lunedì 6 aprile 2009

Corriere della Sera 6.4.09
In corsa Bellocchio, Archibugi, Tornatore
Cannes, ancora dubbi per i film italiani


CANNES — Mancano circa venti giorni al cartellone ufficiale del prossimo Festival di Cannes che si aprirà sulla Croisette il 13 maggio, ma l’incertezza sui titoli in gara regna ancora sovrana. Di certo finora c’è il film d’apertura (Up, cartone animato prodotto da John Lasseter) mentre, più che probabili nel concorso sarebbero Quentin Tarantino con il nuovo Inglorious Bastards e Christian Mungiu con Tales From the Golden Age. Per il resto ogni Paese gioca alle previsioni sulla propria cinematografia nazionale (in Francia scommettono su Patrice Chereau e Xavier Gianolli o Cedric Kahn) mentre per gli italiani si parla di Marco Bellocchio (da sempre fedele a Cannes) con il suo molto atteso Vincere, sul figlio segreto del Duce, interpretato da Filippo Timi. Altri continuano a pensare che Giuseppe Tornatore alla fine cederà alle lusinghe del presidente di Cannes, Gilles Jacob, svelando, in anticipo sui tempi previsti la sua Baaria. Anche se per il film, che richiede una lunghissima post produzione, sembra più facile pronosticare un’approdo veneziano. A Cannes guardano invece e con legittime aspettative due autori italiani della generazione di mezzo: Francesca Archibugi con Una questione di cuore, e Giuseppe Piccioni con l’appena distribuito Giulia non esce la sera. Due gli outsider di lusso: Dario Argento con il suo Giallo e Michele Placido con Il grande sogno sul ’68. Una risorsa d’attesa potrebbe infine venire dalle coproduzioni: è il caso di Non girarti, diretto dalla francese Marina Devan e interpretato da Monica Bellucci, quasi interamente girato al sole della Puglia.

Corriere della Sera 6.4.09
Il ruolo dei cattivi maestri che ispirarono i terroristi
7 aprile, indagine sulla transizione
Gli articoli di Antonio Ferrari sul caso
di Sergio Romano


Come altri drammi de­gli anni Settanta anche quello del «7 aprile» è un canovaccio pieno di sospetti, illazioni e clamorosi col­pi di scena, continuamente letto e interpretato secondo gli occhia­li deformanti di coloro che cerca­rono di descriverlo. Accanto allo scontro tra il terrorismo e lo Sta­to (magistratura e forze dell’ordi­ne) vi fu allora la guerra civile del­le dichiarazioni e delle opinioni: un intruglio di sentimenti, calco­li politici e riflessi ideologici che contribuivano a rendere le vicen­de ancora più imbrogliate di quanto non fossero.
I giornalisti furono investiti di grandi responsabilità. Molti ce­dettero alla tentazione di piegare gli avvenimenti alle loro tesi. Al­tri trasformarono l’intera vicenda in un feuilleton «pieno di sangue e furore». Quando leggo i loro ar­ticoli, trent’anni dopo, ho l’im­pressione che siano ingialliti co­me la carta dei giornali su cui ven­nero stampati. Vedo a occhio nu­do l’imprecisione delle notizie, il partito preso delle ideologie, la retorica del «sensazionale». Se devo servirmene per ricostruire un avvenimento o collocare i fatti in una prospettiva storica, comin­cio dopo qualche riga a dubitare della loro credibilità. Esistono anche, per fortuna, gli articoli di coloro che stanno ai fatti e cercano di tenere a bada per quanto possibile le loro emo­zioni. Gli articoli che Antonio Fer­rari scrisse da Padova, in quei giorni, per il Corriere della Sera, appartengono a questa terza cate­goria. Vi è quel tanto di «colore» che è necessario per evocare l’am­biente e il contesto. Vi è il ritmo del dramma con i suoi numerosi, incalzanti episodi. Vi sono i per­sonaggi con le loro virtù, i loro di­fetti e i loro tic. Ma vi sono soprat­tutto i fatti, i giorni e le ore in cui sono accaduti, le parole pronun­ciate dai protagonisti, i testi es­senziali degli atti ufficiali. È que­sta la ragione per cui non sono in­vecchiati. Possono essere letti og­gi con lo stesso interesse con cui furono letti allora. Mentre i magi­strati raccoglievano le prove per i processi che si sarebbero celebra­ti nei mesi seguenti, Ferrari depo­sitava agli atti il dossier di cui gli storici avrebbero avuto bisogno per condurre le loro indagini.
Letto oggi, questo dossier con­tiene almeno tre elementi che tra­scendono le vicende della crona­ca e danno un senso più chiaro alla storia italiana di quegli anni. In primo luogo l’inchiesta del 7 aprile dimostrò che il terrorismo aveva dei cervelli e che questi cer­velli erano nelle università. An­che se gli esecutori furono spes­so persone di modesta intelligen­za, l’idea della lotta armata fu con­cepita nelle cattedre ancor più che fra i banchi degli studenti. Non penso soltanto a Toni Negri e ai suoi collaboratori. Penso an­che a quei docenti e a quegli intel­lettuali che furono testimo­ni- complici del fenomeno e forni­rono ai militanti i sofismi di cui avevano bisogno per perdonare a se stessi la violenza di cui furono colpevoli.
Come abbiamo constatato nei casi recenti di Marina Petrella e Cesare Battisti, questa irresponsa­bile civetteria dell’intelligencija esiste ancora e in qualche caso al­berga addirittura nei palazzi del potere. In secondo luogo l’inchie­sta del 7 aprile fu un passaggio decisivo nella storia della magi­stratura italiana degli ultimi de­cenni. I magistrati erano da tem­po in prima fila, sospinti dalle in­certezze e dalle divisioni con cui la classe politica stava affrontan­do i postumi del ’68 e la violenza della lotta armata. Avevano fatto istruttorie difficili e coraggiose, erano stati minacciati, rapiti, ucci­si. Uno di essi, Emilio Alessandri­ni, era stato assassinato a Milano da un commando di Prima linea poche settimane prima dell’ini­zio dell’operazione di Padova. Questi rischi, queste responsabili­tà e la notorietà che ne fu l’inevi­tabile ricaduta, hanno avuto l’ef­fetto di modificare il ruolo pub­blico dei magistrati, soprattutto inquirenti. È questo il momento in cui smettono di essere funzio­nari della legge e diventano «sal­vatori della patria». L’inchiesta del 7 aprile ebbe l’effetto di acce­lerare questa tendenza. Ma ebbe anche l’effetto di dimostrare che la magistratura non era meno di­visa di quanto fosse la società ita­liana e che era anch’essa malata di ideologia.
Gli articoli di Antonio Ferrari (raccolti nel volume 7 aprile edito dalla Cleup) sono una radiografia del palazzo di giustizia di Padova nei mesi in cui i protagonismi cominciano a indebolire l’efficacia dello strumento giudiziario. La terza constatazione concerne il Veneto. Costretto a rincorrere le indagini in alcuni paesi della provincia di Padova, Vicenza e Venezia, Ferrari rivela al lettore disattento una regione alquanto diversa da quella che ancora sopravvive nei romanzi e racconti di Guido Piovene, Goffredo Parise, Neri Pozza. La proliferazione degli insediamenti industriali ha cambiato, insieme al paesaggio, le abitudini, lo stile di vita e la cultura delle ultime generazioni. Come in altri momenti della storia politica della regione, la capitale intellettuale di questo nuovo Veneto è Padova. Ma nelle antiche aule e nelle gloriose cattedre del suo Studio vi sono malauguratamente i cattivi maestri e i cattivi discepoli. Chi vorrà fare la storia di questo nuovo Veneto nel momento della transizione dal vecchio al nuovo dovrà leggere queste pagine di Antonio Ferrari.

Corriere della Sera 6.4.09
L’analisi Le contraddizioni dei riformisti, parallele a quelle del Pci, in uno studio di Carmine Pinto
«Fattore S», la sinistra zoppa
Il massimalismo del Psi: vent’anni di incertezze fra capitalismo e Stalin
di Giovanni Belardelli


Anni fa Alberto Ronchey evo­cò un «fattore K» per defini­re l’anomalia italiana legata alla presenza di un grande partito comunista che, non potendo andare al governo in quanto legato a Mosca, per ciò stesso privava il Paese della possibilità di un’alternanza poli­tica.
Ma a leggere ora il libro che un gio­vane storico, Carmine Pinto, ha dedi­cato al socialismo italiano negli anni che vanno dal 1945 al centrosinistra — Il riformismo possibile. La grande stagione delle riforme: utopie, speran­ze, realtà (1945-1964), con una intro­duzione di Simona Colarizi, edito da Rubbettino, pp. 204, e 20 — verrebbe da dire che da noi ha anche operato un «fattore S»: l’Italia repubblicana ha avuto infatti un partito socialista che, a differenza delle socialdemocra­zie europee, a lungo concepì il riformi­smo soprattutto come una leva per at­tuare il passaggio a un sistema sociali­sta.
Carmine Pinto si concentra sui di­battiti che ebbero luogo nel partito sui temi dell’economia e di cui furono protagonisti fin da principio politici o intellettuali di notevole levatura: da Rodolfo Morandi a Riccardo Lombar­di, da Angelo Saraceno a Roberto Tre­melloni. Quelle discussioni, in cui il partito socialista del dopoguerra mo­strava la capacità di coinvolgere un’in­tera generazione di tecnici, economi­sti e riformatori di varia estrazione, erano attraversate da una contraddi­zione di fondo: si citavano il piano Be­veridge e il New Deal di Roosevelt, ma anche i piani quinquennali di Stalin. Dentro il riformismo socialista vi era insomma sia chi credeva nell’interven­to economico dello Stato per orienta­re l’iniziativa privata ed affrontare co­sì le più gravi carenze dello sviluppo economico italiano, sia chi immagina­va invece che quell’intervento dovesse assestare un «colpo al cuore» al siste­ma capitalistico.
Oltretutto, la scissione di palazzo Barberini, con la nascita del partito so­cialdemocratico di Saragat, e poi l’alle­anza frontista col Pci, accentuarono l’anticapitalismo dei socialisti, metten­do il partito, sulle questioni economi­che e non solo, a rimorchio di quello comunista (nel 1952, per dire, la dire­zione del partito di Pietro Nenni pro­muoveva a Torino un convegno su «La vita di officina nell’Urss»). In que­gli anni il Psi, in contrasto con la posi­zione delle socialdemocrazie euro­pee, divenne così un partito filosovie­tico che si considerava avversario del­la democrazia occidentale.
Il libro segue in dettaglio il «risve­glio del riformismo» verificatosi nel Psi a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, in contemporanea al faticoso distacco dai comunisti e dal­l’Urss. È un riformismo che comincia a guardare alla realtà dell’economia italiana senza filtri ideologici (nel 1958, proprio l’anno di inizio del cosid­detto «miracolo», il Pci pronostica in­vece un «aggravamento della crisi eco­nomica »). Ma è anche un riformismo che fatica a liberarsi di certe velleita­rie aspirazioni rivoluzionarie: per An­tonio Giolitti, ad esempio, le riforme dovevano inserirsi in un processo che avrebbe visto i capitalisti perdere il po­tere in favore dei vertici economici sta­tali. Anche Pietro Nenni, il dirigente certamente più pragmatico della cor­rente autonomista del Psi, non faceva che ribadire la sua ostilità al riformi­smo e la necessità di una terza via tra comunismo e socialdemocrazia.
Al principio degli anni Sessanta, or­mai alle soglie del centrosinistra, il partito socialista sembra avere final­mente acquisito una consapevolezza riformista, anche grazie al rapporto con i repubblicani e con gli ambienti intellettuali che fanno capo al Mondo e all’Espresso. Certe illusioni, per la ve­rità, non sono svanite del tutto: si par­la di «riformismo rivoluzionario», si afferma (e la cosa, letta oggi, fa davve­ro sorridere) che la creazione dell’Enel, seguita alla naziona­lizzazione dell’energia elettri­ca, avrebbe dovuto essere la prima tappa nella transizione al socialismo.
Ma non è solo da questo massimalismo verbale, così ti­pico peraltro della tradizione socialista italiana, che vengo­no gli ostacoli. A interrompe­re sul nascere la politica rifor­mista del centrosinistra è an­che un insieme di altri fattori: l’opposizione del mondo eco­nomico e della grande stam­pa di informazione (che de­nuncia il pericolo di una so­vietizzazione dell’economia italiana), le resistenze di una parte della Dc, i risultati delle elezioni del 1963 che premia­no i liberali di Malagodi, stre­nui avversari della nuova formula di governo, la dura opposizione dei co­munisti e della Cgil. Per quel che ri­guarda il Psi, a colpirne definitivamen­te la possibilità d’essere il perno di un fronte riformista intervenne la scissio­ne del Psiup: dopo due scissioni in quindici anni (la prima a destra con i socialdemocratici, la seconda a sini­stra) il partito socialista veniva infatti privato della possibilità di sfidare, con qualche possibilità di successo, l’egemonia dei comunisti entro la sini­stra italiana.

Corriere della Sera 6.4.09
Elezioni. Il Paese fanalino di coda del Continente in bilico tra Ue e influenza russa
Moldova, i più poveri d’Europa portano al trionfo i comunisti
Maggioranza assoluta per l’ultimo partito leninista
di Maria Serena Natale


Il presidente si vanta di aver costruito «uno Stato sociale leninista» e pensa di passare alla Storia come «il Deng moldavo»

Determinante nel voto di ie­ri lo zoccolo duro di dipenden­ti pubblici e pensionati. «Sono membro del partito da 45 anni — ha detto all’agenzia Reuters un settantenne di Chisinau —. Voterò comunista finché vi­vo».

La ragazza ammicca dal ma­nifesto elettorale: «Insieme per una Moldova europea». Sotto la scritta, falce e martel­lo. «Ma i giovani se ne vanno, il futuro se lo costruiscono in Russia o in Europa», dice Mikhail, 50 anni, uno dei po­chi rimasti nel villaggio di Ustia, Moldova orientale. Ieri il più povero Paese europeo ha votato per il rinnovo del Parlamento e secondo gli exit poll il Partito comunista del presidente Vladimir Voronin si è confermato prima forza politica con il 45,5% dei voti conservando gli attuali 56 seg­gi su 101. Superano la soglia di sbarramento del 6% anche Liberali (14%), Liberaldemo­cratici (14%) e Nostra Moldo­va (10%).
Con una maggioranza soli­da ma non fortissima, i comu­nisti cercheranno sostegno esterno per affrontare il primo scoglio della nuova legislatu­ra, l’elezione del nuovo presi­dente della Repubblica: per far passare il proprio candidato avrebbero bisogno di almeno cinque seggi in più ma i leader dell’opposizione hanno subito escluso la possibilità di forma­re una coalizione con un «par­tito criminale». In carica dal 2001, fiero di aver costruito «uno Stato sociale leninista» e convinto di passare alla Storia come «il Deng Xiaoping mol­davo », Voronin incarna la sta­bilità, puntellata da slogan e ri­ti che sembrano voler fermare il tempo. Uno dei primi prov­vedimenti adottati dai comuni­sti dopo la vittoria del 2001 fu il ripristino di gran parte delle statue di Lenin rimosse dopo il collasso dell’Urss e negli an­ni il presidente ha continuato a inneggiare ai «classici del marxismo-leninismo dai quali ricavare insegnamenti utili per risolvere i problemi del presente». A 67 anni Voronin non intende comunque uscire di scena e già pensa a un futu­ro da presidente del Parlamen­to o segretario del partito. La­scia al suo successore un Pae­se dipendente dal gas russo e affamato d’Europa.
Parte della Romania fino al 1940, poi Repubblica sociali­sta sovietica, infine indipen­dente dal 1991, la Moldova (di­zione preferita al calco russo «Moldavia») ha mantenuto con Mosca rapporti altalenan­ti negli ultimi otto anni. Alline­ato da principio su posizioni nettamente filo-russe, Voro­nin si è gradualmente avvici­nato a Bruxelles, assicurando­si gli aiuti Ue e inserendo il Pa­ese prima nella cornice della Politica europea di vicinato, poi nel Partenariato dell’Est che sarà lanciato il prossimo maggio. L’appoggio di Mosca resta imprescindibile per cer­care una soluzione al conflitto congelato della Transdnistria, la regione separatista a mag­gioranza russofona che si auto­proclamò indipendente nel 1990, senza ottenere il ricono­scimento internazionale, e fu teatro del sanguinoso conflit­to del 1992.
L’economia, già minata dal­l’embargo russo sulle esporta­zioni di vino e prodotti agrico­li del 2006, poi dalla siccità del 2007 e dall’aumento del prez­zo del gas, è a terra e in campa­gna elettorale l’opposizione ha accusato il governo di aver na­scosto gli effetti della crisi eco­nomico- finanziaria. Uno sti­pendio medio si aggira intor­no ai 240 euro, la corruzione dilaga, un quarto della popola­zione in età da lavoro vive al­l’estero, le rimesse degli emi­grati ammontano a un terzo del Pil (a gennaio la Banca cen­trale ha registrato un calo del 30% rispetto allo stesso mese del 2008).

Corriere della Sera 6.4.09
Crimini di guerra. Il magistrato, con una lunga carriera alle spalle: «Io stesso sono rimasto sconcertato, però accetto»
Un giudice ebreo indagherà su Gaza, choc e proteste
L’Onu dà l’incarico al sudafricano Goldstone. Perplessità tra gli arabi e gli israeliani
di Francesco Battistini


GERUSALEMME — Bella grana, professor Goldstone. «La decisione non è stata facile. Ci ho pensato giorni e notti. Notti d’insonnia...». Gli scappa di di­re: «Ci sono già elementi sul pri­ma, sul durante e sul dopo l’ope­razione Piombo Fuso...». Lo in­calzano: che cosa intende, mi­ster Goldstone? «L’interesse no­stro è di far luce su tutti, ripeto tutti, i crimini». Ci vorrà qual­che settimana, prima che si riu­nisca la commissione Onu per Gaza. Ci sono voluti pochi minu­ti, per capire che il lavoro di Ri­chard Goldstone sarà ricusato da una parte o dall’altra, ovun­que vada a parare. Letto in fili­grana. Setacciato nelle virgole. Il caso Goldstone: giudice suda­fricano, come l’hanno presenta­to i media di mezzo mondo; giu­dice ebreo, hanno subito notato i giornali arabi e israeliani. Che alla fine avrà assolto l’esercito «in quanto ebreo», o l’avrà con­dannato «perché prevenuto». Comunque una bella grana... «Ci ho pensato a lungo. Alla fi­ne, qualcuno doveva pur farlo». La domanda è brutale, un po’ imbarazzante: può un giudice come Goldstone presiedere que­sta commissione d’inchiesta? La risposta sarebbe scontata — certo che può —, specie se a por­la è il quotidiano d’un Paese no­toriamente garantista, l’Iran Daily di Teheran, che quattro anni fa pubblicava senza chie­dersi nulla gli articoli di Gold­stone sul Ruanda e ora, invece, è perplesso come altri commen­tatori mediorientali: «Non è chiaro che tipo di lavoro andrà a svolgere la commissione e quanto un ebreo sappia resiste­re a certe pressioni». Venerdì, però, è stato lo stesso Goldsto­ne a dirsi «scioccato della nomi­na, in quanto ebreo». E anche Yedioth Ahronot, giornale israe­liano, ne ha rimarcato l’origine.
Mentre il Jerusalem Post ha os­servato che il settantenne giudi­ce — un lungo curriculum di co­stituente del Sudafrica post apartheid, d’investigatore sul Kosovo e sullo scandalo Oil for food, studioso del nazismo in Argentina, autore di testi sul­l’eredità di Norimberga — è an­che «componente del comitato dei garanti dell’Università ebrai­ca ».
I diretti interessati non sem­brano porsi dubbi simili, al mo­mento. Ibrahim Kraishi, amba­sciatore palestinese all’Onu, «ac­coglie favorevolmente» la nomi­na di Goldstone. E la contrarie­tà d’Yigal Palmor, il portavoce del governo israeliano, è d’altro tipo: «A essere screditato è caso­mai il Consiglio dell’Onu, che il 12 gennaio istituì la commissio­ne e ora ha nominato i membri. Non c’è Paese democratico che abbia sostenuto quest’indagine. Non ha base morale: s’è già deci­so chi sia il colpevole e di che cosa». In effetti il mandato di Goldstone, affiancato da un’in­glese, una pakistana e un irlan­dese, è complicato: con una mo­zione su cui s’astennero 13 Pae­si (uno votò contro), l’Onu chiese d’indaga­re sulle «violazioni commesse dalla poten­za occupante d’Israele contro la popolazione palestinese». Adesso, il giudice dice che guar­derà a «tutte le violazio­ni » e alle «vittime di tutte le parti», violenze nei Territori e Qassam di Hamas compresi. Mi­ca facile: non c’è nem­meno una stima esatta e imparziale di quanti furono i morti, in quei 22 giorni. E le testimonianze rac­colte dalla stampa israeliana, che sulla «sporca guerra» ha in­tervistato molti soldati, sono contestate dall’inchiesta di Tsahal che le ha giudicate «non genuine, raccontate per sentito dire». Anche le ong sono divise: chi (Human Rights Watch) insi­ste sull’uso del fosforo bianco, chi (Stand With Us) apre blog in­nocentisti. Il giudice promette: «Ascolterò tutti». Saranno notti insonni, professor Goldstone.

Corriere della Sera 6.4.09
In Spagna
Melilla, clandestini indù ingaggiati per la processione


MADRID — Per Opara, un nigeriano 31enne arrivato a nuoto dal Marocco, sarà un modo di ringraziare chi, lassù, gliel’ha mandata buona. Per gli altri un atto di fede per farsi accettare nella terra promessa: Melilla, enclave spagnola in Africa. Qui, per la processione della Settimana Santa, sono stati reclutati dalla Confraternita di Nuestro Padre Jesus Cautivo, 34 clandestini come portatori dei troni dedicati alla Vergine del Rocio e al Gesù prigioniero. Un anno fa la statua di Maria Santissima aveva rischiato di perdersi la processione per mancanza di spalle. Poi si erano offerti gli agenti locali, tra i quali alcuni musulmani. Questa volta i portatori saranno subsahariani, prevalentemente cattolici, e 5 tra indiani, pachistani e induisti. Opara non ci vede niente di strano: «Dio è lo stesso per tutti». (eli. ros.)

Repubblica 6.4.09
Milano blindata, la destra fa il saluto romano
Con il braccio teso al convegno di Forza Nuova. La protesta di sinistra e Anpi
Nostalgici in prima fila, ammoniti dal servizio d´ordine Il leader Fiore: non li ho visti
di Sandro De Riccardis e Oriana Liso


MILANO - Una piazza e le sue vie d´accesso blindate da un migliaio di uomini tra polizia, carabinieri e vigili, camionette, elicotteri. Ingresso nella zona consentito solo ai residenti, ai giornalisti e, ovviamente, ai militanti di Forza Nuova. Che ieri, in una Milano che si è (in parte) schierata, hanno tenuto senza incidenti il loro convegno sulle tradizioni e sui poteri forti a poche centinaia di metri di distanza dal migliaio di ragazzi dell´happening culturale organizzato da comitati antagonisti e antifascisti e dalle corone in memoria dei caduti del nazifascismo deposte poche ore prima dai partigiani dell´Anpi dopo un corteo in galleria Vittorio Emanuele.
Meno di quattrocento persone i partecipanti al convegno di Forza Nuova: età media tra venti e trent´anni, arrivati in piazza Missori sugli autobus del servizio speciale dell´Atm, scortati da agenti in assetto antisommossa. A precederli, il loro leader, l´europarlamentare Roberto Fiore, salutato al suo ingresso nell´hotel sede del convegno dai "camerati" con il braccio teso, subito ammoniti dal servizio d´ordine. Saluti romani ripresi da fotografi e cameramen, anche se Fiore dice di non averli visti. L´unico sprazzo da nostalgici del Ventennio, quelle braccia tese, assieme alla presenza in sala di padre Giulio Tam, il sacerdote sospeso a divinis, candidato sindaco di Bologna per Forza Nuova, l´unico che in sala ha accennato un saluto romano. Perché ieri i militanti di Forza Nuova hanno mantenuto un profilo bassissimo: niente slogan e niente colore, tranne le solite teste rasate e gli abiti neri, per «dare spazio ai contenuti». Del resto da giorni sul forum del loro sito l´invito era quello di presentarsi «vestiti normali, con l´atteggiamento di militanti politici». Un basso profilo e una strategia da «noi siamo persone responsabili» anche nel tira e molla sui due presidi annunciati e poi annullati. Per Fiore «perché non vogliamo creare situazioni di tensione»: in realtà perché non era stata chiesta l´autorizzazione a prefettura e questura, che non l´avrebbero mai concessa nel quadro di una attenta gestione di una situazione potenzialmente molto pericolosa.
Davanti all´hotel, a convegno in corso (per inciso, i giornalisti hanno pagato 30 euro per poter ascoltare le due ore di interventi) si è materializzato il deputato Pd Emanuele Fiano, per ribadire: «Penso che il governo e il sindaco di una città Medaglia d´oro della Resistenza avrebbero dovuto prendere la parola sugli ospiti stranieri e sulle idee che hanno diffuso ed esprimere un giudizio». Al mattino Fiano, figlio del sopravvissuto ad Auschwitz Nedo, era alla cerimonia di commemorazione delle vittime del nazifascismo con il presidente nazionale dell´Anpi Tino Casali. Tre anni fa l´allora candidato sindaco Letizia Moratti partecipava al corteo del 25 aprile con il padre, deportato a Dachau. Ieri il sindaco Moratti diceva: «Per fortuna è andato tutto bene, grazie alle forze dell´ordine: era impossibile non permettere questa manifestazione, manifestare le proprie idee è garantito dalla Costituzione». Non erano d´accordo i manifestanti di piazza della Scala, ragazzi dei centri sociali, dei circoli Arci, dei partiti di sinistra, raccolti intorno allo striscione "L´antifascismo chiama, Milano accorre": lo stesso che la mattina una decina di ragazzi avevano srotolato davanti ai corridori della Stramilano. Non era d´accordo nemmeno il presidente della Provincia Filippo Penati, che però ha sottolineato che «Milano ha saputo isolare l´estrema destra, scegliendo di essere da un´altra parte». Resta solo un episodio oscuro, avvenuto sabato notte: i responsabili di un circolo Arci hanno denunciato un´aggressione da parte di alcune persone entrate nel locale scandendo minacce contro gli omosessuali.

Repubblica 6.4.09
Raffaello nella bottega del padre
Ad Urbino La rassegna sulle sue radici
di Antonio Pinelli


Giovanni era un artista preparato e trasmise al figlio un´ampiezza di orizzonti culturali
Smentito il Vasari secondo cui l´artista si allontanò presto dalla sua città
Quaranta capolavori provenienti da raccolte europee e americane

URBINO. Con questa importante mostra Raffaello torna nella sua città natale con una quarantina di capolavori, tra dipinti e disegni provenienti dalle più prestigiose raccolte europee e d´oltreoceano. Ma quel che più conta, torna per affermarvi a chiare lettere (e per così dire, documenti alla mano) che Urbino, contrariamente a quanto sostiene una tradizione storiografica dura a morire, lasciò un´impronta indelebile nella sua formazione culturale (Raffaello e Urbino, Palazzo Ducale, a cura di L. Mochi Onori, fino al 12 luglio).
Come spesso accade, tutto nasce da Vasari, fonte storiografica fondamentale per i nostri studi, ma talvolta insidiosamente fuorviante. La biografia vasariana di Raffaello infatti imbastisce per l´adolescenza dell´artista un raccontino edificante, imperniato sulla sollecitudine mostrata da suo padre Giovanni Santi, che dopo aver addestrato il figlio ancor fanciullo nella propria bottega di pittore ed averne ricevuto «grande aiuto in molte opere», sentendosi inadeguato a svilupparne a dovere il prodigioso talento, si recò a Perugia e lo affidò a Pietro Perugino, «il quale teneva in quel tempo fra i pittori il primo luogo». Come talvolta succede con Vasari, il racconto parte da alcune premesse indiscutibili: esistono opere del giovane Raffaello, come ad esempio la Crocifissione Mond, proveniente da Città di Castello, e il gonfalone con la Trinità e la Creazione di Eva, tuttora conservato nella medesima cittadina umbra, in cui il giovane urbinate mostra di aver assimilato talmente lo stile del Perugino da rendersi praticamente indistinguibile da lui. Ma da queste premesse incontestabili, Vasari fa derivare un precoce allontanamento del giovane Raffaello da Urbino e un suo alunnato a Perugia nella bottega del Perugino, che in realtà sono ben lungi dall´essere dimostrati. Anzi, facendo tesoro di intuizioni risalenti a Wittkower e a M. Grazia Ciardi Dupré, ma anche basandosi sulle recenti e clamorose scoperte documentarie compiute da Anna Falcioni e Vincenzo Mosconi negli archivi urbinati, questa rassegna, che sicuramente costituirà un punto fermo per gli studi a venire, dimostra che la prima convinzione vasariana - e cioè che Raffaello si allontanò precocemente dalla sua città - è sicuramente destituita di fondamento, mentre sulla seconda, quella del suo alunnato presso Perugino, se non si può essere altrettanto categorici, poco ci manca.
Proviamo a ricapitolare: Raffaello nasce nella primavera del 1483. Urbino in quegli anni è seconda solo a Firenze per prestigio culturale: vi hanno lavorato protagonisti della rivoluzione artistica del Quattrocento come Piero della Francesca, Francesco di Giorgio, Luciano Laurana, Paolo Uccello, grandi maestri fiamminghi. Vi si sono formati Bramante e Melozzo da Forlì e vi si coltivano ai massimi livelli la matematica, la prospettiva e l´architettura militare. Raffaello perde la madre a otto anni e il padre a undici, divenendone l´erede universale.
Più che probabile dunque che, da fanciullo prodigio, abbia ricevuto i primi rudimenti dal padre, ma è da escludere che abbia potuto davvero essergli di valido aiuto nella sua attività di pittore. Un pittore che peraltro non era affatto mediocre, ma che soprattutto era un intellettuale a tutto tondo, un artista di corte colto e aggiornato, come dimostra il suo poema in versi, con cui ci fa compiere l´intero periplo della civiltà figurativa del Quattrocento, definendo con pochi ma appropriati aggettivi ben trentotto tra pittori e scultori italiani e fiamminghi. Sono quest´ampiezza di orizzonti culturali e acutezza di giudizio le maggiori doti che egli trasmise a suo figlio, anche se la mostra non manca di farci toccare con mano, attraverso opportuni confronti tra opere, come anche sul piano tecnico e stilistico egli poté insegnare qualcosa a quel genio che gli stava crescendo accanto. Ma oltre a ciò, Giovanni lasciò al figlio una bottega assai bene avviata e condotta da un suo sperimentato collaboratore, Evangelista da Pian di Meleto. Ruota attorno a questa inoppugnabile circostanza, corroborata da una gran mole di documenti, a cominciare da quel contratto del dicembre 1500 in cui il diciassettenne Raffaello, già definito magister, s´impegna assieme ad Evangelista ad eseguire una pala per una cappella di Città di Castello, la dimostrazione che il giovane urbinate aveva ben altre opportunità e impegni che non fare il garzone a Perugia nella bottega di un artista che, peraltro, nell´ultimo scorcio del Quattrocento era più attivo a Firenze e altrove che a Perugia. La verità è che Raffaello respirò a pieni polmoni e a lungo l´aria, satura di cultura, della sua Urbino, pur spostandosi per lavoro a Città di Castello, Siena, Firenze, e, perché no, anche a Perugia. Ma da onnivoro qual era, rielaborò stimoli offertigli, in patria e altrove, da conterranei come Genga e Timoteo Viti, da Signorelli, da Pintoricchio. E, naturalmente, anche dal Perugino. Del quale, proprio perché era il più grande, volle assimilare tutto fino in fondo, per poi liquidare il suo debito nel 1504, quando dipingendo lo Sposalizio della Vergine di Brera, prese a prestito un´idea di Pietro, ma la rielaborò con una genialità tale, da rendere in un sol colpo il prototipo irrimediabilmente vecchio d´un secolo.

Repubblica 6.4.09
PARIGI.Kandinskij al Centre Pompidou. Dall' 8 aprile


Da non perdere la grande mostra dedicata a una delle figure più importanti del XX secolo, realizzata in collaborazione con la Städtische Galerie in Lenbachhaus di Monaco e il Guggenheim Museum di New York, che possiede il fondo più cospicuo di opere dell'artista. La rassegna riunisce un centinaio di dipinti, acquerelli e manoscritti, che ricostruiscono l'intero arco creativo di Kandinskij, considerato l'inventore dell'astrazione, in particolare per quanto riguarda la serie delle impressioni e improvvisazioni. Il maestro dà il suo maggiore contributo in due momenti chiave dell'arte del Novecento: il gruppo del Cavaliere azzurro a Monaco, negli anni che precedono la Guerra Mondiale, e il Bauhaus di Weimar e Dessau, periodo tra le due guerre. Il catalogo ragionato dell'opera e recenti scoperte permettono una lettura approfondita della sua pittura.

Corriere della Sera 6.4.09
Parla la scrittrice di cui Einaudi ha appena pubblicato la raccolta dei racconti: «Siamo meno fatalisti e rassegnati di un tempo»
Anita Desai
Il femminismo con il sari. Le donne salveranno l’India
di Isabella Bossi Fedrigotti


«Lavoro, soldi, istruzione: così cambierà la mia terra»
Anita Desai è nata a Nord di New Delhi nel 1937. I racconti del volume sono tradotti da Anna Nadotti (che ne ha anche curato l’edizione), Bianca Piazzese e Vincenzo Vergiani

PARIGI — Anita Desai è come ce la si aspetta: il viso dolce, affabile di indiana, dal tenue color caffelatte, però, — non per niente la mamma era una pallida te­desca di Berlino — le mani morbide, la voce giovane, da ragazza, nonostante sia ampiamente nonna, il sari naturalmente e le ciabatte infradito ai piedi malgrado questa fresca primavera parigina. Soprat­tutto, però, è quieta, sorridente e sapien­te come lasciavano immaginare i suoi ro­manzi ( Un percorso a zigzag, il più recen­te; Notte e nebbia a Bombay, il più famo­so) e i suoi racconti, pubblicati in questi giorni da Einaudi in un volume che ne raccoglie una ventina ( Tutti i racconti, pp. 374, € 15,50).
Forse la maggiore scrittrice indiana vi­vente, che divide l’anno tra New Delhi, dove sono rimasti due dei suoi quattro figli, e gli Stati Uniti, dove si sono trasfe­riti gli altri due — di cui una a sua volta scrittrice — e dove ha insegnato per die­ci anni scrittura creativa al Massachuset­ts Institute of Technology («Sì — sorride quasi ancora incredula — i fisici, i chimi­ci, i matematici, i biologi, gli astronomi del Mit sentivano il bisogno di un po’ di materie umanistiche»), è a Parigi per una lezione alla Sorbona e, perfettamen­te in linea con l’immagine che se ne ave­va, è scesa in un piccolo, modesto «due stelle» a un passo dall’Università.
Nonostante la doppia vita che condu­ce da ben quindici anni, a parte poche eccezioni, le sue storie sono sempre am­bientate in India: parlano di case e di fa­miglie, di oggetti e di ricordi, di usi anti­chi, di tradizioni ancora vive e di quelle avviate a morire che, morendo, a volte la­sciano gli uomini smarriti e insicuri. «Non per questo — dice pensierosa — voglio a tutti i costi conservare il passa­to, non rimpiango ciò che è finito né cre­do a perdute stagioni dell’oro. Il tempo non si può fermare, è un mulino che ma­cina, le tradizioni antiche devono pian piano svanire e gli uomini non possono che adattarsi continuamente a quelle nuove. In questo senso, forse, trova ra­gione d’essere la mia scrittura: può aiuta­re il lettore a non dimenticare il passato, a comprenderlo anche, per meglio com­prendere il presente. E in India, così tan­to del passato è ancora presente! Ma scri­vo dell’India anche per un motivo molto più banale: perché lì capisco tutto, tutto mi è chiaro, non devo sempre chiedere come mi succede in America». Nei sobborghi di New York dove tra­scorre molti mesi dell’anno, continua, in­fatti, a sentirsi straniera. Per come vive, per come pensa, per come mangia, per come, a volte, si veste (con il sari appun­to, di tanto in tanto) e, naturalmente, per il colore della pelle. Ma il motivo ve­ro è forse diverso e più profondo: «Pro­babilmente sta nel fatto — spiega Anita — che l’America ha poche tradizioni e quelle poche sono così 'brevi' rispetto al­le nostre». Per la ragione opposta si tro­va tanto bene in Messico, dove da tempo affitta una casa in mezzo alle montagne per scrivere in pace: come l’India è, infat­ti, un paese di antichissima storia tutto­ra presente e visibile. «C’è da dire però — aggiunge — che lì mi sento meno estranea anche perché di solito mi pren­dono per messicana».
Per un verso o per l’altro i libri e i rac­conti di Anita Desai hanno tutti una for­te impronta autobiografica: personaggi, luoghi, situazioni sono in gran parte trat­ti dalla sua realtà. E anche quei rari testi ambientati piuttosto in America riporta­no quasi sempre vicende di immigrazio­ne e di spaesamento che s’indovinano fa­cilmente viste o vissute in prima perso­na. Del resto, lo rivendica con passione: «La scrittura deve narrare prima di tutto la verità, solo la verità, deve raccontare il mondo come è. L’invenzione, la fantasia hanno ovviamente il loro ruolo, ma per me possono essere soltanto marginali».
In questo modo la scrittrice ha narra­to, romanzo dopo romanzo, la sua vita, la sua storia e quella della sua famiglia, i parenti, gli amici, i luoghi, le case e i pae­saggi, le innumerevoli partenze e gli al­trettanti ritorni. Come i personaggi di molti suoi libri Anita Desai ha uno sguar­do doppio, nel senso che è in grado di guardare due continenti con occhi di chi ci vive e di chi invece li osserva dall’ester­no. Giudica l’India e giudica l’America, entrambe tuttavia con l’indulgenza e la saggezza che le sono proprie.
«Il vero problema dell’India — spiega — è il numero sterminato dei suoi abi­tanti per cui ogni cambiamento, ogni progresso, anche sostanziale, riguarda sempre soltanto una sparutissima mino­ranza. C’è troppo poca acqua e troppo poco cibo per tutti quanti. La ricca bor­ghesia di Delhi e di Mumbai, la nuova classe di professionisti intraprendenti che fanno innalzare il Pil delle metropo­li? Cosa vuole che contino nell’immensi­tà di un paese povero e arretrato dove si combattono guerre con il pretesto della religione, della razza e dell’appartenen­za a un clan o a una classe sociale, che in realtà sono soltanto guerre di chi non ha niente contro chi ha un poco più di nien­te? ».
Ciò non toglie che la scrittrice conti­nui a confidare in un cambiamento di cui avverte alcuni segnali: il tradizionale fatalismo e la rassegnazione degli india­ni, per esempio, non sono, secondo lei, più quelli di un tempo e un po’ alla volta lasciano posto ad atteggiamenti diversi, più determinati e volitivi. E la natalità co­mincia, sia pure lentamente, a decresce­re perché le famiglie, anche le più pove­re, non più necessariamente impiegate nel lavoro dei campi, si rendono conto che otto, dieci figli non costituiscono una ricchezza bensì un peso. E stanno cambiando le donne, anche in India.
«È il lavoro femminile il lievito del cambiamento» afferma Anita pur non di­menticando che spesso rende la vita del­le donne ancora più faticosa: «Per un ver­so mette loro in mano dei soldi, il che le rende automaticamente più autonome, anche in famiglia; per l’altro, fa compren­dere loro che, per ottenere posti miglio­ri, hanno bisogno di istruzione. È questa la grande sfida che l’India deve affronta­re e, se c’è richiesta, se c’è pressione, il governo prima o poi dovrà fare qualcosa per migliorare lo standard dell’istruzio­ne femminile, tuttora assai modesto».
Personalmente, Desai è stata un’apri­pista visto che già cinquant’anni fa lei e le sue sorelle non solo sono state inco­raggiate a studiare ma anche a lavorare. Merito della mamma berlinese? «No — sorride —, merito del papà il cui chiodo fisso era che le femmine dovessero esse­re indipendenti. Nostra madre, a dire la verità, era la più tradizionalista tra i due, voleva che pensassimo a famiglia e figli. Io e le mie sorelle abbiamo accontentato entrambi i genitori».
Sulle difficoltà dell’America, sulla cri­si economica che vi infuria, sulle miglia­ia di disoccupati ridotti in miseria, sui tanti che hanno perso la casa non spen­de, per contro, molte parole: «Avevano così tanto prima — sussurra con un filo di voce, quasi si vergognasse del suo scarso spirito di solidarietà — e per il momento non hanno un’idea di cosa vo­glia dire essere davvero poveri, senza nulla da mangiare, cioè. In India, invece, tutto questo lo si conosce anche troppo bene».
Due mondi contrapposti, dunque, Oriente contro Occidente? «Non direi. Piuttosto l’Oriente che guarda all’Occi­dente nel tentativo di imitarne lo svilup­po, risultato delle sue caratteristiche for­ti come l’intraprendenza, la speranza, l’ambizione. E, dall’altra parte, l’Occiden­te che si volge indietro all’Oriente veden­do, non senza rimpianto, quel che lungo i secoli ha perduto: la spiritualità, la resi­stenza alle spietatezze della vita, la custo­dia delle tradizioni. Due culture diverse, certo, però ricordiamoci che le culture non sono un marchio di fabbrica con il quale si nasce bensì il risultato delle con­dizioni nelle quali ci si trova a vivere».

Corriere della Sera 6.4.09
Il saggio di Emilio Gentile e l’incontro alla Fondazione Corriere della Sera
La sfida politica dei futuristi: un movimento oltre il fascismo
di Dino Messina


Se la politica non fu l’aspetto centrale del Futu­rismo, certamente fu un capitolo importante non soltanto per il movimento fondato nel 1909, ma per la storia del nazionalismo modernista. Sebbene Filippo Tommaso Marinetti lo negò sempre con forza, negli scritti di Enrico Corradi­ni ma soprattutto in quelli di Mario Morasso è possibile rintracciare già dal 1903 dei precedenti alla filosofia politica e alla stessa concezione an­tropologica futurista. Non soltanto per l’afferma­zione di una politica estera espansionista, ma per mettere al centro della vita moderna la mac­china, la tecnologia, la velocità. È vero che il mo­vimento nazionalista, soprattutto secondo la con­cezione di Corradini dava un ruolo essenziale al passato glorioso di Roma e al Vaticano, mentre il Futurismo fu da subito anticlericale e antipassati­sta, ma anche un nazionalista come Morasso con­siderava il retaggio culturale e monumentale che si era accumulato nei secoli nella penisola una palla al piede per il progresso italiano. Né più né meno di quanto sostenevano i futuristi.
Sono questi soltanto alcuni iniziali spunti con­tenuti nel saggio di Emilio Gentile Futuristi in politica — «La nostra sfida alle stelle » (Laterza, pagine 148, e 15). Gentile, uno dei maggiori stori­ci del fascismo, che ha saputo sintetizzare nei suoi scritti, per l’attenzione ai documenti e agli aspetti culturali, la lezione di Renzo De Felice e di George Mosse, domani sarà con lo storico Pie­ro Melograni e con Umberto Carpi, docente di let­teratura, protagonista del terzo e conclusivo in­contro dedicato al Futurismo dalla Fondazione Corriere della Sera (Milano, via Balzan 3, ore 18). Si parlerà appunto dei rapporti del movimento marinettiano con la politica e la società. Sebbene gli orientamenti politici del Futuri­smo, soprattutto in politica estera, si vennero de­lineando sin dai primi anni di vita del movimen­to (chi non ricorda lo slogan «marciare e non marcire» che fu coniato dai futuristi nel 1915 in occasione dell’intervento in guerra e non succes­sivamente dai fascisti?), un vero Partito politico futurista nacque soltanto nel febbraio 1918 per iniziativa del trio composto da Marinetti, Emilio Settimelli e Mario Carli, fondatore dell’Associa­zione degli arditi e massimo animatore durante la breve parabola del partito, la cui breve storia, conclusasi alla fine del 1920, si incrociò con l’im­presa fiumana di Gabrie­le D’Annunzio e con i Fa­sci di combattimento fon­dati da Mussolini. Molti futuristi furono dirigenti del fascismo primissima maniera ma non si identi­ficarono mai con esso, per diversi motivi, non ul­timo il contrasto tra l’idea­lismo visionario marinettiano e l’opportunismo politico mussoliniano.
A leggere il libro di Gentile si scoprono molte similitudini tra futurismo politico e fascismo, persino un’identificazione iniziale, dovuta alla comune origine combattentistica, ma mai una to­tale assimilazione, perché il futurismo nacque come movimento libertario, democratico, goffa­mente femminista. E soprattutto, dopo le prime scottanti delusioni, si riscoprì essenzialmente movimento artistico.

Liberazione 5.4.09
Mario Tronti esponente storico dell'operaismo, dirigente del Pci
«Proteste anti-G20 manca la politica»
intervista di Tonino Bucci


Sarà anche rituale, sarà anche l'ennesima speranza di vedere muoversi qualcosa nei conflitti sociali, ma è a ogni modo d'obbligo chiedersi che tipo di movimento sia quello che s'è visto a Londra contro il G20 - e che si è replicato ieri a Strasburgo contro la Nato. Se ne sono dette già tante. Le televisioni e i giornali l'hanno descritto come una protesta nata dall'impatto della crisi economica mondiale. Al suo interno non si vedono i classici soggetti organizzati del movimento operaio. La domanda allora è: ma un movimento che agisce fuori dalla sfera tradizionale della rappresentanza - per intendersi, senza legami con partiti e sindacati - è automaticamente un movimento fuori della politica o, più semplicemente, fa politica in altro modo? Insomma, sono ingenerose le critiche di chi rinfaccia a quel movimento di non sapere andare oltre la rabbia, la disperazione, il gesto simbolico. Lo chiediamo a Mario Tronti.
Che tipo di movimento è quello che s'è visto a Londra contro il G20?
Forse è utile fare un raffronto fra quel movimento e la piazza di oggi della Cgil. Qui abbiamo qualcosa di preciso. Abbiamo un mondo del lavoro abbastanza esteso in orizzontale che si ritrova in una mobilitazione organizzata da un grande sindacato. Stiamo nella tradizione, come dire? Anche se ci sono molte novità, a partire dalla presenza di migranti e di un pubblico giovanile. Il mondo del lavoro c'è ed è protagonista o, perlomeno, ha la volontà di esserlo ancora nella storia italiana. E poi c'è l'impatto della crisi. Sull'onda delle misure più o meno efficaci che mettono in campo gli Stati europei, gli Usa e altri paesi del mondo nel G20 risorge un conflitto. E questo mi pare consolante. Negli altri paesi le manifestazioni che abbiamo visto in questi giorni sono molto diverse da questa di oggi. Qui c'è ancora una forza organizzata che entra in campo, lì sono forze di movimento. Sarà che i paesi anglosassoni sono più esposti alla crisi, fatto sta che lì il movimento è di altro tipo. Non mi sembra neppure il movimento no-global. E' diverso.
Il movimento noglobal aveva le sue strutture, una rete di relazioni che ne assicurava in qualche modo una continuità al di là del calendario degli eventi della protesta. A Londra è sceso un movimento molto interessato alla potenza delle immagini, all'azione, al gesto simbolico. C'è persino il ritorno di suggestioni luddiste. Qualcuno ne approfitta per parlare di terrorismo e criminalizzare la protesta. Non vale la pena parlarne. Il problema è un altro. Ci si può accontentare di spaccare la vetrina di una banca o c'è invece un problema di direzione politica?
C'è qualche tratto anarchico. Il problema della forma politica da dare alla protesta sociale è un problema generale che riguarda anche noi - ma di questo possiamo accennare più avanti. Ma qui esplode in modo più clamoroso. Non solo non pensano alla forma politica, ma la rifiutano e la rifiuterebbero anche nel caso in cui dovesse emergere. E' un movimento d'altro tipo per il quale, certo, conta molto il gesto simbolico. Ma ho l'impressione che il gesto simbolico sia a sua volta suggerito da una lettura della crisi che non è esatta, almeno secondo il mio parere. Io credo che oggi bisognerebbe fare un minimo di chiarimento analitico della crisi. Questa idea che tutta la colpa è della finanziarizzazione, di una faccia del capitale, non corrisponde a verità. Le banche diventano l'avversario da criminalizzare, però così si passano sotto silenzio altre responsabilità che mi paiono altrettanto forti se non maggiori. La fase neoliberista non l'hanno voluta i finanzieri, semmai l'hanno utilizzata per i loro interessi. E' stata una scelta di sistema fatta dal capitalismo contemporaneo nel suo complesso. Anche il capitalismo reale, a un certo punto, ha fatto la scelta della finanza. Non è che la colpa sia tutta dei banchieri come vogliono far credere questi imprenditori vergini che recitano la parte delle vittime. I buoni contro i cattivi, quelli dalla parte dei lavoratori e quelli che speculano: questa è una trappola nella quale non dobbiamo cadere. Per questo è importante l'analisi della crisi attuale.
E' una crisi di sistema, insomma. Salari bassi, da un lato, e finanziarizzazione dell'economia, dall'altro. Se non c'è un'analisi lucida si rischia di sbagliare obiettivi nella lotta politica. O no?
La protesta s'indirizza verso falsi obiettivi. Il lavoro proprio perché è stato penalizzato nella fase precedente della globalizzazione neoliberista, è stato utilizzato solo per renderlo più flessibile e precario. Non gli è stato dato quello che gli spettava. La crisi è venuta da questo, dal fatto che i redditi da lavoro non potevano sostenere la crescita dei consumi. E' stato troppo penalizzato. Lo squilibrio tra reddito da lavoro e reddito da capitale è stato eccessivo persino per il capitale. Hanno esagerato nel penalizzare il reddito da lavoro. Non a caso questa appare anche come una crisi di sovrapproduzione e di basso consumo. La contraddizione sociale ha giocato nell'apertura della crisi. Perciò è importante rimettere in campo la forza del lavoro, farla vedere, mostrare che non è smobilitato.
E' un'operazione difficile su due fronti. Primo, su quello culturale. Per decenni ci hanno detto che il lavoro non era più centrale, che le identità individuali e collettive si strutturavano piuttosto sugli stili di consumo. ma c'è anche la questione politica. Proprio quando la crisi economica del capitale è al punto più basso, la nostra capacità politica di organizzare il lavoro è al punto più basso. Da dove cominciamo?
Oggi a vedere quel mare di persone singole che facevano massa - un tempo le chiamavamo masse lavoratrici - c'era motivo di soddisfazione, ma anche un tratto di sconforto. Questa gente meriterebbe molto più di quello che le diamo come rappresentanza, come cultura, come organizzazione. C'è uno squilibrio. Se uno dicesse queste masse lavoratrici non ci sono più, allora sì, uno comincerebbe a fare davvero un altro discorso, quello che fa - per intenderci - la sinistra moderata. Ma qui il problema è che le masse lavoratrici ci sono e a esse non corrisponde non solo un'immagine, ma neppure una direzione politica. Dobbiamo ringraziare la Cgil che rimane l'unica forza in grado ancora di organizzare un'uscita in campo di queto genere, sapendo però che c'è il limite della rappresentanza sindacale. Oltre un certo livello non può andare, anche volendolo. Anche quando si fa soggetto politico, a un certo punto si deve fare perché ha solo una funzione di difesa dei lavoratori. Invece qui ci vuole un'espressione di attacco. Se solo si potesse scagliare questa massa contro qualcosa... Anche nelle parole d'ordine sindacali c'è molta resistenza più che aggressività contro un obiettivo. Un avversario in crisi meriterebbe d'essere giudicato dal basso della società. Non basta dire che non pagheremo la vostra crisi. Le crisi sono provocate anche nell'interesse del capitale, sono strumenti di ristrutturazione, di distruzione creatrice. Quello che non vedo ancora sono una direzione politica del movimento e un'individuazione dell'avversario vero.
Il sindacato non può farlo. Nel migliore dei casi si ferma all'antagonismo economico. Manca la direzione politica, no?
Bisognerebbe far riemergere il lavoro come qualcosa che è stato oscurato negli ultimi decenni. Il lavoro quasi non esiste più, non solo come soggetto politico, ma anche come presenza sociale. Sembra che questo è un sistema che si regge senza lavoro. Bisogna far riemergere che questo sistema si regge perché c'è lavoro e che, magari, entra in crisi perché questo lavoro è stato sottopagato, sottovalutato. C'è da fare un grande discorso politico. Bisogna dare al lavoro una definizione politica. Dopo le lotte di classe novecentesche la struttura in classi molto rigide della società, ammettendo anche che la classe operaia ha perso un po' di soggettività, però non è un fatto del tutto negativo. Il lavoro si è esteso orizzontalmente ed è una presenza meno parziale di quanto non fosse il soggetto operaio d'una volta. E' però un soggetto più globale, più collettivo, meno parziale. La classe operaia, in fondo, aveva una sua parzialità che non riusciva a farsi popolo. Invece oggi nella sua declinazione contemporanea, nella sua articolazione, anche nella sua frammentazione, prende tutti. Il lavoro fisso, il lavoro precario, il lavoro autonomo. In fondo, quasi tutti lavorano e sono lavoratori. E questo permette di fare popolo, un popolo lavoratore.
Forse il lavoro contemporaneo avrà perso in concentrazione, sarà più disgregato. Però ne ha guadagnato in estensione, no?
Sì. Perciò la forma dell'organizzazione politica dovrebbe avere questo problema di come si fa a spendere l'organizzazione su questo terreno più vasto, meno concentrato ma più esteso. Qui bisogna inventarsi forme nuove di organizzazione.
Il paradosso è che per tanto tempo i politici hanno fatto a gara nel dire che il lavoro era finito. Oggi invece scopriamo che il lavoro non è affatto finito e che a essere finita, invece, è la politica. Non è così?
Questa è la grande contraddizione, non c'è dubbio. Il lavoro non fa più politica non perché non esista più il lavoro, ma perché non c'è quasi più la politica. Anzi, c'è il contrario, c'è l'antipolitica che a volte contagia anche molti strati di lavoratori. Quando non la trovi, la politica, la colpisci. Oppure la trovi nel modo distorto in cui la si trova oggi, in ceti politici chiusi, indifferenti, autoreferenziali, incapaci di guardare il mondo così com'è.
Quando non c'è la politica si finisce per cedere alla disperazione e allora ognuno reagisce come meglio può. Chi sequestra un manager, chi assalta la banca... Non è per guardare le proteste dall'alto verso il basso, nessuno se lo può permettere. Il problema è che non c'è la politica...
Quelle cose avvengono proprio perché non c'è altro, riempiono un vuoto. Quando invece scende in campo il mondo del lavoro ha tutta la sua riconoscibilità, la sua visibilità. Però c'è un discorso da fare. La grandiosa manifestazione del 2002 sull'articolo 18 organizzata dalla Cgil di Cofferati fu un punto alto della mobilitazione. Dopo di allora ci fu una rapida discesa. Bisognerebbe oggi evitare il ripetersi di quella sequenza. La spinta che è venuta dalla piazza andrebbe coltivata. Bisogna riaprire un conflitto, certo, senza sprecare le forze e andare incontro a immediate sconfitte. Ma il problema di come fare, dopo queste grandi manifestazioni, di non scendere e di mantenersi a quel livello.
E' un appello alla sinistra antagonista?
Si deve fare soggetto di questa spinta, concentrare le forze, non mettere tutto sullo stesso piano. Penso che il tema del lavoro, per una sinistra politica, non sia un pezzo di programma che sta assieme ad altri pezzi. Il lavoro è una discriminante. O gli dai una centralità e intorno organizzi le altre contraddizioni che ci sono oppure non riesci a farti capire perché appiattisci tutto quanto e finisci nel discorso della sinistra del lavoro ma anche di genere ma anche ambientalista e via di seguito. Metti insieme diritti, tutele, laicità... Il problema è che ci vuole un centro sennò non c'è forma organizzata e finisci nel paramovimentismo.

Liberazione 5.4.09
Statalismo, egemonia, rivoluzione passiva. Una polemica con Rossanda
Marx reale e Marx virtuale
di Luigi Cavallaro


Benché la fonte sia indicata in Das Kapital , 1867, si tratta di un apocrifo. Se n'è subito accorto Massimo Muchetti, che ne ha dato notizia sul Corriere della Sera del 22 marzo scorso: digitandone uno spezzone in inglese su Google non si trova nessun riferimento alle opere marxiane, ma solo infinite citazioni della "citazione". E se Muchetti avesse letto un lungo articolo di Rossana Rossanda, apparso sul manifesto alcuni giorni prima, ne avrebbe avuto conferma senza nemmeno scomodare il motore di ricerca.
Sotto il titolo "Ma quale Marx", Rossanda aveva infatti severamente rimproverato quanti pretenderebbero di rivedere il suo spettro aggirarsi fra le nazionalizzazioni di banche e imprese varate negli Usa e in Europa in questi ultimi mesi: prima di tutto, perché Marx «non è mai stato un fautore dello stato, del quale anzi prevedeva a termine l'estinzione»; in secondo luogo, perché la nazionalizzazione delle banche «non sarebbe affatto socialismo ma sì e no una misura keynesiana». Del resto, concludeva Rossanda, «chi sproloquia su Marx si dimentica spesso e volentieri che tutta la sua analisi riposa sul fatto, intollerabile per un nipotino della rivoluzione francese, che il modo capitalistico di produzione elude l'uguaglianza in diritti che sarebbe propria di ogni essere umano, perché si fonda al contrario sull'inuguaglianza fra chi possiede i mezzi di produzione e chi non possiede altro che la propria forza di lavoro». E dal momento che la degenerazione burocratica del "socialismo realizzato" ha mostrato che quell'ineguaglianza si ripropone tale e quale quando il possesso dei mezzi di produzione venga attribuito allo stato (più precisamente, a quel grigio succedaneo della classe borghese che è la "classe politica"), a che pro tirare in ballo "Old Moor", il vecchio Moro con la barba?
Rossanda, naturalmente, ha ragione: con le nazionalizzazioni Marx non c'entra affatto. O meglio, non c'entra affatto quel Marx che la generazione di Rossanda e quella che più direttamente fu protagonista del Sessantotto credette di scoprire tra gli anni '50 e '60 dello scorso secolo: un Marx che - si disse - aveva consacrato nel «Capitale» una teoria "etica", mero complemento analitico dell'umanesimo filosofico delle sue opere giovanili. E che a quell'umanesimo "integrale" era rimasto sempre fedele, pur dissimulandolo dietro la dialettica delle forze produttive e dei rapporti di produzione, al punto che il plusvalore altro non era se non il prodotto dell'alienazione operaia e lato sensu umana.
Non c'è dubbio: non poteva essere stato "questo" Marx a ispirare il Lenin che, alla vigilia dell'Ottobre, proclamava che «parlare della "regolamentazione dell'attività economica" ed eludere il problema della nazionalizzazione delle banche significa ingannare il "popolino" con parole pompose e promesse magniloquenti che si è deciso anticipatamente di non mantenere». Meno ancora quel Lenin che scriveva (evidentemente vaneggiando) che il capitalismo monopolistico di stato «è quel gradino della scala storica che nessun gradino intermedio separa dal gradino chiamato socialismo», dovendosi solo fare in modo che lo stato diriga l'economia non nell'interesse dei rentiers e dei capitalisti, ma «al servizio di tutto il popolo». E' vero che nel "Manifesto del partito comunista" si auspicavano espressamente nazionalizzazioni, imposte progressive e «accentramento del credito in mano dello stato», ma doveva essere stata colpa dell'influenza di Engels: lo stesso che aveva poi colpevolmente rimaneggiato gli appunti incompiuti di Marx fino a trarne quel confusissimo "terzo libro" del "Capitale", nel quale si legge addirittura che il credito «costituisce la forma di transizione verso un nuovo sistema di produzione».
Rossanda non dovrebbe sottovalutarsi: se negli ultimi trent'anni è stata smantellata ogni forma e pretesa di direzione pubblica dell'economia è stato anche in grazia della lettura che di Marx diedero quelle generazioni. Le quali, divenute adulte e responsabili, hanno dismesso l'eskimo, gettato via i sampietrini e si sono date appunto a "estinguere" lo stato a mezzo di privatizzazioni di banche e industrie, giungendo perfino a togliergli l'antichissimo potere di battere moneta per attribuirlo ad una banca centrale indipendente e autonoma da ogni interferenza politica, com'è la Banca centrale europea. Non per caso: già dai «Grundrisse» (1858), Marx aveva avvertito che se si fosse tolto il potere alle cose sulle persone, bisognava attribuirlo alle persone sulle persone. «Meglio alle cose», devono aver pensato tutti, foss'anche quella "cosa" che sta per simbolo di tutte le cose: il denaro.
Si spiega così che, riunitesi recentemente a Santiago del Cile sotto gli auspici del "Policy Network" (un think tank di marca laburista), le sinistre riformiste europee e americane abbiano convenuto - pur con qualche distinguo - sulla necessità di evitare che la crisi possa dar fiato a nuove pulsioni "stataliste": non si proceda a redistribuzioni a colpi di imposte progressive sui ricchi, l'intervento dello stato sia limitato ad una regolazione funzionale a suscitare e temperare la concorrenza e il sostegno finanziario pubblico, pur necessario in tempi di crisi, sia contenuto nel tempo e accompagnato da riforme incisive ancorché impopolari delle pensioni. E sempre così si giustifica l'entusiasmo che ha accompagnato l'annuncio dei risultati del G-20: una pioggia di miliardi pubblici per far ripartire il mercato finanziario su scala mondiale, con la vigilanza affidata al Fondo Monetario Internazionale e la regolamentazione al "Financial Stability Forum". Il tutto mentre a New York la Borsa brindava al varo della deregolamentazione nella stima dei toxic assets , a conferma che le liste nere e grigie dei "paradisi fiscali" minacciate da Londra servono solo a reindirizzare i flussi del capitale finanziario verso la Gerusalemme Celeste di Wall Street.
Non se l'abbiano a male i manifestanti di Londra o di Strasburgo: è tempo sprecato marciare e protestare contro queste assise. Non sono che rituali per indurre i popoli a credere che la "globalizzazione" ha un governo, mentre non ne ha alcuno; la loro impotenza reale certifica piuttosto che l'unico potere pubblico che i mercati finanziari sono disposti a tollerare è quello virtuale. Oggi al potere non c'è che l'immaginario, e il Marx caro a Rossanda - quello dell'uguaglianza dei diritti dell'uomo - è impotente tanto quanto lo era il suo maestro Feuerbach.
E' possibile che il ricorso dei banchieri all'apocrifo sia dovuto a un reale bisogno d'antagonismo, visto che quello che s'accontenta di dar la caccia ai manager superpagati, quando non favoleggia di "decrescite conviviali", non è meno virtuale del potere che pretende di combattere. In realtà, non sarebbe difficile eccepire che «la crisi non è soltanto economica, ma entra in altri domini e influenza le strutture sociali e le tensioni geopolitiche». Nemmeno che affidare la regolamentazione della finanza ai «ragazzi del Financial Stability Forum» equivale a «mettere i topi a guardia del formaggio». E neanche notare che il testo varato al G-20 «parla di iniezioni di liquidità e altre cose fumose», ma «è reticente sugli aiuti di stato» e «non contiene la realtà delle nazionalizzazioni che sono state fatte e che si faranno in futuro», omettendo quindi «il passaggio più significativo». Ma queste cose, qui da noi, le dice ormai solo Tremonti. Il che lascia presagire che, se davvero la crisi sposterà il pendolo in direzione dello stato, andremo incontro - come ottant'anni fa - ad un'altra rivoluzione passiva.

Liberazione 3.4.09
Carlo Flamigni: «Demolito l'impianto della norma. L'embrione non è più persona»
intervista di Laura Eduati


La Corte costituzionale cancella parti fondamentali della legge 40 come il limite dei tre embrioni, l'obbligo di impianto e il divieto di crioconservazione. «Quello che davvero importa è l'abrogazione dell'impianto della legge» sostiene il ginecologo Carlo Flamigni, docente di Ostetricia e Ginecologia all'università di Bologna e membro del Comitato nazionale di bioetica: «Finalmente viene data la priorità alla salute della donna sull'embrione che questa normativa equiparava alla persona umana».
Esperto di fertilità e procreazione artificiale, Flamigni ha sempre lottato per l'abolizione della legge 40. «Roccella pensa di emanare delle linee guida ma non sa che queste non possono ripristinare i punti aboliti dalla Consulta». E dunque via libera per i medici e soprattutto per le coppie: «Nasceranno forse nuovi contenziosi, ma ora possiamo produrre più embrioni e impiantarli quando la donna lo desidera».
Professor Flamigni, che cosa cambia davvero con l'abolizione del limite di tre embrioni?
Questo limite aveva prodotto dei problemi differenti a seconda delle classi di età: alle donne maggiori di 36 anni produceva minori successi e dunque un numero minore di gravidanze, mentre alle donne giovani aumentava il rischio delle gravidanze plurime, con una crescita del 4%. Dunque provocava danni alla salute materna. Senza contare che dalla promulgazione della legge 40 sono diminuiti complessivamente i cicli andati a buon fine del 3-3, 5% e cioè abbiamo registrato una diminuzione del 12-15% delle gravidanze calcolate sul numero di cicli ormonali. I signori del ministero sono dei mentitori quando dicono che, invece, sono cresciute le gravidanze: questo accade perché sempre più coppie si affidano alla fecondazione assistita. Non bisogna paragonarsi con il passato ma con il resto dell'Europa e con gli Stati Uniti dove i successi sono molto più elevati, noi con questa legge scontavamo un ritardo unico in Occidente.
Ha ragione chi sostiene che la Consulta ha abolito l'impianto della legge 40?
Sì. Il fondamento della legge era la protezione dell'embrione come persona, un embrione-uomo con i medesimi diritti della donna. La Corte Costituzionale ora ha stabilito che prevale l'interesse per la salute materna, una sentenza molto simile a quella che alla fine degli anni '70 aveva stabilito la priorità della salute della donna su quello del feto.
Inoltre sarà finalmente possibile la crioconservazione degli embrioni.
Finora la donna doveva accettare forzatamente l'impianto degli embrioni, in quanto il suo consenso non poteva essere revocabile almeno per legge. Oggi, invece, una donna può avere molti embrioni e decidere quando impiantarli, senza sottoporsi forzatamente a più cicli, di conseguenza il medico potrà congelarli.
Però consiglia alle coppie che si rivolgono ai centri di fecondazione assistita di portare un avvocato. Potrebbero sorgere dei problemi di natura legale?
So che ora i centri non sanno come comportarsi, ma è semplice: i medici possono produrre un numero maggiore di embrioni e, nel caso, congelarli in attesa dell'impianto.
I ginecologi della Hera di Catania, da tempo impegnati contro la legge 40, annunciano che grazie alla sentenza della Consulta potranno finalmente fare la diagnosi pre-impianto formalmente vietata dalla stessa legge. Che ne pensa?
Esistono delle sentenze della magistratura ordinaria che bocciarono il divieto alla diagnosi pre-impianto. A mio parere questa diagnosi può essere fatta, ma sono certo che nasceranno nuovi contenziosi su questo punto.
La sottogretaria al Welfare con delega alle questioni di bioetica, Eugenia Roccella, afferma che il Parlamento non cambierà la legge 40 e il ministero aggiornerà soltanto le linee guida.
Roccella dice una cosa sciocca. Le linee guida sono norme secondarie e non possono smentire la legge così come è stata definitivamente cambiata dalla sentenza della Consulta.
Ci sono voluti quattro anni per arrivare alla sconfessione della normativa sulla fecondazione assistita, cosa accadrà ora?
Se il Parlamento deciderà di lasciare invariata la legge, avremo un periodo di assestamento nel quale ogni medico deciderà quanti embrioni produrre e impiantare, conservando i rimanenti. Chi piange su questo accumulo di embrioni inutilizzati dovrebbe suggerire una mediazione e ricordo che quando la legge passò, blindata, qualcuno da fuori cercava un compromesso che poi non ci fu. Ho profonda simpatia per il mondo cattolico e so che la base è sempre migliore del vertice.

Liberazione 2.4.09
Da oggi a sabato un convegno a Torino, "Soggetto e norme. Individuo, religioni, spazio pubblico"
L'uso di Dio in politica. è finita la modernità?
di Tonino Bucci


Le religioni sono diventate una presenza nella politica. La vecchia distinzione sulla quale si è retta la modernità - che assegnava alla religione la sfera privata del credente e allo Stato quella pubblica - è saltata. Ma questo provoca un cortocircuito della democrazia laica. Si può davvero conciliare la libertà dell'individuo con l'aspirazione delle religioni di adeguare la società contemporanea al proprio modello assoluto? E qual è il ruolo delle religioni nel mondo globalizzato dove i fondamentalismi si trovano a rappresentare nella percezione pubblica le uniche visioni antagoniste al potere del denaro? Saranno questi i temi al centro del convegno "Soggetto e norme. Individuo, religioni, spazio pubblico" che si apre a Torino, da oggi fino a sabato (al circolo dei lettori di via Bogino 9, sabato a Villa Gualino, viale Settimio Severo 63). Ne parleranno filosofi, teologi e politici, da Salvatore Natoli a Rosy Bindi, Da Stefano Rodotà a Piero Coda.
Il primo intervento sarà quello di Ugo Perone, presidente dell'associazione italiana per gli studi di filosofia e teologia (Aisfet), oltre che membro del comitato di direzione della rivista Filosofia e teologia - i due enti promotori del convegno. Si è rotta la convivenza delle religioni con la modernità, intesa come progressiva conquista di autonomia da parte dell'individuo? «Questa divaricazione tra modernità e religione non può essere composta, nel senso che non si può fare come se con la secolarizzazione non fosse successo niente oppure sperare in una riconciliazione in sé e per sé tra modernità e religione. Questo però non vuol dire che ci debba essere una lotta senza confini tra le due o che una debba prevalere sull'altra. La mia impressione, a dirla tutta, è che stiano tramontando l'uno e l'altro modello sociale: sia il modello premoderno delle religioni che volevano essere orientamento di tutta la società, sia il modello della modernità che mette al centro la pura individualità e la sua autonomia». Ma può la convivenza sociale fare a meno del principio di autodeterminazione della coscienza? «In effetti sul piano della modernità non è possibile abbandonare il riferimento alla coscienza, all'individualità e all'autonomia. Va salvaguardato in ogni caso. Ma ciò non significa che da questo principio si possano far discendere tutti gli altri principi. E' il problema del rapporto tra soggetto e norma . L'autonomia e la libertà del soggetto vanno protette, ma è vero anche che le norme fondamentali non possono mai essere oggetto di una normazione puramente giuridica. Ci sono degli assoluti che si sottraggono alla nostra disponibilità come si sottrae alla nostra disponibilità il principio di coscienza. Bisognerebbe andare oltre la modernità e oltre la religione teocratica».
Il principio dell'autodeterminazione del soggetto è stata la rivoluzione filosofica che ha fondato la modernità. Almeno da Kant in poi la filosofia non ha più concepito che si potessero fondare i principi ultimi per via metafisica o trascendente. Tutto doveva passare al vaglio di una coscienza capace autonomamente di dare a se stessa le leggi della conoscenza e della morale. Oggi però rischia di accendersi di nuovo il conflitto. Quale margine di autonomia resta alla coscienza se prevale la tendenza delle religioni a imporre a tutte/i norme assolute che per definizione non ammettono negoziazioni e mediazioni? «Non si può retrocedere dal principio dell'autodeterminazione. E' un fatto culturale da cui ormai non possiamo prescindere. Se siamo diventati adulti non possiamo ritornare bambini. Però l'essere tutti adulti, tutti autodeterminati, tutti dotati di libertà di coscienza ci obbliga a costruire una società nella quale convivere tutti assieme. E' un percorso difficile perché ognuno rivendica a sé il diritto ad essere l'arbitro ultimo». Come si fa a imporre l'osservanza a norme assolute, non negoziabili, a una società nella quale gli individui fanno riferimento a modelli culturali tra loro diversi? Non è forse questo il conflitto insanabile che si crea quando la Chiesa cattolica interviene nello spazio pubblico e spinge perché lo Stato legiferi sulle questioni bioetiche - sulla vita, sulla morte, sul testamento biologico, sulla riproduzione - in accordo con i propri principi? «Attenzione, la vita va considerata un valore indisponibile ma non sempre l'interpretazione che ne danno le gerarchie cattoliche corrisponde a quella di un valore assoluto. La vita non si riduce alla vita come mero biologismo. Altrimenti si genera questa contraddizione per cui l'assoluto della vita si manifesta nella sua biologicità pura e semplice». Un assoluto mondano, troppo mondano che rischia di indebolire, se non degradare, la stessa concezione del divino, piegandola alla politica e agli interessi delle gerarchie ecclesiastiche. Un vero cortocircuito dal punto di vista teologico. «E' un errore confondere il divino con la norma, con le leggi dello spazio pubblico», spiega Sergio Rostagno, già docente di teologia dogmatica alla facoltà valdese di teologia di Roma, ospite anche lui oggi alla prima giornata del convegno per coordinare la sessione "prospettive teologiche tra individualità e collettività". «Questa confusione agisce soprattutto in Italia dove c'è una situazione religiosa speciale. Forse anche nell'Islam. Ma non mi sembra che accada nel buddismo o nella religione giapponese o cinese».
Epperò è proprio questa "mondanità" la forza della Chiesa cattolica che le ha permesso di uscire dalla sfera privata e occupare lo spazio pubblico. Non sarà forse molto coerente dal punto di vista teologico, ma nella sfera politica la mondanità dà i suoi frutti, eccome. «Il problema - torniamo a Ugo Perone - è che abbiamo avuto della politica una visione proceduralistica. Abbiamo inteso lo spazio pubblico come una sorta di arena dove ciascuno cerca di far valere i propri interessi al momento della scrittura delle regole comuni». Lo Stato liberaldemocratico finisce per assomigliare all'amministrazione di un condominio che deve muoversi nel conflitto di interessi tra individui (proprietari). «Questa concezione laica di spazio pubblico presuppone che la disponibilità di ciascuno a partecipare all'amministrazione del condominio dipenda dalla misura in cui esso soddisfa i suoi interessi. In questo spazio è consentito a ognuno di coltivare il suo orticello, ma manca una visione del bene comune. Può garantire interessi minimi per i quali però non vale la pena di spendere la vita. Da questo è dipeso il disamoramento per la politica». La religione, qui, ha dimostrato d'essere meglio attrezzata, di muovere le passioni meglio di quanto non abbia saputo fare quella concezione condominiale della politica? «Se faccio la carità promuovo nel mondo il regno di Dio. In ciascuno dei miei gesti concreti vedo crescere l'anticipazione di ciò a cui, nella mia fede, tendo. La religione ha mostrato la capacità di dare un contenuto allo spazio pubblico, di non farne un condominio. Può essere uno stimolo a ripensare lo spazio pubblico della nostra convivenza. Non ci può essere nulla di buono per me che non sia contemporaneamente almeno un po' buono anche per tutti e viceversa. Questa è la sfida per la politica oggi. Trasformare la vita sociale in una convivenza, in un progetto comune. A condizione di non opprimere la libertà individuale, altrimenti l'assoluto, i grandi ideali, i progetti di liberazione dell'uomo si trasformano in dittature».
Religione e modernità non stanno invece in contraddizione necessaria secondo Sergio Rostagno.
«Democrazia e religione possono convivere. Non sempre però la convinzione religiosa deve essere vissuta in maniera dogmatica. Può benissimo andare d'accordo con una cultura democratica. Obama è un credente, ad esempio. Eppure non ci sono fondamentalismi nella sua politica. Ce lo spiegherà domani (oggi per chi legge, ndr) Olivier Abel, un filosofo che viene dalla facoltà teologica protestante di Parigi». C'è anche una lettura "religiosa" della globalizzazione nella quale le religioni diventano lo strumento critico del dominio dell'occidente. «Esiste anche questa contrapposizione tra i popoli occidentali pieni di illuminismo e di sussiego e gli altri popoli che non vogliono essere sudditi di nessuno e si servono per questo anche della religione.Come dargli torto»?
Ma perché nella Chiesa cattolica è mancato l'antidoto alla strumentalizzazione della religione nello spazio pubblico? «Per una mancanza di distinzione tra teologia ed etica, tra fede e comportamento. Ma non necessariamente la presenza religiosa è un'invasione. Anche i credenti hanno dato un contributo alle costituzioni democratiche». Ma qual è allora il confine oltre il quale l'impegno della religione nella sfera pubblica degrada il divino a strumento di lotta politica? Qual è il limite oltre il quale la pratica contraddice la fede? «E' quello che i valdesi contestano da sempre alla Chiesa cattolica. Ancora oggi sopravvive qualcosa della vecchia concezione del Papato che si riteneva depositario dell'unica verità e cercava d'imporla a tutti. Questo modo di agire ha come avversario lo Stato. Finché non si riesce a sottometterlo non si è contenti. Il cattolicesimo aveva superato questa idea, eppure risorge sempre». Sta qui, insomma, nella confusione tra potere temporale e potere spirituale l'eterno rischio per la religione cattolica: il degradamento dell'ideale stesso di Dio. «E questa è la vecchia idea di rendere immanente la fede, di concretizzarla in tutti i modi possibili. Magari chiedendo soldi allo Stato».

Liberazione 2.4.09
Un prelato e sua figlia. Una storia di António Cabral nel Portogallo del 1917
I vizi nascosti degli uomini di fede
di Marco Peretti


E' sufficiente ricordare l'incesto rappresentato nelle pagine de Il crimine di Padre Amaro di Eça de Queiros o alcune scene tratte dai film di Manoel de Oliveira per dar credito alla tesi che uno degli obiettivi prediletti dalla cultura portoghese sia sempre stato quello di indagare, dietro i rispettati abiti talari, i "vizi" nascosti degli uomini di fede. Un umano contrappasso alla pretesa di un'etica assoluta della Chiesa, un proliferare di storie di finzione che inducono a guardare con altri occhi gli uomini che dal pulpito predicano ogni domenica.
A questa sorta di sottogenere culturale oggi possiamo aggiungere Il canonico (traduzione di Daniele Petruccioli, La Nuova Frontiera, 2009, pp. 311, € 17,50) di António Manuel Pires Cabral, scrittore trasmontano arrivato alla sua sesta prova in prosa. L'origine di Pires Cabral già significa molto, nascere e vivere nella regione nordestina di Trás-os-Montes - letteralmente "oltre le montagne" - vuol dire innanzitutto scegliere di rimanere a debita distanza dalla vetrina mediatica di Lisbona, in una terra aspra e dura che continua a produrre scrittori di notevole spessore, oltre a un cospicuo numero di emigranti buoni per tutte le epoche di crisi, compresa quella che stiamo vivendo oggi. E' tra queste terre impervie che Pires Cabral ha ambientato la storia de Il canonico , in un piccolo villaggio - Vilarinho dos Castelhanos - che nel nome allude alla vicina Castiglia e in qualche modo all'illustre protagonista, Fernando Benigno Ochoa, detto lo spagnolo, uomo di notevole mole, irascibile e pieno d'energia, amante delle battute di caccia e monarchico ultraconvinto. Convinto a tal punto che nel 1917, con la guerra in corso e con il Portogallo in mano ai repubblicani intese sfruttare, sulla scia degli eventi miracolosi di Fatima, le "visioni" di due bambine di Vilarinho dos Castelhanos, inventando che queste avrebbero sentito un appello della Vergine ai veri portoghesi, un invito a lottare per reinsediare il legittimo re. Il fine giustifica i mezzi, «spesso la verità è fatta di menzogne ripetute. Se non altro la gente si porrà il dubbio».
Protagonista illustre, dicevamo, perché oltre ad esser stato nominato assai giovane canonico era ricco di famiglia e in un piccolo villaggio tanto basta per andar sulla bocca di tutti. Se non fosse sufficiente questo, il nostro, così come si racconta, ha avuto una figlia e questo ovviamente alimenta i pettegolezzi e contribuisce a incasellare il romanzo nel sottogenere di cui parlavamo.
La storia è narrata da un giovane prelato, Salviano Taveira, giunto al villaggio per sostituire padre Agostinho ormai morente. In attesa dell'estrema unzione il vecchio parroco riesce però a stuzzicare la curiosità del nuovo arrivato, raccontandogli le vicende di quella figura ingombrante, il canonico, morto sei anni prima. In un piccolo villaggio sperduto la loquacità dei testimoni si manifesta immediatamente, non c'è bisogno di aspettare i parrocchiani in confessionale e il giovane Salviano Taveira, anche per ammazzare il tempo, comincia a cercare la Verità che si nasconde dietro le contraddittorie testimonianze dei paesani. La coscienza del giovane parroco s'imbatterà con il "relativismo" sessuale del canonico e la morale teologica appresa in seminario dovrà fare i conti con il pragmatismo del vescovo di Bragança che, all'epoca, saputa la notizia della gravidanza della perpetua del canonico così giustificò l'avvenimento: «Dio ha fatto i sacerdoti con la stessa identica argilla degli uomini. Debole».
L'abilità narrativa di Pires Cabral, assai originale ai nostri giorni anche per una scrittura che ricorda più il romanzo ottocentesco che non quello postmoderno, intreccia gli elementi dell'indagine "poliziesca" con l'intertestualità biblica. Il proliferare di proverbi ricorda da vicino l'amore per la cultura popolare di José Saramago mentre la struttura dell'investigazione con al centro il narratore che come un nucleo assorbe le informazioni delle particelle/testimoni rimanda a Il Delfino di José Cardoso Pires, letto con l'ausilio della fisica quantistica di Debenedetti. Un romanzo che si può leggere da diverse latitudini, per esempio e toccando un nervo ancor oggi scoperto - come fa l'autore con i suoi personaggi di finzione - richiamando l'attenzione sul celibato e la castità che mirano a un clero tendente alla "perfezione", mentre per usare le parole del canonico «il richiamo della carne è tanto pressante in noi come in chiunque altro. E la tentazione non si fa strada solo attraverso il canale della concupiscenza, ma anche attraverso quello della ragione».
Oppure accettando la conclusione che la Verità è irraggiungibile e di tante piccole verità - le nostre - ci dobbiamo contentare o, infine, molto più semplicemente, forse per il giovane prelato, così come per il vescovo di Bragança o per lo stesso padre Agostinho è meglio non giudicare il canonico, perché in fondo è pur sempre "uno di loro".

domenica 5 aprile 2009

JAZZIT Jazz Magazine - n. 50 gennaio/febbraio 2009 www.jazzit.it
SOFT JOURNEY WITH CHET BAKER Enrico Pieranunzi racconta Chet
di Lucia Ianniello


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Registrata tra il dicembre ’79 e il gennaio 1980 per la EDI PAN Roma, subito dopo il primo incontro tra Chet Baker e il pianista romano, questa perla discografica è rimasta nell’ombra per quasi trent’anni. La nuova ristampa di “Soft Journey – Chet Baker Meets Enrico Pieranunzi” da parte dell’etichetta perugina EGEA, ci dà l’occasione, proprio nel trentesimo anniversario dalla sua registrazione, di parlarne con uno dei suoi protagonisti, Enrico Pieranunzi.

“Uno dei più felici dischi fra i molti che Baker ha registrato in Europa (…) fra tutti il più poetico e coerente”, scriveva di “Soft Journey” Arrigo Polillo su Musica Jazz nel febbraio 1981.
L’album si colloca storicamente in un momento di cambiamento epocale per la società italiana e la musica, per il jazz in particolare. La critica lo accolse con grande entusiasmo ed attenzione, mentre il mercato operò una sorta di processo di annullamento relegandolo in un luogo senza tempo scandito dalle copie clandestine di pochi amatori.
I musicisti coinvolti: Chet Baker, tromba e voce; Enrico Pieranunzi, pianoforte; Maurizio Giammarco, sassofono tenore; Riccardo del Fra, contrabbasso; Roberto Gatto, batteria.
Dopo quasi trenta anni, l’album è stato ripubblicato dalla EGEA ed è attuale più che mai, nelle musiche, negli arrangiamenti, nelle atmosfere. Come scriveva Mario Luzzi nel 1980 “(…) in ogni brano di questo album Chet racconta una parte di sé, racconta la sua storia di uomo ricco di feeling e la racconta a puntate, in sei sentitissimi brani come una somma del suo passato e del suo presente. Soft Journey, composto dal suo partner Enrico Pieranunzi, è un pezzo dove la poetica si sparge piano piano fino a coinvolgere tutto ciò che ci circonda: e quella poetica ti rimane attaccata ben oltre la fine del brano”.
Anni complicati, quelli, per una serie di motivi.
Per la diffusione del jazz in Italia, gli anni Settanta hanno rappresentato un momento significativo. Nel giro di poche stagioni, l’offerta musicale si ampliò in modo considerevole, aprendo una fase storica nuova. Il jazz cessò di essere una musica di pochi appassionati e fiorirono centri alternativi e forme di autogestione a fianco dei primi grandi festival. Il binomio ”jazz-politica”, che aveva i suoi massimi simboli nel free jazz e nella protesta nera, divenne un elemento in grado di destare interessi vivacissimi nei confronti della musica afroamericana attraendo un nuovo pubblico in misura fino ad allora inimmaginabile. La crescita tumultuosa e l’estremismo politico crearono però i presupposti per un cambiamento di clima, come testimonia la sospensione dell’attività di festival per motivi di ordine pubblico e la tendenza di sostituire le forme di autogestione entusiastica con altre più organizzate, legate alla forte avanzata della sinistra parlamentare del 1976. Furono comunque anni di comunicazione alle grandi platee, di incontri liberi e di intrecci di esperienze musicali tra musicisti di tutto il mondo, di primi grandi inviti all’estero di artisti italiani e di diffusione dell’ insegnamento della musica jazz e della sua storia.
Poi cominciò il movimento di riflusso. All’alba degli anni Ottanta tutta questa straordinaria ondata di rinnovamento si stabilizzò. La musica si diffuse in modo più intergenerazionale. Dopo l’esplosione del free il pubblico stava ritornando ad un jazz in cui era presente qualche punto di riferimento, qualche collegamento con la tradizione. Lo spazio per musicisti come Braxton, Abrams e l’Art Ensemble of Chicago era sempre più ristretto, apparvero nuovi esponenti di una mutazione storica. Quella che si sarebbe affermata sarebbe stata una qualità poetica più dolce, con elementi sotto un certo aspetto più rassicuranti e meno rabbiosi. Ma l’Album “Soft Journey” e la musica di Pieranunzi era un po’ fuori dal tempo e dalle mode. La vena lirica, la poetica ricca di contenuti, la nuova cantabilità del suo strumento lo collocava distante dal precedente e dalle nuove tendenze; raccontava di una ricerca musicale nata da particolari esigenze espressive e forte di un rapporto umano profondo con Baker.
Ricorda Pieranunzi: ”In realtà il disco passò quasi inosservato, non tanto dai critici, viste le recensioni, quanto dal mercato discografico, ma bisognerebbe ritornare al clima di quegli anni. Dal 1974 al 1980 ho lavorato con molti americani - Griffin, Art Farmer, Sal Nistico, Kenny Clarke e altri - e questo è stato molto formativo per me, ma il Bop era fuori moda, considerato scontato. Sia a Roma sia a Milano c’era molto free, tutto un movimento legato alla politica. Io penso che il jazz sia bellissimo, perché come tutte le arti non è un movimento univoco; apparentemente c’è questo grande flusso che si sposta, ma poi ci sono anche dei ritardi o degli anticipi, c’è gente che si ferma ad aspettare sulle sponde del fiume e chi decide di risalire la corrente... e poi chi lo stabilisce che a volte andare indietro non significa andare avanti? Eravamo sicuramente marginali, non Chet, lui no! Ma il linguaggio dominante in ogni caso non era quello di Chet Baker e quello degli anni Cinquanta”.
Il rapporto tra Baker e Pieranunzi
L’incontro con Chet Baker fu determinante per i musicisti coinvolti, come una chiave d’accesso per nuovi percorsi e concezioni musicali inesplorate. Un facile test. Basta ascoltare attentamente un disco precedente di Pieranunzi, “From always to now”, (1978 EDI PAN). Al suo fianco troviamo Maurizio Giammarco, Bruno Tommaso e Roberto Gatto. Il primo brano di questo LP è Night Bird, un blues in tonalità minore, che sarà registrato nuovamente in “Soft Journey”. L’ascolto comparato delle due versioni è veramente indicativo ai fini della comprensione del profondo cambiamento avvenuto nel pianista dopo l’incontro con Baker, sia dal punto di vista dell’approccio strumentale, che da quello dello sviluppo del pensiero musicale solistico e dell’accompagnamento. Per Pieranunzi il rapporto con Chet è l’origine di una svolta poetica. Rispetto ai precedenti lavori, il tocco pianistico è diverso, più vellutato, perchè stimolato dalle sonorità chiaroscure della voce e della tromba di Baker.
La collaborazione tra i due cominciò nel novembre del 1979 in occasione di un concerto a Macerata, nello storico locale “La Tartaruga”. Pieranunzi era stato chiamato con il suo trio (Del Fra e Gatto) ad accompagnare Baker e il concerto andò benissimo. In quel periodo Pieranunzi era direttore artistico del settore jazz dell’etichetta EDI PAN e così colse l’occasione per proporre a Chet di registrare. Non passarono molti giorni che Baker diede il suo assenso e cominciarono le prove finalizzate alla registrazione di “Soft Journey”, con l’aggiunta al quartetto di Maurizio Giammarco. Il primo brano, che dà il nome all’album, fu scritto da Pieranunzi pensando al modo di suonare del trombettista, così morbido e aereo. Pieranunzi scrisse per l’occasione anche il blues intitolato Brown Cat Dance e poi utilizzò una ballad composta in occasione della scomparsa di Mingus, Fairy Flowers, e il brano già inciso con Giammarco nel 1978, Night Bird, del quale Chet si innamorò (lo avrebbe suonato molte volte e inciso in seguito). Fu registrato il brano di Giammarco Animali Diurni, nel quale Baker canta e suona e poi, pur non avendo raggiunto il minutaggio necessario, si dovette interrompere la registrazione a causa di una brutta influenza di Baker. A gennaio si rientrò in sala d’incisione e Pieranunzi, per non complicare troppo la vita a tutti, propose di suonare un brano in duo, My Funny Valentine (R. Rodgers/L. Hart), cavallo di battaglia di Baker, nel quale il trombettista oltre a suonare, canta. “Il rapporto con Chet è stata un’esperienza molto intensa” racconta Pieranunzi “abbiamo scambiato solo poche parole, ma il nostro rapporto è stato particolare, silenziosamente e fortemente affettuoso. A distanza di anni e con un po’ di autocritica, potrei dire che non ero adatto a lui come pianista, ma lui mi ha cambiato. Sono cambiato per lui e anche per me, dopo. E’ stato un incontro decisivo perché mi ha trasformato nel modo di suonare. All’epoca suonavo veloce e forte, alla McCoy Tyner, molto modale, molto blues, irruento con tante note. Con lui ho fatto una grossa sterzata, lunga nel tempo, verso la melodia o verso la comprensione dell’importanza narrativa della melodia. L’influenza evansiana è stata possibile attraverso lui e non il contrario. In generale sono sempre arrivato a risultati pianistici attraverso lo studio di strumenti a fiato. Il mio primo idolo non è stato Bud Powell ma Parker. A Chet ho rubato alcune cose, ad esempio come ribattere alcune note, suonare note vicine senza pensare alla coerenza con l’accordo, aspettare tra una frase e l’altra. Si, perché non aveva paura del silenzio e questo suo uso del silenzio creava emozioni forti. Lui in effetti non ha innovato, non ha quasi scritto niente, è stato il vero artista interprete, il narratore, aveva un’identità fortissima”.
L’album “suonava”. Era tecnicamente superiore alla maggior parte dei dischi di jazz che venivano prodotti in Italia in quegli anni. Pieranunzi ci teneva molto a questo disco “(…) ho lavorato moltissimo per difenderne il suono. Tra le carenze di quegli anni, oggi superate, c’era innanzitutto una certa sudditanza dei discografici nei confronti degli americani, dei tempi e dei meccanismi distributivi molto rudimentali, e un’ insufficiente preparazione diffusa sulla ripresa sonora. Mi ricordo che portai in studio alcuni dischi ECM che ascoltavo, in particolare quello di Kenny Weeler dal titolo “Gnu High” con Jarrett, Holland e DeJohnette e chiesi al tecnico, Gianni Fornari, peraltro molto disponibile, di fare un lavoro in quella direzione. Ed io sono stato lì con lui a lavorare in maniera certosina.”
L’LP fu subito dimenticato. Pieranunzi, a cui il progetto stava molto a cuore, lo fece ascoltare all’etichetta francese IDA con la quale stava lavorando e con cui pubblicava all’inizio degli anni Novanta, e fu decisa la ristampa. Uscì nel 1995 in cd con una nuova veste grafica, in copertina una bella foto scattata durante la seduta di registrazione. La stampa francese lo recensì entusiasta ma le sorti dell’etichetta IDA erano segnate e nel giro di circa un anno rimase coinvolta in una procedura fallimentare. E “Soft Journey” tornò nell’ombra.
La concezione del tempo e l’improvvisazione di Chet
Baker è stato considerato spesso un musicista naïf. Molti hanno equivocato. Pieranunzi spiega che “Chet era assolutamente padrone sia della lettura della musica sia della conoscenza dell’armonia, ma per sua libera scelta chiedeva al gruppo di suonare più volte un brano prima di provarlo con lui. Ascoltava attentamente la musica e così imparava la melodia ad orecchio. Questo non mi sorprese molto perchè all’epoca ero abituato a lavorare con colleghi che suonavano ad orecchio; quello che invece suscitò il mio interesse era che fosse una sua scelta e che memorizzasse, oltre alla melodia, la linea del basso…”. Costruiva i suoi assolo seguendo non la verticalità degli accordi ma l’ampia orizzontalità delle due linee principali, la melodia e le fondamentali del basso, e poi creava nuove linee che si intersecavano a queste... altre strade, con la sensibilità per il suono ed il senso del tempo che lo contraddistinguevano. Imparava così le nuove melodie, non gli interessavano le sigle, anche se all’occorrenza leggeva velocemente quando l’articolazione della melodia lo richiedeva come per Brown Cat Dance. “Poteva suonare da solo per ore, partiva con quel tempo e ci rimaneva sopra con una fisicità unica. Conservo a casa, da qualche parte, ore e ore di registrazioni di brani come I Remember you, Just Friends…con trenta chorus di improvvisazione ogni volta”.
Dopo la registrazione di “Soft Journey”, Baker e Pieranunzi ebbero diverse occasioni per collaborare, fino ai due splendidi album incisi tra febbraio e marzo 1988 a Recanati per la Philology di Paolo Piangiarelli: “The Heart of the Ballad” in duo e “Little Girl Blue” in quartetto, con Enzo Pietropaoli e Fabrizio Sferra. Tra “Soft Journey” e i due album di Recanati si colloca il superbo “Silence” (1987), inciso a Roma per la Soul Note e pubblicato a nome di Charlie Haden. Qui accanto a Baker, Pieranunzi e Haden, c’è anche Billy Higgins.
Ma “Soft Journey” è stato e resta un album speciale. C’è un’immagine nuova, un’urgenza espressiva da parte dei cinque musicisti in una comunione d’intenti. E’ stato l’unico album per il quale Chet Baker abbia accettato di scrivere delle note di copertina.



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