martedì 7 aprile 2009

il manifesto 7.4.09
Un Paese e una politica dai piedi d'argilla
di Paolo Berdini


Sono crollati ospedali, edifici pubblici e scuole costruiti di recente. Dovevano rispettare rigorose norme antisismiche, ma il terremoto ha tragicamente svelato una realtà che viene sistematicamente occultata: siamo il paese delle regole scritte con solennità e violate con estrema facilità. Siamo il paese in cui le funzioni pubbliche di controllo sono state cancellate o messe nella condizione di non nuocere. Di fronte a questa realtà, il “piano casa” della Presidenza del Consiglio liberalizzava ulteriormente ogni intervento edilizio che poteva iniziare attraverso una semplice denuncia di inizio attività, e cioè in modo che la pubblica amministrazione perdesse per sempre ogni residua possibilità di controllo. Dappertutto, in zona sismica o in zona di rischio idrogeologico.
Sono poi crollate in ogni parte anche le case private. Antiche, della prima o della seconda metà del novecento. Segno evidente che anche esse sono state costruite senza gli accorgimenti che ogni paese civile richiede. Invece di avviare questo processo, il piano casa del governo autorizzava aumenti automatici di cubatura (fino al 20%) senza contemporaneamente costringere i proprietari a rendere più efficienti le strutture. Chiunque chiude un balcone o una veranda, pur aumentando i pesi le case devono sopportare, non interviene sulle fondazioni o sulle strutture principali. E’ noto che questa anarchia e disorganicità è alla base di molti crolli e di molte vittime.
La tragedia dell’Abruzzo mostra dunque di quale cinismo e arretratezza culturale fosse stato costruito il provvedimento tento reclamizzato da Berlusconi. Cinismo perché faceva balenare in ciascuno la possibilità di incrementare la proprietà senza tener conto dell’esistenza di equilibri più complessivi, senza cioè dover rispettare i beni comuni per eccellenza: le città.
Arretratezza culturale perché il terremoto ha dimostrato ancora una volta che il vero problema del nostro paese è quello di avere i piedi di argilla. In un paese ad alto e diffuso rischio sismico, infrastrutture, servizi e abitazioni non sono in grado di resistere ai terremoti. Invece di agevolare la sistematica messa in sicurezza del territorio e del patrimonio edilizio, questo governo ha in mente una sola cultura: “aggiungere”. Nuove grandi opere, ad iniziare dal ponte sullo stretto e dalle centrali nucleari, nuove espansioni edilizie. Invece di consolidare l’enorme patrimonio edilizio esistente e rendere sicura la vita degli italiani, si continua con lo scellerato meccanismo della rendita speculativa.
Stavolta la colpa non è di esclusiva responsabilità politica. E’ evidente in ogni settore un consenso esplicito ed entusiasta della Confindustria e della cosiddetta “classe dirigente”. Quella, per intenderci, di cui fa parte Claudio De Albertis, per molti anni presidente dei costruttori italiani e oggi presidente di quelli milanesi. In un recentissimo dibattito nella rete televisiva di La Repubblica ha avuto il coraggio di dire che in Italia mancano case popolari perché vengono costruite con troppa lungimiranza e durano troppo nel tempo. Ci dobbiamo abituare, ha aggiunto, a programmarne la vita in venti anni per poi rottamarle. Mentre tutti i paesi ad economia avanzata si interrogano su come ricostruire su basi solide un futuro possibile dopo la crisi, da noi governo e imprenditori del mattone pensano esclusivamente a nuovi affari senza farsi carico degli interessi generali.
Sono così miopi da non vedere che c’è invece un altro modo per rilanciare la macchina dell’edilizia. Basterebbero tre mosse. Prendere atto che il nostro patrimonio abitativo è fatiscente e lo Stato ha il dovere di favorirne la messa in sicurezza, attraverso norme e finanziamenti. E se ci fosse qualcuno che afferma che in questo modo si spendono soldi pubblici, si potrebbe rispondere che stiamo spendendoli per acquistare i fondi tossici delle banche. Perché non potrebbero essere utilizzati anche per non veder morire intere famiglie? Eppoi, gli interventi dentro una nuova concezione dell’edilizia favorirebbero la nascita di nuove industrie in grado di realizzare e gestire sistemi di risparmio energetico. In pochi anni i benefici complessivi supererebbero le spese di investimento iniziale: basta soltanto dare il colpo di grazia alla rendita immobiliare, come fanno in Europa.
Secondo. Prendere atto che nell’ultimo decennio si è costruito troppo e che è venuto il momento di dire basta ad ogni ulteriore consumo di suolo agricolo. Da qualche mese è nata su iniziativa del sindaco di Cassinetta di Lugagnano la rete “stop al consumo di territorio” e sono molti i primi cittadini che vogliono voltare pagina. La popolazione italiana non cresce più ed è economicamente molto più conveniente riqualificare l’esistente.
Terzo. La definizione di un grande (stavolta sì) programma di messa in sicurezza degli edifici pubblici. Il volto dello stato si vede da come si presentano le scuole dell’obbligo. L’ottanta per cento di esse è fatiscente o non rispetta le norme di sicurezza. Stesso discorso vale per gli ospedali e per gli altri servizi. Una grande opera di ricostruzione del volto dei luoghi pubblici e delle città, che sono gli elementi portanti della convivenza civile di ogni paese civile. E se qualcuno obiettasse spudoratamente che in questo modo si spendono soldi pubblici, basterebbe mostrargli i volti dei giovani che in Abruzzo hanno perso la vita soltanto perché l’ideologia liberista ha imposto in questi anni la distruzione di ogni funzione pubblica.

Repubblica 7.4.09
La modernità dei disastri
di Giorgio Bocca


Il terremoto si distingue dalle altre e molte calamità per la rapidità e l´indifferenza naturali: nei pochi minuti delle scosse telluriche il disastro è compiuto, ai superstiti non resta che cercare i cadaveri sepolti sotto le macerie e camminare smarriti fra ciò che resta di città e villaggi. Fra il dolore insopportabile ma come sempre sopportato da chi ha perso i suoi cari, e il silenzio degli altri sopravvissuti che li compiangono ma sanno di essere stati miracolati.
Per giorni, per anni, si parlerà delle prevenzioni non fatte, degli errori compiuti, delle malefatte per egoismi per i quali è arrivato il conto da pagare e sui giornali e alla televisione ci sarà lo spettacolo dolente e impotente dei morti, dei feriti, dei loro parenti in lacrime.
Un nome verrà ripetuto in tutte le cronache, nei commenti, nelle polemiche. Quello di Guido Bertolaso il capo della Protezione civile, il professionista dei pubblici soccorsi che tutti gli italiani conoscono anche se, per la verità, faticano a capire che è lui il vero premier di questa Italia disastrata. Il vero capo del governo è lui, non i politici che in Italia e all´estero recitano la parte dei pubblici amministratori.
Bertolaso ha una sua uniforme, veste in borghese senza gradi e senza medaglie, pantaloni normali e un pullover blu con su cucito un nastro tricolore, ma non c´è italiano che non riconosca in lui quello che promette di rimettere in piedi il paese ogni volta che va in pezzi, che promette di ricucire le sue ferite, di togliere le macerie e le immondizie, di riaprire le strade, di riportare fiumi e torrenti nei loro argini. È quello che il capo ufficiale del governo vorrebbe essere, un "dittatore" buono. Bertolaso gode infatti dei poteri necessari per mobilitare eserciti di soccorritori, migliaia di treni, di auto, di camion. Quando arriva lui con il suo pulloverino blu, con il nastrino tricolore, prefetti, questori e generali si mettono sugli attenti e gli obbediscono senza fiatare. Lui zittisce le polemiche, come ha fatto anche ieri, spiega che la tragedia non si poteva prevedere. E non importa se poi non riesce a mantenere molte delle sue promesse. Bertolaso ha i pieni poteri, è il governo più forte del governo.
C´è una cosa importante che si sta verificando anche in Abruzzo. Nel dolore e nella disperazione dei disastri maturati la gente riscopre la voglia di resistere, di riparare. E per una volta i lacci e i lacciuoli burocratici sembrano scomparire di fronte alla superiore necessità. Si mobilita in poche ore un vero esercito nazionale che è quello dei soccorsi, che si mette in marcia dal Brennero a Capo Passero secondo piani e interventi preordinati, ma anche su base volontaria e solidaristica. Sospinto dall´emozione, dal dolore, dalla fratellanza di un popolo.
E c´è un´altra lezione, un´altra cognizione che viene da questo disastro per molti aspetti feroce e impietoso. La transizione fra l´Italia antica, paese d´arte, l´Italia dei mattoni e delle ardesie, e quella moderna del cemento armato. Fra l´Italia dei borghi medievali attorno ai castelli sopra i colli e quella delle zone industriali sui piani di fondo valle. Giornali e televisioni hanno intervistato i superstiti dei terremoti in Campania e nelle Marche, amministratori, funzionari che hanno visto con i loro occhi, a volte la morte dei loro cari, i ritardi e le imprevidenze, gli errori ancora una volta compiuti, ancora una volta troppo tardi denunciati. Ancora una volta hanno ricordato l´antica e mai osservata lezione di serietà e di modestia, il dovere di provvedere oggi al necessario invece di piangere domani sulla propria imprudenza.
Il rimprovero principale che si mosse alla megalomania imperiale mussoliniana, fu di aver speso uomini e denaro per la conquista dello «scatolone di sabbia» in Libia mentre nell´Italia meridionale mancavano strade e ferrovie e la gente continuava a portare i carichi in spalla e a percorrere a piedi i tratturi. Le grandi opere sono una testimonianza di civiltà ma anche un lustro di governanti ambiziosi più che saggi. Il ponte sullo Stretto di Messina e i treni super veloci sono belli da vedere e da raccontare ma poi arriva una pioggia persistente e una delle grandi opere, l´autostrada Salerno-Reggio Calabria si tramuta in quello «sfascio pendulo» che è gran parte del Meridione.
C´è infine una terza lezione da ricavare da questa modernità: non è più il tempo di correre a vedere chi è morto o senza casa. Anche la pietà e il cordoglio devono adattarsi alla modernità di massa, non intralciare sulle strade il traffico dei soccorsi. È una preghiera, ordine di Guido Bertolaso.

Repubblica 7.4.09
Le colpe del malpaese
di Giovanni Valentini


Dopo la solidarietà sarà necessario compilare l´inventario delle responsabilità

Non è certamente colpa di nessuno, tantomeno del governo in carica, se scoppia un terremoto nel cuore della notte e devasta un´area sismica già censita nelle mappe della paura, provocando una dolorosa catena di rovine, morti e feriti. Quando l´instabilità del territorio si combina purtroppo con la violenza della natura, il cataclisma diviene inarrestabile e l´uomo non può che arrendersi alla fatalità.
È doveroso ora far fronte all´emergenza, soccorrere le vittime, assistere i sopravvissuti, ripristinare al più presto condizioni di vita normali e dignitose per tutti. Ed è senz´altro opportuno accantonare per il momento qualsiasi polemica contingente, per concentrare gli sforzi in un impegno comune di solidarietà. Ma subito dopo sarà necessario anche compilare l´inventario delle responsabilità, remote e recenti, non solo per accertare che sia stato fatto davvero tutto il possibile per prevenire un evento di tale portata, quanto per impedire che possa ripetersi in futuro o perlomeno per contenerne eventualmente l´impatto.
Non vogliamo riferirci qui tanto alla "querelle" fra il tecnico che nei giorni scorsi aveva lanciato l´allarme e l´apparato della Protezione civile, sostenuto dall´establishment del mondo scientifico, secondo cui un terremoto non si può mai prevedere. Sarà pur vero che i sintomi registrati dai sismografi o da altre apparecchiature non consentono di predisporre per tempo un intervento funzionale, cioè un´evacuazione di massa delle case, dei paesi e delle città. È altrettanto vero, però, che in questo caso i segnali sono stati evidentemente trascurati e sottovalutati, fino al punto di mettere sotto inchiesta l´incauto tecnico in virtù di un paradosso giuridico che prende il nome di "procurato allarme".
La questione fondamentale è un´altra e si chiama piuttosto "cultura del territorio". Vale a dire conoscenza e rispetto della natura; sensibilità e cura per l´ambiente; tutela del paesaggio e ancor più della salute, della vita umana, di tanti destini in carne e ossa che in quel territorio incrociano la propria esistenza. Non c´è pietà per le vittime e per i sopravvissuti di questo o di altri terremoti, come di ogni disastro naturale, senza una consapevolezza profonda di un tale contesto e senza una conseguente, concreta, quotidiana assunzione di responsabilità.
Fuori oggi da una sterile polemica politica, non si può fare a meno tuttavia di registrare l´enorme distanza � propriamente culturale � fra un approccio di questo genere e il cosiddetto "piano-casa" recentemente varato dal governo di centrodestra, nel disperato tentativo di rilanciare l´attività edilizia. In un Malpaese che trema distruggendo � insieme a tante speranze e a tante vite � abitazioni, palazzi, ospedali, scuole e chiese, e dove ancora aspettano di essere ricostruiti gli edifici crollati nei precedenti terremoti come quello del Belice di quarant´anni fa, la priorità diventa invece la stanza in più, la mansarda o la veranda da aggiungere alla villa o alla villetta, in funzione di quel consumo del territorio che si configura come un saccheggio privato a danno del bene comune.
Non saranno magari le fughe di gas radon emesse dalla terra in ebollizione � come predica l´inascoltato ricercatore abruzzese � a permetterci di prevedere i terremoti, ma verosimilmente una rigorosa prevenzione anti-sismica può aiutarci a ridurre al minimo i danni e soprattutto le vittime. Tanto più nelle regioni e nelle zone dove il rischio è notoriamente più alto. Ecco una grande occasione per rilanciare l´attività edilizia nell´interesse generale, non già al servizio della speculazione immobiliare ma semmai in funzione di un investimento umano e sociale sul territorio.
Con i 150 morti finora accertati, i mille e cinquecento feriti, i settantamila sfollati, i diecimila edifici crollati o danneggiati, il triste bollettino di guerra che arriva dall´Abruzzo interpella una volta di più le ragioni di un "ambientalismo sostenibile": cioè, pragmatico, costruttivo, effettivamente praticabile. Di fronte al primo cataclisma del nuovo millennio, quello schieramento composito e trasversale che vuole difendere l´immenso patrimonio naturale, storico e artistico dell´Italia dagli egoismi individuali, è chiamato a misurarsi più che mai con la sfida della concretezza. Superata l´era delle vecchie ideologie, rosse o verdi che fossero, ora c´è da impugnare la bandiera del realismo civile.

Repubblica 7.4.09
La Costituzione di Berlusconi
di Andrea Manzella


Ad un certo punto dei suoi discorsi, alla Fiera di Roma, il leader del nuovo partito ha cominciato a leggere il primo articolo della Costituzione. Ma non l´ha letto tutto. Si è fermato al primo periodo: quello che dice che «la sovranità appartiene al popolo». Se avesse proseguito nella lettura, avrebbe dovuto spiegare niente di meno che il rapporto tra costituzionalismo e democrazia. È la prima questione politica che si sono posti gli antichi e i moderni: ed è sempre, ancor oggi, stringente, nel senso che ad essa non si può sfuggire. E infatti i costituenti del 1948 non scapparono affatto. E dopo aver scritto che «la sovranità appartiene al popolo», aggiunsero: «che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».
Vi sono dunque "forme costituzionali" secondo le quali il potere della maggioranza popolare deve esprimersi per essere legittimamente riconosciuto. E vi sono "limiti costituzionali" al potere della maggioranza. Limiti che, come paletti, segnano il terreno dove si esercita la giusta pretesa del governo a governare: ma ne evitano abusi e straripamenti in altri campi. Quali sono questi campi? In primo luogo, la sfera delle libertà individuali e collettive ma anche gli spazi di potere pubblico che la Costituzione ha voluto sottrarre al principio assoluto di maggioranza: gli spazi dei giudici, della Corte Costituzionale, del Capo dello Stato. Queste aree sono indisponibili alla potestà di governo perché l´esperienza del governo degli uomini ha da sempre dimostrato che la concentrazione e la solitudine del potere degenerano infallibilmente. La mancanza di contraddittorio impoverisce il modo di prendere le decisioni. È ristretta la visione di chi non ha i molti occhi necessari per la complessità del mondo. Le paure e le incertezze rendono precaria la compagine statale e fragile lo spirito pubblico: quando non vi è giustizia indipendente dal potere. Sono naturali e inevitabili le insidie cui sono esposti comportamenti incontrollati e incontrollabili.
In sole dieci parole, l´art.1 della Costituzione, nella parte non letta dal presidente del Pdl, riassume dunque tutto questo (e molte altre cose ancora che ci vengono da esperienze lontane e durature: il americano, il 1789 francese�). Ma, soprattutto, il primo articolo dà la definizione di quello che si chiama "equilibrio costituzionale". Non ci potrebbe essere migliore formula infatti di quel semplice, ma fulminante accostamento tra sovranità popolare e limiti costituzionali. Con questa costruzione duale del potere pubblico, quella norma parla anche al futuro. Dice che, certo, la Costituzione per la necessità dei tempi può essere cambiata (nelle "forme" che innanzitutto detta per la sua revisione). Ma sempre ogni mutamento del potere democratico deve essere accompagnato da "limiti" che non alterino quell´originario equilibrio.
Il potere di decisione può essere spostato o accentuato in questo o quello degli organi costituzionali: e può così cambiare la geografia di governo. Ma, sempre, vi dovrà essere nei cambiamenti una logica costituzionale dei "limiti". Cioè di contrappesi adeguati a quello stesso spirito di ammodernamento che dovrà giustificare la maggiore forza del "governo dei più".
Non è possibile una scissione di quella fondamentale norma costituzionale, neppure nel silenzio(come si è fatto alla Fiera di Roma). Sostenere la necessità di riforme costituzionali e tacere sulla contemporanea necessità di rivedere, in alto, "forme" e "limiti" della Costituzione equivale a tradirne l´intima armonia ,a violarne i sistemi di sicurezza. Quelli che furono posti contro la "tirannia di qualunque maggioranza" (e non solo contro la tirannia allora recente del fascismo).
D´altra parte, come gli ultimi anni hanno dimostrato, il potere di governo sa difendersi da solo. È perciò molto più realistica l´esaltazione che è stata fatta della tenuta e dei risultati dell´"asse" maggioranza-governo che non le lamentele sulla debolezza dei poteri governativi. È assai difficile però sostenere, tutto d´un fiato, una cosa e l´altra. La verità è che in un sistema bipolare, degenerato a muro contro muro senza intercapedini, il deficit autentico è quello delle garanzie: e lo subiscono le minoranze.
Non è dunque un peccato volere il "premierato assoluto", con potere di sciogliere le Camere, o forme di presidenzialismo a diretta elezione popolare. Non lo è neppure in un posto dove il presidenzialismo sarebbe a catene mediatiche unificate. Né tantomeno un presidenzialismo sorretto da un imponente fronte populista. Il peccato grande è andare avanti su quella strada senza minimamente alludere a quelle naturali difese, agli "anticorpi" che si devono prevedere proprio per salvaguardare quell´equilibrio di cui la Costituzione ci parla a cominciare del suo primo articolo.
Negli Stati Uniti c´è il presidenzialismo. Ma è considerato scorretto perfino definirlo così: perché dire presidential government sarebbe come ignorare il Congresso, il grande e potente parlamento. L´equilibrio della loro Costituzione è tutto nei reciproci controlli e bilanciamenti, nella "leale cooperazione", nella condivisione di potere da parte di istituzioni separate. Se il Presidente rifiuta di promulgare una legge, per superare il suo veto, è necessaria una maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera. Ma il "parere e il consenso" del Senato sono richiesti per più di mille importanti cariche federali sulle proposte del Presidente. E ogni commissione del Congresso dispone di poteri equivalenti alle nostre commissioni di inchiesta. I ministri (i loro "segretari di dipartimento") sono responsabili solo verso il Presidente: ma, prima di entrare in carica, devono passare l´esame rigoroso, sotto giuramento, della commissione del Senato competente per materia�
In Francia c´è un quasi-presidenzialismo, accentuato dal rapporto Presidente-parlamento, dopo la riforma Sarkozy del luglio scorso. Ma vi è anche qui un potere di veto delle commissioni parlamentari sulle più importanti nomine. E vi sono soprattutto, a segnare la vitalità di quel Parlamento, le possibilità per una minoranza di 60 deputati o senatori di chiedere l´intervento del Tribunale costituzionale preventivamente alla promulgazione delle leggi. Al giudizio preventivo costituzionale è sottoposta anche ogni revisione dei regolamenti parlamentari. Lo stesso numero di deputati o senatori può chiedere che sia verificata la costituzionalità dei poteri eccezionali che il governo esercita per crisi straordinarie. Addirittura ad una minoranza di deputati e senatori (un quinto dei membri del Parlamento) è riconosciuto un diritto di referendum legislativo, propositivo o abrogativo, a condizione che l´iniziativa sia sostenuta da un decimo degli iscritti al corpo elettorale.
Schematizzati al massimo, i due maggiori esempi di "presidenzialismo " dell´Occidente rivelano dunque una robusta struttura di equilibrio. La nostra deriva presidenzialista preoccupa perché i proclami contro la lentezza della democrazia sono lanciati senza la minima idea di un patto, di un sinallagma costituzionale di quel tipo. Senza appigli nella Costituzione, il cosidetto "statuto dell´opposizione" è una vecchia bolla d´aria. Che la maggioranza punti su questo patto leonino è quasi normale. Che lo accetti la minoranza (con documenti come quello approvato alla Camera il 24 marzo scorso) sarebbe sorprendente.
Eppure basta, per capire, rileggere integralmente l´art. 1 della Costituzione.

Repubblica 7.4.09
La molecola che cancella i brutti ricordi
Scoperta da scienziati Usa si chiama PKMzeta "Può aiutarci a combattere la demenza senile"
Brutti ricordi una molecola li cancellerà
La ricerca solleva non pochi problemi etici: è giusto eliminare parti della memoria?
di Benedict Carey


NEW YORK. Supponiamo che gli scienziati siano in grado di cancellare determinati ricordi: potrebbero farvi dimenticare una paura cronica, una perdita traumatica, perfino una cattiva abitudine. Un gruppo di ricercatori recentemente è riuscito in un´impresa del genere, con un´unica dose di un farmaco sperimentale che blocca l´attività di una sostanza di cui apparentemente il cervello necessita per trattenere buona parte delle informazioni. Finora le ricerche sono state condotte solo su animali, ma gli scienziati sono convinti che funzioni in modo quasi identico nelle persone. «Se questa molecola è davvero importante quanto sembra, le possibili implicazioni sono evidenti», spiega Todd C. Sacktor, 52 anni, che guida il team di ricercatori del Downstate Medical Center dell´Università dello Stato di New York, che ha dimostrato gli effetti di questa molecola sulla memoria.
Le neuroscienze stanno consentendo finalmente agli scienziati di trovare risposte reali sul funzionamento del cervello; e stanno anche sollevando interrogativi, sia di ordine etico che scientifico. Sacktor è uno delle centinaia di ricercatori che cercano di dare una risposta a una domanda che lascia sconcertati i pensatori fin dall´inizio dei moderni sistemi di ricerca: com´è possibile che un ammasso di tessuti sia capace di catturare e immagazzinare ricordi? Il cervello pare in grado di conservarli sviluppando linee di comunicazione più spesse, o più efficienti. La risposta forse sta in una sostanza chiamata PKMzeta. Le molecole PKMzeta sembra si concentrino dentro questi collegamenti a forma di dito tra le cellule cerebrali che vengono rafforzati dall´azione del neurone. E rimangono lì a tempo indefinito, come sentinelle biologiche. Per scoprire a cosa serviva la PKMzeta negli animali vivi, Sacktor è sceso al piano di sotto, al laboratorio di André A. Fenton, anche lui del Downstate, che studia la memoria nei topolini e nei ratti. I ricercatori hanno iniettato nelle cavie un farmaco chiamato Zip, che interferisce con la PKMzeta, e gli animali quasi immediatamente ripartivano da zero. Fenton ha ripetuto l´esperimento in vari modi; e lo stesso ha fatto con metodi diversi un consorzio di ricercatori.
«Questa possibilità di cancellare la memoria ha sviluppi enormi e solleva problemi etici colossali», dice Steven E. Hyman, neurobiologo a Harvard. «Da un lato, si può immaginare uno scenario in cui una persona entra in un contesto che fa emergere ricordi traumatici, ma ora ha una medicina che attenua questi ricordi quando emergono. Oppure, nel caso della dipendenza, una medicina che la mitiga».
c. 2009 New York Times News Service
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 7.4.09
Alberto Oliverio, neuroscienziato
"Ma attenzione ai casi limite"
intervista di Cristina Nadotti


Le perplessità sulla pillola cancella-ricordi sono molte. Alberto Oliverio, che per il Cnr ha diretto l´Istituto di psicofarmacologia e insegna neuroscienze alla Sapienza di Roma, spiega i temi della discussione.
Professore, ma come si possono cancellare solo i ricordi brutti e non quelli belli?
«L´inibitore della molecola attutisce l´impatto di memorie emotive, lenisce cioè la loro carica negativa. Le esperienze positive ritornano di meno, sono meno invasive, per questo c´è una maggiore azione sui ricordi spiacevoli».
Ma in questo modo non si cancella anche l´esperienza? Non si rischia di portar via anche il ricordo che, seppur negativo, serve?
«Ammesso che i risultati sugli essere umani possano essere uguali a quelli ottenuti sugli animali, la discussione in proposito si è incentrata proprio su questi aspetti. Se nel caso di uno stupro un aiuto farmacologico può aiutare a superare l´esperienza negativa, nel caso di un militare affetto da stress post traumatico può liberarlo anche dalle responsabilità, rendendolo una sorta di automa. Sono casi limite, e l´esperienza umana non può essere generalizzata, ma se si avrà a disposizione un farmaco del genere dovrà essere usato valutando caso per caso, come si deve fare per ogni terapia di sostegno a quella psicologica».
Ma quanto si è vicini a produrre questa pillola?
«Credo si sia pubblicizzato un po´ più di quel che c´è davvero, ma soprattutto negli Stati Uniti il disagio dei veterani di guerra sta influenzando molto la ricerca in questo ambito».

Repubblica 7.4.09
Rivolta. Quando gli esclusi dicono "basta"
di Adriano Sofri


La protesta contro i manager superpagati è la spia di un malessere sociale che fa fatica a trovare una voce e un´espressione politica

Il capitalismo è tutto e il suo contrario. Riesce a chiedere in prima persona che le banche vengano nazionalizzate e i debiti collettivizati. È capace di autoespropriarsi

Oggi la parola rivoluzione anche solo come sinonimo di grande cambiamento ha fatto il suo tempo. È stata superata, mandata in soffitta, mandata via oppure anestetizzata

La parola rivolta è tornata a circolare inseguendo il fatto. Ci siamo sforzati di imparare la nonviolenza, sapremmo combinarle la rivolta? Non è la ribellione, non è l´insurrezione, né la sua versione vandeana, l´insorgenza. Non è neanche, non tanto, la rivolta nelle piazze e nelle officine, quella di cui Fitoussi ha rintracciato qui la genesi e che ha insieme additato come un pericolo per la democrazia. Vecchio aneddoto: la rivolta che invece rassicura l´ancien régime. (14 luglio 1789, presa della Bastiglia. Luigi XVI: "E´ una rivolta?" Ufficiale della Guardia: "No, Maestà. E´ una rivoluzione"). E´ la rivolta morale che ha spiegato qui Ezio Mauro. Succede quando l´ordinaria ingiustizia e assurdità dei nostri modi di vita eccede il limite, e diventa, alla lettera, rivoltante. Dunque è il momento di ripassarla.
La rivolta si è definita nel confronto con la rivoluzione. Di norma, venendone colonizzata: la rivolta è scialacquatrice, cieca e sprovveduta, mentre la rivoluzione è lucida, sa dove vuole arrivare, sa come arrivarci, sa anche riscattare la rivolta tramutandola in una tappa del proprio cammino. La rivoluzione ha la sua rivolta premeditata, la chiama insurrezione, e le assegna un anno, un mese e un giorno preciso � il 6 novembre sarebbe stato troppo presto, l´8 troppo tardi. La rivolta è intempestiva, il suo giorno viene a caso, per una scintilla caduta sulla paglia, o naturalmente, come un terremoto. Ma la spontaneità e la genuinità della rivolta può anche essere rivendicata contro il raffreddamento calcolato della rivoluzione. La rivolta non ha da giustificare se stessa che con il rifiuto della servitù e dell´inganno. Nonostante il paradosso di Camus, che vuole far durare la rivolta, la rivoluzione può (invano) sognarsi permanente, la rivolta si brucia in un giro di notti. La rivoluzione vittoriosa costruisce un nuovo ordine impegnato a schiacciare la controrivoluzione fuori e dentro le proprie file, la rivoluzione sconfitta lascia uomini impegnati a cavarne la lezione e preparare la prossima. La rivolta è sconfitta per definizione, e dopo aver infiammato insieme gli individui e una moltitudine � «Je me rèvolte, donc nous sommes � mi rivolto, dunque siamo» � lascia persone sole a passare attraverso file di carcerieri, a registrare impronte digitali, a camminare su e giù in un cortile, forse per tanti anni, forse per un´ultima notte.
La rivoluzione ha fatto il suo tempo. Strana espressione questa, di fare il proprio tempo. Perché vuol dire essere superati, messi in soffitta, buttati via, ma anche, in qualche origine, aver preteso di forgiare il tempo sulla propria misura. La parola stessa è così anestetizzata che si può reimpiegarla nelle conversazioni perbene, disincarnata, disossata, mero sinonimo di un cambiamento, di un grande cambiamento. Si può perfino dire "una vera rivoluzione culturale", non so, per il modo di appendere i quadri in una mostra, e non sentire più i brividi dell´originale. Di tutti i progetti di governo delle cose, la rivoluzione sociale e politica era il più ambizioso: una specie inconsapevole di ingegneria genetica ante litteram applicata al corpo sociale universale. Se ne è disillusa, ed è diventata scettica e conservatrice, o prudentemente riformista. Così, per chi non ci sta e ha membra agili ed è troppo giovane o troppo stanco per provare interesse a un futuro, è rimasta la rivolta. Per strada, nelle periferie notturne, o nelle incursioni in centro in certi giorni di gala, quando un´ufficialità ne offra il pretesto. O nei luoghi in cui si lavora, e si smette così spesso di lavorare, e si può acchiappare per un po´ qualche ricco, un amministratore delegato o un tagliatore di teste, in fuga a Varennes con il portafoglio gonfio e la coda fra le gambe. Nichilista, la rivolta? Be´, le avete tolto tutto, anche la lepre della rivoluzione. Quanto alla convalescenza, stava appena studiandosi di smettere di dirsi riformista e cominciare a essere riformatrice, che le sue ricette diventano aspirina per l´elefante. La cosiddetta crisi eccede rivoluzione e riforma. Peggio: investe gli Amministratori delegati delle potenze statali di un´ambizione rivoluzionaria, di una recita prometeica. Sono loro, adesso, quando la macchina mondiale è imbizzarrita, a immaginarsi capaci di metterle morso e redini, a fissarle date di un´agenda da luna park, a somministrarle, in mancanza di qualità, quantità di trilioni. Era giudiziosa, la mano invisibile del mercato: dissuadeva dalla megalomania demiurgica, suggeriva di maneggiare con cura, di lasciare che il risultato venisse dalla libertà di innumerevoli corsi e incroci delle cose. Naturalmente, questo campo libero poteva inclinare alla giungla, e dato che poteva l´ha fatto. Il capitalismo è ambedue le cose, capricciosamente: l´ordine e perfino il progresso che viene da quel libero corso, e il tracollo. Nazionalizzare le banche, collettivizzare i debiti, diventa affar suo, del capitalismo che si autoespropria, e nel momento in cui dichiara la bancarotta della propria presunta razionalità �della propria giustizia, nemmeno parlarne- simula di poter governare il mondo. Manca poco che annunci i piani quinquennali. D´altra parte, bisogna pure rassegnarsi a sperare che Dio ce la mandi buona, e che i governanti, e Obama per tutti, non ce la mandino troppo cattiva. Chi non abbia l´età o il reddito bastanti a questa pazienza, potrà imbattersi nella rivolta. Non la sceglierà: quello lo fanno, peggio per loro e per noi, i black block. La rivolta vera non ha uniformi né visi coperti. E´ come un incidente stradale: uno si ferma a dare un´occhiata, e finisce nella mischia. Dopotutto la crisi dell´auto era stata annunciata dalle decine e centinaia di automobili date alle fiamme in una notte nei nostri Paesi: soprattutto in Francia, già patria della famosa rivoluzione, e ora della malfamata rivolta. Altri sciagurati vanno a sparare all´impazzata in un qualunque luogo affollato, o si portano all´altro mondo i propri cinque figli. All´altro mondo possibile.

Repubblica 7.4.09
Jacquerie. Gli umiliati del Medioevo
Intervista a Jacques Le Goff
di Fabio Gambaro


Attorno all´anno mille le sommosse scoppiano innanzitutto nelle campagne. Dal XII secolo si spostano nei centri urbani. Il Trecento è il secolo delle grandi sollevazioni di contadini, alimentate dalla povertà

«Il medioevo fu un´epoca di grandi rivolte, violente e sanguinose.» Lo sottolinea lo storico francese Jacques Le Goff, ricordando le molte ribellioni popolari scoppiate tra il X e XIV secolo: «Nonostante spesso si creda il contrario, il medioevo non fu un´epoca dominata dall´ubbidienza. Questa era richiesta soprattutto ai servi e ai monaci. Questi ultimi però non sempre la rispettavano, specie nei monasteri riformati e negli ordini mendicanti, che quindi non di rado partecipavano alle rivolte popolari. A quel tempo, per la chiesa la giustizia era più importante dell´ubbidienza. Di conseguenza, le numerose rivolte che scoppiavano contro le gravi e diffuse ingiustizie sociali non sempre venivano condannate dal mondo ecclesiastico».
La tipologia della rivolte varia da un secolo all´altro?
«Attorno all´anno Mille, le rivolte scoppiano innanzitutto nelle campagne, dove ci si ribella contro i signori. Dal XII secolo, le rivolte si spostano soprattutto nei centri urbani, sempre più importanti per via delle loro attività artigianali e commerciali. In città, il solco tra ricchi e poveri si fa sempre più profondo, alimentando un forte malcontento, a cui va aggiunta l´insofferenza nei confronti del dominio dei vescovi. Si spiegano così molte rivolte, tra cui quelle scoppiate a Roma al seguito d´Arnaldo da Brescia o Cola di Rienzo».
Nel XIV secolo le rivolte si moltiplicano. Come mai?
«È un secolo di crisi, dominato dalle guerre, dalle carestie e dalla peste. La povertà alimenta grandi sollevazioni di contadini in Inghilterra e Catalogna. A metà secolo, la grande jacquerie infiamma la regione di Parigi. Qui per la prima volta, accanto alla dimensione sociale, emerge una dimensione politica, dato che la ribellione prende di mira la monarchia francese e produce un´inedita alleanza tra il popolo e una parte della borghesia. Nel XIV secolo abbiamo anche la prima rivolta operaia, quella dei Ciompi a Firenze, nel 1378».
Quali erano le ragioni delle rivolte?
«Le motivazioni erano essenzialmente economiche. Il popolo si ribellava alla povertà e all´oppressione fiscale, ma chiedeva anche il rispetto della propria dignità, denunciando l´arroganza dei signori. Globalmente, le rivolte restano sul terreno sociale, dato che l´aspirazione alla giustizia solo di rado dà luogo a un vero disegno politico. Non vanno poi dimenticate le rivolte nate dalle eresie come pure quelle, meno conosciute, condotte da gruppi di giovani in rotta con la società. Insomma, il medioevo fu un´epoca tormentata, ma a poco a poco emerse una tendenza al negoziato e al compromesso».
Nell´età moderna le rivolte tendono a diminuire?
«In realtà aumentano, dato che l´industrializzazione produce disuguaglianze sempre più profonde, che verranno compensate solo tardivamente e in modo insufficiente dalle conquiste operaie. Nel corso della modernità assistiamo alla progressiva politicizzazione delle rivolte. Tuttavia, solo raramente la politicizzazione ha permesso alla rivolta di trasformarsi in vera e propria rivoluzione, di rimettere in discussione l´intera società».
Vede qualche analogia tra la realtà medievale e quella odierna?
«Oggi come allora la disperazione sociale nasce dalla povertà, ma anche da un sentimento di umiliazione. Chi sta perdendo tutto non sopporta lo spettacolo della ricchezza ostentato da alcuni. Tutto ciò è particolarmente percepibile nelle città dove, come nel medioevo, le grandissime disparità economiche continuano ad alimentare l´ingiustizia sociale».

Repubblica 7.4.09
Uguaglianza e democrazia
Se le élites vengono messe in discussione
di Aldo Schiavone


La crisi economica coinvolge direttamente la vita di grandi masse in tutto il pianeta investendo identità, ruoli, prospettive. Per questo alla politica spetta il compito di costruire un nuovo consenso

Nell´incipit di un saggio una volta famoso, oggetto di una polemica violentissima, Albert Camus scriveva che "l´uomo in rivolta", nel "dire no", afferma l´esistenza di una frontiera, di un limite intollerabilmente superato, e dunque formula in modo bruciante un giudizio di valore, che è insieme per lui "tutto" e "niente", ma in nome del quale vale comunque la pena di mettersi in gioco. E sono proprio uomini e donne "in rivolta", nel senso letterale di Camus, quelli che nei giorni scorsi sono improvvisamente comparsi per le strade d´Europa: non solo black bloc, rivoluzionari contro il capitale - agitatori "no global" carichi di ideologia - ma anche persone che dicevano semplicemente "basta", "non si può andar oltre", e che sentivano, confusamente ma pure in maniera assai forte, che un confine era stato violato, e che ciò non si poteva accettare in silenzio.
Episodi limitati, per ora. Che abbiamo tuttavia l´obbligo di capire: senza tragediare, ma anche senza addolcire. Nella mente di chi protestava, la misura appariva colma fino all´insopportabile per due ragioni, molto serie, e anzi cruciali: una ragione che chiamerei di legittimità, e un´altra che definirei di eguaglianza. Entrambe arrivano a toccare i fondamenti stessi delle nostre democrazie.
In questi mesi, in queste settimane, la crisi economica sta cominciando a investire direttamente la vita di grandi masse, da un capo all´altro del pianeta: identità, ruoli, prospettive. Essa non è un fenomeno "naturale" - anche se sono in molti ad affannarsi per farcela percepire così. Non era inevitabile. È un evento prodotto dalle scelte politiche, economiche e culturali (sì, anche culturali) del ventennio che ci ha preceduto. Chiama in causa responsabilità, valutazioni, errori precisi, che rimandano a individui e cerchie altrettanto determinati e individuabili, che spesso hanno ricavato vantaggi enormi dalle loro decisioni. Si pone dunque in modo evidente un problema di discontinuità, di rottura rispetto a questo passato. In altri termini, un problema di rapporto fra masse e (responsabilità delle) élite, fra governanti e governati. Se non si rende evidente la novità, che si sta voltando drasticamente pagina - nelle persone, nelle idee, nei comportamenti - la legittimazione popolare di chi detiene il potere ne esce compromessa, se non completamente spezzata. Questo innanzitutto esasperava le donne e gli uomini in rivolta, in questi giorni: la mancata evidenza del cambiamento. Credo del resto che Obama lo abbia capito benissimo - e che stia cominciando a esplorare le strade per la costruzione di un nuovo consenso. Ma le classi dirigenti europee? E l´Italia?
C´è poi un problema di eguaglianza: una parola che dobbiamo reimparare a pronunciare. La crisi sta creando, soprattutto nei Paesi più ricchi, una dismisura di diseguaglianze mai prima sperimentata. E non solo in termini di quantità (che pure non vanno certo trascurati). Ma soprattutto di qualità, se così si può dire, di proporzioni nei confronti di quei "nuovi esclusi" di cui ci hanno appena parlato Ezio Mauro ed Eugenio Scalfari su questo giornale. D´improvviso, nel cuore delle nostre società, si stanno aprendo voragini di squilibrio che minacciano di inghiottire e di disintegrare intere trame del nostro tessuto comunitario, fasci interi di vincoli e di legami. Democrazia e disuguaglianza sono compatibili (e addirittura funzionali) solo se queste ultime non superano livelli di guardia prestabiliti. Oltre, c´è la comune rovina civile e democratica dei soggetti coinvolti in entrambi i lati dello squilibrio. Anche di questo gridavano le nostre inattese rivolte.

Repubblica 7.4.09
Guggenheim
Un’astronave sulla Quinta Avenue così rinasce il museo-opera d’arte
di Antonio Monda


Ci sono voluti 3 anni per restaurare l´icona progettata da Lloyd Wright Da metà maggio a New York una grande mostra per celebrarla

Il sogno dell´architetto: rendere gli spazi interni come "spazi inclusi"
Tra i progetti mai realizzati anche il centro culturale di Bagdad, su un´isola del fiume Tigri

NEW YORK. Il 21 Ottobre del 1959, all´incrocio tra la Quinta avenue e la 89esima strada, nel cuore nobile ed opulento dell´Upper East Side, venne inaugurato uno degli edifici più rivoluzionari e stupefacenti mai costruiti in America. Prendeva il nome da Solomon Guggenheim, il miliardario che lo aveva voluto per farne un´istituzione culturale che fosse insieme rivoluzionaria e classica. Aveva voluto che sorgesse nel cuore del "museum mile", e affidato il proprio sogno a Frank Lloyd Wright, il quale aveva immaginato un edificio a spirale che si allargava dal basso verso l´alto, e riecheggiava, per struttura, ambizione e solennità, i Musei Vaticani ed il Pantheon. L´inaugurazione sconcertò il pubblico e gran parte della critica: furono in pochi a comprenderne l´importanza e la bellezza, e c´è chi parlò in maniera derisoria di astronave o di un gigantesco nastro di cemento. Ma nel giro di pochissimi mesi il Guggenheim riuscì a diventare un´istituzione culturale di prima grandezza, uno dei principali centri di attrazione della città e, soprattutto, un´imprescindibile icona newyorkese. A 50 anni di distanza, dopo un imponente restauro della facciata e degli interni durato tre anni, il museo celebra se stesso e Frank Lloyd Wright con un´esibizione che debutterà a metà maggio e rimarrà in scena per tutta l´estate, nella quale saranno messi in mostra 200 disegni originali dell´architetto, plastici, bozzetti ed animazioni tridimensionali di 64 differenti progetti. L´esibizione è organizzata cronologicamente lungo la spirale interna, e analizza le costruzioni pubbliche e private, gli edifici religiosi e le grandi strutture urbanistiche che rimasero irrealizzate. Il titolo scelto per l´esibizione, "Frank Lloyd Wright: from within outward", si riferisce ad una dichiarazione dell´architetto, il quale sottolineò il legame inscindibile tra il dentro e fuori di ogni singola costruzione, arrivando a teorizzare che lo spazio interno debba essere espresso all´esterno come "spazio incluso". Probabilmente poche, tra le sue opere, esaltano questa concezione quanto il Guggenheim, con le sue curve sinuose della spirale, costruita in un crescendo che è insieme lieve ed inesorabile. Wright, che morì pochi mesi prima dell´inaugurazione, lottò sino alla fine per imporre il concetto d´inscindibilità tra forma e funzione, riuscendo a imporre anche l´idea, oggi attualissima, di un museo che era a sua volta un´opera d´arte. Un altro elemento determinante del dialogo a volte burrascoso con i propri committenti è la difesa del concetto di "libertà negli spazi interni", evidente anche nei altri progetti esposti, tra i quali si staglia la casa Kauffman, meglio nota come "la casa sulle cascate".
La realizzazione del Guggenheim rappresenta inevitabilmente il cuore dell´esibizione, a cominciare dalla storia del museo, che nacque come collezione privata di Solomon Guggenheim. Il miliardario acquistò una serie di capolavori che tenne per molti anni nel proprio appartamento: Kandinskij, Mondrian, Picasso, Chagall, Leger, Modigliani. Nel 1939 inaugurò un primo museo a pochi passi da dove è situato attualmente il Moma, ma nel giro di pochi anni la collezione divenne troppo grande per quella prima struttura così, alla fine del 1943, decise di commissionare a Wright la realizzazione del nuovo museo sfidando nel proprio quartiere il Metropolitan. Il miliardario appassionato d´arte rimase colpito dalla sicurezza con cui parlava l´architetto, il quale dichiarò che il nuovo edificio avrebbe fatto apparire il Met "come un fienile protestante". Ma ci vollero quindici anni ed oltre 700 bozzetti prima di arrivare alla finalizzazione della forma che oggi ammiriamo. La mostra consente di vedere come Wright abbia elaborato l´idea iniziale senza mai tradire la propria ispirazione: sin dai primi bozzetti reinventò il progetto abbandonato del "Gordon Planetarium", prendendo in considerazione l´ipotesi di una struttura di colore rosso con la base più larga del tetto, e persino quella di una forma azzurrina ottagonale. Ma l´elemento più emozionante porta con sé un elemento malinconico: il concetto di libertà degli spazi interni riflette una concezione visionaria che produsse progetti di straordinaria suggestione che rimasero purtroppo irrealizzati. Come la gigantesca Crystal City, da edificare a Washington, o il Pittsburgh Point Park Civic Center, che avrebbe rivoluzionato l´urbanistica e la vita culturale della città. E, più di ogni altro, il fantasmagorico centro culturale di Bagdad, con un monumento a spirale in onore di Haroun al-Rashid su un´isola del fiume Tigri.

il Riformista 7.4.09
Fantasma Rwanda
Quindici anni fa l'alba del genocidio
di Pietro Del Soldà


7 aprile '94. Nella terra delle mille colline inizia lo sterminio. In cento giorni le milizie estremiste hutu uccidono a colpi di machete 800.000 persone, tutsi ma anche hutu moderati. Oggi il Paese guidato da Kagame e dalle donne, che hanno preso per mano una società di orfani, seppellisce il ricordo con uno sviluppo economico invidiabile. Ma la riconciliazione è lontana.

«Il trauma è ancora vivo, palpabile, ma i rwandesi hanno deciso di andare avanti». A parlare è Jean Pierre Ruhigisha, rappresentante della comunità rwandese a Roma, in Italia dal 2000. Jean Pierre durante il genocidio del '94 non si trovava in Rwanda. Se n'era andato molti anni prima, nel '73, fuggendo con la sua famiglia dal secondo massacro che insanguinò la storia del suo popolo. Allora aveva quasi quattro anni, ma i ricordi, aiutati anche dai racconti della madre, sono ancora vivi e terribili.
«In questo mese di commemorazioni, quando si avvicina il 7 aprile, data d'inizio del genocidio, il ricordo dei massacri ritorna vivo. Le reazioni dei singoli, di chi ha perso i familiari o gli amici o è scampato per miracolo ai colpi di machete, sono diverse, ma indicano tutte che la paura c'è ancora: c'è chi scappa, c'è chi si rinchiude in casa per stare da solo, la gente non è ancora in grado di affrontare quel capitolo della storia come qualcosa di superato. Poi, passato il mese di aprile, si riesce a gestire il trauma e ad andare avanti con la vita di tutti i giorni».
La memoria fa male, dunque, ma non c'è alternativa. La storia del Rwanda deve ripartire da lì, da quel 7 aprile di 15 anni fa, quando l'alba illuminò, come sempre, il Rwanda delle mille colline, e scoprì che il paese non era più lo stesso. L'abbattimento del jet Mystere Falcon, avvenuto la sera prima sui cieli di Kigali, non aveva soltanto posto fine alla vita del presidente Habyarimana, colpevole agli occhi degli hutu più oltranzisti di aver firmato un accordo con i tutsi del Fronte Patrottico Ruandese. Quel razzo lanciato da "ignoti" fece qualcosa di più. L'offensiva contro gli oppositori del regime, tutsi ma anche hutu moderati, nacque da un disegno di morte cinico e organizzato.
Il Rwanda sia chiaro non era nuovo ai massacri reciproci tra hutu e tutsi. La rivolta del 1959, quando i contadini massacrarono i loro padroni tutsi a colpi di zappe e machete, provocò una strage. L'indipendenza del Rwanda è stata poi segnata da violenze continue: lo stesso Habyarimana aveva contribuito ad acuire la spaccatura del paese, una divisione a cui aveva largamente contribuito il potere coloniale belga ed alla quale venne imposta dall'alto, per fini politici, una natura "etnica" che storicamente non ha grande fondamento. Ma nel 1994 le cose acquistarono un tono diverso, da "sterminio programmato" di un'intera categoria di rwandesi, i tutsi, che l'ideologia estremista al potere definiva una razza diversa, venuta da lontano a rubare la terra e il bestiame degli autoctoni hutu. Una menzogna diffusa ad arte, che convinse e coinvolse un numero impressionante di cittadini hutu.
La notte del 6 aprile cominciò l'annientamento degli «scarafaggi», come li definisce la famigerata Radio Mille Colline, accusati in massa della morte del presidente: un massacro che avrebbe potuto svolgersi a colpi d'artiglieria. Ma così non fu: lo sterminio doveva avvenire a colpi di machete, guidato da una milizia di massa, l'Interahamwe, che includeva contadini, studenti, impiegati, affinché fossero migliaia le mani sporche di sangue, e nascesse un nuovo paese fondato sulla colpa condivisa, sulla rimozione, sulla paura della verità.
In tre mesi vennero trucidate circa 800mila persone. Poi, i tutsi del Fpr ripresero il potere per non lasciarlo più. Oggi, il presidente Paul Kagame appare come una figura sfuggente dietro i grandi occhiali che coprono il suo viso magro: è il padre del nuovo Rwanda, un paese moderno, che cerca di seppellire il ricordo con uno sviluppo economico e sociale da far invidia ai paesi vicini. Kigali è una città cantiere, il fermento si vede già sorvolandola dall'alto. E poi, record dei record, la maggioranza dei parlamentari è donna.
«Sono le donne la vera guida del paese» - ci spiega Benedetta Lauricella di "Progetto Rwanda", onlus italiana impegnata nel pese dal 1997 (www.progettorwanda.it). «All'indomani del genocidio, che aveva colpito soprattutto ragazzi e uomini adulti, le donne rimaste sole presero per mano il paese e allevarono 500mila orfani». Potere alle donne e sviluppo economico, dunque, e anche un fermo no alla deriva etnica: Kagame ha infatti vietato le mortifere etichette hutu e tutsi. Ma la riconciliazione è lontana. I "gacaca", tribunali del popolo, hanno contribuito a fare un po' di luce, ma nessun colpevole ha davvero chiesto perdono. Nessuna commissione per la verità e la riconciliazione, sul modello del Sudafrica, ha affrontato davvero il trauma: le ombre del genocidio si allungano ancora sul futuro del Rwanda.

il Riformista 7.4.09
«L'odio etnico è ancora vivo e le violenze continuano»
di P.D.S.


Yolande Mukagasana. La denuncia al "Riformista" della donna simbolo della memoria rwandese. «Profanano le nostre sepolture. Uccidono i testimoni. E i governi europei accolgono gli assassini».

«L'ideologia del genocidio è ancora viva. È di questi giorni la notizia che le ossa dei morti gettati nel fiume Nyabarongo e trascinati in Uganda, dove avevano ricevuto sepoltura, sono state profanate». Ci parla senza mezzi termini Yolande Mukagasana, l'infermiera rifugiata politica in Belgio. È la donna simbolo del genocidio ruandese, la sua vicenda ha colpito i tanti spettatori della pièce Ruanda 94 e i lettori del suo libro La morte non mi ha voluta. Nata a Butare da una famiglia tutsi, subì già nel 1959, quando aveva solo cinque anni, le prime ferite della violenza hutu durante il primo grande massacro nella storia del suo paese. Nel 1972 ottenne il diploma, ma solo 16 anni dopo le autorità hutu le riconobbero il titolo di infermiera anestesista. Fu allora che scoprì la divisone etnica che lacerava il paese. Nel 1992, nonostante la difficoltà di vivere e lavorare in una società che guardava i tutsi con ostilità crescente, aprì un ambulatorio privato. Un'iniziativa coraggiosa per l'epoca, che infatti la espose a critiche e minacce. Poi, quando scoppiò il genocidio del 1994, l'ostilità nei suoi confronti degenerò. Perse marito e figli, che vide morire trucidati davanti a lei. Ma lei fu risparmiata, la morte non l'ha voluta.
Una donna hutu, Jacqueline Mukansonera, la tenne nascosta nella sua casa mettendo a repentaglio la sua stessa vita. Yolande oggi ricambia, con la paura e la morte negli occhi anche a distanza di 15 anni, lavorando affinché la memoria non si perda, e soprattutto perché la riconciliazione abbia la meglio sul desiderio di vendetta. Yolande ci parla da Roma, dov'è arrivata per partecipare alla manifestazione che stasera ricorderà il più terribile sterminio della storia recente (parlerà alle 21, al teatro Piccolo Eliseo). «La violenza non è affatto finita - ci dice ancora - ogni anno, e con frequenza ancora maggiore in prossimità dell'anniversario dell'inizio del genocidio, il 7 aprile, i colpevoli cercano ed eliminano i testimoni delle loro atrocità. Solo in questi giorni sono state uccise 16 persone, una ragazza è stata accoltellata a Bruxelles. Anch'io, nella mia casa in Belgio, continuo a vivere nella paura». La comunità internazionale non ci pensa più e Yolande accusa: «I governi europei sono di fatto negazionisti, continuano ad accogliere gli assassini sul loro territorio».
Cosa ne pensa, le chiediamo, dei tribunali del popolo, i gacaca, favoriti dallo stesso governo? «La giustizia ha cominciato ad agire su tre livelli differenti - risponde - Il Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda è il livello più elevato, quello che si è occupato solo degli imputati eccellenti, e non ha mai previsto un risarcimento per le vittime. Poi c'è la giustizia ordinaria del Rwanda, un sistema che ha già cent'anni di storia, e che in nessun modo poteva affrontare decine di migliaia di processi». Si calcolò, infatti, che ci sarebbe voluto un secolo. «I gacaca quindi, istituzioni tradizionali che prevedono che vittime, testimoni e colpevoli si riuniscano sul luogo del delitto, hanno consentito di far emergere un po' di verità».
Qualche forma di ricompensa effettivamente c'è stata, continua Yolande, il ruolo dei gacaca che si sono occupati dei «genocidari comuni», è stato utile. Ma certo non è sufficiente perché le ferite si rimarginino e cessi la paura.
P.D.S.

il Riformista 7.4.09
Se la sinistra vuole ripartire dalla giustizia, si rilegga Rawls
di Mario Ricciardi


RACCOLTA. Tradotte da Feltrinelli le "Lezioni di storia della filosofia politica" del professore di Harvard. Dopo l'intervento di Scalfari su "Repubblica" di domenica, il Pd dovrebbe iniziare a riflettere sulle opere del guru politico del Novecento. La sua "Teoria della giustizia" nel '71 fu rivoluzionaria. E anche oggi i suoi inediti sono cardini di democrazia e liberalismo.

Nelle sue "riflessioni" su Repubblica di domenica scorsa Eugenio Scalfari si è soffermato sul problema della giustizia. Per Scalfari, il fatto che si torni a ragionare sull'idea di giustizia è una delle novità importanti del dibattito sulla crisi economica in corso. Un giudizio condivisibile, su cui il Partito Democratico dovrebbe meditare, e che tuttavia è destinato a cadere nel vuoto se non è accompagnato da una seria riflessione - che nella sinistra del nostro paese è mancata quasi del tutto - sull'autore della più articolata teoria della giustizia del Novecento e uno dei pensatori politici più influenti della seconda metà del ventesimo secolo, ossia John Rawls.
Sin dalla pubblicazione del suo primo libro sulla teoria della giustizia, che ha visto la luce - dopo una lunga gestazione - nel 1971, questo riservato professore di Harvard si è progressivamente affermato come l'autore di riferimento della discussione accademica sui grandi temi dell'etica pubblica. Al punto che c'è chi ha osservato che, dopo A Theory of Justice, c'è stata una vera e propria "rinascita" della filosofia politica, che è tornata ad avere il ruolo centrale che le apparteneva nella tradizione occidentale sin dai tempi di Platone.
In effetti, oggi è difficile discutere di libertà e eguaglianza, democrazia e costituzione, senza usare il lessico di Rawls. Anche se soltanto per criticarlo, il suo nome appare in decine di migliaia di pubblicazioni accademiche e le sue idee hanno avuto un'influenza straordinaria ben oltre i confini della filosofia. Del resto l'oggetto del libro del 1971 era niente meno che una teoria della giustizia per le istituzioni che appartengono alla «struttura di base della società». Tale teoria, che Rawls caratterizzava attraverso la formula «justice as fairness» per distinguerla da altre concezioni della giustizia, si articolava attraverso due principi che sono una ragionevole interpretazione delle due idee principali della tradizione liberale: la libertà e l'eguaglianza.
Nonostante lo straordinario successo di A Theory of Justice, Rawls ha continuato a rivederne i contenuti e a riflettere sulle premesse e sulle conseguenze degli argomenti che essa conteneva. A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, questo paziente lavoro di revisione, approfondimento e ampliamento della sua teoria della giustizia ha trovato espressione in diversi saggi e in alcuni volumi. Tra questi, bisogna ricordare almeno Political Liberalism (1993), The Law of Peoples (1999), Justice as Fairness e A Restatement (2001). Quest'ultimo sembrava destinato a rimanere l'ultima parola di Rawls sulla filosofia politica perché, pochi mesi dopo la sua pubblicazione, l'autore si spegneva dopo una lunga malattia. Invece, anche lo scrittoio di John Rawls, come quelli di altri filosofi contemporanei, custodiva diversi materiali potenzialmente pubblicabili.
La pubblicazione degli inediti di un autore influente - si pensi a Wittgenstein o a Heidegger - è divenuta ormai una prassi cui è difficile resistere per eredi e curatori del lascito letterario. Solo in questo modo, sostiene chi è a favore di questa tendenza, è possibile rispondere alle richieste pressanti della comunità accademica che desidera avere a disposizione tutto ciò che può aiutare a comprendere meglio le opere dell'autore in questione o a illuminarne la genesi. Dall'altro lato c'è chi pensa che in molti casi sarebbe meglio lasciare gli inediti nello scrittoio perché non aggiungono nulla di significativo e, talvolta, finiscono per mettere in circolazione testi di qualità diseguale che possono perfino danneggiare la reputazione di chi li ha scritti.
Per fortuna, nel caso di Rawls, la pubblicazione degli inediti sta avvenendo con parsimonia, seguendo rigorosamente le indicazioni del filosofo, che in alcuni casi ha specificamente predisposto il testo di scritti che non erano in origine destinati alla diffusione o approvato il lavoro fatto dai curatori. Ciò è avvenuto per le Lectures on the History of Moral Philosophy (2000), di cui Rawls ha fatto in tempo a vedere la pubblicazione, e di recente per le Lectures on the History of Political Philosophy (2007). In entrambi i casi si tratta della collazione e revisione di versioni dei testi delle lezioni tenute a Harvard a partire dalla metà degli anni Sessanta.
Le seconde, in particolare, sono essenziali per comprendere la filosofia politica di John Rawls perché consentono di ricostruire lo sfondo teoretico da cui emerge la teoria della giustizia del filosofo. Si tratta di una sorta di "panorama intellettuale" ragionato che include i classici del contrattualismo (Hobbes, Locke e Rousseau) e uno dei suoi critici più severi (Hume). Inoltre, Rawls discute le idee politiche di Mill, Marx e Sidgwick, ampliando lo sguardo oltre le teorie del Contratto sociale fino a delineare una sorta di genealogia concettuale del liberalismo e del suo principale antagonista per oltre un secolo di storia europea e occidentale, il socialismo.
L'interesse di queste lezioni per gli studiosi non è solo di carattere storico. L'introduzione al volume contiene infatti la presentazione più articolata fino a oggi disponibile delle idee di Rawls su oggetto e metodo della filosofia politica e alcuni commenti illuminanti sulla natura della sua teoria della giustizia. Come tutti i testi di Rawls, anche questo è stato finalmente tradotto in italiano. Anche le Lezioni di storia della filosofia politica (pp. 514, euro 36) - come buona parte dei lavori del filosofo - sono uscite per i tipi di Feltrinelli, arricchite da una prefazione di Salvatore Veca (con Sebastiano Maffettone, il principale interprete di Rawls nel nostro paese) che rintraccia le linee di fondo dell'evoluzione del pensiero di un grande interprete della tradizione democratica e liberale.

Il Messaggero 7.4.09
Luigi Cavalli Sforza, genetista di fama, parla della monumentale opera della Utet che ha diretto
Dedicata all’evoluzione “intellettuale” del Paese
di Oliviero La Stella


L’OTTANTASETTENNE professor Luigi Cavalli Sforza ha l’aspetto vigoroso e aristocratico dei viaggiatori di un tempo. Genetista di fama, già professore emerito alla Stanford University, è uno degli scienziati che il mondo ci ammira. Ci parla di un’opera che è un po’ come il punto di arrivo di un lungo viaggio. Si tratta de La cultura Italiana, pubblicata dalla Utet. La prima grande opera dedicata all’evoluzione culturale del nostro Paese. Caratterizzata da un approccio multidisciplinare, si articola in 12 volumi, dei quali è recentemente uscito il primo; vi hanno lavorato duecento autori specialisti delle varie materie e la direzione scientifica è stata curata da Cavalli Sforza.
Che cosa spinge un genetista a occuparsi di cultura?
«Ho sempre avuto un grande interesse per l’evoluzione umana, per le differenze tra gli uomini che popolano la nostra Terra. Per capirne di più bisognava però occuparsi di altre scienze. Per prima ho affrontato la demografia, cominciando dallo studio dei libri parrocchiali e di documenti del genere. Ma ciò mi forniva un’idea degli ultimi 500 anni. Per poter andare ancora indietro nel tempo sono passato all’archeologia, e da qui allo studio dell’evoluzione delle lingue. Quindi all’antropologia. Sono stato due anni tra i pigmei dell’Africa centrale, che sono tra gli ultimi cacciatori-raccoglitori, quando noi tutti ormai da millenni il cibo lo produciamo (la prima grande invenzione dell’uomo). E inoltre mi sono interessato di economia e di sociologia...».
A quale conclusione è giunto al termine di questa lunga e vasta esperienza?
«Che l’evoluzione dell’uomo non è più tanto genetica quanto culturale. Le mutazioni sono rare. Tanto per citare un esempio: oggi grazie ai mezzi tecnici di cui disponiamo è molto più facile adattarsi ai climi caldi o freddi. Anche le invenzioni sono rare, cioè le soluzioni che l’uomo trova a un problema o a un bisogno particolare della vita, ma si possono insegnare e apprendere facilmente. E l’invenzione si diffonde con il linguaggio, mentre invece ciò che determina la novità vera nell’evoluzione biologica è la mutazione del Dna: la mutazione genetica che si trasmette dai padri ai figli e ai figli dei figli. Un processo per il quale ci vuole tempo, mentre quello culturale è più rapido grazie appunto al linguaggio».
Veniamo alla ponderosa opera della Utet, che comincia con un primo volume in cui si racconta la storia del popolamento dell’Italia. Qual è il senso di questa iniziativa?
«Capire attraverso quali processi si è formata la società italiana così com’è oggi. E può servire non soltanto a trovare delle spiegazioni, ma anche a stimolare curiosità intellettuali e, chi sa?, a fornire qualche indicazione utile per il futuro del nostro Paese».
Quali sono le vicende, nella nostra storia, che più positivamente hanno contribuito alla formazione dell’identità italiana attuale?
«Credo che la storia di Roma conti ancora non poco. E ancor più conta il Rinascimento, che resta il momento più alto della nostra espressione artistica».
Nella sua prefazione cita alcuni nostri difetti sociali, come il campanilismo e il familismo, quello che alcuni sociologi descrissero come “il familismo amorale” degli italiani. Quali altri vi aggiungerebbe?
«Siamo ancora litigiosi e provinciali come al tempo dei comuni, anche se pure quella era una gran bella epoca. Forse abbiamo bisogno di maggiore fiducia in noi stessi, e della capacità di fare autocritica intelligente e costruttiva».
Dopo venticinque anni a Stanford ha scelto di tornare in patria. Cosa apprezza dell’Italia di oggi?
«La cosa che mi piace di più oggi sono i festival della scienza. E apprezzo molto che nella ricerca scientifica ci sia ancora qualcuno che lotta contro ogni difficoltà, dalla mancanza di comprensione da parte del governo alla miseria del mecenatismo. Bisognerebbe cancellare completamente dalle tasse tutto il denaro dato alla scienza, come avviene negli Stati Uniti, non la metà come adesso. Si tratterebbe di una perdita fiscale modesta per lo Stato: non saranno mai grandi cifre, ma potrebbero fare una bella differenza. Oggi le donazioni sono fatte più che altro per comprarsi un posticino in paradiso».
E la potente influenza che la televisione ha sugli italiani?
«È assai negativa. Non soltanto la nostra televisione è di una povertà intellettuale impressionante, ma la tv in se stessa abitua la gente a una visione passiva che non è educativa».

Il Messaggero 7.4.09
Dalla mutazione al mutamento
di Walter Pedullà


NON ho avuto modo di leggere l’opera, ma stavolta fa un maggiore effetto l’uomo, questo magnifico ottantasettenne professore italiano che per una vita ha insegnato in un’università americana. Onoriamo in Luigi Cavalli Sforza l’altissimo scienziato che ci racconta la leggendaria e reale storia degli italiani che tanto hanno fatto per la cultura umana da prima dei romani ai giorni nostri. E onoriamo insieme al grande genetista anche coloro che l’amata patria ama mandare all’estero perché lì continuino la ricerca per la quale da noi non si trovano i finanziamenti. Quanto s’è fatto lontano il Rinascimento!
Impressiona in Luigi Cavalli Sforza la figura dello studioso che impara tutte le più disparate discipline per provare a capire chi eravamo e chi siamo diventati, da dove veniamo, cosa possiamo fare per mutare e persino per progredire: sia nel tempo lungo delle ere geologiche sia in quello brevissimo dell’attualità, cioè dall’invenzione del cibo ai festival della scienza. Sotto i suoi occhi passa come presente il tempo lentissimo del dna e quello rapido della cultura che muta grazie al linguaggio. Sommando e mescolando l’antropologia, l’archeologia, l’economia, la sociologia, nonché l’arte, questo “cervello non più in fuga” narra la multiforme evoluzione dell’uomo. Non c’è mutamento senza quella cultura paziente, oscura, appartata, specialistica sulla quale si basa la qualità della cultura di cui quotidianamente ci cibiamo. E il governo non risparmi sulle discipline universitarie che hanno pochi studenti d‘ingegno: non si neghi loro un avvenire italiano: insomma non li si mandi ad arricchire l’America di sapere e di brevetti.
Cavalli Sforza non dà consigli generici improntati al verboso ottimismo dei ministri, ma mette sul piatto un’intera concretissima esistenza spesa per imparare sia cosa è l’uomo quando è un pigmeo dell’Africa Centrale sia cosa è l’uomo che crea impensabili mezzi tecnici per adattarsi ai climi caldi e freddi. Vede troppo nero nella tv? Le chiede di non avere la visione passiva, le consiglia di fare ed essere cultura. Più programmi educativi? Non solo: meglio ancora un linguaggio che coltivi nella gente la «capacità di fare autocritica intelligente e costruttiva». Cavalli Sforza, che frequenta le mutazioni, giustamente punta sul mutamento. E anche in questo è un buon esempio. Anzi diciamolo pure: è un modello.

lunedì 6 aprile 2009

Corriere della Sera 6.4.09
In corsa Bellocchio, Archibugi, Tornatore
Cannes, ancora dubbi per i film italiani


CANNES — Mancano circa venti giorni al cartellone ufficiale del prossimo Festival di Cannes che si aprirà sulla Croisette il 13 maggio, ma l’incertezza sui titoli in gara regna ancora sovrana. Di certo finora c’è il film d’apertura (Up, cartone animato prodotto da John Lasseter) mentre, più che probabili nel concorso sarebbero Quentin Tarantino con il nuovo Inglorious Bastards e Christian Mungiu con Tales From the Golden Age. Per il resto ogni Paese gioca alle previsioni sulla propria cinematografia nazionale (in Francia scommettono su Patrice Chereau e Xavier Gianolli o Cedric Kahn) mentre per gli italiani si parla di Marco Bellocchio (da sempre fedele a Cannes) con il suo molto atteso Vincere, sul figlio segreto del Duce, interpretato da Filippo Timi. Altri continuano a pensare che Giuseppe Tornatore alla fine cederà alle lusinghe del presidente di Cannes, Gilles Jacob, svelando, in anticipo sui tempi previsti la sua Baaria. Anche se per il film, che richiede una lunghissima post produzione, sembra più facile pronosticare un’approdo veneziano. A Cannes guardano invece e con legittime aspettative due autori italiani della generazione di mezzo: Francesca Archibugi con Una questione di cuore, e Giuseppe Piccioni con l’appena distribuito Giulia non esce la sera. Due gli outsider di lusso: Dario Argento con il suo Giallo e Michele Placido con Il grande sogno sul ’68. Una risorsa d’attesa potrebbe infine venire dalle coproduzioni: è il caso di Non girarti, diretto dalla francese Marina Devan e interpretato da Monica Bellucci, quasi interamente girato al sole della Puglia.

Corriere della Sera 6.4.09
Il ruolo dei cattivi maestri che ispirarono i terroristi
7 aprile, indagine sulla transizione
Gli articoli di Antonio Ferrari sul caso
di Sergio Romano


Come altri drammi de­gli anni Settanta anche quello del «7 aprile» è un canovaccio pieno di sospetti, illazioni e clamorosi col­pi di scena, continuamente letto e interpretato secondo gli occhia­li deformanti di coloro che cerca­rono di descriverlo. Accanto allo scontro tra il terrorismo e lo Sta­to (magistratura e forze dell’ordi­ne) vi fu allora la guerra civile del­le dichiarazioni e delle opinioni: un intruglio di sentimenti, calco­li politici e riflessi ideologici che contribuivano a rendere le vicen­de ancora più imbrogliate di quanto non fossero.
I giornalisti furono investiti di grandi responsabilità. Molti ce­dettero alla tentazione di piegare gli avvenimenti alle loro tesi. Al­tri trasformarono l’intera vicenda in un feuilleton «pieno di sangue e furore». Quando leggo i loro ar­ticoli, trent’anni dopo, ho l’im­pressione che siano ingialliti co­me la carta dei giornali su cui ven­nero stampati. Vedo a occhio nu­do l’imprecisione delle notizie, il partito preso delle ideologie, la retorica del «sensazionale». Se devo servirmene per ricostruire un avvenimento o collocare i fatti in una prospettiva storica, comin­cio dopo qualche riga a dubitare della loro credibilità. Esistono anche, per fortuna, gli articoli di coloro che stanno ai fatti e cercano di tenere a bada per quanto possibile le loro emo­zioni. Gli articoli che Antonio Fer­rari scrisse da Padova, in quei giorni, per il Corriere della Sera, appartengono a questa terza cate­goria. Vi è quel tanto di «colore» che è necessario per evocare l’am­biente e il contesto. Vi è il ritmo del dramma con i suoi numerosi, incalzanti episodi. Vi sono i per­sonaggi con le loro virtù, i loro di­fetti e i loro tic. Ma vi sono soprat­tutto i fatti, i giorni e le ore in cui sono accaduti, le parole pronun­ciate dai protagonisti, i testi es­senziali degli atti ufficiali. È que­sta la ragione per cui non sono in­vecchiati. Possono essere letti og­gi con lo stesso interesse con cui furono letti allora. Mentre i magi­strati raccoglievano le prove per i processi che si sarebbero celebra­ti nei mesi seguenti, Ferrari depo­sitava agli atti il dossier di cui gli storici avrebbero avuto bisogno per condurre le loro indagini.
Letto oggi, questo dossier con­tiene almeno tre elementi che tra­scendono le vicende della crona­ca e danno un senso più chiaro alla storia italiana di quegli anni. In primo luogo l’inchiesta del 7 aprile dimostrò che il terrorismo aveva dei cervelli e che questi cer­velli erano nelle università. An­che se gli esecutori furono spes­so persone di modesta intelligen­za, l’idea della lotta armata fu con­cepita nelle cattedre ancor più che fra i banchi degli studenti. Non penso soltanto a Toni Negri e ai suoi collaboratori. Penso an­che a quei docenti e a quegli intel­lettuali che furono testimo­ni- complici del fenomeno e forni­rono ai militanti i sofismi di cui avevano bisogno per perdonare a se stessi la violenza di cui furono colpevoli.
Come abbiamo constatato nei casi recenti di Marina Petrella e Cesare Battisti, questa irresponsa­bile civetteria dell’intelligencija esiste ancora e in qualche caso al­berga addirittura nei palazzi del potere. In secondo luogo l’inchie­sta del 7 aprile fu un passaggio decisivo nella storia della magi­stratura italiana degli ultimi de­cenni. I magistrati erano da tem­po in prima fila, sospinti dalle in­certezze e dalle divisioni con cui la classe politica stava affrontan­do i postumi del ’68 e la violenza della lotta armata. Avevano fatto istruttorie difficili e coraggiose, erano stati minacciati, rapiti, ucci­si. Uno di essi, Emilio Alessandri­ni, era stato assassinato a Milano da un commando di Prima linea poche settimane prima dell’ini­zio dell’operazione di Padova. Questi rischi, queste responsabili­tà e la notorietà che ne fu l’inevi­tabile ricaduta, hanno avuto l’ef­fetto di modificare il ruolo pub­blico dei magistrati, soprattutto inquirenti. È questo il momento in cui smettono di essere funzio­nari della legge e diventano «sal­vatori della patria». L’inchiesta del 7 aprile ebbe l’effetto di acce­lerare questa tendenza. Ma ebbe anche l’effetto di dimostrare che la magistratura non era meno di­visa di quanto fosse la società ita­liana e che era anch’essa malata di ideologia.
Gli articoli di Antonio Ferrari (raccolti nel volume 7 aprile edito dalla Cleup) sono una radiografia del palazzo di giustizia di Padova nei mesi in cui i protagonismi cominciano a indebolire l’efficacia dello strumento giudiziario. La terza constatazione concerne il Veneto. Costretto a rincorrere le indagini in alcuni paesi della provincia di Padova, Vicenza e Venezia, Ferrari rivela al lettore disattento una regione alquanto diversa da quella che ancora sopravvive nei romanzi e racconti di Guido Piovene, Goffredo Parise, Neri Pozza. La proliferazione degli insediamenti industriali ha cambiato, insieme al paesaggio, le abitudini, lo stile di vita e la cultura delle ultime generazioni. Come in altri momenti della storia politica della regione, la capitale intellettuale di questo nuovo Veneto è Padova. Ma nelle antiche aule e nelle gloriose cattedre del suo Studio vi sono malauguratamente i cattivi maestri e i cattivi discepoli. Chi vorrà fare la storia di questo nuovo Veneto nel momento della transizione dal vecchio al nuovo dovrà leggere queste pagine di Antonio Ferrari.

Corriere della Sera 6.4.09
L’analisi Le contraddizioni dei riformisti, parallele a quelle del Pci, in uno studio di Carmine Pinto
«Fattore S», la sinistra zoppa
Il massimalismo del Psi: vent’anni di incertezze fra capitalismo e Stalin
di Giovanni Belardelli


Anni fa Alberto Ronchey evo­cò un «fattore K» per defini­re l’anomalia italiana legata alla presenza di un grande partito comunista che, non potendo andare al governo in quanto legato a Mosca, per ciò stesso privava il Paese della possibilità di un’alternanza poli­tica.
Ma a leggere ora il libro che un gio­vane storico, Carmine Pinto, ha dedi­cato al socialismo italiano negli anni che vanno dal 1945 al centrosinistra — Il riformismo possibile. La grande stagione delle riforme: utopie, speran­ze, realtà (1945-1964), con una intro­duzione di Simona Colarizi, edito da Rubbettino, pp. 204, e 20 — verrebbe da dire che da noi ha anche operato un «fattore S»: l’Italia repubblicana ha avuto infatti un partito socialista che, a differenza delle socialdemocra­zie europee, a lungo concepì il riformi­smo soprattutto come una leva per at­tuare il passaggio a un sistema sociali­sta.
Carmine Pinto si concentra sui di­battiti che ebbero luogo nel partito sui temi dell’economia e di cui furono protagonisti fin da principio politici o intellettuali di notevole levatura: da Rodolfo Morandi a Riccardo Lombar­di, da Angelo Saraceno a Roberto Tre­melloni. Quelle discussioni, in cui il partito socialista del dopoguerra mo­strava la capacità di coinvolgere un’in­tera generazione di tecnici, economi­sti e riformatori di varia estrazione, erano attraversate da una contraddi­zione di fondo: si citavano il piano Be­veridge e il New Deal di Roosevelt, ma anche i piani quinquennali di Stalin. Dentro il riformismo socialista vi era insomma sia chi credeva nell’interven­to economico dello Stato per orienta­re l’iniziativa privata ed affrontare co­sì le più gravi carenze dello sviluppo economico italiano, sia chi immagina­va invece che quell’intervento dovesse assestare un «colpo al cuore» al siste­ma capitalistico.
Oltretutto, la scissione di palazzo Barberini, con la nascita del partito so­cialdemocratico di Saragat, e poi l’alle­anza frontista col Pci, accentuarono l’anticapitalismo dei socialisti, metten­do il partito, sulle questioni economi­che e non solo, a rimorchio di quello comunista (nel 1952, per dire, la dire­zione del partito di Pietro Nenni pro­muoveva a Torino un convegno su «La vita di officina nell’Urss»). In que­gli anni il Psi, in contrasto con la posi­zione delle socialdemocrazie euro­pee, divenne così un partito filosovie­tico che si considerava avversario del­la democrazia occidentale.
Il libro segue in dettaglio il «risve­glio del riformismo» verificatosi nel Psi a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, in contemporanea al faticoso distacco dai comunisti e dal­l’Urss. È un riformismo che comincia a guardare alla realtà dell’economia italiana senza filtri ideologici (nel 1958, proprio l’anno di inizio del cosid­detto «miracolo», il Pci pronostica in­vece un «aggravamento della crisi eco­nomica »). Ma è anche un riformismo che fatica a liberarsi di certe velleita­rie aspirazioni rivoluzionarie: per An­tonio Giolitti, ad esempio, le riforme dovevano inserirsi in un processo che avrebbe visto i capitalisti perdere il po­tere in favore dei vertici economici sta­tali. Anche Pietro Nenni, il dirigente certamente più pragmatico della cor­rente autonomista del Psi, non faceva che ribadire la sua ostilità al riformi­smo e la necessità di una terza via tra comunismo e socialdemocrazia.
Al principio degli anni Sessanta, or­mai alle soglie del centrosinistra, il partito socialista sembra avere final­mente acquisito una consapevolezza riformista, anche grazie al rapporto con i repubblicani e con gli ambienti intellettuali che fanno capo al Mondo e all’Espresso. Certe illusioni, per la ve­rità, non sono svanite del tutto: si par­la di «riformismo rivoluzionario», si afferma (e la cosa, letta oggi, fa davve­ro sorridere) che la creazione dell’Enel, seguita alla naziona­lizzazione dell’energia elettri­ca, avrebbe dovuto essere la prima tappa nella transizione al socialismo.
Ma non è solo da questo massimalismo verbale, così ti­pico peraltro della tradizione socialista italiana, che vengo­no gli ostacoli. A interrompe­re sul nascere la politica rifor­mista del centrosinistra è an­che un insieme di altri fattori: l’opposizione del mondo eco­nomico e della grande stam­pa di informazione (che de­nuncia il pericolo di una so­vietizzazione dell’economia italiana), le resistenze di una parte della Dc, i risultati delle elezioni del 1963 che premia­no i liberali di Malagodi, stre­nui avversari della nuova formula di governo, la dura opposizione dei co­munisti e della Cgil. Per quel che ri­guarda il Psi, a colpirne definitivamen­te la possibilità d’essere il perno di un fronte riformista intervenne la scissio­ne del Psiup: dopo due scissioni in quindici anni (la prima a destra con i socialdemocratici, la seconda a sini­stra) il partito socialista veniva infatti privato della possibilità di sfidare, con qualche possibilità di successo, l’egemonia dei comunisti entro la sini­stra italiana.

Corriere della Sera 6.4.09
Elezioni. Il Paese fanalino di coda del Continente in bilico tra Ue e influenza russa
Moldova, i più poveri d’Europa portano al trionfo i comunisti
Maggioranza assoluta per l’ultimo partito leninista
di Maria Serena Natale


Il presidente si vanta di aver costruito «uno Stato sociale leninista» e pensa di passare alla Storia come «il Deng moldavo»

Determinante nel voto di ie­ri lo zoccolo duro di dipenden­ti pubblici e pensionati. «Sono membro del partito da 45 anni — ha detto all’agenzia Reuters un settantenne di Chisinau —. Voterò comunista finché vi­vo».

La ragazza ammicca dal ma­nifesto elettorale: «Insieme per una Moldova europea». Sotto la scritta, falce e martel­lo. «Ma i giovani se ne vanno, il futuro se lo costruiscono in Russia o in Europa», dice Mikhail, 50 anni, uno dei po­chi rimasti nel villaggio di Ustia, Moldova orientale. Ieri il più povero Paese europeo ha votato per il rinnovo del Parlamento e secondo gli exit poll il Partito comunista del presidente Vladimir Voronin si è confermato prima forza politica con il 45,5% dei voti conservando gli attuali 56 seg­gi su 101. Superano la soglia di sbarramento del 6% anche Liberali (14%), Liberaldemo­cratici (14%) e Nostra Moldo­va (10%).
Con una maggioranza soli­da ma non fortissima, i comu­nisti cercheranno sostegno esterno per affrontare il primo scoglio della nuova legislatu­ra, l’elezione del nuovo presi­dente della Repubblica: per far passare il proprio candidato avrebbero bisogno di almeno cinque seggi in più ma i leader dell’opposizione hanno subito escluso la possibilità di forma­re una coalizione con un «par­tito criminale». In carica dal 2001, fiero di aver costruito «uno Stato sociale leninista» e convinto di passare alla Storia come «il Deng Xiaoping mol­davo », Voronin incarna la sta­bilità, puntellata da slogan e ri­ti che sembrano voler fermare il tempo. Uno dei primi prov­vedimenti adottati dai comuni­sti dopo la vittoria del 2001 fu il ripristino di gran parte delle statue di Lenin rimosse dopo il collasso dell’Urss e negli an­ni il presidente ha continuato a inneggiare ai «classici del marxismo-leninismo dai quali ricavare insegnamenti utili per risolvere i problemi del presente». A 67 anni Voronin non intende comunque uscire di scena e già pensa a un futu­ro da presidente del Parlamen­to o segretario del partito. La­scia al suo successore un Pae­se dipendente dal gas russo e affamato d’Europa.
Parte della Romania fino al 1940, poi Repubblica sociali­sta sovietica, infine indipen­dente dal 1991, la Moldova (di­zione preferita al calco russo «Moldavia») ha mantenuto con Mosca rapporti altalenan­ti negli ultimi otto anni. Alline­ato da principio su posizioni nettamente filo-russe, Voro­nin si è gradualmente avvici­nato a Bruxelles, assicurando­si gli aiuti Ue e inserendo il Pa­ese prima nella cornice della Politica europea di vicinato, poi nel Partenariato dell’Est che sarà lanciato il prossimo maggio. L’appoggio di Mosca resta imprescindibile per cer­care una soluzione al conflitto congelato della Transdnistria, la regione separatista a mag­gioranza russofona che si auto­proclamò indipendente nel 1990, senza ottenere il ricono­scimento internazionale, e fu teatro del sanguinoso conflit­to del 1992.
L’economia, già minata dal­l’embargo russo sulle esporta­zioni di vino e prodotti agrico­li del 2006, poi dalla siccità del 2007 e dall’aumento del prez­zo del gas, è a terra e in campa­gna elettorale l’opposizione ha accusato il governo di aver na­scosto gli effetti della crisi eco­nomico- finanziaria. Uno sti­pendio medio si aggira intor­no ai 240 euro, la corruzione dilaga, un quarto della popola­zione in età da lavoro vive al­l’estero, le rimesse degli emi­grati ammontano a un terzo del Pil (a gennaio la Banca cen­trale ha registrato un calo del 30% rispetto allo stesso mese del 2008).

Corriere della Sera 6.4.09
Crimini di guerra. Il magistrato, con una lunga carriera alle spalle: «Io stesso sono rimasto sconcertato, però accetto»
Un giudice ebreo indagherà su Gaza, choc e proteste
L’Onu dà l’incarico al sudafricano Goldstone. Perplessità tra gli arabi e gli israeliani
di Francesco Battistini


GERUSALEMME — Bella grana, professor Goldstone. «La decisione non è stata facile. Ci ho pensato giorni e notti. Notti d’insonnia...». Gli scappa di di­re: «Ci sono già elementi sul pri­ma, sul durante e sul dopo l’ope­razione Piombo Fuso...». Lo in­calzano: che cosa intende, mi­ster Goldstone? «L’interesse no­stro è di far luce su tutti, ripeto tutti, i crimini». Ci vorrà qual­che settimana, prima che si riu­nisca la commissione Onu per Gaza. Ci sono voluti pochi minu­ti, per capire che il lavoro di Ri­chard Goldstone sarà ricusato da una parte o dall’altra, ovun­que vada a parare. Letto in fili­grana. Setacciato nelle virgole. Il caso Goldstone: giudice suda­fricano, come l’hanno presenta­to i media di mezzo mondo; giu­dice ebreo, hanno subito notato i giornali arabi e israeliani. Che alla fine avrà assolto l’esercito «in quanto ebreo», o l’avrà con­dannato «perché prevenuto». Comunque una bella grana... «Ci ho pensato a lungo. Alla fi­ne, qualcuno doveva pur farlo». La domanda è brutale, un po’ imbarazzante: può un giudice come Goldstone presiedere que­sta commissione d’inchiesta? La risposta sarebbe scontata — certo che può —, specie se a por­la è il quotidiano d’un Paese no­toriamente garantista, l’Iran Daily di Teheran, che quattro anni fa pubblicava senza chie­dersi nulla gli articoli di Gold­stone sul Ruanda e ora, invece, è perplesso come altri commen­tatori mediorientali: «Non è chiaro che tipo di lavoro andrà a svolgere la commissione e quanto un ebreo sappia resiste­re a certe pressioni». Venerdì, però, è stato lo stesso Goldsto­ne a dirsi «scioccato della nomi­na, in quanto ebreo». E anche Yedioth Ahronot, giornale israe­liano, ne ha rimarcato l’origine.
Mentre il Jerusalem Post ha os­servato che il settantenne giudi­ce — un lungo curriculum di co­stituente del Sudafrica post apartheid, d’investigatore sul Kosovo e sullo scandalo Oil for food, studioso del nazismo in Argentina, autore di testi sul­l’eredità di Norimberga — è an­che «componente del comitato dei garanti dell’Università ebrai­ca ».
I diretti interessati non sem­brano porsi dubbi simili, al mo­mento. Ibrahim Kraishi, amba­sciatore palestinese all’Onu, «ac­coglie favorevolmente» la nomi­na di Goldstone. E la contrarie­tà d’Yigal Palmor, il portavoce del governo israeliano, è d’altro tipo: «A essere screditato è caso­mai il Consiglio dell’Onu, che il 12 gennaio istituì la commissio­ne e ora ha nominato i membri. Non c’è Paese democratico che abbia sostenuto quest’indagine. Non ha base morale: s’è già deci­so chi sia il colpevole e di che cosa». In effetti il mandato di Goldstone, affiancato da un’in­glese, una pakistana e un irlan­dese, è complicato: con una mo­zione su cui s’astennero 13 Pae­si (uno votò contro), l’Onu chiese d’indaga­re sulle «violazioni commesse dalla poten­za occupante d’Israele contro la popolazione palestinese». Adesso, il giudice dice che guar­derà a «tutte le violazio­ni » e alle «vittime di tutte le parti», violenze nei Territori e Qassam di Hamas compresi. Mi­ca facile: non c’è nem­meno una stima esatta e imparziale di quanti furono i morti, in quei 22 giorni. E le testimonianze rac­colte dalla stampa israeliana, che sulla «sporca guerra» ha in­tervistato molti soldati, sono contestate dall’inchiesta di Tsahal che le ha giudicate «non genuine, raccontate per sentito dire». Anche le ong sono divise: chi (Human Rights Watch) insi­ste sull’uso del fosforo bianco, chi (Stand With Us) apre blog in­nocentisti. Il giudice promette: «Ascolterò tutti». Saranno notti insonni, professor Goldstone.

Corriere della Sera 6.4.09
In Spagna
Melilla, clandestini indù ingaggiati per la processione


MADRID — Per Opara, un nigeriano 31enne arrivato a nuoto dal Marocco, sarà un modo di ringraziare chi, lassù, gliel’ha mandata buona. Per gli altri un atto di fede per farsi accettare nella terra promessa: Melilla, enclave spagnola in Africa. Qui, per la processione della Settimana Santa, sono stati reclutati dalla Confraternita di Nuestro Padre Jesus Cautivo, 34 clandestini come portatori dei troni dedicati alla Vergine del Rocio e al Gesù prigioniero. Un anno fa la statua di Maria Santissima aveva rischiato di perdersi la processione per mancanza di spalle. Poi si erano offerti gli agenti locali, tra i quali alcuni musulmani. Questa volta i portatori saranno subsahariani, prevalentemente cattolici, e 5 tra indiani, pachistani e induisti. Opara non ci vede niente di strano: «Dio è lo stesso per tutti». (eli. ros.)

Repubblica 6.4.09
Milano blindata, la destra fa il saluto romano
Con il braccio teso al convegno di Forza Nuova. La protesta di sinistra e Anpi
Nostalgici in prima fila, ammoniti dal servizio d´ordine Il leader Fiore: non li ho visti
di Sandro De Riccardis e Oriana Liso


MILANO - Una piazza e le sue vie d´accesso blindate da un migliaio di uomini tra polizia, carabinieri e vigili, camionette, elicotteri. Ingresso nella zona consentito solo ai residenti, ai giornalisti e, ovviamente, ai militanti di Forza Nuova. Che ieri, in una Milano che si è (in parte) schierata, hanno tenuto senza incidenti il loro convegno sulle tradizioni e sui poteri forti a poche centinaia di metri di distanza dal migliaio di ragazzi dell´happening culturale organizzato da comitati antagonisti e antifascisti e dalle corone in memoria dei caduti del nazifascismo deposte poche ore prima dai partigiani dell´Anpi dopo un corteo in galleria Vittorio Emanuele.
Meno di quattrocento persone i partecipanti al convegno di Forza Nuova: età media tra venti e trent´anni, arrivati in piazza Missori sugli autobus del servizio speciale dell´Atm, scortati da agenti in assetto antisommossa. A precederli, il loro leader, l´europarlamentare Roberto Fiore, salutato al suo ingresso nell´hotel sede del convegno dai "camerati" con il braccio teso, subito ammoniti dal servizio d´ordine. Saluti romani ripresi da fotografi e cameramen, anche se Fiore dice di non averli visti. L´unico sprazzo da nostalgici del Ventennio, quelle braccia tese, assieme alla presenza in sala di padre Giulio Tam, il sacerdote sospeso a divinis, candidato sindaco di Bologna per Forza Nuova, l´unico che in sala ha accennato un saluto romano. Perché ieri i militanti di Forza Nuova hanno mantenuto un profilo bassissimo: niente slogan e niente colore, tranne le solite teste rasate e gli abiti neri, per «dare spazio ai contenuti». Del resto da giorni sul forum del loro sito l´invito era quello di presentarsi «vestiti normali, con l´atteggiamento di militanti politici». Un basso profilo e una strategia da «noi siamo persone responsabili» anche nel tira e molla sui due presidi annunciati e poi annullati. Per Fiore «perché non vogliamo creare situazioni di tensione»: in realtà perché non era stata chiesta l´autorizzazione a prefettura e questura, che non l´avrebbero mai concessa nel quadro di una attenta gestione di una situazione potenzialmente molto pericolosa.
Davanti all´hotel, a convegno in corso (per inciso, i giornalisti hanno pagato 30 euro per poter ascoltare le due ore di interventi) si è materializzato il deputato Pd Emanuele Fiano, per ribadire: «Penso che il governo e il sindaco di una città Medaglia d´oro della Resistenza avrebbero dovuto prendere la parola sugli ospiti stranieri e sulle idee che hanno diffuso ed esprimere un giudizio». Al mattino Fiano, figlio del sopravvissuto ad Auschwitz Nedo, era alla cerimonia di commemorazione delle vittime del nazifascismo con il presidente nazionale dell´Anpi Tino Casali. Tre anni fa l´allora candidato sindaco Letizia Moratti partecipava al corteo del 25 aprile con il padre, deportato a Dachau. Ieri il sindaco Moratti diceva: «Per fortuna è andato tutto bene, grazie alle forze dell´ordine: era impossibile non permettere questa manifestazione, manifestare le proprie idee è garantito dalla Costituzione». Non erano d´accordo i manifestanti di piazza della Scala, ragazzi dei centri sociali, dei circoli Arci, dei partiti di sinistra, raccolti intorno allo striscione "L´antifascismo chiama, Milano accorre": lo stesso che la mattina una decina di ragazzi avevano srotolato davanti ai corridori della Stramilano. Non era d´accordo nemmeno il presidente della Provincia Filippo Penati, che però ha sottolineato che «Milano ha saputo isolare l´estrema destra, scegliendo di essere da un´altra parte». Resta solo un episodio oscuro, avvenuto sabato notte: i responsabili di un circolo Arci hanno denunciato un´aggressione da parte di alcune persone entrate nel locale scandendo minacce contro gli omosessuali.

Repubblica 6.4.09
Raffaello nella bottega del padre
Ad Urbino La rassegna sulle sue radici
di Antonio Pinelli


Giovanni era un artista preparato e trasmise al figlio un´ampiezza di orizzonti culturali
Smentito il Vasari secondo cui l´artista si allontanò presto dalla sua città
Quaranta capolavori provenienti da raccolte europee e americane

URBINO. Con questa importante mostra Raffaello torna nella sua città natale con una quarantina di capolavori, tra dipinti e disegni provenienti dalle più prestigiose raccolte europee e d´oltreoceano. Ma quel che più conta, torna per affermarvi a chiare lettere (e per così dire, documenti alla mano) che Urbino, contrariamente a quanto sostiene una tradizione storiografica dura a morire, lasciò un´impronta indelebile nella sua formazione culturale (Raffaello e Urbino, Palazzo Ducale, a cura di L. Mochi Onori, fino al 12 luglio).
Come spesso accade, tutto nasce da Vasari, fonte storiografica fondamentale per i nostri studi, ma talvolta insidiosamente fuorviante. La biografia vasariana di Raffaello infatti imbastisce per l´adolescenza dell´artista un raccontino edificante, imperniato sulla sollecitudine mostrata da suo padre Giovanni Santi, che dopo aver addestrato il figlio ancor fanciullo nella propria bottega di pittore ed averne ricevuto «grande aiuto in molte opere», sentendosi inadeguato a svilupparne a dovere il prodigioso talento, si recò a Perugia e lo affidò a Pietro Perugino, «il quale teneva in quel tempo fra i pittori il primo luogo». Come talvolta succede con Vasari, il racconto parte da alcune premesse indiscutibili: esistono opere del giovane Raffaello, come ad esempio la Crocifissione Mond, proveniente da Città di Castello, e il gonfalone con la Trinità e la Creazione di Eva, tuttora conservato nella medesima cittadina umbra, in cui il giovane urbinate mostra di aver assimilato talmente lo stile del Perugino da rendersi praticamente indistinguibile da lui. Ma da queste premesse incontestabili, Vasari fa derivare un precoce allontanamento del giovane Raffaello da Urbino e un suo alunnato a Perugia nella bottega del Perugino, che in realtà sono ben lungi dall´essere dimostrati. Anzi, facendo tesoro di intuizioni risalenti a Wittkower e a M. Grazia Ciardi Dupré, ma anche basandosi sulle recenti e clamorose scoperte documentarie compiute da Anna Falcioni e Vincenzo Mosconi negli archivi urbinati, questa rassegna, che sicuramente costituirà un punto fermo per gli studi a venire, dimostra che la prima convinzione vasariana - e cioè che Raffaello si allontanò precocemente dalla sua città - è sicuramente destituita di fondamento, mentre sulla seconda, quella del suo alunnato presso Perugino, se non si può essere altrettanto categorici, poco ci manca.
Proviamo a ricapitolare: Raffaello nasce nella primavera del 1483. Urbino in quegli anni è seconda solo a Firenze per prestigio culturale: vi hanno lavorato protagonisti della rivoluzione artistica del Quattrocento come Piero della Francesca, Francesco di Giorgio, Luciano Laurana, Paolo Uccello, grandi maestri fiamminghi. Vi si sono formati Bramante e Melozzo da Forlì e vi si coltivano ai massimi livelli la matematica, la prospettiva e l´architettura militare. Raffaello perde la madre a otto anni e il padre a undici, divenendone l´erede universale.
Più che probabile dunque che, da fanciullo prodigio, abbia ricevuto i primi rudimenti dal padre, ma è da escludere che abbia potuto davvero essergli di valido aiuto nella sua attività di pittore. Un pittore che peraltro non era affatto mediocre, ma che soprattutto era un intellettuale a tutto tondo, un artista di corte colto e aggiornato, come dimostra il suo poema in versi, con cui ci fa compiere l´intero periplo della civiltà figurativa del Quattrocento, definendo con pochi ma appropriati aggettivi ben trentotto tra pittori e scultori italiani e fiamminghi. Sono quest´ampiezza di orizzonti culturali e acutezza di giudizio le maggiori doti che egli trasmise a suo figlio, anche se la mostra non manca di farci toccare con mano, attraverso opportuni confronti tra opere, come anche sul piano tecnico e stilistico egli poté insegnare qualcosa a quel genio che gli stava crescendo accanto. Ma oltre a ciò, Giovanni lasciò al figlio una bottega assai bene avviata e condotta da un suo sperimentato collaboratore, Evangelista da Pian di Meleto. Ruota attorno a questa inoppugnabile circostanza, corroborata da una gran mole di documenti, a cominciare da quel contratto del dicembre 1500 in cui il diciassettenne Raffaello, già definito magister, s´impegna assieme ad Evangelista ad eseguire una pala per una cappella di Città di Castello, la dimostrazione che il giovane urbinate aveva ben altre opportunità e impegni che non fare il garzone a Perugia nella bottega di un artista che, peraltro, nell´ultimo scorcio del Quattrocento era più attivo a Firenze e altrove che a Perugia. La verità è che Raffaello respirò a pieni polmoni e a lungo l´aria, satura di cultura, della sua Urbino, pur spostandosi per lavoro a Città di Castello, Siena, Firenze, e, perché no, anche a Perugia. Ma da onnivoro qual era, rielaborò stimoli offertigli, in patria e altrove, da conterranei come Genga e Timoteo Viti, da Signorelli, da Pintoricchio. E, naturalmente, anche dal Perugino. Del quale, proprio perché era il più grande, volle assimilare tutto fino in fondo, per poi liquidare il suo debito nel 1504, quando dipingendo lo Sposalizio della Vergine di Brera, prese a prestito un´idea di Pietro, ma la rielaborò con una genialità tale, da rendere in un sol colpo il prototipo irrimediabilmente vecchio d´un secolo.

Repubblica 6.4.09
PARIGI.Kandinskij al Centre Pompidou. Dall' 8 aprile


Da non perdere la grande mostra dedicata a una delle figure più importanti del XX secolo, realizzata in collaborazione con la Städtische Galerie in Lenbachhaus di Monaco e il Guggenheim Museum di New York, che possiede il fondo più cospicuo di opere dell'artista. La rassegna riunisce un centinaio di dipinti, acquerelli e manoscritti, che ricostruiscono l'intero arco creativo di Kandinskij, considerato l'inventore dell'astrazione, in particolare per quanto riguarda la serie delle impressioni e improvvisazioni. Il maestro dà il suo maggiore contributo in due momenti chiave dell'arte del Novecento: il gruppo del Cavaliere azzurro a Monaco, negli anni che precedono la Guerra Mondiale, e il Bauhaus di Weimar e Dessau, periodo tra le due guerre. Il catalogo ragionato dell'opera e recenti scoperte permettono una lettura approfondita della sua pittura.

Corriere della Sera 6.4.09
Parla la scrittrice di cui Einaudi ha appena pubblicato la raccolta dei racconti: «Siamo meno fatalisti e rassegnati di un tempo»
Anita Desai
Il femminismo con il sari. Le donne salveranno l’India
di Isabella Bossi Fedrigotti


«Lavoro, soldi, istruzione: così cambierà la mia terra»
Anita Desai è nata a Nord di New Delhi nel 1937. I racconti del volume sono tradotti da Anna Nadotti (che ne ha anche curato l’edizione), Bianca Piazzese e Vincenzo Vergiani

PARIGI — Anita Desai è come ce la si aspetta: il viso dolce, affabile di indiana, dal tenue color caffelatte, però, — non per niente la mamma era una pallida te­desca di Berlino — le mani morbide, la voce giovane, da ragazza, nonostante sia ampiamente nonna, il sari naturalmente e le ciabatte infradito ai piedi malgrado questa fresca primavera parigina. Soprat­tutto, però, è quieta, sorridente e sapien­te come lasciavano immaginare i suoi ro­manzi ( Un percorso a zigzag, il più recen­te; Notte e nebbia a Bombay, il più famo­so) e i suoi racconti, pubblicati in questi giorni da Einaudi in un volume che ne raccoglie una ventina ( Tutti i racconti, pp. 374, € 15,50).
Forse la maggiore scrittrice indiana vi­vente, che divide l’anno tra New Delhi, dove sono rimasti due dei suoi quattro figli, e gli Stati Uniti, dove si sono trasfe­riti gli altri due — di cui una a sua volta scrittrice — e dove ha insegnato per die­ci anni scrittura creativa al Massachuset­ts Institute of Technology («Sì — sorride quasi ancora incredula — i fisici, i chimi­ci, i matematici, i biologi, gli astronomi del Mit sentivano il bisogno di un po’ di materie umanistiche»), è a Parigi per una lezione alla Sorbona e, perfettamen­te in linea con l’immagine che se ne ave­va, è scesa in un piccolo, modesto «due stelle» a un passo dall’Università.
Nonostante la doppia vita che condu­ce da ben quindici anni, a parte poche eccezioni, le sue storie sono sempre am­bientate in India: parlano di case e di fa­miglie, di oggetti e di ricordi, di usi anti­chi, di tradizioni ancora vive e di quelle avviate a morire che, morendo, a volte la­sciano gli uomini smarriti e insicuri. «Non per questo — dice pensierosa — voglio a tutti i costi conservare il passa­to, non rimpiango ciò che è finito né cre­do a perdute stagioni dell’oro. Il tempo non si può fermare, è un mulino che ma­cina, le tradizioni antiche devono pian piano svanire e gli uomini non possono che adattarsi continuamente a quelle nuove. In questo senso, forse, trova ra­gione d’essere la mia scrittura: può aiuta­re il lettore a non dimenticare il passato, a comprenderlo anche, per meglio com­prendere il presente. E in India, così tan­to del passato è ancora presente! Ma scri­vo dell’India anche per un motivo molto più banale: perché lì capisco tutto, tutto mi è chiaro, non devo sempre chiedere come mi succede in America». Nei sobborghi di New York dove tra­scorre molti mesi dell’anno, continua, in­fatti, a sentirsi straniera. Per come vive, per come pensa, per come mangia, per come, a volte, si veste (con il sari appun­to, di tanto in tanto) e, naturalmente, per il colore della pelle. Ma il motivo ve­ro è forse diverso e più profondo: «Pro­babilmente sta nel fatto — spiega Anita — che l’America ha poche tradizioni e quelle poche sono così 'brevi' rispetto al­le nostre». Per la ragione opposta si tro­va tanto bene in Messico, dove da tempo affitta una casa in mezzo alle montagne per scrivere in pace: come l’India è, infat­ti, un paese di antichissima storia tutto­ra presente e visibile. «C’è da dire però — aggiunge — che lì mi sento meno estranea anche perché di solito mi pren­dono per messicana».
Per un verso o per l’altro i libri e i rac­conti di Anita Desai hanno tutti una for­te impronta autobiografica: personaggi, luoghi, situazioni sono in gran parte trat­ti dalla sua realtà. E anche quei rari testi ambientati piuttosto in America riporta­no quasi sempre vicende di immigrazio­ne e di spaesamento che s’indovinano fa­cilmente viste o vissute in prima perso­na. Del resto, lo rivendica con passione: «La scrittura deve narrare prima di tutto la verità, solo la verità, deve raccontare il mondo come è. L’invenzione, la fantasia hanno ovviamente il loro ruolo, ma per me possono essere soltanto marginali».
In questo modo la scrittrice ha narra­to, romanzo dopo romanzo, la sua vita, la sua storia e quella della sua famiglia, i parenti, gli amici, i luoghi, le case e i pae­saggi, le innumerevoli partenze e gli al­trettanti ritorni. Come i personaggi di molti suoi libri Anita Desai ha uno sguar­do doppio, nel senso che è in grado di guardare due continenti con occhi di chi ci vive e di chi invece li osserva dall’ester­no. Giudica l’India e giudica l’America, entrambe tuttavia con l’indulgenza e la saggezza che le sono proprie.
«Il vero problema dell’India — spiega — è il numero sterminato dei suoi abi­tanti per cui ogni cambiamento, ogni progresso, anche sostanziale, riguarda sempre soltanto una sparutissima mino­ranza. C’è troppo poca acqua e troppo poco cibo per tutti quanti. La ricca bor­ghesia di Delhi e di Mumbai, la nuova classe di professionisti intraprendenti che fanno innalzare il Pil delle metropo­li? Cosa vuole che contino nell’immensi­tà di un paese povero e arretrato dove si combattono guerre con il pretesto della religione, della razza e dell’appartenen­za a un clan o a una classe sociale, che in realtà sono soltanto guerre di chi non ha niente contro chi ha un poco più di nien­te? ».
Ciò non toglie che la scrittrice conti­nui a confidare in un cambiamento di cui avverte alcuni segnali: il tradizionale fatalismo e la rassegnazione degli india­ni, per esempio, non sono, secondo lei, più quelli di un tempo e un po’ alla volta lasciano posto ad atteggiamenti diversi, più determinati e volitivi. E la natalità co­mincia, sia pure lentamente, a decresce­re perché le famiglie, anche le più pove­re, non più necessariamente impiegate nel lavoro dei campi, si rendono conto che otto, dieci figli non costituiscono una ricchezza bensì un peso. E stanno cambiando le donne, anche in India.
«È il lavoro femminile il lievito del cambiamento» afferma Anita pur non di­menticando che spesso rende la vita del­le donne ancora più faticosa: «Per un ver­so mette loro in mano dei soldi, il che le rende automaticamente più autonome, anche in famiglia; per l’altro, fa compren­dere loro che, per ottenere posti miglio­ri, hanno bisogno di istruzione. È questa la grande sfida che l’India deve affronta­re e, se c’è richiesta, se c’è pressione, il governo prima o poi dovrà fare qualcosa per migliorare lo standard dell’istruzio­ne femminile, tuttora assai modesto».
Personalmente, Desai è stata un’apri­pista visto che già cinquant’anni fa lei e le sue sorelle non solo sono state inco­raggiate a studiare ma anche a lavorare. Merito della mamma berlinese? «No — sorride —, merito del papà il cui chiodo fisso era che le femmine dovessero esse­re indipendenti. Nostra madre, a dire la verità, era la più tradizionalista tra i due, voleva che pensassimo a famiglia e figli. Io e le mie sorelle abbiamo accontentato entrambi i genitori».
Sulle difficoltà dell’America, sulla cri­si economica che vi infuria, sulle miglia­ia di disoccupati ridotti in miseria, sui tanti che hanno perso la casa non spen­de, per contro, molte parole: «Avevano così tanto prima — sussurra con un filo di voce, quasi si vergognasse del suo scarso spirito di solidarietà — e per il momento non hanno un’idea di cosa vo­glia dire essere davvero poveri, senza nulla da mangiare, cioè. In India, invece, tutto questo lo si conosce anche troppo bene».
Due mondi contrapposti, dunque, Oriente contro Occidente? «Non direi. Piuttosto l’Oriente che guarda all’Occi­dente nel tentativo di imitarne lo svilup­po, risultato delle sue caratteristiche for­ti come l’intraprendenza, la speranza, l’ambizione. E, dall’altra parte, l’Occiden­te che si volge indietro all’Oriente veden­do, non senza rimpianto, quel che lungo i secoli ha perduto: la spiritualità, la resi­stenza alle spietatezze della vita, la custo­dia delle tradizioni. Due culture diverse, certo, però ricordiamoci che le culture non sono un marchio di fabbrica con il quale si nasce bensì il risultato delle con­dizioni nelle quali ci si trova a vivere».

Corriere della Sera 6.4.09
Il saggio di Emilio Gentile e l’incontro alla Fondazione Corriere della Sera
La sfida politica dei futuristi: un movimento oltre il fascismo
di Dino Messina


Se la politica non fu l’aspetto centrale del Futu­rismo, certamente fu un capitolo importante non soltanto per il movimento fondato nel 1909, ma per la storia del nazionalismo modernista. Sebbene Filippo Tommaso Marinetti lo negò sempre con forza, negli scritti di Enrico Corradi­ni ma soprattutto in quelli di Mario Morasso è possibile rintracciare già dal 1903 dei precedenti alla filosofia politica e alla stessa concezione an­tropologica futurista. Non soltanto per l’afferma­zione di una politica estera espansionista, ma per mettere al centro della vita moderna la mac­china, la tecnologia, la velocità. È vero che il mo­vimento nazionalista, soprattutto secondo la con­cezione di Corradini dava un ruolo essenziale al passato glorioso di Roma e al Vaticano, mentre il Futurismo fu da subito anticlericale e antipassati­sta, ma anche un nazionalista come Morasso con­siderava il retaggio culturale e monumentale che si era accumulato nei secoli nella penisola una palla al piede per il progresso italiano. Né più né meno di quanto sostenevano i futuristi.
Sono questi soltanto alcuni iniziali spunti con­tenuti nel saggio di Emilio Gentile Futuristi in politica — «La nostra sfida alle stelle » (Laterza, pagine 148, e 15). Gentile, uno dei maggiori stori­ci del fascismo, che ha saputo sintetizzare nei suoi scritti, per l’attenzione ai documenti e agli aspetti culturali, la lezione di Renzo De Felice e di George Mosse, domani sarà con lo storico Pie­ro Melograni e con Umberto Carpi, docente di let­teratura, protagonista del terzo e conclusivo in­contro dedicato al Futurismo dalla Fondazione Corriere della Sera (Milano, via Balzan 3, ore 18). Si parlerà appunto dei rapporti del movimento marinettiano con la politica e la società. Sebbene gli orientamenti politici del Futuri­smo, soprattutto in politica estera, si vennero de­lineando sin dai primi anni di vita del movimen­to (chi non ricorda lo slogan «marciare e non marcire» che fu coniato dai futuristi nel 1915 in occasione dell’intervento in guerra e non succes­sivamente dai fascisti?), un vero Partito politico futurista nacque soltanto nel febbraio 1918 per iniziativa del trio composto da Marinetti, Emilio Settimelli e Mario Carli, fondatore dell’Associa­zione degli arditi e massimo animatore durante la breve parabola del partito, la cui breve storia, conclusasi alla fine del 1920, si incrociò con l’im­presa fiumana di Gabrie­le D’Annunzio e con i Fa­sci di combattimento fon­dati da Mussolini. Molti futuristi furono dirigenti del fascismo primissima maniera ma non si identi­ficarono mai con esso, per diversi motivi, non ul­timo il contrasto tra l’idea­lismo visionario marinettiano e l’opportunismo politico mussoliniano.
A leggere il libro di Gentile si scoprono molte similitudini tra futurismo politico e fascismo, persino un’identificazione iniziale, dovuta alla comune origine combattentistica, ma mai una to­tale assimilazione, perché il futurismo nacque come movimento libertario, democratico, goffa­mente femminista. E soprattutto, dopo le prime scottanti delusioni, si riscoprì essenzialmente movimento artistico.

Liberazione 5.4.09
Mario Tronti esponente storico dell'operaismo, dirigente del Pci
«Proteste anti-G20 manca la politica»
intervista di Tonino Bucci


Sarà anche rituale, sarà anche l'ennesima speranza di vedere muoversi qualcosa nei conflitti sociali, ma è a ogni modo d'obbligo chiedersi che tipo di movimento sia quello che s'è visto a Londra contro il G20 - e che si è replicato ieri a Strasburgo contro la Nato. Se ne sono dette già tante. Le televisioni e i giornali l'hanno descritto come una protesta nata dall'impatto della crisi economica mondiale. Al suo interno non si vedono i classici soggetti organizzati del movimento operaio. La domanda allora è: ma un movimento che agisce fuori dalla sfera tradizionale della rappresentanza - per intendersi, senza legami con partiti e sindacati - è automaticamente un movimento fuori della politica o, più semplicemente, fa politica in altro modo? Insomma, sono ingenerose le critiche di chi rinfaccia a quel movimento di non sapere andare oltre la rabbia, la disperazione, il gesto simbolico. Lo chiediamo a Mario Tronti.
Che tipo di movimento è quello che s'è visto a Londra contro il G20?
Forse è utile fare un raffronto fra quel movimento e la piazza di oggi della Cgil. Qui abbiamo qualcosa di preciso. Abbiamo un mondo del lavoro abbastanza esteso in orizzontale che si ritrova in una mobilitazione organizzata da un grande sindacato. Stiamo nella tradizione, come dire? Anche se ci sono molte novità, a partire dalla presenza di migranti e di un pubblico giovanile. Il mondo del lavoro c'è ed è protagonista o, perlomeno, ha la volontà di esserlo ancora nella storia italiana. E poi c'è l'impatto della crisi. Sull'onda delle misure più o meno efficaci che mettono in campo gli Stati europei, gli Usa e altri paesi del mondo nel G20 risorge un conflitto. E questo mi pare consolante. Negli altri paesi le manifestazioni che abbiamo visto in questi giorni sono molto diverse da questa di oggi. Qui c'è ancora una forza organizzata che entra in campo, lì sono forze di movimento. Sarà che i paesi anglosassoni sono più esposti alla crisi, fatto sta che lì il movimento è di altro tipo. Non mi sembra neppure il movimento no-global. E' diverso.
Il movimento noglobal aveva le sue strutture, una rete di relazioni che ne assicurava in qualche modo una continuità al di là del calendario degli eventi della protesta. A Londra è sceso un movimento molto interessato alla potenza delle immagini, all'azione, al gesto simbolico. C'è persino il ritorno di suggestioni luddiste. Qualcuno ne approfitta per parlare di terrorismo e criminalizzare la protesta. Non vale la pena parlarne. Il problema è un altro. Ci si può accontentare di spaccare la vetrina di una banca o c'è invece un problema di direzione politica?
C'è qualche tratto anarchico. Il problema della forma politica da dare alla protesta sociale è un problema generale che riguarda anche noi - ma di questo possiamo accennare più avanti. Ma qui esplode in modo più clamoroso. Non solo non pensano alla forma politica, ma la rifiutano e la rifiuterebbero anche nel caso in cui dovesse emergere. E' un movimento d'altro tipo per il quale, certo, conta molto il gesto simbolico. Ma ho l'impressione che il gesto simbolico sia a sua volta suggerito da una lettura della crisi che non è esatta, almeno secondo il mio parere. Io credo che oggi bisognerebbe fare un minimo di chiarimento analitico della crisi. Questa idea che tutta la colpa è della finanziarizzazione, di una faccia del capitale, non corrisponde a verità. Le banche diventano l'avversario da criminalizzare, però così si passano sotto silenzio altre responsabilità che mi paiono altrettanto forti se non maggiori. La fase neoliberista non l'hanno voluta i finanzieri, semmai l'hanno utilizzata per i loro interessi. E' stata una scelta di sistema fatta dal capitalismo contemporaneo nel suo complesso. Anche il capitalismo reale, a un certo punto, ha fatto la scelta della finanza. Non è che la colpa sia tutta dei banchieri come vogliono far credere questi imprenditori vergini che recitano la parte delle vittime. I buoni contro i cattivi, quelli dalla parte dei lavoratori e quelli che speculano: questa è una trappola nella quale non dobbiamo cadere. Per questo è importante l'analisi della crisi attuale.
E' una crisi di sistema, insomma. Salari bassi, da un lato, e finanziarizzazione dell'economia, dall'altro. Se non c'è un'analisi lucida si rischia di sbagliare obiettivi nella lotta politica. O no?
La protesta s'indirizza verso falsi obiettivi. Il lavoro proprio perché è stato penalizzato nella fase precedente della globalizzazione neoliberista, è stato utilizzato solo per renderlo più flessibile e precario. Non gli è stato dato quello che gli spettava. La crisi è venuta da questo, dal fatto che i redditi da lavoro non potevano sostenere la crescita dei consumi. E' stato troppo penalizzato. Lo squilibrio tra reddito da lavoro e reddito da capitale è stato eccessivo persino per il capitale. Hanno esagerato nel penalizzare il reddito da lavoro. Non a caso questa appare anche come una crisi di sovrapproduzione e di basso consumo. La contraddizione sociale ha giocato nell'apertura della crisi. Perciò è importante rimettere in campo la forza del lavoro, farla vedere, mostrare che non è smobilitato.
E' un'operazione difficile su due fronti. Primo, su quello culturale. Per decenni ci hanno detto che il lavoro non era più centrale, che le identità individuali e collettive si strutturavano piuttosto sugli stili di consumo. ma c'è anche la questione politica. Proprio quando la crisi economica del capitale è al punto più basso, la nostra capacità politica di organizzare il lavoro è al punto più basso. Da dove cominciamo?
Oggi a vedere quel mare di persone singole che facevano massa - un tempo le chiamavamo masse lavoratrici - c'era motivo di soddisfazione, ma anche un tratto di sconforto. Questa gente meriterebbe molto più di quello che le diamo come rappresentanza, come cultura, come organizzazione. C'è uno squilibrio. Se uno dicesse queste masse lavoratrici non ci sono più, allora sì, uno comincerebbe a fare davvero un altro discorso, quello che fa - per intenderci - la sinistra moderata. Ma qui il problema è che le masse lavoratrici ci sono e a esse non corrisponde non solo un'immagine, ma neppure una direzione politica. Dobbiamo ringraziare la Cgil che rimane l'unica forza in grado ancora di organizzare un'uscita in campo di queto genere, sapendo però che c'è il limite della rappresentanza sindacale. Oltre un certo livello non può andare, anche volendolo. Anche quando si fa soggetto politico, a un certo punto si deve fare perché ha solo una funzione di difesa dei lavoratori. Invece qui ci vuole un'espressione di attacco. Se solo si potesse scagliare questa massa contro qualcosa... Anche nelle parole d'ordine sindacali c'è molta resistenza più che aggressività contro un obiettivo. Un avversario in crisi meriterebbe d'essere giudicato dal basso della società. Non basta dire che non pagheremo la vostra crisi. Le crisi sono provocate anche nell'interesse del capitale, sono strumenti di ristrutturazione, di distruzione creatrice. Quello che non vedo ancora sono una direzione politica del movimento e un'individuazione dell'avversario vero.
Il sindacato non può farlo. Nel migliore dei casi si ferma all'antagonismo economico. Manca la direzione politica, no?
Bisognerebbe far riemergere il lavoro come qualcosa che è stato oscurato negli ultimi decenni. Il lavoro quasi non esiste più, non solo come soggetto politico, ma anche come presenza sociale. Sembra che questo è un sistema che si regge senza lavoro. Bisogna far riemergere che questo sistema si regge perché c'è lavoro e che, magari, entra in crisi perché questo lavoro è stato sottopagato, sottovalutato. C'è da fare un grande discorso politico. Bisogna dare al lavoro una definizione politica. Dopo le lotte di classe novecentesche la struttura in classi molto rigide della società, ammettendo anche che la classe operaia ha perso un po' di soggettività, però non è un fatto del tutto negativo. Il lavoro si è esteso orizzontalmente ed è una presenza meno parziale di quanto non fosse il soggetto operaio d'una volta. E' però un soggetto più globale, più collettivo, meno parziale. La classe operaia, in fondo, aveva una sua parzialità che non riusciva a farsi popolo. Invece oggi nella sua declinazione contemporanea, nella sua articolazione, anche nella sua frammentazione, prende tutti. Il lavoro fisso, il lavoro precario, il lavoro autonomo. In fondo, quasi tutti lavorano e sono lavoratori. E questo permette di fare popolo, un popolo lavoratore.
Forse il lavoro contemporaneo avrà perso in concentrazione, sarà più disgregato. Però ne ha guadagnato in estensione, no?
Sì. Perciò la forma dell'organizzazione politica dovrebbe avere questo problema di come si fa a spendere l'organizzazione su questo terreno più vasto, meno concentrato ma più esteso. Qui bisogna inventarsi forme nuove di organizzazione.
Il paradosso è che per tanto tempo i politici hanno fatto a gara nel dire che il lavoro era finito. Oggi invece scopriamo che il lavoro non è affatto finito e che a essere finita, invece, è la politica. Non è così?
Questa è la grande contraddizione, non c'è dubbio. Il lavoro non fa più politica non perché non esista più il lavoro, ma perché non c'è quasi più la politica. Anzi, c'è il contrario, c'è l'antipolitica che a volte contagia anche molti strati di lavoratori. Quando non la trovi, la politica, la colpisci. Oppure la trovi nel modo distorto in cui la si trova oggi, in ceti politici chiusi, indifferenti, autoreferenziali, incapaci di guardare il mondo così com'è.
Quando non c'è la politica si finisce per cedere alla disperazione e allora ognuno reagisce come meglio può. Chi sequestra un manager, chi assalta la banca... Non è per guardare le proteste dall'alto verso il basso, nessuno se lo può permettere. Il problema è che non c'è la politica...
Quelle cose avvengono proprio perché non c'è altro, riempiono un vuoto. Quando invece scende in campo il mondo del lavoro ha tutta la sua riconoscibilità, la sua visibilità. Però c'è un discorso da fare. La grandiosa manifestazione del 2002 sull'articolo 18 organizzata dalla Cgil di Cofferati fu un punto alto della mobilitazione. Dopo di allora ci fu una rapida discesa. Bisognerebbe oggi evitare il ripetersi di quella sequenza. La spinta che è venuta dalla piazza andrebbe coltivata. Bisogna riaprire un conflitto, certo, senza sprecare le forze e andare incontro a immediate sconfitte. Ma il problema di come fare, dopo queste grandi manifestazioni, di non scendere e di mantenersi a quel livello.
E' un appello alla sinistra antagonista?
Si deve fare soggetto di questa spinta, concentrare le forze, non mettere tutto sullo stesso piano. Penso che il tema del lavoro, per una sinistra politica, non sia un pezzo di programma che sta assieme ad altri pezzi. Il lavoro è una discriminante. O gli dai una centralità e intorno organizzi le altre contraddizioni che ci sono oppure non riesci a farti capire perché appiattisci tutto quanto e finisci nel discorso della sinistra del lavoro ma anche di genere ma anche ambientalista e via di seguito. Metti insieme diritti, tutele, laicità... Il problema è che ci vuole un centro sennò non c'è forma organizzata e finisci nel paramovimentismo.

Liberazione 5.4.09
Statalismo, egemonia, rivoluzione passiva. Una polemica con Rossanda
Marx reale e Marx virtuale
di Luigi Cavallaro


Benché la fonte sia indicata in Das Kapital , 1867, si tratta di un apocrifo. Se n'è subito accorto Massimo Muchetti, che ne ha dato notizia sul Corriere della Sera del 22 marzo scorso: digitandone uno spezzone in inglese su Google non si trova nessun riferimento alle opere marxiane, ma solo infinite citazioni della "citazione". E se Muchetti avesse letto un lungo articolo di Rossana Rossanda, apparso sul manifesto alcuni giorni prima, ne avrebbe avuto conferma senza nemmeno scomodare il motore di ricerca.
Sotto il titolo "Ma quale Marx", Rossanda aveva infatti severamente rimproverato quanti pretenderebbero di rivedere il suo spettro aggirarsi fra le nazionalizzazioni di banche e imprese varate negli Usa e in Europa in questi ultimi mesi: prima di tutto, perché Marx «non è mai stato un fautore dello stato, del quale anzi prevedeva a termine l'estinzione»; in secondo luogo, perché la nazionalizzazione delle banche «non sarebbe affatto socialismo ma sì e no una misura keynesiana». Del resto, concludeva Rossanda, «chi sproloquia su Marx si dimentica spesso e volentieri che tutta la sua analisi riposa sul fatto, intollerabile per un nipotino della rivoluzione francese, che il modo capitalistico di produzione elude l'uguaglianza in diritti che sarebbe propria di ogni essere umano, perché si fonda al contrario sull'inuguaglianza fra chi possiede i mezzi di produzione e chi non possiede altro che la propria forza di lavoro». E dal momento che la degenerazione burocratica del "socialismo realizzato" ha mostrato che quell'ineguaglianza si ripropone tale e quale quando il possesso dei mezzi di produzione venga attribuito allo stato (più precisamente, a quel grigio succedaneo della classe borghese che è la "classe politica"), a che pro tirare in ballo "Old Moor", il vecchio Moro con la barba?
Rossanda, naturalmente, ha ragione: con le nazionalizzazioni Marx non c'entra affatto. O meglio, non c'entra affatto quel Marx che la generazione di Rossanda e quella che più direttamente fu protagonista del Sessantotto credette di scoprire tra gli anni '50 e '60 dello scorso secolo: un Marx che - si disse - aveva consacrato nel «Capitale» una teoria "etica", mero complemento analitico dell'umanesimo filosofico delle sue opere giovanili. E che a quell'umanesimo "integrale" era rimasto sempre fedele, pur dissimulandolo dietro la dialettica delle forze produttive e dei rapporti di produzione, al punto che il plusvalore altro non era se non il prodotto dell'alienazione operaia e lato sensu umana.
Non c'è dubbio: non poteva essere stato "questo" Marx a ispirare il Lenin che, alla vigilia dell'Ottobre, proclamava che «parlare della "regolamentazione dell'attività economica" ed eludere il problema della nazionalizzazione delle banche significa ingannare il "popolino" con parole pompose e promesse magniloquenti che si è deciso anticipatamente di non mantenere». Meno ancora quel Lenin che scriveva (evidentemente vaneggiando) che il capitalismo monopolistico di stato «è quel gradino della scala storica che nessun gradino intermedio separa dal gradino chiamato socialismo», dovendosi solo fare in modo che lo stato diriga l'economia non nell'interesse dei rentiers e dei capitalisti, ma «al servizio di tutto il popolo». E' vero che nel "Manifesto del partito comunista" si auspicavano espressamente nazionalizzazioni, imposte progressive e «accentramento del credito in mano dello stato», ma doveva essere stata colpa dell'influenza di Engels: lo stesso che aveva poi colpevolmente rimaneggiato gli appunti incompiuti di Marx fino a trarne quel confusissimo "terzo libro" del "Capitale", nel quale si legge addirittura che il credito «costituisce la forma di transizione verso un nuovo sistema di produzione».
Rossanda non dovrebbe sottovalutarsi: se negli ultimi trent'anni è stata smantellata ogni forma e pretesa di direzione pubblica dell'economia è stato anche in grazia della lettura che di Marx diedero quelle generazioni. Le quali, divenute adulte e responsabili, hanno dismesso l'eskimo, gettato via i sampietrini e si sono date appunto a "estinguere" lo stato a mezzo di privatizzazioni di banche e industrie, giungendo perfino a togliergli l'antichissimo potere di battere moneta per attribuirlo ad una banca centrale indipendente e autonoma da ogni interferenza politica, com'è la Banca centrale europea. Non per caso: già dai «Grundrisse» (1858), Marx aveva avvertito che se si fosse tolto il potere alle cose sulle persone, bisognava attribuirlo alle persone sulle persone. «Meglio alle cose», devono aver pensato tutti, foss'anche quella "cosa" che sta per simbolo di tutte le cose: il denaro.
Si spiega così che, riunitesi recentemente a Santiago del Cile sotto gli auspici del "Policy Network" (un think tank di marca laburista), le sinistre riformiste europee e americane abbiano convenuto - pur con qualche distinguo - sulla necessità di evitare che la crisi possa dar fiato a nuove pulsioni "stataliste": non si proceda a redistribuzioni a colpi di imposte progressive sui ricchi, l'intervento dello stato sia limitato ad una regolazione funzionale a suscitare e temperare la concorrenza e il sostegno finanziario pubblico, pur necessario in tempi di crisi, sia contenuto nel tempo e accompagnato da riforme incisive ancorché impopolari delle pensioni. E sempre così si giustifica l'entusiasmo che ha accompagnato l'annuncio dei risultati del G-20: una pioggia di miliardi pubblici per far ripartire il mercato finanziario su scala mondiale, con la vigilanza affidata al Fondo Monetario Internazionale e la regolamentazione al "Financial Stability Forum". Il tutto mentre a New York la Borsa brindava al varo della deregolamentazione nella stima dei toxic assets , a conferma che le liste nere e grigie dei "paradisi fiscali" minacciate da Londra servono solo a reindirizzare i flussi del capitale finanziario verso la Gerusalemme Celeste di Wall Street.
Non se l'abbiano a male i manifestanti di Londra o di Strasburgo: è tempo sprecato marciare e protestare contro queste assise. Non sono che rituali per indurre i popoli a credere che la "globalizzazione" ha un governo, mentre non ne ha alcuno; la loro impotenza reale certifica piuttosto che l'unico potere pubblico che i mercati finanziari sono disposti a tollerare è quello virtuale. Oggi al potere non c'è che l'immaginario, e il Marx caro a Rossanda - quello dell'uguaglianza dei diritti dell'uomo - è impotente tanto quanto lo era il suo maestro Feuerbach.
E' possibile che il ricorso dei banchieri all'apocrifo sia dovuto a un reale bisogno d'antagonismo, visto che quello che s'accontenta di dar la caccia ai manager superpagati, quando non favoleggia di "decrescite conviviali", non è meno virtuale del potere che pretende di combattere. In realtà, non sarebbe difficile eccepire che «la crisi non è soltanto economica, ma entra in altri domini e influenza le strutture sociali e le tensioni geopolitiche». Nemmeno che affidare la regolamentazione della finanza ai «ragazzi del Financial Stability Forum» equivale a «mettere i topi a guardia del formaggio». E neanche notare che il testo varato al G-20 «parla di iniezioni di liquidità e altre cose fumose», ma «è reticente sugli aiuti di stato» e «non contiene la realtà delle nazionalizzazioni che sono state fatte e che si faranno in futuro», omettendo quindi «il passaggio più significativo». Ma queste cose, qui da noi, le dice ormai solo Tremonti. Il che lascia presagire che, se davvero la crisi sposterà il pendolo in direzione dello stato, andremo incontro - come ottant'anni fa - ad un'altra rivoluzione passiva.

Liberazione 3.4.09
Carlo Flamigni: «Demolito l'impianto della norma. L'embrione non è più persona»
intervista di Laura Eduati


La Corte costituzionale cancella parti fondamentali della legge 40 come il limite dei tre embrioni, l'obbligo di impianto e il divieto di crioconservazione. «Quello che davvero importa è l'abrogazione dell'impianto della legge» sostiene il ginecologo Carlo Flamigni, docente di Ostetricia e Ginecologia all'università di Bologna e membro del Comitato nazionale di bioetica: «Finalmente viene data la priorità alla salute della donna sull'embrione che questa normativa equiparava alla persona umana».
Esperto di fertilità e procreazione artificiale, Flamigni ha sempre lottato per l'abolizione della legge 40. «Roccella pensa di emanare delle linee guida ma non sa che queste non possono ripristinare i punti aboliti dalla Consulta». E dunque via libera per i medici e soprattutto per le coppie: «Nasceranno forse nuovi contenziosi, ma ora possiamo produrre più embrioni e impiantarli quando la donna lo desidera».
Professor Flamigni, che cosa cambia davvero con l'abolizione del limite di tre embrioni?
Questo limite aveva prodotto dei problemi differenti a seconda delle classi di età: alle donne maggiori di 36 anni produceva minori successi e dunque un numero minore di gravidanze, mentre alle donne giovani aumentava il rischio delle gravidanze plurime, con una crescita del 4%. Dunque provocava danni alla salute materna. Senza contare che dalla promulgazione della legge 40 sono diminuiti complessivamente i cicli andati a buon fine del 3-3, 5% e cioè abbiamo registrato una diminuzione del 12-15% delle gravidanze calcolate sul numero di cicli ormonali. I signori del ministero sono dei mentitori quando dicono che, invece, sono cresciute le gravidanze: questo accade perché sempre più coppie si affidano alla fecondazione assistita. Non bisogna paragonarsi con il passato ma con il resto dell'Europa e con gli Stati Uniti dove i successi sono molto più elevati, noi con questa legge scontavamo un ritardo unico in Occidente.
Ha ragione chi sostiene che la Consulta ha abolito l'impianto della legge 40?
Sì. Il fondamento della legge era la protezione dell'embrione come persona, un embrione-uomo con i medesimi diritti della donna. La Corte Costituzionale ora ha stabilito che prevale l'interesse per la salute materna, una sentenza molto simile a quella che alla fine degli anni '70 aveva stabilito la priorità della salute della donna su quello del feto.
Inoltre sarà finalmente possibile la crioconservazione degli embrioni.
Finora la donna doveva accettare forzatamente l'impianto degli embrioni, in quanto il suo consenso non poteva essere revocabile almeno per legge. Oggi, invece, una donna può avere molti embrioni e decidere quando impiantarli, senza sottoporsi forzatamente a più cicli, di conseguenza il medico potrà congelarli.
Però consiglia alle coppie che si rivolgono ai centri di fecondazione assistita di portare un avvocato. Potrebbero sorgere dei problemi di natura legale?
So che ora i centri non sanno come comportarsi, ma è semplice: i medici possono produrre un numero maggiore di embrioni e, nel caso, congelarli in attesa dell'impianto.
I ginecologi della Hera di Catania, da tempo impegnati contro la legge 40, annunciano che grazie alla sentenza della Consulta potranno finalmente fare la diagnosi pre-impianto formalmente vietata dalla stessa legge. Che ne pensa?
Esistono delle sentenze della magistratura ordinaria che bocciarono il divieto alla diagnosi pre-impianto. A mio parere questa diagnosi può essere fatta, ma sono certo che nasceranno nuovi contenziosi su questo punto.
La sottogretaria al Welfare con delega alle questioni di bioetica, Eugenia Roccella, afferma che il Parlamento non cambierà la legge 40 e il ministero aggiornerà soltanto le linee guida.
Roccella dice una cosa sciocca. Le linee guida sono norme secondarie e non possono smentire la legge così come è stata definitivamente cambiata dalla sentenza della Consulta.
Ci sono voluti quattro anni per arrivare alla sconfessione della normativa sulla fecondazione assistita, cosa accadrà ora?
Se il Parlamento deciderà di lasciare invariata la legge, avremo un periodo di assestamento nel quale ogni medico deciderà quanti embrioni produrre e impiantare, conservando i rimanenti. Chi piange su questo accumulo di embrioni inutilizzati dovrebbe suggerire una mediazione e ricordo che quando la legge passò, blindata, qualcuno da fuori cercava un compromesso che poi non ci fu. Ho profonda simpatia per il mondo cattolico e so che la base è sempre migliore del vertice.

Liberazione 2.4.09
Da oggi a sabato un convegno a Torino, "Soggetto e norme. Individuo, religioni, spazio pubblico"
L'uso di Dio in politica. è finita la modernità?
di Tonino Bucci


Le religioni sono diventate una presenza nella politica. La vecchia distinzione sulla quale si è retta la modernità - che assegnava alla religione la sfera privata del credente e allo Stato quella pubblica - è saltata. Ma questo provoca un cortocircuito della democrazia laica. Si può davvero conciliare la libertà dell'individuo con l'aspirazione delle religioni di adeguare la società contemporanea al proprio modello assoluto? E qual è il ruolo delle religioni nel mondo globalizzato dove i fondamentalismi si trovano a rappresentare nella percezione pubblica le uniche visioni antagoniste al potere del denaro? Saranno questi i temi al centro del convegno "Soggetto e norme. Individuo, religioni, spazio pubblico" che si apre a Torino, da oggi fino a sabato (al circolo dei lettori di via Bogino 9, sabato a Villa Gualino, viale Settimio Severo 63). Ne parleranno filosofi, teologi e politici, da Salvatore Natoli a Rosy Bindi, Da Stefano Rodotà a Piero Coda.
Il primo intervento sarà quello di Ugo Perone, presidente dell'associazione italiana per gli studi di filosofia e teologia (Aisfet), oltre che membro del comitato di direzione della rivista Filosofia e teologia - i due enti promotori del convegno. Si è rotta la convivenza delle religioni con la modernità, intesa come progressiva conquista di autonomia da parte dell'individuo? «Questa divaricazione tra modernità e religione non può essere composta, nel senso che non si può fare come se con la secolarizzazione non fosse successo niente oppure sperare in una riconciliazione in sé e per sé tra modernità e religione. Questo però non vuol dire che ci debba essere una lotta senza confini tra le due o che una debba prevalere sull'altra. La mia impressione, a dirla tutta, è che stiano tramontando l'uno e l'altro modello sociale: sia il modello premoderno delle religioni che volevano essere orientamento di tutta la società, sia il modello della modernità che mette al centro la pura individualità e la sua autonomia». Ma può la convivenza sociale fare a meno del principio di autodeterminazione della coscienza? «In effetti sul piano della modernità non è possibile abbandonare il riferimento alla coscienza, all'individualità e all'autonomia. Va salvaguardato in ogni caso. Ma ciò non significa che da questo principio si possano far discendere tutti gli altri principi. E' il problema del rapporto tra soggetto e norma . L'autonomia e la libertà del soggetto vanno protette, ma è vero anche che le norme fondamentali non possono mai essere oggetto di una normazione puramente giuridica. Ci sono degli assoluti che si sottraggono alla nostra disponibilità come si sottrae alla nostra disponibilità il principio di coscienza. Bisognerebbe andare oltre la modernità e oltre la religione teocratica».
Il principio dell'autodeterminazione del soggetto è stata la rivoluzione filosofica che ha fondato la modernità. Almeno da Kant in poi la filosofia non ha più concepito che si potessero fondare i principi ultimi per via metafisica o trascendente. Tutto doveva passare al vaglio di una coscienza capace autonomamente di dare a se stessa le leggi della conoscenza e della morale. Oggi però rischia di accendersi di nuovo il conflitto. Quale margine di autonomia resta alla coscienza se prevale la tendenza delle religioni a imporre a tutte/i norme assolute che per definizione non ammettono negoziazioni e mediazioni? «Non si può retrocedere dal principio dell'autodeterminazione. E' un fatto culturale da cui ormai non possiamo prescindere. Se siamo diventati adulti non possiamo ritornare bambini. Però l'essere tutti adulti, tutti autodeterminati, tutti dotati di libertà di coscienza ci obbliga a costruire una società nella quale convivere tutti assieme. E' un percorso difficile perché ognuno rivendica a sé il diritto ad essere l'arbitro ultimo». Come si fa a imporre l'osservanza a norme assolute, non negoziabili, a una società nella quale gli individui fanno riferimento a modelli culturali tra loro diversi? Non è forse questo il conflitto insanabile che si crea quando la Chiesa cattolica interviene nello spazio pubblico e spinge perché lo Stato legiferi sulle questioni bioetiche - sulla vita, sulla morte, sul testamento biologico, sulla riproduzione - in accordo con i propri principi? «Attenzione, la vita va considerata un valore indisponibile ma non sempre l'interpretazione che ne danno le gerarchie cattoliche corrisponde a quella di un valore assoluto. La vita non si riduce alla vita come mero biologismo. Altrimenti si genera questa contraddizione per cui l'assoluto della vita si manifesta nella sua biologicità pura e semplice». Un assoluto mondano, troppo mondano che rischia di indebolire, se non degradare, la stessa concezione del divino, piegandola alla politica e agli interessi delle gerarchie ecclesiastiche. Un vero cortocircuito dal punto di vista teologico. «E' un errore confondere il divino con la norma, con le leggi dello spazio pubblico», spiega Sergio Rostagno, già docente di teologia dogmatica alla facoltà valdese di teologia di Roma, ospite anche lui oggi alla prima giornata del convegno per coordinare la sessione "prospettive teologiche tra individualità e collettività". «Questa confusione agisce soprattutto in Italia dove c'è una situazione religiosa speciale. Forse anche nell'Islam. Ma non mi sembra che accada nel buddismo o nella religione giapponese o cinese».
Epperò è proprio questa "mondanità" la forza della Chiesa cattolica che le ha permesso di uscire dalla sfera privata e occupare lo spazio pubblico. Non sarà forse molto coerente dal punto di vista teologico, ma nella sfera politica la mondanità dà i suoi frutti, eccome. «Il problema - torniamo a Ugo Perone - è che abbiamo avuto della politica una visione proceduralistica. Abbiamo inteso lo spazio pubblico come una sorta di arena dove ciascuno cerca di far valere i propri interessi al momento della scrittura delle regole comuni». Lo Stato liberaldemocratico finisce per assomigliare all'amministrazione di un condominio che deve muoversi nel conflitto di interessi tra individui (proprietari). «Questa concezione laica di spazio pubblico presuppone che la disponibilità di ciascuno a partecipare all'amministrazione del condominio dipenda dalla misura in cui esso soddisfa i suoi interessi. In questo spazio è consentito a ognuno di coltivare il suo orticello, ma manca una visione del bene comune. Può garantire interessi minimi per i quali però non vale la pena di spendere la vita. Da questo è dipeso il disamoramento per la politica». La religione, qui, ha dimostrato d'essere meglio attrezzata, di muovere le passioni meglio di quanto non abbia saputo fare quella concezione condominiale della politica? «Se faccio la carità promuovo nel mondo il regno di Dio. In ciascuno dei miei gesti concreti vedo crescere l'anticipazione di ciò a cui, nella mia fede, tendo. La religione ha mostrato la capacità di dare un contenuto allo spazio pubblico, di non farne un condominio. Può essere uno stimolo a ripensare lo spazio pubblico della nostra convivenza. Non ci può essere nulla di buono per me che non sia contemporaneamente almeno un po' buono anche per tutti e viceversa. Questa è la sfida per la politica oggi. Trasformare la vita sociale in una convivenza, in un progetto comune. A condizione di non opprimere la libertà individuale, altrimenti l'assoluto, i grandi ideali, i progetti di liberazione dell'uomo si trasformano in dittature».
Religione e modernità non stanno invece in contraddizione necessaria secondo Sergio Rostagno.
«Democrazia e religione possono convivere. Non sempre però la convinzione religiosa deve essere vissuta in maniera dogmatica. Può benissimo andare d'accordo con una cultura democratica. Obama è un credente, ad esempio. Eppure non ci sono fondamentalismi nella sua politica. Ce lo spiegherà domani (oggi per chi legge, ndr) Olivier Abel, un filosofo che viene dalla facoltà teologica protestante di Parigi». C'è anche una lettura "religiosa" della globalizzazione nella quale le religioni diventano lo strumento critico del dominio dell'occidente. «Esiste anche questa contrapposizione tra i popoli occidentali pieni di illuminismo e di sussiego e gli altri popoli che non vogliono essere sudditi di nessuno e si servono per questo anche della religione.Come dargli torto»?
Ma perché nella Chiesa cattolica è mancato l'antidoto alla strumentalizzazione della religione nello spazio pubblico? «Per una mancanza di distinzione tra teologia ed etica, tra fede e comportamento. Ma non necessariamente la presenza religiosa è un'invasione. Anche i credenti hanno dato un contributo alle costituzioni democratiche». Ma qual è allora il confine oltre il quale l'impegno della religione nella sfera pubblica degrada il divino a strumento di lotta politica? Qual è il limite oltre il quale la pratica contraddice la fede? «E' quello che i valdesi contestano da sempre alla Chiesa cattolica. Ancora oggi sopravvive qualcosa della vecchia concezione del Papato che si riteneva depositario dell'unica verità e cercava d'imporla a tutti. Questo modo di agire ha come avversario lo Stato. Finché non si riesce a sottometterlo non si è contenti. Il cattolicesimo aveva superato questa idea, eppure risorge sempre». Sta qui, insomma, nella confusione tra potere temporale e potere spirituale l'eterno rischio per la religione cattolica: il degradamento dell'ideale stesso di Dio. «E questa è la vecchia idea di rendere immanente la fede, di concretizzarla in tutti i modi possibili. Magari chiedendo soldi allo Stato».

Liberazione 2.4.09
Un prelato e sua figlia. Una storia di António Cabral nel Portogallo del 1917
I vizi nascosti degli uomini di fede
di Marco Peretti


E' sufficiente ricordare l'incesto rappresentato nelle pagine de Il crimine di Padre Amaro di Eça de Queiros o alcune scene tratte dai film di Manoel de Oliveira per dar credito alla tesi che uno degli obiettivi prediletti dalla cultura portoghese sia sempre stato quello di indagare, dietro i rispettati abiti talari, i "vizi" nascosti degli uomini di fede. Un umano contrappasso alla pretesa di un'etica assoluta della Chiesa, un proliferare di storie di finzione che inducono a guardare con altri occhi gli uomini che dal pulpito predicano ogni domenica.
A questa sorta di sottogenere culturale oggi possiamo aggiungere Il canonico (traduzione di Daniele Petruccioli, La Nuova Frontiera, 2009, pp. 311, € 17,50) di António Manuel Pires Cabral, scrittore trasmontano arrivato alla sua sesta prova in prosa. L'origine di Pires Cabral già significa molto, nascere e vivere nella regione nordestina di Trás-os-Montes - letteralmente "oltre le montagne" - vuol dire innanzitutto scegliere di rimanere a debita distanza dalla vetrina mediatica di Lisbona, in una terra aspra e dura che continua a produrre scrittori di notevole spessore, oltre a un cospicuo numero di emigranti buoni per tutte le epoche di crisi, compresa quella che stiamo vivendo oggi. E' tra queste terre impervie che Pires Cabral ha ambientato la storia de Il canonico , in un piccolo villaggio - Vilarinho dos Castelhanos - che nel nome allude alla vicina Castiglia e in qualche modo all'illustre protagonista, Fernando Benigno Ochoa, detto lo spagnolo, uomo di notevole mole, irascibile e pieno d'energia, amante delle battute di caccia e monarchico ultraconvinto. Convinto a tal punto che nel 1917, con la guerra in corso e con il Portogallo in mano ai repubblicani intese sfruttare, sulla scia degli eventi miracolosi di Fatima, le "visioni" di due bambine di Vilarinho dos Castelhanos, inventando che queste avrebbero sentito un appello della Vergine ai veri portoghesi, un invito a lottare per reinsediare il legittimo re. Il fine giustifica i mezzi, «spesso la verità è fatta di menzogne ripetute. Se non altro la gente si porrà il dubbio».
Protagonista illustre, dicevamo, perché oltre ad esser stato nominato assai giovane canonico era ricco di famiglia e in un piccolo villaggio tanto basta per andar sulla bocca di tutti. Se non fosse sufficiente questo, il nostro, così come si racconta, ha avuto una figlia e questo ovviamente alimenta i pettegolezzi e contribuisce a incasellare il romanzo nel sottogenere di cui parlavamo.
La storia è narrata da un giovane prelato, Salviano Taveira, giunto al villaggio per sostituire padre Agostinho ormai morente. In attesa dell'estrema unzione il vecchio parroco riesce però a stuzzicare la curiosità del nuovo arrivato, raccontandogli le vicende di quella figura ingombrante, il canonico, morto sei anni prima. In un piccolo villaggio sperduto la loquacità dei testimoni si manifesta immediatamente, non c'è bisogno di aspettare i parrocchiani in confessionale e il giovane Salviano Taveira, anche per ammazzare il tempo, comincia a cercare la Verità che si nasconde dietro le contraddittorie testimonianze dei paesani. La coscienza del giovane parroco s'imbatterà con il "relativismo" sessuale del canonico e la morale teologica appresa in seminario dovrà fare i conti con il pragmatismo del vescovo di Bragança che, all'epoca, saputa la notizia della gravidanza della perpetua del canonico così giustificò l'avvenimento: «Dio ha fatto i sacerdoti con la stessa identica argilla degli uomini. Debole».
L'abilità narrativa di Pires Cabral, assai originale ai nostri giorni anche per una scrittura che ricorda più il romanzo ottocentesco che non quello postmoderno, intreccia gli elementi dell'indagine "poliziesca" con l'intertestualità biblica. Il proliferare di proverbi ricorda da vicino l'amore per la cultura popolare di José Saramago mentre la struttura dell'investigazione con al centro il narratore che come un nucleo assorbe le informazioni delle particelle/testimoni rimanda a Il Delfino di José Cardoso Pires, letto con l'ausilio della fisica quantistica di Debenedetti. Un romanzo che si può leggere da diverse latitudini, per esempio e toccando un nervo ancor oggi scoperto - come fa l'autore con i suoi personaggi di finzione - richiamando l'attenzione sul celibato e la castità che mirano a un clero tendente alla "perfezione", mentre per usare le parole del canonico «il richiamo della carne è tanto pressante in noi come in chiunque altro. E la tentazione non si fa strada solo attraverso il canale della concupiscenza, ma anche attraverso quello della ragione».
Oppure accettando la conclusione che la Verità è irraggiungibile e di tante piccole verità - le nostre - ci dobbiamo contentare o, infine, molto più semplicemente, forse per il giovane prelato, così come per il vescovo di Bragança o per lo stesso padre Agostinho è meglio non giudicare il canonico, perché in fondo è pur sempre "uno di loro".