e amici. Così per Pietro Ingrao, festeggiato ieri alla provincia di Roma per i suoi 94 anni da un gran numero di persone, molte delle quali appartenenti al mondo del cinema. La passione di Ingrao per il grande schermo risale infatti alla sua gioventù, quando frequentava il centro sperimentale, prima di entrare nella clandestinità. Ma è un amore diciamo pure mai sopito: come hanno voluto ricordargli Gianni Borgna, che presentava questo incontro, Carlo Lizzani e Mario Tronti che ne ricordavano l’impulso, e poi tra il pubblico Citto Maselli e molti compagni di strada della politica come Giovanni Berlinguer o Fausto Bertinotti e tra i più «giovani» Walter Veltroni e Piero Fassino, Goffredo Bettini, Vincenzo Vita. Durante gli anni del fascismo infatti Ingrao ha frequentato il Centro Sperimentale e poi è stato tra i redattori della rivista Cinema, diretta da Vittorio Mussolini, il figlio di Benito, le cui riunioni si tenevano a Villa Torlonia. Paradossalmente proprio in quella redazione si formava un gruppo di intellettuali proto antifascisti di cui facevano parte Peppe De Santis e i fratelli Puccini: di lì a poco, con l’inizio della guerra, Ingrao sceglierà la via della politica e della clandestinità. Illuminante è l’incontro con l’arte di Pabst e di Brecht e soprattutto con il cinema di Chaplin: è soprattutto a quest’ultimo che Ingrao ha dedicato pagine di riflessione in libri come Volevo la luna e Tradizione e progetto, di cui sono stati letti alcuni stralci dall’attrice Sonia Bergamasco. E di Chaplin, che al contrario dei grandi eroi di celluloide parlava poeticamente di cose di tutti i giorni e all’apparenza perfino banali - come mangiare, lavorare, trovare una casa, incontrarsi con una donna - Ingrao rimane colpito dai finali dei film: Charlot che si allontana da solo, emblema di un proletariato riottoso all’inserimento nella società di massa, non lontano dalle nuove emarginazioni nell’era della precarizzazione.

l’Unità 31.3.09
La decisione finale tra 15 giorni o un mese
Fecondazione, esame di legittimità alla Consulta
di Maria Zegarelli


La Corte Costituzionale esaminerà i ricorsi presentati dal Tar del Lazio e il tribunale di Firenze
Intanto in Italia sono aumentate le gravidanze trigemine e il turismo procreativo all’estero

L’udienza pubblica è prevista per oggi. Il relatore Alfio Finocchiaro leggerà la sua relazione, poi interverranno gli avvocati delle parti e l’avvocatura dello Stato. Finita l’udienza, i quindici giudici della Consulta si riuniranno in Camera di Consiglio per giungere a una decisione finale, che potrà essere presa a maggioranza.
La decisione verrà redatta e riletta da tutta la Corte, con possibilità di aggiunte e limature. L’atto finale è il deposito, che può arrivare tra 15 giorni o un mese.

Inizia oggi l’udienza pubblica della Corte Costituzionale chiamata a pronunciarsi sulla legge 40 sulla fecondazione assistita. Sotto la lente dei giudici le questioni di legittimità sollevate dal Tribunale di Firenze e dal Tar del Lazio. I ricorsi riguardano, in sostanza, il cuore stesso di quella legge così fortemente voluta dal centrodestra e così fortemente difesa dal sottosegretario Eugenia Roccella.
i ricorsi
I ricorsi riguardano l’articolo 14 della legge dal primo al quarto comma e l’articolo 6: previsione della produzione di un numero massimo di tre embrioni ai fini dell’impianto; crioconservazione degli embrioni prevista soltanto in casi eccezionali; consenso informato e irrevocabilità dello stesso da parte della donna all’impianto in utero degli embrioni creati dal momento della fecondazione dell’ovulo. A chiamare in causa l’incostituzionalità della legge rispetto agli articoli 2- 3- 13 e 32 della Costituzione sono stati il Tar su una causa della World Association Reproductive Medicine e il tribunale fiorentino su un caso che riguarda una coppia non fertile di Milano affetta esostosi, una malattia genetica che provoca la crescita smisurata delle cartilagine delle ossa. Davanti alla Corte si sono costituite tra le altre, l’Associazione Hera Onlus; l’associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerche scientifica; la Cecos Italia e Cittadinanzattiva. Tra il mese di maggio e i primi mesi del 2009 soltanto presso i tribunali di Firenze, Bologna e Milano, sono stati depostati «dodici ricorsi da parte di altrettante coppie - spiega l’avvocato Maria Paola Costantini che interverrà oggi davanti ai giudici della Consulta insieme alla costituzionalista Marilisa D’Amico - che avendo problemi di sterilità o essendo portatori sani di malattie genetiche hanno fatto ricorso contro questa legge che lede pesantemente i loro diritti. Il giudice di Firenze, Delle Vergini - spiega l’avvocato Costantini - ha sollevato la questione perché ha ritenuto che la legge 40 violasse in più punti la Costituzione e impedisse di fatto di effettuare secondo i canoni scientifici e diffusi in tutto il mondo la diagnosi pre-impianto». Il giudice ha chiesto la riformulazione dell’articolo 14 in rapporto agli articoli 2 -3- 13 e 32 della Costituzione facendo riferimento anche alla legislazione europea e proponendo di eliminare il limite al criocongelamento di 3 embrioni imposto dalla legge .
i diritti violati
La Corte dovrà valutare se è stato violato il canone di ragionevolezza dettato dall’articolo 3 della nostra Carta circa il giusto bilanciamento tra la tutela dell’embrione e quella dell’esigenza di procreazione per la «mancata valutazione della concreta possibilità di successo nella pratica da effettuare»; per l’impossibilità per il medico di valutare il singolo caso e quindi prendere le conseguenti decisioni e per il principio di eguaglianza - previsto dall’articolo 3 - che verrebbe violato «dalla irragionevole disparità di trattamento» dal momento che donne «in condizioni fisiche diverse soggiacciano allo stesso trattamento predeterminato per legge».
L’articolo 32 della Costituzione, inoltre, sarebbe violato, dal momento che le donne sono costrette - non potendo procedere al criocongelamento degli embrioni - a sottoporsi a ripetuti trattamenti «ad alto tasso di pericolosità per la sua salute fisica e psichica».
Dalla Relazione annuale sull’applicazione della legge 40, inviata dal Ministero della Salute al Parlamento nei giorni scorsi risulta che nel 2007 sono aumentate le coppie che si rivolgono ai centri che in Italia applicano la Procreazione medicalmente assistita (55.437 contro le 52.206 dell’anno precedente), ma contestualmente aumentano anche le gravidanze trigemine (il 3,5%), ben al di sopra della media europa (ferma allo 0,8%). «Questo conferma che la legge 40 è sbagliata, proprio il contrario di quello che sostiene la sottosegretaria Eugenia Roccella», commenta Vittoria Franco, responsabile Pd Pari Opportunità. Secondo la professoressa Tullia Todros, docente di Ginecologia e Ostetricia all’Università di Torino, «le gravidanze trigemine hanno avuto un aumento negli ultimi dieci anni del 200%». Aggiunge: «Il rischio di morbilità materna e di complicanze ostetriche è aumentato in queste gravidanze rispetto a quelle bigemine».
Altro fenomeno figlio, questo anche, della Legge 40 è il cosiddetto «turismo procreativo». Se nel 2001 le coppie che andavano all’estero per tentare di realizzare il loro sogno erano mille, nel 2006 sono schizzate a 4.200. Oltre a Barcellona, (dove si recate in un anno oltre mille coppie), le mete più frequenti sono Grecia, Slovenia, Israele e Svizzera (quest’ultima negli anni scorsi è stata scelta dal 30% delle coppie)».

l’Unità 31.3.09
Fecondazione assistita
Un disastro chiamato Legge 40
di Carlo Flamigni


Quando si tratta di dati clinici è facile fare confusione, basta essere esperti in semplici e diffuse attività umane come la menzogna e l’inganno. Così, ad esempio, un sottosegretario qualsiasi può imbrogliare i giornalisti affermando che da quando c’è la legge 40 la diminuzione dei successi è stata solo del 3%, cosa volete che sia. Quello che nasconde è che il 3% di successi in meno è pari al 15% in meno di gravidanze, un numero di bambini che fa molta confusione e molta felicità, altro che «cosa volete che sia». Ho sotto gli occhi i dati americani: 32% di parti (!) nel 2007, contro il nostro 22% di gravidanze, l’Europa ha più del 26% malgrado ne facciano parte Paesi tecnicamente arretrati, siamo un disastro.
E poi, l’aumento delle gravidanze multiple, un altro disastro, e l’esilio a cercare i diritti, l’Europa cinica che sfrutta le nostre coppie, gente disperata che non sa più a che santo votarsi, siamo ancora un’Italia civile?
Come si può immaginare che in un Paese moderno una coppia che ha problemi genetici sia costretta ad abortire per evitare la nascita di un figlio malato, destinato solo alla sofferenza, e non possa invece ricorrere a indagini sugli embrioni, non un atto di eugenetica, un povero e semplice gesto di compassione? Come è possibile pensare che la genitorialità si esprima solo trasferendo i propri cromosomi e negando dignità a un gesto molto più amorevole, quello di chi si dichiara padre, o madre, perché prende un impegno, assume una responsabilità, dice al figlio che verrà “sono tuo padre, sono tua madre, perché saremo vicini a te ad assisterti quando ne avrai bisogno”? Ma questa è l’etica di un Paese civile, una morale con la quale abbiamo ormai ben poco da spartire.
L’ultima stupidata che ho sentito è che debbono essere identificati i centri che producono (!) troppe gravidanze trigemine, dei quali è necessario liberarci, rappresentano un pericolo per tutti, sono evidentemente incapaci. Peccato invece che siano i centri migliori, quelli che hanno laboratori degni di questo nome e che consentono a ciascun embrione le maggiori probabilità di impianto.
Altrove, nei Paesi in cui gli amministratori non si limitano ad andare in chiesa, ma studiano un po’ le carte prima di fare conferenze stampa, queste cose finiscono sui giornali umoristici. Da noi ricevono splendida accoglienza sui giornali vaticani. Bisogna ammettere che tutto questo è cominciato il giorno in cui, invece di andare a votare per il referendum, siamo andati fuori porta per un picnic. Ma, come si dice, «chi è causa del suo mal...».

l’Unità 31.3.09
Englaro, cittadino onorario di Firenze: grazie per Eluana
La destra abbandona l’aula
di Tommaso Galgani


Applausi alla cerimonia d’onorificenza in Palazzo Vecchio, dove due vigilesse restano ferite. Il ricordo di quel viaggio con Eluana in riva all’Arno nel 1990. Beppino: «Fossimo nel ’600, sarei sul rogo come Bruno».

Giuseppe Englaro, padre di Eluana, ieri ha ricevuto la cittadinanza onoraria da parte del consiglio comunale di Firenze. In una giornata intensa, segnata da calore ed emozione ma anche da qualche tensione.
L’EMOZIONE PER BEPPINO
«In realtà questa onorificenza è stata consegnata ad Eluana, che era ribelle come è ribelle da sempre Firenze», ha detto Englaro nella sala del consiglio comunale in Palazzo Vecchio. Ad ascoltarlo non c’erano i consiglieri comunali del Pdl, usciti per protesta consegnando a Beppino una lettera in cui si accusa di «voler legittimare l’eutanasia». In compenso, il Salone dei Dugento era stracolmo di cittadini, che a lungo hanno applaudito le parole di Englaro, accolto al suo ingresso in aula da un’ovazione durata cinque minuti. E applausi se li è presi anche il presidente dell’assemblea, Eros Cruccolini, quando ha attaccato la Curia fiorentina, polemica verso l’onorificenza conferita al padre di Eluana (definita «un atto nefasto»): «Non dia giudizi politici sul consiglio comunale chi non deve far politica», ha precisato Cruccolini. «Sono onoratissimo di ricevere la cittadinanza onoraria di Firenze, città medaglia d’oro della Resistenza e al valor civile per i fatti dell’alluvione del ‘66», ha ribadito Englaro. Che non ha risposto alle polemiche sollevate dal centrodestra e dall'arcivescovado contro l’onorificenza: «Su un tema estremo come il fine vita è normale dividersi». Beppino domenica ha incontrato il sindaco Leonardo Domenici, che ieri non era in Palazzo Vecchio per impegni a Roma con l’Anci.
Ma l’aneddoto più bello Englaro lo ha confidato alla fine della cerimonia, chiusa dal suono delle chiarine del Comune e da un bagno di folla: «Eluana era venuta a Firenze a 19 anni, insieme al papà e alla mamma, le era piaciuta tantissimo. Era il ‘90, aveva la patente, ha guidato lei. In questi giorni sono stato ospitato nello stesso albergo in cui eravamo stati qui con Eluana». Sempre ieri Beppino ha visitato le sedi locali della Cgil e dell’Anpi (da cui ha ricevuto la tessera onoraria).
TENSIONI, VIGILESSE ALL’OSPEDALE
L’altra faccia della cerimonia, dove dopo le divisioni il gruppo del Pd era presente compatto, racconta di manifestazioni becere davanti a Palazzo Vecchio e referti medici. Il padre di Eluana era atteso davanti al municipio da cinque leghisti intenti a contestarlo: «No alla cittadinanza onoraria a Englaro», si leggeva nel loro striscione, mentre col megafono denunciavano che «Firenze inneggia alla cultura della morte». I cinque, ignorati da Beppino al suo passaggio (mentre la gente lo applaudiva), hanno battibeccato per tutta la mattina con passanti e cittadini. Nella sala del consiglio comunale, invece, all’ingresso si è formata una ressa di persone, in stragrande maggioranza estimatori di Englaro, che volevano entrare per seguire la cerimonia. Nella confusione, due vigilesse sono rimaste ferite e sono state portate all’ospedale (referto di sei giorni, per piccole escoriazioni). Mentre i consiglieri del Pdl, nell’uscita dall’aula, si sono presi i cori «fuori, fuori» scanditi dal pubblico.

il Riformista 31.3.09
«Firenze ribelle come la mia Eluana»
Papà Englaro cittadino onorario
di Maria Zipoli


PALAZZO VECCHIO. Beppino dice: «Entrambi pronti a lottare per la libertà». Ma la sua presenza crea spaccature: nella politica e anche nella Curia.
Beppino Englaro a Palazzo Vecchio

Firenze. Da ieri Beppino Englaro è fiorentino. Il comune di Firenze gli ha conferito infatti la cittadinanza onoraria: «È stata consegnata in realtà ad Eluana, che era ribelle come è ribelle da sempre Firenze», ha detto commosso Beppino ricevendo la pergamena e il giglio d'oro dal presidente del consiglio comunale Eros Cruccolini (il sindaco Leonardo Domenici era assente perché impegnato con l'Anci), tra gli applausi del pubblico. I consiglieri del Pdl sono usciti dall'aula in segno di protesta. «L'irriducibilità per la libertà che è nel Dna dei fiorentini era anche nel Dna di Eluana - ha detto Englaro - e quindi lo spirito fiorentino e quella di mia figlia sono in perfetta armonia: sono irriducibili contro tutte le forme di oppressione e di autoritarismo. Sono pronti a lottare per la libertà contro tutti gli oppressori».
Englaro ha ragione: Firenze è città di eretici e santi anticonformisti. Di Savonarola, il frate che tuonò contro la corruzione della Chiesa e fu bruciato vivo in piazza Signoria, e di don Lorenzo Milani, il prete scomodo che la Curia esiliò a Barbiana, un posto sperduto nel cuore del Mugello aspro e selvaggio. Però Firenze è città anche di conformismo politico e devozione religiosa. Città di guelfi e ghibellini, papisti e anticlericali, laici e confessionali.
Due anime che si sono esemplarmente riassunte proprio nella vicenda del conferimento della cittadinanza a Englaro. A Firenze è nata l'idea di conferirgli quella cittadinanza onoraria che è stata negata ad Oriana Fallaci. Merito soprattutto del capogruppo del Ps, Alessandro Falciani, che aveva presentato la mozione per la cittadinanza onoraria. Quel Ps che era pronto a dare la tessera onoraria a Beppino, ma il padre ha telefonato a Riccardo Nencini, presidente del Consiglio regionale toscano e segretario del Ps, per dirgli: «Caro Riccardo, preferisco fare un passo indietro e pensare in questo momento alla fondazione in onore di mia figlia».
A Firenze si sono alzate anche le più vibrate proteste per la cittadinanza onoraria. Il Pdl è uscito dall'aula al suono delle chiarine e ha consegnato a Englaro una lettera al vetriolo: «La decisione assunta, a maggioranza, è stata improvvida e improvvisa. Il consiglio le conferirà la cittadinanza sulla base di motivazioni non condivise dall'intera città compiendo una forzatura che non ha altra spiegazione se non quella di voler apportare con un atto simbolico il proprio irresponsabile contributo alla campagna di legittimazione dell'eutanasia. La cittadinanza - conclude la lettera - sarà moralmente dimezzata». All'arrivo di Englaro nella sala dei Dugento di Palazzo Vecchio alcuni consiglieri di centrodestra gli hanno gridato: «Fuori». In piazza molti cartelli. Uno, scritto da un medico, riportava questo scritto: «Firenze inneggia alla morte». Englaro non si è scomposto per l'opposizione del Pdl: «Ho il massimo rispetto per queste persone, sono problematiche molto difficili e serve un approfondimento. È l'argomento del fine vita che è tremendo e spacca le coscienze. Sarà il tempo a chiarire», ha sottolineato.
La cittadinanza onoraria a Englaro ha diviso la Firenze politica, ma anche quella religiosa. Al momento del suo conferimento l'arcivescovo Giuseppe Betori, fedelissimo di Camillo Ruini, aveva definito la cittadinanza a Englaro «un'offesa alla città». Ma domenica Beppino, arrivato a Firenze sabato scorso da solo con la sua auto, ha potuto conoscere il volto di una Chiesa amica. Quella di due preti scomodi come don Enzo Mazzi della comunità dell'Isolotto e don Alessandro Santoro del quartiere povero ed emarginato delle Piagge. Don Mazzi, nel corso dell'assemblea eucaristica, alla quale ha partecipato anche Englaro, ha sottolineato che «le consonanze con Beppino sono più profonde delle differenze e quest'eucarestia è il segno di una pluralità che c'è anche nella chiesa cattolica come, del resto, nel mondo sociale e politico. A Beppino ci accomuna l'idea che la morte non può essere un tabù». Ma le parole più pesanti nei confronti della Curia fiorentina e dei vertici vaticani sono state pronunciate da don Santoro che ha chiesto perdono a Englaro per le posizioni della Chiesa: «Se la Chiesa è quella che in questo tempo hanno fatto vedere i vertici, il mio vescovo, non mi ci riconosco più».

il Riformista 31.3.09
Il testamento biologico rischia l'eutanasia
di Alessandro Calvi


A Montecitorio. Perché può bloccarsi il testo appena licenziato dal Senato. Pesano le parole di Fini, che secondo la Binetti pongono il problema della presenza cattolica nel Popolo della libertà. Intanto potrebbe riaprirsi il capitolo della fecondazione assistita.

Forse qualcosa cambierà. O, forse, come qualcuno inizia a pensare, si arriverà a una sorta di "eutanasia del testamento biologico", magari per omissione.
Il futuro della legge sulle Dat non è mai stato tanto incerto quanto oggi che si trova nel limbo tra Senato e Camera. Infatti, la Corte Costituzionale discute oggi della legge 40 e l'eventuale riesplodere di un dibattito sulla fecondazione potrebbe rendere il percorso del testamento biologico ancora più difficile. Così, se in molti giurano che, come ha già fatto Palazzo Madama, presto anche Montecitorio farà il proprio dovere, è però più difficile trovare qualcuno che escluda del tutto che alla fine non se ne farà nulla, almeno per molto tempo. Già, perché sul fine vita il segnale che andava dato è stato dato. Ora, poi, se ne darà un secondo con le cure palliative. E ormai non c'è più un caso Englaro a mettere fretta al legislatore, costringendolo a metter mano a un calendario che, tra festività pasquali, interruzione per le elezioni europee e pausa estiva, appare difficilmente comprimibile. Così i tempi potrebbero finire per allungarsi, magari fino a coincidere con quelli della legislatura. Ma non è tutto qui.
«Non c'è alcun dubbio che la legge si debba farla», garantiva ieri Italo Bocchino, vicepresidente dei deputati del Pdl. «Tenendo conto - aggiungeva immediatamente - del ruolo laico che devono avere le istituzioni». Ciò significa, che «la Camera avvierà un sereno e approfondito esame del testo giunto dal Senato che sicuramente sarà modificato». D'altra parte, Maurizio Gasparri ieri ammetteva che pur trattandosi di una buona legge, quella sulle Dat è comunque «perfettibile nei dettagli» anche se «non modificabile nei principi di base». Si cambia, dunque. E anche rimettere mano al testo licenziato dal Senato, presuppone l'apertura di un dibattito non formale che porterebbe di per sé a un allungamento dei tempi.
Prima, però, di aprire il dossier sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, la Camera dovrà chiudere quello sulle cure palliative - il secondo pilastro della legislazione sul fine-vita - con il quale il primo non dovrebbe incrociarsi, anche per una questione di garbo istituzionale. Lo conferma Giuseppe Palumbo, presidente della commissione Affari sociali della Camera secondo il quale il testo sulle cure palliative non arriverà in aula prima di aprile. «È un gioco a incastro», spiega e aggiunge: «Le cose vanno fatte nei tempi e nei modi dovuti». Insomma, la sensazione è che l'inizio del dibattito sul testamento non sia cosa urgentissima.
Il rischio di un rinvio che finisca per lasciar galleggiare a lungo la legge, dunque, c'è. Ma ci sono almeno altre 2 questioni che, aggiungendosi a tutto ciò, potrebbero seriamente incidere sul destino della legge appena licenziata da Palazzo Madama. La prima, come detto, è nell'impatto che potrebbe avere sul dibattito politico la decisione della Consulta sulla legge 40. La seconda, nel fatto che il Pdl ora deve fare i conti con la novità della nascita di una opposizione interna, quella di Gianfranco Fini, che anche sulla bioetica sta giocando la sua partita e che come sul testamento anche sulla legge 40 aveva preso posizioni che avevano fatto discutere. «Non sempre si danno le risposte il giorno dopo», ha spiegato ieri a chi gli chiedeva delle mancate risposte di Silvio Berlusconi sulle questioni poste al congresso del Pdl. «Soprattutto - ha aggiunto - quando si tratta di risposte su questioni così importanti, destinate a durare nel tempo. Si forniscono nel corso del tempo e, soprattutto, dopo avere dibattuto e approfondito». Tempo, dunque, e necessità di approfondimento.
Dice Gasparri che la posizione di Fini è minoritaria. Ma c'è e - spiega Paola Binetti, deputata Pd che sul testamento bioloigico al Senato ha combattuto più di una battaglia anche dentro il proprio partito - «pone, tra le altre cose, il problema della presenza cattolica anche nel Pdl».
Infine, la sensazione è che in pochi nel centrosinistra si metteranno a fare le corse per arrivare a una legge che, comunque la si modifichi, non sarà mai quella della "posizione prevalente" del Pd, soprattutto su nutrizione e idratazione. Non stupisce, dunque, che ieri Emma Bonino sia tornata a chiedere una sorta di moratoria come già aveva fatto Massimo D'Alema qualche giorno fa E, d'altra parte, a questo punto anche il Pd ha la necessità di dare un segnale al proprio elettorato.
Troppo, forse, tutto insieme.

l’Unità 31.3.09
Conversando con Piero Terracina
Ex deportato e sopravvissuto al campo di concentramento di Auschwitz
«Alemanno faccia chiarezza sulla memoria: le Foibe furono un’altra cosa»
di Paola Natalicchio, inviata ad Auschwitz


Scarpe comode, impermeabile scuro, berretto in testa. Piero Terracina, 81 anni, ancora una volta non si risparmia. E torna a camminare in mezzo agli studenti lungo i campi di sterminio in cui fu deportato ancora adolescente, in occasione del viaggio della memoria organizzato dal presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti. «Lo sai che sono stato qui anche la scorsa settimana? Con i ragazzi della provincia di Viterbo», racconta, fermandosi un attimo e allargando le braccia, mentre guadagna una panchina in cui prendere fiato, a pochi metri dall’ingresso del campo di Auschwitz. «Mi hanno liberato a pochi metri da qui, era il 27 gennaio del 1945. Arrivavo dal vicino campo di Birkenau, dove ero stato per otto mesi e dove è morta tutta la mia famiglia. I tedeschi l’avevano abbandonato da pochi giorni, perché i soldati russi erano alle porte. Così mi sono nascosto, aspettando che arrivasse qualcuno», dice. E indica uno dei padiglioni rossi sullo sfondo, oggi adibiti a museo, dove intanto gli studenti entrano in fila di due. «Bevevo acqua pressando la neve e aspettavo che arrivasse qualcuno. Circondato da pochi sopravvissuti e molti cadaveri. Poi finalmente si aprì la porta e vidi un soldato. Quello che salvò Primo Levi era a cavallo. Il mio, lo ricordo ancora, era tutto vestito di bianco». Prende fiato, dopo una sveglia all’alba, una mattinata sotto la pioggia insieme al gruppo di 240 studenti e 60 docenti che lo segue fedele da due giorni, come fosse un pastore: lungo le vie di Cracovia, in sinagoga, nei padiglioni, davanti ai forni crematori, nei corridoi del Novotel, fin davanti all’ascensore.
Il no ad Alemanno «Sono un po’ stanco», sussurra, alzando appena le sopracciglia grandi e disegnando un sorriso gentile, che sembra spettinare un attimo la barba curata in ogni minimo dettaglio. È qui che si toglie il berretto, come a chiede scusa. E lo ripete ancora: «È vero. All’ultimo viaggio del Comune di Roma non sono venuto. Con il sindaco Alemanno proprio non era possibile. Non lo vedi che bel clima c’è adesso?». Poi inclina la testa, si sfiora il mento, si tocca la fronte. Prova ad argomentare, pesando le parole con prudenza, ma senza ipocrisia. «Certo, ha fatto qualche passo avanti rispetto al passato, non lo nego. Ma a me non basta. Devo essere convinto al 100% e ancora non lo sono. Mi manca un pezzo: il ripudio assoluto del passato». Quel viaggio mancato, un po’ ancora gli brucia. Per il timore, timido, di aver tradito i ragazzi. «Non vengo qui per me. Non sono masochista. Tornare qui, parlare di quello che mi è successo, mi fa male. Ma vedo che a loro serve». Solo che allora, nonostante questo, ha passato la mano. «Quando Alemanno tornò da Auschwitz, lessi le sue dichiarazioni ed erano molto belle. Subito dopo, però, ha nominato un delegato alle memorie. Plurale. E poi ha organizzato quel viaggio alle Foibe. Dove però non si è fermato neanche alla risiera di San Saba. Erano 5 chilometri di distanza, in fondo».
Le Foibe e la Shoah Sulle foibe, però, non è solo questo. «Io contesto la comparazione che viene proposta, in questo modo, tra Foibe e Shoah, che sono eventi completamente diversi. Lo sono nei numeri. I cinquemila morti delle Foibe sono cinquemila vite umane perse e, quindi, cinquemila tragedie. Ma rispetto ai sei milioni di morti nei campi di sterminio nazisti, la cosa è diversa. E lo sono per ragioni politiche. La Shoah è stato un evento a cui l’Italia fascista ha dato il suo notevole contributo ed è stata l’istituzionalizzazione dello sterminio di chi si riteneva diverso. Gli ebrei, i Rom e i Sinti e così via. Le Foibe sono un fatto assolutamente condannabile, non giustificabile, ma plausibile e spiegabile se pensiamo a quello che hanno fatto i fascisti italiani in quei territori. Ci furono perdite, vessazioni. Le origini di quell’evento si possono capire». Quella verso il sindaco non è una preclusione ideologica. E per spiegarlo Terracina usa l’esempio più efficace. «Con Gianfranco Fini è diverso. L’ho incontrato, gli ho anche stretto la mano, quando è venuto in visita alla comunità ebraica di Roma e quando sono stato da lui alla Camera, lo scorso settembre, per il settantesimo anniversario delle leggi razziali. Lui sta facendo un percorso, anche recentemente lo ha continuato. E io lo rispetto. Intendiamoci, per me è un avversario. Ma non un nemico. Alemanno, però, è un’altra cosa».
La sua storia Gli occhiali grandi e marroni. Quella voce, poi. Con un nodo alla gola perenne. Eppure ferma, decisa. E le parole eleganti, d’altri tempi, che usa con i ragazzi come un pifferaio magico con le rughe. Capace di incantarli, togliere il fiato e strappare applausi in una sala d’albergo gremita come quella di domenica sera. «Il mio abisso verso il campo di sterminio è iniziato nel 1938, con le leggi razziali. Abitavo a Roma, nel quartiere Monteverde, con i miei genitori, i nonni, i miei tre fratelli e mia sorella. Andavo a scuola pubblica, ma mi dissero che dovevo cambiare. Persi tutti gli amici. Fu il mio primo, grande dolore». Ne seguirono, di lì a poco, molti altri. «Con l’ingresso in guerra, nel ’40, mio padre iniziò a perdere il suo lavoro, come rappresentante di commercio. Iniziammo a vivere tra mille difficoltà». Poi arrivò il 16 ottobre del 1943, gli arresti degli ebrei in tutta Roma. «Quella volta la scampammo. Ero al tabaccaio, a comprare le sigarette per mio padre. Lui ebbe una soffiata. Venne a prendermi e ci nascondemmo da amici». Poi, però, il 7 aprile del 1944, l’agguato. «Una spia indicò alle SS dove eravamo nascosti. Arrivarono alle nove di sera, davanti alla porta, armati fino ai denti. Non fu possibile opporre nessuna resistenza». Prima il carcere, allora. Poi, un viaggio che passa per Fossoli, Monaco, fino all’arrivo a Birkenau. «Arrivammo stremati. Separarono subito me e i miei fratelli da mia madre e mio nonno. Che andarono a morire nelle camere a gas. Polvere e cenere. Negli otto mesi successivi, rividi mia sorella una sola volta. Poi persi anche mio padre e i miei tre fratelli. Quando tornai a Roma, nel dicembre del ’45, dopo essere stato in ospedale per mesi e poi arruolato nell’Armata Rossa, ero rimasto solo». E poi? «Poi si ricomincia. Sono stato molto fortunato, sai?». Molto fortunato. Dice davvero così. «Non mi sono mai sposato, ma ho lavorato con soddisfazione, fino a diventare dirigente in un’industria di bottoni. E poi eccomi qua, in mezzo ai ragazzi».

l’Unità 31.3.09
Contratti, tre milioni di no
Cgil chiama l’Italia in piazza
di Felicia Masocco


3.462.000 contrari, il 96% dei votanti. Cisl e Uil polemizzano. Epifani: «Accettino la sfida»
I numeri della manifestazione di sabato al Circo Massimo: «Sarà imponente»

Quasi tre milioni e mezzo di No. Il 96% dei 3 milioni e 600mila lavoratori, precari e pensionati che ha partecipato al referendum della Cgil sulla riforma dei contratti, lo ha bocciato. Una bocciatura netta, arrivata dopo 55mila assemblee in cui il sindacato di Corso d’Italia ha spiegato perché l’intesa siglata a Palazzo Chigi il 22 gennaio non va bene e perché la Cgil non l’ha firmata. Come quell’accordo, anche il referendum è stato separato, ieri Guglielmo Epifani ha ricordato il rifiuto di Cisl e Uil di farlo insieme. Eppure i diretti interessati hanno ben approfittato per poter dire la loro. Il numero dei votati è stato superiore alle previsioni e alle aspettative della stessa Cgil: sono stati 3.643.836, vale a dire il 71,05% di quanti parteciparono (5.128.507) alla consultazione sul protocollo sul Welfare, solo che quella era unitaria, promossa con Cisl e Uil. «La Cgil ha portato al voto, da sola, due terzi di quelle persone», afferma il segretario organizzativo Enrico Panini.
VALORE AGGIUNTO
La Cgil è soddisfatta, Epifani e Panini parlano di «risultato straordinario», «hanno partecipato tanti non iscritti, è un dato che va oltre la nostra presenza e rappresentatività. È un valore aggiunto, ha un peso politico alto. Questo voto dovrebbe far riflettere», commenta il segretario generale.
Il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, non ci pensa nemmeno e liquida il referendum come una «panzana clamorosa» perché non è stato unitario. «Come si fa -chiede- a ritenere un vero referendum, una consultazione indetta “solo” da una organizzazione?». «Un risultato bulgaro per un referendum bulgaro e unilaterale, quindi difficilmente verificabile», gli fa eco il segretario confederale della Uil, Paolo Pirani. Argomenti che tuttavia non tolgono nulla al voto né al suo esito e che forniscono un paio di assist a Epifani. «Avevamo proposto a Cisl e Uil una consultazione unitaria, ma non c’è stato modo: la democrazia va usata in modo più accorto, non si può esaltare il voto di una fabbrica e altri no, democrazia significa che puoi perdere, non può essere a schemi variabili. Ora porremo la questione delle regole in maniera ancora più forte. Chiediamo il voto per i contratti nazionali e anche per gli accordi generali. Solo con delle regole e con il voto dei lavoratori si possono risolvere o prevenire eventuali contenziosi tra sigle sindacali senza trascinarseli per mesi».
GEOMETRIE VARIABILI
A proposito di democrazia a geometria variabile: la fabbrica cui si riferisce Epifani è la Piaggio, dove la settimana scorsa il voto sul contratto integrativo aziendale è stato sfavorevole per la Fiom-Cgil che ha comunque accettato il verdetto.
Il risultato è stato esaltato ieri dalla presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia: «Il referendum è uno strumento democratico ed è evidente che certe posizioni non tengono conto delle istanze dei lavoratori», ha detto. Perché, allora, non farlo sui contratti?
L’argomento sarà di nuovo al centro del confronto tra Cgil, Cisl e Uil, ma verosimilmente non prima di sabato, quando la Cgil sarà di nuovo al Circo Massimo con una manifestazione imponente. 40 treni speciali, cioè tutti quelli che si potevano reperire, due navi, 4.800 pullman, «la partecipazione sta crescendo in modo visibile» ha detto Panini, e già si cercano bus fuori dalla propria regione se non all’estero.
Cinque i cortei, 4mila gestiranno l’accoglienza. Sul palco prima di Epifani saliranno cinque lavoratori. Un concerto dei Modena City Ramblers chiuderà la giornata.

il Riformista 31.3.09
Pace sociale addio
È ritornata la lotta di classe
di Ritanna Armeni


I motivi e le condizioni per una ripresa del conflitto ci sono proprio tutti

Possiamo chiamarla rabbia populista. Possiamo usare questa definizione e altre ancora nei confronti delle manifestazioni che in questi giorni hanno infiammato le capitali europee contro i Governi dei Paesi industrializzati o le proteste, non sempre beneducate, nei confronti dei grandi manager che continuavano a ricevere con i bonus enormi quantità di denaro. Possiamo anche continuare a esorcizzare ciò che sta avvenendo e dire - come fanno osservatori pur acuti- che non siamo di fronte a una nuova fase della lotta di classe. Lo ha fatto di recente anche un intellettuale molto ascoltato nell'establishment europeo come Alain Minc ricordando che in queste proteste non c'è né un salariato organizzato, né una classe dirigente. Ma questo è davvero un motivo sufficiente per non riconoscere che stiamo entrando in una nuova fase di conflitto sociale? Non sarebbe più facile, invece che cercare definizioni esorcizzanti o rassicuranti, guardare ai tanti fenomeni di protesta diversi fra loro come l'inizio di una fase in cui il disincanto nei confronti di un mondo che non mantenuto la sua promessa di benessere è diventato protesta e lotta? Lo so, si fa fatica a pronunciare queste parole, ma, se non si nasconde la testa sotto la sabbia, si vede con chiarezza che i motivi e le condizioni per una ripresa del conflitto ci sono proprio tutti.
Viviamo in un pianeta in cui, malgrado le grandi stupidaggini raccontate sulla fine del lavoro, i produttori, gli operai, i salariati, sono di più e non di meno di quando c'era una classe operaia compatta e diretta da sindacati e partiti di sinistra. Per il semplice e non confutabile motivo che l'autoproduzione si va riducendo e aumenta la produzione di beni e di conseguenze le aziende manifatturiere. Oggi la terra è un pianeta più operaio di quanto lo sia stato in passato.
In questo pianeta non solo le disuguaglianze sono aumentate - lo ha ricordato qualche giorno fa sul Corriere della sera Mario Monti e non solo lui - ma c'è una vera e propria polarizzazione fra ricchezza e povertà. In poche parole non solo è cresciuta la distanza fra ricchi e poveri, ma si è ridotta la fascia di quelli che stanno in mezzo, del ceto medio, della fascia sociale a cui i poveri potevano aspirare.
Questo pianeta operaio e diseguale ha un filo che unifica la condizione dei salariati, dall'estremo oriente emergente, alla vecchia Europa sindacalizzata: il lavoro è associato alla precarietà e all'assenza o alla limitazione di tutele e diritti. Mai esistiti lì, dove lo slancio economico degli ultimi decenni non ha neppure permesso di pensarci, fortemente ridimensionati nei Paesi in cui il movimento operaio e gli Stati liberali li avevano fatti crescere nei decenni passati. Un elemento che rende per la prima volta la condizione operaia in tutto il pianeta simile nell'incertezza del futuro e nella richiesta di tutele.
Questo mondo operaio, precario e diseguale è stato tenuto a bada per molto tempo dalla fiducia nelle "magnifiche sorti e progressive" di un capitalismo che, sviluppandosi e globalizzandosi avrebbe ridistribuito una ricchezza le cui briciole poi sarebbero arrivate anche agli ultimi. Un mondo in cui le maggiori diseguaglianze, il restringimento dei diritti erano solo un passo necessario per andare avanti sulla via dello sviluppo. Così si è raccontato e a questo in molti hanno creduto.
All'inizio dell'inverno 2008 con l'apertura della grande crisi finanziaria e nei mesi successivi con la conseguente crisi economica "il sol dell'avvenire" del capitalismo è tramontato e il grande castello delle sue promesse è crollato insieme ai titoli in Borsa, ai fondi pensione e alle obbligazioni bancarie, ai posti di lavoro. È una storia, quella dei fallimenti e dei salvataggi, che oramai conosciamo a memoria e tuttavia non è ancora finita. Quelle che non riusciamo ancora a vedere sono le conseguenze che il grande fallimento economico finanziario e ideologico ha messo in moto. È riemersa in America e in Europa, ma anche in Cina, per le poche notizie che riescono ad arrivare, una rabbia per le ingiustizie e le diseguaglianze che pareva finora sopita, ma che la delusione ideologica e la consapevolezza di una precarietà che non è condizione temporanea, ma permanente e, soprattutto, senza futuro hanno risvegliato. Da essa nascono le rivolte ignorate e censurate degli operai cinesi, la riuscita dello sciopero generale francese e la ribellione contro i bonus dei manager, le manifestazioni contro le troppo poco efficaci politiche degli Stati nazionali. Da essa nasce anche la manifestazione della Cgil sabato prossimo. Da esse, ancora, le preoccupazioni e le decisioni da parte di alcuni capi di governo inimmaginabili fino a a qualche tempo fa. Obama che licenzia di fatto l'amministratore delegato della Gm, Sarkozy che per decreto, contro il parere della Confindustria francese, vieta i bonus dei manager le cui aziende ricevono aiuti dallo Stato. Da esse, infine, la ricerca di nuova visione etica del capitalismo propugnata da Tremonti.
L'illusione della pace sociale è finita. È bene tenere gli occhi aperti. Perché il conflitto non si presenterà necessariamente nelle forme che abbiamo conosciuto nel Novecento, perché non avrà necessariamente le stesse richieste e gli stessi obiettivi. E tuttavia esigerà una risposta. «Credo che i grandi partiti della sinistra dovrebbero approfittare dell'occasione per tornare ad occuparsi di giustizia sociale» suggeriva ieri perfino Bill Emmot, ex direttore dell'Economist.

l’Unità 31.3.09
Requiem degli artisti in piazza contro la strategia della subcultura
di Stefano Miliani


Ieri piazza Farnese a Roma ha ospitato il Requiem per la cultura: artisti, attori, registi per denunciare la politica di tagli indiscriminati che rischia di causare una strage di posti di lavoro e di minacciare la democrazia stessa.

In piazza Farnese a Roma, si sente finalmente il primo tepore di primavera. Ma nel bell’assembramento sotto il cielo azzurro domina un colore funereo: trampolieri vestiti di nero, donne avvolte in veli funebri e una bara dorata... «L’arte è morta, se ne sono resi conto i nostri governanti, per questo ci hanno dato un posto al cimitero - declama Ascanio Celestini nella sua «orazione funebre» - noi siamo morti perché se voi governanti siete vivi è evidente che noi siamo un’altra cosa». Così l’attore ha chiuso il Requiem 2009 per la cultura e lo spettacolo, organizzato dall’Associazione per il teatro italiano. Hanno risposto attori, musicisti, l’Accademia nazionale d’arte drammatica D’Amico, qualche politico (tra cui Giovanna Melandri e Vincenzo Vita del Pd) e altra gente che sente franare il terreno sotto i piedi. L’atmosfera è quella dello sberleffo da parte di chi non vuol «morire» di fame in silenzio e nella mestizia.
Chi fa spettacolo, ricorda un’attrice, non può avere mutui, non avrà la pensione, non ha protezione sociale, non ha rimborsi. E se, per inciso, non lavora almeno cento giorni all’anno, per la previdenza è come se passasse il tempo a bighellonare. «Vorremmo sollecitare i politici nei confronti di categorie che hanno bisogno di lavorare, con i tagli molte compagnie di prosa chiuderanno del tutto»: lo prevede Laura Fo dell’Apti. Qualche clown rallegra la brigata, ma l’origine dei mali - contestano molti - è di lunga data. Solo che il massacro del Fondo unico per lo spettacolo (Fus), ridotto a 370/380 milioni di euro nel 2009 e il massacro delle risorse degli enti locali, praticamente dimezzate per la cultura, rischiano di provocare una strage di posti di lavoro. Una strage che - avvertono gli artisti - resta senza nome. Nessuno la considera.
«C’è un attacco lucido e mortale alla ricerca e alla cultura - interviene Benedetta Buccellato, sempre dell’associazione -. Così come c’è stata tanti anni fa una strategia della tensione, ora c’è la strategia della subcultura: si mortificano spettacolo dal vivo, magistratura, lavoratori...». Ciò a cui Buccellato dà voce è un sentire condiviso da tanti, se non da tutti. Quel che è in pericolo è anche la democrazia, perché un paese che non legge, che non va a teatro, non va al cinema e non va ai concerti è un gregge docile docile. Ma fa anche un velo di autocritica: «Forse noi artisti non abbiamo saputo raccontare quanto accadeva nel paese. Ma anche i partiti di opposizione hanno peccato di un grave immobilismo».

Repubblica 31.3.09
Popolo. L’oggetto del desiderio della nuova demagogia
di Nadia Urbinati


La concezione liberale lo vede non come una massa uniforme che applaude un uomo ma come un insieme di individui e cittadini
È nell’Ottocento che gli viene attribuita in quanto volontà collettiva la fonte della legittimità dei governi e anche la sovranità politica

La fusione di An e Forza Italia e il ritorno del rapporto particolare tra il leader carismatico e le moltitudini

"Il popolo" è tra le categorie politiche quella forse più ambigua e più abusata, al punto di essere ora adottata addirittura per designare un partito, come se "la parte" e "il tutto" si identificassero; anzi, come se "la parte" si proponesse identica al tutto. L´origine del termine "popolo" è latina e nella tradizione romana repubblicana aveva un significato di opposizione/distinzione rispetto a una parte di popolazione che non era popolo: l´aristocrazia o il patriziato. Per questa sua connotazione non socialmente unitaria, dovendo decidere la denominazione della nuova assemblea convocata all´indomani della presa della Bastiglia, nel 1789, i costituenti francesi preferirono l´aggettivo "nazionale" a "popolare".
L´incorporazione del "popolo" nella concezione moderna della sovranità statuale e poi la sua identificazione con la nazione vennero perfezionate nel corso dell´Ottocento. Nel 1835 Giuseppe Mazzini lo definì "l´unica forza rivoluzionaria" esistente anche se "mai scesa nell´arena" politica, fino ad allora il luogo esclusivo della "casta" aristocratica e militare. Popolo venne a identificarsi con volontà collettiva e quindi con la sorgente del consenso fondamentale senza il quale nessun governo poteva dirsi legittimo.
Ma è proprio nella natura singolare del nome che sta il problema. Nelle principali lingue europee ad eccezione della lingua inglese, i termini Popolo, Peuple, Volk designano un´entità organica, un tutto unico la cui volontà è una ed è legge. Lo stesso Jean-Jacques Rossueau, al quale ingiustamente è stata attribuita la paternità teorica della democrazia totalitaria, aveva anticipato i rischi di plebiscitarismo quando, descrivendo l´assemblea popolare come unico legittimo sovrano, aveva precisato con molto acume che i cittadini vi si recano individualmente, e poi, una volta riuniti in assemblea, danno il loro voto in silenzio, ragionando ciascuno con la propria testa e senza consentire a nessun oratore di manipolare i loro consenso.
Le adunate oceaniche di memoria fascista e nazista sono state una negazione della volontà popolare democratica alla quale pensava Rousseau e che è così ben definita nella nostra costituzione. Quelle adunate di popolo, che ricalcavano il modello dell´antica Sparta dove le assemblee si concludevano urlando il "sì" o il "no" alla proposta del consiglio, non erano per nulla un segno di democrazia. In Atene, alla quale dobbiamo la nostra visione della democrazia, i cittadini si recavano all´assemblea e votavano individualmente, con voto segreto, e infine contavano i voti uno per uno, non fidandosi dell´impressione acustica provocata dall´urlo come a Sparta. Il modo di raccogliere il consenso e la procedura di computa dei voti sono stati da allora i due caratteri cruciali che hanno dato democraticità alla categoria ambigua di popolo; che hanno anzi consentito di togliere l´ambiguità ed evitare l´abuso. È chiaro infatti che se il termine "popolo" è singolare, sono le regole che si premuniscono di renderlo plurale. Il popolo dei populisti, quello per intenderci della concezione fascista e plebiscitaria, non è lo stesso del popolo democratico: ne è anzi la sua degenerazione e negazione. È ancora a un autore classico che ci si deve affidare per comprendere questa distinzione cruciale.
Nella Politica Aristotele distingue tra varie forme di democrazia, procedendo da quella meno pessima o sufficientemente buona a quella assolutamente pessima: la migliore è quella nella quale le funzioni del popolo di votare in assemblea sono affiancate da quelle di magistrati eletti; la peggiore è quella demagogica, un´unità nella quale la voce del demagogo diventa la voce del popolo e il pluralismo delle idee si assottiglia pericolosamente. Nel Novecento, Carl Schmitt ha dato voce a questa visione di democrazia plebiscitaria o cesaristica integrandola con una critica radicale del Parlamento: perché perdere tempo a discutere se ci si può valere di un leader che sa quel che il popolo vuole visto che la sua volontà è una sola con quella del suo popolo?
Il termine popolo acquista dunque un significato meno ambiguo e soprattutto liberale quando è associato non a una massa uniforme che parla con una voce e si identifica con un uomo o un partito, ma invece all´insieme degli individui-cittadini che fanno una nazione. Individui singoli perché il consenso non è una voce collettiva nella quale le voci individuali scompaiono, ma un processo che tutti contribuiscono a formare. Il pluralismo è il carattere che fa del popolo un popolo democratico; anche perché il voto è l´esito di una selezione tra diverse proposte o idee che devono potersi esprime pubblicamente per poter essere valutate e scelte.
Vox populi vox dei ha un senso non sinistro solo a una condizione: che la democrazia abbia regole e diritti non alterabili dalla maggioranza grazie ai quali i cittadini possono liberamente partecipare al processo di definizione e interpretazione di quella "voce". Ma se la "vox dei" abita un luogo definito e unico � sia esso un partito o un potere dello stato o un uomo � se acquista un significato unico, allora è la voce non più del popolo ma di una sua parte che si è sostituita ad esso. Concludendo in sintonia con questa analogia religiosa, vale ricordare che l´unanimità e la concordia ecclestastica finirono quando il pluralismo interpretativo del cristianesimo si affermò. La democrazia costituzionale può essere a ragione considerata una forma di protestantesimo politico.

Repubblica 31.3.09
Massa informe. Quell’idolo dei romanzi
Cosa resta del populismo in letteratura
di Alberto Asor Rosa


Di questa massa informe emergono qua e là visioni frammentarie come su una spiaggia marina dopo una tempesta

C’era una volta il populismo. E noi lo combattevamo. A ragione: perché, letterariamente, ci appariva un´espressione arretrata, subalterna e nostalgica rispetto ai grandi filoni decadenti italiani ed europei dell´Otto e Novecento; perché, ideologicamente, rappresentava una visione edulcorata e compromissoria della lotta di classe, la quale invece, quella sì, avrebbe rimesso le cose al loro posto nel nostro paese e nel mondo. E però: Conversazione in Sicilia, Cristo si è fermato a Eboli, Cronache di poveri amanti, persino Speranzella e Quel che vide Cummeo, fino a Il capofabbrica e Il taglio del bosco, fino a, apogeo e crisi del neorealismo, Ragazzi di vita e Una vita violenta... Mica male, per un movimento retrogrado e sbagliato.
Qualcuno disse un giorno: non moriremo democristiani. Mai in Italia azzardare previsioni ottimistiche. Quel che abbiamo vissuto poi è un´esperienza diversa da come ce l´eravamo immaginata. Pensavamo classe operaia e popolo nozioni e pratiche politiche nettamente contrapposte, e inconciliabili. Abbiamo scoperto, a spese nostre, ma, quel che più conta, a spese del paese, che il tramonto della classe operaia, – tramonto politico e ideale, beninteso, non sociologico, ché di classe operaia ovviamente ce n´è ancora tanta, in Italia e in Europa, solo che sembriamo accorgercene solo quando si verifica una tragedia in fabbrica o si scopre che vota Lega, – avrebbe trascinato con sé il tramonto e la crisi del "popolo", nozione più evanescente e ondivaga di quella di "classe", e che ha bisogno d´un nocciolo duro per costituirsi e resistere, – per resistere, voglio dire, non solo politicamente ma anche culturalmente.
Di questo transito dalla consistenza al nulla qualcuno, acutissimo, persino s´accorse: Volponi, Memoriale (proletariato industriale) e La macchina mondiale (proletariato agricolo). Qualcun altro, invece (Balestrini, Vogliamo tutto), recependo entusiasticamente, com´era giusto, la spinta operaia in ascesa, invece di andare avanti, tornò, – e non era possibile altra scelta, – al populismo originario.
La situazione ora mi sembra questa: siccome viviamo da berlusconiani, non possiamo constatare che il dominio "demomediodittatoriale" del Nuovo Tipo di Capo poggia sulla definitiva messa in mora della classe operaia come classe politica generale e sulla neutralizzazione e frammentizzazione del popolo come categoria fondativa di ogni sistema democratico correttamente inteso: non più soggetti collettivi di qualsivoglia natura, ma una moltitudine di soggetti individuali che assurgono a politicità solo se si riferiscono al Capo motore immobile del sistema. Questo è il Popolo delle libertà, checché ne pensi, anche lui ottimisticamente, Gianfranco Fini.
Ora la domanda è: la letteratura ha bisogno dei miti? Se no, allora sta facendo il suo mestiere. Di questo popolo disperso e degradato, ridotto a massa informe (quella che a maggioranza vota il Capo), emergono qua e là visioni frammentarie, come su di una superficie marina che, dopo essere stata a lungo in tempesta, si spiana in una calma mortale: in Gomorra di Saviano; nelle periferie catatoniche e selvagge di Lodoli; sugli incerti margini della piccola borghesia in Un giorno perfetto di Mazzucco; in Io non ho paura di Ammaniti; nella Torino post-industriale di Culicchia; nella Napoli sempre più stremata di Da Silva. Il post-populismo è la moltitudine negriana (da Antonio Negri, intendo: Empire), ma tutto in negativo: l´implosione dell´esplosione, se si può dir così, cioè quel che resta di un sogno, quando noi (noi, proprio noi) l´abbiamo costretto ad autonegarsi a favore delle potenze infernali. Il resto è immaginario puro (tipo La solitudine dei numeri primi).

Repubblica 31.3.09
Fenomenologia dello stupratore
Una storia della violenza sessuale dell´inglese Joanna Bourke
La caccia di sempre allo "straniero"
di Natalia Aspesi


In ogni epoca la reazione sdegnata e violenta delle comunità contro l´orrore dello stupro ha avuto ragioni razziste e di classe
I responsabili individuati a colpo d´occhio, secondo un sessuologo di fine Ottocento
Il selvaggio "negro" era meritevole del linciaggio praticato dalle ronde dei cittadini bianchi

Gli stupratori si individuavano a colpo d´occhio, ne era sicuro il fantasioso ma autorevole sessuologo fine Ottocento Henry Havelock Ellis. Prima di poter scoprire le anomalie degli organi sessuali, quasi sempre infantili, subito si poteva osservare che c´era molta probabilità che il violento sessuale avesse naso e orecchie deformi, occhi azzurri e grosse mascelle inferiori. E´ passato più di un secolo ma ancora, per quel che riguarda la violenza sessuale, impera la fisiognomica: tanto che i due supposti stupratori della Caffarella sottoposti a una crudelissima violenza mediatica e poi scagionati, continuano a tutto oggi ad essere chiamati "il pugile" e "il biondino". Rumeni loro, rumeni quelli indicati adesso come veri responsabili: insomma stranieri, alieni, invasori, diversi, e per questo meritevoli di ronde, di sgombero di baracche, di proposta di castrazione.
Come racconta la storica inglese Joanna Bourke nel suo saggio Stupro, storia della violenza sessuale (Laterza, pagg. 600, euro 20), la reazione sdegnata e violenta delle comunità contro l´orrore dello stupro ha sempre avuto ragioni razziste e di classe. Nel XVIII secolo in Inghilterra, «i malvagi erano identificati con aristocratici esaltati che violentavano donne meno privilegiate»: decenni dopo, negli Stati Uniti fu additata come criminale «la nuova élite capitalista che usava la propria ricchezza per comprare e violare le ragazze della classe operaia». Verso il 1880 nacque quel giornalismo scandalistico oggi tanto venerato, e l´assatanato collega d´epoca, l´inglese William W. Stead, pubblicò sulla Pall Mall Gazette articoli così macabri sulle piccine violentate dai ricchi, che il Parlamento fu costretto a portare l´età del consenso da 12 a 16 anni.
Quando i poveri cominciarono a infastidire, e gli operai a immaginare ribellioni, e persino il cosiddetto basso ceto a pretendere il voto, lo spavento della classe agiata fu tale che organizzò un suo ottocentesco allarme sicurezza (con ronde e tutto) per proteggere i minori da vicini, pigionanti, babbi e fratelli persino da portinai. Le persone più pericolose erano gli operai disoccupati, i senza dimora che giravano in cerca di lavoro, che assalivano per alcolica lussuria anche le meno avvenenti delle madri di famiglia. Negli Stati Uniti, i difensori della decenza e della temperanza, additarono come massimi criminali sessuali gli immigrati. Nel 1910 il reverendo F. M. Lehmann sosteneva che le donne correvano atroci pericoli a causa di questi ignobili figuri che «vengono da paesi dove la miglior cosa che possano fare è sdraiarsi e dormire al sole».
In Australia, i più laidi erano gli stranieri originari del Mediterraneo: quando nel 1928 un cittadino britannico però di origine greca fu condannato per stupro, la stampa si sbizzarrì: «un mediterraneo ritardato e degenerato� vile bestia greca� basso e lascivo figlio del Levante�». Per almeno la prima metà del secolo scorso, negli Stati Uniti razzisti, l´afroamericano, il "negro", divenne il simbolo del maschio selvaggio e ipersessuato, fermo a uno stadio ancora bestiale dell´evoluzione darwiniana, quindi portato ad essere un pericoloso aggressore di donne bianche (se nere si chiudeva un occhio in quanto promiscue per natura) e per questo meritevole o del linciaggio praticato dalle ronde composte da bravi cittadini bianchi, o della condanna a morte per impiccagione comminata per legge da una giuria bianca. Alla fine degli anni 90 dell´Ottocento, la signora Roberta Felton, prima donna eletta nel Senato americano, raccomandò maternamente: «Se occorre il linciaggio per proteggere la più preziosa proprietà di una donna dalle bestie umane, allora io dico: linciate mille volte la settimana se è necessario� e un cappio subito per gli aggressori!».
A rovinare i negri erano stati l´emancipazione e quei sobillatori che avevano fatto credere loro all´eguaglianza sociale e persino al matrimonio con la donna bianca. «Quando i bianchi non poterono più contare sulla schiavitù per mantenere le gerarchie razziali, si rafforzò la tendenza a ricorrere al linciaggio», scrive la Bourke, come esplicito mezzo per mettere in riga tutti i neri con la paura e rafforzare la segregazione. E contemporaneamente il terrore quotidiano che la società soprattutto del Sud alimentava nella donna bianca anche lei in cerca di emancipazione, serviva a renderla sempre più soggetta e bisognosa di protezione maschile. Bianca. Gli stupratori erano soprattutto uomini bianchi (come oggi da noi soprattutto italiani), essendo i neri terrorizzati dal fatto che potevano essere accusati di violenza solo per aver osato fissare una bianca da lontano.
In ogni caso allora nessun bianco fu mai linciato o condannato a morte per violenza carnale. E meno male che adesso in Italia con il nuovo decreto antistalking c´è un gran movimento: e come dicono gli inquirenti «gli arresti (di una impressionante moltitudine di molestatori maschi di femmine) si susseguono a ritmo frenetico». Due al giorno! E per ora tutti italiani!

Repubblica 31.3.09
Nella Grecia antica
Quei cattivi maestri di una volta
di Maurizio Bettini


In Grecia era diventato un genere letterario. Poetica dello stupro, così si intitola un saggio recente dedicato al teatro di Menandro. Nelle commedie antiche, infatti, ricorre spesso questa vicenda: di notte, durante una festa e sotto l´influsso del vino, un giovane violenta una ragazza e la mette incinta. Le circostanze della violenza sono fondamentali, perché mostrano che l´atto non intendeva ledere l´onore del kúrios "signore" della donna, il suo tutore maschile. Una ragazzata, insomma, che finiva con le nozze fra i due giovani. Quanto avrà influito, questa "poetica dello stupro", sulla nostra cultura, facendoci sembrare rimediabile la violenza maschile? E trasferendo in noi l´idea che stuprare una donna corrisponda più ad un´offesa recata al suo "signore", che non a lei? E poi ci sono gli dei.
La mitologia greca pullula di divinità che si dedicano a violentare donne. Per la verità, in Grecia la cosa scandalizzava almeno gli spiriti più illuminati, come Pitagora o Senofane. Possibile però che non si sia mai levata una voce femminile per raccontare la sofferenza e l´umiliazione dello stupro?
Un caso almeno c´è, e sta nello Ione di Euripide, di cui la BUR ha appena pubblicato una bella edizione curata da Maria Serena Mirto. Il fulcro sta nella violenza che Creusa, principessa ateniese, aveva subito un dì da parte di Apollo. Per troppo tempo la donna ha taciuto, ma adesso dichiara: "figlio di Latona, voglio gridare il mio biasimo per te, qui alla luce del giorno!". Ciò che segue è il racconto di una fanciulla trascinata dal dio nel fondo di una grotta. Ma la conclusione più netta la trae Ione, il figlio di quella violenza: "non è giusto chiamare malvagi gli uomini, che imitano queste belle imprese degli dei. Malvagi sono piuttosto i nostri maestri". E di cattivi maestri, purtroppo, in giro ce ne sono ancora tanti.

Corriere della Sera 31.3.09
I dati del Comitato nazionale di valutazione dicono che il 18,5% delle matricole delle Statali lascia
Le differenze La media scende al 6,5% negli atenei privati. I casi (virtuosi) della Bicocca e di Bergamo
Università addio. Il primo anno
Uno studente su 5 abbandona per sempre Record della facoltà di Matematica. E di Chieti
di Corinna De Cesare


Disorientati, stanchi e delusi. Già dopo il primo anno. Succede così che (quasi) uno studente su cinque, abbandoni gli studi dopo appena dodici mesi dall'immatricolazione. Perché l'impatto con l'università non è tra i più facili. Aule affollate, professori da rincorrere, piani di studio da realizzare, appuntamenti con tutor da consultare, volumi di oltre duecento pagine da studiare nell'arco di pochi giorni. Senza considerare i costi. Un mix che, secondo quanto pubblicato dall'ultimo rapporto sullo stato dell'università (realizzato dal Comitato nazionale di valutazione del sistema universitario, organo istituzionale del ministero dell'Università e della ricerca), scoraggia moltissimi studenti.
Dei circa 285 mila immatricolati delle università statali all'anno accademico 2006-2007, hanno proseguito gli studi circa 232 mila ragazzi, con un tasso di abbandono pari al 18,5%. «Appena incontrano delle difficoltà i giovani scappano», spiega, con un po' di ironia, Luigi Biggeri, professore dell'università di Firenze e presidente del Cnvsu. Poi torna serio: «La motivazione più importante alla base di questo fenomeno è la mancanza dell'orientamento e del tutoraggio ».
I ragazzi insomma non hanno le idee chiare sul percorso di studi da intraprendere e nella scelta sono poco aiutati dalle scuole. Non solo. «Una parentesi fondamentale è la politica del diritto allo studio — aggiunge Biggeri — gli studenti fuori sede devono viaggiare, prendere i mezzi pubblici, districarsi nel traffico e nelle difficoltà, anche economiche, che un qualsiasi corso di laurea impone. L'abbandono può essere una conseguenza importante di questo problema».
Per qualcun altro però, questo tasso di abbandono è considerato «fisiologico». Basti pensare che da noi è più o meno costante da ormai dieci anni, anche se dopo la riforma del 3+2 le cose sono leggermente migliorate (nell'anno accademico 98-99 era del 20,9% secondo il Cnvsu). Ma dando un'occhiata agli altri Paesi europei, l'Italia ha un tasso di abbandono universitario tra i più elevati. In Olanda ad esempio, si registrano nelle università solo il 7% di mancate iscrizioni dopo il primo anno. In Gran Bretagna appena l'8,6% di iscritti lascia l'università (anno accademico 2006-2007) e in Spagna, dove gli abbandoni al secondo anno sono molto numerosi, si arriva al 15%. I nostri vicini francesi si fermano al 6%.
«Ci sono tre spiegazioni a questo fenomeno — spiega Marino Regini, prorettore dell'università di Milano, che sulle carenze vere o presunte del nostro sistema universitario ha pubblicato il libro Malata e denigrata. L'università italiana a confronto con l'Europa
— innanzitutto l'Italia è, insieme alla Spagna, uno dei pochi Paesi a non avere un canale professionalizzante alternativo all'università. Ciò produce l'immissione negli atenei anche di studenti non particolarmente motivati a studi più teorici. Non abbiamo inoltre selezione all'ingresso, se non per alcuni corsi di laurea, e soprattutto abbiamo un sistema di diritto allo studio che è veramente scarso. L'80% dei nostri ragazzi non usufruisce di borse di studio, abbiamo pochissime residenze universitarie e spendiamo appena lo 0,04% del Pil in servizi agli studenti. È chiaro che i nostri ragazzi sono più attratti dei loro coetanei stranieri da qualche lavoretto che consenta loro di mantenersi». E che aumenta la durata degli studi.
Da non sottovalutare, poi, il carico di lavoro. «Ancora pochi atenei — aggiunge il presidente del Comitato di valutazione del sistema universitario — fanno studi seri sul carico di lavoro assegnato agli studenti in rapporto ai crediti degli esami. È ora di cambiare le cose».
Completamente diversa la situazione negli atenei «privati» in cui ad abbandonare gli studi sono davver o in pochi (6,5% nel 2007/2008). Una scelta dunque, quella dell'università non statale, che sembra essere più consapevole. Ma non mancano casi di atenei pubblici particolarmente virtuosi: la Bicocca ad esempio, quasi cinquemila immatricolati nell'anno accademico 2006-2007, ha un tasso di abbandono pari al 4,3%. Stessa cosa succede a Bergamo (4,9%) e Trieste (7,9%) e in molti atenei del Centro e del Sud Italia come la Napoli II (5,6%), all'Aquila (8,3%) e a Urbino (6,3%). Al contrario invece, tra le facoltà più «abbandonate» dai ragazzi c'è Scienze matematiche, fisiche e naturali (26,6% per l'anno 2007-2008), Farmacia (23,9%), seguita da Agraria (23,7%) Sociologia (22,6%) e Giurisprudenza (21,5%) con Scienze politiche (20,1%). I dati di ogni singola facoltà però, tengono a sottolineare dal Cnvsu, sono una stima del reale tasso di abbandono. Infatti non prendono in considerazione né i passaggi degli studenti da una facoltà all'altra (ma il totale di ogni università è un dato reale e non stimato), né le immatricolazioni che avvengono «convalidando» le esperienze lavorative. In cui può succedere, dopo appena un anno dall'iscrizione, di passare direttamente alla laurea.
È per questo che si lamenta Franco Cuccurullo, rettore dell'università di Chieti e Pescara che dai dati del Comitato di valutazione risulta l'ateneo italiano con il maggior tasso di abbandono (39,3%). «Questi calcoli sono sbagliati — commenta il rettore — perché comprendono sia i trasferimenti che i riconoscimenti creditizi. Da noi gli immatricolati effettivi per l'anno 2006-2007 sono stati 5.237 e non 7.513 come dice il Miur. L'anno successivo abbiamo avuto 4.564 iscrizioni con un tasso di abbandono effettivo del 13,1% e non del 39,3%».
Chi l'università la vive tutti i giorni, e dalla parte degli studenti, invita le scuole a svolgere una maggiore e più puntuale attività di orientamento. «La difficoltà maggiore — spiega al telefono tra una lezione e l'altra Diego Celli, 23 anni, studente del corso di laurea specialistica in giurisprudenza all'università di Bologna e presidente del comitato nazionale degli studenti universitari — è che i ragazzi si iscrivono a un corso di laurea senza sapere effettivamente in cosa consiste. L'orientamento che si fa oggi agli studenti non approfondisce la cosa più importante, ossia cosa si studierà all'università».

Corriere della Sera 31.3.09
Dibattito a Milano sull'imperatore svevo
Lo strano mito di Federico II un sovrano un po' federalista
di Giulia Ziino


Quando lo hanno presentato a Bari un gruppo di guide di Castel del Monte è andato a manifestare contro l'autore, reo di avere messo in dubbio le teorie esoteriche legate all'edificio e al suo principale inquilino, Federico II di Svevia, da sempre pezzo forte delle visite guidate per turisti. Succede anche questo, quando i grandi della storia sopravvivono ai secoli per diventare miti, piegando la propria realtà ad uso di situazioni e conflitti moderni. E del rischio che si corre adattando la storia alle necessità dell'oggi hanno discusso ieri a Milano, nella sala Guicciardini della Provincia, il presidente della Provincia Filippo Penati, il direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli, lo scrittore Piero Colaprico, il presidente dell'«Associazione regionale pugliesi» Dino Abbascià e Marco Brando, giornalista e autore del libro Lo strano caso di Federico II di Svevia (edito da Palomar). Lo stesso incorso nella furia delle guide di Castel del Monte.
Brando, genovese con alle spalle diversi anni a Bari al Corriere del Mezzogiorno,
si è divertito a raccontare l'innamoramento della Puglia per l'imperatore svevo. Una cotta dura a morire ma non condivisa né dai tedeschi, smemorati connazionali di Federico, né dai leghisti nostrani, che lo hanno eletto a simbolo di uno statalismo pernicioso.
«Usare la storia per giustificare il presente», chiamando in causa, magari dopo l'11 settembre, l'accordo tra l'imperatore svevo e il sultano di Gerusalemme come esempio di concordia tra Oriente e Occidente, «si può fare — ha messo in guardia Mieli — ma solo a prezzo di bestiali nefandezze. Perché la storia, e solo se analizzata con strumenti sofisticati, può insegnare casomai a capire le complicazioni del presente». La tentazione però è forte se Federico, «moderno nella sua capacità di leggere le diverse realtà territoriali», nelle parole di Penati diventa portabandiera di un federalismo che «se ben interpretato, può essere un incentivo alla coesione sociale e all'unità nazionale».
Un modello da maneggiare con cura. Il resto è folklore, e un mito tanto radicato nel cuore dei pugliesi da partorire — e Brando li ha scovati con cura — decine di istituti, alberghi, negozi di ferramenta che, nel nome, rendono omaggio all'imperatore amante della poesia e della caccia col falcone. Anche una compagnia aerea dalla vita breve, la Federico II Airways. Lo slogan? «I fagiani volano, perché i foggiani no?».

Corriere della Sera 31.3.09
Alfonso Gianni e la crisi del liberismo
Il nuovo «libretto rosso» di chi spera nella Cina
di Antonio Carioti


Il saggio di Alfonso Gianni «Goodbye liberismo» sarà presentato a Milano domani alle 18 presso la libreria Feltrinelli di piazza Duomo. Interverranno: Dario Di Vico, Onorio Rosati, Cristina Tajani, Ferdinando Targetti

Per molti la crisi finanziaria internazionale è fonte di angoscia, ma Alfonso Gianni la vive con un certo sollievo, visto che «oggi il confronto fra destra e sinistra potrebbe essere meno impari di un tempo». L'autore del saggio
Goodbye liberismo (Ponte alle Grazie, pp. 361, € 16,50) ritiene che siano venuti al pettine i nodi di uno sviluppo distorto, sul quale si era innestata l'egemonia culturale dei paladini del mercato. La trascorsa fase di espansione produttiva era contraddistinta in America, nota Gianni, «dalla sostanziale invarianza, se non diminuzione, del valore reale delle retribuzioni e dalla crescente precarizzazione della forza lavoro», per cui l'unico modo di proseguire sulla via dei consumi di massa era praticare il «credito su larga scala» alle famiglie. Un meccanismo che si è inceppato con il disastro dei mutui subprime.
L'altro punto su cui il libro insiste è la coincidenza tra l'esaurimento di una «fase della globalizzazione capitalistica» e «la fine dell'egemonia americana e l'inizio di quella asiatica e cinese in particolare », dato che ormai non è più l'Occidente «a trainare il sistema su scala mondiale».
Proprio questo mutamento sembra però inficiare non poco la praticabilità delle ricette suggerite da Gianni: rilancio e riforma dell'Onu (senza più diritto di veto delle grandi potenze), governo globale della finanza, ripresa del conflitto sociale, assunzione dei contenuti proposti dal movimento «altermondialista » (o no-global). Infatti la Cina resta un Paese ferocemente geloso della sua sovranità nazionale, con un regime a partito unico che nega le libertà politiche e sindacali. Il suo sarà forse, come scrive Gianni, un inedito «capitalismo entro una crisalide statuale socialista», ma certo appare quanto meno azzardato sostenere che «ricorda abbastanza da vicino il modello europeo degli anni Sessanta ». E non sembra molto realistico confidare nei fermenti di «nuova sinistra » che si agitano a Pechino.
Se l'alternativa viene dal gigante asiatico, conviene usare qualche cautela nel rallegrarsi per il declino dell'influenza americana. C'è il rischio concreto di rimpiangerla. Anche a sinistra.
Alfonso Gianni, ex deputato di Rifondazione comunista, ha scritto diversi libri con Fausto Bertinotti

il Riformista 31.3.09
La vita non è un'algebra morale
Le decisioni intuitive di dr. House
di Andrea Valdambrini


Saggio. Le scelte ardite del dottore pazzo, l'inspiegabile cucchiaio di Totti, la rumorosa concentrazione di Glenn Gould. Lo psicologo Gerd Gigerenzer prova a spiegare perché la logica deve fare i conti con l'istinto. E perché scegliere razionalmente tra due donne non sia un calcolo.

Quando Dr House ha un'idea, non c'è modo di fargliela uscire dalla testa. Il bambino ha la polmonite? La signora ricoverata a neurologia straparla? La sua equipe ha le idee chiare, ma lui proprio non ci sta e va per la sua strada. Cerca, incespica, si incasina. Ma alla fine arriva alla soluzione impossibile, smentendo le cartelle cliniche. Aveva ragione!
Come ha fatto? Questione di intuito, direbbe lui. E non è il solo. Provate a chiedere a Totti come fa a fare il cucchiaio. Naturalmente vi risponderà che gli è venuto e basta, e che non solo non sa spiegarlo, ma peggio ancora, se ci pensa su quando lo fa, magari si blocca e non gli viene più niente. E addio cucchiaio. Si racconta però - e sembra il caso contrario a quello di Totti - che Glenn Gould stava preparando l'esecuzione dell'opus 109 di Beethoven, e giusto tre giorni prima del concerto ebbe un blocco mentale assoluto. Cosa fece allora? Accese radio, televisione e aspirapolvere, in modo da fare un tale rumore da non poter più pensare al pezzo. E le note rifiorirono, come sempre, sotto le sue dita. Anche lui, come Totti, avrebbe risposto che non conosce il motivo profondo grazie al quale può eseguire la sonata in quel modo così unico.
Tante volte usiamo l'intuizione molto più del ragionamento logico. Vi propongo un test: Linda è single, laureata in filosofia, ha studiato la lotta alle discriminazioni e la giustizia sociale. Cosa è più probabile che faccia dopo l'università? Fa la cassiera in banca, oppure fa la cassiera in banca ed è attiva nel movimento femminista? Tutti noi risponderemmo con la seconda alternativa. E tutti sbaglieremmo. Cadremmo in quello che Daniel Kahneman (nobel per l'Economia 2002) e Amos Tversky hanno chiamato fallacia della congiunzione. Se ci riflettiamo, infatti ci accorgiamo che, a rigor di logica, l'alternativa singola è statisticamente più probabile di qualsiasi congiunzione. Eppure, istintivamente, a noi continua a non sembrare così, anche se ci ragioniamo su. Nonostante Kahneman dica che ci sbagliamo.
A rigor di logica, e qui sta il punto. In Decisioni intuitive (Cortina, 2009, pp. 274, € 23,50) lo psicologo Gerd Gigerenzer, scienziato cognitivo e direttore del Max Plank Institute for Human Development di Berlino prova a spiegarci perché questa logica così bella ordinata molto spesso non funziona come dovrebbe. E perché siamo più intelligenti proprio così. Lo fa partendo dall'assunto che l'intuizione è molto più ricca della logica. Il giocatore di cricket non sa dire come prende la palla, ma i ricercatori hanno constatato che non segue la traiettoria fisica che dovrebbe seguire se la calcolasse con esattezza. Per prendere la palla si basa invece su una regola del pollice, cioè: guarda la palla e considera più o meno dove va a cadere. Infatti non è raro che il giocatore stesso cada o vada a sbattere, proprio perché il suo tipo di calcolo non è fisico-matematico. E non è preciso. Il fatto, sostiene Gigerenzer, è che questo tipo di regole del pollice, imperfette, approssimative, ma piuttosto efficaci, noi le usiamo dappertutto e continuamente. È la natura che ce le ha date, facendoci evolvere sulla base della nostra limitatezza, esseri per cui il tempo è sempre denaro. Troppe informazioni, tra l'altro a volte, ci mandano sulla cattiva strada, mentre una sola informazione, ma rilevante, ci mette in grado di seguire l'euristica delle euristiche del genere umano: appena puoi, prendi il meglio. Calcia quel pallone come sai, perché calciare è meglio che rimanere indeciso davanti alla porta. Forse fai gol!
In occasione del matrimonio di suo nipote, Benjamin Franklin suggerì un sistema razionale per scegliere tra due donne: «se sei in dubbio annota tutte le tue ragioni in colonne opposte su un foglio di carta, e, quando le avrai considerate per due o tre giorni, esegui un'operazione simile a certi problemi di algebra». Ma nessuno, fortunatamente sceglie seguendo l'algebra morale di Franklin. Perché questo sistema non funziona? Banalmente, perché noi esseri umani non funzioniamo così. La logica è molto più ricca di come certi psicologi l'hanno descritta, e comprende l'intuizione. Ecco cosa significa la celebre frase di Blaise Pascal, «le coeur a ses raisons que la raion ne connait pas». Ed ecco perché Gigerenzer la mette in esergo al suo libro.
Le intuizioni possono essere anche sbagliate, non c'è dubbio. Il punto è che senza euristiche o regole del pollice sarebbe molto peggio. Senza, per capirci, non riusciremmo nemmeno a uscire di casa. Dovremmo calcolare matematicamente lo spazio che ci separa dall'ufficio e quale traiettoria sarebbe meglio che le nostre gambe seguissero per arrivarci. Una follia, no?

Aprile on line 30.3.09
Buon compleanno Ingrao
di Marzia Bonacci


Alla Provincia di Roma con un'iniziativa organizzata dal Crs -dal titolo emblematico di "Volevo fare il cinema, poi ho fatto il politico"- sono stati festeggiati i 94 anni del leader della sinistra italiana. Impegno e militanza, ma anche e soprattutto cinema e poesia: due passioni che hanno caratterizzato tutta la sua vita, passata per il Novecento

Festeggiare un uomo che ha "scavalcato", come dice lui stesso, "un tempo grande e terribile" come il Novecento. Sintetizzare in un solo incontro una vita intensa che oggi tocca i 94 anni e che lo ha visto, soprattutto in quel tempo grande e terribile, calcare la scena della storia e della politica da protagonista. Il compleanno di Pietro Ingrao ha riunito oggi, nella sala Luigi Di Liegro della Provincia di Roma, esponenti politici (da Fausto Bertinotti e Paolo Ferrero a Walter Veltroni e Piero Fassino) e amministratori locali (l'assessore alla Cultura Cecilia D'Elia), personaggi legati al mondo della cultura (Gianni Borgna), intellettuali ed artisti (il regista Carlo Lizzani e il direttore di Filmcritica Edoardo Bruno). Un'iniziativa pubblica organizzata dal Crs di Mario Tronti, a cui è stata affidata l'apertura dell'evento con cui si è festeggiato un padre nobile della sinistra. Perché Ingrao è stato sicuramente questo, ma anche molto di più.

Ed è questa sua complessità che si è voluto scandagliare, discutendo di aspetti solo apparentemente secondari, come la passione per il cinema e la poesia. La stessa che ha imbevuto l'attività politica, che ha supportato dunque un'esistenza polimorfa ma sempre caratterizzata sentimentalmente in modo forte. "Volevo fare il cinema, poi ho fatto il politico" è stato infatti il titolo scelto dal Centro di ricerca presieduto da Mario Tronti per festeggiare questo compleanno. Partendo appunto da una verità insindacabile: Ingrao è stato artista tanto quanto è stato dirigente politico. "Un doppio cammino perché sono un uomo doppio", dice di se stesso in questa sala in cui è il festeggiato.

Una relazione, quella con il cinema, "iniziata in modo singolare" attraverso la lettura de Il 21, un foglio di critica cinematografica diretto dai fratelli Pasinetti ed edito dai Gruppi universitari fascisti: "qualcosa di cui non ci si deve scandalizzare", spiega Ingrao, tenendo conto che allora "vivevo a Formia, in provincia, e c'erano il fascismo e il nazismo, e cercavo una mia strada". Ed anche la poesia arriva in un modo altrettanto singolare, quando "partecipai ai littoriali di Firenze e arrivai terzo". Anche questa, "una macchia che non riesco a levarmi di dosso", commenta, invitando a contestualizzare tali scelte, il passaggio giovanile nel mondo del (primo) fascismo allora dilagante e dettato più dal dominio dei tempi che dalla consapevolezza.

La sala buia, le immagini che si susseguono, l'arrivo di "questo grande linguaggio" nel nostro paese: fu Gianni Puccini che lo instradò alla nuova arte, portandolo a villa Torlonia, casa del Duce, "ma anche spazio in cui sorgeva una casetta che stampava la rivista Cinema, diretta proprio dal figlio di Mussolini", ricorda Ingrao. Ed è a villa Torlonia che arriva Rudolf Arnheim, grande teorico del cinema che "parlava alla nostra passione di pischelletti". Nostra, cioè di Ingrao, ma anche di Puccini e di Giuseppe De Santis.

E poi la frattura, la stessa che racconta nel libro autobiografico Volevo la luna: un giorno a piazza Indipendenza a comprare Le Monde in edicola, il 17 luglio del 1936 per la precisione, e la lettura dell'arrivo di Franco in Spagna. "Lì c'è stato lo stacco della mia vita, quando ho deciso di cambiare i libri sulla scrivania", cioè quando "ho scelto di fermarmi col cinema per iniziare la lotta antinazista e antifascista".

Un periodo durante il quale soffre la malinconia e sperimenta la solitudine, in cui ci si trova di fronte all'estrema ratio: "non ho mai sparato, ma sparare era l'unica difesa da Hitler". Eppure in questa stagione di militanza e lotta, l'amore per il cinema resta a covare dentro, come qualcosa di non asportabile nemmeno nel frangente storico più tragico: cambiano sicuramente le priorità, il politico divora il privato degli interessi, ma il cinema è comunque lì, nell'intimo, per altro richiamando la politica senza inconciliabilità.

Non a caso in Charlie Chaplin, nel suo Charlot, Ingrao identifica la passione per una cinematografia che si fa messaggio politico: "il grande poeta e artista del nostro secolo", lo definisce. Nel protagonista di Tempi moderni, si riconosce infatti "l'eroe della strada che resiste alla società capitalista dei primi vent'anni del secolo", ha scritto Ingrao in un testo che è stato letto, insieme ad altre sue poesie e a quelle di Leopardi e Montale, dall'attrice Sonia Bergamasco.

Ma è una scena in particolare, ricorda sempre Ingrao, che "non ho mai dimenticato per tutta la vita". C'è un uomo, miserabile e vagabondo, davanti ad una bottega di fiori. Dentro, la donna che ama, appena ritornata dal Vecchio Continente dove si è recata per farsi curare dalla cecità. Lei inizialmente non lo riconosce, lui non le parla. Ma quando con la mano la donna tasta la banda della giacca e accenna il riconoscimento, lui le fa solo un segno di assenso con la testa, lentamente, drammaticamente. "Una pazzesca passione umana", "una scena di grande speranza". Che Ingrao ha portato dentro per tutto un secolo, così come la poesia di Leopardi, che infatti cita pronunciando "sempre caro mi fu questo ermo colle": un'opera, quella dell'autore de L'infinito, che per l'ex dirigente del Pci è "indimenticabile, una ricchezza per noi".

E poi il dubbio, asse intorno a cui deve ruotare la vita: "ho combattuto per il delitto di dubitare, per la sua fecondità", del resto "dogmi c'erano. Anche dalla mia parte", ammette Ingrao, indicando nel presente e in Berlusconi "la riprova di quanto serva la pratica del dubbio". Soprattutto adesso, in una società che lo spinge a sentirsi "molto incazzato" per un'involuzione culturale che lo allarma: "a scuola non si studia la guerra di Spagna e l'inaudito che venne dopo", sui banchi Se questo è un uomo di Primo Levi "dovrebbe essere una lettura obbligatoria". I giovani non conoscono abbastanza dei lager e di cosa sia stato quel Novecento, "cosa sanno dell'apice della devastazione umana, del massacro della storia?", chiede.

Raccontare la clandestinità contro i fascismi che infettavano l'Europa ma anche il mito della resistenza spagnola; la nascita della Repubblica democratica nel paese e il lungo cammino nel Pci, spesso passato per momenti difficili, che portano i nomi dell'Ungheria e di Praga, i numeri del 1956 e del 1969, i volti dei compagni de Il manifesto. E la direzione de L'Unità e la presidenza della Camera, primo comunista ad arrivare sullo scranno più alto di Montecitorio. Pds e Rifondazione, fino a toccare l'esortazione più recente, in occasione degli Stati generali della Sinistra nel 2007, per chiedere accoratamente unità, davanti ad una platea che gli ha riservato un'accoglienza calda e amorevole, così tanto da non poterla ridurre ad educazione solo formale. Appunto il cinema e la poesia. Ingrao ha vissuto tante vite e molte passioni, un esistere pieno fino all'orlo del vaso della vita. Perciò nel "ecco, tutto qui", che pronuncia a fine del suo intervento commentando l'autobiografia appena accennata, c'è condensata tutta l'ironia di qualcuno che in quella stessa frase non ci crede.

il manifesto 31.3.09
Alla Camera la strategia della lumaca
di Eleonora Martini


La parola d`ordine è frenare. A Palazzo Montecitorio l`approccio sul testamento biologico è decisamente più cool che nell`altra ala del Parlamento. Sarà perché in Commissione Affari sociali, a cui molto probabilmente verrà assegnato il ddl Calabrò licenziato giovedì scorso dal Senato e già trasmesso alla Camera, sono impegnati con gli emendamenti alla legge sulle cure palliative e le terapie del dolore. Sarà che il calendario dei lavori risulta «fitto fitto» come dice la capogruppo Pd in XII Commissione, Livia Turco, che per il momento non ne vuole nemmeno sentire parlare - almeno per le prossime settimane. E che, una volta calendarizzato, il testo Calabrò dovrà comunque essere confrontato con un`altra decina di proposte di, legge in materia di fine vita, tante decisamente più pro-life e altrettante decisamente più liberali. E c`è poi l`ulteriore incognita della commissione Giustizia, a cui sono stati assegnati altre proposte di legge e che potrà essere chiamata a un`analisi congiunta con la commissione Affari sociali. Una cosa, però, è certa: il congresso del Pdl è finito e ora, dopo che Gianfranco Fini ha bollato la legge come degna di uno «stato etico», nell`emiciclo destro ci sono più orecchie disposte ad ascoltare la richiesta di una pausa di riflessione. «Un ripensamento», come l`ha chiamato la senatrice radicale Emma Bonino che ieri ne ha rinnovato l`auspicio, necessario anche secondo il Comitato centrale della Federazione nazionale Ordini dei medici chirurghi e odontoiatri che chiedono al Parlamento di «riflettere sul carattere non vincolante delle Dat e sulla possibilità di interrompere alimentazione e idratazione artificiale». È anche un`altra certezza che il presidente della XII Commissione, Giuseppe Palumbo, è sì uomo di Berlusconi ma anche un ordinario di ginecologia e ostetricia che, oltre ad aver proposto modifiche agli articoli più liberticidi della legge 40 sulla fecondazione artificiale, ha già detto che alla Camera la legge sulle Dat «potrà essere sicuramente migliorata anche grazie alla presenza di una vasta area liberale». E in effetti c`è chi, come il radicale azzurro Benedetto Della Vedova «conferma e rilancia» le sue previsioni: «Credo che nel Pdl ci siano almeno una cinquantina di deputati che non siano disposti a votare il testo Calabrò». Anche se Della Vedova confida «più nell`Aula che nei deputati della commissione». E forse ha ragione, visto che la commissione Affari sociali annovera tra i suoi membri deputati pro-life come Barbara Saltamartini, Domenico Di Virgilio e Benedetto Fucci, o formigoniani come Giancarlo Abelli. D`altra parte, come ha fatto notare un infastidito Maurizio Gasparri, la posizione di Fini è ancora minoritaria nel Pdl. Eppure c`è chi giura che basta dare tempo al tempo e aspettare che le coscienze smosse dalla terza carica dello stato si liberino dal vincolo di riconoscenza che li lega al leader indiscusso. Fini, d`altronde, non è apparso affatto scosso dalla mancata replica di Berlusconi durante le conclusioni del congresso: «Non sempre si danno le risposte il giorno dopo su questioni così importanti e destinate a durare nel tempo; le risposte si forniscono dopo averle approfondite e dibattute», ha detto ieri da Bagheria. Anche per il Pd, però, l`iter del ddl Calabrò a Montecitorio «non sarà una passeggiata» (parole di Livia Turco). In commissione Affari sociali, infatti, sono già pronti alla battaglia (interna) i teodem Mosella, Calgaro e Paola Binetti. Ne rivedremo delle belle.

Il Sole 24 Ore 31.3.09
Nutrizione forzata, alla Camera si cambia
di Marzio Bartoloni


Biotestamento, si cambia. Tra i primi effetti dei congresso di fondazione del partito del popolo della libertà c`è l`ipotesi più che concreta che la legge appena votata dal Senato cambi volto, abbandonando la linea dell`intransigenza. La Camera comincerà ad esaminare il Ddl sulle «Dichiarazioni anticipate di trattamento» solo dopo Pasqua. Ma il pressing di parte del Pdl e l`altolà di Gianfranco Fini di sabato scorso («No a leggi da Stato etico») si fa subito sentire. Tanto che c`è chi ventila addirittura la possibilità di un "congelamento" in Parlamento per qualche mese. Se a Palazzo Madama i mugugni e i mal di pancia nella maggioranza sono rimasti sotto traccia, a Montecitorio è ormai certo che verranno a galla. Almeno una cinquantina di deputati del Pdl sono pronti a cambiare il testo. E già in commissione Affari sociali, dove il provvedimento comincerà il suo iter, si preannuncia un cambio di rotta. Lo dice a chiare lettere Giuseppe Palumbo (Pdl), tra i più accreditati a diventare relatore del Ddl alla Camera: «Nella sua struttura complessiva il testo non mi dispiace, ma credo che vada cambiato in alcuni punti», spiega Palumbo che è anche presidente della commissione Affari sociali. Tra le possibili modifiche ci sono anche i fronti più caldi: a cominciare dal divieto di sospendere alimentazione. e idratazione artificiali al paziente in stato vegetativo. «Proprio in questi giorni anestesisti e rianimatori stanno siglando la carta di Catania dove si chiarisce che la nutrizione forzata non può essere imposta a chi è cosciente spiega Palumbo che ne parlerà presto in commissione - e credo che lo stesso principio, con le cautele del caso, possa valere anche per chi lo abbia chiesto nel testamento biologico». Il presidente della dodicesima commissione della Camera critica anche la scadenza temporale del Biotestamento - cinque anni -prevista nel Ddl: «Sarebbe meglio non fissare termini precisi, ma prevedere dei rinnovi automatici, conservando la possibilità di cambiare le dichiarazioni in ogni momento». Nel mirino, infine, la norma, votata in extremis da Palazzo Madama, che rende non più vincolante il testamento biologico: «Credo che siano gli stessi medici a non voler decidere tutto da soli», spiega Palumbo che è anche medico. Un punto conte- stato, questo, che Raffaele Calabrò (Pdl), relatore al Senato è tornato, invece, a difendere con forza: «Il biotestamento non deve assolutamente vincolare il medico che invece ha il ruolo di attualizzare la volontà del paziente in base alle scoperte scientifiche o le terapie che potrebbero cambiare, in ogni momento, la condizione clinica del paziente». Intanto dall`opposizione è arrivata, ieri, una nuova condanna: «E una legge sbagliata, che non risolve il problema» ha spiegato alla stampa estera il segretario del Pd, Dario Franceschini. Mentre sempre ieri, tra le polemiche e le critiche del Pdl, il padre di Eluana, Beppino Englaro, ha ricevuto la cittadinanza onoraria da Firenze: «Avreste dovuto darla a mia figlia - ha detto - perché era una ribelle, come questa città».

La Stampa 31.3.09
L'Osservatore: è nato un partito cattolico
di Giacomo Galeazzi


Un partito forte, unito sui temi etici e che attrae i cattolici. L’Osservatore romano «benedice» il Pdl uscito dal congresso fondativo: «E’ già più forte del Pd non solo in termini percentuali, ma è maggiormente in grado di esprimere i valori comuni della popolazione italiana, tra i quali quelli cattolici costituiscono una parte non secondaria». Nel Pdl, rileva il quotidiano vaticano, «si è affermata, in linea di principio, la libertà di coscienza sui temi etici più sensibili, però al momento di assumere iniziative concrete il partito si è trovato unito». A suscitare l’approvazione della Santa Sede è soprattutto il sì del Senato al ddl Calabrò con cui «il governo e la maggioranza hanno meritoriamente mantenuto la promessa di evitare altre morti come quella di Eluana Englaro». La legge sul testamento biologico, evidenzia l’arcivescovo Rino Fisichella, ministro vaticano della Bioetica, «garantisce l’uguaglianza di ogni persona nelle situazioni in cui è più debole ed è il risultato di un profondo equilibrio tra le due posizioni fortemente presenti nella società, cioè il diritto alla vita e la libertà di determinarsi». E ora la Santa Sede si aspetta «un più ampio consenso al testo nel passaggio alla Camera», spiega Fisichella. E Radio Vaticana esulta: «Fallito il tentativo d’introdurre l’eutanasia in Italia».
Proprio per le sue critiche al ddl Calabrò, Gianfranco Fini ha suscitato le ire di «Avvenire», secondo cui l’attacco al biotestamento «è stato un assolo». Il quotidiano della Cei rimprovera all’inquilino di Montecitorio il «cipiglio laicista» e lo richiama alle responsabilità istituzionali («è tenuto, da presidente della Camera, ad assicurare l’iter sereno del disegno di legge»). Secondo il giornale dei vescovi, Fini ha «platealmente forzato i termini di un provvedimento legislativo delicatissimo e reso urgente dalle sentenze creative e pervasive di alcuni magistrati». Senza chiedersi «a quale gradazione dello Stato di diritto si attestavano quelle stesse sentenze», Fini «ha preso di nuovo e pubblicamente di mira un ddl al quale sarà presto tenuto, in ragione del suo alto ufficio, a garantire un iter lineare e sereno, nonostante le strumentalizzazioni che sono già state massicciamente messe in campo e vengono ancora annunciate». Quindi, «l’ex leader di An, a suon di citazioni, ha mostrato di navigare disinvoltamente nella vasta semantica della laicità».
E dalla fecondazione assistita, alle unioni di fatto, alle critiche al Vaticano per il silenzio sulle leggi razziali, non è la prima volta che il «giscardiano» Fini entra in rotta di collisione con la Chiesa. Prova a difenderlo «Famiglia Cristiana» che plaude al suo tentativo di «trovare nuovi percorsi per dare cittadinanza agli immigrati». Ma anche l’«Osservatore romano» registra il «diverso approccio tra Berlusconi e Fini sulle riforme e il dialogo con l’opposizione». L’obiettivo di Berlusconi è «dotare il presidente del Consiglio di maggiori poteri», tra questi «la nomina e la revoca dei ministri e lo scioglimento delle Camere». Invece Fini «non solo continua a insistere sulla necessità di riforme condivise» ma «è più volte intervenuto a difesa delle prerogative del Parlamento, opponendosi a qualsiasi eventualità di mutamenti della costituzione materiale; senza passare cioè per una revisione formale della Costituzione».