mercoledì 8 aprile 2009

l’Unità 8.4.09
Alcuni edifici sono rimasti in piedi, altri no. Un tecnico dice cosa non si doveva fare
La Prefettura, la Casa dello studente Tutte costruzioni recenti, venute giù
di Marco Bucciantini


Ancora trema e ancora uccide. La terra è nemica, l'uomo vestito di verde si accovaccia davanti ai genitori dei quattro ragazzi ancora sepolti perché deve fare un discorso difficile, e cerca parole appropriate, delicate. Non può trovarle: «Dobbiamo far crollare – chirurgicamente, aggiunge – la Casa dello studente». È necessario per continuare a scavare. È l'ultima scossa, silenziosa, per questa gente annichilita dalla più atroce delle veglie. Sergio Bisti, direttore dell'emergenza di questo Paese sempre in emergenza, torna verso i suoi uomini e studia come fare. Chirurgicamente. La scossa a ridosso delle otto di sera dà una mano a questa intenzione. Padri, madri, fratelli e sorelle nemmeno sembrano sentirla. Gli altri sì.
ANNI PERDENTI
Costruire il più in fretta possibile tutti i metri quadri possibili. Lo imponeva la crisi economica degli anni settanta. La casa come bene rifugio dall'inflazione. Quella dove vivere, quella dove investire o villeggiare. Le case degli anni settanta adesso vanno giù frettolose come sono spuntate. Al numero 79 di via XX settembre c'è un palazzo tagliato in due con la lama. Tirato su nel 1974. «Era fatto ad U – denuncia Marzio Cardini, architetto di Frosinone – ma un lato era più corto. Quando è così, la parte più grande fa da base, solida, e quella più leggera da antenna. Al momento della scossa, tutta l'energia si scarica su questo lato più corto, che oscilla senza scampo». Analisi avvalorata dal colpo d'occhio: la parte lunga è indenne, l'altra è sbriciolata. E si è divorata sette vite. Poi Cardini indica il tetto: «Vede? Sono travi ortogonali. Le tegole vanno poggiate di traverso, per diffondere il peso. Queste sono verticali, in pendenza, e sbilanciano tutto il peso sulla struttura». Quel tetto malfatto ha trascinato giù tre piani. «La messa in sicurezza spetta ai padroni di casa», si difende il comune. Questo spiega anche i crolli delle vecchie case del centro. La sola verifica antisismica costa circa 20 mila euro.
LA COSCIENZA NEL CEMENTO
L'Aquila è stata straziata da almeno tre grandi terremoti negli ultimi due secoli. Non sono bastati per imporre l'uso di materiali resistenti alle scosse. «Fosse successo in California o in Giappone, non avremo avuto vittime», è l'inaccettabile verità di Franco Barberi, presidente della commissione grande rischi. La Prefettura sembra una rovina dei Fori imperiali: «E' stata costruita dopo il terremoto del 1703. Lo sapevamo che era a rischio, la monitoravamo da tempo», si rammarica Renato Amorosi, uno dei tecnici che il comune ha messo intorno a un tavolo per ragionare sui danni. Se la scossa letale fosse giunta di giorno, la Prefettura sarebbe diventata la cassa da morto di decine di dipendenti. Metterla in sicurezza sarebbe costato milioni di euro, e quei soldi i comuni non li hanno. Per beffa, arrivano sempre dopo la tragedia: non per programmare ma per rimediare. Altrove i grandi sismi hanno fatto cambiare leggi e usi. Il Cnr ha testato un anno fa in Giappone, una casa antisismica in legno, capace di resistere all'onda d'urto di magnitudo 7,2 della scala Richter, pari al sisma che uccise, nel 1995, oltre seimila persone. Quella casetta la fanno a Trento (Italy).
La Casa dello studente invece è in via XX settembre al numero 46. Sul lato destro, risalendo il centro, è l'unico edificio sventrato. Si è piegato indietro, sul fianco destro. Dal cemento divelto spuntano i ferri lisci. Da quarant'anni non si costruisce più così. Il calcestruzzo armato ha una resa assai migliore se viene rinforzato dal ferro zigrinato, che prende meglio l'impasto di cemento, sabbia, ghiaia. La Casa dello studente è stata edificata negli anni settanta. Ed è stata ristrutturata nel 1998 e nel 2007. Ma non è mai stata messa in sicurezza. Anche l''Ospedale nuovo era impastato al risparmio. La modernità era tutta nella funzionalità dei reparti e non nei criteri di edificazione. La legge impone solo dal 2008 strutture a norma antisismica: un secolo dal terremoto di Messina. Davanti al numero civico 46 i genitori dei ragazzi si passano i biscotti e si dividono dalla stessa cannuccia un succo di frutta alla pera.

Repubblica 8.4.09
La morale del cemento
di Francesco Merlo


Chi ha letto il racconto di Gateano Salvemini, che si salvò dal terremoto di Messina appeso a un davanzale, sa che dai sismi e dalle loro tragedie si possono trarre motivi per potenziare la ricerca, l´attività e la strategia anche intellettuale di un popolo. Pure Benedetto Croce perse i genitori in un terremoto e ne trasse un carattere italiano di grande equilibrio, di prudenza e di stabilità.
Insomma i terremoti fanno purtroppo parte della storia del nostro paese e del paesaggio delle nostre anime, magari nascosti negli anfratti del carattere nazionale. Non sono emergenze, sono violenze naturali antiche che si affiancano alle violenze sociali, alle mafie, al brigantaggio, alla corruzione.
E però in Italia la magistratura ha giustamente avuto una grande attenzione vero il fenomeni della mafia e della corruzione: abbiamo dedicato seminari, libri, studi, campagne politiche e morali e sono nati persino dei partiti antimafia e anticorruzione. Ebbene, sarebbe ora che l´Italia si dotasse di una squadra di moralisti antisismici, di legislatori antisismici, di un pool di pubblici ministeri che mettano a soqquadro i catasti, gli assessorati all´urbanistica, le sovrintendenze, gli uffici tecnici, i cantieri. Non è possibile che ad ogni terremoto il mondo scopra stupefatto che l´Italia, l´amatissima Italia, è un Paese senza manutenzione.
A leggere i giornali internazionali di questi giorni si capisce subito che un terremoto in Italia non ha lo stesso effetto di un terremoto in Giappone. Anche quando non vengono colpite le città d´arte, come Firenze o Perugia, l´Italia in pericolo coinvolge di più di qualsiasi altro luogo. In gioco - ogni volta ce ne stupiamo - ci sono infatti la nostra bellezza e la dolcezza del vivere italiano, e poi i musei, il paesaggio� È solo in questi casi che ci accorgiamo come gli altri davvero ci guardano: non più sorrisi e ammiccamenti, ma dolore e solidarietà per un paese che è patrimonio dell´umanità.
Ebbene è la stampa straniera a ricordarci che ci sono città italiane incise dalle faglie, e dove le bare per i morti e l´inutile mappa dei luoghi d´incontro dei sopravvissuti sono i soli accorgimenti antisismici previsti. Ci sono città dove la questura, la prefettura, gli ospedali sono ospitati in edifici antichi che sarebbero i primi a cadere. Dal punto di vista sismico, della vulnerabilità sismica, non esiste un sud e un nord d´Italia, non esiste un paese fuori norma contrapposto a un paese nella norma. L´Italia, come sta scoprendo il mondo, è tutta fuori norma. Nessuno costruisce nel rispetto degli obblighi di legge che - attenzione! - non eviterebbero certo i terremoti che uccidono anche in Giappone e in California, anche dove la legge è legge. Neppure lì i terremoti sono prevedibili. Non ci sono paesi del mondo dove le catastrofi naturali non procurano danni agli uomini e alle cose.
Ma le norme antisismiche sono al tempo stesso prudenza e coraggio di vivere, sono la stabilità di un paese instabile, la fermezza di una penisola ballerina, sono come le strisce pedonali e la segnaletica stradale che non evitano gli incidenti ma qualche volta ne contengono i danni, ne limitano le conseguenze, ti mettono comunque a posto con te stesso e con il tuo destino. Colpisce invece che la sfida alla natura in Italia sia solo e sempre verbale: "immota manet" è il motto della città dell´Aquila ed è un paradosso, un fumo negli occhi, un procedere per contrari, una resistenza al destino che ne rivela la completa, rassegnata accettazione: la sola immobilità dei terremotati è la paura, è la paralisi.
Da sempre i terremoti intrigano i filosofi e gli scienziati. Si sa che dopo un terremoto aumentano i matrimoni e le nascite che sono beni rifugio, e si formano nuove classi sociali, si riprogetta la vita come insegna appunto Salvemini. Ma le catastrofi attirano gli sciacalli, economici certo ma soprattutto politici e morali. Ricordo che, giovanissimo, nel Belice vidi arrivare i missionari delle più strane religioni, i rivoluzionari seguaci di ogni utopia e i ladri d´anima� I soli che in Italia non arrivano mai sono gli antisismici d´assalto; le sole competenze che ai costruttori non interessano sono quelle antisismiche; e a nessun italiano viene in mente, invece di ingrandire la terrazza, di rafforzare le fondamenta della casa.
Siamo i più bravi a rimuovere, a dimenticare i lutti, a non tenere conto che la distruzione come la costruzione crea spazi e solidarietà. L´Italia sembra unirsi nelle disgrazie. Nelle peggiori tragedie ci capita di dare il meglio di noi: sottoscrizioni, copiosissime donazioni di sangue, offerte di ospitalità� Davvero ci sentiamo e siamo tutti abruzzesi. Ci sono familiari volti e lacrime che sono volti e lacrime di fratelli. Sta tremando tutta l´Italia. E anche se non riusciremo a dominare la forza devastatrice della natura, mai più dovranno dirci che questo è un paese fuori dalla legge. Fosse pure un´illusione piccolo borghese, da impiegati del politicamente corretto, abbiamo bisogno di applicare tutti insieme la tecnica antisismica e di misurare il ferro che arma il cemento: abbiamo bisogno di costruttori, di sovrintendenti, di legislatori e di giudici di ferro.

Corriere della Sera 8.4.09
La ricerca Bari e Pisa: i sistemi efficaci esistono, mancano i soldi per perfezionarli
Gli atenei «credono» nel radon: previsioni possibili


MILANO — Ventitrè gennaio 1985: per la prima (e unica) volta in Italia scat­ta l’allarme terremoto. L’Istituto naziona­le di geofisica prevede una «scossa peri­colosa ». E il ministro della Protezione ci­vile Giuseppe Zamberletti, oggi presiden­te della Commissione grandi rischi e so­stenitore dell’impossibilità di prevedere i terremoti, ordina lo stato d’allerta per dieci comuni della Garfagnana: scuole chiuse per due giorni, case vecchie o in cattivo stato evacuate.
Centomila persone abbandonarono le proprie abitazioni, ma il terremoto non arrivò. Allora la previsione di un sisma distruttivo fu formulata, dopo una scos­sa premonitrice, sulla base di un’analisi storico-statistica. Oggi, tra gli indicatori sismici, c’è anche il radon. Giampaolo Giuliani non è solo. Sono diversi i ricer­catori che studiano questo gas: l’univer­sità di Bari ha messo a punto un sistema di 25 centraline fermo per mancanza di fondi; quella di Pisa ha elaborato un pro­getto per il monitoraggio nelle acque sot­terranee della Garfagnana e della Luni­giana allo studio degli enti locali. Ricer­che sono in corso anche all’Istituto nazio­nale di geofisica e vulcanologia.
Pier Francesco Biagi è docente di Fisi­ca all’Università di Bari. Studia il radon e i disturbi sui segnali radio. «I sistemi per prevedere un terremoto già esistono — dice —, è che mancano i soldi per perfe­zionarli. A differenza dei miei colleghi so­no convinto che non è impossibile preve­dere un sisma, ci riusciremo. Fu proprio Boschi, oggi nemico dei precursori, a fa­re la previsione del 1985». E spiega: «Nel 2005 abbiamo presentato un progetto al­la Regione per l’installazione di 25 cen­traline per il rilevamento di radon e sta­zioni radio a bassa frequenza (alcune an­che nel Gran Sasso). Per un punto siamo stati esclusi dalla graduatoria e le prime centraline sono state disattivate».
All’università di Pisa si studia invece il radon nelle acque sotterranee della Garfagnana e della Lunigiana. Il team di Giorgio Curzio, docente di Misure nucle­ari, ha elaborato uno studio di fattibilità per il monitoraggio del radon: stazioni prototipo che ogni sei ore dovrebbero trasmettere al dipartimento e alla Prote­zione civile i livelli.
Tra i ricercatori che studiano il radon c’è anche Calvino Gasparini, dell’Istituto nazionale di geofisica. Nel 1985 fu uno degli esperti a formulare la previsione della Garfagnana. Oggi è direttore del Museo geofisico di Rocca di Papa dove da quattro anni una centralina misura il radon. «Sappiamo che questo gas è un precursore dello stress sismico, ma per ora non ci dice il 'dove' e il 'quando' av­verrà un terremoto». Più attendibile l’analisi storico-statistica: «Sulla base della quale scattò l’allerta del 1985. Nel caso di Giuliani non esistevano parame­tri consolidati, ma un censimento a se­taccio grande degli edifici più vecchi e una maggiore informazione, forse...».
Nel 1985 la «scossa pericolosa» non ar­rivò. E l’ex ministro Zamberletti finì sot­to inchiesta per procurato allarme. Forse per questo da allora ha sempre chiamato i centomila sfollati «un test». E oggi riba­disce: «I terremoti non sono prevedibi­li ». Ma poi spiega: «Allora il radon non c’entrava, lì ci trovavamo davanti a dati statistici particolari. Davanti a una previ­sione della comunità scientifica come quella di 24 anni fa, proprio Boschi e Bar­beri mi avvertirono del rischio, farei la stessa cosa: ordinerei lo stato d’allerta».

l’Unità 8.4.09
Testamento biologico: il vero obbiettivo
Se lo Stato dimentica i diritti
di Donatella Poretti


Perché il Parlamento “avrebbe” potuto fare una legge sul testamento biologico? Guardando le altre legislazioni la risposta è univoca: estendere il diritto della persona capace di decidere le cure a chi si trovasse nell’incapacità di esprimere il consenso. Una dichiarazione esecutiva dal momento in cui il paziente non può esprimere le sue volontà, che oggi devono essere ricostruite (vicenda Englaro) oppure delegate ad altri come i familiari.
Altra è la risposta per cui è stata approvata dal Senato questa legge. Nessuno deve più morire di “fame e di sete” ed essere “ucciso con sentenze” della magistratura. Si è così creato un istituto giuridico - le dichiarazioni anticipate di trattamento - per svuotarlo di significato e di valore. Non essendo vincolanti avranno lo stesso valore di una email o di una telefonata.
Fosse solo questo potremmo essere amareggiati di aver usato male il tempo delle istituzioni, ma rassicurati in parte dall’inutilità dell’operazione.
Purtroppo la legge non si limita a ciò. Il primo comma anticipa la gravità della norma sancendo l’indisponibilità della vita, che diventa un obbligo di vivere e morire nelle condizioni decise dal Parlamento. Questo principio si traduce nel dovere di nutrire e idratare artificialmente un paziente in stato vegetativo. Perdendo la coscienza, gli vengono sottratti anche i diritti, in particolare quello di decidere i trattamenti medici dell’articolo 32 della Costituzione, scritto dopo avere visto gli effetti devastanti degli Stati totalitari sui corpi delle persone.
Questa legge che apparentemente si occupa di sanità, stravolge il senso del rapporto tra la persona, il cittadino, l’individuo e lo Stato. Si passa da caratteristiche salienti dello Stato liberale, come l’inviolabilità dei diritti dell’uomo e la sua autodeterminazione, all’imposizione di dettami tipici di uno Stato etico, che decide cure, vita e morte dei propri sudditi.
Chi ha sostenuto la necessità di un intervento legislativo contro le sentenze della magistratura con questa legge otterrà l’effetto opposto. Una norma così scritta obbligherà i tribunali a interpretare divieti e obblighi imposti. Se i medici avessero avuto bisogno di una norma chiara per avere certezze su come muoversi, la risposta del Parlamento è stata opposta: cavilli e complicazioni. Un medico con questa norma rischia di più se sospende una terapia rispettando il consenso del paziente o se la mantiene contro la sua volontà?
La forza dei numeri non sempre è sinonimo di democrazia: limitare diritti invece che estenderli, cancellare libertà individuali a colpi di maggioranza parlamentare non è caratteristica dello Stato di diritto. Senza il quale non può esserci diritto alla vita.

Corriere della Sera 8.4.09
Madrid adotta l’albino Moszy per proteggerlo dagli stregoni


Canarie. È arrivato su un barcone. Rischiava di essere ucciso per riti magici a causa del colore della pelle
Nato in Benin, per 18 anni è scampato ai riti magici di cui sono vittime gli albini. I blogger spagnoli: ora deve restare qui

MADRID — Uno di troppo. Un intruso. Nella sua fami­glia, nel suo villaggio, nel suo paese, e perfino sulla zattera che lo ha portato dalle coste della Mauritania alla spiaggia di Tejita, a Sud di Tenerife. Un emarginato pure sotto quella coperta offerta dalla Croce Rossa a riscaldare corpi ugualmente assiderati dal vento del mare. Sembra non esserci posto neanche in fon­do alla coda, ultimo degli ulti­mi, per il giovane Moszy, ap­prodato con altri 63 immigra­ti nella più grande delle Cana­rie, la Lampedusa spagnola.
Il suo arrivo sarebbe passa­to inosservato, il suo rimpa­trio forzoso altrettanto, se non fosse che Moszy è un al­bino. Né nero né bianco, an­zi: sia nero sia bianco. Una specie commestibile, in qual­che angolo meno civilizzato del suo continente d’origine. Un paria, un costoso ingom­bro anche per i parenti che possono sopportarlo, ma dif­ficilmente pagargli le cure e le protezioni che necessita.
Nato in Benin, Moszy è so­pravvissuto 18 anni alla male­dizione della sua diversità. È scampato ai riti magici di cui le sue carni candide rappre­sentano l’ingrediente più ri­cercato. Ha resistito alle ma­­lattie, ai raggi ultravioletti, al­le discriminazioni, ai pregiu­dizi e all’intolleranza. E si è convinto che in Europa non gli sarebbe sicuramente anda­ta peggio. I soldi sono i soli a non avere colore e, quando ne ha racimolati abbastanza, si è pagato il suo angolo nel barcone che si affidava alle correnti e alla fortuna. Chi gli ha venduto il biglietto ha alza­to le spalle, indifferente alla sua sorte dal saldo in poi.
È andata bene. Bene come alla maggioranza dei 640 im­migrati che, dall’inizio del­l’anno, lo hanno preceduto sulla stessa rotta: sono arriva­ti vivi; poi sono stati o saran­no rispediti al mittente. Ma forse a Moszy andrà addirittu­ra meglio. Dalla sua ci sono le testimonianze dei missiona­ri, degli antropologi, degli scienziati che possono certifi­care i rischi rappresentati da quella anomalia cutanea. Le persecuzioni, i riti supersti­ziosi, la convinzione che sol­tanto a brandelli il corpo di un albino possa portare ric­chezza e benefici ai suoi car­nefici. Le dita come amuleti, il sangue come fonte di benes­sere.
Gli spagnoli hanno osserva­to sorpresi la foto di un bian­co, guardato con sospetto e disgusto dal suo vicino color ebano. Nei blog ci hanno scherzato un po’ su, sempre a scapito del buon gusto: che ci faceva un norvegese su una zattera di africani? O che sia un profugo della bancarotta in Islanda? Ma nella maggio­ranza dei casi hanno solidariz­zato: Moszy deve restare. L’ec­cezione che Madre Natura gli ha inflitto come una condan­na deve essere trasformata in assoluzione dalle autorità co­stituite. Se ne sta occupando il Comitato Spagnolo di Aiuto al Rifugiato: basta una ricerca con Google per sapere che co­sa aspetta il nero dalla pelle trasparente lontano dalla zo­ne turistiche dell’Africa sub­sahariana. Il sito dei Padri Bianchi riferisce di almeno 40 albini uccisi l’anno scorso in Tanzania, dove ne sono uf­ficialmente censiti 4.000, ma potrebbero essercene altri 170 mila nascosti come fanta­smi, la definizione che li con­traddistingue in lingua swahi­li. Recluso nel centro di acco­glienza temporanea dell’iso­la, il fantasma di Tenerife at­tende di diventare finalmen­te un uomo.

span style="font-weight: bold; color: rgb(204, 0, 0);">Corriere della Sera 8.4.09
I Radicali al Pd: candidate Pannella


L`ultimo appello arriva da «Europa», sul quale il membro della direzione radicale Francesco Pullia chiede al Pd «una disponibilità reale a un dialogo franco e senza pregiudizi, per porre fine all`esplicita volontà di esclusione e di annullamento della nostra presenza». Non si può, spiega Pullia, «escludere un uomo come Pannella, che per una vita intera, ereditando degnamente la passione di Altiero Spinelli, si è speso per dare valore e forza al processo di integrazione europeo». Ma una risposta piuttosto chiara arriva da Beppe Fioroni: «Mi sembra che i radicali abbiano già deciso di correre da soli. Se uno si candida con il Pd è perché condivide il nostro progetto. Ma ormai da tempo, e quotidianamente, i radicali hanno scelto strade e percorsi diversi. E sarebbe inspiegabile che il Pd non favorisse questa scelta di libertà: la libertà favorisce le opportunità e non consente gli opportunismi». Via libera che cancella qualsiasi spazio residuo di collaborazione. Del resto già Goffredo Bettini, sul Riformista, aveva spiegato che certe «esasperazioni anticlericali» non corrispondono alla sensibilità e alle linea del Partito democratico.

Il Riformista del 8.4.09
Quei bambini detenuti nel carcere di Firenze
di Giuseppe Rossodivita


I passi dell`ispettore della polizia penitenziaria ci precedono, svoltiamo a sinistra del lungo corridoio, ancora a sinistra, i soffitti sono alti, un altro corridoio, questa volta interrotto da una parete di sbarre, dal basso verso l`alto, da sinistra verso destra, sbarre. L`ispettore inserisce le chiavi nella serratura per aprire una porta in quel muro di ferro. Voci inusuali per un carcere, persone inusuali per un carcere, attratte dal rumore delle chiavi, si fanno sentire e, venendo fuori dalle loro "stanze", si fanno vedere. La luce al neon illumina i loro occhi che sono grandi; le loro voci sono sottili; le loro mani, aggrappate alle sbarre in attesa che quella porta venga aperta, arrivano alle mie ginocchia. Urla di giochi. Sono i bambini detenuti, tutti con meno di tre anni. Carcere di Sollicciano, Firenze, Italia 2009. Entriamo, con Rita Bernardini, in visita ispettiva in uno dei "nidi" delle carceri italiane dove sono detenuti i bambini insieme alle loro mamme. Loro, i bambini, ovviamente non hanno colpe, se non quella della sfortuna; noi invece, come cittadini liberi, abbiamo delle responsabilità. I colori dei disegni appesi ai muri, o di un cartoncino sul quale sono incollate delle fotografie di qualche momento di serenità non fanno altro che aumentare il contrasto con un ambiente grigio, chiuso, che la buona volontà degli operatori penitenziari non potrà mai rendere adatto a dei piccoli: è un carcere, un luogo, da sempre, di espiazione delle pene. Veniamo subito assaliti. Rita dalle mamme, alle quali spiega che, da Parlamentare Radicale, si sta occupando del problema dei "nidi", con una proposta di legge che prevede delle strutture detentive non interne al carcere, sicure, ma adatte ai bambini, con personale specializzato e luoghi accoglienti e idonei ad assicurare una permanenza a degli "ospiti" speciali: sì, perché i bambini sono tutti speciali, figli nostri o figli di altri, bianchi, neri e persino "zingari". lo mi occupo di loro: sono sei e ciascuno vuole attirare la mia attenzione, c`è chi usa come arma la propria timidezza, altri la sfrontatezza che, da adulti, difficilmente si conserva. Non indosso "un`uniforme", che in carcere è invece "divisa", cioè divide e crea visivamente un muro tra agenti della polizia penitenziaria e detenuti, soprattutto se bambini. Siamo la novità della giornata. Le mamme piangono la loro disperazione ed i bambini, quelli che hanno in braccio, le guardano con occhi smarriti ed impauriti, mi avvicino e degli occhioni scuri che avevo già visto, sono in braccio ad una donna rom, circondati da una cascata di capelli castani, su un corpo minuto di non più di 55 centimetri vestiti di abiti logori, mi fissano, un sorriso, le braccine che si protendono nello stesso istante ed in un attimo, questa "bambina detenuta" è in braccio a me. Mi torna in mente "Essere senza destino", di Icore Kertesz, la storia di Gyurka, un bambino che, all`apparenza, era riuscito a metabolizzare e far diventare `un mondo normale`, il suo unico possibile, quello dei campi di concentramento. La visita al "carcere dei bambini" di Sollicciano si conclude, mi piego sulle ginocchia per far scendere la piccola, lei scende, ma subito dopo rialza le braccia, le dico che devo andare via ed allora alza le braccia con ancora più forza, ma devo andare via. Abbassa lo sguardo delusa, chissà quante volte sarà stata delusa dai grandi. Attraversiamo il muro di ferro e la direttrice ci informa di un progetto, già pronto, che prevede la ristrutturazione di una vicina villetta dove le mamme ed i bambini potrebbero essere ospitati in un ambiente adatto alla loro permanenza, ma mancano i soldi, aggiunge, «stiamo cercando fondi dagli enti locali e dal ministero, da molto tempo». Proviamoci, anzi riusciamoci a trovare questi soldi, a far approvare questa legge, con i Radicali, con Radio Carcere, sarà una buona politica, sarà un buon servizio.

L'espresso 8.4.09
Preistoria neofascista
di Giorgio Bocca


Sto leggendo con sgomento e rassegnazione il saggio di Paolo Berizzi sul rinascimento italiano ed europeo. Perché ciò che sta rinascendo e potrebbe di nuovo sommergerci è qualcosa d`incomprensibile e di inafferrabile: il vuoto, il vuoto completo d`idee, di cultura, di storia. Solo pulsioni generazionali, di violenza giovanile. "La ricreazione è finita", si legge nei loro proclami. Per dire che è finito il tempo della ragione e ritorna il tempo della violenza, il tempo del fascismo come malattia dello spirito, come moda, come follia comune a ogni classe, a operai, borghesi, contadini con i moti di massa simili alle maree, sindacati rossi che in una notte diventano neri, socialisti internazionalisti che si riscoprono nazionali, cioè nazisti. l`onda lunga della destra porta con sé l`onda torbida del neofascismo. Quanti sono i giovani con le teste rasate, le svastiche, il saluto roteano, che rinnegano la democrazia e le sue libertà per tornare al culto razzista, alla voglia di un dominio della razza bianca, all`odio millenario, sempre lo stesso, per gli ebrei? Pare quasi 200 mila, una cifra enorme, una massa che aumenta a valanga, una prospettiva di lacerazioni e scontri feroci inevitabili, una maledizione eterna. La televisione di "Repubblica" ha trasmesso un`inchiesta sul neofascismo. Vi ho trovato conoscenze e personaggi che credevo finti. li capo dei naziskin romani che conobbi a una trasmissione di Giuliano Ferrara. Grottesco, preistorico. «L`Olocausto:», diceva: «Forse qualcuno è stato ucciso nei campi di prigionia, ma lo sterminio di massa è un`invenzione. Dove sono le prove? Le camere a gas le hanno inventate gli ebrei». Con chi ce l`hanno i nazifascisti? Con tutti e con nessuno. Contro le droghe e gli hamburger degli americani, ma anche contro i comunisti nemici degli americani, contro gli ebrei che perseguitano i palestinesi, ma anche contro tutti i movimenti di liberazione, contro tutti i sindacati, e anche contro i liberisti, contro i banchieri che stanno rovinando il mondo con la loro finanza truffaldina. La storia? I nazifascisti la ignorano spavaldamente, si radunano dietro i loro labari, picchiano i malcapitati, ma ignorano anche i fatti da cui sono nati, la grande crisi capitalistica del `29 e le lotte sociali da cui sono nati loro stessi, l`attuale terremoto economico. Niente. Qualche fotografia del duce e di Hitler, di camerati festanti, di croci uncinate e il vuoto. Che cosa schedano e indagano le questure, che cosa vuol sapere il ministero degli Interni di questi che ogni giorno platealmente violano una delle leggi fondamentali della Repubblica, l`articolo 139 della Costituzione: «il vietata la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista»? Sul tema della congiuntura antidemocratica, del colpo di Stato autoritario, della presa del potere non una riga, non un pensiero, per questo la Repubblica democratica può dormire tranquilla, i suoi nemici giurati e inguaribili pensano a tutto meno che a sovvertirla, gli basta, si direbbe, la libertà di recitare il ritorno al passato, non di progettarlo. Ma attenti: neanche la marcia su Roma e le leggi speciali erano state progettate, sono arrivate da sole quando la democrazia si è arresa senza combattere, quando i ludi cartacei hanno cessato di essere una politica credibile.

il manifesto 7.4.09
CGIL Due linee a confronto sul futuro sindacale. Movimenti nel Pd
Il Circo Massimo apre il congresso
di Loris Campetti


La grande manifestazione al Circo Massimo ha aperto una nuova stagione della Cgil, una stagione di forte conflitto contro le politiche economiche e sociali di Berlusconi? Oppure è l'ultimo atto politico-sindacale della stagione segnata dall'accordo separato di Cisl e Uil con la Confindustria con la benedizione del governo, insomma, una generosa testimonianza di resistenza prima di rientrare nei ranghi della real politik? Ci sono molti modi per interpretare la giornata di sabato a Roma, come se quelle centinaia di migliaia di lavoratori «garantiti» (ma ce ne sono, oggi?) e precari, nuovi disoccupati, pensionati e studenti non avessero espresso con chiarezza le ragioni della loro «scampagnata». Eppure, entrambe le interpretazioni albergano, oltre che nei media e nell'opposizione politica, nella stessa Cgil e aprono la stagione congressuale del maggior sindacato italiano.
Le notizie e le schermaglie si susseguono. A poche ore dalla manifestazione al Circo Massimo è stata annunciata la decisione dei protagonisti dell'accordo separato - a cui Epifani dal palco aveva lanciato un appello a non precipitare le cose per non accentuare la frattura sindacale, ad aprire un tavolo sulla crisi e a dare la parola definitiva ai lavoratori sulla (contro)riforma contrattuale - di firmare il contestato testo già mercoledì. Uno schiaffo in faccia al segretario generale della Cgil che dall'inizio della crisi sindacale ha tentato in tutti i modi di mantenere un «telefono rosso», un filo di comunicazione, con Cisl e Uil. E con la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia. Nel pomeriggio di ieri è stata proprio lei a comunicare il rinvio della firma conclusiva dell'accordo di una settimana, perché «la Cgil ha chiesto di assistere ma non firmerà». Certo, oggi e per un po' di tempo la Cgil non è in condizioni di firmare un accordo contro il quale ha mobilitato la sua gente con uno sforzo senza pari dal lontanissimo 23 marzo del 2002, quando alla guida della confederazione c'era Sergio Cofferati. Però, sostiene una parte della Cgil a cui il Corriere ha già dato spazio e credito, bisogna costruire un percorso che «ci porti fuori dall'isolamento in cui ci siamo cacciati». Non è una sorpresa, almeno per i lettori del manifesto, che la manifestazione di sabato, solo quattro mesi fa, era tutt'altro che acquisita. Se c'è stata è grazie a una battaglia politica interna che ha avuto il suo momento più importante nello sciopero generale indetto unitariamente il 13 febbraio dalle due principali categorie dei lavoratori attivi: la Funzione pubblica e la Fiom. Molti hanno mal digerito tanto quello sciopero - una novità assoluta, un legame sociale e sindacale costruito in decine di assemblee e iniziative unitarie - che il peso avuto nelle scelte della confederazione. E ci sono categorie, come gli agro-alimentaristi della Flai, che mentre in corso d'Italia si organizzava la manifestazione della Cgil contro l'accordo separato, firmavano il rinnovo contrattuale con Cisl e Uil sulla base (ma questa lettura è contestata dalla Flai) delle nuove regole.
La rottura sindacale non piace a nessuno. Però c'è chi è convinto che sulla base della controriforma si segnerebbe la fine del ruolo e dell'autonomia delle categorie, oltre che della contrattazione tout court: tutto accentrato dai vertici confederali, a loro volta prigionieri delle controparti padronali nelle commissioni pariteche. La fine non solo del sindacato conflittuale, ma anche del sindacato contrattuale. In poche parole, la fine della Cgil. Al contrario, c'è chi pensa che una prolungata «solitudine segnerebbe la fine della Cgil e, come Cisl e Uil, sostiene che con questo governo bisogna scendere a patti per mitigare i disastri prodotti dalle politiche delle destre. Meglio «complici» che antagonisti.
Giovedì del congresso della Cgil, che per statuto dovrebbe concludersi entro la primavera prossima, si discuterà pubblicamente in un convegno che ha per titolo «Una nuova economia», sottotitolo «verso il congresso». Insieme a economisti come Leon e Brancaccio, a politici come Bertinotti, Marini e Nerozzi, a ex sindacalisti come Cofferati e Greco si confronteranno i dirigenti della Cgil più impegnati sul terreno dell'autonomia della confederazione: i segretari generali di Fiom e Fp (i reprobi Rinaldini e Podda), dirigenti confederali come Piccinini e Rocchi, segretari di forti Camere del lavoro (da Torino a Bologna), Giorgio Cremaschi della Rete 28 aprile.
Al confronto interno alla Cgil guardano con molta attenzione le forze dell'opposizione parlamentare e della multiforme sinistra. Non potrebbe essere diversamente, rappresentando il sindacato di Epifani l'unica resistenza di massa alle politiche berlusconiane. Nel Pd il nodo del lavoro, espulso dalle agende politiche sin dall'atto costitutivo del nuovo partito «equidistante» tra il capitale e quello che una volta si chiamava il suo becchino, potrebbe rientrare dalla finestra, sotto l'effetto della crisi e delle sue terribili conseguenze sociali. E c'è chi lavora per costruire nel Pd almeno una corrente di sinistra, una specie di «partito del lavoro» dentro il partito.

martedì 7 aprile 2009

il manifesto 7.4.09
Un Paese e una politica dai piedi d'argilla
di Paolo Berdini


Sono crollati ospedali, edifici pubblici e scuole costruiti di recente. Dovevano rispettare rigorose norme antisismiche, ma il terremoto ha tragicamente svelato una realtà che viene sistematicamente occultata: siamo il paese delle regole scritte con solennità e violate con estrema facilità. Siamo il paese in cui le funzioni pubbliche di controllo sono state cancellate o messe nella condizione di non nuocere. Di fronte a questa realtà, il “piano casa” della Presidenza del Consiglio liberalizzava ulteriormente ogni intervento edilizio che poteva iniziare attraverso una semplice denuncia di inizio attività, e cioè in modo che la pubblica amministrazione perdesse per sempre ogni residua possibilità di controllo. Dappertutto, in zona sismica o in zona di rischio idrogeologico.
Sono poi crollate in ogni parte anche le case private. Antiche, della prima o della seconda metà del novecento. Segno evidente che anche esse sono state costruite senza gli accorgimenti che ogni paese civile richiede. Invece di avviare questo processo, il piano casa del governo autorizzava aumenti automatici di cubatura (fino al 20%) senza contemporaneamente costringere i proprietari a rendere più efficienti le strutture. Chiunque chiude un balcone o una veranda, pur aumentando i pesi le case devono sopportare, non interviene sulle fondazioni o sulle strutture principali. E’ noto che questa anarchia e disorganicità è alla base di molti crolli e di molte vittime.
La tragedia dell’Abruzzo mostra dunque di quale cinismo e arretratezza culturale fosse stato costruito il provvedimento tento reclamizzato da Berlusconi. Cinismo perché faceva balenare in ciascuno la possibilità di incrementare la proprietà senza tener conto dell’esistenza di equilibri più complessivi, senza cioè dover rispettare i beni comuni per eccellenza: le città.
Arretratezza culturale perché il terremoto ha dimostrato ancora una volta che il vero problema del nostro paese è quello di avere i piedi di argilla. In un paese ad alto e diffuso rischio sismico, infrastrutture, servizi e abitazioni non sono in grado di resistere ai terremoti. Invece di agevolare la sistematica messa in sicurezza del territorio e del patrimonio edilizio, questo governo ha in mente una sola cultura: “aggiungere”. Nuove grandi opere, ad iniziare dal ponte sullo stretto e dalle centrali nucleari, nuove espansioni edilizie. Invece di consolidare l’enorme patrimonio edilizio esistente e rendere sicura la vita degli italiani, si continua con lo scellerato meccanismo della rendita speculativa.
Stavolta la colpa non è di esclusiva responsabilità politica. E’ evidente in ogni settore un consenso esplicito ed entusiasta della Confindustria e della cosiddetta “classe dirigente”. Quella, per intenderci, di cui fa parte Claudio De Albertis, per molti anni presidente dei costruttori italiani e oggi presidente di quelli milanesi. In un recentissimo dibattito nella rete televisiva di La Repubblica ha avuto il coraggio di dire che in Italia mancano case popolari perché vengono costruite con troppa lungimiranza e durano troppo nel tempo. Ci dobbiamo abituare, ha aggiunto, a programmarne la vita in venti anni per poi rottamarle. Mentre tutti i paesi ad economia avanzata si interrogano su come ricostruire su basi solide un futuro possibile dopo la crisi, da noi governo e imprenditori del mattone pensano esclusivamente a nuovi affari senza farsi carico degli interessi generali.
Sono così miopi da non vedere che c’è invece un altro modo per rilanciare la macchina dell’edilizia. Basterebbero tre mosse. Prendere atto che il nostro patrimonio abitativo è fatiscente e lo Stato ha il dovere di favorirne la messa in sicurezza, attraverso norme e finanziamenti. E se ci fosse qualcuno che afferma che in questo modo si spendono soldi pubblici, si potrebbe rispondere che stiamo spendendoli per acquistare i fondi tossici delle banche. Perché non potrebbero essere utilizzati anche per non veder morire intere famiglie? Eppoi, gli interventi dentro una nuova concezione dell’edilizia favorirebbero la nascita di nuove industrie in grado di realizzare e gestire sistemi di risparmio energetico. In pochi anni i benefici complessivi supererebbero le spese di investimento iniziale: basta soltanto dare il colpo di grazia alla rendita immobiliare, come fanno in Europa.
Secondo. Prendere atto che nell’ultimo decennio si è costruito troppo e che è venuto il momento di dire basta ad ogni ulteriore consumo di suolo agricolo. Da qualche mese è nata su iniziativa del sindaco di Cassinetta di Lugagnano la rete “stop al consumo di territorio” e sono molti i primi cittadini che vogliono voltare pagina. La popolazione italiana non cresce più ed è economicamente molto più conveniente riqualificare l’esistente.
Terzo. La definizione di un grande (stavolta sì) programma di messa in sicurezza degli edifici pubblici. Il volto dello stato si vede da come si presentano le scuole dell’obbligo. L’ottanta per cento di esse è fatiscente o non rispetta le norme di sicurezza. Stesso discorso vale per gli ospedali e per gli altri servizi. Una grande opera di ricostruzione del volto dei luoghi pubblici e delle città, che sono gli elementi portanti della convivenza civile di ogni paese civile. E se qualcuno obiettasse spudoratamente che in questo modo si spendono soldi pubblici, basterebbe mostrargli i volti dei giovani che in Abruzzo hanno perso la vita soltanto perché l’ideologia liberista ha imposto in questi anni la distruzione di ogni funzione pubblica.

Repubblica 7.4.09
La modernità dei disastri
di Giorgio Bocca


Il terremoto si distingue dalle altre e molte calamità per la rapidità e l´indifferenza naturali: nei pochi minuti delle scosse telluriche il disastro è compiuto, ai superstiti non resta che cercare i cadaveri sepolti sotto le macerie e camminare smarriti fra ciò che resta di città e villaggi. Fra il dolore insopportabile ma come sempre sopportato da chi ha perso i suoi cari, e il silenzio degli altri sopravvissuti che li compiangono ma sanno di essere stati miracolati.
Per giorni, per anni, si parlerà delle prevenzioni non fatte, degli errori compiuti, delle malefatte per egoismi per i quali è arrivato il conto da pagare e sui giornali e alla televisione ci sarà lo spettacolo dolente e impotente dei morti, dei feriti, dei loro parenti in lacrime.
Un nome verrà ripetuto in tutte le cronache, nei commenti, nelle polemiche. Quello di Guido Bertolaso il capo della Protezione civile, il professionista dei pubblici soccorsi che tutti gli italiani conoscono anche se, per la verità, faticano a capire che è lui il vero premier di questa Italia disastrata. Il vero capo del governo è lui, non i politici che in Italia e all´estero recitano la parte dei pubblici amministratori.
Bertolaso ha una sua uniforme, veste in borghese senza gradi e senza medaglie, pantaloni normali e un pullover blu con su cucito un nastro tricolore, ma non c´è italiano che non riconosca in lui quello che promette di rimettere in piedi il paese ogni volta che va in pezzi, che promette di ricucire le sue ferite, di togliere le macerie e le immondizie, di riaprire le strade, di riportare fiumi e torrenti nei loro argini. È quello che il capo ufficiale del governo vorrebbe essere, un "dittatore" buono. Bertolaso gode infatti dei poteri necessari per mobilitare eserciti di soccorritori, migliaia di treni, di auto, di camion. Quando arriva lui con il suo pulloverino blu, con il nastrino tricolore, prefetti, questori e generali si mettono sugli attenti e gli obbediscono senza fiatare. Lui zittisce le polemiche, come ha fatto anche ieri, spiega che la tragedia non si poteva prevedere. E non importa se poi non riesce a mantenere molte delle sue promesse. Bertolaso ha i pieni poteri, è il governo più forte del governo.
C´è una cosa importante che si sta verificando anche in Abruzzo. Nel dolore e nella disperazione dei disastri maturati la gente riscopre la voglia di resistere, di riparare. E per una volta i lacci e i lacciuoli burocratici sembrano scomparire di fronte alla superiore necessità. Si mobilita in poche ore un vero esercito nazionale che è quello dei soccorsi, che si mette in marcia dal Brennero a Capo Passero secondo piani e interventi preordinati, ma anche su base volontaria e solidaristica. Sospinto dall´emozione, dal dolore, dalla fratellanza di un popolo.
E c´è un´altra lezione, un´altra cognizione che viene da questo disastro per molti aspetti feroce e impietoso. La transizione fra l´Italia antica, paese d´arte, l´Italia dei mattoni e delle ardesie, e quella moderna del cemento armato. Fra l´Italia dei borghi medievali attorno ai castelli sopra i colli e quella delle zone industriali sui piani di fondo valle. Giornali e televisioni hanno intervistato i superstiti dei terremoti in Campania e nelle Marche, amministratori, funzionari che hanno visto con i loro occhi, a volte la morte dei loro cari, i ritardi e le imprevidenze, gli errori ancora una volta compiuti, ancora una volta troppo tardi denunciati. Ancora una volta hanno ricordato l´antica e mai osservata lezione di serietà e di modestia, il dovere di provvedere oggi al necessario invece di piangere domani sulla propria imprudenza.
Il rimprovero principale che si mosse alla megalomania imperiale mussoliniana, fu di aver speso uomini e denaro per la conquista dello «scatolone di sabbia» in Libia mentre nell´Italia meridionale mancavano strade e ferrovie e la gente continuava a portare i carichi in spalla e a percorrere a piedi i tratturi. Le grandi opere sono una testimonianza di civiltà ma anche un lustro di governanti ambiziosi più che saggi. Il ponte sullo Stretto di Messina e i treni super veloci sono belli da vedere e da raccontare ma poi arriva una pioggia persistente e una delle grandi opere, l´autostrada Salerno-Reggio Calabria si tramuta in quello «sfascio pendulo» che è gran parte del Meridione.
C´è infine una terza lezione da ricavare da questa modernità: non è più il tempo di correre a vedere chi è morto o senza casa. Anche la pietà e il cordoglio devono adattarsi alla modernità di massa, non intralciare sulle strade il traffico dei soccorsi. È una preghiera, ordine di Guido Bertolaso.

Repubblica 7.4.09
Le colpe del malpaese
di Giovanni Valentini


Dopo la solidarietà sarà necessario compilare l´inventario delle responsabilità

Non è certamente colpa di nessuno, tantomeno del governo in carica, se scoppia un terremoto nel cuore della notte e devasta un´area sismica già censita nelle mappe della paura, provocando una dolorosa catena di rovine, morti e feriti. Quando l´instabilità del territorio si combina purtroppo con la violenza della natura, il cataclisma diviene inarrestabile e l´uomo non può che arrendersi alla fatalità.
È doveroso ora far fronte all´emergenza, soccorrere le vittime, assistere i sopravvissuti, ripristinare al più presto condizioni di vita normali e dignitose per tutti. Ed è senz´altro opportuno accantonare per il momento qualsiasi polemica contingente, per concentrare gli sforzi in un impegno comune di solidarietà. Ma subito dopo sarà necessario anche compilare l´inventario delle responsabilità, remote e recenti, non solo per accertare che sia stato fatto davvero tutto il possibile per prevenire un evento di tale portata, quanto per impedire che possa ripetersi in futuro o perlomeno per contenerne eventualmente l´impatto.
Non vogliamo riferirci qui tanto alla "querelle" fra il tecnico che nei giorni scorsi aveva lanciato l´allarme e l´apparato della Protezione civile, sostenuto dall´establishment del mondo scientifico, secondo cui un terremoto non si può mai prevedere. Sarà pur vero che i sintomi registrati dai sismografi o da altre apparecchiature non consentono di predisporre per tempo un intervento funzionale, cioè un´evacuazione di massa delle case, dei paesi e delle città. È altrettanto vero, però, che in questo caso i segnali sono stati evidentemente trascurati e sottovalutati, fino al punto di mettere sotto inchiesta l´incauto tecnico in virtù di un paradosso giuridico che prende il nome di "procurato allarme".
La questione fondamentale è un´altra e si chiama piuttosto "cultura del territorio". Vale a dire conoscenza e rispetto della natura; sensibilità e cura per l´ambiente; tutela del paesaggio e ancor più della salute, della vita umana, di tanti destini in carne e ossa che in quel territorio incrociano la propria esistenza. Non c´è pietà per le vittime e per i sopravvissuti di questo o di altri terremoti, come di ogni disastro naturale, senza una consapevolezza profonda di un tale contesto e senza una conseguente, concreta, quotidiana assunzione di responsabilità.
Fuori oggi da una sterile polemica politica, non si può fare a meno tuttavia di registrare l´enorme distanza � propriamente culturale � fra un approccio di questo genere e il cosiddetto "piano-casa" recentemente varato dal governo di centrodestra, nel disperato tentativo di rilanciare l´attività edilizia. In un Malpaese che trema distruggendo � insieme a tante speranze e a tante vite � abitazioni, palazzi, ospedali, scuole e chiese, e dove ancora aspettano di essere ricostruiti gli edifici crollati nei precedenti terremoti come quello del Belice di quarant´anni fa, la priorità diventa invece la stanza in più, la mansarda o la veranda da aggiungere alla villa o alla villetta, in funzione di quel consumo del territorio che si configura come un saccheggio privato a danno del bene comune.
Non saranno magari le fughe di gas radon emesse dalla terra in ebollizione � come predica l´inascoltato ricercatore abruzzese � a permetterci di prevedere i terremoti, ma verosimilmente una rigorosa prevenzione anti-sismica può aiutarci a ridurre al minimo i danni e soprattutto le vittime. Tanto più nelle regioni e nelle zone dove il rischio è notoriamente più alto. Ecco una grande occasione per rilanciare l´attività edilizia nell´interesse generale, non già al servizio della speculazione immobiliare ma semmai in funzione di un investimento umano e sociale sul territorio.
Con i 150 morti finora accertati, i mille e cinquecento feriti, i settantamila sfollati, i diecimila edifici crollati o danneggiati, il triste bollettino di guerra che arriva dall´Abruzzo interpella una volta di più le ragioni di un "ambientalismo sostenibile": cioè, pragmatico, costruttivo, effettivamente praticabile. Di fronte al primo cataclisma del nuovo millennio, quello schieramento composito e trasversale che vuole difendere l´immenso patrimonio naturale, storico e artistico dell´Italia dagli egoismi individuali, è chiamato a misurarsi più che mai con la sfida della concretezza. Superata l´era delle vecchie ideologie, rosse o verdi che fossero, ora c´è da impugnare la bandiera del realismo civile.

Repubblica 7.4.09
La Costituzione di Berlusconi
di Andrea Manzella


Ad un certo punto dei suoi discorsi, alla Fiera di Roma, il leader del nuovo partito ha cominciato a leggere il primo articolo della Costituzione. Ma non l´ha letto tutto. Si è fermato al primo periodo: quello che dice che «la sovranità appartiene al popolo». Se avesse proseguito nella lettura, avrebbe dovuto spiegare niente di meno che il rapporto tra costituzionalismo e democrazia. È la prima questione politica che si sono posti gli antichi e i moderni: ed è sempre, ancor oggi, stringente, nel senso che ad essa non si può sfuggire. E infatti i costituenti del 1948 non scapparono affatto. E dopo aver scritto che «la sovranità appartiene al popolo», aggiunsero: «che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».
Vi sono dunque "forme costituzionali" secondo le quali il potere della maggioranza popolare deve esprimersi per essere legittimamente riconosciuto. E vi sono "limiti costituzionali" al potere della maggioranza. Limiti che, come paletti, segnano il terreno dove si esercita la giusta pretesa del governo a governare: ma ne evitano abusi e straripamenti in altri campi. Quali sono questi campi? In primo luogo, la sfera delle libertà individuali e collettive ma anche gli spazi di potere pubblico che la Costituzione ha voluto sottrarre al principio assoluto di maggioranza: gli spazi dei giudici, della Corte Costituzionale, del Capo dello Stato. Queste aree sono indisponibili alla potestà di governo perché l´esperienza del governo degli uomini ha da sempre dimostrato che la concentrazione e la solitudine del potere degenerano infallibilmente. La mancanza di contraddittorio impoverisce il modo di prendere le decisioni. È ristretta la visione di chi non ha i molti occhi necessari per la complessità del mondo. Le paure e le incertezze rendono precaria la compagine statale e fragile lo spirito pubblico: quando non vi è giustizia indipendente dal potere. Sono naturali e inevitabili le insidie cui sono esposti comportamenti incontrollati e incontrollabili.
In sole dieci parole, l´art.1 della Costituzione, nella parte non letta dal presidente del Pdl, riassume dunque tutto questo (e molte altre cose ancora che ci vengono da esperienze lontane e durature: il americano, il 1789 francese�). Ma, soprattutto, il primo articolo dà la definizione di quello che si chiama "equilibrio costituzionale". Non ci potrebbe essere migliore formula infatti di quel semplice, ma fulminante accostamento tra sovranità popolare e limiti costituzionali. Con questa costruzione duale del potere pubblico, quella norma parla anche al futuro. Dice che, certo, la Costituzione per la necessità dei tempi può essere cambiata (nelle "forme" che innanzitutto detta per la sua revisione). Ma sempre ogni mutamento del potere democratico deve essere accompagnato da "limiti" che non alterino quell´originario equilibrio.
Il potere di decisione può essere spostato o accentuato in questo o quello degli organi costituzionali: e può così cambiare la geografia di governo. Ma, sempre, vi dovrà essere nei cambiamenti una logica costituzionale dei "limiti". Cioè di contrappesi adeguati a quello stesso spirito di ammodernamento che dovrà giustificare la maggiore forza del "governo dei più".
Non è possibile una scissione di quella fondamentale norma costituzionale, neppure nel silenzio(come si è fatto alla Fiera di Roma). Sostenere la necessità di riforme costituzionali e tacere sulla contemporanea necessità di rivedere, in alto, "forme" e "limiti" della Costituzione equivale a tradirne l´intima armonia ,a violarne i sistemi di sicurezza. Quelli che furono posti contro la "tirannia di qualunque maggioranza" (e non solo contro la tirannia allora recente del fascismo).
D´altra parte, come gli ultimi anni hanno dimostrato, il potere di governo sa difendersi da solo. È perciò molto più realistica l´esaltazione che è stata fatta della tenuta e dei risultati dell´"asse" maggioranza-governo che non le lamentele sulla debolezza dei poteri governativi. È assai difficile però sostenere, tutto d´un fiato, una cosa e l´altra. La verità è che in un sistema bipolare, degenerato a muro contro muro senza intercapedini, il deficit autentico è quello delle garanzie: e lo subiscono le minoranze.
Non è dunque un peccato volere il "premierato assoluto", con potere di sciogliere le Camere, o forme di presidenzialismo a diretta elezione popolare. Non lo è neppure in un posto dove il presidenzialismo sarebbe a catene mediatiche unificate. Né tantomeno un presidenzialismo sorretto da un imponente fronte populista. Il peccato grande è andare avanti su quella strada senza minimamente alludere a quelle naturali difese, agli "anticorpi" che si devono prevedere proprio per salvaguardare quell´equilibrio di cui la Costituzione ci parla a cominciare del suo primo articolo.
Negli Stati Uniti c´è il presidenzialismo. Ma è considerato scorretto perfino definirlo così: perché dire presidential government sarebbe come ignorare il Congresso, il grande e potente parlamento. L´equilibrio della loro Costituzione è tutto nei reciproci controlli e bilanciamenti, nella "leale cooperazione", nella condivisione di potere da parte di istituzioni separate. Se il Presidente rifiuta di promulgare una legge, per superare il suo veto, è necessaria una maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera. Ma il "parere e il consenso" del Senato sono richiesti per più di mille importanti cariche federali sulle proposte del Presidente. E ogni commissione del Congresso dispone di poteri equivalenti alle nostre commissioni di inchiesta. I ministri (i loro "segretari di dipartimento") sono responsabili solo verso il Presidente: ma, prima di entrare in carica, devono passare l´esame rigoroso, sotto giuramento, della commissione del Senato competente per materia�
In Francia c´è un quasi-presidenzialismo, accentuato dal rapporto Presidente-parlamento, dopo la riforma Sarkozy del luglio scorso. Ma vi è anche qui un potere di veto delle commissioni parlamentari sulle più importanti nomine. E vi sono soprattutto, a segnare la vitalità di quel Parlamento, le possibilità per una minoranza di 60 deputati o senatori di chiedere l´intervento del Tribunale costituzionale preventivamente alla promulgazione delle leggi. Al giudizio preventivo costituzionale è sottoposta anche ogni revisione dei regolamenti parlamentari. Lo stesso numero di deputati o senatori può chiedere che sia verificata la costituzionalità dei poteri eccezionali che il governo esercita per crisi straordinarie. Addirittura ad una minoranza di deputati e senatori (un quinto dei membri del Parlamento) è riconosciuto un diritto di referendum legislativo, propositivo o abrogativo, a condizione che l´iniziativa sia sostenuta da un decimo degli iscritti al corpo elettorale.
Schematizzati al massimo, i due maggiori esempi di "presidenzialismo " dell´Occidente rivelano dunque una robusta struttura di equilibrio. La nostra deriva presidenzialista preoccupa perché i proclami contro la lentezza della democrazia sono lanciati senza la minima idea di un patto, di un sinallagma costituzionale di quel tipo. Senza appigli nella Costituzione, il cosidetto "statuto dell´opposizione" è una vecchia bolla d´aria. Che la maggioranza punti su questo patto leonino è quasi normale. Che lo accetti la minoranza (con documenti come quello approvato alla Camera il 24 marzo scorso) sarebbe sorprendente.
Eppure basta, per capire, rileggere integralmente l´art. 1 della Costituzione.

Repubblica 7.4.09
La molecola che cancella i brutti ricordi
Scoperta da scienziati Usa si chiama PKMzeta "Può aiutarci a combattere la demenza senile"
Brutti ricordi una molecola li cancellerà
La ricerca solleva non pochi problemi etici: è giusto eliminare parti della memoria?
di Benedict Carey


NEW YORK. Supponiamo che gli scienziati siano in grado di cancellare determinati ricordi: potrebbero farvi dimenticare una paura cronica, una perdita traumatica, perfino una cattiva abitudine. Un gruppo di ricercatori recentemente è riuscito in un´impresa del genere, con un´unica dose di un farmaco sperimentale che blocca l´attività di una sostanza di cui apparentemente il cervello necessita per trattenere buona parte delle informazioni. Finora le ricerche sono state condotte solo su animali, ma gli scienziati sono convinti che funzioni in modo quasi identico nelle persone. «Se questa molecola è davvero importante quanto sembra, le possibili implicazioni sono evidenti», spiega Todd C. Sacktor, 52 anni, che guida il team di ricercatori del Downstate Medical Center dell´Università dello Stato di New York, che ha dimostrato gli effetti di questa molecola sulla memoria.
Le neuroscienze stanno consentendo finalmente agli scienziati di trovare risposte reali sul funzionamento del cervello; e stanno anche sollevando interrogativi, sia di ordine etico che scientifico. Sacktor è uno delle centinaia di ricercatori che cercano di dare una risposta a una domanda che lascia sconcertati i pensatori fin dall´inizio dei moderni sistemi di ricerca: com´è possibile che un ammasso di tessuti sia capace di catturare e immagazzinare ricordi? Il cervello pare in grado di conservarli sviluppando linee di comunicazione più spesse, o più efficienti. La risposta forse sta in una sostanza chiamata PKMzeta. Le molecole PKMzeta sembra si concentrino dentro questi collegamenti a forma di dito tra le cellule cerebrali che vengono rafforzati dall´azione del neurone. E rimangono lì a tempo indefinito, come sentinelle biologiche. Per scoprire a cosa serviva la PKMzeta negli animali vivi, Sacktor è sceso al piano di sotto, al laboratorio di André A. Fenton, anche lui del Downstate, che studia la memoria nei topolini e nei ratti. I ricercatori hanno iniettato nelle cavie un farmaco chiamato Zip, che interferisce con la PKMzeta, e gli animali quasi immediatamente ripartivano da zero. Fenton ha ripetuto l´esperimento in vari modi; e lo stesso ha fatto con metodi diversi un consorzio di ricercatori.
«Questa possibilità di cancellare la memoria ha sviluppi enormi e solleva problemi etici colossali», dice Steven E. Hyman, neurobiologo a Harvard. «Da un lato, si può immaginare uno scenario in cui una persona entra in un contesto che fa emergere ricordi traumatici, ma ora ha una medicina che attenua questi ricordi quando emergono. Oppure, nel caso della dipendenza, una medicina che la mitiga».
c. 2009 New York Times News Service
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 7.4.09
Alberto Oliverio, neuroscienziato
"Ma attenzione ai casi limite"
intervista di Cristina Nadotti


Le perplessità sulla pillola cancella-ricordi sono molte. Alberto Oliverio, che per il Cnr ha diretto l´Istituto di psicofarmacologia e insegna neuroscienze alla Sapienza di Roma, spiega i temi della discussione.
Professore, ma come si possono cancellare solo i ricordi brutti e non quelli belli?
«L´inibitore della molecola attutisce l´impatto di memorie emotive, lenisce cioè la loro carica negativa. Le esperienze positive ritornano di meno, sono meno invasive, per questo c´è una maggiore azione sui ricordi spiacevoli».
Ma in questo modo non si cancella anche l´esperienza? Non si rischia di portar via anche il ricordo che, seppur negativo, serve?
«Ammesso che i risultati sugli essere umani possano essere uguali a quelli ottenuti sugli animali, la discussione in proposito si è incentrata proprio su questi aspetti. Se nel caso di uno stupro un aiuto farmacologico può aiutare a superare l´esperienza negativa, nel caso di un militare affetto da stress post traumatico può liberarlo anche dalle responsabilità, rendendolo una sorta di automa. Sono casi limite, e l´esperienza umana non può essere generalizzata, ma se si avrà a disposizione un farmaco del genere dovrà essere usato valutando caso per caso, come si deve fare per ogni terapia di sostegno a quella psicologica».
Ma quanto si è vicini a produrre questa pillola?
«Credo si sia pubblicizzato un po´ più di quel che c´è davvero, ma soprattutto negli Stati Uniti il disagio dei veterani di guerra sta influenzando molto la ricerca in questo ambito».

Repubblica 7.4.09
Rivolta. Quando gli esclusi dicono "basta"
di Adriano Sofri


La protesta contro i manager superpagati è la spia di un malessere sociale che fa fatica a trovare una voce e un´espressione politica

Il capitalismo è tutto e il suo contrario. Riesce a chiedere in prima persona che le banche vengano nazionalizzate e i debiti collettivizati. È capace di autoespropriarsi

Oggi la parola rivoluzione anche solo come sinonimo di grande cambiamento ha fatto il suo tempo. È stata superata, mandata in soffitta, mandata via oppure anestetizzata

La parola rivolta è tornata a circolare inseguendo il fatto. Ci siamo sforzati di imparare la nonviolenza, sapremmo combinarle la rivolta? Non è la ribellione, non è l´insurrezione, né la sua versione vandeana, l´insorgenza. Non è neanche, non tanto, la rivolta nelle piazze e nelle officine, quella di cui Fitoussi ha rintracciato qui la genesi e che ha insieme additato come un pericolo per la democrazia. Vecchio aneddoto: la rivolta che invece rassicura l´ancien régime. (14 luglio 1789, presa della Bastiglia. Luigi XVI: "E´ una rivolta?" Ufficiale della Guardia: "No, Maestà. E´ una rivoluzione"). E´ la rivolta morale che ha spiegato qui Ezio Mauro. Succede quando l´ordinaria ingiustizia e assurdità dei nostri modi di vita eccede il limite, e diventa, alla lettera, rivoltante. Dunque è il momento di ripassarla.
La rivolta si è definita nel confronto con la rivoluzione. Di norma, venendone colonizzata: la rivolta è scialacquatrice, cieca e sprovveduta, mentre la rivoluzione è lucida, sa dove vuole arrivare, sa come arrivarci, sa anche riscattare la rivolta tramutandola in una tappa del proprio cammino. La rivoluzione ha la sua rivolta premeditata, la chiama insurrezione, e le assegna un anno, un mese e un giorno preciso � il 6 novembre sarebbe stato troppo presto, l´8 troppo tardi. La rivolta è intempestiva, il suo giorno viene a caso, per una scintilla caduta sulla paglia, o naturalmente, come un terremoto. Ma la spontaneità e la genuinità della rivolta può anche essere rivendicata contro il raffreddamento calcolato della rivoluzione. La rivolta non ha da giustificare se stessa che con il rifiuto della servitù e dell´inganno. Nonostante il paradosso di Camus, che vuole far durare la rivolta, la rivoluzione può (invano) sognarsi permanente, la rivolta si brucia in un giro di notti. La rivoluzione vittoriosa costruisce un nuovo ordine impegnato a schiacciare la controrivoluzione fuori e dentro le proprie file, la rivoluzione sconfitta lascia uomini impegnati a cavarne la lezione e preparare la prossima. La rivolta è sconfitta per definizione, e dopo aver infiammato insieme gli individui e una moltitudine � «Je me rèvolte, donc nous sommes � mi rivolto, dunque siamo» � lascia persone sole a passare attraverso file di carcerieri, a registrare impronte digitali, a camminare su e giù in un cortile, forse per tanti anni, forse per un´ultima notte.
La rivoluzione ha fatto il suo tempo. Strana espressione questa, di fare il proprio tempo. Perché vuol dire essere superati, messi in soffitta, buttati via, ma anche, in qualche origine, aver preteso di forgiare il tempo sulla propria misura. La parola stessa è così anestetizzata che si può reimpiegarla nelle conversazioni perbene, disincarnata, disossata, mero sinonimo di un cambiamento, di un grande cambiamento. Si può perfino dire "una vera rivoluzione culturale", non so, per il modo di appendere i quadri in una mostra, e non sentire più i brividi dell´originale. Di tutti i progetti di governo delle cose, la rivoluzione sociale e politica era il più ambizioso: una specie inconsapevole di ingegneria genetica ante litteram applicata al corpo sociale universale. Se ne è disillusa, ed è diventata scettica e conservatrice, o prudentemente riformista. Così, per chi non ci sta e ha membra agili ed è troppo giovane o troppo stanco per provare interesse a un futuro, è rimasta la rivolta. Per strada, nelle periferie notturne, o nelle incursioni in centro in certi giorni di gala, quando un´ufficialità ne offra il pretesto. O nei luoghi in cui si lavora, e si smette così spesso di lavorare, e si può acchiappare per un po´ qualche ricco, un amministratore delegato o un tagliatore di teste, in fuga a Varennes con il portafoglio gonfio e la coda fra le gambe. Nichilista, la rivolta? Be´, le avete tolto tutto, anche la lepre della rivoluzione. Quanto alla convalescenza, stava appena studiandosi di smettere di dirsi riformista e cominciare a essere riformatrice, che le sue ricette diventano aspirina per l´elefante. La cosiddetta crisi eccede rivoluzione e riforma. Peggio: investe gli Amministratori delegati delle potenze statali di un´ambizione rivoluzionaria, di una recita prometeica. Sono loro, adesso, quando la macchina mondiale è imbizzarrita, a immaginarsi capaci di metterle morso e redini, a fissarle date di un´agenda da luna park, a somministrarle, in mancanza di qualità, quantità di trilioni. Era giudiziosa, la mano invisibile del mercato: dissuadeva dalla megalomania demiurgica, suggeriva di maneggiare con cura, di lasciare che il risultato venisse dalla libertà di innumerevoli corsi e incroci delle cose. Naturalmente, questo campo libero poteva inclinare alla giungla, e dato che poteva l´ha fatto. Il capitalismo è ambedue le cose, capricciosamente: l´ordine e perfino il progresso che viene da quel libero corso, e il tracollo. Nazionalizzare le banche, collettivizzare i debiti, diventa affar suo, del capitalismo che si autoespropria, e nel momento in cui dichiara la bancarotta della propria presunta razionalità �della propria giustizia, nemmeno parlarne- simula di poter governare il mondo. Manca poco che annunci i piani quinquennali. D´altra parte, bisogna pure rassegnarsi a sperare che Dio ce la mandi buona, e che i governanti, e Obama per tutti, non ce la mandino troppo cattiva. Chi non abbia l´età o il reddito bastanti a questa pazienza, potrà imbattersi nella rivolta. Non la sceglierà: quello lo fanno, peggio per loro e per noi, i black block. La rivolta vera non ha uniformi né visi coperti. E´ come un incidente stradale: uno si ferma a dare un´occhiata, e finisce nella mischia. Dopotutto la crisi dell´auto era stata annunciata dalle decine e centinaia di automobili date alle fiamme in una notte nei nostri Paesi: soprattutto in Francia, già patria della famosa rivoluzione, e ora della malfamata rivolta. Altri sciagurati vanno a sparare all´impazzata in un qualunque luogo affollato, o si portano all´altro mondo i propri cinque figli. All´altro mondo possibile.

Repubblica 7.4.09
Jacquerie. Gli umiliati del Medioevo
Intervista a Jacques Le Goff
di Fabio Gambaro


Attorno all´anno mille le sommosse scoppiano innanzitutto nelle campagne. Dal XII secolo si spostano nei centri urbani. Il Trecento è il secolo delle grandi sollevazioni di contadini, alimentate dalla povertà

«Il medioevo fu un´epoca di grandi rivolte, violente e sanguinose.» Lo sottolinea lo storico francese Jacques Le Goff, ricordando le molte ribellioni popolari scoppiate tra il X e XIV secolo: «Nonostante spesso si creda il contrario, il medioevo non fu un´epoca dominata dall´ubbidienza. Questa era richiesta soprattutto ai servi e ai monaci. Questi ultimi però non sempre la rispettavano, specie nei monasteri riformati e negli ordini mendicanti, che quindi non di rado partecipavano alle rivolte popolari. A quel tempo, per la chiesa la giustizia era più importante dell´ubbidienza. Di conseguenza, le numerose rivolte che scoppiavano contro le gravi e diffuse ingiustizie sociali non sempre venivano condannate dal mondo ecclesiastico».
La tipologia della rivolte varia da un secolo all´altro?
«Attorno all´anno Mille, le rivolte scoppiano innanzitutto nelle campagne, dove ci si ribella contro i signori. Dal XII secolo, le rivolte si spostano soprattutto nei centri urbani, sempre più importanti per via delle loro attività artigianali e commerciali. In città, il solco tra ricchi e poveri si fa sempre più profondo, alimentando un forte malcontento, a cui va aggiunta l´insofferenza nei confronti del dominio dei vescovi. Si spiegano così molte rivolte, tra cui quelle scoppiate a Roma al seguito d´Arnaldo da Brescia o Cola di Rienzo».
Nel XIV secolo le rivolte si moltiplicano. Come mai?
«È un secolo di crisi, dominato dalle guerre, dalle carestie e dalla peste. La povertà alimenta grandi sollevazioni di contadini in Inghilterra e Catalogna. A metà secolo, la grande jacquerie infiamma la regione di Parigi. Qui per la prima volta, accanto alla dimensione sociale, emerge una dimensione politica, dato che la ribellione prende di mira la monarchia francese e produce un´inedita alleanza tra il popolo e una parte della borghesia. Nel XIV secolo abbiamo anche la prima rivolta operaia, quella dei Ciompi a Firenze, nel 1378».
Quali erano le ragioni delle rivolte?
«Le motivazioni erano essenzialmente economiche. Il popolo si ribellava alla povertà e all´oppressione fiscale, ma chiedeva anche il rispetto della propria dignità, denunciando l´arroganza dei signori. Globalmente, le rivolte restano sul terreno sociale, dato che l´aspirazione alla giustizia solo di rado dà luogo a un vero disegno politico. Non vanno poi dimenticate le rivolte nate dalle eresie come pure quelle, meno conosciute, condotte da gruppi di giovani in rotta con la società. Insomma, il medioevo fu un´epoca tormentata, ma a poco a poco emerse una tendenza al negoziato e al compromesso».
Nell´età moderna le rivolte tendono a diminuire?
«In realtà aumentano, dato che l´industrializzazione produce disuguaglianze sempre più profonde, che verranno compensate solo tardivamente e in modo insufficiente dalle conquiste operaie. Nel corso della modernità assistiamo alla progressiva politicizzazione delle rivolte. Tuttavia, solo raramente la politicizzazione ha permesso alla rivolta di trasformarsi in vera e propria rivoluzione, di rimettere in discussione l´intera società».
Vede qualche analogia tra la realtà medievale e quella odierna?
«Oggi come allora la disperazione sociale nasce dalla povertà, ma anche da un sentimento di umiliazione. Chi sta perdendo tutto non sopporta lo spettacolo della ricchezza ostentato da alcuni. Tutto ciò è particolarmente percepibile nelle città dove, come nel medioevo, le grandissime disparità economiche continuano ad alimentare l´ingiustizia sociale».

Repubblica 7.4.09
Uguaglianza e democrazia
Se le élites vengono messe in discussione
di Aldo Schiavone


La crisi economica coinvolge direttamente la vita di grandi masse in tutto il pianeta investendo identità, ruoli, prospettive. Per questo alla politica spetta il compito di costruire un nuovo consenso

Nell´incipit di un saggio una volta famoso, oggetto di una polemica violentissima, Albert Camus scriveva che "l´uomo in rivolta", nel "dire no", afferma l´esistenza di una frontiera, di un limite intollerabilmente superato, e dunque formula in modo bruciante un giudizio di valore, che è insieme per lui "tutto" e "niente", ma in nome del quale vale comunque la pena di mettersi in gioco. E sono proprio uomini e donne "in rivolta", nel senso letterale di Camus, quelli che nei giorni scorsi sono improvvisamente comparsi per le strade d´Europa: non solo black bloc, rivoluzionari contro il capitale - agitatori "no global" carichi di ideologia - ma anche persone che dicevano semplicemente "basta", "non si può andar oltre", e che sentivano, confusamente ma pure in maniera assai forte, che un confine era stato violato, e che ciò non si poteva accettare in silenzio.
Episodi limitati, per ora. Che abbiamo tuttavia l´obbligo di capire: senza tragediare, ma anche senza addolcire. Nella mente di chi protestava, la misura appariva colma fino all´insopportabile per due ragioni, molto serie, e anzi cruciali: una ragione che chiamerei di legittimità, e un´altra che definirei di eguaglianza. Entrambe arrivano a toccare i fondamenti stessi delle nostre democrazie.
In questi mesi, in queste settimane, la crisi economica sta cominciando a investire direttamente la vita di grandi masse, da un capo all´altro del pianeta: identità, ruoli, prospettive. Essa non è un fenomeno "naturale" - anche se sono in molti ad affannarsi per farcela percepire così. Non era inevitabile. È un evento prodotto dalle scelte politiche, economiche e culturali (sì, anche culturali) del ventennio che ci ha preceduto. Chiama in causa responsabilità, valutazioni, errori precisi, che rimandano a individui e cerchie altrettanto determinati e individuabili, che spesso hanno ricavato vantaggi enormi dalle loro decisioni. Si pone dunque in modo evidente un problema di discontinuità, di rottura rispetto a questo passato. In altri termini, un problema di rapporto fra masse e (responsabilità delle) élite, fra governanti e governati. Se non si rende evidente la novità, che si sta voltando drasticamente pagina - nelle persone, nelle idee, nei comportamenti - la legittimazione popolare di chi detiene il potere ne esce compromessa, se non completamente spezzata. Questo innanzitutto esasperava le donne e gli uomini in rivolta, in questi giorni: la mancata evidenza del cambiamento. Credo del resto che Obama lo abbia capito benissimo - e che stia cominciando a esplorare le strade per la costruzione di un nuovo consenso. Ma le classi dirigenti europee? E l´Italia?
C´è poi un problema di eguaglianza: una parola che dobbiamo reimparare a pronunciare. La crisi sta creando, soprattutto nei Paesi più ricchi, una dismisura di diseguaglianze mai prima sperimentata. E non solo in termini di quantità (che pure non vanno certo trascurati). Ma soprattutto di qualità, se così si può dire, di proporzioni nei confronti di quei "nuovi esclusi" di cui ci hanno appena parlato Ezio Mauro ed Eugenio Scalfari su questo giornale. D´improvviso, nel cuore delle nostre società, si stanno aprendo voragini di squilibrio che minacciano di inghiottire e di disintegrare intere trame del nostro tessuto comunitario, fasci interi di vincoli e di legami. Democrazia e disuguaglianza sono compatibili (e addirittura funzionali) solo se queste ultime non superano livelli di guardia prestabiliti. Oltre, c´è la comune rovina civile e democratica dei soggetti coinvolti in entrambi i lati dello squilibrio. Anche di questo gridavano le nostre inattese rivolte.

Repubblica 7.4.09
Guggenheim
Un’astronave sulla Quinta Avenue così rinasce il museo-opera d’arte
di Antonio Monda


Ci sono voluti 3 anni per restaurare l´icona progettata da Lloyd Wright Da metà maggio a New York una grande mostra per celebrarla

Il sogno dell´architetto: rendere gli spazi interni come "spazi inclusi"
Tra i progetti mai realizzati anche il centro culturale di Bagdad, su un´isola del fiume Tigri

NEW YORK. Il 21 Ottobre del 1959, all´incrocio tra la Quinta avenue e la 89esima strada, nel cuore nobile ed opulento dell´Upper East Side, venne inaugurato uno degli edifici più rivoluzionari e stupefacenti mai costruiti in America. Prendeva il nome da Solomon Guggenheim, il miliardario che lo aveva voluto per farne un´istituzione culturale che fosse insieme rivoluzionaria e classica. Aveva voluto che sorgesse nel cuore del "museum mile", e affidato il proprio sogno a Frank Lloyd Wright, il quale aveva immaginato un edificio a spirale che si allargava dal basso verso l´alto, e riecheggiava, per struttura, ambizione e solennità, i Musei Vaticani ed il Pantheon. L´inaugurazione sconcertò il pubblico e gran parte della critica: furono in pochi a comprenderne l´importanza e la bellezza, e c´è chi parlò in maniera derisoria di astronave o di un gigantesco nastro di cemento. Ma nel giro di pochissimi mesi il Guggenheim riuscì a diventare un´istituzione culturale di prima grandezza, uno dei principali centri di attrazione della città e, soprattutto, un´imprescindibile icona newyorkese. A 50 anni di distanza, dopo un imponente restauro della facciata e degli interni durato tre anni, il museo celebra se stesso e Frank Lloyd Wright con un´esibizione che debutterà a metà maggio e rimarrà in scena per tutta l´estate, nella quale saranno messi in mostra 200 disegni originali dell´architetto, plastici, bozzetti ed animazioni tridimensionali di 64 differenti progetti. L´esibizione è organizzata cronologicamente lungo la spirale interna, e analizza le costruzioni pubbliche e private, gli edifici religiosi e le grandi strutture urbanistiche che rimasero irrealizzate. Il titolo scelto per l´esibizione, "Frank Lloyd Wright: from within outward", si riferisce ad una dichiarazione dell´architetto, il quale sottolineò il legame inscindibile tra il dentro e fuori di ogni singola costruzione, arrivando a teorizzare che lo spazio interno debba essere espresso all´esterno come "spazio incluso". Probabilmente poche, tra le sue opere, esaltano questa concezione quanto il Guggenheim, con le sue curve sinuose della spirale, costruita in un crescendo che è insieme lieve ed inesorabile. Wright, che morì pochi mesi prima dell´inaugurazione, lottò sino alla fine per imporre il concetto d´inscindibilità tra forma e funzione, riuscendo a imporre anche l´idea, oggi attualissima, di un museo che era a sua volta un´opera d´arte. Un altro elemento determinante del dialogo a volte burrascoso con i propri committenti è la difesa del concetto di "libertà negli spazi interni", evidente anche nei altri progetti esposti, tra i quali si staglia la casa Kauffman, meglio nota come "la casa sulle cascate".
La realizzazione del Guggenheim rappresenta inevitabilmente il cuore dell´esibizione, a cominciare dalla storia del museo, che nacque come collezione privata di Solomon Guggenheim. Il miliardario acquistò una serie di capolavori che tenne per molti anni nel proprio appartamento: Kandinskij, Mondrian, Picasso, Chagall, Leger, Modigliani. Nel 1939 inaugurò un primo museo a pochi passi da dove è situato attualmente il Moma, ma nel giro di pochi anni la collezione divenne troppo grande per quella prima struttura così, alla fine del 1943, decise di commissionare a Wright la realizzazione del nuovo museo sfidando nel proprio quartiere il Metropolitan. Il miliardario appassionato d´arte rimase colpito dalla sicurezza con cui parlava l´architetto, il quale dichiarò che il nuovo edificio avrebbe fatto apparire il Met "come un fienile protestante". Ma ci vollero quindici anni ed oltre 700 bozzetti prima di arrivare alla finalizzazione della forma che oggi ammiriamo. La mostra consente di vedere come Wright abbia elaborato l´idea iniziale senza mai tradire la propria ispirazione: sin dai primi bozzetti reinventò il progetto abbandonato del "Gordon Planetarium", prendendo in considerazione l´ipotesi di una struttura di colore rosso con la base più larga del tetto, e persino quella di una forma azzurrina ottagonale. Ma l´elemento più emozionante porta con sé un elemento malinconico: il concetto di libertà degli spazi interni riflette una concezione visionaria che produsse progetti di straordinaria suggestione che rimasero purtroppo irrealizzati. Come la gigantesca Crystal City, da edificare a Washington, o il Pittsburgh Point Park Civic Center, che avrebbe rivoluzionato l´urbanistica e la vita culturale della città. E, più di ogni altro, il fantasmagorico centro culturale di Bagdad, con un monumento a spirale in onore di Haroun al-Rashid su un´isola del fiume Tigri.

il Riformista 7.4.09
Fantasma Rwanda
Quindici anni fa l'alba del genocidio
di Pietro Del Soldà


7 aprile '94. Nella terra delle mille colline inizia lo sterminio. In cento giorni le milizie estremiste hutu uccidono a colpi di machete 800.000 persone, tutsi ma anche hutu moderati. Oggi il Paese guidato da Kagame e dalle donne, che hanno preso per mano una società di orfani, seppellisce il ricordo con uno sviluppo economico invidiabile. Ma la riconciliazione è lontana.

«Il trauma è ancora vivo, palpabile, ma i rwandesi hanno deciso di andare avanti». A parlare è Jean Pierre Ruhigisha, rappresentante della comunità rwandese a Roma, in Italia dal 2000. Jean Pierre durante il genocidio del '94 non si trovava in Rwanda. Se n'era andato molti anni prima, nel '73, fuggendo con la sua famiglia dal secondo massacro che insanguinò la storia del suo popolo. Allora aveva quasi quattro anni, ma i ricordi, aiutati anche dai racconti della madre, sono ancora vivi e terribili.
«In questo mese di commemorazioni, quando si avvicina il 7 aprile, data d'inizio del genocidio, il ricordo dei massacri ritorna vivo. Le reazioni dei singoli, di chi ha perso i familiari o gli amici o è scampato per miracolo ai colpi di machete, sono diverse, ma indicano tutte che la paura c'è ancora: c'è chi scappa, c'è chi si rinchiude in casa per stare da solo, la gente non è ancora in grado di affrontare quel capitolo della storia come qualcosa di superato. Poi, passato il mese di aprile, si riesce a gestire il trauma e ad andare avanti con la vita di tutti i giorni».
La memoria fa male, dunque, ma non c'è alternativa. La storia del Rwanda deve ripartire da lì, da quel 7 aprile di 15 anni fa, quando l'alba illuminò, come sempre, il Rwanda delle mille colline, e scoprì che il paese non era più lo stesso. L'abbattimento del jet Mystere Falcon, avvenuto la sera prima sui cieli di Kigali, non aveva soltanto posto fine alla vita del presidente Habyarimana, colpevole agli occhi degli hutu più oltranzisti di aver firmato un accordo con i tutsi del Fronte Patrottico Ruandese. Quel razzo lanciato da "ignoti" fece qualcosa di più. L'offensiva contro gli oppositori del regime, tutsi ma anche hutu moderati, nacque da un disegno di morte cinico e organizzato.
Il Rwanda sia chiaro non era nuovo ai massacri reciproci tra hutu e tutsi. La rivolta del 1959, quando i contadini massacrarono i loro padroni tutsi a colpi di zappe e machete, provocò una strage. L'indipendenza del Rwanda è stata poi segnata da violenze continue: lo stesso Habyarimana aveva contribuito ad acuire la spaccatura del paese, una divisione a cui aveva largamente contribuito il potere coloniale belga ed alla quale venne imposta dall'alto, per fini politici, una natura "etnica" che storicamente non ha grande fondamento. Ma nel 1994 le cose acquistarono un tono diverso, da "sterminio programmato" di un'intera categoria di rwandesi, i tutsi, che l'ideologia estremista al potere definiva una razza diversa, venuta da lontano a rubare la terra e il bestiame degli autoctoni hutu. Una menzogna diffusa ad arte, che convinse e coinvolse un numero impressionante di cittadini hutu.
La notte del 6 aprile cominciò l'annientamento degli «scarafaggi», come li definisce la famigerata Radio Mille Colline, accusati in massa della morte del presidente: un massacro che avrebbe potuto svolgersi a colpi d'artiglieria. Ma così non fu: lo sterminio doveva avvenire a colpi di machete, guidato da una milizia di massa, l'Interahamwe, che includeva contadini, studenti, impiegati, affinché fossero migliaia le mani sporche di sangue, e nascesse un nuovo paese fondato sulla colpa condivisa, sulla rimozione, sulla paura della verità.
In tre mesi vennero trucidate circa 800mila persone. Poi, i tutsi del Fpr ripresero il potere per non lasciarlo più. Oggi, il presidente Paul Kagame appare come una figura sfuggente dietro i grandi occhiali che coprono il suo viso magro: è il padre del nuovo Rwanda, un paese moderno, che cerca di seppellire il ricordo con uno sviluppo economico e sociale da far invidia ai paesi vicini. Kigali è una città cantiere, il fermento si vede già sorvolandola dall'alto. E poi, record dei record, la maggioranza dei parlamentari è donna.
«Sono le donne la vera guida del paese» - ci spiega Benedetta Lauricella di "Progetto Rwanda", onlus italiana impegnata nel pese dal 1997 (www.progettorwanda.it). «All'indomani del genocidio, che aveva colpito soprattutto ragazzi e uomini adulti, le donne rimaste sole presero per mano il paese e allevarono 500mila orfani». Potere alle donne e sviluppo economico, dunque, e anche un fermo no alla deriva etnica: Kagame ha infatti vietato le mortifere etichette hutu e tutsi. Ma la riconciliazione è lontana. I "gacaca", tribunali del popolo, hanno contribuito a fare un po' di luce, ma nessun colpevole ha davvero chiesto perdono. Nessuna commissione per la verità e la riconciliazione, sul modello del Sudafrica, ha affrontato davvero il trauma: le ombre del genocidio si allungano ancora sul futuro del Rwanda.

il Riformista 7.4.09
«L'odio etnico è ancora vivo e le violenze continuano»
di P.D.S.


Yolande Mukagasana. La denuncia al "Riformista" della donna simbolo della memoria rwandese. «Profanano le nostre sepolture. Uccidono i testimoni. E i governi europei accolgono gli assassini».

«L'ideologia del genocidio è ancora viva. È di questi giorni la notizia che le ossa dei morti gettati nel fiume Nyabarongo e trascinati in Uganda, dove avevano ricevuto sepoltura, sono state profanate». Ci parla senza mezzi termini Yolande Mukagasana, l'infermiera rifugiata politica in Belgio. È la donna simbolo del genocidio ruandese, la sua vicenda ha colpito i tanti spettatori della pièce Ruanda 94 e i lettori del suo libro La morte non mi ha voluta. Nata a Butare da una famiglia tutsi, subì già nel 1959, quando aveva solo cinque anni, le prime ferite della violenza hutu durante il primo grande massacro nella storia del suo paese. Nel 1972 ottenne il diploma, ma solo 16 anni dopo le autorità hutu le riconobbero il titolo di infermiera anestesista. Fu allora che scoprì la divisone etnica che lacerava il paese. Nel 1992, nonostante la difficoltà di vivere e lavorare in una società che guardava i tutsi con ostilità crescente, aprì un ambulatorio privato. Un'iniziativa coraggiosa per l'epoca, che infatti la espose a critiche e minacce. Poi, quando scoppiò il genocidio del 1994, l'ostilità nei suoi confronti degenerò. Perse marito e figli, che vide morire trucidati davanti a lei. Ma lei fu risparmiata, la morte non l'ha voluta.
Una donna hutu, Jacqueline Mukansonera, la tenne nascosta nella sua casa mettendo a repentaglio la sua stessa vita. Yolande oggi ricambia, con la paura e la morte negli occhi anche a distanza di 15 anni, lavorando affinché la memoria non si perda, e soprattutto perché la riconciliazione abbia la meglio sul desiderio di vendetta. Yolande ci parla da Roma, dov'è arrivata per partecipare alla manifestazione che stasera ricorderà il più terribile sterminio della storia recente (parlerà alle 21, al teatro Piccolo Eliseo). «La violenza non è affatto finita - ci dice ancora - ogni anno, e con frequenza ancora maggiore in prossimità dell'anniversario dell'inizio del genocidio, il 7 aprile, i colpevoli cercano ed eliminano i testimoni delle loro atrocità. Solo in questi giorni sono state uccise 16 persone, una ragazza è stata accoltellata a Bruxelles. Anch'io, nella mia casa in Belgio, continuo a vivere nella paura». La comunità internazionale non ci pensa più e Yolande accusa: «I governi europei sono di fatto negazionisti, continuano ad accogliere gli assassini sul loro territorio».
Cosa ne pensa, le chiediamo, dei tribunali del popolo, i gacaca, favoriti dallo stesso governo? «La giustizia ha cominciato ad agire su tre livelli differenti - risponde - Il Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda è il livello più elevato, quello che si è occupato solo degli imputati eccellenti, e non ha mai previsto un risarcimento per le vittime. Poi c'è la giustizia ordinaria del Rwanda, un sistema che ha già cent'anni di storia, e che in nessun modo poteva affrontare decine di migliaia di processi». Si calcolò, infatti, che ci sarebbe voluto un secolo. «I gacaca quindi, istituzioni tradizionali che prevedono che vittime, testimoni e colpevoli si riuniscano sul luogo del delitto, hanno consentito di far emergere un po' di verità».
Qualche forma di ricompensa effettivamente c'è stata, continua Yolande, il ruolo dei gacaca che si sono occupati dei «genocidari comuni», è stato utile. Ma certo non è sufficiente perché le ferite si rimarginino e cessi la paura.
P.D.S.

il Riformista 7.4.09
Se la sinistra vuole ripartire dalla giustizia, si rilegga Rawls
di Mario Ricciardi


RACCOLTA. Tradotte da Feltrinelli le "Lezioni di storia della filosofia politica" del professore di Harvard. Dopo l'intervento di Scalfari su "Repubblica" di domenica, il Pd dovrebbe iniziare a riflettere sulle opere del guru politico del Novecento. La sua "Teoria della giustizia" nel '71 fu rivoluzionaria. E anche oggi i suoi inediti sono cardini di democrazia e liberalismo.

Nelle sue "riflessioni" su Repubblica di domenica scorsa Eugenio Scalfari si è soffermato sul problema della giustizia. Per Scalfari, il fatto che si torni a ragionare sull'idea di giustizia è una delle novità importanti del dibattito sulla crisi economica in corso. Un giudizio condivisibile, su cui il Partito Democratico dovrebbe meditare, e che tuttavia è destinato a cadere nel vuoto se non è accompagnato da una seria riflessione - che nella sinistra del nostro paese è mancata quasi del tutto - sull'autore della più articolata teoria della giustizia del Novecento e uno dei pensatori politici più influenti della seconda metà del ventesimo secolo, ossia John Rawls.
Sin dalla pubblicazione del suo primo libro sulla teoria della giustizia, che ha visto la luce - dopo una lunga gestazione - nel 1971, questo riservato professore di Harvard si è progressivamente affermato come l'autore di riferimento della discussione accademica sui grandi temi dell'etica pubblica. Al punto che c'è chi ha osservato che, dopo A Theory of Justice, c'è stata una vera e propria "rinascita" della filosofia politica, che è tornata ad avere il ruolo centrale che le apparteneva nella tradizione occidentale sin dai tempi di Platone.
In effetti, oggi è difficile discutere di libertà e eguaglianza, democrazia e costituzione, senza usare il lessico di Rawls. Anche se soltanto per criticarlo, il suo nome appare in decine di migliaia di pubblicazioni accademiche e le sue idee hanno avuto un'influenza straordinaria ben oltre i confini della filosofia. Del resto l'oggetto del libro del 1971 era niente meno che una teoria della giustizia per le istituzioni che appartengono alla «struttura di base della società». Tale teoria, che Rawls caratterizzava attraverso la formula «justice as fairness» per distinguerla da altre concezioni della giustizia, si articolava attraverso due principi che sono una ragionevole interpretazione delle due idee principali della tradizione liberale: la libertà e l'eguaglianza.
Nonostante lo straordinario successo di A Theory of Justice, Rawls ha continuato a rivederne i contenuti e a riflettere sulle premesse e sulle conseguenze degli argomenti che essa conteneva. A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, questo paziente lavoro di revisione, approfondimento e ampliamento della sua teoria della giustizia ha trovato espressione in diversi saggi e in alcuni volumi. Tra questi, bisogna ricordare almeno Political Liberalism (1993), The Law of Peoples (1999), Justice as Fairness e A Restatement (2001). Quest'ultimo sembrava destinato a rimanere l'ultima parola di Rawls sulla filosofia politica perché, pochi mesi dopo la sua pubblicazione, l'autore si spegneva dopo una lunga malattia. Invece, anche lo scrittoio di John Rawls, come quelli di altri filosofi contemporanei, custodiva diversi materiali potenzialmente pubblicabili.
La pubblicazione degli inediti di un autore influente - si pensi a Wittgenstein o a Heidegger - è divenuta ormai una prassi cui è difficile resistere per eredi e curatori del lascito letterario. Solo in questo modo, sostiene chi è a favore di questa tendenza, è possibile rispondere alle richieste pressanti della comunità accademica che desidera avere a disposizione tutto ciò che può aiutare a comprendere meglio le opere dell'autore in questione o a illuminarne la genesi. Dall'altro lato c'è chi pensa che in molti casi sarebbe meglio lasciare gli inediti nello scrittoio perché non aggiungono nulla di significativo e, talvolta, finiscono per mettere in circolazione testi di qualità diseguale che possono perfino danneggiare la reputazione di chi li ha scritti.
Per fortuna, nel caso di Rawls, la pubblicazione degli inediti sta avvenendo con parsimonia, seguendo rigorosamente le indicazioni del filosofo, che in alcuni casi ha specificamente predisposto il testo di scritti che non erano in origine destinati alla diffusione o approvato il lavoro fatto dai curatori. Ciò è avvenuto per le Lectures on the History of Moral Philosophy (2000), di cui Rawls ha fatto in tempo a vedere la pubblicazione, e di recente per le Lectures on the History of Political Philosophy (2007). In entrambi i casi si tratta della collazione e revisione di versioni dei testi delle lezioni tenute a Harvard a partire dalla metà degli anni Sessanta.
Le seconde, in particolare, sono essenziali per comprendere la filosofia politica di John Rawls perché consentono di ricostruire lo sfondo teoretico da cui emerge la teoria della giustizia del filosofo. Si tratta di una sorta di "panorama intellettuale" ragionato che include i classici del contrattualismo (Hobbes, Locke e Rousseau) e uno dei suoi critici più severi (Hume). Inoltre, Rawls discute le idee politiche di Mill, Marx e Sidgwick, ampliando lo sguardo oltre le teorie del Contratto sociale fino a delineare una sorta di genealogia concettuale del liberalismo e del suo principale antagonista per oltre un secolo di storia europea e occidentale, il socialismo.
L'interesse di queste lezioni per gli studiosi non è solo di carattere storico. L'introduzione al volume contiene infatti la presentazione più articolata fino a oggi disponibile delle idee di Rawls su oggetto e metodo della filosofia politica e alcuni commenti illuminanti sulla natura della sua teoria della giustizia. Come tutti i testi di Rawls, anche questo è stato finalmente tradotto in italiano. Anche le Lezioni di storia della filosofia politica (pp. 514, euro 36) - come buona parte dei lavori del filosofo - sono uscite per i tipi di Feltrinelli, arricchite da una prefazione di Salvatore Veca (con Sebastiano Maffettone, il principale interprete di Rawls nel nostro paese) che rintraccia le linee di fondo dell'evoluzione del pensiero di un grande interprete della tradizione democratica e liberale.

Il Messaggero 7.4.09
Luigi Cavalli Sforza, genetista di fama, parla della monumentale opera della Utet che ha diretto
Dedicata all’evoluzione “intellettuale” del Paese
di Oliviero La Stella


L’OTTANTASETTENNE professor Luigi Cavalli Sforza ha l’aspetto vigoroso e aristocratico dei viaggiatori di un tempo. Genetista di fama, già professore emerito alla Stanford University, è uno degli scienziati che il mondo ci ammira. Ci parla di un’opera che è un po’ come il punto di arrivo di un lungo viaggio. Si tratta de La cultura Italiana, pubblicata dalla Utet. La prima grande opera dedicata all’evoluzione culturale del nostro Paese. Caratterizzata da un approccio multidisciplinare, si articola in 12 volumi, dei quali è recentemente uscito il primo; vi hanno lavorato duecento autori specialisti delle varie materie e la direzione scientifica è stata curata da Cavalli Sforza.
Che cosa spinge un genetista a occuparsi di cultura?
«Ho sempre avuto un grande interesse per l’evoluzione umana, per le differenze tra gli uomini che popolano la nostra Terra. Per capirne di più bisognava però occuparsi di altre scienze. Per prima ho affrontato la demografia, cominciando dallo studio dei libri parrocchiali e di documenti del genere. Ma ciò mi forniva un’idea degli ultimi 500 anni. Per poter andare ancora indietro nel tempo sono passato all’archeologia, e da qui allo studio dell’evoluzione delle lingue. Quindi all’antropologia. Sono stato due anni tra i pigmei dell’Africa centrale, che sono tra gli ultimi cacciatori-raccoglitori, quando noi tutti ormai da millenni il cibo lo produciamo (la prima grande invenzione dell’uomo). E inoltre mi sono interessato di economia e di sociologia...».
A quale conclusione è giunto al termine di questa lunga e vasta esperienza?
«Che l’evoluzione dell’uomo non è più tanto genetica quanto culturale. Le mutazioni sono rare. Tanto per citare un esempio: oggi grazie ai mezzi tecnici di cui disponiamo è molto più facile adattarsi ai climi caldi o freddi. Anche le invenzioni sono rare, cioè le soluzioni che l’uomo trova a un problema o a un bisogno particolare della vita, ma si possono insegnare e apprendere facilmente. E l’invenzione si diffonde con il linguaggio, mentre invece ciò che determina la novità vera nell’evoluzione biologica è la mutazione del Dna: la mutazione genetica che si trasmette dai padri ai figli e ai figli dei figli. Un processo per il quale ci vuole tempo, mentre quello culturale è più rapido grazie appunto al linguaggio».
Veniamo alla ponderosa opera della Utet, che comincia con un primo volume in cui si racconta la storia del popolamento dell’Italia. Qual è il senso di questa iniziativa?
«Capire attraverso quali processi si è formata la società italiana così com’è oggi. E può servire non soltanto a trovare delle spiegazioni, ma anche a stimolare curiosità intellettuali e, chi sa?, a fornire qualche indicazione utile per il futuro del nostro Paese».
Quali sono le vicende, nella nostra storia, che più positivamente hanno contribuito alla formazione dell’identità italiana attuale?
«Credo che la storia di Roma conti ancora non poco. E ancor più conta il Rinascimento, che resta il momento più alto della nostra espressione artistica».
Nella sua prefazione cita alcuni nostri difetti sociali, come il campanilismo e il familismo, quello che alcuni sociologi descrissero come “il familismo amorale” degli italiani. Quali altri vi aggiungerebbe?
«Siamo ancora litigiosi e provinciali come al tempo dei comuni, anche se pure quella era una gran bella epoca. Forse abbiamo bisogno di maggiore fiducia in noi stessi, e della capacità di fare autocritica intelligente e costruttiva».
Dopo venticinque anni a Stanford ha scelto di tornare in patria. Cosa apprezza dell’Italia di oggi?
«La cosa che mi piace di più oggi sono i festival della scienza. E apprezzo molto che nella ricerca scientifica ci sia ancora qualcuno che lotta contro ogni difficoltà, dalla mancanza di comprensione da parte del governo alla miseria del mecenatismo. Bisognerebbe cancellare completamente dalle tasse tutto il denaro dato alla scienza, come avviene negli Stati Uniti, non la metà come adesso. Si tratterebbe di una perdita fiscale modesta per lo Stato: non saranno mai grandi cifre, ma potrebbero fare una bella differenza. Oggi le donazioni sono fatte più che altro per comprarsi un posticino in paradiso».
E la potente influenza che la televisione ha sugli italiani?
«È assai negativa. Non soltanto la nostra televisione è di una povertà intellettuale impressionante, ma la tv in se stessa abitua la gente a una visione passiva che non è educativa».

Il Messaggero 7.4.09
Dalla mutazione al mutamento
di Walter Pedullà


NON ho avuto modo di leggere l’opera, ma stavolta fa un maggiore effetto l’uomo, questo magnifico ottantasettenne professore italiano che per una vita ha insegnato in un’università americana. Onoriamo in Luigi Cavalli Sforza l’altissimo scienziato che ci racconta la leggendaria e reale storia degli italiani che tanto hanno fatto per la cultura umana da prima dei romani ai giorni nostri. E onoriamo insieme al grande genetista anche coloro che l’amata patria ama mandare all’estero perché lì continuino la ricerca per la quale da noi non si trovano i finanziamenti. Quanto s’è fatto lontano il Rinascimento!
Impressiona in Luigi Cavalli Sforza la figura dello studioso che impara tutte le più disparate discipline per provare a capire chi eravamo e chi siamo diventati, da dove veniamo, cosa possiamo fare per mutare e persino per progredire: sia nel tempo lungo delle ere geologiche sia in quello brevissimo dell’attualità, cioè dall’invenzione del cibo ai festival della scienza. Sotto i suoi occhi passa come presente il tempo lentissimo del dna e quello rapido della cultura che muta grazie al linguaggio. Sommando e mescolando l’antropologia, l’archeologia, l’economia, la sociologia, nonché l’arte, questo “cervello non più in fuga” narra la multiforme evoluzione dell’uomo. Non c’è mutamento senza quella cultura paziente, oscura, appartata, specialistica sulla quale si basa la qualità della cultura di cui quotidianamente ci cibiamo. E il governo non risparmi sulle discipline universitarie che hanno pochi studenti d‘ingegno: non si neghi loro un avvenire italiano: insomma non li si mandi ad arricchire l’America di sapere e di brevetti.
Cavalli Sforza non dà consigli generici improntati al verboso ottimismo dei ministri, ma mette sul piatto un’intera concretissima esistenza spesa per imparare sia cosa è l’uomo quando è un pigmeo dell’Africa Centrale sia cosa è l’uomo che crea impensabili mezzi tecnici per adattarsi ai climi caldi e freddi. Vede troppo nero nella tv? Le chiede di non avere la visione passiva, le consiglia di fare ed essere cultura. Più programmi educativi? Non solo: meglio ancora un linguaggio che coltivi nella gente la «capacità di fare autocritica intelligente e costruttiva». Cavalli Sforza, che frequenta le mutazioni, giustamente punta sul mutamento. E anche in questo è un buon esempio. Anzi diciamolo pure: è un modello.