giovedì 2 aprile 2009

l’Unità 2.4.09
La legge 40 è incostituzionale
La Consulta riapre il caso
di Maria Zegarelli


La Corte boccia il limite di tre embrioni, che condanna le donne a stimolazioni ormonali ripetute
La sottosegretario Roccella: nuove linee guida. Il Pd: si rispetti la sentenza

La Corte costituzionale ha dichiarato la parziale incostituzionalità della legge 40. Non si può fissare un limite di tre embrioni e non ci può essere un obbligo a impiantarli tutti contemporaneamente.

Parzialmente illegittima la legge 40 sulla Fecondazione assistita: la sentenza della Corte Costituzionale è arrivata ieri nel tardo pomeriggio, dopo un giorno e mezzo di camera di consiglio, e ha colpito il cuore stesso della legge.
L’INCOSTITUZIONALITÀ
Illegittimo l’articolo 14 al secondo comma, laddove prevede il limite dei tre embrioni e l’obbligo «a un unico e contemporaneo impianto». Incostituzionale anche il comma 3 «nella parte in cui non prevede che il trasferimento degli embrioni, da realizzare non appena possibile, debba essere effettuato senza pregiudizio della salute della donna». Inammissibili per difetto di rilevanza nei giudizi principali le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 6 comma 3 (l’irrevocabilità del consenso all’impianto da parte della donna) e dell’articolo 14 comma 1 e 4 (crioconservazione degli embrioni al di fuori di ipotesi limitate e divieto di riduzione embrionaria di gravidanze plurime).
I giudici dell’Alta Corte di fatto hanno riconosciuto che il medico non può prescindere dalla valutazione dello stato di salute della donna, mentre, abolendo l’obbligo dei tre embrioni e l’impianto contemporaneo degli stessi, «è possibile che abbia ammesso quel principio di eccezione alla regola avanzato dal giudice Delle Vergini, del tribunale di Firenze, - spiega l’avvocato Maria Paola Costantini che insieme alla professoressa Marilisa D’Amico rappresenta Miriam e Giovanni, i due pazienti che hanno presentato ricorso - secondo il quale la crioconservazione è ammessa in caso di pericolo per lo stato psico-fisico della donna».
Esultano per il risultato i ricorrenti: la World association reproductive medicine (Warm) presieduta da Severino Antinori e la Fondazione Hera di Catania, del professor Antonino Guglielmino i cui pazienti si sono rivolti al tribunale. «È una vittoria dei pazienti che da anni patiscono a causa di una legge sadica, ingiusta e priva di qualunque razionalità scientifica. La legge infatti - commenta Guglielmino - è stata concepita seguendo una sorta di modello punitivo per la donna, costretta a ripetuti e pesantissimi protocolli di stimolazione o a gravidanze plurigemellari creando situazioni di pericolo oltre che per la salute della madre anche per quella dei nascituri». Di grande «vittoria per lo stato di diritto e per lo Stato laico, che non deve essere soggetto a spinte religiose che impongono le leggi con una grave riduzione dei diritti civili», parla Antinori.
IL GOVERNO IN GUERRA
Sul piede di guerra il governo, con la sottosegretaria al Welfare Eugenia Roccella che avverte: «Sarà indispensabile emanare al più presto nuove linee guida che possano eliminare qualsiasi contraddizione». La blocca l’ex ministro alla Salute Livia Turco: «Proprio sulla base della stessa legge 40 le linee guida non hanno alcun potere interpretativo ma sono solo uno strumento tecnico». Il ministro Sandro Bondi parla di un grave «problema per la nostra democrazia, in quanto la sovranità del Parlamento viene intaccata parallelamente alla percezione della sparizione di autorità di garanzia», mentre Maurizio Gasparri imbraccia la spada di paladino della vita. Il segretario del Pd Dario Franceschini ricorda che «le sentenze della Corte vanno sempre rispettate» e che «il pronunciamento della Corte non potrà che essere recepito dal nostro ordinamento». Non si stupisce della sentenza Anna Finocchiaro: «La Corte dichiara l’illegittimità di parti della legge che già nella discussione parlamentare erano apparsi irragionevoli. Adesso si deve rifuggire anche sul testamento biologico da posizioni ideologiche». È proprio questo che spaventa il Pdl.

Repubblica 2.4.09
Sconfitto lo stato etico
di Stefano Rodotà


Sono cadute alcune tra le norme più odiose e fortemente simboliche della legge 40
È stata imboccata una strada che ripristina il rispetto dei diritti della persona

Forse i disinvolti e ideologici legislatori, che ci affliggono da anni con la loro pretesa di imporre un´etica di Stato, cominceranno a rendersi conto che dovrebbero finalmente andare a lezione di Costituzione.

La sentenza di ieri, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato illegittime alcune delle norme più significative della legge sulla procreazione assistita, conferma un orientamento già ben visibile negli ultimi mesi, e che ha fatto nitidamente emergere un insieme di criteri che precludono ai legislatori di impadronirsi della vita delle persone. Quando, con mossa incauta, nel settembre scorso la maggioranza parlamentare aveva sollevato un conflitto di attribuzione nei confronti della magistratura, sostenendo che aveva invaso le competenze del legislatori con la sentenza sul caso di Eluana Englaro, i giudici costituzionali l´avevano rapidamente bacchettata, dichiarando inammissibile la loro iniziativa. E a fine dicembre, quando le polemiche su quel caso erano ancor più infuocate, hanno con forza affermato che l´autodeterminazione costituisce un diritto fondamentale della persona. Una linea chiarissima, che rendeva prevedibile la decisione di ieri.
Ora cadono alcune tra le norme più odiose e fortemente simboliche della legge 40. Quella che imponeva l´unico e contemporaneo impianto degli embrioni, comunque in numero non superiore a tre: viene così battuto un proibizionismo cieco e ingiustificato, che infatti aveva provocato le critiche dei medici che operano in questo settore E quella che, sempre in relazione all´impianto, non teneva conto della necessità di salvaguardare la salute della donna, violando così un fondamentale diritto della persona. E non è vero, come ha frettolosamente osservato qualche parlamentare del Popolo della libertà, che la Corte ha comunque salvato altri articoli della legge, che pure erano stati impugnati. Su questi articoli, infatti, i giudici non si sono pronunciati per una ragione procedurale, perché non riguardavano le questioni trattate nei giudizi in cui l´eccezione di costituzionalità era stata sollevata. Sarà, quindi, possibile riproporre quelle eccezioni nella occasione più opportuna.
È stata così imboccata una strada che ripristina la legalità costituzionale e il rispetto dei diritti della persona. E, come ha saggiamente osservato Carlo Flamigni, si creano anche le condizioni per arrivare ad un "provvedimento più saggio", ad una riforma della legge 40 che ci faccia tornare in sintonia con le legislazioni degli altri paesi e, soprattutto, che disciplini le tecniche di riproduzione assistita in modo da renderle il più possibile aderenti alle effettive esigenze delle donne. Ma, invece di cogliere l´occasione offerta dalla Corte per avviare una nuova riflessione comune in una materia così difficile, la cecità ideologica continua a tenere il campo. Dai lidi della maggioranza si grida alla deriva eugenetica, si torna a parlare di attentato alla sovranità del Parlamento, si riecheggiano i toni populisti di questi giorni intonando di nuovo la canzone dei giudici che si sostituiscono alla volontà del popolo.
Chi ragiona in questo modo (si fa per dire) mostra di ignorare la logica stessa del controllo di costituzionalità, finalizzato proprio a garantire che le leggi votate dai rappresentanti del popolo non violino i principi e le garanzie che, democraticamente, proprio il popolo si è dato attraverso l´Assemblea costituente, e la Costituzione frutto del suo lavoro. Il Parlamento, dunque, non è sciolto dal rispetto di questi principi, ma a questi deve sottostare. Nella Corte costituzionale i cittadini trovano così non il guardiano di una astratta legalità, ma il garante dei loro diritti e delle loro libertà. Garanzia tanto più importante quando si legifera sulla vita, perché il Parlamento non può espropriare le persone del potere di prendere in libertà le decisioni più intime. E non si può dire che siamo di fronte ad una inattesa prepotenza della Corte. Proprio durante la lunga discussione parlamentare sulla legge sulla procreazione assistita molti avevano messo in guardia contro il rischio di approvare norme incostituzionali, com´era evidentissimo considerando proprio il modo in cui la Corte aveva già affrontato in particolare il tema del diritto alla salute.
Se torneranno un minimo di ragione e di cultura della legalità, la sentenza di ieri potrà aiutare anche nel difficile esame del disegno di legge sul testamento biologico, di cui deve ora occuparsi la Camera. Quell´insieme di norme, infatti, è perfino più sgangherato, dal punto di vista della costituzionalità, della pur sgangheratissima legge sulla procreazione assistita. I legislatori, lo ripeto, apprendano le lezioni di costituzionalità che la Corte, legittimamente, impartisce.

Repubblica 2.4.09
Flamigni: le coppie tornino nei centri di fecondazione
"Sancito un principio laico le madri valgono più dei feti"
intervista di Mario Reggio


ROMA - «Le motivazioni della sentenza non sono ancora ufficiali, ma da quello che so è il de profundis della legge 40. Una legge costruita sotto il tallone dell´embrione intoccabile e del chi se ne frega delle conseguenze che può subire la madre». Il ginecologo Carlo Flamigni non nasconde la sua soddisfazione.
Cosa cambia?
«Non c´è più la regola secondo cui l´embrione non può essere distrutto o congelato. Il principio in base al quale l´embrione è uno di noi. Cosa ne faremo di quelli sovrannumerari che si formeranno d´ora in poi? La Consulta ha ribadito uno dei punti cardine della legge 194 sull´interruzione volontaria di gravidanza: prima la madre, poi il feto».
Dopo cinque anni dall´entrata in vigore della legge cosa è successo?
«Le donne meno giovani hanno avuto meno gravidanze e quindi più trattamenti ormonali per avere gli stessi risultati. Tra quelle più giovani sono aumentati del 4 per cento i parti trigemini. Da oggi consiglio alle coppie di presentarsi ai centri di fecondazione assieme al loro avvocato».

Repubblica 2.4.09
"E ora stop alla fuga delle coppie all’estero"
di Caterina Pasolini


Le associazioni: sarà più facile avere figli. A migliaia negli anni scorsi costretti a emigrare
L´avvocato che ha seguito i ricorsi: "I giudici hanno capito la sofferenza degli aspiranti genitori"

ROMA - Per chi da anni lotta cercando un figlio, «non un bambino perfetto ma un piccolo che abbia la possibilità di vivere», ieri è stato il giorno della vittoria. «È stata ristabilita la dignità della donna e l´autonomia del medico», esulta Filomena Gallo di Amica Cicogna. Felicità e commozione, venate da un senso di incredulità. Troppo forte il timore che ancora non sia vero, che resti il limite dei tre embrioni, la condanna a non aver figli, lo strazio dei viaggi all´estero. Emozioni dense per una sentenza attesa per anni da migliaia di coppie, da donne sottoposte a continui bombardamenti ormonali - evitabili se fosse stato possibile produrre più embrioni e conservarli - costrette ad emigrare nonostante la bravura dei medici italiani «perché su tre embrioni la diagnosi preimpianto spesso non ha valore statistico. E ora siamo di nuovo un paese europeo. I pazienti smetteranno di subire una legge sadica, ingiusta e senza razionalità scientifica», sbotta il professor Guglielmino del centro Hera di Catania.
«È una vittoria, una speranza concreta per quelli come noi che da anni cercano un figlio che abbia la possibilità di vivere», dicono Francesco e Grazia Gerardi, portatori di una malattia genetica, che hanno presentato ricorso contro la legge 40 e fatto diversi viaggi all´estero, diecimila euro alla volta «perché fatta su tre embrioni la diagnosi era inutile». E ancora sognano un bebè. «Mi viene da piangere dalla felicità per tutte le donne che ancora aspettano, io so cosa hanno sofferto», fa eco Sandra Scuderi, mamma dopo numerose trasferte. Come loro in tanti hanno chiamato ieri le associazioni Hera, Sos infertilità, Cittadinanza attiva, Madre Provetta e Amica cicogna che seguite da un pool di legali hanno presentato ricorsi su ricorsi, arrivando sino alla Corte Costituzionale per «dare giustizia», dice l´avvocato Maria Paola Costantini, che come gli altri lavora gratuitamente per queste coppie. «Mi sembra che i giudici abbiano capito che non erano giusti i rigidi protocolli della legge, hanno seguito le indicazioni delle sentenze in cui si invitava a valutare caso per caso. Hanno compreso la sofferenza degli aspiranti genitori. Forse questo ridurrà il turismo procreativo». E che questa sentenza significhi uno stop delle trasferte lo conferma il professor Gianaroli, degli Studi di medicina della riproduzione, che parla addirittura di ventimila coppie in partenza ogni anno dall´Italia.
«È il trionfo dello stato laico», commenta soddisfatto il professor Antinori, presidente della Warm, una delle associazioni che si sono costituite nel giudizio davanti alla Consulta. «Sono felice per le migliaia di coppie che con questa decisione potranno fecondare il numero di ovuli che il medico riterrà giusto, e di veder applicare la riproduzione assistita con una speranza di successo pari agli altri paesi del mondo, che invece la legge 40 aveva limitato».

l’Unità 2.4.09
«Così è nata la strategia del ricorso»
Tutto è cominciato da una coppia di Catania che si è vista negare le cure. Il loro avvocato spiega le tappe della lunga battaglia legale
di Luca Landò


Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge: lo sanno i bambini, lo dice la Costituzione. Peccato che la legge 40 dicesse un’altra cosa: che non tutti potevano ricorrere alle tecniche di fecondazione artificiale».
Parla al passato Marilisa D’Amico, l’avvocato che assieme ad altri quattro colleghi ha innnescato quel ricorso che ieri è stato accettato dalla Corte Costituzionale. «Sì, parlo al passato perché la legge è stata di fatto riscritta dal giudice costituzionale, anche se ovviamente bisognerà aspettare il giorno dopo la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale. Ma la cosa importante è che l’aspetto più rigido sia stato eliminato».
Quello dei tre embrioni?
«Certo, perché in questo modo cade quella odiosa barriera che metteva da una parte chi poteva accedere alla tecniche di fecondazione assistita e dall’altra quelli che ne erano esclusi».
Si spieghi meglio.
«È semplice, basta prendere il caso della coppia di catania che abbiamo assistito e da cui è nato tutto il caso. Si tratta di una coppia che per motivi medici, di sterilità e di rischi di trasmissione di m,alattie genetiche, aveva bisogno di una procedura particolare: produrre più embrioni, analizzare con diagnosi preimpianto quelli privi di rischi genetici - tecnica vietata da questa legge ma autorizzata da una sentenza di Cagliari per casi come questi - impiantare quelli che il medico riteneva opportuni e conservare gli altri nel caso, probabile, di fallimento del primo intervento. Il punto è che la legge 40, all’articolo 14, dice espressamente che è vietata la crioconservazione degli embrioni e che quelli prodotti vanno tutti impiantati nel numero massimo di tre. La clinica a cui si erano rivolti, la Demetra di Firenze, disse giustamente che l’intervento che sarebbe loro servito per avere un figlio era possibile da un punto di vista medico ma impossile da quello legale, perché vietato espressamente dalla legge 40. Un’assurdità, non le pare?».
E che hanno fatto?
«Sono venuti da noi e noi siamo andati dal giudice del Tribunale di Firenze. Prima però abbiamo formato un collegio di cinque avvocati (io e i colleghi Massimo Clara, Ileana Alesso, Sebastiano Papandrea e Maria Paola Costantini) e abbiamo studiato una strategia dettagliata. Perché era chiaro, a quel punto, che il nostro obbiettivo era la Corte Costituzionale».
E qual era questa strategia?
«In prima istanza abbiamo chiesto al giudice di autorizzare la clinica ad eseguire la miglior cura possibile. Poichè questo era impossibile, perché la legge 40 era molto chiara su questi punti, abbiamo chiesto al giudice, in subordine, che il caso venisse portato alla Corte Costituzionale perché era a quel punto evidente che c’era una legge che impediva alla nostra coppia di poter accedere alle cure. E dimostrando che la legge, in questo caso, non era uguale per tutti (articolo 3)».
Ora che succede?
«Che il giudice costituzionale ha riscritto la legge 40 prendendosi la responsabilità, non piccola, di modificarne un articolo. La legge resta in piedi nelle sue linee generali ma perde quell’aspetto rigido e ideologico, che l’ha caratterizzata fin dall’inizio. Ultimo punto, si è dimostrato che definire quella legge incostituzionale non era affatto un’esagerazione».

Repubblica 2.4.09
Chi vuole espropriare la nuda vita
Nel nuovo libro di Paolo Flores d’Arcais una dura accusa contro chiesa e politici
di Stefano Rodotà


La polemica scoppiata con il caso Englaro ha reso quasi impossibile far rispettare i valori costituzionali, il principio di ragionevolezza e lo spirito di umanità

In apertura del suo nuovo libro (A chi appartiene la tua vita?, Ponte alle Grazie, Firenze, pagg. 158 , euro 12.50) Paolo Flores d´Arcais sottolinea subito che esso «non era nelle intenzioni. È stato imposto dalla violenza delle circostanze». Ma non siamo di fronte ad un "instant book", legato a una vicenda di cronaca e destinato ad esaurirsi con essa. Si tratta di una riflessione che, pur prendendo direttamente le mosse dalla vicenda di Eluana Englaro, va a fondo sui temi generali che essa ha imposto alla discussione pubblica. Un libro tempestivo, dunque, uno strumento utile per reagire alla regressione culturale che stiamo vivendo e che produce le aberrazioni legislative di questi giorni, ricordandoci che la cattiva politica è sempre figlia della cattiva cultura. Appartiene a quella riflessione su una ars moriendi laica, condotta da credenti e non credenti, che sta cercando di offrire a tutti gli uomini di buona volontà un terreno di discussione comune, libero da ogni forma di ipoteca confessionale o ideologica, e che possa così restituire a tutti e a ciascuno il rispetto di libertà e dignità nel tempo in cui la vita finisce.
Il linguaggio è netto, senza giri di parole, com´è subito evidente dal titolo del primo capitolo � "il partito della tortura". Sarebbe sbagliato, tuttavia, cogliere qui una forzatura. Il termine "tortura" compare in una lettera del 1970 di Paolo VI a proposito appunto dei trattamenti inutili nella fase terminale della vita, testimonianza di una consapevolezza che sembra smarrita e che ha portato la Chiesa ad assumere atteggiamenti di assoluta chiusura, in forme tali da provocare una netta presa di distanza da parte di molti credenti. Ed è proprio la polemica con le posizioni della Chiesa cattolica a costituire un dichiarato filo conduttore dell´intero libro, in due direzioni: il rifiuto di ogni pretesa teocratica, della imposizione a tutti di comportamenti fondati su una religione; le contraddizioni pratiche in cui la Chiesa si trova impigliata proprio quando stabilisce i criteri in base ai quali valutare la legittimità dei comportamenti.
Il caso Englaro viene esaminato come lo specchio d´una politica ottusa e impietosa, che sfrutta quell´occasione per interrompere la civile costruzione del diritto di governare liberamente la propria vita secondo Costituzione, e a questo sostituisce non il rispetto delle credenze di ciascuno (che non era mai stato in discussione), ma la dipendenza di Governo e maggioranza parlamentare da posizioni sempre più dure e dichiarate della gerarchia vaticana. Il clima è quello di una sottomissione della politica, che sta producendo ben più d´una specifica legge: cambia i rapporti tra la persona e lo Stato, mortificando o addirittura cancellando la rilevanza del consenso informato.
Proprio l´accento posto sulla volontà della persona, sul suo diritto di rifiutare le cure e di "non soffrire", costituisce il riferimento costante della riflessione ulteriore, e più impegnativa, condotta da Flores d´Arcais, che lo porta ad affrontare direttamente il tema del suicidio assistito, il cui pregiudiziale rifiuto appare sostenuto da argomenti deboli, tali da determinare anche ingiustificate disparità di trattamento tra soggetti che si trovano in situazioni sostanzialmente identiche (proprio da questa considerazione prese le mosse il documento indirizzato alla Corte Suprema degli Stati Uniti da un gruppo di autorevoli filosofi morali). Ma deboli in sé, o per gli esiti resi possibili dall´innovazione scientifica e tecnologica, si presentano anche gli argomenti fondati sulla vita come "dono" o sul riferimento alla natura, con una critica che viene sviluppata anche attraverso un confronto con personalità autorevoli della Chiesa come i cardinali Tonini e Tettamanzi.
Riflessione teorica e argomentazione costituzionale si congiungono, mettendo in evidenza la debolezza delle posizioni di chi sta adoperando lo strumento legislativo per impadronirsi della vita altrui, con una operazione che assume così i connotati di una prevaricazione. Ma, proprio grazie al lavoro di critici determinati, la coscienza di questa debolezza comincia a diffondersi, incrina certezze anche nella maggioranza politica che sta perseguendo l´obiettivo di espropriare le persone di quel diritto all´autodeterminazione definito "fondamentale" dalla Corte costituzionale. Una constatazione, questa, che induce non all´ottimismo, ma a confermare il dovere di ognuno di fare la sua parte, a reagire alla rassegnazione di chi pensa che l´azione culturale sia ormai inutile. Fa bene, quindi, Paolo Flores d´Arcais a sottolineare la necessità di continuare "la lotta", e di farlo con strumenti acuminati, e non compiacenti.

il Riformista 2.4.09
Libere cellule in libero Stato
No ai dogmi di Dio e Dna
di Giulio Giorello


Il filosofo ci introduce al nuovo libro dei ricercatori Kupiec e Sonigo, contro la dittatura del genoma, che è la versione aggiornata della creazione divina secondo Voltaire. Dopo Darwin, non siamo più il fine del creato, ma solo una società decentralizzata di organismi. Così il determinismo lascia spazio alla libertà.

Pubblichiamo uno stralcio della prefazione del libro Né Dio né genoma (pagg. 232, euro 18) di J.J. Kupiec e P. Sonigo a firma di Giulio Giorello, su concessione di Eleuthera editrice.

«Chi ha dato il moto alla natura? Dio. Chi fa vegetare tutte le piante? Dio. Chi ha dato il movimento agli animali? Dio. Chi produce il pensiero dell'uomo? Dio». Non sono parole di un creazionista entusiasta, bensì dell'illuminista (e deista) François-Marie Arouet, noto come Voltaire. Bene si prestano, comunque, a illustrare per contrasto le tesi di questo libro di Jean-Jacques Kupiec e Pierre Sonigo. I due autori sono polemici sin dal titolo, Ni Dieu ni gène. E scrivono nella breve Conclusione: «Dio esiste nel rispetto e nella meraviglia che ci ispira la natura. Ma se è inaccessibile e costituisce una spiegazione universale, la spiegazione [stessa] diventa universalmente inaccessibile». In altri termini: se ogni evento si produce perché Dio lo vuole, la spiegazione si riduce a mera registrazione di quello stesso evento, una volta che si dia per scontato che all'enunciato che descrive quell'esempio va sempre premesso l'operatore (teo)logico «È volontà di Dio che».
Il sentimento di Voltaire - che nemmeno il terremoto di Lisbona o le bestemmie ateistiche nello stile del Marchese de Sade sono mai riusciti a spegnere - ha trovato un potente avversario solo nella dottrina darwiniana dell'evoluzione. (...) Rendendo la specie non «un'unità statica» bensì «un processo», Darwin «rompe con la metafisica di Aristotele». (...) In particolare, non c'è alcuna pianificazione che possa orientare l'evoluzione darwiniana. Si pensi, del resto, a un caso che già aveva destato l'interesse di Darwin: ali e piume di uccelli per varie ere hanno funzionato come isolanti termici adatti a conservare la temperatura corporea; solo in seguito esse si sono rivelate adatte al volo! Questa è la lezione che ci viene dal tempo profondo della storia del vivente: la selezione naturale non persegue, in sé, scopo alcuno; semplicemente, lascia emergere in un particolare contesto caratteri che poi saranno differentemente impiegati in contesti diversi. Scrive per esempio Pierre Sonigo: (...) «Lo stesso accade per gli abbozzi evolutivi o embrionali di una funzione che necessita della cooperazione di molte cellule. La cellula è anteriore all'organismo, tanto dal punto di vista dell'ontogenesi quanto dal punto di vista della filogenesi [...] . La selezione naturale, esercitandosi innanzi tutto sulla cellula, non poteva predire la multicellularità e il cosiddetto programma che la gestirebbe. Altrimenti, questo sarebbe come credere, ancora una volta, che c'è un disegno nella natura (finalità), che avrebbe permesso la messa in atto dell'organizzazione cellulare». Se ne conclude che «l'ontogenesi può essere compresa solo mediante l'azione della selezione naturale che si esercita [...] sulle cellule individuali».
Non è conclusione da poco. Come nasce, per esempio, la nostra individualità immunologica? O magari il pensiero? Ovvero, «se il neurone non pensa, se il globulo bianco non si cura delle nostre infezioni, come possono comparire funzioni quali il pensiero o la risposta immunitaria?». La risposta a queste domande non dovrebbe, in linea di principio, essere diversa da quella offerta per ali e piume…
C'è un altro aspetto che viene rivelato dalla contrapposizione tra organismi e manufatti. Come si legge nell'ultimo capitolo del volume, in un motore a benzina è opportuno conoscere ogni dettaglio, «anche il più piccolo elemento che lo compone», perché anch'esso è rivolto al funzionamento di quel congegno; invece, «un motore biologico, prodotto dai processi naturali dell'evoluzione» può «essere pieno di rubinetti, leve e interruttori» derivati dalla sua storia evolutiva, ma tranquillamente trascurabili se quel che ci interessa è capire una certa funzione di quella struttura. Sarebbe come minimo improduttivo adottare il punto di vista riduzionistico che scende di livello in livello fino a quello basilare di atomi e molecole: così facendo «si corre il rischio [...] di perdersi in una descrizione completa dell'agitato moto molecolare in seno al quale i fenomeni pertinenti per il vivente si trovano diluiti», senza capire perché la struttura considerata ci appaia adeguata a quella particolare funzione.
Per Kupiec e Sonigo la critica del riduzionismo va di pari passo con un tipo di spiegazione che colloca la selezione naturale anche a livello cellulare! Sotto questo profilo, la metafora del «programma» che i genetisti riprendono dall'informatica appare loro fuorviante. Leggiamo in un altro capitolo di questo volume: «La teoria del programma genetico [...] offre una risposta a tutto [...] - Perché abbiamo un cervello? Perché il programma genetico ha fatto un cervello. Perché abbiamo un fegato? Perché il programma genetico ha fatto un fegato». La rassomiglianza col passo di Voltaire che abbiamo citato all'inizio è lampante. Per Kupiec e Sonigo il programma genetico non è che la versione contemporanea della tradizionale creazione divina. Se ogni parte dell'organismo si produce perché l'ha fatta il programma genetico, la spiegazione, anche in questo caso, diventa mera descrizione di quella stessa struttura, una volta che si sia dato per scontato che all'enunciato che esprime quell'esempio va sempre premesso l'operatore logico «il programma genetico ha fatto in modo che».
Certo, non è esattamente il ricorso a un Dio trascendente; adesso «si suppone che il codice sia contenuto nei nostri geni»; ma, come nel caso teologico demolito a suo tempo da Darwin, questa concezione del programma genetico, sospeso «fra la terra del citoplasma e i cieli del dna», non spiega poco, ma troppo - e per questo appare tipicamente non controllabile a livello empirico. Potremmo dire che rischia di diventare quello che davvero era in principio: una metafisica, capace di influenzare non solo il linguaggio dei ricercatori ma anche la pratica della ricerca. Ma non è detto che sia la miglior «metafisica influente». Nella loro conclusione Kupiec e Sonigo constatano che i fautori del programma genetico hanno sostituito al vecchio Signore del Genesi «un demiurgo accessibile, leggibile nel mondo delle molecole». Ma con che vantaggio? I nostri due autori non contestano che «in certe situazioni sia possibile domare il dna»: si pensi agli ogm o alla terapia genica. E consideriamo, in particolare, la seconda. «In questo caso esemplare e foriero di grandi speranze, un numero piccolissimo di cellule ha ricevuto il "gene buono" ma ha proliferato in maniera massiccia. Il gene trasferito procura un vantaggio considerevole alle cellule trattate, prima di apportare qualcosa all'organismo. I medici hanno guarito le cellule. A loro volta, le cellule hanno salvato i bambini. Ma non era, il loro [delle cellule] obiettivo: questi animali microscopici, una volta ritrovata la salute, hanno semplicemente divorato i microbi minacciosi per ‘appetito' e non per devozione. Le terapie geniche cha hanno trascurato la libertà delle cellule hanno fallito. Il vivente non è una macchina, è una congiunzione di interessi».
Allo stato attuale questa «libertà cellulare» può anch'essa sembrarci poco più di un'analogia, cioè del nucleo di una diversa metafisica influente. Tramutarla in una vera e propria pratica di ricerca empiricamente controllabile («bisogna finalmente parlare di biologia», dicono i due autori nel finale) è la stimolante sfida di questo volume che non solo tratta di cellule o di specie, ma implicitamente allude alla stessa evoluzione culturale di Homo sapiens.

Corriere della Sera 2.4.09
Radicali «Finiti 5 anni di disastri»
Bonino: e adesso va rivisto anche il biotestamento
intervista di Lorenzo Salvia


ROMA — «Me lo aspetta­vo? Bè, in questi anni la Corte costituzionale ci ha abituato a tutto, basti ricordare il giu­dizio sull'inammissibilità di alcuni referendum. Diciamo che ci speravo. Evidentemen­te c’è un giudice non solo a Berlino ma anche a Roma». Nella dichiarazione alle agen­zie Emma Bonino si è detta «molto soddisfatta» della pro­nuncia della Corte costituzio­nale. Ma quando risponde al telefono dal suo ufficio di vi­ce presidente del Senato, par­te da un altro punto. Dai «di­sastri che in cinque anni ha fatto questa legge», uno su tutti: «Aver favorito il turi­smo sanitario, costringendo le coppie che non potevano avere figli ad andare all’este­ro, naturalmente con la solita discriminazione tra i ricchi che possono e poveri che se lo sognano». Ma c’è anche un altro «guaio» creato dalla leg­ge che adesso la Corte ha di­chiarato in parte illegittima: «Visto l’obbligo di impianta­re tutti e tre gli embrioni ab­biamo assistito ad un grande aumento dei parti trigemella­ri, che non sono proprio sem­plici da gestire. Ecco, bene la Consulta ma queste cose ce le potevamo risparmiare».
Durante la telefonata arri­va l’annuncio del sottosegre­tario al Welfare, Eugenia Roc­cella, che parla di nuove linee guida in materia. «Già ripar­tono alla carica. No, io credo che la legge stia in piedi così com’è, sono solo state elimi­nate le parti più insostenibili come in questi anni ha spiega­to anche la comunità scientifi­ca. Non c’è alcun vuoto legi­slativo, visto che questa for­mula ormai viene usata per giustificare di tutto». Il riferi­mento, ovvio, è al testamen­to biologico. «Spero che la pronuncia della Corte costitu­zionale sulla legge 40 suggeri­sca una lettura più sobria del disegno di legge Calabrò. Fi­nora ci siamo ridotti alla soli­ta schermaglia parlamentare a prescindere dal merito». Di­ce la Bonino che, in sostanza, la questione è la stessa. E che gli articoli della Costituzione violati, secondo la Consulta, dalla legge sulla fecondazio­ne sono gli stessi che, secon­do i radicali, sarebbero calpe­stati dal disegno di legge sul testamento biologico. Il 2, il 13 e il 32 per gli esperti del ra­mo. E cioè la libertà indivi­duale e la tutela della salute come diritti inviolabili. «Per­ché qui non parliamo di sani­tà o di scienza. Ma di libertà e quindi della possibilità di uti­lizzare o no le tecniche più moderne». Sulla legge per la fecondazione assistita i Radi­cali promossero un referen­dum abrogativo che poi non raggiunse il quorum: «Avreb­be risparmiato a tante perso­ne questi cinque anni di soffe­renze. E ce l’avremmo fatta senza l’interventismo massic­cio e organizzato della Chie­sa, senza la scelta politica del cardinal Ruini che decise di puntare sull’astensionismo, contando sul fatto che il 25 per cento degli italiani co­munque non va a votare». Tenterebbe la strada del refe­rendum anche per la legge sul testamento biologico, se dovesse essere approvata? «Figuriamoci se da Radicale posso dirmi contraria al refe­rendum. Ma in queste condi­zioni no, perché sarebbe una gara truccata. Anzi, per esse­re chiari, sarebbe una trappo­la ».
Cosa intende, Emma Boni­no, per «queste condizioni»? «Deve essere restaurato un minimo di legalità negli spazi del dibattito, visto che quelli a disposizione delle critiche sono limitati. E poi i laici si devono far sentire, devono or­ganizzare una vera campagna di mobilitazione che coinvol­ga tutto il Paese. Per il mo­mento, anche nel Pd, non ho sentito nessuno parlare di Piazza san Giovanni o di Cir­co Massimo. Eppure non par­liamo di una sciocchezza qual­siasi ma, che diamine, della li­bertà personale».

l’Unità 2.4.09
«La rivolta anticrisi riporterà in scena estremisti e xenofobi»
Intervista a Donald Sassoon di Umberto De Giovannangeli


Lo storico britannico: Obama trova un’Europa diminuita
come la sua America ma a differenza di Bush ha capito
che l’Occidente ormai non può uscire dal tunnel da solo

Trovo «naturale che in una situazione come questa, in cui somme colossali sono state depredate da personaggi incompetenti, ai quali non si sarebbe dovuto affidare neanche un negozio di rigattiere, si manifesti un disagio sociale che rischia di trasformarsi in una “jacquerie” metropolitana, in una rivolta di piazza che non trova sbocchi politici. Sono abbastanza pessimista. Perché penso che quando la disoccupazione crescerà ulteriormente, la protesta esploderà e a trarne vantaggio saranno i gruppi xenofobi estremisti». Gli scontri di Londra e l’incontro tra Barack Obama e i leader europei analizzati da uno dei più autorevoli storici europei: il professor Donald Sassoon, autore di numerosi saggi, tra i quali quello in questi giorni nelle librerie: «La Cultura degli Europei» (Rizzoli, 2009).
Professor Sassoon, quale Europa trova il presidente Usa Barack Obama?
«Trova una Europa fondamentalmente disunita su come affrontare la crisi. Ma Obama in Europa non incontra solo l’Europa, ma incontra anche l’India, il Brasile, la Cina. Mi riferisco al G-20, divenuto più importante del G-8....».
Cosa significa questo?
«C’è stata una accettazione da parte dell’Occidente che il mondo non gli appartiene più. Obama non trova solo una Europa disunita, trova anche una Europa “diminuita”. E anche l’America è “diminuita”: ed Obama, essendo una persona intelligente, lo ha capito e lo ha anche praticamente detto, nei limiti permessi ad un presidente degli Stati Uniti. Obama è venuto per ascoltare, per fare le cose insieme, insistendo nel suo primo discorso sul concetto che l’America da sola non può far uscire il mondo da questa fase estremamente critica».
In questo riconoscimento c’è quella visione multilaterale di Obama che sembra essere il punto di rottura rispetto al suo predecessore ?
«Bush viveva in un mondo utopico, dove gli Stati Uniti non avevano bisogno di nessuno; un mondo dove l’America, forte della sua potenza militare, si muoveva come fosse l’unica, inattaccabile, iper potenza planetaria. Obama arriva sull’onda della sconfitta di questa politica e, in un certo senso, rappresenta un’America che è stata “diminuita”. Quando lui dice che bisogna essere più multilaterali, non è che offra una soluzione su cosa fare. Nega la vecchia “soluzione”, rivelatasi fallimentare, del passato, ma non sa qual è quella nuova. E tra l’altro ha anche ragione, perché sarebbe un ben strano multilateralismo quello in cui un solo soggetto, l’America, delinea e impone un modus operandi».
Nell’affrontare una drammatica crisi finanziaria, economica e sociale, quale convergenza è è ipotizzabile tra l’America di Obama e l’Europa?
«C’e innanzitutto una convergenza sul riconoscimento della gravità della crisi, ma non c’è ancora una linea comune su come uscirne fuori. Tutti sanno cosa non è più possibile fare ma nessuno ha un progetto. Ed è difficile avere un progetto, perché non esiste più una potenza egemone, come fu l’America nel secondo dopoguerra, che impose almeno al mondo occidentale un progetto di ricostruzione dell’economia - il Piano Marshall, gli accordi di Bretton Woods. la creazione di organizzazioni mondiali dove gli Stati Uniti avevano un peso enorme - che tutto sommato funzionò. E funzionò perché c’era qualcuno a Washington - sostenuto dall’economia manifatturiera allora la più forte al mondo, da una finanza e da una potenza militare le più forti al mondo - che ha potuto imporre quel progetto. Questa situazione non c’è più e dunque non esiste un modello “imponibile”. Ad aggravare la situazione ci sono diversi leader del mondo occidentali, a cominciare da Gordon Brown, che oggi scoprono la necessità di un capitalismo morale, di una nuova regolation... Ma dov’erano, cosa pensavano, quando manager incapaci, ma con potenti agganci politici, dilapidavano ricchezze colossali?».
Quali sono le prove più onerose che Usa ed Europa hanno di fronte?
«Noi continuiamo a parlare di America ed Europa, come se fossero sempre e solo loro, di concerto, a comandare i giochi. Invece non è più così. Si dovrebbe invece parlare molto di più di Cina e Stati Uniti. Perché è lì che si giocherà la partita vera dei prossimi venti-trent’anni. L’industria manifatturiera si è spostata per la prima volta nella storia del mondo, dall’Occidente all’Oriente. E questa è una novità epocale con la quale tutti noi occidentali dovremo fare i conti».

l’Unità 2.4.09
Francia e dintorni
La sinistra non si trova più
di Rinaldo Gianola


Non sappiamo se qualche lavoratore italiano vorrà emulare i suoi colleghi francesi o inglesi sequestrando o contestando duramente manager e capi d’impresa. Le ragioni, certo, non mancano. Per ora, però, dobbiamo felicemente constatare che, davanti a una tensione sociale crescente, il sindacato confederale, tanto bistratto da osservatori e critici prezzolati, gioca bene il suo ruolo e riesce a incanalare, soprattutto grazie alle iniziative della Cgil, rabbia e proteste sui giusti binari, senza pericolose deviazioni.
Mentre i grandi giornali si occupano con ansia degna di miglior causa di sapere chi tra i democrats sfilerà al corteo di sabato della Cgil, varrebbe la pena riconoscere il senso di responsabilità dei sindacati italiani che, nonostante i tempi che corrono, godono di un consenso e di un radicamento tra la gente che i francesi se li sognano. Tanto che Oltralpe trionfano sulle barricate dello scontro un ex leader trotzkista e la protesta fai-da-te.
Ma in questa emergenza sociale francese quello che emerge con grande evidenza è l’assenza della sinistra, la mancanza di un intervento, di una politica, di un ruolo dei socialisti, quasi fossero svaniti nel nulla. C’è un’afasia politica e ideale della sinistra che spaventa e che, questo temiamo, non vorremmo tracimasse al di qua delle Alpi dove già c’è poco da star allegri. È come se Sarkozy occupasse tutto lo spazio della politica, da sinistra a destra: un giorno snobbando gli scioperi e il giorno attaccando i mascalzoni delle stock options. Ieri ha promesso agli operai della Caterpillar che salverà il loro posto di lavoro. Della sinistra poche tracce. Ségolène Royal, scrivono i giornali, ha un nuovo compagno. La leader Martine Aubry non è pervenuta. Ma possibile che non si veda più un socialista davanti a un fabbrica di operai incazzati? Sarà la svolta moderata.

Repubblica 2.4.09
Fitoussi avverte "Sta nascendo la Grande Rivolta"
Parla l’economista francese Fitoussi: "Ci vogliono ripensamenti politici, economici e sociali"
"Non è una protesta organizzata chiamiamola rivolta popolare"
intervista di Anais Ginori


La situazione è molto grave si chiedono altri sforzi ai lavoratori e ci si accorge che il salario medio in trent´anni s´è abbassato

«La chiamano in vari modi, ma le dico io cos´è. E´ una rivolta. Questa è una rivolta popolare non coordinata, spontanea. E molto pericolosa». Senza giri di parole, si tratta semplicemente di questo. L´economista Jean-Paul Fitoussi battezza così gli ultimi incidenti in Francia e il malcontento che sta esplodendo in altre parti d´Europa. «La gente ha avuto la sensazione di essere stata presa in giro». Nel giorno del G20, il docente all´Istituto di studi politici di Parigi e presidente dell´Osservatorio per le congiunture economiche, pronuncia un giudizio severo, e aggiunge anche un allarme: «Le fondamenta della democrazia sono in pericolo».
Da dove nasce questa nuova collera popolare?
«L´attuale crisi va esaminata nella sua triplice dimensione: economica, finanziaria e intellettuale. Contrariamente a quello che si pensa, il vero ostacolo per una ripresa è l´ultimo aspetto: quello intellettuale. La crisi proviene infatti da una grande menzogna. Non soltanto dei finanzieri, ma anche di politici, forse in buona fede, diventati prigionieri di una dottrina assolutista e che ha prodotto effetti catastrofici».
Era tutto una gigantesca illusione?
«Assolutamente sì. Le faccio un esempio. Ci dicevano che nuovi posti di lavoro si potevano creare soltanto in relazione alla loro produttività marginale. I lavoratori dovevano insomma essere pagati in proporzione al loro apporto produttivo. Eppure scopriamo oggi che, in realtà, la classe dirigente di molte imprese non veniva pagata con questa regola. Anzi, è stato esattamente il contrario: la maggior parte dei dirigenti del sistema finanziario ha avuto una produttività negativa, continuando però a incassare remunerazioni astronomiche».
Le proteste aumenteranno?
«Ripeto: la gente ha capito di essere stata raggirata. E´ questa la dimensione forte, pregnante della protesta. Gli incidenti di oggi in alcune imprese sono manifestazioni di rivolta spontanea. Per tre decenni è stato raccontato un sistema come verità assoluta. Improvvisamente, ci si accorge che era un bugia altrettanto assoluta E´ comprensibile lo choc e la rivolta nella popolazione».
Come si esce da questa crisi?
«La situazione è molto grave. Ora che si chiedono sforzi supplementari ai lavoratori, ci si accorge che negli ultimi trent´anni il salario medio si è globalmente abbassato. In sostanza, abbiamo permesso che fossero rafforzate le discriminazioni economiche. La dottrina andava fino ad accettare che le disuguaglianze fossero considerate un fattore positivo di crescita e dinamismo economico. Questo ha provocato un´ovvia crisi della democrazia che, per sua stessa definizione, non può sopportare l´aumento delle disuguaglianze».
Quali sono le responsabilità delle istituzioni?
«Il credo della dottrina in vigore fino al settembre 2008 era che la sfera politica dovesse essere ben distinta da quella economica. Qualcuno si era convinto che la democrazia fosse l´applicazione della legge della maggioranza. E´ profondamente sbagliato. La legge della maggioranza deve sempre coniugarsi con la protezione delle minoranze».
Cosa si aspetta da questo G20?
«Al di là di quel che diranno i comunicati ufficiali, bisognerà capire se effettivamente la democrazia sta ritornando. Non dobbiamo guardare solo ai rimedi economici e finanziari immediati. Quello che si deve valutare con estrema attenzione è se vi siano elementi nuovi che vadano verso un ripensamento permanente della gestione degli affari politici, economici e sociali. Soltanto così si potrà uscire dalla crisi».

Corriere della Sera 2.4.09
Picasso. Gioia e furore
La «Suite 347», viaggio ironico e dissacrante che racchiude un’incontenibile passione per la vita
di Vincenzo Trione


Dal marzo all’ottobre 1968 il grande pittore volle rivisitare, in un’imponente serie di incisioni, tutto il suo mondo artistico: un tesoro ora esposto per la prima volta in Italia

«Infine io ò pienamente ra­gione, / i tempi sono molto cambiati, / gli uo­mini non dimandano / più nulla dai poeti, / e lasciatemi di­vertire! », si legge ne «L’incendiario» di Aldo Palazzeschi. Da questo impe­rativo morale ed estetico, attraversa­to da disincanti e da slanci, potrem­mo muovere per cogliere il significa­to sotteso al ciclo della «Suite 347» di Pablo Picasso. È l’approdo di un meraviglioso itinerario, scandito da­gli smontaggi cubisti, dalle fascina­zioni classiciste, dalle seduzioni me­diterranee. È l’epilogo di un viaggio audace. Un finale di partita inatteso, che ha il valore di una sintesi poeti­ca.

Anni ’60. In questa stagione di utopie e di sogni, Picasso — Miche­langelo del XX secolo — è considera­to «solo» come il maestro da ammi­rare. Eppure, egli non si porrà mai in una posizione di retroguardia. Evita di autocelebrarsi. Prova a non ripetere stilemi e rituali. Cerca di ri­manere fedele a se stesso, reinven­tando la sua scrittura: non sempre vi riuscirà. Vuole salvaguardare la sua capacità di manipolare le forme: aspira a cingere d’assedio il reale, rendendolo simile alle dimensioni di un congegno a orologeria disponi­bile a subire incessanti disarticola­zioni. Decostruttivista ante litteram, ribalta categorie, codici. Piega la lin­gua pittorica alle necessità della sua veemente fantasia.

Oramai è distante da ogni peso ideologico. La potenza epica e testi­moniale di un capolavoro come «Guernica» sembra non appartener­gli più. Gli esercizi eseguiti nella pie­na maturità rivelano una nuova ten­sione espressiva. Non vi è alcuna stanchezza. È un tripudio di speri­mentazioni. Permangono alcune ci­fre proprie dell’esperienza cubista. La centralità è assegnata ancora al­l’individuo, che viene trattato come un mostro preistorico. Scorrono i fo­togrammi di una commedia umana animalesca: figure neo-espressioni­ste, tra arti filiformi ed escrescenze. La ricostruzione iconografica è pie­gata con furia imprevista. Sorretto dal bisogno di «fare presto», Picasso elabora una prosa rapida, spesso ap­prossimativa. Sono sgrammaticatu­re che dimostrano virtuosismo dise­gnativo. Motivi soavi e monumenta­li sono ribaltati, violentati: per dive­nire liquidi, dinamici. Il bello sconfi­na nell’osceno e nell’eccessivo.

Non vi è più il concettualismo dei quadri analitici. Ogni foglio trasmet­te gusto per lo sberleffo, bisogno di giocare e di trasgredire le regole. Sor­prende la disinvoltura: le sagome so­no tratteggiate con una libertà diffi­cile da riscontrare nelle tele degli ini­zi del secolo. Lo stile sembra replica­re la crudele sincerità dei taccuini dei bambini e delle pitture murali primitive. Si pensi all’utilizzo inesat­to delle linee che contraddistingue «Suite 347».

Ci troviamo dinanzi a un vero rac­conto visivo, che potrebbe essere ac­costato ai romanzi per immagini di Max Ernst. Nessuna coerenza, nessu­na simmetria: un po’ come accade in tante contaminazioni della lettera­tura delle neoavanguardie. Un archi­vio allestito, in una full immersion creativa, in sette mesi (tra il marzo e il settembre del 1968). Quasi un elo­gio del palazzeschiano «lasciatemi divertire». Non è possibile seguire nessuna traiettoria privilegiata. È il trionfo dell’assurdo. I piani si incon­trano e si sovrappongono. «La pittu­ra è più forte di me, mi fa fare ciò che vuole», dirà Picasso in un’inter­vista di quel periodo. Le tecniche so­no varie: schizzi su lastre di rame, ac­quetinte, puntesecche, brunitoi, ac­queforti. L’esecuzione è improntata al gesto immediato, tra disaccordi e dissonanze. Anche i temi sono mol­teplici: mitologie lontane, omaggi spagnoli, brandelli architettonici, annotazioni quotidiane, ricordi di corride e di flamenchi. Meditazioni sulla vita e sulla morte. Un diario na­to da occasioni eterogenee. Scorro­no dissacranti variazioni. Con talen­to pre-postmoderno, Picasso transi­ta da un territorio a un altro. Don Giovanni contemporaneo, si inna­mora di eventi, che frequenta e subi­to abbandona. Grande cannibale, as­sume episodi: cita se stesso e i suoi modelli storici. Propone profanazio­ni tese a irridere e a violare ogni tem­pio consolidato. Addio calcoli, ad­dio rigore. La fantasia è tornata al potere. L’opera si fa specchio su cui si riflettono allegrie, comicità, legge­rezze.

In filigrana, è il ritratto di un arti­sta epocale. Che è diventato adulto riuscendo a non invecchiare. Cin­que anni dopo «Suite 347» — nel 1973 — Picasso morirà, a 92 anni. Commemorandolo sul Corriere del­la Sera, Cesare Brandi scriverà: «Re­sterà come una forza della natura, come un vulcano che, anche quan­do è spento, resta vulcano. Ma non come i baluardi delle città che poi di­vengono una passeggiata borghe­se ».

Le sue parole
Il rapporto con il tempo
Tutto quello che ho fatto è sempre stato solo per il presente

…chi dipinge non è mai soddisfatto. Ma la cosa peggiore di tutte è che non si termina mai. Non c'è mai un momento in cui puoi dire: 'Ho lavorato bene e domani è domenica'. Non appena ti fermi è ora di ricominciare. Si può lasciare da parte una tela dicendo che non si ha più voglia di metterci mano. Ma non si può mai scrivere la parola fine».

«Salvo pochi pittori che aprono nuovi orizzonti, i giovani d'oggi non sanno che strada prendere: anziché raccogliere le nostre ricerche per reagire con chiarezza contro di noi, essi si sforzano di risuscitare il passato. Eppure il mondo è aperto davanti a noi, ogni cosa dev'essere fatta di nuovo, non rifatta. Perché rimanere disperatamente abbarbicati a quanto già ha mantenuto le proprie promesse? Esistono chilometri di pittura 'alla maniera di', ma è difficile trovare un giovane che lavora a modo suo.

Variazione non significa evoluzione. Se un artista varia la sua espressione, vuol dire soltanto che ha cambiato il suo modo di pensare, e questo può essere per il meglio come per il peggio. Le molte maniere che io ho cambiato non devono essere considerate come un’evoluzione o come dei gradini verso uno sconosciuto ideale di pittura. Tutto quel che ho fatto è sempre stato per il presente, nella speranza che nel presente rimanga sempre. Quando ho trovato qualcosa da esprimere, l’ho fatto senza pensare al passato o al futuro. Non credo di avere usato elementi radicalmente differenti nelle mie differenti maniere; se i soggetti che ho voluto esprimere mi hanno suggerito dei differenti modi di espressione, non ho mai esitato ad adottarli».

Corriere della Sera 2.4.09
L’epoca-simbolo secondo l’ex direttore dei «Quaderni piacentini»
«Ma per noi il Sessantotto fu l’epilogo della creatività»
Bellocchio: nell’anno magico del pittore, il ripiego della cultura italiana
di Paolo Di Stefano


Chi ricorda la «rivoluzione di car­ta » dei Quaderni piacentini, la rivista che dal ’62 ha cavalcato le lot­te della nuova sinistra, non può non associare a quel foglio di batta­glia il nome di Piergiorgio Belloc­chio, che ne fu il direttore fino al­l’ 84, anno della chiusura. «A molti — dice oggi Bellocchio — il ’68 ha reso bene: un trampolino per otti­me carriere in ogni settore, dalla po­litica ai giornali, dall’editoria alla pubblicità, dalla Tv all’industria. Per me invece rappresenta una tas­sa, vita natural durante, che periodi­camente mi tocca pagare anche sot­to forma di intervista». E infatti ec­colo qua, Bellocchio, a tracciare una sorta di sconfortato bilancio del mo­vimento che auspicava l’immagina­zione al potere. «Uno slogan clamo­rosamente smentito dalla storia — dice — la politica non ha fatto che degradarsi in progressione: gli anni ’80 peggio dei ’70, i ’90 peggio degli ’80, e via fino a oggi. La crisi econo­mica non sarà un’occasione di rin­novamento e di riscatto. I momenti di forte agitazione, mobilitazione e lotta esprimono inevitabilmente dei leader, non necessariamente del­le teste. Le migliori teste teorico-po­litiche del ’68 sono stati i tedeschi Dutschke e Krahl, entrambi morti tragicamente troppo presto. In casa nostra, gli eccellenti contributi di Viale, Donolo, Ciafaloni, Rieser ecce­tera non hanno avuto seguito dopo il ’68-’69».

Dunque, l’anno in cui il quasi no­vantenne Picasso esplodeva di furo­re creativo finì per essere una tom­ba per la fantasia? «Penso che il ’68 non sia stato un ini­zio, un 'début', come volevano i francesi, ma piuttosto la con­clusione, fiammeg­giante, di una fase sto­rica. L’unica 'immagi­nazione' che s’è svi­luppata è stata quella criminale. Se si vuole risalire, bisogna aver chiaro il punto in cui siamo sprofondati, e dal quale occorre ripartire: è l’Italia fedelmente ritratta da Gomorra ».

L’anno magico della «Suite 347» va dunque archiviato come il punto di caduta a picco delle speranze e dello slancio fantastico? «Sul fronte culturale, della mentalità, del costu­me e del gusto c’è stata una progres­siva regressione, dal ’68 in poi. An­che nello stile di vita: incanaglia­mento dei rapporti umani, non solo in Italia». E sul piano artistico-lette­rario? «Assai più ricco e fertile è sta­to il decennio precedente, che ave­va visto il traumatico processo di modernizzazione del Paese, l’avven­to del neocapitalismo. Che è il tema esplicito o implicito con cui si sono misurati poeti come Pasolini, Giudi­ci, Zanzotto, saggisti come Fortini, Cases, Garboli, narratori come Vol­poni, per dire i primi nomi che mi vengono in mente. Dopo il ’68 non me ne viene in mente nessuno». E uscendo dal campo letterario? «Non ho gran competenza in materia mu­sicale e di arti visive. Teatro, non ne abbiamo mai avuto. Siamo vissuti di importazioni: Beckett, Pinter, Ber­nhard, il Living, Peter Brook... Ma c’è ancora qualcosa che valga la pe­na di importare? Molto meglio il ci­nema: Ferreri, Bellocchio, Bertoluc­ci, preceduti dal Free cinema ingle­se e dalla Nouvelle vague. E il cine­ma americano. E vecchi maestri co­me Bresson e Kubrick, che non han­no smesso di sfornare capolavori fi­no alle soglie del 2000».

Tutto qui? Un po’ pochino quel che resta, nel patrimonio artistico, di quell’entusiasmo politico... «Ho il sospetto che le testimonianze più vive e originali del nostro post-’68, più che dalla letteratura o dal cine­ma, siano venute dal fumetto, da quella scuola di disegnatori e vignet­tisti concentrati, mi sembra, soprat­tutto a Bologna. Qualcuno s’è ven­duto, ma molti hanno difeso a ol­tranza la loro indipendenza: autoge­stione sentita come un dovere e un onore. Finendo, non pochi, per au­todistruggersi. Il loro suicidio diret­to o indiretto, tra droga e Aids, testi­monia quanto meno della loro au­tenticità, del loro aver guardato il male dell’epoca più a fondo di tanti altri artisti e letterati che non hanno smesso di affliggerci con le loro in­sulsaggini ». Insomma, vuoi vedere che il vero erede italiano del Picasso della «Suite 347» sarebbe Andrea Pa­zienza? L’entusiasmo senile del ge­nio spagnolo ha passato il testimo­ne all’angoscia allucinata e masochi­sta del giovane Zanardi? Quando si dice i paradossi della storia...

mercoledì 1 aprile 2009

I contatti con "segnalazioni" nel mese di Marzo 2009

1. Italy 62.021
2. United Kingdom 11.685
3. Romania 574
4. United States 551
5. Germany 367
6. Belgium 257
7. France 225
8. Other 186
9. Switzerland 129
10. Spain 96
11. Argentina 65
12. Japan 53
13. Norway 51
14. Turkey 48
15. Finland 24
16. Austria 20
17. Brazil 16
18. Netherlands 15
19. China 9
20. Mexico 8
21. Ireland 7
22. Canada 7
23. Mauritius 7
24. Poland 7
25. Uruguay 7
26. Luxembourg 6
27. Morocco 5
28. Greece 5
29. Croatia 5
30. Venezuela 5
31. Sweden 4
32. India 4
33. Monaco 4
34. Korea (South) 3
35. Bulgaria 3
36. Australia 3
37. Portugal 3
38. Slovenia 3
39. San Marino 3
40. Tunisia 3
41. Thailand 2
42. Senegal 2
43. Taiwan 2
44. Czech Republic 2
45. Denmark 2
46. Malaysia 2
47. Egypt 2
48. Jordan 2
49. Israel 1
50. Macedonia 1
51. Algeria 1
52. Cyprus 1
53. Benin 1
54. Bahamas 1
55. Ukraine 1
56. South Africa 1
57. Singapore 1
58. Peru 1
59. Philippines 1
Total 76.521 100,00%
Agi 1.4.09
LIBRI: PIU' 3 MILA COPIE 'FANTASIA SPARIZIONE' PRIMO WEEK END

Roma, 1 apr. - E' boom di vendite, piu' di 3 mila copie nel primo week end, per il nuovo volume, l'ottavo, 'Fantasia di sparizione', di Massimo Fagioli, lo psichiatra della 'Teoria della nascita' e dell'Analisi Collettiva, uscito il 20 marzo in tutta Italia ed edito dalla nuova casa editrice 'L'Asino d'Oro'. "Nel primo fine settimana sono acquistate oltre tremila copie in tutta Italia ed in tre librerie romane (Feltrinelli di Galleria Esedra, quella di via Appia e di Largo Argentina) ha conquistato il primo posto in classifica". Venerdi' prossimo 3 aprile, dopo la 'prima' del 21 marzo all'Universita' di Chieti, dove dal 2002 lo psichiatra tiene un corso alla Facolta' di Scienze della formazione, nuovo appuntamento con Fagioli a Roma alla Libreria Feltrinelli di Galleria Colonna, ore 18. Con l'autore, parlano del nuovo libro, il cui tema centrale e' la scoperta della 'nascita umana', il fisico teorico e docente dell'Universita' Aix Marseille II, Marco Pettini e lo storico del Cnr, David Armando, oltre a Matteo Fago e Lorenzo Fagioli, gli editori de 'L'Asino d'Oro'. Il volume 'Fantasia di sparizione' che contiene le lezioni tenute da Fagioli presso l'Universita' di Chieti nel 2007, ripercorre "momenti fondamentali dell'attivita' dello psichiatra e si sofferma in particolare sulla scoperta della 'nascita umana', ovvero, di come la mente si attivi per reazione allo stimolo luminoso, definendo la differenza tra fantasia di sparizione e pulsione di annullamento - si precisa nella nota - ed eliminando l'idea cristiana dell'embrione come persona". Insomma, il libro, edito da 'L'Asino d'Oro', dal racconto di Apuleio che contiene la favola di 'Amore e Psiche', la cui immagine scultorea, opera del Canova, campeggia in copertina assieme al nuovo logo editoriale e che si appresta a diventare un caso editoriale, "espone il pensiero di una ricerca che dura da cinquant'anni, espressa e applicata a piu' ambiti, sulla rivista di psichiatria e psicoterapia 'Il sogno della farfalla', il settimanale 'Left' e i primi quattro libri pubblicati dall'autore - conclude la nota - 'Istinto di morte e conoscenza', 'La marionetta e il burattino', 'Teoria della nascita e castrazione umana', 'Bambino donna e trasformazione dell'uomo'. Un pensiero ed una ricerca che uniscono teorie assolutamente nuove sulla realta' umana inconscia ad una prassi di psicoterapia di gruppo detta Analisi Collettiva ed iniziata ormai trentacinque anni fa". (AGI) Pat

il manifesto 31.3.09
Non occorre il Fascismo
di Rossana Rossanda


Non credo che il fascismo sia alle porte. Se le parole hanno un senso, ed è buon uso lasciarglielo, fascismo è quel che abbiamo conosciuto dal 1922 al '43: partito unico che si fa stato, fine delle elezioni e della divisione dei poteri, fine dei sindacati, illegittimità del conflitto di lavoro, fine della libertà di associazione e stampa, razzismo e singolarmente antisemitismo. Un regime del genere è oggi impensabile in Europa. Nell'evocarne golosamente due aspetti, poteri allargati del premier senza il contropotere d'un parlamento e di una magistratura indipendente, Berlusconi ha fatto una gaffe.
Che ne abbia profittato Fini è ovvio. E che lo faccia con l'intenzione di succedergli, tanto più che il Cavaliere non lascia spazio ai suoi, eccezion fatta per Letta, come eminenza grigia capace di tirarlo silenziosamente fuori dai guai, con stile opposto a quello che il boss coltiva per catturare la «gente». E che gli funziona, gli italiani avendo un'antica tendenza a farsi, da popolo, plebe; oggi non più stracciona, ma piccolo e medio borghese, egoista e sorda.
Questa massa sarebbe anche disposta a benedire, come i suoi nonni liberali, un fascismo tale e quale, ma Fini, che è più intelligente, ha capito che non solo sarebbe fuori tempo, ma non è necessario a un muscoloso dominio di classe. Per indebolire partiti e sindacati basta una democrazia elettiva disinnescata da idee forti, un'opinione coltivata con libero zelo dai media all'antipolitica, al decisionismo, ai privilegi e al razzismo; l'antisemitismo, dopo la Shoah e in presenza di Israele, non usa più. Per il resto basta una democrazia presidenziale, tendenzialmente bipolare, tendenzialmente d'opinione, spontaneamente non partecipata con contropoteri più che legittimati ma ridimensionabili in situazioni definite consensualmente di emergenza. Di che altro ha avuto bisogno Bush? Di che ha bisogno Sarkozy, cui de Gaulle ha già fornito nel 1958 quel che Berlusconi vorrebbe, e sta spossessando la magistratura dalla decisione di impostare o archiviare i processi? La democrazia elettiva ha permesso Bevan e Thatcher, Bush e Obama. Può oscillare fra apertura sociale pacifista e repressione sociale bellicista. Senza strappi istituzionali. Dipende dal carattere del presidente.
Fini ha una larga possibilità di farsi strada come più presentabile leader di destra, e Berlusconi ieri lo ha capito. Assisteremo al duello. Almeno finché non si presenterà uno scenario diverso. Oggi non c'è una opposizione capace di imporlo. Non quella moderata, mandata al tappeto da Veltroni e difficilmente resuscitabile dal volonteroso Franceschini e dai suoi modesti secondi ufficiali. Non quella detta radicale, che tutto si propone tranne dare una rappresentatività e qualche ragionevole speranza al blocco sociale dei salariati, dei precari, delle donne più coscienti di sé, dei cattolici non ratzingeriani, dei movimenti. Neppure ora che dentro tutta l'Europa monta la collera dei buttati fuori dal lavoro e dal sostentamento, di una intera generazione di giovani senza prospettiva; una massa che potrà sommarsi o, in mancanza di qualsiasi riferimento, scontrarsi con una immigrazione sicuramente crescente. Mai la sinistra è stata così vergognosamente assente, mai ha così abbandonato la protesta alla sconfitta o a rivolte riducibili a questione di ordine pubblico.
Mai davanti a un sistema sociale incastrato nemmeno dalle sue contraddizioni ma dai più sfacciati e, a quanto pare, incontrollabili imbrogli. A tanto siamo a venti anni dal liberatorio 1989.

l’Unità 1.4.09
Non sarà un muro a fermarli
di Luigi Manconi


Come può il ministro Roberto Maroni assicurare che gli sbarchi «termineranno il 15 maggio del 2009»? È solo perché in quella data entrerà in vigore l’accordo tra l’Italia e la Libia sul pattugliamento congiunto delle coste. E già nel giugno scorso il sottosegretario Roberto Castelli affermava che gli sbarchi erano «in calo». Non è chiaro, in quelle dichiarazioni, quale sia il confine tra irresponsabilità e improntitudine, tra sgangherato dilettantismo e impavida supponenza. È ovvio che gli sbarchi non termineranno il 15 maggio: e nemmeno quando quel trattato controverso e, per certi versi, sciagurato - come denunciato dai parlamentari radicali - avrà reso più stringente l’unico meccanismo di controllo dell’esodo di cui sembra disporre il paese africano. Ovvero l’internamento di tanti migranti nei campi (di trattenimento? Di detenzione? Di concentramento?), già attivi nel deserto libico e finanziati, in parte, dal nostro paese. Perché questa è, a ben vedere, la sola «politica dell’immigrazione» che il governo italiano sta praticando: la cancellazione pura e semplice dei migranti, da occultare in spazi sempre più muniti e presidiati, sempre più sottratti allo sguardo e al controllo della pubblica opinione, in Italia come in Libia. Il meccanismo della rimozione, come «spostamento» di ciò che disturba e turba, si applica - sul piano psicologico - attraverso la negazione degli immigrati come soggetti e la loro riduzione a questione criminale: e, sul piano fisico, attraverso il loro «contenimento» in luoghi di coazione e reclusione. Ma quella rimozione ha un suo limite ineludibile: quando sul mare affiorano cadaveri… Centinaia di cadaveri. E la Libia – va ricordato – ha numerosi precedenti per mancato soccorso nei confronti dei boat people. È la famosa «politica mediterranea», probabilmente.

l’Unità 1.4.09
Medico rianimatore e autore del libro «Cosa sognano i pesci rossi»
Conversando con Marco Venturino
«Alimentazione forzata? La legge non può ordinarci di tradire un paziente»
Nessuna norma potrà costringere un medico a comportarsi contro coscienza: disobbediremo
di Luca Landò


Anche i pesci rossi nel loro piccolo si incazzano. Certo, la battuta riguardava le formiche, ma ascoltando Marco Venturino, medico e scrittore, il salto di specie è inevitabile. Colpa del suo «Cosa sognano i pesci rossi», il libro che quattro anni fa scosse il gelido mondo delle corsie d’ospedale e delle sale operatorie. E colpa della legge sul testamento biologico votata giovedì scorso al Senato. «Brutta legge, anzi pessima», dice Venturino, 52 anni, che oggi dirige la divisione anestesia e rianimazione dell’Istituto europeo di oncologia. «Quello che più mi fa scaldare di questa vicenda, però, è che si parla senza sapere e soprattutto si parla di cose che con la realtà non c’entrano nulla».
Prego?
«In questi giorni ne ho sentite di tutti i colori, ho assistito a dibattiti furibondi, ho visto sondini diventare più importanti dei pazienti. E ho avuto la conferma che la politica, questa politica è troppo lontana dai problemi veri».
E quali sono i problemi veri?
«Quelli che si vedono nelle corsie tutti i giorni. O meglio ancora, nelle sale di rianimazione, dove i pazienti sono in una zona di confine in cui bisogna entrare con molta attenzione e professionalità. E non con l’irruenza di una legge. Che c’entra la legge con la medicina?».
Certo, ma con questa norma i medici avranno dei vincoli ben precisi, non potranno ad esempio interrompere l’alimentazione e l’idratazione artificiale in pazienti in stato vegetativo permanente.
«Voglio vederli i carabinieri davanti alla clinica che mi obbligano a fare qualcosa che ritengo sbagliato. E poi esiste sempre l’obiezione di coscienza, quella non la possono togliere a nessuno, soprattutto ai medici. Sa cosa le dico? Che non cambierà un bel niente».
Disobbedienza professionale?
«Sto semplicemente dicendo che i medici continueranno a fare i medici. E non può essere un magistrato a dirmi quel che devo fare. Come diceva Shakespeare: tanto rumore per nulla. Anche a proposito delle volontà anticipate».
Non mi dica che è perplesso anche da quelle.
«Ovviamente no, sono fondamentali. Ma sarebbe altrettanto fondamentale conoscere la realtà dei fatti. Negli Stati Uniti quelle dichiarazioni vengono redatte da una percentuale che da Stato a Stato varia tra il 4 e il 20% della popolazione. Nelle strutture di terapia intensiva poi, o non ci sono perché il paziente non le ha fatte, oppure esistono ma non arrivano in ospedale, oppure esistono e arrivano ma capita che il medico, in particolari situazioni, si comporti diversamente. Insomma, le dichiarazioni anticipate sono importanti ma da sole non sono, non possono essere la soluzione».
E quale sarebbe la soluzione?
«Un rapporto sempre più stretto tra medico e paziente: il consenso informato e il testamento biologico sono pratiche burocratiche necessarie ma non possono sostituirsi al rapporto di fiducia tra chi cura e chi è curato. La medicina, lo ripeto, non può diventare legge, è non può diventare materia di dibattito politico. Ho sentito dichiarazioni di deputati che fanno accapponare la pelle».
Fuori i nomi.
«Uno per tutti: Gasparri, che dice “non vincerà il partito della morte”. E quale sarebbe il partito della morte? Quello di Ignazio Marino, chirurgo di fama internazionale che in Sicilia ha realizzato una struttura che è l’invidia di mezza Europa? Il guaio è che si sta facendo una battaglia ideologica proprio dove l’ideologia non c’entra nulla».
Ha una proposta?
«Invece di discutere se sospendere o meno i sondini, parliamo dei fondi per le cure palliative, impariamo a combattere il dolore, liberalizziamo gli oppiacei come la morfina, permettiamo a tutti di vivere fino in fondo con dignità. Il guaio è che viviamo in un Paese dove, esperienza personale, un paziente non più operabile viene mandato a casa per passare gli ultimi giorni tra i propri familiari. Nel pieno di una crisi i parenti chiamano la guardia medica, chiedono della morfina per calmare il dolore e quello risponde: ma se poi muore? Cambiamo questa cultura. È molto più importante che discutere se il sondino sia o meno una cura».
Torniamo al rapporto medico-paziente, che è poi il tema del suo libro dove un medico rianimatore riesce a stabilire un contatto con un paziente costretto, dopo un’operazione malriuscita, a vivere immobile attaccato a un respiratore meccanico, prigioniero del suo corpo come un pesce rosso in una boccia di vetro.
«Il paradosso è che la relazione che si instaura tra il medico e il paziente è l’anima stessa della medicina, eppure viene lasciata al caso, al buon cuore del medico. Anziché litigare sul testamento biologico non sarebbe più utile studiare, tutti insieme, come si può migliorare questo aspetto fondamentale della pratica medica? Pensi che in tutte le università di medicina non esiste un solo corso di relazione, di comunicazione: si impara l’innervazione della mano che servirà solo ai chirurghi specializzati, e non si insegna a parlare coi pazienti dei temi più delicati. Eppure il bravo medico, anzi il vero medico è quello che riesce a entrare in sintonia col malato, a spiegargli quando un intervento è utile e quando no, quali sono i rischi, che cosa è meglio fare».
E questo non avviene già adesso?
«Mica tanto. Nel mio libro compaiono diverse figure di medico: il chirurgo senza scrupoli, il rianimatore esistenzialista ma sensibile... certo, ho estremizzato a scopo narrativo ma la realtà non è molto diversa. Ci sono medici che trovano più facile proporti un’operazione rischiosa o inutile piuttosto che affrontare insieme al paziente il tema della morte. Mi creda, è più facile operare che parlare».
Scusi, ma davvero crede che questo tipo di comunicazione, così personale e difficile, si possa imparare all’università?
«In buona parte sì, perché si basa anche su tecniche ormai note di comunicazione. Per il resto dipende dalla predisposizione personale che, dispiace dirlo, non tutti i medici hanno. E come diceva Tolstoj in «Resurrezione»: se non ami il tuo prossimo, non occupartene. Io, tanto per cominciare, cambierei il test di ingresso all’università di medicina: invece dell’esame di cultura generale farei un test attitudinale, ad esempio sei mesi di volontariato in un ospizio a lavare gli anziani. Quello sì ti fa capire se davvero vuoi aiutare gli altri».

l’Unità 1.4.09
Mariti con diritto di stupro. Legge choc in Afghanistan
di Gabriel Bertinetto


L’Onu accusa. Le donne di fede sciita dovranno chiedere anche il permesso di uscire
Bufera su Karzai. Per la stampa britannica il presidente afghano ha firmato il testo
A Karzai che si ricandida nelle presidenziali di agosto servono i voti della minoranza sciita. Pensa di trovarli firmando una legge che impone vessazioni di tipo «talebano» alle donne di quella comunità.

Una tegola su Karzai, nel giorno in cui compare sull’importante palcoscenico internazionale dell’Aja per la conferenza sull’Afghanistan. Ma soprattutto una tegola sulla libertà delle sue connazionali. Un’agenzia delle Nazioni Unite rivela che è pronta, ed è anzi già stata firmata dal numero uno di Kabul, una legge che lede fortemente i diritti personali per una fetta importante della popolazione femminile afghana.
La legge vieta alle donne di fede sciita di uscire di casa senza il permesso del marito. Andare al lavoro, recarsi a scuola, o anche solo rivolgersi ad un medico sarà impossibile senza autorizzazione maschile.
Quello che il regime talebano aveva imposto a tutte le afghane, il Parlamento del nuovo Stato democratico, Karzai consenziente, vorrebbe riservarlo ad un buon dieci per cento di loro. Non solo, le stesse norme negano alla moglie la facoltà di rifiutare un rapporto sessuale al coniuge. Per questo il «Fondo Onu per lo sviluppo delle donne» si spinge a scrivere che il provvedimento legalizza lo stupro entro le pareti domestiche.
DIBATTITO SOFFOCATO
Secondo la deputata Shinkai Zahine Karokhail, citata dal quotidiano britannico «Guardian», il testo è stato approvato a grande velocità e limitando al minimo i tempi del dibattito, perché Karzai aveva fretta di fare un favore ai dirigenti dell’etnia hazara prima delle elezioni presidenziali di agosto. Gli hazara sono in gran parte di fede sciita e costituiscono un decimo circa della popolazione complessiva. Il loro voto a favore dell’attuale capo di Stato non era affatto sicuro. Karzai avrebbe cinicamente sacrificato i diritti delle donne hazara all’esigenza di ottenere sostegno politico dagli uomini della stessa comunità.
Shinkai ha tentato invano di opporsi al varo di quelle norme. Sull’altro fronte, il deputato di un partito sciita, Ustad Mohammad Akbari, concorda nel considerare il sì di Karzai frutto di uno scambio di natura elettorale, ma loda il contenuto della legge ricorrendo a vecchie argomentazioni di tipo biologico: «Per l’Islam uomini e donne hanno uguali diritti, ma ci sono differenze nel modo in cui gli uni e le altre sono stati creati. Le donne sono un po’ più deboli, e persino in Occidente non si vedono vigili del fuoco di sesso femminile...». E poi, aggiunge Akbari, dopotutto la legge consente alla moglie di non fare sesso, «se non sta bene o se ha un’altra valida scusa». Quanto al permesso di uscire di casa, non è necessario «se c’è un’emergenza». Se la casa prende fuoco insomma, il pompiere, rigorosamente maschio, potrà irrompere per spegnere le fiamme. Ma la massaia contemporaneamente avrà licenza di varcare l’uscio e mettersi in salvo.
L’ETÀ MINIMA DELLA SPOSA
La senatrice Humaira Namati descrive il clima di intimidazione creatosi in Parlamento. «Chiunque criticasse il provvedimento, veniva accusato di essere nemico dell’Islam». La collega Shukria Barakzai sottolinea che si è perlomeno riusciti a limitare i danni. Il testo originario indicava in 9 anni l’età minima di una sposa. «L’abbiamo fatta alzare a 16».
Per Afzal Nooristani, direttore della Legal Aid Organization of Afghanistan (LAOA), avvocato attivo a Kabul nella difesa dei diritti umani e dello stato di diritto, la nuova legge creerà una situazione giuridica contradditoria. Da una parte è in linea con l’articolo 131 della Costituzione, secondo il quale i tribunali devono applicare i principi della scuola giuridica sciita nelle questioni di natura personale che riguardano gli esponenti di quella comunità. Dall’altra entra in conflitto con il codice civile in vigore in Afghanistan, con i diritti umani ed i principi del diritto internazionale.
In margine alla conferenza dell’Aja, la segretaria di Stato Usa Hillary Clinton ha affermato che i diritti delle donne in Afghanistan sono un motivo di «assoluta preoccupazione» per il suo governo. «Non si può sviluppare un paese se metà della popolazione viene oppressa», ha aggiunto.

Repubblica 1.4.09
Biotestamento, prove d´intesa Pd-Pdl La Cei a Fini: "Lo Stato etico è un´altra cosa"
L´emendamento cerca un compromesso su nutrizione e idratazione
di Giovanna Casadio


Il testo, che modifica quello del Senato, visionato dal presidente della Camera. Bocchino: il ddl cambierà. Tempi lunghi per l´approvazione

ROMA - Non ci stanno. I vescovi bacchettano Gianfranco Fini sul biotestamento. Al congresso del Pdl, smarcandosi da Berlusconi e dalla maggioranza, il presidente della Camera aveva parlato di una legge - quella appena approvata al Senato - «da Stato etico», augurandosi perciò che alla Camera, dove le norme sul fine-vita stanno per arrivare, si cambi registro e lo Stato laico batta un colpo. Ma la Cei dà l´alt: «Lo Stato etico è decisamente un´altra cosa e la Chiesa cattolica non l´ha mai avuto in simpatia. Lo Stato etico c´è quando ci sono delle costrizioni e non mi sembra che ci si trovi in queste condizioni», biasima il segretario della Conferenza episcopale, monsignor Mariano Crociata. Per i vescovi la legge va definitivamente approvata, e in fretta. Benché sia inutile, dal momento che la volontà del malato espressa nel biotestamento, non è più vincolante e spetterà al medico l´ultima parola.
I laici del centrodestra hanno fatto già sapere che queste norme finiranno in cantina e ci resteranno per un bel po´. Insomma, prima delle elezioni europee è escluso che il biotestamento approdi nell´aula di Montecitorio. Slittamento in vista fino all´autunno? «Non lo so, e non credo. Però posso dire al cento per cento che ci saranno modifiche», ammette Italo Bocchino, vice capogruppo Pdl, amico personale di Fini. Alcuni deputati del Pdl hanno intanto firmato tre emendamenti preparati dai parlamentari Pd, Eugenio Mazzarella, Sandra Zampa e Paolo Corsini. Una proposta bipartisan e ragionevole, la definiscono, sull´alimentazione e l´idratazione artificiale, che è poi il punto più controverso e che ha scosso l´opinione pubblica nel caso di Eluana Englaro. Mazzarella, che è un filosofo, ne spiega l´obiettivo, di tradurre cioè «il diritto mite in buonsenso», di puntare a «un´etica della situazione». In concreto, resta il principio che idratazione e nutrizione artificiale sono sostegno vitale. Inoltre, il rifiuto espresso nel biotestamento resta vincolante per il fiduciario, una sorta di continuità della sua libertà. Però il fiduciario dovrà concordare le decisioni con il medico curante e con i familiari e qui si riconosce che il testamento non sia obbligante, se si valuti che ci sia un beneficio terapeutico per il paziente. Tra i primi firmatari del centrodestra ci sono Fabio Granata, Stefano Caldoro e Francesco Pionati.
Un emendamento che anche Fini ha avuto occasione di leggere. Del resto, ricalca quello che a Palazzo Madama aveva presentato la cattolica Albertina Soliani e che la radicale Emma Bonino aveva votato giudicandolo una mediazione intelligente. Di modifiche possibili parla anche Fabrizio Cicchitto, presidente dei deputati Pdl. «È indispensabile cambiare la legge uscita dal Senato che è inutile e anzi dannosa», rassicura il capogruppo del Pd, Antonello Soro. E Livia Turco rincara: «La Camera non ratifica un bel nulla, si ricomincia daccapo».

Corriere della Sera 1.4.09
Biotestamento, 3 su 4 per la libera scelta
di Renato Mannheimer


I cattolici. Anche tra i cattolici il 55% dice sì alla possibilità di fermare le cure e il 47% alla scelta di interrompere nutrizione e idratazione

La vicenda di Eluana Englaro ha fortemente coin­volto gli italiani. E li ha portati a prestare molta maggiore attenzione che in passato alla questio­ne del testamento biologico. Tanto che oggi il 51% del­la popolazione dichiara di «sapere di cosa si tratta». Con un incremento di ben il 22% rispetto a due anni fa, quando, in un analogo sondaggio, solo il 29% aveva af­fermato di essere al corrente del significato di testa­mento biologico. A costoro va affiancato quel 41% che riporta, comunque, di averne almeno «sentito parla­re ».
La diffusa consapevolezza della materia, nonostante la sua intrinseca complessità, è poi confermata dal fat­to che, nel momento in cui all’intervistato vengono sot­toposte varie definizioni di testamento biologico di cui solo una esatta, oltre il 70% è in grado di individuare correttamente di cosa si tratta.
Gli italiani risultano dunque adeguatamente infor­mati della questione. Ma cosa ne pensano? La maggio­ranza assoluta (60%) ritiene che sia necessaria una rego­lamentazione legislativa. Solo il 5% si dichiara contra­rio al varo di una legge: tra costoro si rileva una presen­za più accentuata di cattolici praticanti.
Ma una legge con quali contenuti? Tre italiani su quattro auspicano la possibilità di richiedere libera­mente, nel testamento biologico, l’interruzione delle cure qualora ci si trovasse in una situazione di coma irreversibile. Questa opinio­ne risulta più diffusa tra chi si dichiara laico, ma coinvolge anche il 55% — vale a dire la maggioranza assoluta — di chi si profes­sa credente e frequenta re­golarmente le funzioni reli­giose.
Anche sull’aspetto più spinoso del dibattito in cor­so — la possibilità di interrompere la nutrizione e l’idratazione nel caso di coma irreversibile — il 68% au­spica di poter decidere liberamente in merito nel testa­mento biologico. Ancora una volta, questo desiderio è espresso anche dalla gran parte dei cattolici praticanti: tra costoro il 47% è favorevole, il 24% contrario e ben il 29% dichiara di non riuscire a formarsi un’opinione precisa al riguardo.
Nell’insieme, emerge come il 68% degli italiani auspi­chi una piena libertà di scelta — comprese la nutrizio­ne e l’idratazione — nel testamento biologico.
Non deve sorprendere il fatto che la maggioranza as­soluta degli elettori — compresi quelli cattolici — assu­ma riguardo a questa questione una posizione esatta­mente opposta a quella sostenuta dal governo, malgra­do quest’ultimo continui a raccogliere il consenso di gran parte della stessa popolazione. Si verifica infatti spesso che su tematiche attinenti alla vita dei singoli, i cittadini assumano l’orientamento che sembra loro più corretto, anche indipendentemente dal proprio orientamento politico. E’ sovente accaduto così anche in passato, ad esempio in occasione del dibattito sul divorzio o sull’aborto. E’ un segno della deideologizaz­zione progressivamente in atto tra gli italiani. Che ha portato, in certe occasioni, anche a fenomeni di inten­sa mobilità elettorale.

Repubblica 1.4.09
Per avere un figlio costretta ad espatriare
risponde Corrado Augias


Egregio Dr Augias, siamo una coppia romana di ritorno da Bruxelles per un tentativo che solo in Belgio abbiamo potuto sostenere. In Italia, a Roma, quattro anni di delusioni, due operazioni inutili, cinque tentativi falliti, umiliazioni e sofferenze gratuite. I dottori stessi ci hanno consigliato l'estero, e nostro malgrado siamo partiti. Non eravamo mai stati fuori dall'Italia, non conosciamo le lingue, non siamo davvero ricchi. Pur non sopportavo l'idea che il mio Paese non mi aiutasse in un momento di difficoltà, ci siamo decisi e siamo andati. Tutto è andato bene. In Ospedale solo coppie belghe (la fecondazione assistita in Belgio la passa lo Stato) italiane e arabe. Dottor Augias, in conclusione, ma cosa stiamo vivendo? Quale sortilegio ci costringe a vergognarci del nostro problema e a scappare per riuscire a far nascere un bambino? Per favore, non dimenticateci. Noi abbiamo avuto la forza, altri non ce la faranno. Io resterò fedele al mio paese perché «right or wrong, my country», certo però che diventa ogni giorno più difficile.
Lettera firmata

Sì, diventa difficile, è vero. E' difficile vivere in un paese nel quale convinzioni ed esigenze di buona parte dei cittadini vengono represse; dove si impone una morale di Stato, come ha riconosciuto perfino il presidente della Camera Gianfranco Fini al congresso del PdL. Dove il presidente del Consiglio parla di liberalismo senza sapere nemmeno dove sta di casa, come diceva mia madre. Avrà mai letto il sunnominato, uno dei saggi fondativi del liberalismo? Lo scritto di John Stuart Mill che dichiara fin dal titolo ('On Liberty') il suo argomento? Ebbene, parlando delle libertà individuali quello scritto recita: «La sola libertà che merita questo nome è quella di ricercare il proprio bene a proprio modo nella misura in cui non si cerca di privarne altri o di ostacolare i loro sforzi per ottenerla». Poche pagine più in là si legge: «Il solo aspetto della propria condotta di cui ciascuno deve rendere conto alla società è quello riguardante gli altri: per l'aspetto che riguarda soltanto lui, la sua indipendenza è, di diritto, assoluta. Su se stesso, sulla sua mente e sul suo corpo, l'individuo è sovrano». Il saggio di Mill venne pubblicato nel 1858; sono proprio gli stessi anni in cui veniva pubblicata in Italia l'enciclica 'Quanta Cura' di papa Pio IX nonché il famoso 'Sillabo' con il quale venivano condannate come errori della modernità tutta una serie di libertà, comprese quelle di parola e d'opinione. Si potrà ritenere esagerata la citazione di tali precedenti a commento della lettera di una coppia romana. La mia opinione è che ciò che accade oggi è conseguenza diretta di ciò che è accaduto ieri.

Repubblica 1.4.09
Paura
Le nostre vite esposte all’incertezza
di Luce Iragaray


Un sentimento che oggi ha preso il sopravvento

La filosofa e psicoanalista francese: non riguarda solo i bambini, è la vita reale che spaventa gli adulti Ed è dentro di noi che dobbiamo trovare la causa del suo potere
È indispensabile tornare a una cultura più complessiva del nostro essere
Essere fedeli alla nostra singolarità esige di sviluppare le relazioni con l´altro, gli altri

La paura è sempre esistita, ma essa assume caratteri particolari nella nostra epoca. Anzitutto la paura è generale e ovunque. La paura di respirare un´aria inquinata e di mangiare un cibo tossico; la paura di essere contaminati da qualche virus, sennò da qualche ideologia; la paura di perdere il lavoro ma pure i beni acquisiti grazie al lavoro; la paura che non ci sia un domani: per la salute, per l´amore, per i viveri o l´acqua, per il pianeta; la paura di stare a casa ma anche di uscire di casa dove una qualsiasi violenza potrebbe colpirci.
La paura, quindi, non è solo un affare di bambini non ancora cresciuti e che hanno bisogno di adulti per essere aiutati a entrare nella vita reale. La stessa vita reale oggi spaventa prima gli adulti che sono consapevoli del carattere precario e pericoloso della nostra esistenza attuale, che sono pure capaci di prevedere l´incertezza dell´avvenire per l´umanità. La paura non è più un problema che si può curare con l´età, nemmeno con una terapia.
Risulta da fenomeni oggettivi che si sommano e creano un ambiente di vita che ci rende vulnerabili e in un certo modo malati. Ma si tratta di una malattia che nessun medico né nessuna medicina possono guarire? Certo, ci sono medici che prescrivono neurolettici o antidepressivi, ma non curano perciò la paura. Ci sono anche persone che fanno uso di droghe meno legali per trovare conforto, ma diventano tossicodipendenti senza aver superato la soggezione alla paura, piuttosto l´hanno raddoppiata.
Superare la paura generalizzata che corrisponde ormai all´atmosfera della vita quotidiana richiede il passaggio a un´altra epoca. Cerchiamo ancora di imputare qualche altro - individuo o cultura - della causa della paura. Questa risulterebbe da una certa sorta di terrorismo, dalle forme assunte da tale e tal altra religione, o dal modo di comportarsi di un altro popolo o di un´altra generazione.
Addossare a qualcun altro la responsabilità della paura non ci può aiutare a superarla. È piuttosto in noi stessi e nel nostro modo di vivere che dobbiamo trovare la causa dell´onnipresenza della paura e del suo potere. Se la nostra tradizione si fosse curata un po´ meglio di coltivare il respiro e l´energia, saremmo più capaci di rimanere in noi e di resistere alla paura. Ci siamo tanto allontanati da noi che non abbiamo un luogo in cui ripararci, qualcosa in noi a cui appoggiarci per sfuggire alla pressione ambientale. La quale incita una gran parte di noi a rifugiarsi nel divertimento, come accade spesso nei tempi incerti. Ma un simile comportamento, che corrisponde a una sorta di droga, contribuisce ad alimentare l´incertezza!
Tornare a una cultura più complessiva del nostro essere è indispensabile, non solo per sopravvivere ma anche per tentare di aprire nuovi orizzonti. Oltre al fatto che sia stata una cultura del fra simili, che affronta le differenze in un modo quasi soltanto quantitativo e gerarchico, la nostra tradizione ha favorito un´educazione delle facoltà mentali a discapito di una formazione più globale. Questi caratteri culturali ci hanno resi abbastanza deboli e poco capaci di convivere nella differenza, cioè di adattarci alle realtà del nostro tempo.
Siamo stati educati a seguire modelli culturali preesistenti piuttosto che a edificare insieme un nuovo mondo grazie alle fecondità delle nostre differenze. Ora, questo è il lavoro che spetta a noi di compiere oggi. Un tale lavoro esige da noi di essere più autonomi e creativi di quanto siamo.
Infatti, abbiamo ancora da superare la dipendenza da quelli che crediamo conoscano meglio di noi quali siano il nostro bene o il nostro male. Adulti, restiamo anche bambini a causa di una simile aspettativa riposta in quelli che sostituiscono l´autorità parentale. Fidarci del loro parere e della loro parola senza rimanere all´ascolto delle nostre percezioni e della nostra esperienza, ci rende fragili e recettivi alla paura, di cui, per altro, certi usano per stabilire un loro potere. Ci fanno credere che se non rispettiamo i loro consigli, rischiamo di danneggiare il nostro corpo, il nostro statuto sociale, perfino la nostra anima.
Sfortunatamente non ci svelano che cosa perdiamo fidandoci della loro autorità senza essere fedeli al nostro proprio sentire. Una condizione necessaria per costruire una vita adulta autonoma.
Essere fedeli alla nostra singolarità e incaricarci di farla fiorire deve accompagnarsi con il rispetto della singolarità dell´altro e l´aiuto portato al suo proprio compimento. Questo ci richiede di crescere come adulti autonomi capaci di proseguire il proprio cammino senza rinunciare a esso per qualsiasi paura. Esige anche di sviluppare le relazioni con l´altro, gli altri, non solo in quanto figli di una stessa particolare famiglia - naturale, culturale, politica, nazionale, eccetera - i figli che sono radunati in nome di una specifica appartenenza, e che formano un tutto che, almeno in parte, si richiude a partire dall´esclusione dell´altro in quanto differente. Figli che sono più o meno in competizione per essere il capo, il primo, il più bravo, il più competente, il più amato eccetera. Abbiamo piuttosto da crescere fino a raggiungere una maturità che ci consenta di comporre una famiglia umana di fratelli e di sorelle di cui le differenze si intrecciano e si fecondano in nome di un´appartenenza naturale universale e della libera volontà di ciascuno e di ciascuna di costruire insieme un mondo che corrisponda all´epoca in cui viviamo e abbiamo da convivere nella dignità, nella pace e, per quanto difficile questo talvolta sia, nella felicità.

Corriere della Sera 1.4.09
Lo psichiatra Vittorino Andreoli: da 0 a 3 anni serve la presenza continua della madre
«Ma i mesi decisivi sono 36»
intervista di L.Off.


BRUXELLES — «Sa che cosa hanno escogitato alcuni psico-pediatri francesi? Un 'video sostitutivo' della madre, chia­miamolo così, da inserire nel televisore: immagini della mamma riprese e trasmes­se a passo lento, non veloci come quelle televisive che fanno malissime al bambi­no. Quando la mamma va a lavorare, il fi­glio piccolo guarda il video. Certo, è una sostituzione per modo di dire. Ma ci dice quanto sia importante il bisogno della presenza materna continua da 0 a 3 an­ni ».
Vittorino Andreoli, psichiatra e scritto­re (l’ultimo libro: Carissimo amico. Lette­ra sulla droga, Rizzoli) ha una raccoman­dazione da fare ai legislatori della Ue: «È giusto che facciano le leggi sui diritti del­la donna che lavora, che aumentino la sua partecipazione al mondo del lavoro. Ma si ricordino anche dei diritti della don­na madre, madre di un bambino fino ai 3 anni: perché, in questo caso, sono anche i diritti dello stesso bambino ad essere in­corporati nei primi, in una sorta di sim­biosi. Un conto sono le esigenze della donna, e un conto quelle della donna-ma­dre con un figlio di quell’età».
Perché?
«Perché in quell’età il bambino ha biso­gno di un rapporto continuo, stabile, con la madre, solo con lei, così da far scattare il meccanismo fondamentale di attacca­mento- identificazione-separazione, lo stesso studiato dallo psicanalista scozze­se John Bowlby e da altri. È allora che si gettano le basi per la formazione del carat­tere e della personalità, è allora che il bambino impara a distinguere la madre da tutte le altre figure, e poi se stesso ri­spetto agli altri. È allora che nascono i sentimenti di auto-stima, che l’individuo impara a proporsi oppure si ritrae, è allo­ra che si forma anche l’identità sessuale e così via».
Succede anche fra gli animali più evo­luti?
«In forme naturalmente diverse e in tempi più brevi, sì. Fra i primati, le scim­mie, il piccolo bonobo forma in quello stesso primo periodo il suo 'carattere' in­dividuale, anche se poi si distacca molto prima di quanto faccia il bambino».
E nell’uomo, dopo i tre anni?
«Dopo, cala il ruolo della madre e au­menta quello della coppia, dell’asilo o del­la scuola, e così via. Ma prima…».
Insomma: sta dicendo che «prima» la mamma dovrebbe restare a casa?
«No, sto dicendo un’altra cosa. L’esi­genza di una maggiore partecipazione del­la donna al mondo del lavoro è natural­mente giusta: non solo per il rispetto del­le pari opportunità, ma anche perché la sua presenza in ruoli-leader, anche gerar­chicamente, può cambiare in meglio l’at­mosfera sempre più conflittuale e a volte patogena delle aziende. Però, in contra­sto con questa esigenza, può esserci quel­la 'doppia' della madre e del bambino piccolo, nei suoi primi 36 mesi di vita: e allora, gli Stati dovrebbero fare tutto ciò che possono per aiutare la donna a svol­gere fino in fondo il suo ruolo, a non spez­zare quella simbiosi così importante».