venerdì 10 aprile 2009

l’Unità 10.4.09
Il sorriso del ministro padano
di Furio Colombo


Il responsabile dell’Interno è rimasto in Aula
a parlare di ronde mentre il mondo lo pensava
nel luogo del terremoto a organizzare soccorsi

Signor Presidente, è stato osservato da parecchi colleghi che il ministro dell’Interno, quando non è occupato ad aprire il salotto con i suoi collaboratori o i suoi colleghi, è occupato a guardare in alto e a sorridere. Fa male a sorridere, perché oggi si celebra qui la perduta occasione di essere un normale ministro dell’Interno italiano, invece che un eccellente ministro dell’Interno padano.
Vi è una differenza tra l’invenzione della Padania e la realtà italiana. Questa differenza crea una situazione drammatica che non suggerisce alcun sorriso. (Applausi polemici dei deputati del gruppo Lega Nord Padania).
Signor Presidente, la ragione per cui facevo riferimento al sorriso fuori posto del ministro era dovuta anche alla lunga e compiaciuta telefonata che ha fatto dal banco del governo. Si trattava evidentemente di un’intervista, perché ha parlato sempre lui e non poteva quindi essere intento a ricevere informazioni dalla zona terremotata. D’altra parte, signor Presidente, il ministro era stato tutto il giorno in quest’aula a parlare di ronde padane mentre tutto il mondo si immagina che il ministro dell’Interno italiano stia nelle terre della distruzione sin dal primo terremoto.
Ma rileggiamo le prime parole del decreto legge che oggi vogliono farci approvare: «Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di introdurre misure per assicurare una maggiore tutela della sicurezza della collettività, a fronte dell’allarmante crescita di episodi collegati alla violenza sessuale contro le donne...». Adesso vediamo poco sotto, la conclusione di questo primo schizofrenico articolo del decreto Maroni: «Introdurre una più efficace disciplina dell’espulsione e del respingimento degli immigrati irregolari, nonché un più articolato controllo del territorio». (Applausi polemici dei deputati del gruppo Lega Nord Padania).
L’incivile soluzione è: immigrati come criminali. E ronde padane per purificare le strade italiane dagli immigrati. C’è una sorta di follia che domina e ricatta tutta la destra di questo Parlamento. Qui non si parla di stalking, non si parla di violenza sessuale contro le donne, non si parla di difesa dei più deboli, non si parla di tutela dei nostri Comuni. Si parla di immigrati a cui bisogna dare la caccia.
Questo è il ministro dell’Interno, signor Presidente, che avendo a disposizione Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza, Corpo forestale, e quella parte della Forze armate che il ministro della Difesa ha voluto rendere disponibile per la sicurezza vuole forzare questa Repubblica a creare le ronde padane. Non c’è alcun Paese nel quale le ronde siano state istituite per legge, signor Presidente, questo ci mette fuori da ogni immagine civile. Ci sono le leghe ma non sono al governo. Ci sono le ronde ma sono contro le leggi. Ci sono le ronde, e si chiamano Ku Klux Klan. Ci sono le ronde, ed è stato contro le ronde che si è battuto Martin Luther King, e sono stati forse personaggi delle ronde che lo hanno abbattuto sul balcone del «Lorraine Motel» di Memphis il 4 aprile 1968. Attraverso la presenza della Lega nei punti cruciali del governo italiano noi stiamo notando un fenomeno che si sta verificando in questo Paese. Nel diventare ministri, i leader di un partito secessionista non hanno smesso di essere secessionisti, ma realizzano la secessione attraverso le loro funzioni di Governo e questo è particolarmente grave. La ronda è in sé elemento di distruzione dello Stato, negazione dell’autorità dello Stato, delle forze di Polizia, dei Carabinieri, della loro efficienza, della capacità di esserci a confronto con la continua diminuzione di sostegno finanziario, organizzativo e logistico che le forze dell’ordine italiane continuano a patire.
Io che sono nato molto più a Nord di tutti voi mi sento molto più legato a Roberto Saviano che a Roberto Maroni di cui mi vergogno. Perché ha accettato di essere ministro della Lega invece che ministro della Repubblica italiana. Ecco perché, signor Presidente, ritengo che sia importante non transigere neppure per un istante, neppure con una forma di accomodamento. Tutti i Paesi che hanno conosciuto le ronde, hanno conosciuto violenza. Nessun Paese di vita democratica, a cominciare dall’America, ha o tollera o permette le ronde (commenti dei deputati del gruppo Lega Nord Padania). Dunque, siete fuori dell’Europa, siete fuori dei tempi moderni, siete fuori dall’oggi, siete fuori dalla cultura, siete soltanto nel profondo della mente claustrofobica di coloro che si sono perduti fuori dalla Storia. (Applausi dei deputati dei gruppi Pd e Idv).

Stralci dell’intervento alla Camera dei Deputati il 7 aprile

l’Unità 10.4.09
La riforma tradita
Manicomi privati
di Cristiana Pulcinelli


Più della metà dei posti letto per i malati psichiatrici è fuori dalle strutture pubbliche. Per le altre specialità mediche si è al di sotto del 20 per cento.
In 200 strutture (su un totale di 285) è praticata la contenzione
Ma c’è anche chi mette in atto i principi della legge-Basaglia

Com’è lo stato delle strutture di psichiatria per pazienti acuti in Italia? L’Istituto Superiore di Sanità e il Dipartimento di salute mentale di Trieste qualche anno fa hanno coordinato uno studio a cui hanno aderito tutte le regioni (con la sola esclusione della Sicilia) con lo scopo di disegnare un quadro della situazione.
La prima cosa che salta agli occhi è il peso del privato: il 54,2 per cento dei posti letto in psichiatria si trova nelle strutture private. Una percentuale molto alta che rappresenta un’anomalia nella sanità italiana visto che, per quanto riguarda le altre specialità mediche, la percentuale di posti letto privati è solo del 19,5 per cento. E c’è un altro dato su cui riflettere: nelle strutture private, inoltre, il ricovero dura tre volte di più rispetto alle strutture pubbliche.
I Servizi psichiatrici diagnosi e cura pubblici sono situati spesso in strutture inadeguate: oltre il 3 per cento si trova in seminterrati, uno su tre non ha uno spazio all’aperto per i ricoverati e circa la metà non ha una sala comune. Alcuni non hanno neppure una sala per le attività cliniche o gli incontri con i familiari.
Nell’80 per cento dei casi, i Servizi diagnosi e cura visitati avevano la porta d’ingresso chiusa: è il dato più alto in Europa. Nelle strutture pubbliche vengono ricoverati soprattutto uomini abbastanza giovani, mentre in quelle private i ricoverati sono per lo più donne anziane.
Ma la cosa più grave è che in molti di questi luoghi i pazienti vengono ancora legati ai letti. In 200 Servizi di diagnosi e cura (su un totale di 285) si dichiara di attuare la contenzione meccanica e di usare un camerino di isolamento. Visto che i rimanenti 85 Servizi dichiarano di non ricorrere mai alla contenzione, se ne deduce che si tratta di maltrattamenti evitabili.
«Nei tre giorni fissati per la rilevazione sul campo, in 3 su 10 delle strutture visitate - si legge in uno dei resoconti - c’era almeno una persona legata. Fino a 4 contemporaneamente in alcuni. Gli uomini molto di più che le donne, gli immigrati più dei locali. In uno a essere legata era una ragazzina di 14 anni. Nei reparti di neuropsichiatria infantile, in civilissime città (a Monza come a Torino, per esempio), bambini tra i 9 e 14 anni vengono legati al letto e trattati con dosi “eroiche” di psicofarmaci. Malgrado la disponibilità ormai diffusissima di educatori, accompagnatori, volontari. Soltanto negli ultimi due anni almeno 5 persone sono morte legate ai letti a causa dell’immobilità dovuta alla contenzione e delle dosi massicce di psicofarmaci. In ricche, civili e insospettabili città, al sud come al nord».
Ci sono i casi-limite come quello dell’istituto Giovanni XXIII di Serra d’Aiello in Calabria gestito da religiosi dove, nel 2007, Finanza e Carabinieri hanno trovato un inferno fatto di sporcizia, degrado e dolore per 300 ricoverati. Ma quante sono le situazioni simili ancora sommerse e che non riescono ad emergere?
Ma poiché l’Italia è il paese delle contraddizioni, accanto a queste tragedie, si trovano esempi positivi che sono diventati dei modelli a livello internazionale. Uno di questi è il Dipartimento di salute mentale di Trieste, centro collaboratore dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. A Trieste nel 1971 Franco Basaglia assunse la direzione dell’ospedale psichiatrico e qui è cominciato il processo di smantellamento del manicomio e della sua sostituzione con i servizi territoriali che oggi è diventato un obiettivo mondiale secondo l’Oms. La legge 180 è del 1978 ed è frutto anche di quello che avvenne a Trieste negli anni precedenti. Dal 1980 l’ospedale psichiatrico di Trieste è definitivamente chiuso, ma il lavoro cominciato da Basaglia continua nel Dipartimento di salute mentale della città.
Dimenticate i muri scrostati e le sedie di ferro. Qui ci sono pareti fiorite, tavoli semplici ma di design, poltrone bianche, una cucina in acciaio, una sala cinema con il soffitto in legno, camere con uno o due letti, ognuno dotato di un comodino e un armadietto, dove, chi vuole, può rimanere a dormire o può riposare anche durante il giorno. Tutto come in una vera casa. Una casa bella e semplice. Ma il Csm da solo non basta. I dipartimenti di salute mentale infatti hanno al loro interno un Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura (Spdc), che si trova nell’ospedale ed è il luogo dove vengono ricoverati i pazienti dal pronto soccorso psichiatrico e dove vanno i trattamenti sanitari obbligatori. A Trieste questo servizio ha solo 6 posti letto, «ma funziona la rete territoriale» commenta Dell’Acqua. Qui da 35 anni non si lega più nessuno, ma altrove non è così: «Da un’indagine dell’Istituto superiore di sanità - ci spiega Dell’Acqua - in 6 Spdc italiani su 10 si usa ancora la contenzione, almeno in modo sporadico».
Nella rete territoriale c’è poi la terza gamba del dipartimento: il Servizio abilitazione e residenze. Il suo compito è quello di coordinare le strutture residenziali (dove vivono le persone che non possono rimanere nella casa di famiglia) e le attività riabilitative. In città ci sono 6 strutture residenziali con 40 posti e un centro diurno con 6 laboratori. Nel centro diurno hanno la loro sede le cooperative sociali all’interno delle quali lavorano la persone con disagio mentale. Si occupano di sartoria, edilizia, pulizie, giardinaggio, ristorazione, piccola editoria. I laboratori fanno corsi di arti visive, musica, tessuti.
Il modello triestino ha avuto molti riconoscimenti. L’Oms ha indicato il dipartimento triestino come centro per la formazione dei «mental health center community based» in Europa. E tuttavia, sono in molti ad osteggiarlo. Recentemente il suo operato è stato oggetto di un attacco da parte del quotidiano Libero e di una interrogazione di Paolo Guzzanti al ministro Sacconi in cui si accusa gli psichiatri di Trieste di «atteggiamenti disumani» e si chiede con urgenza di modificare la legge 180 (Guzzanti, peraltro, è firmatario di una delle proposte di legge di riforma).
Peppe Dell’Acqua è preoccupato. Da che? «Da una psichiatria che vede solo malattia, che fonda la sua credibilità sulla promessa della sicurezza e dell’ordine, sull’industria del farmaco. Questa psichiatria è tornata nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura ospedalieri blindati, nelle affollate e immobili strutture residenziali, nei Centri di salute mentale vuoti e ridotti a miseri ambulatori. Non a caso le ultime proposte di modifica della legge 180 si muovono in questa direzione. Propongono adeguate strutture di cura «ad alta protezione» e procedura più restrittive, più rapide e meno garantite di obbligatorietà alla cura». Ma questo non lo vogliono neppure i familiari. L’Unasam, che rappresenta oltre 150 associazioni di familiari, nella home page del suo sito ha scritto a chiare lettere cosa vogliono e cosa non vogliono. Nel primo elenco troviamo: un’assistenza adeguata sia in fase di cronicità sia in quelle di emergenza; la riabilitazione psicosociale continuativa, cioè abitativa, lavorativa e con servizi di supporto; la chiusura definitiva degli ultimi ospedali psichiatrici. Tra le cose che non vogliono: una situazione logora, in cui buone leggi rimangono inapplicate; i malati abbandonati con le loro famiglie; le strutture neomanicomiali nelle quali si entra per non uscire più; una università vecchia, ferma nel passato, che continua a sfornare giovani psichiatri su modelli ormai desueti e criticabili, trascurando la nuova psichiatria di comunità.

l’Unità 10.4.09
Luogo aperto a tutti, il modello di Trieste
di Cristiana Pulcinelli


Oggi di Centri di salute mentale aperti 24 ore al giorno per 7 giorni ce ne sono 4 a Trieste, 13 in tutto il Friuli Venezia Giulia, ma il progetto è quello di arrivare a 20. Funzionano? Un metodo per valutarlo è quello di contare i Trattamenti sanitari obbligatori (Tso). «A Trieste –spiega Dell’Acqua- abbiamo 7 Tso ogni 100mila abitanti, in Italia la media è di 24 ogni 100mila abitanti». Avere un Csm aperto sempre vuol dire dover ricorrere di meno all’ospedalizzazione coatta. In Italia i Csm di quel tipo non sono più di una ventina. Perché? La prima spiegazione è che la legge 180 non dà indicazioni su come organizzare l’assistenza. L’unica cosa che viene regolamentata dalla 180 è il Tso, il ricovero contro la volontà del paziente. Per il resto, è demandato alle regioni. E ogni regione opera in modo diverso.

Da un padiglione dell’ex ospedale psichiatrico di Trieste trasmette «Radio Fragola». È una radio comunitaria, ovvero una radio senza scopo di lucro, gestita da una cooperativa che al suo interno ha una quota di soci provenienti dal disagio psichico. Le sue trasmissioni coprono via etere l’area triestina, ma in streaming si possono sentire da tutt’Italia (www.radiofragola.com). La redazione è formata da professionisti, ma i programmi di intrattenimento musicale vengono gestiti da volontari la cui età va dai 14 ai 70 anni. Qui si fa anche formazione alle persone che provengono dal disagio psichico e vogliono fare per un periodo questa esperienza lavorativa.

Peppe, dobbiamo andare in America». «A che fare, Mauro?». «A levarci l’età». «Quanto costa?». «Un milione di dollari». «Ma io non ce li ho tutti ’sti soldi. Senti a me, Mauro, l’unico modo per levarti l’età è goderti la vita di più». «Non posso, Peppe». Quando Mauro dice «non posso», lascia trasparire un mondo di sofferenza che Peppe conosce e noi possiamo solo intuire.
Peppe è lo psichiatra, Mauro il matto. Ma quando si incontrano nel corridoio di uno dei padiglioni dell’ex ospedale psichiatrico San Giovanni di Trieste sono solo due vecchi amici. Si conoscono dai primi anni Settanta, quando entrambi avevano poco più di vent’anni. Peppe era appena laureato e arrivava da Salerno accolto da Basaglia che stava radunando attorno a sé giovani psichiatri. Mauro aveva avuto le sue prime crisi. Oggi, Peppe è il direttore del dipartimento di salute mentale della città e Mauro fa il custode in una delle strutture del dipartimento.
Con Peppe Dell’Acqua, ci incontriamo al Posto delle fragole, un piccolo ristorante all’interno dell’ex manicomio. Un luogo bellissimo in cima a una collina, circondato da un meraviglioso parco dove sorgono le palazzine che un tempo ospitavano i malati, divisi in categorie precise: i sudici, i violenti, gli incontinenti. Il ristorante è gestito da una cooperativa di tipo B, ovvero all’interno della quale ci deve essere il 30% di persone svantaggiate, e propone dei piatti deliziosi.
«L’anno scorso il manicomio di Trieste ha compiuto cento anni - racconta Dell’Acqua - È nato sul modello austriaco: una cittadella separata dal resto del mondo, luogo di cura e di reclusione». Prima ancora che fosse approvata la riforma psichiatrica e cominciasse lo smantellamento dei manicomi, qui a Trieste si cominciò a pensare a luoghi di cura diversi. Si ipotizzò che questi luoghi dovessero essere inseriti nella città, ma dovessero anche essere aperti sempre: giorno e notte, giorni feriali e domeniche. «Trent’anni fa ci inventammo questa macchina da corsa: un Centro di Salute Mentale aperto 24 ore su 24 e 7 giorni su 7. E ancora oggi credo sia uno strumento potente», racconta Franco Rotelli, psichiatra e oggi direttore della Asl durante la presentazione di una mostra sui progetti architettonici per i Csm. «Quando a Barcola, uno dei quartieri bene della città, si propose di aprire la prima struttura di questo genere nel 1976 la popolazione era spaventata - continua Rotelli - poi organizzammo un’assemblea pubblica dove spiegammo le nostre ragioni e i cittadini capirono». L’idea era quella di costruire un luogo aperto, di coinvolgimento. Un luogo dove chiunque fosse invitato ad entrare, dove le porte fossero aperte anche la notte. L’esatto opposto del manicomio.
«Certo, una struttura di questo tipo costa - spiega Dell’Acqua - ci vuole più personale e attenzione ai luoghi: l’architettura, i mobili». Siamo andati a visitare un Csm a Trieste, anzi due: il vecchio, che stava per essere smantellato, e il nuovo, che lo stava per sostituire.

l’Unità 10.4.09
La fede über alles
Anatema del papa su Nietzsche «Troppo libero»
Ratzinger ai sacerdoti Ieri in un’omelia ha lanciato un atto d’accusa contro il filosofo tedesco, la sua «superbia distruttiva» e la sua «presunzione che finiscono nella violenza». Lo avrà letto sul serio?
di Bruno Gravagnuolo


C’è ragione e ragione. La scienza ce l’ha «piccola»
«Nell’ultimo decennio, la resistenza della creazione a farsi manipolare dall’uomo si è manifestata come elemento di novità nella situazione culturale complessiva. La domanda circa i limiti della scienza e i criteri cui essa deve attenersi si è fatta inevitabile»: Ratzinger nel ’92. Da Papa non ha cambiato idea: la fede è più verità della scienza

Galileo? «La sentenza della Chiesa fu giusta»
L’anno scorso il Papa, usando erroneamente una frase del filosofo agnostico-scettico Feyerabend scrisse nel discorso che avrebbe dovuto tenere alla Sapienza di Roma: «La sua (della Chiesa, ndr) sentenza contro Galileo fu razionale e giusta, e solo per motivi di opportunità politica se ne può legittimare la revisione».

L’evoluzionismo ha una «razionalità ridotta»
Conferenza di Ratisbona, 2006. Il Papa distingue tra «ragione ristretta» tipica della scienza e «ragione estesa» che coincide con la fede. Alla luce della ragione estesa, il darwinismo diventa dotato di una razionalità inferiore. Il Papa ha aperto quindi un conflitto non tra scienza e fede ma tra due razionalità di rango diverso.

Tutta colpa di Nietzsche. E non solo la crisi delle vocazioni, il rifiuto dell’obbedienza, e della parola di Dio. Ma anche l’omologazione delle coscienze, figlia della «superficialità di tutto ciò che di solito si impone all’uomo di oggi». E tutta colpa di Nietzsche pure «la superbia distruttiva e la presunzione, che disgregano ogni comunità e finiscono nella violenza». Insomma, atto d’accusa globale contro il filosofo tedesco, quello pronunciato ieri da Papa Ratzinger, in occasione della «messa crismale», durante la quale si benedicono gli olii santi prima della Pasqua. Un’accusa esplosa in un’omelia dedicata ai sacerdoti delle Diocesi di Roma, e riuniti in San Pietro. E con toni e accenti davvero inconsueti in un Pontefice. Almeno dai tempi in cui nel Sillabo Pio IX condannava liberalismo e ideologie democratiche e socialiste, come fomite dei mali assoluti di quel tempo.
In realtà mai in passato un Papa si era scagliato con tanta foga contro un solo filosofo, fatto responsabile di tutte le nequizie dell’umanità contemporanea. Come se il filosofo dell’Eterno Ritorno fosse lui stesso, e in prima persona, una sorta di incarnazione del diavolo, e della superbia tentatrice e luciferina che ne caratterizza l’ombra distruttiva all’opera.
Quindi, valore paradigmatico per il Papa delle idee nietzscheane in ordine al fondamento del «male». E inserite in quanto tali in un ragionamento etico e teologico ben preciso. Che mette al centro due colpe ben precise del filosofo: l’aver «dileggiato l’umiltà e l’obbedienza come virtù servili, mediante le quali gli uomini sarebbero stati repressi». E l’aver «messo al loro posto la fierezza e la libertà assoluta dell’uomo». Di qui appunto il rifiuto del’Autorità e la violenza distruttiva connesse alla presunzione di un «volere autonomo», svincolato dala fede. E di qui il mito dell’«autorealizzazione», che rifiuta la vera «verità del nostro essere», ovvero «la retta umiltà che si sotomette a Dio». Certo ammette il Papa - con riferimento alla critica nietzscheana dello zelo virtuoso - esistono anche «caricature di una sottomissione e di una umiltà sbagliata». Ma il rischio più grave per il Pontefice teologo restano la ribellione e la presunzione. Nonché il rifiuto dei «sacrifici» che ci rendono amici di Cristo e che a Lui consacrano la nostra esistenza. Una esistenza che è davvero consacrata, aggiunge il Papa, proprio quando essa è rescissa da «connessioni mondane», come nel sacerdozio obbediente. Che ben per questo può poi diventare «disponibile per gli altri».
Toni demonizzanti, lo abbiamo detto, ma che rivelano altresì molte cose. In primo ruolo il rifiuto da parte di questo Papa di riconoscere dignità autonoma al valore della libera coscienza e della libera indagine a partire dalla «soggettività», moderna o premoderna. Un atteggiamento in flagrante contraddizione sia con l’etica «rischiosa» di Agostino, che prescriveva la ricerca del vero in interiore homine. Sia con quella kantiana, basata sull’autonomia della «ragione pratica», e coincidente con il «regno dei fini», senza necessariamente vederselo prescritto dalle norme positive racchiuse nella fede rivelata. Non parliamo poi del «libero esame luterano» e della «giustificazione individuale per fede e non per le opere». Dimensioni che questo Pontefice evidentemente respinge, e che stante il suo rifiuto programmatico del «dialogo», non riesce a includere nemmeno dentro il semplice ascolto «inter-confessionale».
Paradossalmente, è proprio il principio della libertà interiore - seme germogliato dal cristianesimo stesso e secolarizzatosi nella modernità - ciò che questo Papa rifiuta. A meno che esso non sia inserito dentro il «crisma» dell’Autocritas e delle Chiavi di Pietro - dalla Chiesa detenute. Tutto il resto è relativismo, presunzione. E infine violenza distruttiva. Come tali frutto dell’indebita autonomia della ragione, che lasciata a sé è male. È il Male. E Nietzsche? Senza dubbio nella sua radicalità libertaria si presta a meraviglia all’intemerata papale. Salvo che la sua «recezione» da parte di Ratzinger è banale e orecchiata. Non è fondata sui testi, e corrisponde piattamente alle interpretazioni più logore dei fascismi e del marxismo-stalinismo. Le prime persuase di trovare nel filosofo un anticipatore della volontà di potenza etnica e imperiale (il Nietzsche riscritto dalla sorella reazionaria e «nordificato» dai nazisti). Le seconde convinte di aver scoperto nel filosofo il volto della «borghesia irrazionalista» nell’epoca dell’«Imperialismo fase suprema del capitalismo». Interpretazione questa avallata oggi da Ernst Nolte, che vede nel Superuomo la rivolta del borghese tedesco minacciato di annientamento da parte socialista e comunista. Il vero Nietzsche? Fragile, problematico, a modo suo disperato. E in certo senso cristiano, come scrisse con acume Karl Jaspers, capace di scoprire in lui una radicalità etica volta a liberare l’uomo dalle illusioni che lo rendono ipocrita e violento, magari con la scusa di fedi e ideologie. Nietzsche perciò dai mille volti ma teso alla gioia del conoscere (Gaia Scienza). Alla «pienezza del dare» e al grande stile estetico che fa del mondo un giardino. E Nietzsche che scrive: «Dove si dice “ama il prossimo” tuo c’è sempre qualcuno che è escluso da quell’amore, un lontano. Ecco, io amo quel lontano». Già, tra Nietzsche e Cristo ci sono forse più cose in comune che questo Papa non immagini. A leggerlo sul serio.

La gaia fede di Nietzsche:
«La nascita della tragedia dallo spirito della musica» (1872); «Considerazioni inattuali» (1873-76); «Umano troppo umano» (1878); «Aurora» (1881); «La gaia scienza» (1882); «Così parlò Zarathustra» (1883); «Al di là del bene e del male» (1886); «L’anticristo», «Ecce Homo» (postumi). Tutti nell’edizione Adelphi, a cura di Colli-Montinari.
Alcuni testi base per capire:
Su Nietzsche si vedano almeno Gilles Deleuze, «Nietzsche e la filosofia» (Einaudi, 2002); Martin Heidegger, «Nietzsche» (1961, Adelphi); Karl Jaspers, «Nietzsche» (1936, Mursia); Gianni Vattimo, «Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione» (1974, Bompiani).

Repubblica 10.4.09
Contro Nietzsche
L’accusa del papa al filosofo nichilista
di Franco Volpi


I mali che secondo Ratzinger risalgono al filosofo tedesco, dalla violenza al relativismo

Durante la messa del giovedì santo Benedetto XVI ne richiama la figura: "il suo pensiero ha dileggiato l´umiltà e l´obbedienza"
Il suo pensiero è stato considerato una fonte di ispirazione per l´ideologia nazista
Molti stereotipi, tra cui l´idea della morte di Dio hanno condizionato il pensiero
Un tragico osservatore del vuoto spirituale in cui versa il mondo moderno

Povero Nietzsche! È stato l´unico filosofo a cui è toccato il singolare privilegio di essere considerato responsabile niente meno che di una guerra mondiale. Durante il conflitto del 1914-1918 in una libreria di Piccadilly erano esposti in vetrina i diciotto volumi delle sue opere complete in inglese, con una scritta a lettere cubitali: The Euro-Nietzschean-War: leggete il diavolo per poterlo combattere meglio!
Poi venne il nazionalsocialismo, e alcune sue dottrine - il superuomo nel senso della selezione biologica, la volontà di potenza, l´antropologia dell´animale da preda e della bestia bionda - furono considerate alla stregua di una fonte di ispirazione dell´ideologia razzista e del totalitarismo.
Più tardi, dato che egli diagnostica alcune esperienze negative del Novecento come la «morte di Dio», la decadenza dei valori tradizionali o l´avvento del nichilismo, si è prodotto un singolare transfert: si è scambiato il suo pensiero per la causa della crisi che esso in realtà voleva solo analizzare e superare. Nietzsche è diventato allora il distruttore della ragione, il maestro dell´irrazionale, il teorizzatore del nichilismo e del relativismo.
Tutti questi stereotipi hanno fortemente condizionato la sua immagine e la sua fortuna. E per questo egli ha suscitato entusiasmi e attirato anatemi, ha ispirato movimenti di avanguardia, mode culturali e stili di pensiero, ma anche provocato reazioni e rifiuti altrettanto risoluti. Ovviamente anche da parte cattolica.
Benché autorevoli interpreti - padre Paul Valadier, per esempio, o il teologo Eugen Biser - abbiano cercato di mostrare il contrario, non c´è dubbio che tra alcune dottrine nicciane e altrettanti insegnamenti fondamentali del cristianesimo ci sia una profonda incompatibilità. Non stupisce perciò che il Papa consideri Nietzsche un cattivo maestro, e che riconduca alla sua filosofia alcuni mali del mondo contemporaneo. Negli ultimi anni egli non si è stancato di denunciare il pericolo del relativismo e del nichilismo, fomentato da Nietzsche. Adesso, nel criticare l´ideale di umanità predominante nel mondo attuale, basato sul valore dell´autoaffermazione individuale, egoistica e libertaria, ricorda la responsabilità di Nietzsche: «Egli ha dileggiato l´umiltà e l´obbedienza come virtù servili, mediante le quali gli uomini sarebbero stati repressi, e ha messo al loro posto la fierezza e la libertà assoluta dell´uomo».
Ora, al di là del fatto che l´opera di Nietzsche è un autentico puzzle, un subisso di frammenti e aforismi la cui combinazione in una dottrina d´insieme è tutt´altro che assodata, sarebbe un peccato non approfondire gli spunti che vengono da queste critiche con qualche domanda. Ed è meglio prendere Nietzsche non per le risposte che dà, ma per le domande che pone.
Primo: dopo che la storia ci ha insegnato che spesso il possesso della Verità produce fanatismo, e che un individuo armato di verità è un potenziale terrorista, vien fatto di chiedere: il relativismo e il nichilismo sono davvero quel male radicale che si vuol far credere? O essi non producono forse anche la consapevolezza della relatività di ogni punto di vista, quindi anche di ogni religione? E allora non veicolano forse il rispetto del punto di vista dell´altro e dunque il valore fondamentale della tolleranza? C´è del bello anche nel relativismo e nel nichilismo: inibiscono il fanatismo.
Quanto poi alla concezione dell´uomo aristocratica e libertaria, anche qui sarebbe un peccato limitarsi alla superficie dei singoli aforismi di Nietzsche. Sarebbe come, in un quadro pointilliste, vedere solo i tocchi cromatici e non l´insieme della pittura. Ebbene, da tragico osservatore del vuoto spirituale in cui versa il mondo moderno, Nietzsche non vuole essere un «predicatore di morte». Non intende adagiarsi nella negazione dei valori e nel cupio dissolvi. Al contrario, vuole superare il nichilismo: vuole far sì che esso si compia in modo da «averlo dietro di sé, sotto di sé, fuori di sé». A tal fine auspica un contro-movimento da cui nascano nuovi valori, e lo individua nella creatività dionisiaca dell´arte.
La sua critica della mentalità e della morale «del gregge», la sua difesa di quello che potremmo definire un «diritto all´eccellenza», è un tentativo di superare la sterilità della semplice proibizione, dell´abnegazione e della rinuncia, che mortificano la vita. Nietzsche vuole che la vita si realizzi in tutte le sue potenzialità. E consiglia perciò un atteggiamento «creativo» che dia alla vita tutta la sua pienezza, analogo a quello dell´artista che imprime alla sua opera una forma bella. In tal senso la sua nuova morale è una sorta di «estetica dell´esistenza» il cui imperativo raccomanda: «Diventa quello che sei!» E anche se la vita non è bella, sta a noi cercare di renderla tale.
Uno dei problemi della Chiesa attuale è che la produzione della felicità le è sfuggita di mano. Ma non è colpa di Nietzsche se la forza dei Vangeli svanisce e la condizione dell´uomo occidentale è sempre più paganizzata.

Corriere della Sera 10.4.09
Cacciari critico, Reale approva. Vattimo: un cristiano inconsapevole. Severino: nega l’eterno
Il Papa e Nietzsche, duello tedesco
«Libertà assoluta» e «dileggio dell’umiltà»: Ratzinger contesta il filosofo
di Gian Guido Vecchi


«Via sulle navi, filosofi!», escla­ma ne La gaia scienza. E inAu­rora: «E dove dunque voglia­mo arrivare? Al di là del ma­re? ». Nietzsche e l’idea di libertà. Dell’andare ol­tre ogni «miserevole ricetto». Un pensiero che ha una responsabilità grande, riflette Benedet­to XVI citando — come già nell’enciclica Deus Caritas est — il filosofo suo compatriota: «Frie­drich Nietzsche ha dileggiato l’umiltà e l’obbe­dienza come virtù servili, mediante le quali gli uomini sarebbero stati repressi. Ha messo al lo­ro posto la fierezza e la libertà assoluta dell’uo­mo ».

Parole tanto più significative se si considera che il Papa, ieri mattina nella Basilica di San Pie­tro, parlava ai sacerdoti durante la Messa cri­smale: davanti a cardinali, vescovi e presbiteri che «rinnovano le promesse» prima delle cele­brazioni di Pasqua. Un’omelia raffinata sul sen­so della «consacrazione» come «sacrificio» di sé, un «togliere dal mondo e consegnare a Dio» che per i sacerdoti «non è una segregazione» ma un donarsi a tutti, come Gesù «sacerdote e vittima» che «si consegna al Padre per noi» e prega per i discepoli: «Consacrali nella verità». È a questo punto che Benedetto XVI ha alzato lo sguardo: «Come stanno le cose nella nostra vi­ta? Siamo veramente pervasi dalla parola di Dio? O non è piuttosto che il nostro pensiero sempre di nuovo si modella con tutto ciò che si dice e che si fa? Non sono forse assai spesso le opinioni predominanti i criteri secondo cui ci misuriamo?». Di qui il riferimento a Nietzsche e al dileggio dell’umiltà in favore della libertà assoluta. Il Papa chiede di «imparare da Cristo la retta umiltà», non certo «una sottomissione sbagliata, che non vogliamo imitare». E vede un pericolo: «Esiste anche la superbia distrutti­va e la presunzione, che disgregano ogni comu­nità e finiscono nella violenza».

Problema: le cose stanno così? E fino a che punto Nietzsche ne sarebbe responsabile? «Il Papa ha perfettamente ragione nel prendersela con le libertà assolute e le fierezze virili, ma te­mo che la sua lettura di Nietzsche risenta di un’interpretazione vecchia», commenta Massi­mo Cacciari, autore di un saggio sul «Gesù di Nietzsche», un tema che compare anche nella sua opera più recente, Della cosa ultima. «La libertà di Nietzsche è problematica, non è quel­la dei moderni che anzi critica: la sua è una vi­sione presente in Schelling che sarà ripresa da Heidegger, la libertà non come qualcosa che 'tu hai' ma che 'ti ha'». Ma non basta: «Lo Za­rathustra ha pagine in cui indica nella figura dell’Oltreuomo la capacità di donare tutto, di non tenere nulla per sé: amo coloro che sanno tramontare, dice. Ci sono passi in cui l’affinità tra Oltreuomo e Gesù è fortissima. Del resto la polemica di Nietzsche contro il cristianesimo è rivolta alla teologia paolina, peraltro fraintesa, e non alla figura sinottica di Gesù». Secondo Cacciari, insomma, «la grandezza di un filosofo imprescindibile per la contemporaneità an­drebbe compresa in tutta la sua complessità, al­trimenti la polemica danneggia la stessa predi­cazione come capacità di assimilare a sé le voci discordanti. Gesù andava da coloro che lo ris­pecchiavano, era un narciso? O invece si rivolge­va ai pubblicani, al centurione? 'Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!'. Perché la Chiesa non si sforza di fare lo stesso con Nietzsche e la cultura contempora­nea? ».

Emanuele Severino, che al filosofo tedesco ha dedicato L’anello del ritorno, sorride: «Ai cat­tolici dico sempre che con l’inevitabilità di que­sti pensieri bisogna fare seriamente i conti». Dal suo punto di vista, capisce il Papa: «Per la tradizione al centro della verità c’è Dio mentre Nietzsche, preceduto da Leopardi, mostra l’im­possibilità di ogni eterno e di ogni divino. Con­seguenza necessaria è la negazione di ogni 'umiltà' rispetto al divino. E l’esaltazione di li­bertà e fierezza». Questo però non c’entra con le idee correnti: «La libertà di Nietzsche presup­pone si sappia perché 'Dio è morto'. L’ateismo, il relativismo, l’indifferentismo sono essi stessi superficiali e dogmatici, non hanno nulla a che fare con la radicalità di quel pensiero. Ci vuole ben altro per arrivare a Nietzsche e a Cristo!».

In tutto questo, uno studioso nietzschiano come Gianni Vattimo riconosce a Benedetto XVI di «aver ragione sul dileggio dell’obbedien­za », ma non sull’umiltà: «Nietzsche è un cristia­no inconsapevole, o che non voleva riconosce­re di esserlo: un po’ per via del padre pastore protestante e un po’ perché amava il Vangelo ma non la struttura gerarchica della Chiesa, co­me me. Penso alle tre metamorfosi che aprono lo Zarathustra: lo spirito da cammello si fa leo­ne e si rivolta alle autorità, ma alla fine si muta in fanciullo, 'occorre un sacro dire di sì'. E non era Gesù a dire che dobbiamo diventare come fanciulli?». Sarà, ma il filosofo cattolico Giovan­ni Reale non è convinto: «Nietzsche ha scritto cose molto belle e cose terribili. Ciò che presen­tava come una conquista si è rivelato terribile, Benedetto XVI ha ragione. La libertà assoluta al­la fine l’abbiamo avuta. Però, come diceva Bau­man, ci è arrivata con il cartellino del prezzo, un prezzo salatissimo: l’egoismo, la solitudi­ne ». Non è un caso che il Papa si sia rivolto ai sacerdoti: «Loro hanno la responsabilità di dire la Parola. Io non mi capacitavo: perché Gesù non ha lasciato nulla di scritto? L’ho capito gra­zie a Platone, al finale del Fedro: la verità non si scrive sui rotoli di carta ma nel cuore degli uo­mini».

Repubblica 10.4.09
Intervista su MicroMega
Englaro e 17 anni di battaglie "Così ho cancellato una barbarie"


L´intervista sul numero in edicola da oggi, dedicato ai temi del testamento biologico

ROMA - «Una medicina che non cura, una rianimazione che rianima a metà, una società che ti suggerisce, sottovoce, �portatela a casa, e lì... ´. E lì, cosa? Per me quell´idea di portarmela a casa allo scopo di lasciarla andare era una barbarie. La medicina aveva creato quella situazione e ora se ne lavava le mani... Ora qualcuno mi dice che ho vinto. Mi fa ridere. Ma che cosa ho vinto?».
Beppino Englaro parla, racconta, ricorda 17 anni di vita, di lotte per fare valere la volontà di sua figlia Eluana. La sua è una delle lunghe, sofferte, dense, lucide, testimonianze raccolte da Micromega per un numero - oggi in edicola - tutto dedicato al Testamento biologico, un volume monografico sul fine vita. Un argomento che ha diviso il paese e il parlamento per mesi in un drammatico dibattito sul diritto di ognuno a decidere in prima persona sulla fine della propria esistenza.
Sono pagine, quelle di Micromega, che raccolgono le storie emblematiche di chi quelle vicende le ha vissute o condivise: da Englaro a Mina Welby, da Maria Antonietta Coscioni a Maddalena Nuvoli, dal filosofo Gianni Vattimo a Paolo di Modica, musicista malato di sclerosi laterale amiotrofica, come Luca Coscioni, che con il progressivo immobilismo della sla ha riscoperto la voglia di lottare, per non arrendersi alla malattia e alla deriva del paese in cui vive.
Accanto alle storie, l´argomento viene esaminato sotto il profilo medico-scientifico nei testi di Carlo Alberto Defanti, medico di Eluana Englaro fino alla sua morte e Gian Domenico Borasio , un palliativista che da anni si occupa del fine-vita. Del profilo giuridico si occupano Stefano Rodotà e Luca Tancredi Barone, mentre monsignor Giuseppe Casale e il teologo valdese Daniele Garrone affrontano la problematica dal punto di vista religioso. Inoltre Paolo Flores d´Arcais si confronta con Angelo Panebianco e Roberta De Monticelli dialoga con Giovanni Reale. A Micromega è allegato un dvd con una lectio magistralis sulla Costituzione tenuta dal presidente emerito della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro.

Corriere della Sera 10.4.09
La nuova Bastiglia Nelle librerie si vende il pamphlet anonimo «L’insurrection qui vient»
Quel vento che spira dalla Francia e la sinistra che incita alla rivolta
di Massimo Nava


PARIGI — «È una rivolta? No, si­re, è una rivoluzione!» dissero a Luigi XVI. Non siamo a questo pun­to, ma, nel Paese che ha nei cromo­somi i miti della Bastiglia e del Maggio Sessantotto, segnali di pro­teste esasperate e illegalità teoriz­zate (nonché comprese dalla mag­gioranza della popolazione e quin­di imitate) vanno presi sul serio. Anche perché amplificati dai gior­nali e dalle asperità del dibattito politico.

I sequestri di dirigenti d’impre­se non sono una moda, ma si ripe­tono con l’annuncio di licenzia­menti e piani di riduzione del lavo­ro. L’ultimo episodio, il sesto dall' inizio di marzo, è avvenuto ieri al­la Faurecia, una ditta di componen­ti per auto, dove tre dirigenti sono stati sequestrati per alcune ore.

L’allarme negli ambienti im­prenditoriali è alto, al punto che circolano «kit» di consigli per te­nere aperti canali di dialogo e di sopravvivenza in caso di fallimen­to delle trattative, come ad esem­pio l’inserimento di numeri utili nel telefonino e il cambio di bian­cheria in ufficio. La causa principale di queste proteste è ovviamente la crisi eco­nomica che fa lievitare il numero di disoccupati e precari e aumenta il senso di sfiducia e insicurezza, essendo i margini di trattative mol­to ristretti. Almeno per ora, le con­clusioni del G20 e il messaggio di rifondazione del capitalismo non sono antidoti sufficienti.

A questo si aggiungono specifi­cità francesi. In primo luogo, la dif­ficoltà strutturale dei sindacati che, soprattutto in ambito priva­to, controllano pochi iscritti e su­biscono l’emorragia di organizza­zioni più radicali.

La rabbia sociale si nutre di un «esprit» anticapitalista che soprav­vive in parte della cultura della si­nistra. «L’insurrection qui vient» è un pamphlet anonimo proposto con successo nelle librerie.

L’arroganza di alcuni patrons e lo scandalo di liquidazioni d’oro e stock options milionarie ha ali­mentato il senso di rivolta e fru­strazione. Olivier Besancenot, il giovane portalettere alla guida del Nuovo partito anticapitalista, cre­sce nei sondaggi, fa il pieno d’ascolti in televisione e imbaraz­za la sinistra tradizionale: Martine Aubry e Ségolène Royal hanno condannato l'«illegalità», ma mo­strano di comprenderla con il lin­guaggio di Besancenot, denun­ciando «violenza sociale» e «senti­menti d'ingiustizia, inquietudine, esasperazione».

Il presidente Sarkozy è ondiva­go. Qualche storico lo ha paragona­to a Napoleone III nel tentativo conciliare ordine, populismo e giu­stizia sociale. E' stato il primo a de­nunciare l'immoralità di alcuni pa­droni, ha condannato i sequestri, ma ha invitato all’Eliseo i seque­stratori, impegnandosi a fare il pos­sibile per garantire posti di lavoro. L’invito, tra parentesi, è stato re­spinto al mittente: venga lui in azienda, gli hanno mandato a dire. Se ciò che avviene nelle fabbri­che si somma alla paralisi delle uni­versità — con molte facoltà occu­pate, qualche caso di presidi seque­strati, il boicottaggio delle giurie d’esame e anno accademico in peri­colo — si capisce che il clima si è pesantemente invelenito. Anche in questo ambito non mancano le condanne del governo, ma i mini­stri nel mirino (Xavier Dercos, Istruzione, e Valerie Pecresse, Uni­versità) tirano il freno a mano sul­l’attuazione delle riforme.

La propensione francese ad at­teggiamenti di rivolta e disobbe­dienza estrema è confermata dal­l’autodenuncia di migliaia di citta­dini che hanno dichiarato di aver aiutato immigrati clandestini. Tut­ti emuli di un eroe del cinema, Vin­cent Lindon, protagonista di Wel­come, storia strappalacrime di un rifugiato curdo aiutato ad attraver­sare la Manica. Il film accusa la Francia di essere sempre meno ter­ra d'asilo e patria dei diritti dell’uo­mo. Inevitabili le polemiche.

Nella Francia in subbuglio, non poteva mancare l'attacco ai simbo­li: bloccata dai cassieri anche la Tour Eiffel, nel giorno in cui il grande chef Ducasse voleva inau­gurare il ristorante panoramico. Prezzi da giustizia sociale, ma solo fino alle sei di sera.

giovedì 9 aprile 2009

l’Unità 9.4.09
«Non vanno eluse le domande dei bimbi»
Trauma da sisma come da bombardamento
«Ci vuole tempo, non bisogna far finta di niente»
Intervista a Luigi Cancrini di Federica Fantozzi


Professor Luigi Cancrini, cosa sta succedendo con i bambini coinvolti nel terremoto?
«Un numero importante di piccoli traumatizzati ma non feriti è seguito dai servizi territoriali tra Pescara e Teramo. I casi sentiti più gravi sono stati trasportati a Roma in elicottero e appoggiati al Gemelli e al Bambin Gesù, dotati di rianimazione pediatrica».
Come ci si relaziona con loro? Come reagiscono?
«Esiste un modello di intervento terapeutico moderno: quello realizzato dal gruppo di Anna Freud a Londra sotto le bombe tedesche. Gli orfani furono ospitati a casa, ricevendo cure e sostegno. Il lavoro per riconnetterli alle famiglie dopo aver costruito relazioni terapeutiche con loro in questo “asilo” resta un sistema di organizzazione del lavoro valido. Un sisma è il contesto più simile a un bombardamento».
Cosa si impara?
«Quanto ogni bambino sia diverso dall’altro e la strategia di ascolto debba tenerne conto. Qui a Roma sono arrivati due bimbi molto piccoli, 2 e 5 anni, salvati dalle macerie in braccio ai genitori morti proteggendoli. Sembrano non essersi resi conto dell’accaduto, l’hanno vissuto come un’avventura. I familiari avranno bisogno di sostegno per aiutarli nel tempo a capire».
Altri modi di reagire?
«Bimbi più grandi sono rimasti come paralizzati, muti di fronte all’immensità inaccettabile di quanto hanno visto. Occorre assicurare una presenza discreta ma costante in attesa che vengano fuori lacrime e domande».
Qual è l’età più critica?
«9-10 anni. A 13-15 la rete amicale rende le cose più facili».
Quali gli errori da evitare?
«Eludere le domande. Bisogna rispondere a tutte. A un piccolo dire. tua mamma è molto lontana, spero che torni. A uno di 10 anni: tua mamma non c’è più, ti guarda dal cielo. Franchezza e chiarezza li aiutano più del tentativo di proteggerli dalla conoscenza della realtà. Del resto, finché non sono pronti i bambini non chiedono».
È possibile prevedere i tempi di guarigione?
«All’inizio no. Bisogna aspettare i loro tempi. La terapia è soprattutto ascolto, sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda. E tocca tocca agli adulti di riferimento. Chiaro che in presenza di un parente affettuoso, il compito principale del terapeuta è fargli passare del tempo insieme».
La tendopoli sarà un altro trauma?
«Minore. La grande lezione di Benigni, su cui bisogna sensibilizzare gli adulti, è farla diventare un grande gioco. I bambini sono adattabili, l’importante è la serenità di mamme e papà».
Il futuro è la new town lanciata da Berlusconi?
«Io sono abruzzese di provenienza, conosco la mia gente. Il senso di appartenenza e amore per i luoghi in cui si è cresciuti è importantissimo e va rispettato finché possibile».
Come ricostruire, allora?
«Utilizzando l’impianto familistico che è il cardine di quella organizzazione sociale. Appoggiarsi a casa dei parenti è normale: gente con cultura montanara e contadina cerca e offre aiuto con facilità».

Repubblica 9.4.09
L’urbanista: la città va restaurata fedelmente e con criteri antisismici. Il terremoto non può essere occasione per distruggere il territorio
Per carità, non facciamo una New L’Aquila
Bisogna utilizzare l’artigianato e non i prefabbricati. Le scosse hanno buttato giù il moderno ospedale
di Pier Luigi Cervellati


Tremendo sarebbe costruire una New L´Aquila. Si distruggerebbe per sempre la sua memoria e l´eventuale ripristino dei suoi monumenti sarebbe del tutto inutile. Privati del loro ambiente diventerebbero vuoti simulacri in mezzo alle rovine. L´Aquila, al pari degli altri centri terremotati, deve essere ricostruita fedelmente, con criteri giusti, antisismici. Cercando di mantenere il più possibile le murature esistenti, rafforzandole con trefoli in ferro o altri sistemi tecnici non invasivi. Si utilizzi l´artigianato e non le imprese di prefabbricati cementizi. Non si dimentichi che è inagibile il nuovo ospedale inaugurato pochi anni fa e sono crollati lo studentato e altri edifici moderni, con struttura in cemento armato.
Le new towns non sono un modello di ricostruzione. Si faccia il confronto fra "nuova" Coventry e la piazza di Varsavia ricostruita con l´orgoglio di riconquistare la memoria del passato. La prima è diventata omologa ad altri moderni aggregati urbani, mentre la seconda è ritornata ad esser una piazza di città. In Italia c´è la nuova e, si fa per dire, modernissima Gibellina in Sicilia e Gemona e Venzone in Friuli, tutte distrutte dai terremoti. In Friuli la ricostruzione fedele è un modello. Ha gratificato gli abitanti e ha mitigato il dolore delle perdite perché ha ristabilito l´identità dei luoghi e ha rilanciato le attività economiche. L´artigiano ha dimostrato di rappresentare una risorsa troppo presto abbandonata in nome di un´industria che non ha saputo reggere l´urto della globalizzazione.
A Gibellina il concorso di grandi artisti, di insigni maestri dell´architettura moderna ha provocato lacerazioni, violente polemiche e un risultato tutt´altro che condiviso. La vecchia città, lontana 20 chilometri dalla nuova - pur abbandonata a se stessa - per quanto insieme di ruderi fra sterpaglie, è meno desolante della nuova. Forse per il Friuli l´esempio di Longarone ha insegnato che il nuovo non restituisce l´identità perduta.
Il terremoto non deve esser l´occasione per distruggere altro territorio non urbanizzato. Aggiungendo danno alla catastrofe. Al contrario, può offrire la possibilità di ripensare l´assetto urbano e territoriale che a L´Aquila, come altrove, è caratterizzato dal consumo progressivo dell´ambiente circostante. Non c´è bisogno di una nuova città. La documentazione esistente, la sapienza del lavoro artigianale, le stesse tecniche tradizionali adeguate per impedire il rischio sismico, offrono tutte le garanzie per ripristinare, pietra su pietra, strada per strada, luogo pubblico per luogo pubblico, il fascino di una città storica che nello scenario del Gran Sasso è – e potrà tornare a essere - una fra le più suggestive del nostro straordinario Paese.
Non è il tempo per realizzare new towns. Dopo il fascismo, ahimè, non siamo più riusciti a farle. Abbiamo abbandonato o stravolto quelle vecchie nei centri storici e abbiamo consumato territorio costruendo solo periferie. Migliaia e migliaia di ettari di periferia. Il furore costruttivo può essere più dannoso di quello distruttivo del terremoto. Dal primo Paese che eravamo per presenza turistica siamo oggi al quinto. Cerchiamo di non scendere ancora. E si ricordi: senza memoria non si costruisce il presente e tanto meno il futuro. Ripristiniamo i centri storici aquilani, magari con l´aiuto di tutti, per dimostrare a tutti che il nostro Paese ha ancora un avvenire, in quanto capace di mantenere il suo patrimonio storico e artistico, conservando o ripristinando i suoi insediamenti storici, senza alterare ulteriormente un territorio/paesaggio/ambiente, unico al mondo.

l’Unità 9.4.09
La new town? Non ci interessa
In due anni la città può rinascere
intervista a Marcello Vittorini di Toni Jop


Ricostruire, costruire ex novo, dove, come. Adesso è presto per decidere, ma fra poco sarà tardi. Chiediamo lumi a Marcello Vittorini, urbanista di fama, un pezzo di cuore all’Aquila.
Con che piede bisognerebbe partire?
Prego, non con l’idea della new town, proprio non mi interessa. Bisogna ricostruire dov’era e com’era...
Bene, con quale procedura?
Si fa un attento esame degli edifici riparabili e si interviene prioritariamente su questi. Conviene renderli abitabili prima possibile, gli abitanti vanno restituiti ai loro ambienti con tempestività, sono loro che riportano la vita...
E poi?
Non poi, ma durante. Si opera come un dentista alla ricostruzione di una dentatura devastata. Una volta fissati i punti certi, gli edifici riparabili, si passa a intervenire sui vuoti ridisegnando piazze - decisive all’Aquila - e strade...
Quanto tempo sarebbe necessario per «iniettare» i primi abitanti?
Io credo che in un paio d’anni il tessuto urbano potrebbe iniziare a riprende vita...
E i materiali?
Conviene usare i materiali originari, ma posti in sicurezza, questa volta..
Niente forati?
Per carità. Sarebbe il caso di dare corpo, in Italia, ad una nuova cultura, fondata sulla manutenzione, bisognerebbe trasformare l’Italia in un immenso cantiere di manutenzione costante.

il Riformista 9.4.09
Antonio Pennacchi: «Il premier promette, sbandiera, fa vedere fotografie aeree. Ma non sa di che parla. Servono spazi vivi, non laghetti».
«Si crede Mussolini, ma allora sì che si sapevano fondare città nuove»
di Alessandro Calvi


Il presidente operaio ci ha preso gusto. E, da operaio, si è promosso a presidente fondatore. D'altra parte, il vecchio amore - il mattone - non si può dimenticare. Ed ecco servite le new town. Era dai tempi di Mussolini che un capo di governo non annunciava un programma di costruzione di città nuove, da zero. Torna a farlo ora Silvio Berlusconi. «Ma per cortesia, non bestemmiamo. Mussolini era una cosa seria», si inalbera Antonio Pennacchi. E, citando Marx, spiega: «quando la storia si ripete, si ripete come farsa».
«L'idea di fare una L'Aquila 2 mi sembra una grande fesseria», sostiene Pennacchi. E tanto dovrebbe bastare perché davvero Pennacchi è un'autorità in materia. Nella sua vita da fasciocomunista - come recita il titolo di uno dei suoi libri - ha attraversato la storia di questo paese. E il suo Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce - edito da Laterza - è un libro imprescindibile, uno di quelli - come anche Roma moderna di Italo Insolera - che, con la scusa di raccontare città, finiscono per raccontare tante storie e, in fondo, una soltanto: quella di come questo paese è diventato ciò che è oggi. Dalla lettura di quelle pagine, ciò che emerge è che le città - nuove o vecchie che siano - sono soprattutto una cosa: il popolo e le relazioni delle quali una città vive. E non si fa pregare per ripeterlo, non prima, però, di aver fatto una premessa.
«Costruire una città nuova significa costruire una città dove non c'era nulla. Durante il fascismo questo lavoro viene fatto perché, soprattutto nel centro-sud, avviene la riconquista delle grandi pianure abbandonate». Oggi, però, è diverso e «si dovrebbe scindere l'emergenza terremoto dal piano casa». Inoltre, Berlusconi parlando dell'Aquila «ne ha parlato come di una sostituzione, non come una espansione». Ieri, però, ha parlato di «case in più». «Ecco, se stanno parlando soltanto di realizzare un quartiere nuovo, non ci facciano perdere tempo». Se invece si tratta davvero di città nuove, il discorso può proseguire.
«Questo - dice riferendosi a Berlusconi - promette, sbandiera, fa vedere fotografiee aeree. E parla di new town senza neppure sapere cosa siano. Lui conosce Milano 2 - dice - ma quella è tutta un'altra cosa». «Me ne frego del laghetto e del verde se mancano le relazioni umane», prosegue. E spiega: «La qualità di un insediamento urbano non si misura solo dalla quantità di verde ma soprattutto dalla capacità che ha il manufatto di costruire relazione tra le persone».
Altro che città di fondazione, dunque. Altro che «largo respiro di petto romano» con il quale il Duce dava forma alle città di là da venire e, intanto, assestava colpi di piccone al centro di Roma, demoliva interi quartieri traslocando nelle nuove borgate i residenti, sbancava colline per mettere in mostra i gioielli di un presunto Impero e dava un volto nuovo alla capitale. Anche le "case rapidissime" di allora - quelle destinate agli sfollati provocati da quegli sventramenti - «erano meglio dei progetti di oggi», dice Pennacchi.
«Nulla a che vedere con i ghetti che ci sono negli altri Paesi», garantiva ieri Silvio Berlusconi. Già, però, osserva Pennacchi, «se le cose non si fanno per bene, poi, il rischio è quello di dare vita a dei mostri». E avverte che «città ghetto non sono soltanto quelle dei poveri ma anche quelle dei ricchi» perché, insiste, «la città non è soltanto palazzi e strade ma soprattutto le persone che ci stanno dentro e la stratificazione delle persone, le generazioni che si sono alternate». Dunque, il modo migliore per realizzare città è evitare la separazione delle funzioni. L'esempio è il quartiere Prati, a Roma, «con i palazzi e subito i negozi, il falegname, il bar, la piazza dove ti incontri con la gente. Non i residence in cui ti chiudi nel tuo box e per fare qualsiasi cosa devi prendere l'automobile». Per questo, dunque, sarebbe meglio «ricostruire la città dove era, dove è sempre stata». «Altrimenti - avverte - si fa Gibellina che è un posto invivibile». Oppure, «Salle, sempre in Abruzzo, costruita nel 1931 dopo che fu distrutta da un terremoto. Oggi i ragazzi si stanno organizzando per tornare a Salle vecchia».
Insomma, altro che "Capoccione". «Mussolini - conclude Pennacchi - ci portò alla guerra ma era di un'altra statura, era animato dalla convinzione di poter essere auctor dello Stato. Quello - e il riferimento è ancora a Berlusconi - sta lì soltanto perché noi della sinistra ci siamo suicidati».

l’Unità 9.4.09
Immigrati, governo battuto
L’ira leghista: traditori nel Pdl
di Andrea Carugati


Alla Camera passa un emendamento Pd sui Centri di esplusione: lo votano anche 17 del Pdl
Ritirate le ronde Maroni furibondo: «È un indulto per i clandestini, Berlusconi rimedi»

Governo battuto sui Centri di espulsione per immigrati. Ritirate le ronde. Lega furibonda, il Pd festeggia. Oggi vertice Bossi-Berlusconi. I dipietristi si spaccano. Scintille tra La Russa e il leghista Cota.

Ormai tra Lega e Pdl volano gli stracci. E la guerriglia a bassa tensione degli ultimi mesi rischia di diventare scontro aperto. Ieri, a due mesi esatti dalle europee, la competition tra i partiti di Berlusconi e Bossi ha assunto toni pesanti, e sono volate parole grosse.
IL GOVERNO BATTUTO
Di primo mattino Maroni fa retromarcia sulle ronde e decide di toglierle dal decreto antistupri all’esame della Camera. Il motivo? Altrimenti l’ostruzionismo delle opposizioni avrebbe impedito l’approvazione entro il 25 aprile, data di scadenza del decreto. I leghisti masticano amaro, il ministro si arrampica sugli specchi e dice «sulle ronde abbiamo fatto un passo laterale, non un passo indietro». Ma lo schiaffo più pesante arriva all’ora di pranzo, quando la Camera approva un emendamento di Pd e Udc che sopprimeva l’allungamento a 180 giorni (dai 60 attuali) della permanenze dei clandestini nei Centri di espulsione: 232 voti a favore, tra cui anche 17 franchi tiratori del Pdl. Mentre l’Idv si spacca: 12 votano con il Pd, 10 si astengono per sottolineare la richiesta di rigore contro i clandestini. Il capogruppo Donadi canta vittoria, ma dal Pd gli rispondono: «Come si fa a astenersi sui Cie? Siete populisti e giustizialisti».
Lo scontro più duro è a destra. «Tradimento», è la parola d’ordine tra i leghisti. «Quello lì ha messo la fiducia su tutti i decreti che ha voluto e poi su questo ha preferito evitare», tuona un deputato del Carroccio furibondo con Berlusconi. «I franchi tiratori sono uomini di Fini», sussurra un altro. Anche sul fronte Pdl non mancano i mugugni: «Un segnale dovevamo pur darlo, non possiamo stare sempre qui a votare spot per la Lega, dal federalismo alle quote latte».
MARONI FURIBONDO
Subito sono partiti i contati tra Bossi e Berlusconi, ed è stato fissato un vertice per oggi. «Diciamo che è un incidente di percorso», ha detto il Senatur, che oggi chiederà al Cavaliere garanzie sul federalismo e sul no all’accorpamento di referendum ed europee. Intanto Pd e Casini festeggiavano: «Una vittoria del gruppo parlamentare, che ottiene così un risultato per la sicurezza degli italiani», ha esulta Franceschini. E Veltroni: ha vinto la ragione». Eliminati i due scogli, tutte le opposizioni hanno annunciato voto favorevole al decreto, visto che erano rimaste solo le norme sugli stupri e contro le molestie insistite (stalking).
Maroni ha convocato una conferenza stampa al Viminale: «Sono furibondo- ha esordito- ora dovremo rimettere in liberà 1038 clandestini: si tratta di un vero e proprio indulto. Chiederò a Berlusconi un impegno personale, al Senato bisogna rimediare, anche lavorando durante le vacanze». In Aula, nel pomeriggio, il Carroccio non partecipa al voto finale e resta gelido quando Cicchitto prova rassicurare: «Faremo di tutto perché la norma sui Cie diventi legge». E così il Pd, numeri alla mano, ha buon gioco a dire: «Senza di noi il decreto non sarebbe passato».
LA RUSSA CONTRO COTA
Ma in Transatlantico la tensione riesplode. Il ministro Ignazio La Russa se la prende con gli «scemi» che hanno votato con l’opposizione. Ma avverte: «Non capisco l’atteggiamento di chi gioca a fare il primo della classe. Anch’io sono incazzatissimo, ma anche nella Lega c’erano degli assenti, ed è pure possibile che abbia votato con l’opposizione qualcuno dei loro». Il capogruppo Cota ascolta e freme: «Nella Lega di scemi non ce ne sono. Qui il problema è che ci sono dei traditori e degli irresponsabili. La norma sui Cie era già stata bocciata in febbraio in Senato, se errare una volta è umano...». Il deputato del Carroccio Giacomo Chiappori è più esplicito: «La Russa dice che ci siamo votati contro? Allora è un cretino». In serata il governo va sotto ancora una volta, su una mozione sulle banche proposta dal Pd. La ciliegina su una giornata positiva. Dice Soro: «Due a zero per noi, e non è solo un incidente. Quando si esce dalla blindatura dei voti di fiducia le difficoltà vengono a galla: nel Pdl non sopportano più che la Lega detti l’agenda. La norma sugli immigrati era venata di razzismo».

il Riformista 9.4.09
Battuto dai franchi tiratori. Il ministro: «Sono furibondo»
Maroni raso al suolo
La prima vera sconfitta della Lega
di Peppino Caldarola


Il decreto sicurezza passa con più voti dell'opposizione che della maggioranza. La Lega diserta il voto e pretende dal premier un chiarimento. Ma è giallo sui franchi tiratori. Esulta invece l'opposizione per il doppio kappaò rimediato dalla maggioranza.

Il decreto, che era diventato la bandiera securitaria e l'oggetto di una polemica con l'opposizione ma anche con gran parte delle organizzazioni cattoliche, è ora diventato più "umano". La sconfitta della Lega e del suo uomo di punta, Roberto Maroni, ministro dell'Interno non poteva essere più bruciante.
Dal primo giorno di vita del Governo Berlusconi la Lega si era annessa due questioni: il federalismo e la campagna sulla sicurezza. Erano i due temi identitari su cui Umberto Bossi voleva segnare la propria presenza nel Governo. E sono stati anche i due temi su cui maggiore è stata la discussione. Mentre sul federalismo fiscale Calderoli, che godeva fama di "duro", ha cercato di ottenere un più largo consenso evitando le posizioni oltranziste, il "moderato" Maroni ha voluto invece forzare la mano sul tema della sicurezza. Soprattutto sul rapporto fra i cittadini e gli immigrati. I continui sbarchi a Lampedusa si sono incaricati di dimostrare quanto la politica del ministro fosse precaria e affidata alla altrettanto precaria volontà della Libia di rispettare gli accordi. Sulle ronde Maroni aveva addirittura ingaggiato una battaglia personale di immagine. Recentemente si era fatto celebrare davanti alla prefettura di Novara da "rondisti" provenienti da tutto il Nord. Questo castello di carta è caduto grazie al voto dell'opposizione e ai voti mancanti nella maggioranza. E, soprattutto, al fatto che Berlusconi non ha voluto mettere la fiducia sul decreto, lasciando Maroni in balia del Parlamento.
La sconfitta della Lega è una novità politica. I malumori nei confronti del partito del Nord erano emersi con grande forza nel congresso costitutivo della Popolo della libertà. Il tradizionale malessere di An si era trasferito su tutta la nuova compagine partitica. Finanche il premier, Silvio Berlusconi, ha dovuto ricordare alla Lega che non sempre si possono ricevere risposte positive alle proprie richieste. Qualcosa sta cambiando nel centrodestra? La parte maggioritaria del centrodestra vive con grande sofferenza i diktat leghisti. Per anni Bossi aveva messo a frutto la propria indispensabilità per definire i rapporti di forza con l'alleato maggiore. In molte circostanza la Lega sembrava tirare il carro stanco di Forza Italia. La crisi evidente del Pd e il rafforzamento attraverso il Pdl hanno fatto assumere al partito di Berlusconi e Fini una più netta vocazione maggioritaria. E la musica è cambiata.
Negli ambienti ex forzisti si è sempre rimproverato al Pd la volontà di dialogo con la Lega. I moderati del PdL sostenevano, e sostengono, che il vero conflitto per la guida del Paese passa attraverso il rapporto con il partito di Bossi. La concorrenza della Lega sul territorio, il suo radicarsi anche nelle regioni del Centro non fa vivere sonni tranquilli ai maggiori esponenti del centrodestra. L'idea di governare il Paese con il perenne ricatto di una forza in grado di trascinare nella contesa l'intero Nord non è sembrata una prospettiva accettabile. Di qui il malessere e il nervosismo. Di qui il tentativo di ridimensionare la Lega.
In questo quadro si inserisce la sconfitta personale del ministro Maroni. Dopo Bossi, fin dalla fondazione e tranne una breve stagione in cui sembrò che stesse per dissociarsi dal capo, il ministro è sempre stato l'uomo di riferimento della Lega. Una leadership ottenuta attraverso un lavoro intelligente di accreditamento verso la base ma anche di fitte relazioni con l'intero mondo politico. Le precedenti esperienze ministeriali di Maroni erano apparse anche ai più critici come ben riuscite e il suo ritorno alla guida dell'Interno sembrava coronare questa nuova ascesa. Maroni aveva investito gran parte del suo talento per costruire l'immagine del ministro moderno che blocca l'immigrazione dando la risposta fondamentale alle domande del suo elettorato spaventato (spaventato anche dalla propaganda della Lega). Gli è andato tutto male. Su questo terreno non ha ottenuto un solo risultato. Si può dire, in verità, nel mio caso, a malincuore, che la sua gestione del ministero dell'Interno, a parte l'emergenza abruzzese, sia la più politicizzata dell'ultimo periodo. Il Parlamento ieri ha voluto schiaffeggiare proprio lui. Ma, diciamo la verità, se l'è andata a cercare.

il Riformista 9.4.09
L'unità nazionale indebolisce la Lega


Inevitabilmente, il clima da unità nazionale che si è creato intorno alla tragedia abruzzese ha penalizzato le estreme, in questo caso la Lega. Berlusconi, impegnato ad affermarsi come salvatore della patria all'Aquila, non aveva nessuna voglia di aprire un conflitto in Parlamento sulle ronde, concedendo il voto di fiducia a Maroni. A voto segreto, poi, i mal di pancia del Pdl, partito davvero a vocazione maggioritaria e che dunque mal sopporta la competizione della Lega, hanno fatto il resto, aprendo una ferita profonda nei rapporti interni alla maggioranza.
La lezione è interessante da due punti di vista. Il primo è che l'opposizione può spesso avere più risultati se evita una contrapposizione frontale e pregiudiziale, che invece tende a compattare la maggioranza. Ancora ieri Franceschini ha avuto il coraggio di dire che i soccorsi stanno funzionando bene in Abruzzo, il che è sostanzialmente vero. E se è credibile sull'Abruzzo, diventa più credibile anche sull'inutilità delle ronde.
La seconda lezione è che il Parlamento può essere tale anche se composto di nominati e anche se retto da una maggioranza bulgara. Purché gli si consenta di discutere e dibattere anche sui decreti legge, e purché discussione e dibattito non siano strozzati dal voto di fiducia e dal voto segreto. La questione della permanenza di sei mesi nei centri degli immigrati riguardava la libertà personale e bene ha fatto la presidenza della Camera a consentire il voto segreto. A Montecitorio non ci si sta solo per schiacciare bottoni, ma anche per capire e pensare. Stavolta l'aula l'ha fatto.

Liberazione 9.4.09
Una buona notizia
di Luigi Manconi


E' probabile che una qualche "quadra", poi, la troveranno. Ma, intanto, quella di oggi è una buona notizia, e, insieme una lezione assai istruttiva. Su un tema cruciale e su misure delicatissime - e oltraggiose per il diritto e per la convivenza sociale - la destra può essere battuta. Sotto questo profilo - così corposamente simbolico e così significativamente materiale - la destra (attenzione: non solo la Lega) sta giocando una partita estremamente importante. E, ahinoi, già parzialmente vinta. Sul piano ideologico, infatti, laddove si formano il senso comune e la mentalità condivisa, il messaggio perseguito (l'immigrazione come questione criminale) ha prodotto guasti enormi e, per certi versi, non più reversibili. Enorme resta, pertanto, il lavoro culturale e politico da fare: un lavoro in grado di superare le impostazioni prevalenti a sinistra. Impostazioni che, lungi dal costituire un argine contro la diffusione dell'intolleranza, hanno finito per assecondarla o, comunque, per restarle subalterne. Mi riferisco a quella opzione solidaristica che, quando si limita ad appellarsi ai buoni sentimenti e all'enfasi sulla "società multietnica e multireligiosa" quasi un surrogato dell'orizzonte socialista, si rivela fallimentare. E' difficile, infatti, evocare la solidarietà quando il peso dell'immigrazione viene inevitabilmente scaricato sulla vita quotidiana - e sulla fatica quotidiana - degli strati più periferici e meno garantiti. È allora che si avverte, più intensamente, la necessità di una politica razionale e intelligente, fondata sull'allargamento del sistema dei diritti di cittadinanza e sul richiamo alle garanzie proprie di un regime democratico. E fondata, ancora, su un "utilitarismo virtuoso", capace di mostrare come l'immigrazione "ci fa bene". A tutti e sotto tutti i profili. E' qui, solo qui, che può realizzarsi una relazione vera, affidata alla condivisione di interessi e di diritti/doveri, tra immigrati e residenti, tra stranieri che già ora contribuiscono alla produzione di ricchezza nazionale e al sistema di welfare, e italiani minacciati dalla crisi economico finanziaria e dalla crescente precarizzazione del mercato del lavoro.
(la conclusione dell’articolo dopo le 20 su www.liberazione.it)

l’Unità 9.4.09
L’araba felice
Un libro sulla sessualità matrimoniale che fa furore negli Emirati Arabi, le prime magistrate. Le donne conquistano terreno anche in alcuni paesi islamici. In Algeria, dove oggi si va alle urne, la politica passa attraverso la proposta di quote rosa e il diritto di trasmettere la cittadinanza ai figli
di Rachele Gonnelli


Il primo centro in Siria per donne vittime di violenza coniugale. Le prime due donne giudici in Cisgiordania per di più specializzate in sharja, cioè in legislazione islamica. Un libro sulla sessualità matrimoniale che fa furore negli Emirati Arabi, uno dei paesi più retrivi sul piano dei diritti delle donne, oltretutto scritto da una assistente familiare donna. E la prima vigilessa, con il grado di colonnello istruttore, sempre negli Emirati Arabi, con il casco integrale al posto del velo. Sarà poco ma le donne conquistano terreno anche nei paesi dove spesso la misoginia è legge, dove non si può guidare o tramandare un bracciale di madre in figlia senza il consenso del marito e a divorziare, più che da noi, si rischia la vita.
Piccoli sorsi di libertà che sono tutti delle ultime settimane e mesi. Non riescono a diventare una marea montante, né ad avere una vasta eco neanche nei paesi dove si verificano. Certo non colmano il lago della condizione femminile in paesi come l’Afghanistan, dove è in discussione una legge che legittima addirittura lo stupro dei mariti. Eppure ci sono e qualcosa vorranno pur dire. Forse che comunque il cammino delle donne per quanto a piccoli passi non può essere arrestato.
Dopo il Marocco, dove nel 2006 è stato varato un nuovo codice di famiglia che stabilisce la parità giuridica tra i due sessi, il paese dove si registrano più segnali in direzione di una maggiore parità tra i generi e un riconoscimento del ruolo pubblico delle donne è l’Algeria. Un paese in bilico che va alle urne il 9 aprile, dove il voto delle donne sarà probabilmente decisivo. Il settantunenne Adbelaziz Bouteflika spera di rimanere al potere puntando su un mix di modernità e tradizione. Ha modificato la Costituzione per ottenere il terzo mandato. Ma ora teme il combinato disposto di un aumento dell’astensionismo e della ripresa della violenza integralista dei gruppi salafiti. Attentati non sono mancati negli ultimi tempi, come quello a fine febbraio che ha sfiorato un cantiere della ditta Astaldi.
La delusione degli algerini verso il progresso da Bouteflika, molto visibile sui blog e su Internet più che sulla stampa locale, potrebbe covare come paglia secca la miccia del fondamentalismo. Bouteflika lo sa. E sta cercando di usare le donne come acqua per spegnere le fiamme. Facendo concessioni ad un movimento che ha avuto un ruolo di primo piano sia durante la guerra di liberazione sia dalla fine della guerra civile degli anni Novanta con la leader Khalida Messaudi, dirigente del Movimento per la Repubblica, di ispirazione laica e democratica.
Un mese fa un decreto presidenziale ha riconosciuto il diritto alle donne algerine a trasmettere la cittadinanza ai loro figli, un diritto mai riconosciuto prima in un paese musulmano. Bouteflika ha poi annunciato la volontà di introdurre «quote rosa» per i ruoli più alti dell’amministrazione pubblica. Provvedimenti «paternalistici e umilianti» a sentire Louisa Hanoune, segretario generale del Partito dei Lavoratori algerino, una donna, sua principale sfidante alla poltrona presidenziale. Lei, che lo ha già fronteggiato nel 2004 e ci ha provato anche nel ’99, ama parlare di crisi economica più che di donne. Ha condotto una campagna elettorale con toni molto accesi, accusando i ministri di usare il denaro pubblico per fare propaganda, di intimidire gli elettori, ha denunciato il restringimento di libertà per gli oppositori. Una «pasionaria». Considera normale che oggi le donne algerine al 63 percento abbiano un diploma superiore e che il 58 percento degli studenti universitari porti la gonna, meno che solo il 17,5 percento del monte salari sia riscosso da lavoratrici. Mancano i servizi, dice, per consentire alle donne di lavorare.
La scolarizzazione femminile si diffonde ovunque ma non necessariamente è accompagnata da diritti civili e politici. In Iran il 70 percento della popolazione universitaria è di sesso femminile. Prima della rivoluzione di Khomeini, non volendo o non potendo per obblighi familiari frequentare le scuole miste dello scià, due terzi delle donne erano illetterate. Paradossalmente il velo e la separatezza le ha aiutate a conquistare uno spazio pubblico, anche se limitato e sotto tutela. Ora le donne iraniane alfabetizzate sono l’80,3 percento, con una crescita del 126 percento nell’ultimo decennio come ha ricordato Tahere Nazari, teologa iraniana inviata dal governo di Teheran ad un incontro in Vaticano sulla famiglia che si è tenuto a Roma a fine febbraio.
Nell’ultimo decennio anche l’occupazione femminile in Iran è crescita del 12 percento e persino il governo integralista di Ahmedinejad riconosce che «a causa dell’economia moderna» la donna non può più rivestire unicamente il suo ruolo tradizionale di moglie e madre. Non essendo stati predisposti dei servizi sociali in grado di facilitare il doppio ruolo, anche qui però ogni lavoratrice madre ha semplicemente diritto a una riduzione di due ore dall’orario di lavoro rispetto al mansionario. Con conseguente riduzione dello stipendio.
In Iran i gioco politico non sta aiutando le donne finora. In previsione delle elezioni presidenziali del prossimo 12 giugno, la repressione degli integralisti al potere si è riversata prima di tutto verso le femministe: una brutale perquisizione negli uffici di Shirin Ebadi, prima donna giudice in Iran e Nobel per la Pace 2003, sostenitrice del riformatore Khatami e poi l’imprigionamento di alcune attiviste della campagna «Mille firme» per la parità giuridica e la fine delle discriminazioni di genere. Eppure secondo Katayoon Shahabi, produttrice di film e serial per la tv di Stato, per ottenere la fine della discriminazione non ci sarà bisogno di nessuna rivoluzione, neanche di velluto. «Semplicemente - ha detto in una recente intervista a un quotidiano britannico - le cose si stanno muovendo come un fiume e i fiumi non si fermano». Una goccia tira l’altra.

l’Unità 9.4.09
«L’Occidente non capisce. Il velo non è per noi solo simbolo di segregazione»
Intervista a Ruba Salih, antropologa di Rachele Gonnelli


La studiosa: «Nell’Islam a periodi di aperture sono seguite a volte
ritrattazioni. Come nell’Iran di Palhevi o nell’Iraq di Saddam dove
c’era sì la scolarizzazione e lavoro, ma si era nella dittatura»

Le chiamano «le femministe di Allah». Loro invece si chiamano «le murshidat», le guide, e usano il velo integrale come una bandiera di libertà. Alcune sono fondamentaliste come Nadia Yassine che in Marocco guida un gruppo semi-illegale al grido di «Allah è femminista». Reinterpretano parti del Corano, in particolare gli hadith ovvero le testimonianze sui detti e la vita del Profeta e delle sue mogli. Considerano la sharja una legge consuetudinaria che, nata in epoca medievale, va storicizzata. «Sono anche loro un aspetto della modernità», sostiene Ruba Salih, antropologa sociale che insegna all’Università di Exeter in Inghilterra e a Bologna e su velo, Islam e modernità ha recentemente scritto il libro «Musulmane Rivelate» edito da Carocci.
Lei che dice, sta migliorando la condizione della donna velata?
«L’interesse per le donne arabe e musulmane nasce in un contesto contaminato, ideologico. Già da prima dell’11 settembre c’era un brutto clima che puntava sull’incommensurabilità delle culture, su un’alterità totale del mondo musulmano, un approccio che è difficile da cancellare. Da allora l’ambito religioso è diventato prevalente, la vera linea di demarcazione, mentre la realtà è fatta di appartenenze multiple. Quando ero piccola a Parma nessuno mi chiedeva se ero musulmana, faceva più discutere il fatto che fossi palestinese».
Vuol dire che è troppo tardi per capirci?
«Intanto bisogna non considerare il velo come simbolo di segregazione. E sapere che nella storia mediorientale ci sono sempre stati periodi di aperture, spesso però seguiti da ritrattazioni: non c’è stato un percorso lineare di progressive acquisizioni. A volte ciò che sembra progresso sono piuttosto delle concessioni, come ultimamente la monarchia wahabita che ha concesso a una donna di ricoprire il ruolo di viceministro in Arabia Saudita. Durante la dinastia Palhevi in Iran i movimenti femminili erano orchestrati per accreditare un modello di donna occidentalizzata, che poi è diventato il modello da abbattere. Nell’Iraq di Saddam c’era stato un certo femminismo di stato con alti livelli di scolarizzazione e accesso alle professioni ma era una dittatura. Hezbollah e Hamas hanno una dinamica interna con un forte protagonismo femminile».
Ma le donne nei paesi musulmani rivendicano diritti?
«Lo hanno sempre fatto. In Egitto dagli anni Venti. In Palestina hanno partecipato in massa al primo grande sciopero sotto il Mandato britannico. In Algeria invece dopo la lotta di liberazione sono state rimandate a casa e ora stanno affrontando una fase nuova».
Le musulmane di oggi, scolarizzate, colte, rivendicano il velo.
«L’islamismo è un movimento che mescola universalismo e fede. Il velo - l’hijab - è un segno distintivo insieme estetico e identitario che accompagna la donna in uno spazio pubblico. Le donne in tutti i diversi contesti hanno sempre trovato una strategia per negoziare le dinamiche più oppressive. A me interessa individuare i meccanismi per cui ad un certo punto ad un processo che avviene dal basso si innesta un processo riformatore dei governi e dei regimi».
Quando scatta la riforma?
«In Marocco è successo con il nuovo codice di famiglia. È stato dopo i gravi attentati di Casablanca e Rabat nel 2000. Le infiltrazioni dei gruppi islamisti radicali hanno scosso il re e gli hanno fatto prendere una decisione attesta da decenni. In ballo c’era la natura dello Stato. La monarchia ha visto un pericolo e ha impresso una svolta ricollocando la sfera religiosa in un suo ambito. Sui diritti delle donne si stabilisce in effetti che tipo di modernità si vuole. È una cartina da tornasole».
Lei dice che l’islamismo guadagna popolarità con l’insicurezza economica. È come dire che le donne non sono le prime ad essere ricacciate a casa in tempi di crisi?
«C’è una traiettoria ambivalente di fronte a fenomeni come gravi crisi, guerre o shock. Alle donne viene spesso chiesto di dare un contributo ma anche di preservare l’autenticità dei valori, garantire che il sistema non sarà scosso. Così è stato in Egitto alla fine degli anni Ottanta quando dovendo uscire di casa per andare al lavoro hanno deciso di indossare il velo per rassicurare gli uomini che ciò non avrebbe minacciato la costruzione culturale della famiglia. Il velo non è allora semplice oppressione ma un simbolo, di modestia e di ordine morale, e come tale viene utilizzato. Poi fortunatamente nel vissuto della gente la realtà è molto più ibrida che nelle dichiarazioni d’identità. La speranza è questa».

l’Unità 9.4.09
Elezioni europee
Perché il Pd non candida Pannella?
di Luigi Manconi


Trovo singolarissimo che nulla sia stato ancora detto e fatto affinché Marco Pannella possa far parte del prossimo Parlamento europeo, come eletto nelle liste del Partito democratico. Che ciò debba avvenire, infatti, mi sembra ragionevolissimo: anzi, pressoché ovvio. E ho grande difficoltà a immaginare ragioni perché, invece, ciò rischi di non accadere. C’è innanzitutto una questione di merito, lampante: la politica europea e internazionale di Pannella e dei Radicali coincide largamente (dopo averla anticipata su molti punti) con quella del Pd. Ed è indubbio che i Radicali, da decenni, svolgono un ruolo decisivo nel tematizzare problemi - e soluzioni per quei problemi - che sono al centro dell’agenda politica sovranazionale: e sui quali, magari tortuosamente, finiscono col convergere le principali culture presenti nel Partito democratico. Non è un caso che, appena pochi giorni fa, Emma Bonino risultava tra i pochissimi politici italiani con Giuliano Amato e Massimo D’Alema, firmatari di un impegnativo documento sull’Europa, pubblicato dal Corriere della Sera. Ma anche sulle questioni controverse (si pensi al recente trattato tra l’Italia e la Libia) il ruolo dei Radicali, quando pure è divergente svolge una funzione preziosa: in questo caso ha evidenziato contraddizioni e rischi (ahi, quanto immanenti) di quell’accordo, in particolare a proposito del pattugliamento congiunto delle coste del Mediterraneo. Ma c’è un’ulteriore ragione, solo in apparenza di metodo, che dovrebbe indurre a favorire l’elezione di Marco Pannella e di altri Radicali nelle liste democratiche. Da una anno, i Radicali hanno costituito una delegazione all’interno dei gruppi democratici di Camera e Senato: il loro comportamento è, a mio avviso, esemplare di un’idea sanamente conflittuale e tenacemente unitaria del rapporto tra culture diverse (già emerso nell’inossidabile realtà mostrata durante il Governo Prodi). La presenza di una posizione radicale (nei molti significati di quel termine) ha rappresentato un’importante occasione di confronto per i gruppi parlamentari democratici: fin troppo palese nella vicenda del Testamento biologico, quando quella posizione è stata capace di una costante vigilanza e di un assiduo richiamo a principi fondamentali. E di una paziente mediazione intorno a opzioni in grado, infine, di farsi maggioranza. Ma ciò è accaduto anche sui temi della sicurezza e delle garanzie in campo processuale e penale. Sarebbe un errore gravissimo se una politica così mobile e, insieme così efficace, tanto intensa nelle idee quanto meritoriamente acribiosa nell’approssimazione agli obiettivi, non trovasse spazio in un’arena cruciale come il Parlamento europeo.

Repubblica 9.4.09
Roma, al via registro dei biotestamenti
Nel decimo Municipio, la prima firma di Mina Welby. No di Alemanno
È un atto notorio sostitutivo che attesta le volontà sul fine vita di chi lo sottoscrive
di Rory Cappelli


ROMA - «Se dovesse capitare a me, se dovessi finire prigioniera del mio stesso corpo, in balia di medici e infermieri che decidono quando e come spostarmi, lavarmi, nutrirmi, credo che impazzirei. Crudeltà non è staccare la spina: è questa la vera crudeltà. Bisogna che ci pensino bene in Parlamento. E sa perché? Perché potrebbe capitare a chiunque. Anche a loro». Paola Della Manna è la seconda persona che ieri ha firmato e lasciato il suo testamento biologico nella sede del Municipio X, a Roma. La prima a firmare è stata Mina Welby. Firma simbolica, la sua: Mina, una signora minuta, con i capelli bianchi e l´aria dolce di chi ha molto sofferto e molto sa, era moglie di quel Piergiorgio Welby che per 40 anni lottò con la distrofia muscolare che alla fine lo costrinse all´immobilità totale, attaccato a una macchina per sopravvivere. Welby condusse una durissima e inascoltata battaglia affinché la possibilità di scegliere come vivere e quando morire in caso di situazioni irreversibili, di scegliere insomma l´eutanasia, diventasse legge.
«Da oggi i romani, a qualunque municipio appartengano - ha detto ieri il presidente del Municipio X, Sandro Medici, - potranno depositare qui da noi il proprio testamento biologico. Lo potranno fare tutti i cittadini perché la procedura è quella dell´atto notorio sostitutivo che ha valore nell´intero perimetro comunale, come per la carta d´identità». Al servizio, attivo per ora tutti i mercoledì dalle 15 alle 17, si potrà accedere su prenotazione. Si dovranno compilare due moduli: il testamento vero e proprio, in cui si delega una persona a far conoscere ai medici la volontà del malato. E una dichiarazione che attesta l´avvenuto deposito, a cui corrisponderà un numero progressivo annotato nel registro. «C´è chi sostiene che l´iniziativa non abbia valore giuridico - spiega Medici - Ma non è così. Siamo in una situazione di vacatio legis: proprio per questo la coordinata principale resta l´articolo 32 della Costituzione. Almeno finché il Parlamento non voterà una legge che vieti i testamenti biologici». L´articolo 32 della Costituzione dice: "Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana": «Abbiamo queste belle direttive - commenta Mina Welby - del tutto inascoltate. Una situazione unica in Europa, dove è il malato che decide e non i medici o i parenti».
Nel pomeriggio poi arriva una nota del sindaco Gianni Alemanno. «Questa iniziativa ha un chiaro sapore di manifesto ideologico», dice. Pronta la replica di Medici: «Il nostro registro non è un manifesto ideologico. Ma un tentativo concreto di accogliere e ascoltare le esigenze dei nostri cittadini».

Corriere della Sera 9.4.09
Berlino. Centinaia di auto date alle fiamme: il gruppo prende di mira le Mercedes, le Porsche, le Bmw e i Suv
Ecoterrorismo Colpiti il più famoso creativo tedesco e il direttore di un istituto di studi economici
Rogo di auto, la rivolta anti ricchi
di Danilo Taino


In alcuni casi si tratta di azioni di eco-terrorismo contro i mezzi che emettono grandi quantità di gas

BERLINO — Nuove tattiche di guerriglia urbana, in Germa­nia. Colpiscono dritto al cuore della società, mirano cioè a una delle proprietà più amate dai te­deschi, le automobili. In piena notte, vengono messe a fuoco, ai bordi delle strade. Soprattut­to se sono potenti, lucide e sim­boli di ricchezza. Lo scorso fine settimana, ne sono state brucia­te otto nella sola Berlino. E in buona parte dei casi si tratta di attacchi (si fa per dire) politici: contro la «società neo-liberale» che occupa pezzi di città ed espelle chi è povero e contro l’inquinamento dei Suv. Firma­to: gruppi legati al Movimento per la resistenza militante, il cui acronimo in tedesco fa ­buontemponi - Bmw.
La polizia è preoccupata sul serio, al punto che nella capita­le ha promesso un premio di diecimila euro per chi darà in­formazioni utili a scoprire le bande che stanno sviluppando questa forma di protesta.
Perché il fenomeno non è nuovissimo: già nel 2007 c’era­no stati numerosi casi di attac­chi con l’accendino. L’anno scorso, però, l’attività era mol­to diminuita. Ora, siamo in pie­no boom: in questi primi mesi dell’anno, 32 attentati a Berli­no. Molti altri a Monaco, Fran­coforte, Amburgo. Statistiche precise non si hanno, ma si sti­ma che gli incendi avvenuti in tempi recenti siano parecchie centinaia. Per averne un’idea, si può andare sul sito web www.brennende-autos.de: ap­pare una mappa di Berlino e, dopo poco, tutti i punti della cit­tà in cui gli attacchi sono avve­nuti, con il modello di vettura bruciata.
Il timore delle autorità è dop­pio. Primo, pensano che la cre­scita del fenomeno sia legata al­la crisi finanziaria, la quale spin­ge alcuni gruppi di autonomi a intensificare le azioni dimostra­tive: una tattica a basso rischio ma efficace per spaventare bor­ghesi e beneficiati dal capitali­smo. Secondo, temono che la tendenza si diffonda anche tra la criminalità comune e tra i giovani non politicizzati, che di­venti cioè uno sport del week-end.
I marchi che attraggono mag­giormente i piromani sono Mer­cedes, Bmw, Audi, Porsche, Smart, oltre ai Suv in genere. Ma non mancano auto di mino­re prestigio e i furgoni delle Po­ste e della Dhl. Il fatto è che il movimento attacca l’oggetto per attaccarne il proprietario an­che se di solito non sa di chi sia la vettura. Qualche volta lo fa per protestare contro la «gentri­fication » di aree della città, cioè per intimorire gli architetti, gli artisti, i pubblicitari e i profes­sionisti che prendono casa in quartieri popolari, li trasforma­no in indirizzi di lusso e provo­cano aumenti dei prezzi insoste­nibili per i vecchi abitanti. Tra le vittime, ad Amburgo, ci sono per esempio stati Holger Jung , uno dei creativi pubblicitari più famosi di Germania, con la sua Bmw X5, e il direttore di un istituto di studio dell’economia mondiale, Thomas Straubhaar (una Mitsubishi). Altre volte, si tratta di una forma minore di eco-terrorismo, cioè di prote­sta violenta contro le auto che emettono grandi quantità di gas a effetto serra.

Corriere della Sera 9.4.09
La pellicola fu bandita e accusata di irridere il mito di Mao. La rivalutazione postuma: «Era un atto d’amore verso il nostro Paese»
Cina, un film riabilita Antonioni il traditore
Due giovani registi rendono omaggio al controverso documentario del ’72 «Chung Kuo»
di Marco Del Corona


Una scena in cui si vedevano dei maiali con sottofondo di musiche patriottiche scatenò l’ira della Banda dei Quattro

PECHINO — Sul quadernetto di Tian Yongchong c’è scritto tutto. Gli italiani rimasero dal 28 al 31 maggio 1972. «Li acco­modammo al piano di sopra». Tian dirigeva l’hotel più vicino al canale «Bandiera Rossa», ospiti erano Michelangelo Anto­nioni e la sua troupe, in Cina a girare quello che sarebbe diven­tato uno dei suoi film più con­troversi, «Chung Kuo» («Impe­ro di mezzo», come i cinesi chia­mano il loro Paese). Sulla pelli­cola s’impresse un Paese ancora nella centrifuga della Rivoluzio­ne Culturale, Mao Zedong ovun­que, sulle strade, nella venera­zione popolare. Quando il film uscì, venne subito marchiato co­me un’opera reazionaria che irri­deva la Cina comunista. Bandi­to «Chung Kuo», bandito il suo autore. Solo nel 2004 una retro­spettiva a Pechino ha permesso al film di essere mostrato a un pubblico cinese. E l’evento non era forse bastato a recuperare del tutto il tempo perduto.
Liu Haiping, giovane regista, e sua moglie Hou Yujing, italia­nista, nel ‘72 erano infanti. Han­no coltivato il culto di Antonio­ni. «Il sogno — raccontano — era di incontrarlo e riabilitarlo agli occhi della Cina». In quat­tro anni di ciak hanno speso tut­to, mettendo insieme un docu­mentario che vuole essere, oltre che un atto di devozione priva­to, anche il contributo decisivo al riscatto di «Chung Kuo». «E ci siamo riusciti». «China is far away» («La Cina è lontana», ap­punto) è stato trasmesso dalla Cctv, la tv di Stato, e adesso va per festival (domani a Hong Kong). «Il pubblico è maturo, le reazioni dopo la trasmissione — spiegano al Corriere — sono state positive. I cinesi hanno ca­pito che il film fu un atto d’amo­re verso il nostro Paese. I guai furono colpa dei tempi». Aperto e chiuso dalle visite a casa di Antonioni dal settembre 2004 a poco prima della sua morte (2007), il documentario ripercorre l’avventura cinese con Enrica Fico, allora dicianno­venne, poi moglie del regista («fu come la nostra luna di mie­le, quel viaggio»), e Luciano To­voli, operatore e direttore delle fotografia: «Volevo riprendere la frontiera fra Hong Kong e la Cina, ma lui mi disse: prima cer­chiamo di capire, poi filmia­mo ». Parlano lo scrittore Carlo Di Carlo e Gabriele Menegatti, diplomatico incaricato di ac­compagnare i cineasti per Pechi­no, dove poi fu ambasciatore fi­no al dicembre 2006. C’è Tovoli che spiega il perché del paralle­lo fra le canzoni patriottiche e le immagini di maiali grufolanti che scatenò l’ira della Banda dei Quattro: «Involontario. Mentre filmavamo i suini si sentiva quella musica, solo più tardi ci tradussero le parole…». Liu ha vistato i luoghi di alcuni ciak, la Tienanmen, un asilo di Nanchi­no, una scuola di campagna. Chi c’era, e c’è anche adesso, ri­lancia le antiche tesi, assorbite nelle lunghe sedute di critica: «Le riprese mostravano solo gli aspetti negativi». Acqua passa­ta, assicurano Liu e Hou, e Anto­nioni lo seppe, prima di morire. Nel documentario un quadro di Partito dice che avrebbe deside­rato una cosa: «Antonioni torni. Veda com’è la Cina dopo le rifor­me ». Sarebbe stato un bel fina­le.

Corriere della Sera 9.4.09
L’autore del «Trattato di ateologia» presenta il nuovo manifesto edonista, «La potenza di esistere», e corregge Sartre
Addio matrimonio cristiano Liberi, ma con discrezione
Il filosofo Michel Onfray: mai spiare gli sms
di Stefano Montefiori


La potenza di esistere è un libro ambi­zioso: «Nulla da temere dalla morte. L’es­senziale consiste nel non morire già in vi­ta».

CAEN — Nei camerini del teatro di Ca­en, poco prima della lezione gratuita su Nietzsche seguita da oltre mille persone, il filosofo Michel Onfray offre qualche ri­petizione sul corretto uso del telefonino: «Mai spiare i messaggi ricevuti dalla pro­pria compagna o controllare il registro delle chiamate: chi cerca trova, e non è detto sia un bene». La buona educazione e la discrezione sono virtù fondamentali per chi voglia praticare il manifesto edoni­sta stilato da Onfray in La potenza di esi­stere (Ponte alle Grazie, traduzione di Gregorio De Paola, pagine 203, e 15), quintes­senza delle sue 50 opere da oggi nelle li­brerie. Un saggio che alterna paragrafi in­titolati «hapax esistenziale» o «episteme ebraico-cristiana» a frasi più concreta­mente dedicate agli amori terreni e alle trappole della gelosia.
Questa apparente miscela di Lucrezio, Spinoza e Cosmopolitan è valsa a Onfray il sussiego quando non l’odio di molta cri­tica, e un successo popolare straordinario in tutto il mondo. Anche in Italia il Tratta­to di ateologia ha goduto di un seguito non certo di nicchia, sull’onda di un riflus­so anticlericale che trova il suo altro eroe internazionale nell’inglese Richard Dawkins («non mi piace, troppo rozzo»). «Nel Trattato di ateologia ho parlato di Dio come finzione purtroppo tuttora ne­cessaria per molti uomini — spiega On­fray — e ho contestato tutte le religioni.
La potenza di esistere è invece la pars con­struens, la mia proposta per vivere in mo­do consapevole, etico, gioioso».
Onfray teorizza la necessità di una filo­sofia pragmatica che dimostri il suo valo­re nel suo essere applicabile nella vita di tutti i giorni, in coda dal fornaio o viag­giando in treno. Per questo, e per le sue folgoranti apparizioni televisive (dove con rapida parlantina ha maltrattato av­versari di peso, da Jacques Attali a Philip­pe Sollers), i detrattori lo hanno definito «filosofo da supermercato». Disistima del tutto ricambiata. Come il divulgatore britannico Julian Baggini, Onfray detesta l’elitarismo e la filosofia accademica: «Io sono fuori dal mondo, continuo a vivere qui in Normandia, con i miei allievi del­l’Università popolare di Caen da me fonda­ta; non vengo mai invitato nei salotti pari­gini e ne sono felice. Detesto i filosofi di professione, quelli che si riempiono la bocca di metafisica dal lunedì al venerdì e dalle 9 alle 5».
In realtà, a giudicare da almeno un pa­io di copertine (Lire e Nouvel Observateur), dalla presenza su radio e tv e dalla celebre lunga intervista a Nicolas Sarkozy pochi mesi prima dell’elezione all’Eliseo, Michel Onfray è più una star che un outsi­der. E questa non è l’unica contraddizio­ne del personaggio. Nella copertina della Potenza di esistere appare vestito di nero, aria grave. Onfray sorride con parsimo­nia. Non che debba per forza mostrarsi con belle donne bevendo champagne, ma il suo sarebbe pur sempre un «manifesto edonista».
Però è dal dolore che bisogna partire, purtroppo. La prefazione è il racconto dello spaventoso periodo trascorso in un orfanotrofio dei salesiani, dai 10 ai 14 anni, abbandonato dalla madre stanca di picchiarlo dopo essere stata a sua volta maltrattata dai genitori. Sono 30 pagine tragi­che e commoventi, dominate dal sadismo dei preti, e concluse da parole di perdono verso la madre: «Si diventa davvero mag­giorenni rivolgendo, a coloro che ci han­no aizzato contro i cani senza sapere quel che facevano, il gesto di pace necessario a una vita che superi il risentimento. La ma­gnanimità è una virtù da adulti». La dedi­ca del libro è «A mia madre ritrovata».
Un uomo capace di superare una simi­le adolescenza e un infarto grave patito a 28 anni ha forse qualche dote di resilien­za da offrire ai suoi simili. E se non ci si lascia contagiare dal virus della supponen­za verso qualcuno giudicato troppo letto per essere un vero filosofo, il resto del li­bro è un interessante percorso di rifiuto della tradizione filosofica idealista, del mi­to giudaico-cristiano della nobiltà della sofferenza, verso un «erotismo solare» e una «bioetica prometeica». «Bisogna pra­ticare una sorta di aritmetica del piacere, abituarsi a calcolarlo per sé e per gli altri — spiega Onfray —. Per l’uomo della stra­da, l’utilitarismo indica il comportamen­to di chi è interessato, incapace di genero­sità e gratuità. Siamo agli antipodi del pensiero di Jeremy Bentham e di John Stuart Mill, per i quali il principio di utili­tà significa “maggiore felicità per il mag­gior numero”».
In tempi di ridefinizione dei rapporti di coppia, e di prevalenza del divorzio, On­fray auspica la leggerezza, la consapevo­­lezza, il contratto tra due persone che ridi­scutono continuamente i termini del loro accordo — per una sera, per una vacanza, per la vita, per il desiderio, l’amore o il ses­so. Senza inganni. «Il matrimonio traman­dato da duemila anni di cristianesimo, fat­to di promesse vane, di Principi Azzurri e donne ideali, è una macchina produttrice di ipocrisia e infelicità».
Un nuovo cantore dell’Amore liquido post-moderno, effimero e consumista, già definito e criticato da Zygmunt Bau­man? «No, condivido la critica al consumi­smo relazionale, al nichilismo del sesso — risponde Onfray —. Penso che il sesso triste sia un prodotto del cristianesimo, come lo sono del resto Sade e Bataille, la faccia libertina di una medaglia che esibi­sce sull’altro lato la figura del santo. I sen­timenti duraturi sono una conquista fati­cosa, da raggiungere in due, con una spe­cie di dieta erotica da seguire in coppia, senza necessariamente mortificarsi, in piena libertà». Coerentemente con le pre­messe di filosofia pragmatica e vissuta in prima persona, Onfray spiega di vivere da otto anni con una compagna, senza vinco­li di fedeltà. E qui rispunta l’etica del tele­fonino. «La lezione di Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir è che l’idea di raccon­tarsi tutto nel dettaglio, di essere onesti fino alla crudeltà, non funziona. Sartre e Beauvoir tenevano a informarsi degli or­gasmi avuti con altri partner, ma poi ne soffrivano immensamente. Dobbiamo ri­cordarci che siamo pur sempre dei mam­miferi, che siamo preda della gelosia».

Corriere della Sera 9.4.09
Il British Museum rilegge documenti e reperti archeologici. A fine estate una grande esposizione
Montezuma non fu lapidato dai suoi ma ucciso dagli spagnoli
di Guido Santevecchi


I vincitori scrivono la storia e di soli­to, oltre al potere, cercano di to­gliere allo sconfitto anche la dignità. Nel 1520 gli avventurieri venuti dalla Spagna in cerca di nuove terre segui­rono questo copione con Montezu­ma, l’imperatore azteco che li aveva accolti come inviati del cielo e fu ri­pagato con schiavitù, morte e disono­re.
Secondo le cronache del tempo, Montezuma aprì le porte del suo do­minio — che si estendeva dalle coste del Pacifico al Golfo del Messico — agli uomini guidati da Hernán Cor­tés e quando il suo popolo capì che i conquistadores erano arrivati solo per depredarli delle loro ricchezze e si ribellò, Montezuma cercò ancora di trovare un compromesso, ma finì lapidato dalla folla che assalì il palaz­zo di Tenochtitlan (l’attuale Città del Messico). Questa la storia ufficiale.
Ma ora il British Museum ha lan­ciato un’operazione per riabilitare l’imperatore. La revisione sostiene che Montezuma, divenuto ostaggio degli stranieri che aveva accolto co­me ospiti di riguardo, fu tenuto pri­gioniero e al momento opportuno as­sassinato con oro fuso colato in gola; poi Cortés ordinò ai suoi scrivani di fabbricare ad arte la versione della la­pidazione per legittimare l’interven­to «pacificatore» della potenza spa­gnola.
L’impero azteco cadde, travolgen­do anche la reputazione di Montezu­ma, tanto che nel Messico moderno non c’è alcun monumento che lo ri­cordi. Il British Museum, che dedi­cherà al sovrano una mostra, ha tro­vato materiale a sostegno della sua teoria negli archivi dell’università di Glasgow e di Cuernavaca.
Si tratta in particolare di testi illu­strati del XVII secolo che mostrano Montezuma con una corda al collo e in catene: la prova che l’imperatore non era un traditore asservito agli in­vasori ma un prigioniero.
Neil MacGregor, il direttore del Bri­tish Museum, spiega che l’obiettivo di questa rivisitazione è di corregge­re la prospettiva «eurocentrica» del­la storia. Un segno di questa strate­gia culturale è nel titolo stesso della mostra che aprirà alla fine dell’estate a Londra: Moctezuma, Aztec ruler, non Montezuma, un cambio di gra­fia per adeguarla alla pronuncia azte­ca.
Oggetti, gioielli, una maschera tur­chese pagata come tributo all’impe­ro dai popoli della regione racconta­no la parabola di un sovrano che for­se amava più la religione che la forza delle armi: Moctezuma aveva osser­vato una serie di portenti come co­mete visibili in pieno giorno che lo avevano illuso sull’imminente ritor­no in terra del dio Quetsalcoatl. Ma Hernán Cortés non era un dio, solo un conquistatore e forse un inquina­tore della storia.

il Riformista 9.4.09
Anniversario
F.L. Wright l'archistar che domava la natura
di Manfredo di Robilant


ANNIVERSARIO. 50 anni fa moriva il grande architetto. Disegnò più di 1.000 progetti, costruì 500 edifici. Il migliore? Il mito su di sé. Fece fortuna a Chicago, con il boom edilizio dopo l'incendio del 1871. A Tokyo, il suo Imperial Hotel sopravvisse al terremoto del 1923. La casa sulla cascata è il suo testamento spirituale.

Una visione razionale ma al tempo stesso sempre associata
alla ricerca di una spiritualizzazione della vita quotidiana

Il Guggenheim di New York è il simbolo della sua conquista finale della metropoli dominata dalla ragione economica

Era il 9 aprile 1959, in due mesi avrebbe compiuto novant'anni, e di vite probabilmente ne aveva vissuta più di una. Forse, negli ultimi mesi, nonostante il suo museo Guggenheim di New York, affacciato su Central Park, fosse quasi completato (inaugurò il 21 ottobre dello stesso anno), aveva intuito che la propria stella stava tramontando, ma del resto, nel corso di una carriera durata settant'anni gli era già successo, e lui stesso sapeva bene che alti e bassi erano parte del ruolo di pioniere controcorrente che si era ritagliato. E che ne aveva costruito la fortuna, testimoniata, dagli oltre 500 edifici costruiti, su un totale di progetti che supera i mille.
L'importanza storica di Frank Lloyd Wright oggi non è nemmeno discussa, quello che si continua a dibattere è quale sia la sua vera eredità, mentre, uscito dal mito di sé stesso, è stato riconsegnato alla dimensione della storia da una quantità di libri e articoli che hanno scandagliato ogni aspetto e ogni periodo della sua attività.
Parlare di Wright prescindendo dalla costruzione mediatica che l'architetto stesso edificò sulla propria figura, è comunque difficile. Anzi, uno dei suoi elementi d'interesse è proprio la capacità di utilizzare i mass media del tempo, rendendo famigliare al pubblico generale un'architettura non facile, nel suo essere tutt'uno con una visione del mondo. Padre (o nonno), in questa abilità, di tutti gli architetti star che affollano il panorama attuale dell'architettura, Wright è stato il primo architetto a conquistare la copertina del Time, il 17 gennaio 1938, con uno studiato ritratto che lo mostra in veste di maestro ispirato dell'architettura moderna americana. Un'architettura che la distanza storica conferma coincidere in larga parte proprio con la sua opera.
Nato nel 1867 in un piccolo centro del Wisconsin, dopo due semestri in una scuola di ingegneria di provincia, Wright si trasferisce diciannovenne a Chicago, capitale del boom edilizio dell'epoca, ricostruita dopo l'incendio del 1871. Lavora nello studio di Louis Sullivan, con cui, nel giudizio degli storici, divide (anche se con un ruolo preponderante) la primogenitura della modernità architettonica negli Stati Uniti. Lasciato in polemica il maestro (che lo accusa di sottrargli clienti), a partire dal 1893 lavora autonomamente.
Se la sua prima casa, del 1889, è progettata per sé stesso e per la prima moglie (di tre), le decine che realizza fino al 1911 sono commissionate dalla ricca borghesia di Oak Park, il quartiere suburbano di Chicago in cui risiede. In una carriera spesso divisa dagli storici in periodi-etichetta, si tratta della fase delle cosiddette Prairie Houses, residenze unifamigliari fatte di volumi allungati in mattone o pietra, tetti spioventi in aggetto e spazi interni che fluiscono uno nell'altro, a consacrare una nuova visione di domesticità americana. Una visione razionale ma al tempo stesso sempre associata alla ricerca di una spiritualizzazione della vita quotidiana. È la Robie House del 1909, con i suoi lunghi muri ciechi in mattoni rosso scuro a incarnare al meglio questo primo periodo, interrotto con una clamorosa fuga in Europa con la moglie di un cliente, dove arriva già famoso e pubblica una monografia che lo consacra.
Lasciata la prima moglie e i sei figli, Wright si stabilisce quindi in Wisconsin con la nuova famiglia, in una casa-studio-comunità, Taliesin, dove continua a lavorare intensamente, fino al 1914, quando un cameriere appicca un incendio che uccide moglie e (nuovi) due figli. Seguono crisi professionale, trasferimento in California, terza moglie, nuova serie di ville lussuose, fallimento e crisi. Nel frattempo: viaggio in Giappone, dove trova l'unica architettura antica che riesce a rispettare e dove progetta l'Imperial Hotel a Tokio, che sopravvive perfetto al terribile terremoto del 1923 (ma viene abbattuto nel 1967).
La passione per le stampe giapponesi, peraltro, è un aspetto cruciale per capire la concezione fluida degli spazi, cifra costante di Wright, che negli anni Trenta, a oltre sessant'anni, e in piena Depressione, ritrova la fortuna e la vena, costruisce una seconda Taliesin in Arizona e sforna uno dopo l'altro i suoi edifici più iconici. Su tutti, la casa sulla cascata - alias Fallingwater (in Pennsylvania, completata nel 1939, ora monumento nazionale), un rifugio da weekend per un imprenditore di Pittsburgh - è un instant classic fatto di volumi che si protendono tra i rami del bosco, destinata a diventare l'immagine stessa di Wright e cristallizzarne la mitologia, come quando il maestro in persona (pare) rimuove i sostegni provvisori del terrazzo in cemento armato, che gli operai si rifiutano di togliere temendo il crollo.
Per capire quanto quella suscitata da Wright sia una religione bisogna leggere le parole che Bruno Zevi, il suo più grande sostenitore italiano, dedica a Fallingwater, che giudica il massimo punto di arrivo dell'umanità, finalmente ricongiunta alla natura. Dalla fine degli anni Trenta alla morte Wright continua un'attività indefessa, che si conclude con il Guggenheim di New York, simbolo della sua conquista finale della metropoli dominata dalla ragione economica, cui la sua architettura, che vuole essere metafora dell'organismo vivente, si è sempre nei fatti opposta.
Il progetto del Guggenheim occupa Wright dal 1943 al 1959 e l'edificio può essere legittimamente considerato un compendio della sua concezione fluida degli spazi interni degli edifici, e del fatto che essi devono trovare una corrispondenza leggibile nei volumi esterni. A partire dall'idea di offrire un percorso attraverso la collezione Guggenheim di arte moderna, nasce uno spazio a tutta altezza attorno a cui si snoda una rampa a spirale, che si restringe verso il basso, sui cui lati sono appesi i quadri. Il pubblico sale all'ultimo piano con un ascensore e quindi discende dalla rampa, arrivando nell'atrio d'ingresso. Dall'esterno l'edificio riflette questa impostazione nei volumi che, letteralmente, si protendono verso una città a cui l'ultimo lavoro di Wright si offre come alternativa ideale, e forse idealistica, contro il razionalismo dei grattacieli a parallelepipedo dell'International Style importato dall'Europa.

il Riformista 9.4.09
Richter come Beethoven. Mito nell'imperfezione
di Fabio Vitta


MISSIONI. Nei cd di "Classic Voice" il vecchio pianista ucraino insegue l'energia del tedesco. Non sempre ci riesce. Ma la passione vince su tutto.

Sviatoslav Richter e Beethoven, ancora? Sì ancora e sempre, nei secoli dei secoli. Infatti, di questo Ricther "ultimo" (le registrazioni vanno dal 1990 al 1992) avevo ascoltato a Roma, se non sbaglio, nel 1989 uno Schubert memorabile. Questi due cd allegati alla rivista Classic Voice e dedicati a Beethoven contengono: il primo le due sonate dell'Op. 49 n. 1 in Sol minore e n. 2 in Sol maggiore, la sonata in Fa maggiore Op. 54 e la sonata in Fa minore Op. 57 Appassionata e il secondo le sonate in Mi maggiore Op. 109, in La bemolle maggiore Op. 110 e in Do minore Op. 111 registrate dal vivo al Concertgebouw di Amsterdam e altrove. Contrariamente a quanto ci si potrebbe attendere, abituati come siamo ad associare all'età veneranda una certa idea di saggezza, Ricther affronta il Beethoven delle ultime sonate, che è violento, aspro, tecnicamente impervio, con la stessa energia di un ragazzo, lo stesso coraggio;aveva quasi 80 anni, un'età in cui anche solo l'idea di affrontare queste pagine, assomiglia ad una volontà di cercar la bella morte. Piuttosto è nelle sonate dell'Op. 49 che il pianista ucraino si concede una visione malinconica e serena del secolo (XVI) che si chiude, ma già nell'Appassionata il suo pianismo vuol essere quello di sempre, aggredisce la materia musicale, la scuote, e allora talvolta le dita denunciano il trascorrere del tempo, non sempre riescono a tener testa a quell'anima indomita. Un'anima che si getta a precipizio anche dalle discese vertiginose delle ultime sonate, perché è, a tutti gli effetti, beethoveniana. E come per Beethoven, trova nella sua inadeguatezza (sordità l'uno, vecchiaia l'altro) la sua redenzione e il suo scopo. E allora quelle sporcature sono una testimonianza viva che resta a noi come l'ultimo sorriso di un pianismo che forse non esiste più e che viene dal fare della propria vita una missione, il cui scopo è la ricerca della perfezione, della totale adesione alla poetica di un autore.
Dovunque tu sia Sviatoslav Richter, continuiamo a volerti bene.