giovedì 9 aprile 2009

l’Unità 9.4.09
«Non vanno eluse le domande dei bimbi»
Trauma da sisma come da bombardamento
«Ci vuole tempo, non bisogna far finta di niente»
Intervista a Luigi Cancrini di Federica Fantozzi


Professor Luigi Cancrini, cosa sta succedendo con i bambini coinvolti nel terremoto?
«Un numero importante di piccoli traumatizzati ma non feriti è seguito dai servizi territoriali tra Pescara e Teramo. I casi sentiti più gravi sono stati trasportati a Roma in elicottero e appoggiati al Gemelli e al Bambin Gesù, dotati di rianimazione pediatrica».
Come ci si relaziona con loro? Come reagiscono?
«Esiste un modello di intervento terapeutico moderno: quello realizzato dal gruppo di Anna Freud a Londra sotto le bombe tedesche. Gli orfani furono ospitati a casa, ricevendo cure e sostegno. Il lavoro per riconnetterli alle famiglie dopo aver costruito relazioni terapeutiche con loro in questo “asilo” resta un sistema di organizzazione del lavoro valido. Un sisma è il contesto più simile a un bombardamento».
Cosa si impara?
«Quanto ogni bambino sia diverso dall’altro e la strategia di ascolto debba tenerne conto. Qui a Roma sono arrivati due bimbi molto piccoli, 2 e 5 anni, salvati dalle macerie in braccio ai genitori morti proteggendoli. Sembrano non essersi resi conto dell’accaduto, l’hanno vissuto come un’avventura. I familiari avranno bisogno di sostegno per aiutarli nel tempo a capire».
Altri modi di reagire?
«Bimbi più grandi sono rimasti come paralizzati, muti di fronte all’immensità inaccettabile di quanto hanno visto. Occorre assicurare una presenza discreta ma costante in attesa che vengano fuori lacrime e domande».
Qual è l’età più critica?
«9-10 anni. A 13-15 la rete amicale rende le cose più facili».
Quali gli errori da evitare?
«Eludere le domande. Bisogna rispondere a tutte. A un piccolo dire. tua mamma è molto lontana, spero che torni. A uno di 10 anni: tua mamma non c’è più, ti guarda dal cielo. Franchezza e chiarezza li aiutano più del tentativo di proteggerli dalla conoscenza della realtà. Del resto, finché non sono pronti i bambini non chiedono».
È possibile prevedere i tempi di guarigione?
«All’inizio no. Bisogna aspettare i loro tempi. La terapia è soprattutto ascolto, sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda. E tocca tocca agli adulti di riferimento. Chiaro che in presenza di un parente affettuoso, il compito principale del terapeuta è fargli passare del tempo insieme».
La tendopoli sarà un altro trauma?
«Minore. La grande lezione di Benigni, su cui bisogna sensibilizzare gli adulti, è farla diventare un grande gioco. I bambini sono adattabili, l’importante è la serenità di mamme e papà».
Il futuro è la new town lanciata da Berlusconi?
«Io sono abruzzese di provenienza, conosco la mia gente. Il senso di appartenenza e amore per i luoghi in cui si è cresciuti è importantissimo e va rispettato finché possibile».
Come ricostruire, allora?
«Utilizzando l’impianto familistico che è il cardine di quella organizzazione sociale. Appoggiarsi a casa dei parenti è normale: gente con cultura montanara e contadina cerca e offre aiuto con facilità».

Repubblica 9.4.09
L’urbanista: la città va restaurata fedelmente e con criteri antisismici. Il terremoto non può essere occasione per distruggere il territorio
Per carità, non facciamo una New L’Aquila
Bisogna utilizzare l’artigianato e non i prefabbricati. Le scosse hanno buttato giù il moderno ospedale
di Pier Luigi Cervellati


Tremendo sarebbe costruire una New L´Aquila. Si distruggerebbe per sempre la sua memoria e l´eventuale ripristino dei suoi monumenti sarebbe del tutto inutile. Privati del loro ambiente diventerebbero vuoti simulacri in mezzo alle rovine. L´Aquila, al pari degli altri centri terremotati, deve essere ricostruita fedelmente, con criteri giusti, antisismici. Cercando di mantenere il più possibile le murature esistenti, rafforzandole con trefoli in ferro o altri sistemi tecnici non invasivi. Si utilizzi l´artigianato e non le imprese di prefabbricati cementizi. Non si dimentichi che è inagibile il nuovo ospedale inaugurato pochi anni fa e sono crollati lo studentato e altri edifici moderni, con struttura in cemento armato.
Le new towns non sono un modello di ricostruzione. Si faccia il confronto fra "nuova" Coventry e la piazza di Varsavia ricostruita con l´orgoglio di riconquistare la memoria del passato. La prima è diventata omologa ad altri moderni aggregati urbani, mentre la seconda è ritornata ad esser una piazza di città. In Italia c´è la nuova e, si fa per dire, modernissima Gibellina in Sicilia e Gemona e Venzone in Friuli, tutte distrutte dai terremoti. In Friuli la ricostruzione fedele è un modello. Ha gratificato gli abitanti e ha mitigato il dolore delle perdite perché ha ristabilito l´identità dei luoghi e ha rilanciato le attività economiche. L´artigiano ha dimostrato di rappresentare una risorsa troppo presto abbandonata in nome di un´industria che non ha saputo reggere l´urto della globalizzazione.
A Gibellina il concorso di grandi artisti, di insigni maestri dell´architettura moderna ha provocato lacerazioni, violente polemiche e un risultato tutt´altro che condiviso. La vecchia città, lontana 20 chilometri dalla nuova - pur abbandonata a se stessa - per quanto insieme di ruderi fra sterpaglie, è meno desolante della nuova. Forse per il Friuli l´esempio di Longarone ha insegnato che il nuovo non restituisce l´identità perduta.
Il terremoto non deve esser l´occasione per distruggere altro territorio non urbanizzato. Aggiungendo danno alla catastrofe. Al contrario, può offrire la possibilità di ripensare l´assetto urbano e territoriale che a L´Aquila, come altrove, è caratterizzato dal consumo progressivo dell´ambiente circostante. Non c´è bisogno di una nuova città. La documentazione esistente, la sapienza del lavoro artigianale, le stesse tecniche tradizionali adeguate per impedire il rischio sismico, offrono tutte le garanzie per ripristinare, pietra su pietra, strada per strada, luogo pubblico per luogo pubblico, il fascino di una città storica che nello scenario del Gran Sasso è – e potrà tornare a essere - una fra le più suggestive del nostro straordinario Paese.
Non è il tempo per realizzare new towns. Dopo il fascismo, ahimè, non siamo più riusciti a farle. Abbiamo abbandonato o stravolto quelle vecchie nei centri storici e abbiamo consumato territorio costruendo solo periferie. Migliaia e migliaia di ettari di periferia. Il furore costruttivo può essere più dannoso di quello distruttivo del terremoto. Dal primo Paese che eravamo per presenza turistica siamo oggi al quinto. Cerchiamo di non scendere ancora. E si ricordi: senza memoria non si costruisce il presente e tanto meno il futuro. Ripristiniamo i centri storici aquilani, magari con l´aiuto di tutti, per dimostrare a tutti che il nostro Paese ha ancora un avvenire, in quanto capace di mantenere il suo patrimonio storico e artistico, conservando o ripristinando i suoi insediamenti storici, senza alterare ulteriormente un territorio/paesaggio/ambiente, unico al mondo.

l’Unità 9.4.09
La new town? Non ci interessa
In due anni la città può rinascere
intervista a Marcello Vittorini di Toni Jop


Ricostruire, costruire ex novo, dove, come. Adesso è presto per decidere, ma fra poco sarà tardi. Chiediamo lumi a Marcello Vittorini, urbanista di fama, un pezzo di cuore all’Aquila.
Con che piede bisognerebbe partire?
Prego, non con l’idea della new town, proprio non mi interessa. Bisogna ricostruire dov’era e com’era...
Bene, con quale procedura?
Si fa un attento esame degli edifici riparabili e si interviene prioritariamente su questi. Conviene renderli abitabili prima possibile, gli abitanti vanno restituiti ai loro ambienti con tempestività, sono loro che riportano la vita...
E poi?
Non poi, ma durante. Si opera come un dentista alla ricostruzione di una dentatura devastata. Una volta fissati i punti certi, gli edifici riparabili, si passa a intervenire sui vuoti ridisegnando piazze - decisive all’Aquila - e strade...
Quanto tempo sarebbe necessario per «iniettare» i primi abitanti?
Io credo che in un paio d’anni il tessuto urbano potrebbe iniziare a riprende vita...
E i materiali?
Conviene usare i materiali originari, ma posti in sicurezza, questa volta..
Niente forati?
Per carità. Sarebbe il caso di dare corpo, in Italia, ad una nuova cultura, fondata sulla manutenzione, bisognerebbe trasformare l’Italia in un immenso cantiere di manutenzione costante.

il Riformista 9.4.09
Antonio Pennacchi: «Il premier promette, sbandiera, fa vedere fotografie aeree. Ma non sa di che parla. Servono spazi vivi, non laghetti».
«Si crede Mussolini, ma allora sì che si sapevano fondare città nuove»
di Alessandro Calvi


Il presidente operaio ci ha preso gusto. E, da operaio, si è promosso a presidente fondatore. D'altra parte, il vecchio amore - il mattone - non si può dimenticare. Ed ecco servite le new town. Era dai tempi di Mussolini che un capo di governo non annunciava un programma di costruzione di città nuove, da zero. Torna a farlo ora Silvio Berlusconi. «Ma per cortesia, non bestemmiamo. Mussolini era una cosa seria», si inalbera Antonio Pennacchi. E, citando Marx, spiega: «quando la storia si ripete, si ripete come farsa».
«L'idea di fare una L'Aquila 2 mi sembra una grande fesseria», sostiene Pennacchi. E tanto dovrebbe bastare perché davvero Pennacchi è un'autorità in materia. Nella sua vita da fasciocomunista - come recita il titolo di uno dei suoi libri - ha attraversato la storia di questo paese. E il suo Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce - edito da Laterza - è un libro imprescindibile, uno di quelli - come anche Roma moderna di Italo Insolera - che, con la scusa di raccontare città, finiscono per raccontare tante storie e, in fondo, una soltanto: quella di come questo paese è diventato ciò che è oggi. Dalla lettura di quelle pagine, ciò che emerge è che le città - nuove o vecchie che siano - sono soprattutto una cosa: il popolo e le relazioni delle quali una città vive. E non si fa pregare per ripeterlo, non prima, però, di aver fatto una premessa.
«Costruire una città nuova significa costruire una città dove non c'era nulla. Durante il fascismo questo lavoro viene fatto perché, soprattutto nel centro-sud, avviene la riconquista delle grandi pianure abbandonate». Oggi, però, è diverso e «si dovrebbe scindere l'emergenza terremoto dal piano casa». Inoltre, Berlusconi parlando dell'Aquila «ne ha parlato come di una sostituzione, non come una espansione». Ieri, però, ha parlato di «case in più». «Ecco, se stanno parlando soltanto di realizzare un quartiere nuovo, non ci facciano perdere tempo». Se invece si tratta davvero di città nuove, il discorso può proseguire.
«Questo - dice riferendosi a Berlusconi - promette, sbandiera, fa vedere fotografiee aeree. E parla di new town senza neppure sapere cosa siano. Lui conosce Milano 2 - dice - ma quella è tutta un'altra cosa». «Me ne frego del laghetto e del verde se mancano le relazioni umane», prosegue. E spiega: «La qualità di un insediamento urbano non si misura solo dalla quantità di verde ma soprattutto dalla capacità che ha il manufatto di costruire relazione tra le persone».
Altro che città di fondazione, dunque. Altro che «largo respiro di petto romano» con il quale il Duce dava forma alle città di là da venire e, intanto, assestava colpi di piccone al centro di Roma, demoliva interi quartieri traslocando nelle nuove borgate i residenti, sbancava colline per mettere in mostra i gioielli di un presunto Impero e dava un volto nuovo alla capitale. Anche le "case rapidissime" di allora - quelle destinate agli sfollati provocati da quegli sventramenti - «erano meglio dei progetti di oggi», dice Pennacchi.
«Nulla a che vedere con i ghetti che ci sono negli altri Paesi», garantiva ieri Silvio Berlusconi. Già, però, osserva Pennacchi, «se le cose non si fanno per bene, poi, il rischio è quello di dare vita a dei mostri». E avverte che «città ghetto non sono soltanto quelle dei poveri ma anche quelle dei ricchi» perché, insiste, «la città non è soltanto palazzi e strade ma soprattutto le persone che ci stanno dentro e la stratificazione delle persone, le generazioni che si sono alternate». Dunque, il modo migliore per realizzare città è evitare la separazione delle funzioni. L'esempio è il quartiere Prati, a Roma, «con i palazzi e subito i negozi, il falegname, il bar, la piazza dove ti incontri con la gente. Non i residence in cui ti chiudi nel tuo box e per fare qualsiasi cosa devi prendere l'automobile». Per questo, dunque, sarebbe meglio «ricostruire la città dove era, dove è sempre stata». «Altrimenti - avverte - si fa Gibellina che è un posto invivibile». Oppure, «Salle, sempre in Abruzzo, costruita nel 1931 dopo che fu distrutta da un terremoto. Oggi i ragazzi si stanno organizzando per tornare a Salle vecchia».
Insomma, altro che "Capoccione". «Mussolini - conclude Pennacchi - ci portò alla guerra ma era di un'altra statura, era animato dalla convinzione di poter essere auctor dello Stato. Quello - e il riferimento è ancora a Berlusconi - sta lì soltanto perché noi della sinistra ci siamo suicidati».

l’Unità 9.4.09
Immigrati, governo battuto
L’ira leghista: traditori nel Pdl
di Andrea Carugati


Alla Camera passa un emendamento Pd sui Centri di esplusione: lo votano anche 17 del Pdl
Ritirate le ronde Maroni furibondo: «È un indulto per i clandestini, Berlusconi rimedi»

Governo battuto sui Centri di espulsione per immigrati. Ritirate le ronde. Lega furibonda, il Pd festeggia. Oggi vertice Bossi-Berlusconi. I dipietristi si spaccano. Scintille tra La Russa e il leghista Cota.

Ormai tra Lega e Pdl volano gli stracci. E la guerriglia a bassa tensione degli ultimi mesi rischia di diventare scontro aperto. Ieri, a due mesi esatti dalle europee, la competition tra i partiti di Berlusconi e Bossi ha assunto toni pesanti, e sono volate parole grosse.
IL GOVERNO BATTUTO
Di primo mattino Maroni fa retromarcia sulle ronde e decide di toglierle dal decreto antistupri all’esame della Camera. Il motivo? Altrimenti l’ostruzionismo delle opposizioni avrebbe impedito l’approvazione entro il 25 aprile, data di scadenza del decreto. I leghisti masticano amaro, il ministro si arrampica sugli specchi e dice «sulle ronde abbiamo fatto un passo laterale, non un passo indietro». Ma lo schiaffo più pesante arriva all’ora di pranzo, quando la Camera approva un emendamento di Pd e Udc che sopprimeva l’allungamento a 180 giorni (dai 60 attuali) della permanenze dei clandestini nei Centri di espulsione: 232 voti a favore, tra cui anche 17 franchi tiratori del Pdl. Mentre l’Idv si spacca: 12 votano con il Pd, 10 si astengono per sottolineare la richiesta di rigore contro i clandestini. Il capogruppo Donadi canta vittoria, ma dal Pd gli rispondono: «Come si fa a astenersi sui Cie? Siete populisti e giustizialisti».
Lo scontro più duro è a destra. «Tradimento», è la parola d’ordine tra i leghisti. «Quello lì ha messo la fiducia su tutti i decreti che ha voluto e poi su questo ha preferito evitare», tuona un deputato del Carroccio furibondo con Berlusconi. «I franchi tiratori sono uomini di Fini», sussurra un altro. Anche sul fronte Pdl non mancano i mugugni: «Un segnale dovevamo pur darlo, non possiamo stare sempre qui a votare spot per la Lega, dal federalismo alle quote latte».
MARONI FURIBONDO
Subito sono partiti i contati tra Bossi e Berlusconi, ed è stato fissato un vertice per oggi. «Diciamo che è un incidente di percorso», ha detto il Senatur, che oggi chiederà al Cavaliere garanzie sul federalismo e sul no all’accorpamento di referendum ed europee. Intanto Pd e Casini festeggiavano: «Una vittoria del gruppo parlamentare, che ottiene così un risultato per la sicurezza degli italiani», ha esulta Franceschini. E Veltroni: ha vinto la ragione». Eliminati i due scogli, tutte le opposizioni hanno annunciato voto favorevole al decreto, visto che erano rimaste solo le norme sugli stupri e contro le molestie insistite (stalking).
Maroni ha convocato una conferenza stampa al Viminale: «Sono furibondo- ha esordito- ora dovremo rimettere in liberà 1038 clandestini: si tratta di un vero e proprio indulto. Chiederò a Berlusconi un impegno personale, al Senato bisogna rimediare, anche lavorando durante le vacanze». In Aula, nel pomeriggio, il Carroccio non partecipa al voto finale e resta gelido quando Cicchitto prova rassicurare: «Faremo di tutto perché la norma sui Cie diventi legge». E così il Pd, numeri alla mano, ha buon gioco a dire: «Senza di noi il decreto non sarebbe passato».
LA RUSSA CONTRO COTA
Ma in Transatlantico la tensione riesplode. Il ministro Ignazio La Russa se la prende con gli «scemi» che hanno votato con l’opposizione. Ma avverte: «Non capisco l’atteggiamento di chi gioca a fare il primo della classe. Anch’io sono incazzatissimo, ma anche nella Lega c’erano degli assenti, ed è pure possibile che abbia votato con l’opposizione qualcuno dei loro». Il capogruppo Cota ascolta e freme: «Nella Lega di scemi non ce ne sono. Qui il problema è che ci sono dei traditori e degli irresponsabili. La norma sui Cie era già stata bocciata in febbraio in Senato, se errare una volta è umano...». Il deputato del Carroccio Giacomo Chiappori è più esplicito: «La Russa dice che ci siamo votati contro? Allora è un cretino». In serata il governo va sotto ancora una volta, su una mozione sulle banche proposta dal Pd. La ciliegina su una giornata positiva. Dice Soro: «Due a zero per noi, e non è solo un incidente. Quando si esce dalla blindatura dei voti di fiducia le difficoltà vengono a galla: nel Pdl non sopportano più che la Lega detti l’agenda. La norma sugli immigrati era venata di razzismo».

il Riformista 9.4.09
Battuto dai franchi tiratori. Il ministro: «Sono furibondo»
Maroni raso al suolo
La prima vera sconfitta della Lega
di Peppino Caldarola


Il decreto sicurezza passa con più voti dell'opposizione che della maggioranza. La Lega diserta il voto e pretende dal premier un chiarimento. Ma è giallo sui franchi tiratori. Esulta invece l'opposizione per il doppio kappaò rimediato dalla maggioranza.

Il decreto, che era diventato la bandiera securitaria e l'oggetto di una polemica con l'opposizione ma anche con gran parte delle organizzazioni cattoliche, è ora diventato più "umano". La sconfitta della Lega e del suo uomo di punta, Roberto Maroni, ministro dell'Interno non poteva essere più bruciante.
Dal primo giorno di vita del Governo Berlusconi la Lega si era annessa due questioni: il federalismo e la campagna sulla sicurezza. Erano i due temi identitari su cui Umberto Bossi voleva segnare la propria presenza nel Governo. E sono stati anche i due temi su cui maggiore è stata la discussione. Mentre sul federalismo fiscale Calderoli, che godeva fama di "duro", ha cercato di ottenere un più largo consenso evitando le posizioni oltranziste, il "moderato" Maroni ha voluto invece forzare la mano sul tema della sicurezza. Soprattutto sul rapporto fra i cittadini e gli immigrati. I continui sbarchi a Lampedusa si sono incaricati di dimostrare quanto la politica del ministro fosse precaria e affidata alla altrettanto precaria volontà della Libia di rispettare gli accordi. Sulle ronde Maroni aveva addirittura ingaggiato una battaglia personale di immagine. Recentemente si era fatto celebrare davanti alla prefettura di Novara da "rondisti" provenienti da tutto il Nord. Questo castello di carta è caduto grazie al voto dell'opposizione e ai voti mancanti nella maggioranza. E, soprattutto, al fatto che Berlusconi non ha voluto mettere la fiducia sul decreto, lasciando Maroni in balia del Parlamento.
La sconfitta della Lega è una novità politica. I malumori nei confronti del partito del Nord erano emersi con grande forza nel congresso costitutivo della Popolo della libertà. Il tradizionale malessere di An si era trasferito su tutta la nuova compagine partitica. Finanche il premier, Silvio Berlusconi, ha dovuto ricordare alla Lega che non sempre si possono ricevere risposte positive alle proprie richieste. Qualcosa sta cambiando nel centrodestra? La parte maggioritaria del centrodestra vive con grande sofferenza i diktat leghisti. Per anni Bossi aveva messo a frutto la propria indispensabilità per definire i rapporti di forza con l'alleato maggiore. In molte circostanza la Lega sembrava tirare il carro stanco di Forza Italia. La crisi evidente del Pd e il rafforzamento attraverso il Pdl hanno fatto assumere al partito di Berlusconi e Fini una più netta vocazione maggioritaria. E la musica è cambiata.
Negli ambienti ex forzisti si è sempre rimproverato al Pd la volontà di dialogo con la Lega. I moderati del PdL sostenevano, e sostengono, che il vero conflitto per la guida del Paese passa attraverso il rapporto con il partito di Bossi. La concorrenza della Lega sul territorio, il suo radicarsi anche nelle regioni del Centro non fa vivere sonni tranquilli ai maggiori esponenti del centrodestra. L'idea di governare il Paese con il perenne ricatto di una forza in grado di trascinare nella contesa l'intero Nord non è sembrata una prospettiva accettabile. Di qui il malessere e il nervosismo. Di qui il tentativo di ridimensionare la Lega.
In questo quadro si inserisce la sconfitta personale del ministro Maroni. Dopo Bossi, fin dalla fondazione e tranne una breve stagione in cui sembrò che stesse per dissociarsi dal capo, il ministro è sempre stato l'uomo di riferimento della Lega. Una leadership ottenuta attraverso un lavoro intelligente di accreditamento verso la base ma anche di fitte relazioni con l'intero mondo politico. Le precedenti esperienze ministeriali di Maroni erano apparse anche ai più critici come ben riuscite e il suo ritorno alla guida dell'Interno sembrava coronare questa nuova ascesa. Maroni aveva investito gran parte del suo talento per costruire l'immagine del ministro moderno che blocca l'immigrazione dando la risposta fondamentale alle domande del suo elettorato spaventato (spaventato anche dalla propaganda della Lega). Gli è andato tutto male. Su questo terreno non ha ottenuto un solo risultato. Si può dire, in verità, nel mio caso, a malincuore, che la sua gestione del ministero dell'Interno, a parte l'emergenza abruzzese, sia la più politicizzata dell'ultimo periodo. Il Parlamento ieri ha voluto schiaffeggiare proprio lui. Ma, diciamo la verità, se l'è andata a cercare.

il Riformista 9.4.09
L'unità nazionale indebolisce la Lega


Inevitabilmente, il clima da unità nazionale che si è creato intorno alla tragedia abruzzese ha penalizzato le estreme, in questo caso la Lega. Berlusconi, impegnato ad affermarsi come salvatore della patria all'Aquila, non aveva nessuna voglia di aprire un conflitto in Parlamento sulle ronde, concedendo il voto di fiducia a Maroni. A voto segreto, poi, i mal di pancia del Pdl, partito davvero a vocazione maggioritaria e che dunque mal sopporta la competizione della Lega, hanno fatto il resto, aprendo una ferita profonda nei rapporti interni alla maggioranza.
La lezione è interessante da due punti di vista. Il primo è che l'opposizione può spesso avere più risultati se evita una contrapposizione frontale e pregiudiziale, che invece tende a compattare la maggioranza. Ancora ieri Franceschini ha avuto il coraggio di dire che i soccorsi stanno funzionando bene in Abruzzo, il che è sostanzialmente vero. E se è credibile sull'Abruzzo, diventa più credibile anche sull'inutilità delle ronde.
La seconda lezione è che il Parlamento può essere tale anche se composto di nominati e anche se retto da una maggioranza bulgara. Purché gli si consenta di discutere e dibattere anche sui decreti legge, e purché discussione e dibattito non siano strozzati dal voto di fiducia e dal voto segreto. La questione della permanenza di sei mesi nei centri degli immigrati riguardava la libertà personale e bene ha fatto la presidenza della Camera a consentire il voto segreto. A Montecitorio non ci si sta solo per schiacciare bottoni, ma anche per capire e pensare. Stavolta l'aula l'ha fatto.

Liberazione 9.4.09
Una buona notizia
di Luigi Manconi


E' probabile che una qualche "quadra", poi, la troveranno. Ma, intanto, quella di oggi è una buona notizia, e, insieme una lezione assai istruttiva. Su un tema cruciale e su misure delicatissime - e oltraggiose per il diritto e per la convivenza sociale - la destra può essere battuta. Sotto questo profilo - così corposamente simbolico e così significativamente materiale - la destra (attenzione: non solo la Lega) sta giocando una partita estremamente importante. E, ahinoi, già parzialmente vinta. Sul piano ideologico, infatti, laddove si formano il senso comune e la mentalità condivisa, il messaggio perseguito (l'immigrazione come questione criminale) ha prodotto guasti enormi e, per certi versi, non più reversibili. Enorme resta, pertanto, il lavoro culturale e politico da fare: un lavoro in grado di superare le impostazioni prevalenti a sinistra. Impostazioni che, lungi dal costituire un argine contro la diffusione dell'intolleranza, hanno finito per assecondarla o, comunque, per restarle subalterne. Mi riferisco a quella opzione solidaristica che, quando si limita ad appellarsi ai buoni sentimenti e all'enfasi sulla "società multietnica e multireligiosa" quasi un surrogato dell'orizzonte socialista, si rivela fallimentare. E' difficile, infatti, evocare la solidarietà quando il peso dell'immigrazione viene inevitabilmente scaricato sulla vita quotidiana - e sulla fatica quotidiana - degli strati più periferici e meno garantiti. È allora che si avverte, più intensamente, la necessità di una politica razionale e intelligente, fondata sull'allargamento del sistema dei diritti di cittadinanza e sul richiamo alle garanzie proprie di un regime democratico. E fondata, ancora, su un "utilitarismo virtuoso", capace di mostrare come l'immigrazione "ci fa bene". A tutti e sotto tutti i profili. E' qui, solo qui, che può realizzarsi una relazione vera, affidata alla condivisione di interessi e di diritti/doveri, tra immigrati e residenti, tra stranieri che già ora contribuiscono alla produzione di ricchezza nazionale e al sistema di welfare, e italiani minacciati dalla crisi economico finanziaria e dalla crescente precarizzazione del mercato del lavoro.
(la conclusione dell’articolo dopo le 20 su www.liberazione.it)

l’Unità 9.4.09
L’araba felice
Un libro sulla sessualità matrimoniale che fa furore negli Emirati Arabi, le prime magistrate. Le donne conquistano terreno anche in alcuni paesi islamici. In Algeria, dove oggi si va alle urne, la politica passa attraverso la proposta di quote rosa e il diritto di trasmettere la cittadinanza ai figli
di Rachele Gonnelli


Il primo centro in Siria per donne vittime di violenza coniugale. Le prime due donne giudici in Cisgiordania per di più specializzate in sharja, cioè in legislazione islamica. Un libro sulla sessualità matrimoniale che fa furore negli Emirati Arabi, uno dei paesi più retrivi sul piano dei diritti delle donne, oltretutto scritto da una assistente familiare donna. E la prima vigilessa, con il grado di colonnello istruttore, sempre negli Emirati Arabi, con il casco integrale al posto del velo. Sarà poco ma le donne conquistano terreno anche nei paesi dove spesso la misoginia è legge, dove non si può guidare o tramandare un bracciale di madre in figlia senza il consenso del marito e a divorziare, più che da noi, si rischia la vita.
Piccoli sorsi di libertà che sono tutti delle ultime settimane e mesi. Non riescono a diventare una marea montante, né ad avere una vasta eco neanche nei paesi dove si verificano. Certo non colmano il lago della condizione femminile in paesi come l’Afghanistan, dove è in discussione una legge che legittima addirittura lo stupro dei mariti. Eppure ci sono e qualcosa vorranno pur dire. Forse che comunque il cammino delle donne per quanto a piccoli passi non può essere arrestato.
Dopo il Marocco, dove nel 2006 è stato varato un nuovo codice di famiglia che stabilisce la parità giuridica tra i due sessi, il paese dove si registrano più segnali in direzione di una maggiore parità tra i generi e un riconoscimento del ruolo pubblico delle donne è l’Algeria. Un paese in bilico che va alle urne il 9 aprile, dove il voto delle donne sarà probabilmente decisivo. Il settantunenne Adbelaziz Bouteflika spera di rimanere al potere puntando su un mix di modernità e tradizione. Ha modificato la Costituzione per ottenere il terzo mandato. Ma ora teme il combinato disposto di un aumento dell’astensionismo e della ripresa della violenza integralista dei gruppi salafiti. Attentati non sono mancati negli ultimi tempi, come quello a fine febbraio che ha sfiorato un cantiere della ditta Astaldi.
La delusione degli algerini verso il progresso da Bouteflika, molto visibile sui blog e su Internet più che sulla stampa locale, potrebbe covare come paglia secca la miccia del fondamentalismo. Bouteflika lo sa. E sta cercando di usare le donne come acqua per spegnere le fiamme. Facendo concessioni ad un movimento che ha avuto un ruolo di primo piano sia durante la guerra di liberazione sia dalla fine della guerra civile degli anni Novanta con la leader Khalida Messaudi, dirigente del Movimento per la Repubblica, di ispirazione laica e democratica.
Un mese fa un decreto presidenziale ha riconosciuto il diritto alle donne algerine a trasmettere la cittadinanza ai loro figli, un diritto mai riconosciuto prima in un paese musulmano. Bouteflika ha poi annunciato la volontà di introdurre «quote rosa» per i ruoli più alti dell’amministrazione pubblica. Provvedimenti «paternalistici e umilianti» a sentire Louisa Hanoune, segretario generale del Partito dei Lavoratori algerino, una donna, sua principale sfidante alla poltrona presidenziale. Lei, che lo ha già fronteggiato nel 2004 e ci ha provato anche nel ’99, ama parlare di crisi economica più che di donne. Ha condotto una campagna elettorale con toni molto accesi, accusando i ministri di usare il denaro pubblico per fare propaganda, di intimidire gli elettori, ha denunciato il restringimento di libertà per gli oppositori. Una «pasionaria». Considera normale che oggi le donne algerine al 63 percento abbiano un diploma superiore e che il 58 percento degli studenti universitari porti la gonna, meno che solo il 17,5 percento del monte salari sia riscosso da lavoratrici. Mancano i servizi, dice, per consentire alle donne di lavorare.
La scolarizzazione femminile si diffonde ovunque ma non necessariamente è accompagnata da diritti civili e politici. In Iran il 70 percento della popolazione universitaria è di sesso femminile. Prima della rivoluzione di Khomeini, non volendo o non potendo per obblighi familiari frequentare le scuole miste dello scià, due terzi delle donne erano illetterate. Paradossalmente il velo e la separatezza le ha aiutate a conquistare uno spazio pubblico, anche se limitato e sotto tutela. Ora le donne iraniane alfabetizzate sono l’80,3 percento, con una crescita del 126 percento nell’ultimo decennio come ha ricordato Tahere Nazari, teologa iraniana inviata dal governo di Teheran ad un incontro in Vaticano sulla famiglia che si è tenuto a Roma a fine febbraio.
Nell’ultimo decennio anche l’occupazione femminile in Iran è crescita del 12 percento e persino il governo integralista di Ahmedinejad riconosce che «a causa dell’economia moderna» la donna non può più rivestire unicamente il suo ruolo tradizionale di moglie e madre. Non essendo stati predisposti dei servizi sociali in grado di facilitare il doppio ruolo, anche qui però ogni lavoratrice madre ha semplicemente diritto a una riduzione di due ore dall’orario di lavoro rispetto al mansionario. Con conseguente riduzione dello stipendio.
In Iran i gioco politico non sta aiutando le donne finora. In previsione delle elezioni presidenziali del prossimo 12 giugno, la repressione degli integralisti al potere si è riversata prima di tutto verso le femministe: una brutale perquisizione negli uffici di Shirin Ebadi, prima donna giudice in Iran e Nobel per la Pace 2003, sostenitrice del riformatore Khatami e poi l’imprigionamento di alcune attiviste della campagna «Mille firme» per la parità giuridica e la fine delle discriminazioni di genere. Eppure secondo Katayoon Shahabi, produttrice di film e serial per la tv di Stato, per ottenere la fine della discriminazione non ci sarà bisogno di nessuna rivoluzione, neanche di velluto. «Semplicemente - ha detto in una recente intervista a un quotidiano britannico - le cose si stanno muovendo come un fiume e i fiumi non si fermano». Una goccia tira l’altra.

l’Unità 9.4.09
«L’Occidente non capisce. Il velo non è per noi solo simbolo di segregazione»
Intervista a Ruba Salih, antropologa di Rachele Gonnelli


La studiosa: «Nell’Islam a periodi di aperture sono seguite a volte
ritrattazioni. Come nell’Iran di Palhevi o nell’Iraq di Saddam dove
c’era sì la scolarizzazione e lavoro, ma si era nella dittatura»

Le chiamano «le femministe di Allah». Loro invece si chiamano «le murshidat», le guide, e usano il velo integrale come una bandiera di libertà. Alcune sono fondamentaliste come Nadia Yassine che in Marocco guida un gruppo semi-illegale al grido di «Allah è femminista». Reinterpretano parti del Corano, in particolare gli hadith ovvero le testimonianze sui detti e la vita del Profeta e delle sue mogli. Considerano la sharja una legge consuetudinaria che, nata in epoca medievale, va storicizzata. «Sono anche loro un aspetto della modernità», sostiene Ruba Salih, antropologa sociale che insegna all’Università di Exeter in Inghilterra e a Bologna e su velo, Islam e modernità ha recentemente scritto il libro «Musulmane Rivelate» edito da Carocci.
Lei che dice, sta migliorando la condizione della donna velata?
«L’interesse per le donne arabe e musulmane nasce in un contesto contaminato, ideologico. Già da prima dell’11 settembre c’era un brutto clima che puntava sull’incommensurabilità delle culture, su un’alterità totale del mondo musulmano, un approccio che è difficile da cancellare. Da allora l’ambito religioso è diventato prevalente, la vera linea di demarcazione, mentre la realtà è fatta di appartenenze multiple. Quando ero piccola a Parma nessuno mi chiedeva se ero musulmana, faceva più discutere il fatto che fossi palestinese».
Vuol dire che è troppo tardi per capirci?
«Intanto bisogna non considerare il velo come simbolo di segregazione. E sapere che nella storia mediorientale ci sono sempre stati periodi di aperture, spesso però seguiti da ritrattazioni: non c’è stato un percorso lineare di progressive acquisizioni. A volte ciò che sembra progresso sono piuttosto delle concessioni, come ultimamente la monarchia wahabita che ha concesso a una donna di ricoprire il ruolo di viceministro in Arabia Saudita. Durante la dinastia Palhevi in Iran i movimenti femminili erano orchestrati per accreditare un modello di donna occidentalizzata, che poi è diventato il modello da abbattere. Nell’Iraq di Saddam c’era stato un certo femminismo di stato con alti livelli di scolarizzazione e accesso alle professioni ma era una dittatura. Hezbollah e Hamas hanno una dinamica interna con un forte protagonismo femminile».
Ma le donne nei paesi musulmani rivendicano diritti?
«Lo hanno sempre fatto. In Egitto dagli anni Venti. In Palestina hanno partecipato in massa al primo grande sciopero sotto il Mandato britannico. In Algeria invece dopo la lotta di liberazione sono state rimandate a casa e ora stanno affrontando una fase nuova».
Le musulmane di oggi, scolarizzate, colte, rivendicano il velo.
«L’islamismo è un movimento che mescola universalismo e fede. Il velo - l’hijab - è un segno distintivo insieme estetico e identitario che accompagna la donna in uno spazio pubblico. Le donne in tutti i diversi contesti hanno sempre trovato una strategia per negoziare le dinamiche più oppressive. A me interessa individuare i meccanismi per cui ad un certo punto ad un processo che avviene dal basso si innesta un processo riformatore dei governi e dei regimi».
Quando scatta la riforma?
«In Marocco è successo con il nuovo codice di famiglia. È stato dopo i gravi attentati di Casablanca e Rabat nel 2000. Le infiltrazioni dei gruppi islamisti radicali hanno scosso il re e gli hanno fatto prendere una decisione attesta da decenni. In ballo c’era la natura dello Stato. La monarchia ha visto un pericolo e ha impresso una svolta ricollocando la sfera religiosa in un suo ambito. Sui diritti delle donne si stabilisce in effetti che tipo di modernità si vuole. È una cartina da tornasole».
Lei dice che l’islamismo guadagna popolarità con l’insicurezza economica. È come dire che le donne non sono le prime ad essere ricacciate a casa in tempi di crisi?
«C’è una traiettoria ambivalente di fronte a fenomeni come gravi crisi, guerre o shock. Alle donne viene spesso chiesto di dare un contributo ma anche di preservare l’autenticità dei valori, garantire che il sistema non sarà scosso. Così è stato in Egitto alla fine degli anni Ottanta quando dovendo uscire di casa per andare al lavoro hanno deciso di indossare il velo per rassicurare gli uomini che ciò non avrebbe minacciato la costruzione culturale della famiglia. Il velo non è allora semplice oppressione ma un simbolo, di modestia e di ordine morale, e come tale viene utilizzato. Poi fortunatamente nel vissuto della gente la realtà è molto più ibrida che nelle dichiarazioni d’identità. La speranza è questa».

l’Unità 9.4.09
Elezioni europee
Perché il Pd non candida Pannella?
di Luigi Manconi


Trovo singolarissimo che nulla sia stato ancora detto e fatto affinché Marco Pannella possa far parte del prossimo Parlamento europeo, come eletto nelle liste del Partito democratico. Che ciò debba avvenire, infatti, mi sembra ragionevolissimo: anzi, pressoché ovvio. E ho grande difficoltà a immaginare ragioni perché, invece, ciò rischi di non accadere. C’è innanzitutto una questione di merito, lampante: la politica europea e internazionale di Pannella e dei Radicali coincide largamente (dopo averla anticipata su molti punti) con quella del Pd. Ed è indubbio che i Radicali, da decenni, svolgono un ruolo decisivo nel tematizzare problemi - e soluzioni per quei problemi - che sono al centro dell’agenda politica sovranazionale: e sui quali, magari tortuosamente, finiscono col convergere le principali culture presenti nel Partito democratico. Non è un caso che, appena pochi giorni fa, Emma Bonino risultava tra i pochissimi politici italiani con Giuliano Amato e Massimo D’Alema, firmatari di un impegnativo documento sull’Europa, pubblicato dal Corriere della Sera. Ma anche sulle questioni controverse (si pensi al recente trattato tra l’Italia e la Libia) il ruolo dei Radicali, quando pure è divergente svolge una funzione preziosa: in questo caso ha evidenziato contraddizioni e rischi (ahi, quanto immanenti) di quell’accordo, in particolare a proposito del pattugliamento congiunto delle coste del Mediterraneo. Ma c’è un’ulteriore ragione, solo in apparenza di metodo, che dovrebbe indurre a favorire l’elezione di Marco Pannella e di altri Radicali nelle liste democratiche. Da una anno, i Radicali hanno costituito una delegazione all’interno dei gruppi democratici di Camera e Senato: il loro comportamento è, a mio avviso, esemplare di un’idea sanamente conflittuale e tenacemente unitaria del rapporto tra culture diverse (già emerso nell’inossidabile realtà mostrata durante il Governo Prodi). La presenza di una posizione radicale (nei molti significati di quel termine) ha rappresentato un’importante occasione di confronto per i gruppi parlamentari democratici: fin troppo palese nella vicenda del Testamento biologico, quando quella posizione è stata capace di una costante vigilanza e di un assiduo richiamo a principi fondamentali. E di una paziente mediazione intorno a opzioni in grado, infine, di farsi maggioranza. Ma ciò è accaduto anche sui temi della sicurezza e delle garanzie in campo processuale e penale. Sarebbe un errore gravissimo se una politica così mobile e, insieme così efficace, tanto intensa nelle idee quanto meritoriamente acribiosa nell’approssimazione agli obiettivi, non trovasse spazio in un’arena cruciale come il Parlamento europeo.

Repubblica 9.4.09
Roma, al via registro dei biotestamenti
Nel decimo Municipio, la prima firma di Mina Welby. No di Alemanno
È un atto notorio sostitutivo che attesta le volontà sul fine vita di chi lo sottoscrive
di Rory Cappelli


ROMA - «Se dovesse capitare a me, se dovessi finire prigioniera del mio stesso corpo, in balia di medici e infermieri che decidono quando e come spostarmi, lavarmi, nutrirmi, credo che impazzirei. Crudeltà non è staccare la spina: è questa la vera crudeltà. Bisogna che ci pensino bene in Parlamento. E sa perché? Perché potrebbe capitare a chiunque. Anche a loro». Paola Della Manna è la seconda persona che ieri ha firmato e lasciato il suo testamento biologico nella sede del Municipio X, a Roma. La prima a firmare è stata Mina Welby. Firma simbolica, la sua: Mina, una signora minuta, con i capelli bianchi e l´aria dolce di chi ha molto sofferto e molto sa, era moglie di quel Piergiorgio Welby che per 40 anni lottò con la distrofia muscolare che alla fine lo costrinse all´immobilità totale, attaccato a una macchina per sopravvivere. Welby condusse una durissima e inascoltata battaglia affinché la possibilità di scegliere come vivere e quando morire in caso di situazioni irreversibili, di scegliere insomma l´eutanasia, diventasse legge.
«Da oggi i romani, a qualunque municipio appartengano - ha detto ieri il presidente del Municipio X, Sandro Medici, - potranno depositare qui da noi il proprio testamento biologico. Lo potranno fare tutti i cittadini perché la procedura è quella dell´atto notorio sostitutivo che ha valore nell´intero perimetro comunale, come per la carta d´identità». Al servizio, attivo per ora tutti i mercoledì dalle 15 alle 17, si potrà accedere su prenotazione. Si dovranno compilare due moduli: il testamento vero e proprio, in cui si delega una persona a far conoscere ai medici la volontà del malato. E una dichiarazione che attesta l´avvenuto deposito, a cui corrisponderà un numero progressivo annotato nel registro. «C´è chi sostiene che l´iniziativa non abbia valore giuridico - spiega Medici - Ma non è così. Siamo in una situazione di vacatio legis: proprio per questo la coordinata principale resta l´articolo 32 della Costituzione. Almeno finché il Parlamento non voterà una legge che vieti i testamenti biologici». L´articolo 32 della Costituzione dice: "Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana": «Abbiamo queste belle direttive - commenta Mina Welby - del tutto inascoltate. Una situazione unica in Europa, dove è il malato che decide e non i medici o i parenti».
Nel pomeriggio poi arriva una nota del sindaco Gianni Alemanno. «Questa iniziativa ha un chiaro sapore di manifesto ideologico», dice. Pronta la replica di Medici: «Il nostro registro non è un manifesto ideologico. Ma un tentativo concreto di accogliere e ascoltare le esigenze dei nostri cittadini».

Corriere della Sera 9.4.09
Berlino. Centinaia di auto date alle fiamme: il gruppo prende di mira le Mercedes, le Porsche, le Bmw e i Suv
Ecoterrorismo Colpiti il più famoso creativo tedesco e il direttore di un istituto di studi economici
Rogo di auto, la rivolta anti ricchi
di Danilo Taino


In alcuni casi si tratta di azioni di eco-terrorismo contro i mezzi che emettono grandi quantità di gas

BERLINO — Nuove tattiche di guerriglia urbana, in Germa­nia. Colpiscono dritto al cuore della società, mirano cioè a una delle proprietà più amate dai te­deschi, le automobili. In piena notte, vengono messe a fuoco, ai bordi delle strade. Soprattut­to se sono potenti, lucide e sim­boli di ricchezza. Lo scorso fine settimana, ne sono state brucia­te otto nella sola Berlino. E in buona parte dei casi si tratta di attacchi (si fa per dire) politici: contro la «società neo-liberale» che occupa pezzi di città ed espelle chi è povero e contro l’inquinamento dei Suv. Firma­to: gruppi legati al Movimento per la resistenza militante, il cui acronimo in tedesco fa ­buontemponi - Bmw.
La polizia è preoccupata sul serio, al punto che nella capita­le ha promesso un premio di diecimila euro per chi darà in­formazioni utili a scoprire le bande che stanno sviluppando questa forma di protesta.
Perché il fenomeno non è nuovissimo: già nel 2007 c’era­no stati numerosi casi di attac­chi con l’accendino. L’anno scorso, però, l’attività era mol­to diminuita. Ora, siamo in pie­no boom: in questi primi mesi dell’anno, 32 attentati a Berli­no. Molti altri a Monaco, Fran­coforte, Amburgo. Statistiche precise non si hanno, ma si sti­ma che gli incendi avvenuti in tempi recenti siano parecchie centinaia. Per averne un’idea, si può andare sul sito web www.brennende-autos.de: ap­pare una mappa di Berlino e, dopo poco, tutti i punti della cit­tà in cui gli attacchi sono avve­nuti, con il modello di vettura bruciata.
Il timore delle autorità è dop­pio. Primo, pensano che la cre­scita del fenomeno sia legata al­la crisi finanziaria, la quale spin­ge alcuni gruppi di autonomi a intensificare le azioni dimostra­tive: una tattica a basso rischio ma efficace per spaventare bor­ghesi e beneficiati dal capitali­smo. Secondo, temono che la tendenza si diffonda anche tra la criminalità comune e tra i giovani non politicizzati, che di­venti cioè uno sport del week-end.
I marchi che attraggono mag­giormente i piromani sono Mer­cedes, Bmw, Audi, Porsche, Smart, oltre ai Suv in genere. Ma non mancano auto di mino­re prestigio e i furgoni delle Po­ste e della Dhl. Il fatto è che il movimento attacca l’oggetto per attaccarne il proprietario an­che se di solito non sa di chi sia la vettura. Qualche volta lo fa per protestare contro la «gentri­fication » di aree della città, cioè per intimorire gli architetti, gli artisti, i pubblicitari e i profes­sionisti che prendono casa in quartieri popolari, li trasforma­no in indirizzi di lusso e provo­cano aumenti dei prezzi insoste­nibili per i vecchi abitanti. Tra le vittime, ad Amburgo, ci sono per esempio stati Holger Jung , uno dei creativi pubblicitari più famosi di Germania, con la sua Bmw X5, e il direttore di un istituto di studio dell’economia mondiale, Thomas Straubhaar (una Mitsubishi). Altre volte, si tratta di una forma minore di eco-terrorismo, cioè di prote­sta violenta contro le auto che emettono grandi quantità di gas a effetto serra.

Corriere della Sera 9.4.09
La pellicola fu bandita e accusata di irridere il mito di Mao. La rivalutazione postuma: «Era un atto d’amore verso il nostro Paese»
Cina, un film riabilita Antonioni il traditore
Due giovani registi rendono omaggio al controverso documentario del ’72 «Chung Kuo»
di Marco Del Corona


Una scena in cui si vedevano dei maiali con sottofondo di musiche patriottiche scatenò l’ira della Banda dei Quattro

PECHINO — Sul quadernetto di Tian Yongchong c’è scritto tutto. Gli italiani rimasero dal 28 al 31 maggio 1972. «Li acco­modammo al piano di sopra». Tian dirigeva l’hotel più vicino al canale «Bandiera Rossa», ospiti erano Michelangelo Anto­nioni e la sua troupe, in Cina a girare quello che sarebbe diven­tato uno dei suoi film più con­troversi, «Chung Kuo» («Impe­ro di mezzo», come i cinesi chia­mano il loro Paese). Sulla pelli­cola s’impresse un Paese ancora nella centrifuga della Rivoluzio­ne Culturale, Mao Zedong ovun­que, sulle strade, nella venera­zione popolare. Quando il film uscì, venne subito marchiato co­me un’opera reazionaria che irri­deva la Cina comunista. Bandi­to «Chung Kuo», bandito il suo autore. Solo nel 2004 una retro­spettiva a Pechino ha permesso al film di essere mostrato a un pubblico cinese. E l’evento non era forse bastato a recuperare del tutto il tempo perduto.
Liu Haiping, giovane regista, e sua moglie Hou Yujing, italia­nista, nel ‘72 erano infanti. Han­no coltivato il culto di Antonio­ni. «Il sogno — raccontano — era di incontrarlo e riabilitarlo agli occhi della Cina». In quat­tro anni di ciak hanno speso tut­to, mettendo insieme un docu­mentario che vuole essere, oltre che un atto di devozione priva­to, anche il contributo decisivo al riscatto di «Chung Kuo». «E ci siamo riusciti». «China is far away» («La Cina è lontana», ap­punto) è stato trasmesso dalla Cctv, la tv di Stato, e adesso va per festival (domani a Hong Kong). «Il pubblico è maturo, le reazioni dopo la trasmissione — spiegano al Corriere — sono state positive. I cinesi hanno ca­pito che il film fu un atto d’amo­re verso il nostro Paese. I guai furono colpa dei tempi». Aperto e chiuso dalle visite a casa di Antonioni dal settembre 2004 a poco prima della sua morte (2007), il documentario ripercorre l’avventura cinese con Enrica Fico, allora dicianno­venne, poi moglie del regista («fu come la nostra luna di mie­le, quel viaggio»), e Luciano To­voli, operatore e direttore delle fotografia: «Volevo riprendere la frontiera fra Hong Kong e la Cina, ma lui mi disse: prima cer­chiamo di capire, poi filmia­mo ». Parlano lo scrittore Carlo Di Carlo e Gabriele Menegatti, diplomatico incaricato di ac­compagnare i cineasti per Pechi­no, dove poi fu ambasciatore fi­no al dicembre 2006. C’è Tovoli che spiega il perché del paralle­lo fra le canzoni patriottiche e le immagini di maiali grufolanti che scatenò l’ira della Banda dei Quattro: «Involontario. Mentre filmavamo i suini si sentiva quella musica, solo più tardi ci tradussero le parole…». Liu ha vistato i luoghi di alcuni ciak, la Tienanmen, un asilo di Nanchi­no, una scuola di campagna. Chi c’era, e c’è anche adesso, ri­lancia le antiche tesi, assorbite nelle lunghe sedute di critica: «Le riprese mostravano solo gli aspetti negativi». Acqua passa­ta, assicurano Liu e Hou, e Anto­nioni lo seppe, prima di morire. Nel documentario un quadro di Partito dice che avrebbe deside­rato una cosa: «Antonioni torni. Veda com’è la Cina dopo le rifor­me ». Sarebbe stato un bel fina­le.

Corriere della Sera 9.4.09
L’autore del «Trattato di ateologia» presenta il nuovo manifesto edonista, «La potenza di esistere», e corregge Sartre
Addio matrimonio cristiano Liberi, ma con discrezione
Il filosofo Michel Onfray: mai spiare gli sms
di Stefano Montefiori


La potenza di esistere è un libro ambi­zioso: «Nulla da temere dalla morte. L’es­senziale consiste nel non morire già in vi­ta».

CAEN — Nei camerini del teatro di Ca­en, poco prima della lezione gratuita su Nietzsche seguita da oltre mille persone, il filosofo Michel Onfray offre qualche ri­petizione sul corretto uso del telefonino: «Mai spiare i messaggi ricevuti dalla pro­pria compagna o controllare il registro delle chiamate: chi cerca trova, e non è detto sia un bene». La buona educazione e la discrezione sono virtù fondamentali per chi voglia praticare il manifesto edoni­sta stilato da Onfray in La potenza di esi­stere (Ponte alle Grazie, traduzione di Gregorio De Paola, pagine 203, e 15), quintes­senza delle sue 50 opere da oggi nelle li­brerie. Un saggio che alterna paragrafi in­titolati «hapax esistenziale» o «episteme ebraico-cristiana» a frasi più concreta­mente dedicate agli amori terreni e alle trappole della gelosia.
Questa apparente miscela di Lucrezio, Spinoza e Cosmopolitan è valsa a Onfray il sussiego quando non l’odio di molta cri­tica, e un successo popolare straordinario in tutto il mondo. Anche in Italia il Tratta­to di ateologia ha goduto di un seguito non certo di nicchia, sull’onda di un riflus­so anticlericale che trova il suo altro eroe internazionale nell’inglese Richard Dawkins («non mi piace, troppo rozzo»). «Nel Trattato di ateologia ho parlato di Dio come finzione purtroppo tuttora ne­cessaria per molti uomini — spiega On­fray — e ho contestato tutte le religioni.
La potenza di esistere è invece la pars con­struens, la mia proposta per vivere in mo­do consapevole, etico, gioioso».
Onfray teorizza la necessità di una filo­sofia pragmatica che dimostri il suo valo­re nel suo essere applicabile nella vita di tutti i giorni, in coda dal fornaio o viag­giando in treno. Per questo, e per le sue folgoranti apparizioni televisive (dove con rapida parlantina ha maltrattato av­versari di peso, da Jacques Attali a Philip­pe Sollers), i detrattori lo hanno definito «filosofo da supermercato». Disistima del tutto ricambiata. Come il divulgatore britannico Julian Baggini, Onfray detesta l’elitarismo e la filosofia accademica: «Io sono fuori dal mondo, continuo a vivere qui in Normandia, con i miei allievi del­l’Università popolare di Caen da me fonda­ta; non vengo mai invitato nei salotti pari­gini e ne sono felice. Detesto i filosofi di professione, quelli che si riempiono la bocca di metafisica dal lunedì al venerdì e dalle 9 alle 5».
In realtà, a giudicare da almeno un pa­io di copertine (Lire e Nouvel Observateur), dalla presenza su radio e tv e dalla celebre lunga intervista a Nicolas Sarkozy pochi mesi prima dell’elezione all’Eliseo, Michel Onfray è più una star che un outsi­der. E questa non è l’unica contraddizio­ne del personaggio. Nella copertina della Potenza di esistere appare vestito di nero, aria grave. Onfray sorride con parsimo­nia. Non che debba per forza mostrarsi con belle donne bevendo champagne, ma il suo sarebbe pur sempre un «manifesto edonista».
Però è dal dolore che bisogna partire, purtroppo. La prefazione è il racconto dello spaventoso periodo trascorso in un orfanotrofio dei salesiani, dai 10 ai 14 anni, abbandonato dalla madre stanca di picchiarlo dopo essere stata a sua volta maltrattata dai genitori. Sono 30 pagine tragi­che e commoventi, dominate dal sadismo dei preti, e concluse da parole di perdono verso la madre: «Si diventa davvero mag­giorenni rivolgendo, a coloro che ci han­no aizzato contro i cani senza sapere quel che facevano, il gesto di pace necessario a una vita che superi il risentimento. La ma­gnanimità è una virtù da adulti». La dedi­ca del libro è «A mia madre ritrovata».
Un uomo capace di superare una simi­le adolescenza e un infarto grave patito a 28 anni ha forse qualche dote di resilien­za da offrire ai suoi simili. E se non ci si lascia contagiare dal virus della supponen­za verso qualcuno giudicato troppo letto per essere un vero filosofo, il resto del li­bro è un interessante percorso di rifiuto della tradizione filosofica idealista, del mi­to giudaico-cristiano della nobiltà della sofferenza, verso un «erotismo solare» e una «bioetica prometeica». «Bisogna pra­ticare una sorta di aritmetica del piacere, abituarsi a calcolarlo per sé e per gli altri — spiega Onfray —. Per l’uomo della stra­da, l’utilitarismo indica il comportamen­to di chi è interessato, incapace di genero­sità e gratuità. Siamo agli antipodi del pensiero di Jeremy Bentham e di John Stuart Mill, per i quali il principio di utili­tà significa “maggiore felicità per il mag­gior numero”».
In tempi di ridefinizione dei rapporti di coppia, e di prevalenza del divorzio, On­fray auspica la leggerezza, la consapevo­­lezza, il contratto tra due persone che ridi­scutono continuamente i termini del loro accordo — per una sera, per una vacanza, per la vita, per il desiderio, l’amore o il ses­so. Senza inganni. «Il matrimonio traman­dato da duemila anni di cristianesimo, fat­to di promesse vane, di Principi Azzurri e donne ideali, è una macchina produttrice di ipocrisia e infelicità».
Un nuovo cantore dell’Amore liquido post-moderno, effimero e consumista, già definito e criticato da Zygmunt Bau­man? «No, condivido la critica al consumi­smo relazionale, al nichilismo del sesso — risponde Onfray —. Penso che il sesso triste sia un prodotto del cristianesimo, come lo sono del resto Sade e Bataille, la faccia libertina di una medaglia che esibi­sce sull’altro lato la figura del santo. I sen­timenti duraturi sono una conquista fati­cosa, da raggiungere in due, con una spe­cie di dieta erotica da seguire in coppia, senza necessariamente mortificarsi, in piena libertà». Coerentemente con le pre­messe di filosofia pragmatica e vissuta in prima persona, Onfray spiega di vivere da otto anni con una compagna, senza vinco­li di fedeltà. E qui rispunta l’etica del tele­fonino. «La lezione di Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir è che l’idea di raccon­tarsi tutto nel dettaglio, di essere onesti fino alla crudeltà, non funziona. Sartre e Beauvoir tenevano a informarsi degli or­gasmi avuti con altri partner, ma poi ne soffrivano immensamente. Dobbiamo ri­cordarci che siamo pur sempre dei mam­miferi, che siamo preda della gelosia».

Corriere della Sera 9.4.09
Il British Museum rilegge documenti e reperti archeologici. A fine estate una grande esposizione
Montezuma non fu lapidato dai suoi ma ucciso dagli spagnoli
di Guido Santevecchi


I vincitori scrivono la storia e di soli­to, oltre al potere, cercano di to­gliere allo sconfitto anche la dignità. Nel 1520 gli avventurieri venuti dalla Spagna in cerca di nuove terre segui­rono questo copione con Montezu­ma, l’imperatore azteco che li aveva accolti come inviati del cielo e fu ri­pagato con schiavitù, morte e disono­re.
Secondo le cronache del tempo, Montezuma aprì le porte del suo do­minio — che si estendeva dalle coste del Pacifico al Golfo del Messico — agli uomini guidati da Hernán Cor­tés e quando il suo popolo capì che i conquistadores erano arrivati solo per depredarli delle loro ricchezze e si ribellò, Montezuma cercò ancora di trovare un compromesso, ma finì lapidato dalla folla che assalì il palaz­zo di Tenochtitlan (l’attuale Città del Messico). Questa la storia ufficiale.
Ma ora il British Museum ha lan­ciato un’operazione per riabilitare l’imperatore. La revisione sostiene che Montezuma, divenuto ostaggio degli stranieri che aveva accolto co­me ospiti di riguardo, fu tenuto pri­gioniero e al momento opportuno as­sassinato con oro fuso colato in gola; poi Cortés ordinò ai suoi scrivani di fabbricare ad arte la versione della la­pidazione per legittimare l’interven­to «pacificatore» della potenza spa­gnola.
L’impero azteco cadde, travolgen­do anche la reputazione di Montezu­ma, tanto che nel Messico moderno non c’è alcun monumento che lo ri­cordi. Il British Museum, che dedi­cherà al sovrano una mostra, ha tro­vato materiale a sostegno della sua teoria negli archivi dell’università di Glasgow e di Cuernavaca.
Si tratta in particolare di testi illu­strati del XVII secolo che mostrano Montezuma con una corda al collo e in catene: la prova che l’imperatore non era un traditore asservito agli in­vasori ma un prigioniero.
Neil MacGregor, il direttore del Bri­tish Museum, spiega che l’obiettivo di questa rivisitazione è di corregge­re la prospettiva «eurocentrica» del­la storia. Un segno di questa strate­gia culturale è nel titolo stesso della mostra che aprirà alla fine dell’estate a Londra: Moctezuma, Aztec ruler, non Montezuma, un cambio di gra­fia per adeguarla alla pronuncia azte­ca.
Oggetti, gioielli, una maschera tur­chese pagata come tributo all’impe­ro dai popoli della regione racconta­no la parabola di un sovrano che for­se amava più la religione che la forza delle armi: Moctezuma aveva osser­vato una serie di portenti come co­mete visibili in pieno giorno che lo avevano illuso sull’imminente ritor­no in terra del dio Quetsalcoatl. Ma Hernán Cortés non era un dio, solo un conquistatore e forse un inquina­tore della storia.

il Riformista 9.4.09
Anniversario
F.L. Wright l'archistar che domava la natura
di Manfredo di Robilant


ANNIVERSARIO. 50 anni fa moriva il grande architetto. Disegnò più di 1.000 progetti, costruì 500 edifici. Il migliore? Il mito su di sé. Fece fortuna a Chicago, con il boom edilizio dopo l'incendio del 1871. A Tokyo, il suo Imperial Hotel sopravvisse al terremoto del 1923. La casa sulla cascata è il suo testamento spirituale.

Una visione razionale ma al tempo stesso sempre associata
alla ricerca di una spiritualizzazione della vita quotidiana

Il Guggenheim di New York è il simbolo della sua conquista finale della metropoli dominata dalla ragione economica

Era il 9 aprile 1959, in due mesi avrebbe compiuto novant'anni, e di vite probabilmente ne aveva vissuta più di una. Forse, negli ultimi mesi, nonostante il suo museo Guggenheim di New York, affacciato su Central Park, fosse quasi completato (inaugurò il 21 ottobre dello stesso anno), aveva intuito che la propria stella stava tramontando, ma del resto, nel corso di una carriera durata settant'anni gli era già successo, e lui stesso sapeva bene che alti e bassi erano parte del ruolo di pioniere controcorrente che si era ritagliato. E che ne aveva costruito la fortuna, testimoniata, dagli oltre 500 edifici costruiti, su un totale di progetti che supera i mille.
L'importanza storica di Frank Lloyd Wright oggi non è nemmeno discussa, quello che si continua a dibattere è quale sia la sua vera eredità, mentre, uscito dal mito di sé stesso, è stato riconsegnato alla dimensione della storia da una quantità di libri e articoli che hanno scandagliato ogni aspetto e ogni periodo della sua attività.
Parlare di Wright prescindendo dalla costruzione mediatica che l'architetto stesso edificò sulla propria figura, è comunque difficile. Anzi, uno dei suoi elementi d'interesse è proprio la capacità di utilizzare i mass media del tempo, rendendo famigliare al pubblico generale un'architettura non facile, nel suo essere tutt'uno con una visione del mondo. Padre (o nonno), in questa abilità, di tutti gli architetti star che affollano il panorama attuale dell'architettura, Wright è stato il primo architetto a conquistare la copertina del Time, il 17 gennaio 1938, con uno studiato ritratto che lo mostra in veste di maestro ispirato dell'architettura moderna americana. Un'architettura che la distanza storica conferma coincidere in larga parte proprio con la sua opera.
Nato nel 1867 in un piccolo centro del Wisconsin, dopo due semestri in una scuola di ingegneria di provincia, Wright si trasferisce diciannovenne a Chicago, capitale del boom edilizio dell'epoca, ricostruita dopo l'incendio del 1871. Lavora nello studio di Louis Sullivan, con cui, nel giudizio degli storici, divide (anche se con un ruolo preponderante) la primogenitura della modernità architettonica negli Stati Uniti. Lasciato in polemica il maestro (che lo accusa di sottrargli clienti), a partire dal 1893 lavora autonomamente.
Se la sua prima casa, del 1889, è progettata per sé stesso e per la prima moglie (di tre), le decine che realizza fino al 1911 sono commissionate dalla ricca borghesia di Oak Park, il quartiere suburbano di Chicago in cui risiede. In una carriera spesso divisa dagli storici in periodi-etichetta, si tratta della fase delle cosiddette Prairie Houses, residenze unifamigliari fatte di volumi allungati in mattone o pietra, tetti spioventi in aggetto e spazi interni che fluiscono uno nell'altro, a consacrare una nuova visione di domesticità americana. Una visione razionale ma al tempo stesso sempre associata alla ricerca di una spiritualizzazione della vita quotidiana. È la Robie House del 1909, con i suoi lunghi muri ciechi in mattoni rosso scuro a incarnare al meglio questo primo periodo, interrotto con una clamorosa fuga in Europa con la moglie di un cliente, dove arriva già famoso e pubblica una monografia che lo consacra.
Lasciata la prima moglie e i sei figli, Wright si stabilisce quindi in Wisconsin con la nuova famiglia, in una casa-studio-comunità, Taliesin, dove continua a lavorare intensamente, fino al 1914, quando un cameriere appicca un incendio che uccide moglie e (nuovi) due figli. Seguono crisi professionale, trasferimento in California, terza moglie, nuova serie di ville lussuose, fallimento e crisi. Nel frattempo: viaggio in Giappone, dove trova l'unica architettura antica che riesce a rispettare e dove progetta l'Imperial Hotel a Tokio, che sopravvive perfetto al terribile terremoto del 1923 (ma viene abbattuto nel 1967).
La passione per le stampe giapponesi, peraltro, è un aspetto cruciale per capire la concezione fluida degli spazi, cifra costante di Wright, che negli anni Trenta, a oltre sessant'anni, e in piena Depressione, ritrova la fortuna e la vena, costruisce una seconda Taliesin in Arizona e sforna uno dopo l'altro i suoi edifici più iconici. Su tutti, la casa sulla cascata - alias Fallingwater (in Pennsylvania, completata nel 1939, ora monumento nazionale), un rifugio da weekend per un imprenditore di Pittsburgh - è un instant classic fatto di volumi che si protendono tra i rami del bosco, destinata a diventare l'immagine stessa di Wright e cristallizzarne la mitologia, come quando il maestro in persona (pare) rimuove i sostegni provvisori del terrazzo in cemento armato, che gli operai si rifiutano di togliere temendo il crollo.
Per capire quanto quella suscitata da Wright sia una religione bisogna leggere le parole che Bruno Zevi, il suo più grande sostenitore italiano, dedica a Fallingwater, che giudica il massimo punto di arrivo dell'umanità, finalmente ricongiunta alla natura. Dalla fine degli anni Trenta alla morte Wright continua un'attività indefessa, che si conclude con il Guggenheim di New York, simbolo della sua conquista finale della metropoli dominata dalla ragione economica, cui la sua architettura, che vuole essere metafora dell'organismo vivente, si è sempre nei fatti opposta.
Il progetto del Guggenheim occupa Wright dal 1943 al 1959 e l'edificio può essere legittimamente considerato un compendio della sua concezione fluida degli spazi interni degli edifici, e del fatto che essi devono trovare una corrispondenza leggibile nei volumi esterni. A partire dall'idea di offrire un percorso attraverso la collezione Guggenheim di arte moderna, nasce uno spazio a tutta altezza attorno a cui si snoda una rampa a spirale, che si restringe verso il basso, sui cui lati sono appesi i quadri. Il pubblico sale all'ultimo piano con un ascensore e quindi discende dalla rampa, arrivando nell'atrio d'ingresso. Dall'esterno l'edificio riflette questa impostazione nei volumi che, letteralmente, si protendono verso una città a cui l'ultimo lavoro di Wright si offre come alternativa ideale, e forse idealistica, contro il razionalismo dei grattacieli a parallelepipedo dell'International Style importato dall'Europa.

il Riformista 9.4.09
Richter come Beethoven. Mito nell'imperfezione
di Fabio Vitta


MISSIONI. Nei cd di "Classic Voice" il vecchio pianista ucraino insegue l'energia del tedesco. Non sempre ci riesce. Ma la passione vince su tutto.

Sviatoslav Richter e Beethoven, ancora? Sì ancora e sempre, nei secoli dei secoli. Infatti, di questo Ricther "ultimo" (le registrazioni vanno dal 1990 al 1992) avevo ascoltato a Roma, se non sbaglio, nel 1989 uno Schubert memorabile. Questi due cd allegati alla rivista Classic Voice e dedicati a Beethoven contengono: il primo le due sonate dell'Op. 49 n. 1 in Sol minore e n. 2 in Sol maggiore, la sonata in Fa maggiore Op. 54 e la sonata in Fa minore Op. 57 Appassionata e il secondo le sonate in Mi maggiore Op. 109, in La bemolle maggiore Op. 110 e in Do minore Op. 111 registrate dal vivo al Concertgebouw di Amsterdam e altrove. Contrariamente a quanto ci si potrebbe attendere, abituati come siamo ad associare all'età veneranda una certa idea di saggezza, Ricther affronta il Beethoven delle ultime sonate, che è violento, aspro, tecnicamente impervio, con la stessa energia di un ragazzo, lo stesso coraggio;aveva quasi 80 anni, un'età in cui anche solo l'idea di affrontare queste pagine, assomiglia ad una volontà di cercar la bella morte. Piuttosto è nelle sonate dell'Op. 49 che il pianista ucraino si concede una visione malinconica e serena del secolo (XVI) che si chiude, ma già nell'Appassionata il suo pianismo vuol essere quello di sempre, aggredisce la materia musicale, la scuote, e allora talvolta le dita denunciano il trascorrere del tempo, non sempre riescono a tener testa a quell'anima indomita. Un'anima che si getta a precipizio anche dalle discese vertiginose delle ultime sonate, perché è, a tutti gli effetti, beethoveniana. E come per Beethoven, trova nella sua inadeguatezza (sordità l'uno, vecchiaia l'altro) la sua redenzione e il suo scopo. E allora quelle sporcature sono una testimonianza viva che resta a noi come l'ultimo sorriso di un pianismo che forse non esiste più e che viene dal fare della propria vita una missione, il cui scopo è la ricerca della perfezione, della totale adesione alla poetica di un autore.
Dovunque tu sia Sviatoslav Richter, continuiamo a volerti bene.

mercoledì 8 aprile 2009

l’Unità 8.4.09
Alcuni edifici sono rimasti in piedi, altri no. Un tecnico dice cosa non si doveva fare
La Prefettura, la Casa dello studente Tutte costruzioni recenti, venute giù
di Marco Bucciantini


Ancora trema e ancora uccide. La terra è nemica, l'uomo vestito di verde si accovaccia davanti ai genitori dei quattro ragazzi ancora sepolti perché deve fare un discorso difficile, e cerca parole appropriate, delicate. Non può trovarle: «Dobbiamo far crollare – chirurgicamente, aggiunge – la Casa dello studente». È necessario per continuare a scavare. È l'ultima scossa, silenziosa, per questa gente annichilita dalla più atroce delle veglie. Sergio Bisti, direttore dell'emergenza di questo Paese sempre in emergenza, torna verso i suoi uomini e studia come fare. Chirurgicamente. La scossa a ridosso delle otto di sera dà una mano a questa intenzione. Padri, madri, fratelli e sorelle nemmeno sembrano sentirla. Gli altri sì.
ANNI PERDENTI
Costruire il più in fretta possibile tutti i metri quadri possibili. Lo imponeva la crisi economica degli anni settanta. La casa come bene rifugio dall'inflazione. Quella dove vivere, quella dove investire o villeggiare. Le case degli anni settanta adesso vanno giù frettolose come sono spuntate. Al numero 79 di via XX settembre c'è un palazzo tagliato in due con la lama. Tirato su nel 1974. «Era fatto ad U – denuncia Marzio Cardini, architetto di Frosinone – ma un lato era più corto. Quando è così, la parte più grande fa da base, solida, e quella più leggera da antenna. Al momento della scossa, tutta l'energia si scarica su questo lato più corto, che oscilla senza scampo». Analisi avvalorata dal colpo d'occhio: la parte lunga è indenne, l'altra è sbriciolata. E si è divorata sette vite. Poi Cardini indica il tetto: «Vede? Sono travi ortogonali. Le tegole vanno poggiate di traverso, per diffondere il peso. Queste sono verticali, in pendenza, e sbilanciano tutto il peso sulla struttura». Quel tetto malfatto ha trascinato giù tre piani. «La messa in sicurezza spetta ai padroni di casa», si difende il comune. Questo spiega anche i crolli delle vecchie case del centro. La sola verifica antisismica costa circa 20 mila euro.
LA COSCIENZA NEL CEMENTO
L'Aquila è stata straziata da almeno tre grandi terremoti negli ultimi due secoli. Non sono bastati per imporre l'uso di materiali resistenti alle scosse. «Fosse successo in California o in Giappone, non avremo avuto vittime», è l'inaccettabile verità di Franco Barberi, presidente della commissione grande rischi. La Prefettura sembra una rovina dei Fori imperiali: «E' stata costruita dopo il terremoto del 1703. Lo sapevamo che era a rischio, la monitoravamo da tempo», si rammarica Renato Amorosi, uno dei tecnici che il comune ha messo intorno a un tavolo per ragionare sui danni. Se la scossa letale fosse giunta di giorno, la Prefettura sarebbe diventata la cassa da morto di decine di dipendenti. Metterla in sicurezza sarebbe costato milioni di euro, e quei soldi i comuni non li hanno. Per beffa, arrivano sempre dopo la tragedia: non per programmare ma per rimediare. Altrove i grandi sismi hanno fatto cambiare leggi e usi. Il Cnr ha testato un anno fa in Giappone, una casa antisismica in legno, capace di resistere all'onda d'urto di magnitudo 7,2 della scala Richter, pari al sisma che uccise, nel 1995, oltre seimila persone. Quella casetta la fanno a Trento (Italy).
La Casa dello studente invece è in via XX settembre al numero 46. Sul lato destro, risalendo il centro, è l'unico edificio sventrato. Si è piegato indietro, sul fianco destro. Dal cemento divelto spuntano i ferri lisci. Da quarant'anni non si costruisce più così. Il calcestruzzo armato ha una resa assai migliore se viene rinforzato dal ferro zigrinato, che prende meglio l'impasto di cemento, sabbia, ghiaia. La Casa dello studente è stata edificata negli anni settanta. Ed è stata ristrutturata nel 1998 e nel 2007. Ma non è mai stata messa in sicurezza. Anche l''Ospedale nuovo era impastato al risparmio. La modernità era tutta nella funzionalità dei reparti e non nei criteri di edificazione. La legge impone solo dal 2008 strutture a norma antisismica: un secolo dal terremoto di Messina. Davanti al numero civico 46 i genitori dei ragazzi si passano i biscotti e si dividono dalla stessa cannuccia un succo di frutta alla pera.

Repubblica 8.4.09
La morale del cemento
di Francesco Merlo


Chi ha letto il racconto di Gateano Salvemini, che si salvò dal terremoto di Messina appeso a un davanzale, sa che dai sismi e dalle loro tragedie si possono trarre motivi per potenziare la ricerca, l´attività e la strategia anche intellettuale di un popolo. Pure Benedetto Croce perse i genitori in un terremoto e ne trasse un carattere italiano di grande equilibrio, di prudenza e di stabilità.
Insomma i terremoti fanno purtroppo parte della storia del nostro paese e del paesaggio delle nostre anime, magari nascosti negli anfratti del carattere nazionale. Non sono emergenze, sono violenze naturali antiche che si affiancano alle violenze sociali, alle mafie, al brigantaggio, alla corruzione.
E però in Italia la magistratura ha giustamente avuto una grande attenzione vero il fenomeni della mafia e della corruzione: abbiamo dedicato seminari, libri, studi, campagne politiche e morali e sono nati persino dei partiti antimafia e anticorruzione. Ebbene, sarebbe ora che l´Italia si dotasse di una squadra di moralisti antisismici, di legislatori antisismici, di un pool di pubblici ministeri che mettano a soqquadro i catasti, gli assessorati all´urbanistica, le sovrintendenze, gli uffici tecnici, i cantieri. Non è possibile che ad ogni terremoto il mondo scopra stupefatto che l´Italia, l´amatissima Italia, è un Paese senza manutenzione.
A leggere i giornali internazionali di questi giorni si capisce subito che un terremoto in Italia non ha lo stesso effetto di un terremoto in Giappone. Anche quando non vengono colpite le città d´arte, come Firenze o Perugia, l´Italia in pericolo coinvolge di più di qualsiasi altro luogo. In gioco - ogni volta ce ne stupiamo - ci sono infatti la nostra bellezza e la dolcezza del vivere italiano, e poi i musei, il paesaggio� È solo in questi casi che ci accorgiamo come gli altri davvero ci guardano: non più sorrisi e ammiccamenti, ma dolore e solidarietà per un paese che è patrimonio dell´umanità.
Ebbene è la stampa straniera a ricordarci che ci sono città italiane incise dalle faglie, e dove le bare per i morti e l´inutile mappa dei luoghi d´incontro dei sopravvissuti sono i soli accorgimenti antisismici previsti. Ci sono città dove la questura, la prefettura, gli ospedali sono ospitati in edifici antichi che sarebbero i primi a cadere. Dal punto di vista sismico, della vulnerabilità sismica, non esiste un sud e un nord d´Italia, non esiste un paese fuori norma contrapposto a un paese nella norma. L´Italia, come sta scoprendo il mondo, è tutta fuori norma. Nessuno costruisce nel rispetto degli obblighi di legge che - attenzione! - non eviterebbero certo i terremoti che uccidono anche in Giappone e in California, anche dove la legge è legge. Neppure lì i terremoti sono prevedibili. Non ci sono paesi del mondo dove le catastrofi naturali non procurano danni agli uomini e alle cose.
Ma le norme antisismiche sono al tempo stesso prudenza e coraggio di vivere, sono la stabilità di un paese instabile, la fermezza di una penisola ballerina, sono come le strisce pedonali e la segnaletica stradale che non evitano gli incidenti ma qualche volta ne contengono i danni, ne limitano le conseguenze, ti mettono comunque a posto con te stesso e con il tuo destino. Colpisce invece che la sfida alla natura in Italia sia solo e sempre verbale: "immota manet" è il motto della città dell´Aquila ed è un paradosso, un fumo negli occhi, un procedere per contrari, una resistenza al destino che ne rivela la completa, rassegnata accettazione: la sola immobilità dei terremotati è la paura, è la paralisi.
Da sempre i terremoti intrigano i filosofi e gli scienziati. Si sa che dopo un terremoto aumentano i matrimoni e le nascite che sono beni rifugio, e si formano nuove classi sociali, si riprogetta la vita come insegna appunto Salvemini. Ma le catastrofi attirano gli sciacalli, economici certo ma soprattutto politici e morali. Ricordo che, giovanissimo, nel Belice vidi arrivare i missionari delle più strane religioni, i rivoluzionari seguaci di ogni utopia e i ladri d´anima� I soli che in Italia non arrivano mai sono gli antisismici d´assalto; le sole competenze che ai costruttori non interessano sono quelle antisismiche; e a nessun italiano viene in mente, invece di ingrandire la terrazza, di rafforzare le fondamenta della casa.
Siamo i più bravi a rimuovere, a dimenticare i lutti, a non tenere conto che la distruzione come la costruzione crea spazi e solidarietà. L´Italia sembra unirsi nelle disgrazie. Nelle peggiori tragedie ci capita di dare il meglio di noi: sottoscrizioni, copiosissime donazioni di sangue, offerte di ospitalità� Davvero ci sentiamo e siamo tutti abruzzesi. Ci sono familiari volti e lacrime che sono volti e lacrime di fratelli. Sta tremando tutta l´Italia. E anche se non riusciremo a dominare la forza devastatrice della natura, mai più dovranno dirci che questo è un paese fuori dalla legge. Fosse pure un´illusione piccolo borghese, da impiegati del politicamente corretto, abbiamo bisogno di applicare tutti insieme la tecnica antisismica e di misurare il ferro che arma il cemento: abbiamo bisogno di costruttori, di sovrintendenti, di legislatori e di giudici di ferro.

Corriere della Sera 8.4.09
La ricerca Bari e Pisa: i sistemi efficaci esistono, mancano i soldi per perfezionarli
Gli atenei «credono» nel radon: previsioni possibili


MILANO — Ventitrè gennaio 1985: per la prima (e unica) volta in Italia scat­ta l’allarme terremoto. L’Istituto naziona­le di geofisica prevede una «scossa peri­colosa ». E il ministro della Protezione ci­vile Giuseppe Zamberletti, oggi presiden­te della Commissione grandi rischi e so­stenitore dell’impossibilità di prevedere i terremoti, ordina lo stato d’allerta per dieci comuni della Garfagnana: scuole chiuse per due giorni, case vecchie o in cattivo stato evacuate.
Centomila persone abbandonarono le proprie abitazioni, ma il terremoto non arrivò. Allora la previsione di un sisma distruttivo fu formulata, dopo una scos­sa premonitrice, sulla base di un’analisi storico-statistica. Oggi, tra gli indicatori sismici, c’è anche il radon. Giampaolo Giuliani non è solo. Sono diversi i ricer­catori che studiano questo gas: l’univer­sità di Bari ha messo a punto un sistema di 25 centraline fermo per mancanza di fondi; quella di Pisa ha elaborato un pro­getto per il monitoraggio nelle acque sot­terranee della Garfagnana e della Luni­giana allo studio degli enti locali. Ricer­che sono in corso anche all’Istituto nazio­nale di geofisica e vulcanologia.
Pier Francesco Biagi è docente di Fisi­ca all’Università di Bari. Studia il radon e i disturbi sui segnali radio. «I sistemi per prevedere un terremoto già esistono — dice —, è che mancano i soldi per perfe­zionarli. A differenza dei miei colleghi so­no convinto che non è impossibile preve­dere un sisma, ci riusciremo. Fu proprio Boschi, oggi nemico dei precursori, a fa­re la previsione del 1985». E spiega: «Nel 2005 abbiamo presentato un progetto al­la Regione per l’installazione di 25 cen­traline per il rilevamento di radon e sta­zioni radio a bassa frequenza (alcune an­che nel Gran Sasso). Per un punto siamo stati esclusi dalla graduatoria e le prime centraline sono state disattivate».
All’università di Pisa si studia invece il radon nelle acque sotterranee della Garfagnana e della Lunigiana. Il team di Giorgio Curzio, docente di Misure nucle­ari, ha elaborato uno studio di fattibilità per il monitoraggio del radon: stazioni prototipo che ogni sei ore dovrebbero trasmettere al dipartimento e alla Prote­zione civile i livelli.
Tra i ricercatori che studiano il radon c’è anche Calvino Gasparini, dell’Istituto nazionale di geofisica. Nel 1985 fu uno degli esperti a formulare la previsione della Garfagnana. Oggi è direttore del Museo geofisico di Rocca di Papa dove da quattro anni una centralina misura il radon. «Sappiamo che questo gas è un precursore dello stress sismico, ma per ora non ci dice il 'dove' e il 'quando' av­verrà un terremoto». Più attendibile l’analisi storico-statistica: «Sulla base della quale scattò l’allerta del 1985. Nel caso di Giuliani non esistevano parame­tri consolidati, ma un censimento a se­taccio grande degli edifici più vecchi e una maggiore informazione, forse...».
Nel 1985 la «scossa pericolosa» non ar­rivò. E l’ex ministro Zamberletti finì sot­to inchiesta per procurato allarme. Forse per questo da allora ha sempre chiamato i centomila sfollati «un test». E oggi riba­disce: «I terremoti non sono prevedibi­li ». Ma poi spiega: «Allora il radon non c’entrava, lì ci trovavamo davanti a dati statistici particolari. Davanti a una previ­sione della comunità scientifica come quella di 24 anni fa, proprio Boschi e Bar­beri mi avvertirono del rischio, farei la stessa cosa: ordinerei lo stato d’allerta».

l’Unità 8.4.09
Testamento biologico: il vero obbiettivo
Se lo Stato dimentica i diritti
di Donatella Poretti


Perché il Parlamento “avrebbe” potuto fare una legge sul testamento biologico? Guardando le altre legislazioni la risposta è univoca: estendere il diritto della persona capace di decidere le cure a chi si trovasse nell’incapacità di esprimere il consenso. Una dichiarazione esecutiva dal momento in cui il paziente non può esprimere le sue volontà, che oggi devono essere ricostruite (vicenda Englaro) oppure delegate ad altri come i familiari.
Altra è la risposta per cui è stata approvata dal Senato questa legge. Nessuno deve più morire di “fame e di sete” ed essere “ucciso con sentenze” della magistratura. Si è così creato un istituto giuridico - le dichiarazioni anticipate di trattamento - per svuotarlo di significato e di valore. Non essendo vincolanti avranno lo stesso valore di una email o di una telefonata.
Fosse solo questo potremmo essere amareggiati di aver usato male il tempo delle istituzioni, ma rassicurati in parte dall’inutilità dell’operazione.
Purtroppo la legge non si limita a ciò. Il primo comma anticipa la gravità della norma sancendo l’indisponibilità della vita, che diventa un obbligo di vivere e morire nelle condizioni decise dal Parlamento. Questo principio si traduce nel dovere di nutrire e idratare artificialmente un paziente in stato vegetativo. Perdendo la coscienza, gli vengono sottratti anche i diritti, in particolare quello di decidere i trattamenti medici dell’articolo 32 della Costituzione, scritto dopo avere visto gli effetti devastanti degli Stati totalitari sui corpi delle persone.
Questa legge che apparentemente si occupa di sanità, stravolge il senso del rapporto tra la persona, il cittadino, l’individuo e lo Stato. Si passa da caratteristiche salienti dello Stato liberale, come l’inviolabilità dei diritti dell’uomo e la sua autodeterminazione, all’imposizione di dettami tipici di uno Stato etico, che decide cure, vita e morte dei propri sudditi.
Chi ha sostenuto la necessità di un intervento legislativo contro le sentenze della magistratura con questa legge otterrà l’effetto opposto. Una norma così scritta obbligherà i tribunali a interpretare divieti e obblighi imposti. Se i medici avessero avuto bisogno di una norma chiara per avere certezze su come muoversi, la risposta del Parlamento è stata opposta: cavilli e complicazioni. Un medico con questa norma rischia di più se sospende una terapia rispettando il consenso del paziente o se la mantiene contro la sua volontà?
La forza dei numeri non sempre è sinonimo di democrazia: limitare diritti invece che estenderli, cancellare libertà individuali a colpi di maggioranza parlamentare non è caratteristica dello Stato di diritto. Senza il quale non può esserci diritto alla vita.

Corriere della Sera 8.4.09
Madrid adotta l’albino Moszy per proteggerlo dagli stregoni


Canarie. È arrivato su un barcone. Rischiava di essere ucciso per riti magici a causa del colore della pelle
Nato in Benin, per 18 anni è scampato ai riti magici di cui sono vittime gli albini. I blogger spagnoli: ora deve restare qui

MADRID — Uno di troppo. Un intruso. Nella sua fami­glia, nel suo villaggio, nel suo paese, e perfino sulla zattera che lo ha portato dalle coste della Mauritania alla spiaggia di Tejita, a Sud di Tenerife. Un emarginato pure sotto quella coperta offerta dalla Croce Rossa a riscaldare corpi ugualmente assiderati dal vento del mare. Sembra non esserci posto neanche in fon­do alla coda, ultimo degli ulti­mi, per il giovane Moszy, ap­prodato con altri 63 immigra­ti nella più grande delle Cana­rie, la Lampedusa spagnola.
Il suo arrivo sarebbe passa­to inosservato, il suo rimpa­trio forzoso altrettanto, se non fosse che Moszy è un al­bino. Né nero né bianco, an­zi: sia nero sia bianco. Una specie commestibile, in qual­che angolo meno civilizzato del suo continente d’origine. Un paria, un costoso ingom­bro anche per i parenti che possono sopportarlo, ma dif­ficilmente pagargli le cure e le protezioni che necessita.
Nato in Benin, Moszy è so­pravvissuto 18 anni alla male­dizione della sua diversità. È scampato ai riti magici di cui le sue carni candide rappre­sentano l’ingrediente più ri­cercato. Ha resistito alle ma­­lattie, ai raggi ultravioletti, al­le discriminazioni, ai pregiu­dizi e all’intolleranza. E si è convinto che in Europa non gli sarebbe sicuramente anda­ta peggio. I soldi sono i soli a non avere colore e, quando ne ha racimolati abbastanza, si è pagato il suo angolo nel barcone che si affidava alle correnti e alla fortuna. Chi gli ha venduto il biglietto ha alza­to le spalle, indifferente alla sua sorte dal saldo in poi.
È andata bene. Bene come alla maggioranza dei 640 im­migrati che, dall’inizio del­l’anno, lo hanno preceduto sulla stessa rotta: sono arriva­ti vivi; poi sono stati o saran­no rispediti al mittente. Ma forse a Moszy andrà addirittu­ra meglio. Dalla sua ci sono le testimonianze dei missiona­ri, degli antropologi, degli scienziati che possono certifi­care i rischi rappresentati da quella anomalia cutanea. Le persecuzioni, i riti supersti­ziosi, la convinzione che sol­tanto a brandelli il corpo di un albino possa portare ric­chezza e benefici ai suoi car­nefici. Le dita come amuleti, il sangue come fonte di benes­sere.
Gli spagnoli hanno osserva­to sorpresi la foto di un bian­co, guardato con sospetto e disgusto dal suo vicino color ebano. Nei blog ci hanno scherzato un po’ su, sempre a scapito del buon gusto: che ci faceva un norvegese su una zattera di africani? O che sia un profugo della bancarotta in Islanda? Ma nella maggio­ranza dei casi hanno solidariz­zato: Moszy deve restare. L’ec­cezione che Madre Natura gli ha inflitto come una condan­na deve essere trasformata in assoluzione dalle autorità co­stituite. Se ne sta occupando il Comitato Spagnolo di Aiuto al Rifugiato: basta una ricerca con Google per sapere che co­sa aspetta il nero dalla pelle trasparente lontano dalla zo­ne turistiche dell’Africa sub­sahariana. Il sito dei Padri Bianchi riferisce di almeno 40 albini uccisi l’anno scorso in Tanzania, dove ne sono uf­ficialmente censiti 4.000, ma potrebbero essercene altri 170 mila nascosti come fanta­smi, la definizione che li con­traddistingue in lingua swahi­li. Recluso nel centro di acco­glienza temporanea dell’iso­la, il fantasma di Tenerife at­tende di diventare finalmen­te un uomo.

span style="font-weight: bold; color: rgb(204, 0, 0);">Corriere della Sera 8.4.09
I Radicali al Pd: candidate Pannella


L`ultimo appello arriva da «Europa», sul quale il membro della direzione radicale Francesco Pullia chiede al Pd «una disponibilità reale a un dialogo franco e senza pregiudizi, per porre fine all`esplicita volontà di esclusione e di annullamento della nostra presenza». Non si può, spiega Pullia, «escludere un uomo come Pannella, che per una vita intera, ereditando degnamente la passione di Altiero Spinelli, si è speso per dare valore e forza al processo di integrazione europeo». Ma una risposta piuttosto chiara arriva da Beppe Fioroni: «Mi sembra che i radicali abbiano già deciso di correre da soli. Se uno si candida con il Pd è perché condivide il nostro progetto. Ma ormai da tempo, e quotidianamente, i radicali hanno scelto strade e percorsi diversi. E sarebbe inspiegabile che il Pd non favorisse questa scelta di libertà: la libertà favorisce le opportunità e non consente gli opportunismi». Via libera che cancella qualsiasi spazio residuo di collaborazione. Del resto già Goffredo Bettini, sul Riformista, aveva spiegato che certe «esasperazioni anticlericali» non corrispondono alla sensibilità e alle linea del Partito democratico.

Il Riformista del 8.4.09
Quei bambini detenuti nel carcere di Firenze
di Giuseppe Rossodivita


I passi dell`ispettore della polizia penitenziaria ci precedono, svoltiamo a sinistra del lungo corridoio, ancora a sinistra, i soffitti sono alti, un altro corridoio, questa volta interrotto da una parete di sbarre, dal basso verso l`alto, da sinistra verso destra, sbarre. L`ispettore inserisce le chiavi nella serratura per aprire una porta in quel muro di ferro. Voci inusuali per un carcere, persone inusuali per un carcere, attratte dal rumore delle chiavi, si fanno sentire e, venendo fuori dalle loro "stanze", si fanno vedere. La luce al neon illumina i loro occhi che sono grandi; le loro voci sono sottili; le loro mani, aggrappate alle sbarre in attesa che quella porta venga aperta, arrivano alle mie ginocchia. Urla di giochi. Sono i bambini detenuti, tutti con meno di tre anni. Carcere di Sollicciano, Firenze, Italia 2009. Entriamo, con Rita Bernardini, in visita ispettiva in uno dei "nidi" delle carceri italiane dove sono detenuti i bambini insieme alle loro mamme. Loro, i bambini, ovviamente non hanno colpe, se non quella della sfortuna; noi invece, come cittadini liberi, abbiamo delle responsabilità. I colori dei disegni appesi ai muri, o di un cartoncino sul quale sono incollate delle fotografie di qualche momento di serenità non fanno altro che aumentare il contrasto con un ambiente grigio, chiuso, che la buona volontà degli operatori penitenziari non potrà mai rendere adatto a dei piccoli: è un carcere, un luogo, da sempre, di espiazione delle pene. Veniamo subito assaliti. Rita dalle mamme, alle quali spiega che, da Parlamentare Radicale, si sta occupando del problema dei "nidi", con una proposta di legge che prevede delle strutture detentive non interne al carcere, sicure, ma adatte ai bambini, con personale specializzato e luoghi accoglienti e idonei ad assicurare una permanenza a degli "ospiti" speciali: sì, perché i bambini sono tutti speciali, figli nostri o figli di altri, bianchi, neri e persino "zingari". lo mi occupo di loro: sono sei e ciascuno vuole attirare la mia attenzione, c`è chi usa come arma la propria timidezza, altri la sfrontatezza che, da adulti, difficilmente si conserva. Non indosso "un`uniforme", che in carcere è invece "divisa", cioè divide e crea visivamente un muro tra agenti della polizia penitenziaria e detenuti, soprattutto se bambini. Siamo la novità della giornata. Le mamme piangono la loro disperazione ed i bambini, quelli che hanno in braccio, le guardano con occhi smarriti ed impauriti, mi avvicino e degli occhioni scuri che avevo già visto, sono in braccio ad una donna rom, circondati da una cascata di capelli castani, su un corpo minuto di non più di 55 centimetri vestiti di abiti logori, mi fissano, un sorriso, le braccine che si protendono nello stesso istante ed in un attimo, questa "bambina detenuta" è in braccio a me. Mi torna in mente "Essere senza destino", di Icore Kertesz, la storia di Gyurka, un bambino che, all`apparenza, era riuscito a metabolizzare e far diventare `un mondo normale`, il suo unico possibile, quello dei campi di concentramento. La visita al "carcere dei bambini" di Sollicciano si conclude, mi piego sulle ginocchia per far scendere la piccola, lei scende, ma subito dopo rialza le braccia, le dico che devo andare via ed allora alza le braccia con ancora più forza, ma devo andare via. Abbassa lo sguardo delusa, chissà quante volte sarà stata delusa dai grandi. Attraversiamo il muro di ferro e la direttrice ci informa di un progetto, già pronto, che prevede la ristrutturazione di una vicina villetta dove le mamme ed i bambini potrebbero essere ospitati in un ambiente adatto alla loro permanenza, ma mancano i soldi, aggiunge, «stiamo cercando fondi dagli enti locali e dal ministero, da molto tempo». Proviamoci, anzi riusciamoci a trovare questi soldi, a far approvare questa legge, con i Radicali, con Radio Carcere, sarà una buona politica, sarà un buon servizio.

L'espresso 8.4.09
Preistoria neofascista
di Giorgio Bocca


Sto leggendo con sgomento e rassegnazione il saggio di Paolo Berizzi sul rinascimento italiano ed europeo. Perché ciò che sta rinascendo e potrebbe di nuovo sommergerci è qualcosa d`incomprensibile e di inafferrabile: il vuoto, il vuoto completo d`idee, di cultura, di storia. Solo pulsioni generazionali, di violenza giovanile. "La ricreazione è finita", si legge nei loro proclami. Per dire che è finito il tempo della ragione e ritorna il tempo della violenza, il tempo del fascismo come malattia dello spirito, come moda, come follia comune a ogni classe, a operai, borghesi, contadini con i moti di massa simili alle maree, sindacati rossi che in una notte diventano neri, socialisti internazionalisti che si riscoprono nazionali, cioè nazisti. l`onda lunga della destra porta con sé l`onda torbida del neofascismo. Quanti sono i giovani con le teste rasate, le svastiche, il saluto roteano, che rinnegano la democrazia e le sue libertà per tornare al culto razzista, alla voglia di un dominio della razza bianca, all`odio millenario, sempre lo stesso, per gli ebrei? Pare quasi 200 mila, una cifra enorme, una massa che aumenta a valanga, una prospettiva di lacerazioni e scontri feroci inevitabili, una maledizione eterna. La televisione di "Repubblica" ha trasmesso un`inchiesta sul neofascismo. Vi ho trovato conoscenze e personaggi che credevo finti. li capo dei naziskin romani che conobbi a una trasmissione di Giuliano Ferrara. Grottesco, preistorico. «L`Olocausto:», diceva: «Forse qualcuno è stato ucciso nei campi di prigionia, ma lo sterminio di massa è un`invenzione. Dove sono le prove? Le camere a gas le hanno inventate gli ebrei». Con chi ce l`hanno i nazifascisti? Con tutti e con nessuno. Contro le droghe e gli hamburger degli americani, ma anche contro i comunisti nemici degli americani, contro gli ebrei che perseguitano i palestinesi, ma anche contro tutti i movimenti di liberazione, contro tutti i sindacati, e anche contro i liberisti, contro i banchieri che stanno rovinando il mondo con la loro finanza truffaldina. La storia? I nazifascisti la ignorano spavaldamente, si radunano dietro i loro labari, picchiano i malcapitati, ma ignorano anche i fatti da cui sono nati, la grande crisi capitalistica del `29 e le lotte sociali da cui sono nati loro stessi, l`attuale terremoto economico. Niente. Qualche fotografia del duce e di Hitler, di camerati festanti, di croci uncinate e il vuoto. Che cosa schedano e indagano le questure, che cosa vuol sapere il ministero degli Interni di questi che ogni giorno platealmente violano una delle leggi fondamentali della Repubblica, l`articolo 139 della Costituzione: «il vietata la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista»? Sul tema della congiuntura antidemocratica, del colpo di Stato autoritario, della presa del potere non una riga, non un pensiero, per questo la Repubblica democratica può dormire tranquilla, i suoi nemici giurati e inguaribili pensano a tutto meno che a sovvertirla, gli basta, si direbbe, la libertà di recitare il ritorno al passato, non di progettarlo. Ma attenti: neanche la marcia su Roma e le leggi speciali erano state progettate, sono arrivate da sole quando la democrazia si è arresa senza combattere, quando i ludi cartacei hanno cessato di essere una politica credibile.

il manifesto 7.4.09
CGIL Due linee a confronto sul futuro sindacale. Movimenti nel Pd
Il Circo Massimo apre il congresso
di Loris Campetti


La grande manifestazione al Circo Massimo ha aperto una nuova stagione della Cgil, una stagione di forte conflitto contro le politiche economiche e sociali di Berlusconi? Oppure è l'ultimo atto politico-sindacale della stagione segnata dall'accordo separato di Cisl e Uil con la Confindustria con la benedizione del governo, insomma, una generosa testimonianza di resistenza prima di rientrare nei ranghi della real politik? Ci sono molti modi per interpretare la giornata di sabato a Roma, come se quelle centinaia di migliaia di lavoratori «garantiti» (ma ce ne sono, oggi?) e precari, nuovi disoccupati, pensionati e studenti non avessero espresso con chiarezza le ragioni della loro «scampagnata». Eppure, entrambe le interpretazioni albergano, oltre che nei media e nell'opposizione politica, nella stessa Cgil e aprono la stagione congressuale del maggior sindacato italiano.
Le notizie e le schermaglie si susseguono. A poche ore dalla manifestazione al Circo Massimo è stata annunciata la decisione dei protagonisti dell'accordo separato - a cui Epifani dal palco aveva lanciato un appello a non precipitare le cose per non accentuare la frattura sindacale, ad aprire un tavolo sulla crisi e a dare la parola definitiva ai lavoratori sulla (contro)riforma contrattuale - di firmare il contestato testo già mercoledì. Uno schiaffo in faccia al segretario generale della Cgil che dall'inizio della crisi sindacale ha tentato in tutti i modi di mantenere un «telefono rosso», un filo di comunicazione, con Cisl e Uil. E con la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia. Nel pomeriggio di ieri è stata proprio lei a comunicare il rinvio della firma conclusiva dell'accordo di una settimana, perché «la Cgil ha chiesto di assistere ma non firmerà». Certo, oggi e per un po' di tempo la Cgil non è in condizioni di firmare un accordo contro il quale ha mobilitato la sua gente con uno sforzo senza pari dal lontanissimo 23 marzo del 2002, quando alla guida della confederazione c'era Sergio Cofferati. Però, sostiene una parte della Cgil a cui il Corriere ha già dato spazio e credito, bisogna costruire un percorso che «ci porti fuori dall'isolamento in cui ci siamo cacciati». Non è una sorpresa, almeno per i lettori del manifesto, che la manifestazione di sabato, solo quattro mesi fa, era tutt'altro che acquisita. Se c'è stata è grazie a una battaglia politica interna che ha avuto il suo momento più importante nello sciopero generale indetto unitariamente il 13 febbraio dalle due principali categorie dei lavoratori attivi: la Funzione pubblica e la Fiom. Molti hanno mal digerito tanto quello sciopero - una novità assoluta, un legame sociale e sindacale costruito in decine di assemblee e iniziative unitarie - che il peso avuto nelle scelte della confederazione. E ci sono categorie, come gli agro-alimentaristi della Flai, che mentre in corso d'Italia si organizzava la manifestazione della Cgil contro l'accordo separato, firmavano il rinnovo contrattuale con Cisl e Uil sulla base (ma questa lettura è contestata dalla Flai) delle nuove regole.
La rottura sindacale non piace a nessuno. Però c'è chi è convinto che sulla base della controriforma si segnerebbe la fine del ruolo e dell'autonomia delle categorie, oltre che della contrattazione tout court: tutto accentrato dai vertici confederali, a loro volta prigionieri delle controparti padronali nelle commissioni pariteche. La fine non solo del sindacato conflittuale, ma anche del sindacato contrattuale. In poche parole, la fine della Cgil. Al contrario, c'è chi pensa che una prolungata «solitudine segnerebbe la fine della Cgil e, come Cisl e Uil, sostiene che con questo governo bisogna scendere a patti per mitigare i disastri prodotti dalle politiche delle destre. Meglio «complici» che antagonisti.
Giovedì del congresso della Cgil, che per statuto dovrebbe concludersi entro la primavera prossima, si discuterà pubblicamente in un convegno che ha per titolo «Una nuova economia», sottotitolo «verso il congresso». Insieme a economisti come Leon e Brancaccio, a politici come Bertinotti, Marini e Nerozzi, a ex sindacalisti come Cofferati e Greco si confronteranno i dirigenti della Cgil più impegnati sul terreno dell'autonomia della confederazione: i segretari generali di Fiom e Fp (i reprobi Rinaldini e Podda), dirigenti confederali come Piccinini e Rocchi, segretari di forti Camere del lavoro (da Torino a Bologna), Giorgio Cremaschi della Rete 28 aprile.
Al confronto interno alla Cgil guardano con molta attenzione le forze dell'opposizione parlamentare e della multiforme sinistra. Non potrebbe essere diversamente, rappresentando il sindacato di Epifani l'unica resistenza di massa alle politiche berlusconiane. Nel Pd il nodo del lavoro, espulso dalle agende politiche sin dall'atto costitutivo del nuovo partito «equidistante» tra il capitale e quello che una volta si chiamava il suo becchino, potrebbe rientrare dalla finestra, sotto l'effetto della crisi e delle sue terribili conseguenze sociali. E c'è chi lavora per costruire nel Pd almeno una corrente di sinistra, una specie di «partito del lavoro» dentro il partito.