sabato 11 aprile 2009

Corriere della Sera 11.4.09
Opposizione costretta a sottoscrivere la pax berlusconiana
Il premier per ora ottiene il placet di un Pd ansioso di tregua in vista delle Europee
di Massimo Franco


Stavolta non c’è soltanto l’evocazione dell’uni­tà nazionale: forse per la prima volta, se ne intravede una traccia. La novità è che Silvio Berlusconi la definisce «indispensabile», e gli avversari gliela concedono. Anzi, quasi si affrettano ad ammettere che il terremoto in Abruzzo esige da tutti, maggioranza ed opposizione, un atteggiamento più responsabile. Non si può considerare il frutto di un accordo sulla visione del Paese. Piuttosto, sembra trattarsi di una tregua detta­ta dall’emergenza; ed in qualche misura asimmetrica, perché a cambiare i toni è stato il centrosinistra: il pre­mier si è limitato a prenderne atto.
È difficile dire se sia cominciata la metamorfosi di un leader percepito sempre come di parte: anche perché gli avversari si sono rifiutati di riconoscergli una silhouette diversa; e Berlusconi stesso non ha risparmiato attacchi contro i suoi critici. Il modo in cui si è mosso dopo il sisma, tuttavia, gli sta facendo guadagnare un consenso imprevedibile; e forse lo espone a future critiche. Ma per ora, l’impegno solenne a non abbandonare la popolazio­ne sottolinea un ruolo dello Stato che si identifica soprat­tutto con lui personalmen­te.
Forse il limite di quanto sta avvenendo è proprio questo: una solidarietà na­zionale imperniata su una sola persona; e realizzatasi per una circostanza ecce­zionale. Sembra quasi che la «pax berlusconiana» sia una sospensione dello scontro, ma non delle sue ragioni di fondo; e che sia stata accettata con un filo di sollievo da un centrosinistra sfiancato dal corpo a cor­po col premier, ed ansioso di riprendere fiato in vista del­le europee. Il tentativo comune è di mostrare all’opinio­ne pubblica un profilo più responsabile e costruttivo.
Da questo punto di vista, è una sfida in positivo. L’op­posizione probabilmente si rende conto che a rafforzarsi è Berlusconi, il premier che piange e offre agli sfollati le sue case. Per gli avversari, una polemica contro Palazzo Chigi adesso rischia di rivelarsi un boomerang: una sor­ta di attentato al clima di concordia che il Paese mostra di pretendere dalle istituzioni. In fondo, la stretta di ma­no di ieri all’Aquila fra il premier ed il segretario del Pd, Dario Franceschini, suggella un armistizio magari sbilan­ciato ma senza alternative.
Costringe Pdl e Pd a rapporti almeno più rispettosi, sebbene sia difficile dire quanto durerà la pacificazione; e se all’ombra delle macerie e delle vittime abruzzesi cre­scerà un Berlusconi ecumenico. Di certo, la sua scelta di ieri ai funerali di Stato di confondersi con la folla prima di sedere in prima fila con le altre autorità, è stata un gesto forte. Esprime la voglia di distinguersi dal resto dei vertici istituzionali: un’operazione insieme abile e ambigua, per l’effetto che può produrre. E conferma la capacità quasi viscerale del premier di mettersi in sinto­nia con il Paese: a costo di correre più di un rischio.

il Riformista 11.4.09
Referendum. Nuovi modi per farsi male
Dietro l'idea di accorparlo alle elezioni europee. Così Guzzetta apre la via al monocolore Pdl
Il Pd si risuicida
di Stefano Cappellini


Elezioni politiche nel giro di un anno, il Pdl maggioranza in Parlamento col sessanta per cento, la costituzione cambiata sul velluto, Silvio Berlusconi al Quirinale. E tutto grazie al referendum elettorale di Mario Segni e Giovanni Guzzetta. In fondo, sarebbe un cerchio che si chiude: dopo aver aperto la via al trionfo di Forza Italia all'inizio dei Novanta, il nuovismo referendario - quest'impasto di populismo antipartitico e sinistra girotondina che non si è mai rassegnato alla fine della sbornia maggioritaria - consegnerebbe ora al Cavaliere le chiavi per un impero lungo almeno altri due lustri. E, a quanto pare, con la fattiva collaborazione del Pd. Ma ripartiamo da capo.
I fatti sono questi: ormai è più di un'ipotesi l'accorpamento della consultazione referendaria alle europee del 7 giugno o, in subordine, al secondo turno delle amministrative, il 21 giugno. Nel primo caso il quorum sarebbe certo, e la vittoria dei sì altrettanto. Nel secondo meno, ma comunque possibile. Silvio Berlusconi si dice seriamente tentato dall'election day: europee più amministrative più referendum. Dopo il terremoto in Abruzzo la propaganda del Pd sulla "Bossi tax" è un argomento pesante: votare il referendum in una data a sé, come chiede la Lega, costa più di 400 milioni di euro (sebbene Roberto Maroni giuri che l'esborso supplementare è di "soli" 170 milioni). La voglia del premier di ridimensionare il Carroccio e di godere dei frutti della nuova legge potrebbe fare il resto. Daniele Capezzone, ultimo portavoce di Forza Italia, conferma che «dopo la tragedia abruzzese è giusto il richiamo a non sciupare denaro pubblico».
La schiera degli accorpatori è sempre più nutrita e autorevole. Nel Pdl, versante An, il ministro della Difesa Ignazio La Russa dice che Berlusconi fa bene a prendere in considerazione l'ipotesi, mentre il sindaco di Roma Gianni Alemanno non ha dubbi: si proceda. Gianfranco Fini, figuriamoci, ha pure raccolto le firme, la sua posizione non è un mistero. E Nel Pd? Nel Pd c'è un solido nucleo di referendari, tra i veltroniani come tra i fedelissimi del nuovo segretario Dario Franceschini, che in passato, prima di assumere la leadership, ha già rilasciato dichiarazioni simpatizzanti con le tesi referendarie. Franceschini fa sapere che non è ancora il momento di dare indicazioni di voto («Ne discuteremo negli organi competenti al momento opportuno», spiega il suo entourage), ma certo sarebbe sorprendente se, dopo aver puntato tutto sull'accorpamento, e dunque sul raggiungimento del quorum, optasse per il no. E in casa democrat si è aggiunto alla compagnia un insospettabile fan di Guzzetta&co. Segni ha scelto gli studi di Red tv per annunciare che Massimo D'Alema gli ha garantito in un colloquio privato che voterà e voterà sì: «Mi ha dato il permesso di dirlo», ha aggiunto "Mariotto", aggiungendo peso politico alla notizia.
La carrellata basta a spiegare cosa accadrebbe se si votasse davvero il 7 giugno: un plebiscito targato Pd-Pdl.Sarebbe il trasferimento dell'unità nazionale battezzata dal sisma dell'Aquila sul terreno della riforma elettorale. Le conseguenze andrebbero ben oltre la stagione presente. In Italia ogni qualvolta si è modificata la legge elettorale si è tornati rapidamente al voto. Perché dovrebbe andare diversamente stavolta? Il vicepresidente dei senatori Nicola Latorre, che nel Pd sembra essere tra gli ultimi resistenti a questo improvviso ritorno di fiamma referendario, non crede all'eccezione: «Io spero - dice - che il mio partito discuta con rigore la posizione da prendere. Per ora mi limito a segnalare che è difficile pensare di fare il referendum e poi modificare in Parlamento la legge che ne uscirebbe, anche perché non c'è traccia di un dibattito in questo senso».
Di certo Berlusconi avrebbe un incentivo formidabile - e qui torniamo allo scenario di partenza - a imboccare di nuovo la via delle urne. La legge referendaria assegna un premio di maggioranza alla singola lista che prende anche un solo voto più delle altre. Addio coalizioni, mini o maxi che siano. Tanti saluti alla Lega da una parte. E a Di Pietro dall'altra. Fin qui la convenienza potrebbe quasi essere bipartisan. Ma in un sistema già squilibrato dall'estrema debolezza dell'opposizione, sarebbe un passo verso il partito unico. Non c'entra l'antibelusconismo o le grida di regime. C'entrano i numeri. Alle valutazioni attuali, e con la spinta del premio di maggioranza, il Pdl potrebbe permettersi di varare al prossimo giro un bel governo monocolore. Di cambiare la costituzione senza neanche dover scomodarsi ad allestire un tavolo, non diciamo con Franceschini, ma nemmeno con Bossi. Senza contare che il nuovo Parlamento sarebbe quello chiamato a eleggere il successore di Giorgio Napolitano al Quirinale. Uno scenario bulgaro. In nome della «democrazia dei cittadini». Garantisce Guzzetta.

l'Unità 11.4.09
Conversando con Marek Halter
Scrittore e fondatore di Sos Racisme
«Temo il nostro tempo. Sembrano gli anni prima della guerra mondiale»
di Umberto De Giovannangeli


Crisi e razzismo
Perdere il lavoro porterà a fomentare la xenofobia l’antisemitismo il razzismo in generale

È stato tra i fondatori di Sos Racisme. Il suo straordinario percorso di vita, e di scrittura, s’intreccia con pagine di storia. La storia del Medio Oriente. Tra gli scrittori ebrei contemporanei, Marek Halter ha un posto di primissimo piano. Halter è in questi giorni in Italia per presentare la sua ultima fatica letteraria «La Regina di Saba» (Spirali). Un romanzo affascinante.
Ssperanza. Cambiamento. Parole-chiave nel vocabolario politico di Barack Obama. Il neo presidente Usa parla di un mondo senza più Muri, né armi nucleari, di un Medio Oriente senza più oppressi e oppressori. È un sogno destinato a rimanere tale?
«Chi non nutre speranze per il futuro, chi non sogna non riuscirà mai a realizzare qualcosa, ad avere un peso nella storia. Per questo motivo penso che sia estremamente positivo avere un presidente di un Paese così importante capace di credere in tali sogni e di incarnarli. Il predecessore, George W. Bush, era il contrario di Obama, aveva un sogno “inverso”. Ha voluto imporre la democrazia con la forza. Credo che i sogni di Obama non potranno realizzarsi al 100% ma se vi sarà anche un inizio di realizzazione, vorrà dire che avremo compiuto un grande passo in avanti»
Nei suoi libri Lei racconta passioni e sentimenti forti. Ed esprime la necessità di ascoltare e compenetrarsi con «l'altro da sé». Nel mondo però cresce l’insofferenza, l’odio contro le minoranze etniche, culturali, religiose. Come far fronte a tutto questo?
«La crisi economica che il mondo intero sta affrontando e che porterà milioni di individui a perdere il lavoro non potrà che fomentare la xenofobia, accrescere il razzismo, aumentare l'antisemitismo. Quando qualcosa non va per il verso giusto, scatta immediatamente la ricerca di un capro espiatorio. Quando non c'è lavoro, la colpa viene automaticamente data allo straniero, all'immigrato, colui che sembra averti preso il tuo posto. Stiamo entrando in un periodo storico delicato e pericoloso. Un periodo simile alla crisi degli anni Trenta che ha poi portato alla Seconda guerra mondiale. Ma la storia, come diceva Aristotele, non è una scienza esatta. Gli eventi non si ripetono identici tra loro. Possiamo trarre una lezione dalla storia ma non possiamo leggerla e anticiparla come se il futuro fosse semplicemente un riflesso perfetto del passato. Le offro un piccolo e recente aneddoto personale. A Parigi, nel 19esimo arrondissement, abitano numerosi francesi di origine africana e numerosi ebrei religiosi. Dall'inizio dell'anno, ci sono state innumerevoli risse tra giovani neri e giovani ebrei, tanti feriti e perfino un morto. Ho chiesto al sindaco dell'arrondissement di riunire per me gli studenti delle scuole del quartiere. Così, alla fine dello scorso febbraio, mi sono ritrovato davanti a circa mille giovani, molti neri e molti ebrei che portavano la kippà. Sono andato a trovarli con i miei amici dell'Associazione Noirs de France. All'inizio ho sentito in questi giovani una forte ostilità nei miei confronti. Credevano che volessi impartire loro una lezione di morale. In realtà mi sono limitato a parlare del mio libro La Regina di Saba. Mi hanno ascoltato per un'ora e mezza, affascinati, hanno posto domande. Ho concluso dicendo: 'Vedete....non siete diversi...Siete uguali...” Il Regno di Saba, da Menelik I fino a Haile Selassie, destituito dai fascisti italiani, era grande e potente proprio perché era costituito da neri ebrei. Ancora oggi, in tutte le chiese etiopiche c'è una Stella di Davide. Questo incontro è stato ampiamente mediatizzato in Francia e, a quanto ne so, da quel giorno non ci sono più state risse».
Nella sua vita Lei ha più volto incrociato le vicende storiche d'Israele. Cos’è oggi per Marek Halter Israele ed è ancora possibile una pace giusta, duratura fra israeliani e palestinesi?
«La pace è possibile. E poi la logica vuole che le guerre, tutte le guerre si concludano con la pace. Anche la Guerra dei cent'anni, tra cattolici e protestanti, è sfociata in accordi di pace. Dieci giorni fa ero a Gaza con un gruppo di rabbini e di imam. La mia prima tappa è stata Sderot, una città israeliana dove i bimbi vivono ancora nei rifugi per non essere colpiti dai razzi palestinesi. Ho dimostrato ai dirigenti di questa regione che i due popoli sono molto più vicini alla pace di quanto si voglia credere e far credere. A Gaza per esempio, due mesi dopo i bombardamenti israeliani, nessuno insultava i rabbini che viaggiavano con me. Anzi...La popolazione era commossa davanti a questi religiosi con la kippà che distribuivano regali ai bambini palestinesi. Sono fermamente convinto che prima della fine dell'anno ci saranno delle sorprese positive in Medio Oriente e questo nonostante il governo di destra da poco insediato in Israele».
I più affermati scrittori israeliani contemporanei continuano a battersi per il dialogo. Guardando oltre i confini d'Israele, e venendo anche al cuore dell'Europa, come definirebbe oggi il rapporto tra intellettuali e politica?
«Ho sempre pensato che la democrazia, come l'intendiamo noi in Occidente, non sia nata ad Atene ma a Gerusalemme. La democrazia ateniese si rivolgeva alla stessa classe sociale. Donne, stranieri, schiavi ne erano esclusi. Platone – in La Repubblica – voleva perfino escludere gli artisti che considerava dei bugiardi. La democrazia biblica invece era fondata sulla divisione tra la religione e la politica. Mosè si occupava della politica e suo fratello Aronne della religione e della società civile. Quest'ultima era rappresentata dai profeti che si permettevano, se necessario, di criticare i rappresentanti del potere religioso e del potere secolare. E lo facevano al rischio della propria vita. Il Profeta Isaia, per esempio, per sfuggire a chi lo voleva punire per la sua autonomia e per la sua attività profetica, si nascose in un albero che venne segato in due dalle guardie che gli stavano dando la caccia. Oggi, in Israele, ci sono degli intellettuali notevoli che fanno lo stesso lavoro portato avanti dai profeti dell'Antichità. Ma forse i profeti del presente sono un po' invecchiati, un po' polverosi e si assumono troppi pochi rischi... Anche se sono legato da una forte amicizia a molti di loro, non Le nascondo che sto aspettando una nuova generazione di profeti. Per quanto riguarda l'Europa, il conflitto israelo-palestinese può ulteriormente esacerbare l'antisemitismo e il razzismo. Le associazioni concettuali pericolose sono oggi innumerevoli. Durante i bombardamenti a Gaza, nelle strade di Parigi si manifestava in solidarietà con i palestinesi e si gridava “Morte agli ebrei”. È proprio ora che dobbiamo dimostrarci veramente prudenti e vigili».
Scrittura e pittura sono strettamente intrecciate nella sua vasta e acclamata produzione artistica. Come è riuscito a "fondere" queste due attività creative?
«La domanda è pertinente ma in realtà quando ho incominciato a scrivere, ho smesso di dipingere. Ho "scambiato" la mia attività con mia moglie... Quando ci siamo conosciuti lei era la scrittrice di casa. Quando ho cominciato a scrivere anche io...ha deciso di smettere sostenendo che due scrittori in una coppia erano troppi. Così da anni racconto storie e lei dipinge, crea e su ogni sua opera scrive, in tutte le lingue, la parola “pace”».

Repubblica 10.4.09
Quella legge che mette in discussione la libertà
risponde Corrado Augias


Caro dr. Augias, la legge sul testamento biologico farà compiere un passo indietro alla correttezza dei rapporti medico/paziente ed alla cultura giuridica. Se stabilirà, come sembra probabile, che nutrizione e idratazione non sono atti medici e quindi non sono ricusabili, costringerà molti medici a evitare l'accanimento terapeutico sospendendo le misure di sostegno vitale, con o senza il tacito consenso dei parenti, nel discreto silenzio delle sale di rianimazione e delle mura domestiche. Per fortuna il Comitato Centrale della Federazione Nazionale dell'Ordine dei Medici, che rappresenta i circa 280 mila medici ed odontoiatri italiani, ha emanato il 27 marzo, all'unanimità, un comunicato in cui definisce nutrizione e idratazione artificiali «trattamenti assicurati da competenze mediche e sanitarie», e l'autonomia decisionale del paziente «elemento fondante dell'alleanza terapeutica» con il medico. Il rilievo dato dalla stampa (compresa Repubblica ) a questo importante documento è stato scarso. Far capire che i medici italiani, per bocca della loro Federazione, hanno espresso perplessità per un'irruzione così pesante nei diritti delle persone e nel delicato rapporto con il paziente potrebbe persuadere qualche parlamentare a evitare i provvedimenti più repressivi della legge.
Mario Manfredi - Ex Presidente Società Italiana Neurologia Mario.Manfredi@uniroma1.it

R epubblica per la verità ha pubblicato il comunicato dell'Ordine dei medici con il dovuto risalto. In attesa che la discussione sul Ddl passi alla Camera si susseguono intanto le prese di posizione. Il signor Renato Patelli (Verona) mi segnala alcune inverosimili parole di Lucetta Scaraffia e cioè: «La verità è che nessuno è libero, e la vita non è proprietà di cui si può disporre. Ognuno è in una rete di condizionamenti fatta da parenti, amici, stati d'animo, situazione economica, ed è dunque utopia, quella sì una ideologia, credere che possiamo essere noi a disporre di noi stessi». Giudico inverosimili queste parole anche se non posso certo discutere la correttezza del signor Patelli nel riportarle. Se fossero esatte vorrebbe dire che la dottoressa Scaraffia ha cancellato (quanto meno nella sua mente) conquiste consolidate da circa due secoli. John Stuart Mill nel suo fondamentale On Liberty condensava la libertà dei cittadini che s'era andata affermando nel Continente in queste parole: «Il solo aspetto della propria condotta di cui ciascuno deve rendere conto alla società è quello riguardante gli altri: per l'aspetto che riguarda soltanto lui, la sua indipendenza è, di diritto, assoluta. Su se stesso, sulla sua mente e sul suo corpo, l'individuo è sovrano». Da allora (1858) ovunque in Europa, il principio è pacificamente accolto. È penoso doverne discutere, nel XXI secolo, la validità nel nostro paese.

l'Unità 11.4.09
Addio italiano lingua crudele
Come salvare la nostra lingua?
I dati sono allarmanti: non sappiamo scrivere e i risultati scolastici sono scarsi
di Tobia Zevi


La difesa della lingua italiana spetta alla società civile ed alle classi dirigenti». Con queste parole il linguista Maurizio Dardano apre il volume L’italiano di oggi (Aracne, euro 14, pagine 241), da lui curato insieme a Gianluca Frenguelli. I dati di partenza sono allarmanti: concorsi pubblici deserti perché i candidati non sanno scrivere un tema; risultati scarsi dei nostri studenti in confronto a quelli di altri paesi; ricerche che minacciano un arretramento dell’italiano (oggi quinta lingua al mondo) in favore di cinese, russo, arabo, spagnolo.
Ma come si protegge l’italiano? Nel 1999 l’ipotesi di un «Consiglio superiore della lingua italiana» fu decisamente osteggiata dalla sinistra, contraria ad ogni forma di dirigismo in materia. L’idea non era tuttavia priva di senso: la Costituzione tutela giustamente le minoranze linguistiche storiche, ma non fa nessun riferimento all’idioma nazionale. D’altra parte è vero che una politica seria sul tema non dovrebbe assomigliare ad un’imposizione - come fece il fascismo contro il francese - ma favorire i meccanismi che rafforzano la lingua sullo scenario internazionale: potenziamento dei corsi per stranieri, investimenti su scuola e università, promozione di un dibattito culturale serio che, pur non negando l’importanza storica e culturale dei dialetti, riaffermi l’esigenza di favorire la lingua standard.
DAL DIALETTO...
Mentre in passato gli studiosi partivano dalle caratteristiche del dialetto, diverso dalla lingua standard e dall’italiano regionale, negli ultimi anni ci si è maggiormente occupati delle interferenze tra i vari gradi del continuum tra dialetto e lingua. Il numero delle persone in grado di parlare in lingua è enormemente aumentato (grazie alla scuola e alla televisione), ma questa è sempre più aperta ad influssi locali o popolari. In particolare si è ampliata la «tastiera» espressiva: oggi, a differenza del passato, quasi tutti - seppur con capacità molto differenti - sono in grado di cambiare registro a seconda della situazione in cui si trovano.
Tra le linee evolutive bisogna ricordare il peso crescente dell’inglese (spaghetti-welfare, exit-strategy, free press, ma anche alcuni procedimenti linguistici), e l’ingresso di molti termini provenienti dai vocabolari scientifici. L’italiano medio parlato non ha più come modello lo stile letterario ma la lingua dei giornali, a cui sono infatti dedicati ben due capitoli. Questi captano per primi i mutamenti e sono spesso i veicoli con cui i fenomeni linguistici penetrano nei testi letterari. Le esigenze di sintesi e rapidità del quotidiano rafforzano due macro-tendenze dell’italiano contemporaneo: l’aumento delle costruzioni nominali (cioè frasi senza il verbo) e quello di neologismi formati dall’unione di più parole pre-esistenti, talvolta con intento ironico (dalemologo, lowcostismo, fare flop).
...AI GIOVANI
L’ultimo capitolo del libro studia la lingua dei giovani, per sua natura in continua evoluzione. Anni fa si riteneva di poter definire una «varietà giovanile» con caratteristiche autonome dalle altre tipologie d’italiano, mentre oggi si cerca piuttosto di valorizzare la sovrapposizione tra i diversi piani linguistici; in particolare appare molto efficace la distinzione tra «lingua dei giovani» e «lingua della generazione giovane». Se con il primo concetto si intende il modo di esprimersi dei ragazzi tra di loro, il secondo rimanda invece alle modalità plurali di espressione tipiche di ogni giovane, che parla in un modo quando è a scuola, in un altro in famiglia, in un altro ancora con gli amici. Qualunque ragionamento sulla lingua deve necessariamente guardare al futuro. In questo senso preoccupano le inchieste sulla produzione linguistica degli studenti: al di là dei veri e propri errori grammaticali o ortografici (carabbinieri, miglioni, lattenzione), ciò che colpisce è la difficoltà a strutturare un testo sensato. Un deficit di competenze in cui la lingua è spesso soltanto la cartina di tornasole. Saper parlare, come si sa, vuol dire spesso saper pensare, ed è per questo che occorre muoversi da subito.

Chi parla bene pensa bene. Consigli per farlo
I risultati scolastici in italiano dei nostri ragazzi sono scarsi? «Parlare l’italiano. Come usare bene la nostra lingua» di Edoardo Lombardi Vallauri (Il Mulino) prova a «parlare» con loro, soprattutto agli studenti dell’università e degli ultimi anni delle scuole superiori che si trovano costantemente messi alla prova nell’uso delle loro abilità linguistiche. E cerca le parole per indicare loro il modo giusto per arrivare a parlare bene. L’autore intende mettere in discussione l’idea, tanto diffusa quanto scoraggiante, che vuole che l’abilità nel parlare, una volta acquisita automaticamente, non possa essere perfezionata, e per demolire tale mito dispensa utili consigli su come usare termini stranieri e specialistici senza incorrere in grossolani errori e vari suggerimenti sul modo migliore di esprimersi nelle diverse circostanze.

Repubblica 11.4.09
Il 22 aprile il premio Nobel festeggia il suo compleanno
«Vivere (come me) fino a cento anni»
di Rita Levi Montalcini


Desidero rivolgermi, soprattutto ai giovani, per incoraggiarli ad avere fiducia in loro stessi e nel futuro. Lo scopo ultimo di quanto si produce non è il premio, ma il piacere di utilizzare al meglio le capacità cognitive delle quali è dotato l´Homo sapiens.
La passione e interesse nella soluzione di problematiche di qualunque natura non decade con gli anni; il segreto risiede nel mantenere il cervello in piena attività.
Agli inizi degli Anni Cinquanta la scienza biologica, oggi nota come neuroscienza, era quasi inesistente. Era a un livello così rudimentale da scoraggiare i biologi che volevano dedicarsi a questo settore. Gli studi iniziati più di mezzo secolo fa, in un piccolo laboratorio privato a Torino nella sinistra atmosfera degli anni 1938-1945, hanno aperto un nuovo attacco allo studio dei meccanismi differenziativi e di regolazione del sistema nervoso.
Prima delle ricerche delineate in questa cronologia nella quale è riportata l´origine e lo sviluppo della molecola proteica, Nerve Growth Factor.
Così come riportato nella motivazione dell´assegnazione del Premio Nobel per la fisiologia e la medicina, assegnatomi nel 1986, trentacinque anni dopo la scoperta del fattore di crescita della fibra nervosa (NGF) dall´Accademia delle Scienze svedesi, non vi era ‘alcuna idea di come lo sviluppo del sistema nervoso e l´innervazione degli organi fossero regolati´.
Alla ricerca guidata da imprevedibili colpi di fortuna con una strategia razionale si sono susseguiti negli anni studi volti alla potenziale utilizzazione del NGF nel trattamento di patologie del sistema nervoso. I pronostici sull´imprevedibilità sono stati e sono tuttora incoraggiati dallo stesso modo nel quale si è svolta la storia del NGF che può essere definita una lunga sequenza di eventi non previsti i quali hanno aperto nuovi scenari su un panorama sempre più ampio.
Questo sviluppo, tanto imprevisto, quanto fortunato è l´aspetto più attraente di questa lunga avventura della saga NGF.
L´imprevedibilità dei risultati risiede nella complessità degli ambienti nei quali si muove il Nerve Growth Factor. La sua attività assume una rilevanza estrema non soltanto nello sviluppo normale di tutti gli organismi, ma anche in quelli affetti da patologie neurodegenerative, autoimmunitarie e di natura oncologica.
Ma gli studi svolti negli ultimi decenni hanno fornito sempre nuove prove della natura vitale di questa molecola. Da un ruolo ristretto a componenti del sistema nervoso periferico e centrale la sua azione si è estesa a tutte le componenti coinvolte a livello strutturale, fisiologica e comportamentale.
La ‘cronologia´ di questa molecola si è posta l´obiettivo di portare a conoscenza i lettori specializzati e non, della mia esperienza personale seguendo un percorso tortuoso dato le tecnologie rudimentali a quei tempi a disposizione e il periodo difficile nel quale ho iniziato e condotto la prima fase delle mie ricerche.

Repubblica 11.4.09
Da San Giuliano all'Aquila le vite spezzate degli studenti
Il legame tra il piccolo comune del Molise e la tragedia abruzzese di questi giorni è fatto di giovani storie interrotte
Una sequenza non di fatalità naturali ma di ripetute illegalità, di morti, di promesse solenni e rapide dimenticanze
di Adriano Prosperi


San Giuliano di Puglia ha offerto aiuto e solidarietà alle popolazioni abruzzesi colpite dal terremoto. È una notizia che ci ricorda qualcosa di importante, in una memoria che prova a tessere da capo i fili della continuità dopo lo stordimento della tragedia. Il legame tra il piccolo comune del Molise e la tragedia abruzzese di questi giorni è fatto di vite interrotte di giovani e giovanissimi: vite stroncate non dalla natura ma dagli uomini, quelli che hanno fatto straccio delle leggi o non le hanno fatte rispettare. Vite cancellate di scolari alla scuola comunale di San Giuliano, di studenti universitari alla Casa dello Studente dell´Aquila: qui sta il legame speciale tra i due luoghi. Ricordiamolo: il 31 ottobre 2002 un terremoto provocò a San Giuliano di Puglia solo un crollo: quello di una scuola. Vi morirono 27 bambini e un´insegnante. Oggi fra i tanti morti della notte aquilana ci sono gli studenti della casa di via XX Settembre. La scuola di San Giuliano era di recente ristrutturazione. Quella dell´Aquila era un edificio pubblico costruito nel 1965. Nella sua ultima incarnazione si chiamava Casa dello studente; è diventata la loro tomba. è crollata come un castello di carte, ancora più fragile del pur fragilissimo e recentissimo ospedale.
Il 26 febbraio 2009, appena pochi giorni fa, c´è stata la sentenza nel processo di appello per la vicenda di San Giuliano. Costruttori privati e amministratori pubblici hanno ricevuto condanne dai due ai sette anni. Altre condanne forse arriveranno in futuro per la Casa dello studente all´Aquila. Ma deve essere interrotta questa sequenza. Che non è quella di fatalità naturali; è la sequenza ripetitiva di illegalità e di morti, di promesse solenni e di rapide dimenticanze. Quando un fatto si ripete con regolarità si dice che è per effetto di una legge. Una legge oggi sicuramente vigente è quella del degrado tendenziale delle cose pubbliche come sottoprodotto necessario della finanza internazionale come sistema che governa il mondo. Le dinamiche di quello che Luciano Gallino ha definito un «capitalismo per procura» nel suo ultimo libro (Con i soldi degli altri. Il capitalismo per procura contro l´economia, edizioni Einaudi) - obbediscono a regole ferree: fondamentale quella della distruzione dell´economia reale e dell´alzarsi inesorabile della soglia della povertà per l´intera popolazione del pianeta. Questa è la legge non scritta che oggi opera sotto i nostri occhi: da qui è mossa la forza che ha portato la morte nelle scuole di San Giuliano di Puglia e dell´Aquila.
Facciamolo presente agli uomini e alle donne di una classe politica in cerca di visibilità elettorale che in questi giorni ha intasato le vie dei borghi distrutti, declamando solenni promesse di «mai più». Oggi è altro quello che ci vuole, altro quello su cui saranno giudicati. Il richiamo del presidente Napolitano alle responsabilità che stanno all´origine della tragedia abruzzese impone al governo e a tutti gli amministratori della cosa pubblica di andare al di là dell´emergenza. C´è stata non imprevidenza, ma connivenza criminale con le ruberie pubbliche e gli arricchimenti privati che oggi paghiamo con centinaia di morti, vittime non della natura ma degli uomini. La natura colpisce ugualmente Giappone e Italia ma uccide solo in Italia. I poteri pubblici che non proteggono dalla natura sono poteri colpevoli. Una discussione sul potere è in corso da tempo qui da noi: oggi è tempo di ricordare ancora una volta che l´unico potere di cui abbiamo bisogno è quello di chi opera nell´interesse comune, non contro le leggi, non al di sopra delle leggi, ma per mezzo delle leggi: elaborandole secondo i modi previsti dalla Costituzione, facendole osservare in un rapporto costruttivo e non di guerra con gli altri poteri dello Stato. Dopo il crollo di San Giuliano, nell´emozione del momento si garantì che si sarebbe provveduto a ridisegnare le mappe del rischio sismico e che gli edifici scolastici sarebbero stati messi a norma. è accaduto tutt´altro. Oggi una demagogica promessa di un´edilizia «fai da te» è stata cancellata da una tragedia collettiva prima che potesse aumentare il rischio esistente. Ma intanto resta in piedi nell´agenda del prossimo futuro una serie di «grandi lavori» uno più faraonico, devastante e pericoloso dell´altro. Ebbene, prima di sognare ponti giganteschi su terre ballerine, si cominci a pensare sul serio a una scuola che oggi vive giorni di tagli e di strettezze, con edifici fuori norma, dove si vantano riforme che sembrano uscite dal «Giornalino di Gian Burrasca»: grembiulini e cinque in condotta.
In questi giorni di morte e di desolazione dobbiamo avere ben presente che se la nostra speranza di futuro è riposta nei giovani è solo nella qualità della scuola che è riposta la speranza di un futuro migliore del passato, di figli che facciano qualche passo in più dei loro genitori. La scuola – quella pubblica, di ogni ordine e grado, dalle materne all´università – è il termometro della vitalità di un paese. Un paese dove la morte degli studenti passa senza lasciare traccia è un paese che muore.

Corriere della Sera 11.4.09
Le ultime scoperte della neuro-economia: il denaro è come una droga psicoattiva
La mente ai tempi della crisi
di Massimo Piattelli Palmarini


Effetti anche sul cervello: attivate le aree del disgusto
Le perdite monetarie innescano le stesse reazioni dei cibi guasti. I guadagni quelle legate ai piaceri sessuali

In senso stretto, non ave­va torto l’imperatore Vespa­siano, quando se ne uscì con il famoso motto «pecu­nia non olet» (il denaro non ha odore), espressione oggi tradotta e corrente in molte lingue. Eppure Freud aveva ipotizzato un’origine infanti­le fecale dell’attaccamento al denaro, assimilando gli spendaccioni ai diarroici e gli avari agli stitici. Adesso la nuova scienza chiamata neuro-economia ha confer­mato che le perdite moneta­rie attivano alcune zone ce­rebrali normalmente attiva­te da stimoli letteralmente, corposamente penosi o di­sgustosi (cibi guasti, feci, cattivi odori, shock elettrici e simili).
All’opposto, un guadagno monetario e perfino la pro­spettiva certa di un premio monetario attivano centri nervosi normalmente depu­tati a registrare piacevoli stimo­li corporei, per esempio la sa­zietà nel cibo o il piacere ses­suale. Gli psico­logi inglesi Ste­p hen Lea e Paul Webley (Università di Exeter), in un recente artico­lo pubblicato in Behavioral and Brain Sciences non esitano a consi­derare il dena­ro, letteralmen­te, come una droga psicoat­tiva, al pari dell’alcol la nico­tina, la cocaina e, loro ag­giungono, la pornografia. Le reazioni al contatto con il danaro vanno ben oltre, lo­ro affermano, il suo valore di scambio e la sua utilità pratica. E’ un contatto che vellica i più bassi istinti e, per esempio, annebbia an­che la vista, come vecchi stu­di di Jerome Bruner sulla psicologia del denaro aveva­no già rivelato. Secondo Bruner, i ragazzini di fami­glie povere ricordano e per­cepiscono le dimensioni del­le monete di uso corrente come più grandi di quanto non facciano i loro coetanei di famiglie ricche.
Una lunga serie di studi psicologici hanno poi mes­so in evidenza la cosiddetta «money illusion», cioè l’im­pressione sog­gettiva, fortissi­ma, di possede­re, guadagnare e spendere in termini di nu­meri tondi, espliciti, istan­tanei, non in termini del rea­le potere di ac­quisto della moneta.
Il divario tra valore nomina­le, il solo che conta psicologi­camente, e va­lore effettivo, il solo che do­vrebbe contare realmente, diventa drammatico soprat­tutto in caso di inflazione galoppante. Molti, infatti, preferirebbero un aumento di stipendio del 15 per cen­to in un’economia che ha il 10 per cento di inflazione a un aumento del 5 per cento in un’economia senza infla­zione. Inoltre, per la gente comune è arduo stimare il valore monetario di quanto non trova una verifica nu­merica immediata, pubblica ed obbiettiva, per esempio è arduo stimare il costo di un figlio, di una malattia prolungata e perfino del­l’uso di un’automobile.
Lo studioso Richard Tha­ler, dell’Università di Chica­go, un pioniere della psi­co- economia, adesso assai celebrato anche sulla gran­de stampa negli Stati Uniti, e Eldar Shafir di Princeton, in uno studio pubblicato al­cuni anni or sono, scopriro­no che siamo incapaci di da­re un valore monetario a svariati oggetti da noi posse­duti, per esempio una botti­glia di ottimo vino acquista­ta anni addietro.
Supponiamo di averla comprata, allora, per 20 Eu­ro, e che oggi ne valga 100. Quanto vale per noi moneta­riamente il consumo di quel­la bottiglia, questa sera, tra amici? Ciascuno ha un’opi­nione solidissima, ma, su cento soggetti, si equivalgo­no i numeri di coloro che sti­mano il suo valore 100, colo­ro che lo stimano 20, coloro che lo stimano quanto vale­vano 20 Euro anni addietro, coloro che dicono che non ha valore monetario, per­ché già la possiedono, colo­ro che pensano rappresenti un «guadagno» (proprio co­sì) di 80 Euro e coloro che si rifiutano di fare il calcolo, ri­tenuto volgare. Però, strana­mente, se inve­ce pensiamo di farne omaggio a un collega, non a un ami­co, allora tutti siamo d’accor­do per stimare il suo valore 100 Euro, quel­lo del mercato corrente. La psi­cologia del de­naro non cessa di stupirci. Negli Stati Uniti, in questi tempi di crollo dei valori immobiliari, i prezzi di case e appartamen­ti non calano veramente, manifestamente. Se appena appena possono permetter­selo, dopo qualche mese, i proprietari preferiscono riti­rarle dal mercato, piuttosto che accettare un prezzo più basso. L’idea di vendere la propria casa a un prezzo in­feriore a quello pagato è psi­cologicamente intollerabile. Si cancella la vendita, si aspettano tempi migliori, e avvenga che può. Svariati recenti esperi­menti, alcuni anche piutto­sto ingegnosi, sondano fin dentro le latebre del cervel­lo le radici primarie dei no­stri comportamenti econo­mici, delle scelte monetarie, delle preferenze tra ricever­ne pochi maledetti e subito (centri cerebrali emotivi), o piuttosto molti probabil­mente in futuro (centri «ese­cutivi » della corteccia ante­riore).
Numerosi protocolli speri­mentali e tabelle di dati si accompagnano a immagini colorate dei centri cerebrali attivati. Però, passati i primi entusiasmi per le tecniche e le immagini, vie­ne ormai vo­glia di contro­battere: diteci qualcosa che non sapevamo già!
Il filosofo e cognitivista americano Jer­ry Fodor ha emesso pro­prio questo gri­do di insoddi­sfazione, affine al recentissimo libro «Neuromania» degli psicologi italiani Carlo Umil­tà e Paolo Legrenzi, i quali ci mettono in guardia con­tro gli abusi scientifici, so­ciali e culturali della mistica delle cosiddette verifiche neuro-scientifiche (Il Muli­no 2009).
Restiamo attenti ai nuovi sviluppi, ma consentiamoci di albergare il recondito pen­siero che la psicologia del de­naro è forse cosa troppo im­portante e complessa per af­fidarla ai neurobiologi.

Corriere della Sera 11.4.09
Monumenti, chiese, ville: il censimento del rischio
Banca dati con 100 mila beni culturali
di Paolo Conti


Già finita la catalogazione-pilota in Sicilia e Calabria. Per ogni bene schede tecniche e cartografia
L’obiettivo Dopo il sisma abruzzese il ministero ha deciso di coordinare i tanti dati a disposizione

Fine anni Novanta, la Protezio­ne civile è ancora diretta da Franco Barberi. Una disposi­zione raggiunge molti uffici pubbli­ci per avviare le operazioni di simu­lazione di una possibile replica del devastante terremoto di Messina del 1908, immaginata in base a un’ipotesi statistica sulla ricorrenza di quel genere di catastrofi. Di lì na­sce il progetto-pilota, in via di con­clusione in questi giorni, della Car­ta del rischio curata dal 1992 dal­­l’Istituto superiore per la conserva­zione e il restauro, diretto da Cateri­na Bon Valsassina, del ministero per i Beni e le attività culturali.

Tra qualche giorno diventerà ope­rativa una avanguardistica banca dati: duemila monumenti siciliani e mille calabresi (l’area virtualmente interessata da un possibile sisma) registrati, georiferiti (localizzati sul territorio con precisi riferimenti car­tografici) e forniti on line di schede tecniche, corredati da una scala di vulnerabilità sismica.
Una suddivisione schematica: pa­lazzi/ ville, torri/campanili, chiese con la classe di rischio segnalata dai colori: rosso (alta), arancione (me­dia), giallo (medio bassa) verde (bassa). Spiega Alessandro Bianchi, supervisore della Carta: «Il nostro compito sarà segnalare il possibile pericolo a tutti i proprietari di un bene culturale. Lo Stato, un ente lo­cale come un Comune o una Regio­ne, un privato. Nel momento in cui la carta siciliana e calabrese sarà effi­cace, toccherà a ciascun interlocuto­re decidere sul da farsi e se mettere in sicurezza il monumento inserito in una classe alta di rischio». Costo dell’operazione siciliana-calabrese 1.700.000 euro, una media di 560 euro per ogni bene catalogato. D’ora in poi, ammortizzate le spese per i software e per le procedure tec­niche, la spesa scenderà a 400 euro. Ironizza Alessandro Bianchi: «Fossi­mo un Paese civile, le due Regioni potrebbero lavorare per ridurre no­tevolmente i danni di un eventuale terremoto. È ciò che correntemente si chiama prevenzione» La Carta del rischio, tecnicamen­te curata da Carlo Cacace, contem­pla per tutta l’Italia 100.258 beni (è visibile su www.cartadelrischio.it, ma l’accesso ai dati tecnico-scienti­fici è riservato). Per l’Abruzzo ne so­no previsti 2.991 e per la provincia dell’Aquila 1.630. Ma non tutti i cen­tomila beni sono corredati da sche­de tecniche nella Carta del rischio. Anzi, si tratta di una minoranza: ap­pena 8.388. Ed è qui il punto debole di uno strumento che all’interno dello stesso ministero (come avvie­ne in ogni settore dell’amministra­zione nostrana) attira molte criti­che. Ma il vero nodo è che il dicaste­ro è ricco di articolate (ma separa­te) conoscenze. Ogni «anagrafe» dif­ficilmente si collega con un’altra. Perciò il segretario generale del mi­nistero, Giuseppe Proietti, sulla scia dell’emergenza abruzzese, ha deciso di coordinare e sovrapporre una volta per tutte le numerose ban­che dati. Per esempio le sterminate conoscenze contenute nei cinque milioni di schede (diecimila edifici, tutto il resto riguarda opere d’arte mobili) conservate dall’Istituto cen­trale per la conservazione e il catalo­go diretto da Mariarosaria Salvato­re.
O le cifre messe a disposizione dalla Conferenza episcopale italiana che cataloga i beni mobili e immobi­li di sua proprietà: e anche qui par­liamo di una realtà gigantesca (cen­tomila chiese e sacrestie, 300 catte­drali, 26.000 archivi parrocchiali, 826 collezioni di tipo museale e poi conventi, monasteri, eremi, semina­ri e altri edifici). Ma la banca dati della Conferenza episcopale è anco­ra parziale.
Tra poco nascerà un’altra opera­zione interna al ministero, coordi­nata dalla Direzione generale per i Beni architettonici e storico-artisti­ci diretta da Roberto Cecchi con la Protezione civile. Si tratta di una ve­rifica generale sulla sicurezza sismi­ca degli immobili di interesse cultu­rale in aree di alto rischio da realiz­zare entro il 2010: tremila comuni italiani. Cecchi ha messo a punto le linee guida per questa verifica, adot­tate da una direttiva della presiden­za del Consiglio nell’ottobre 2007. Se ne parlerà giovedì in un semina­rio alla Casa dell’architettura a Ro­ma.
Infine esistono 1.080 schede tec­niche di edifici di proprietà del mi­nistero dei Beni culturali (sedi del dicastero, soprintendenze, musei, archivi, biblioteche). È il frutto di un lungo lavoro della Commissione speciale permanente per la sicurez­za del patrimonio culturale naziona­le diretta da Fabio Carapezza Guttu­so. Ogni scheda contiene la plani­metria degli edifici, l’analisi dei ri­schi, l’elenco dei beni conservati, le caratteristiche degli impianti (elet­trici, idrici, di sicurezza). Spiega Ca­rapezza Guttuso: «Nel caso di un ter­remoto, lo stiamo purtroppo verifi­cando a L’Aquila, queste conoscen­ze ci mettono in grado di agire rapi­damente senza interrogarci su cosa nasconda quel cumulo di macerie». Ancora a L’Aquila il Comitato ha sperimentato una nuova modalità: il lavoro congiunto dei vigili del fuo­co specializzati delle squadre Saf (speleologici, alpini, fluviali) che opera accanto ai tecnici dei Beni cul­turali. Una metodologia di lavoro che evita demolizioni inutili e per­mette la messa in sicurezza di beni lesionati ma altrimenti destinati a distruggersi rapidamente. Martedì, così spera Proietti, tutte questi ar­chivi culturali (in gran parte on li­ne) dovrebbero coordinarsi in un grande sistema che si chiamerà Abc. Se la macchina dovesse avviar­si, vecchie rivalità interne al mini­stero potrebbero finire. Nel nome della tutela dei beni italiani.

Corriere della Sera 11.4.09
L’architetto Renzo Piano sulla ricostruzione dopo il terremoto: per evitare errori è necessario prendere tempo, elaborare il lutto
«Cemento armato? All’Aquila meglio il legno»
intervista a Renzo Piano di Stefano Bucci


Renzo Piano parla del terremoto che ha sconvolto l’Abruzzo «in diretta» da San Francisco, la città del Big One (ma anche la città che, devastata nel 1906 da un sisma violentissimo, venne rico­struita ex novo in soli nove anni). Quel­lo dell’architetto del Beaubourg e della futura London Bridge Tower (in viag­gio da Frisco verso Los Angeles, altra città sismica, dove sta completando il Los Angeles Country Museum) sembra, d’altra parte, il destino di un progetti­sta che ha dovuto fare spesso i conti con i terremoti: «Durante i lavori per la costruzione dell’aeroporto di Osaka, du­rati 38 mesi, — dice — ci furono alme­no 30 terremoti, alcuni dei quali supe­riori al quinto grado Richter». Ma chia­risce: «Nessun intoppo. Nemmeno per il terremoto che nel 1995 distrusse Ko­be: ha 'solo' fatto oscillare il mio aero­porto (costruito sull’acqua ndr) di 50 centimetri e non si è praticamente rot­to un vetro. Perché la flessibilità nelle strutture sismiche è essenziale al pari della leggerezza».
Architetto che fare adesso con le cit­tà distrutte?
«Vanno ricostruite o restaurate dove sono: non ha alcun senso fare altrimen­ti. Anche se ci vorrà tempo. Anzi, ose­rei dire che per evitare errori è assoluta­mente necessario prendere tempo, la­sciar cadere la polvere, elaborare il lut­to ».
Questo vale per le case. E per i mo­numenti?
«Vanno restaurati e consolidati. Oltre­tutto in Italia le soprintendenze posso­no contare su tecnici preparatissimi. Ma ripeto, tutto quello che è stato di­strutto, va ricostruito proprio dov’era».
Allora niente new town?
«Le new town sono sempre deserti af­fettivi: si immagini dopo un terremoto. Una volta esaurite le urgenze, e approfit­tando della buona stagione, penso che bisognerebbe invece costruire, in un luogo molto prossimo alle città distrut­te, un quartiere o più quartieri di transi­zione. Ecco queste possono essere, per me, le uniche new town possibili: quel­le che dovrebbero sostituire i campi de­gli sfollati prima della ricostruzione ve­ra e propria».
Mattoni o cemento armato?
«Meglio il legno. Che è un materiale leggero, flessibile, riciclabile, rinnovabi­le, sicuro. Si tagliano gli alberi per co­struire quelle case temporanee e se ne piantano tre volte tanti. E quando, dopo quattro o cinque anni, si buttano giù le case, al loro posto si fa nascere un bo­sco e si ricicla il legno usato. Si lavora, insomma, sulla natura. Meglio dimenti­carsi quel cemento armato che rende tutto meno elastico e più vulnerabile» Che consiglio darebbe al premier Berlusconi sulla ricostruzione?
«Lasci perdere gli aumenti di cubatu­ra. Non faccia aggiungere protesi, so­pralzi appiccicati qua e là, che non faran­no altro che peggiorare condizioni di stabilità già precarie».
E poi?
«Promuova un progetto di messa in sicurezza degli edifici già esistenti. Ri­lanci l’edilizia per 'fare meglio' e non per 'fare di più'. Faccia applicare le re­gole. Faccia eseguire più controlli per­ché, in Italia, la gente deve smettere di rubare sulle tecniche di costruzione, ag­girando i controlli, tirando su palazzi brutti e 'a rischio'. Oltretutto le regole ci sono, le leggi anche: devono essere solo applicate».
Se le regole ci sono perché, allora, questi danni così gravi?
«Perché l’Italia si è assuefatta al pres­sappochismo e alla fatalità che del pres­sappochismo è la giustificazione: le trac­ce lasciate dal terremoto in Abruzzo ne sono la dimostrazione evidente».
Che impressione le fa vedere questo terremoto da San Francisco?
«Penso che qui ci sono circa mille al­larmi all’anno sul Big One. Nella mag­gior parte dei casi sono allarmi ingiusti­ficati, ma nessuno si permette di catalo­garli come 'inutili'. Perché la sismolo­gia è una scienza esatta fatta di tanti ele­menti, allarmismi compresi: quello che è importante è capire la differenza tra vera scienza e semplice paura. Qui, co­me in Giappone, sembrano averlo capi­to. Forse dovremmo farlo anche noi».

l'Unità 11.4.09
«Con me la musica esce dallo schermo»
Intervista a Nicola Piovani di Giordano Montecchi


Stasera a Roma Il musicista dirige l’orchestra per un concerto «pasquale». In programma le sue colonne sonore: «Un lavoro artigianale umile, preciso e severo perché la scansione della pellicola non perdona»
Prima o poi un nuovo Einstein ci darà conto dell’universo che sta dietro lo schermo, quel mondo parallelo, sconfinato e non euclideo che abita le decine di migliaia di film che da oltre un secolo nutrono la fantasia di miliardi di persone. Ma stelle e pianeti di questo mondo non girerebbero se a spingerle non ci fosse un magnete potentissimo, invisibile, onnipresente e onnipotente: la musica da film, protagonista assoluta di una storia d’oggi ancora tutta da scrivere. A volte questa musica esce dallo schermo e si materializza davanti a noi. Stasera ad esempio, nella sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della musica, alle 21, l’Orchestra Roma Sinfonietta eseguirà musiche tratte da film di Fellini (La voce della luna, Ginger e Fred), Moretti (La stanza del figlio, Caro diario, La messa è finita), fratelli Taviani (La notte di San Lorenzo, Good morning Babilonia), Benigni (La vita è bella). Sul podio, neanche a dirlo, l’autore: 63 anni, romano, Nicola Piovani, un artista con cui si parla schietto.
Oggi troppi musicisti smaniano per dirigere un’orchestra, forse affetti dal morbo che qualcuno chiama podiomielite. Anche lei?
«Ci mancherebbe! Il fatto è che chi scrive per il cinema lavora molto in studio, dirigendo regolarmente l’orchestra. È un un artigianato quotidiano, umile e severo, che richiede soprattutto precisione millimetrica, perché la scansione della pellicola non perdona. Tutt’altra cosa rispetto a dirigere musiche altrui, o scavare nei capolavori del passato, cose che non mi sognerei mai di fare».
Da tempo però lei si sforza di uscire dall’isola dorata del compositore, cercando un contatto col pubblico. Si sente più compositore o musicista?
«Ho fatto il compositore e basta per tanti anni. Ma dal ’90 ho cominciato a sperimentare la musica dal vivo, nei teatri, nelle piazze, e non ho più smesso. Anzi è un’attività che mi attira sempre più: la musica che ho scritto a tavolino mi piace confrontarla nel corpo a corpo teatrale con pubblici diversi, comunicarla in carne ed ossa».
Sindrome del bagno di folla? Con un successo dietro l’altro non si rischia che venga meno il senso dell’autocritica, che si instauri una sindrome di onnipotenza come accade alle popstar o ai politici?
«Parole sante caro Montecchi, parole sante! Il bagno di folla è un ingranaggio pericoloso, un narcotico che genera dipendenza e bulimia. Conosco artisti abituati a migliaia di fans che si deprimono per un piccolo calo, o se un collega ha più pubblico di loro. Molte popstar vivono una contraddizione insanabile, lanciano proclami progressisti e umanitari, mentre vivono in una loro Versailles di lussi, miliardi e capricci. È il mercato planetario, bellezza: pagati per sputare sull’oro in cui si naviga. Quanto a noi (intendo dire io e i musicisti che suonano con me), siamo ancora come ragazzini: c’è sempre più pubblico di quello che ci aspettavamo. Ma prima o poi capiterà la serata fiacca, la mezza platea (ovviamente faccio gli scongiuri...)».
Dieci anni fa, marzo 1999, l’Oscar per «La vita è bella». Da allora una fama planetaria, ossia un mix di opportunità e pericoli. L’artista matura o si rinsecchisce? Mentre tutto sembra più facile, non è che invece tutto diventa più difficile?
«Un Oscar è una credenziale enorme, hai più libertà di manovra, maggiori possibilità di fare proposte ardite. Poi è una questione di scelte: puoi seguire la convinzione o la convenienza. La convinzione mantiene vivi, la convenienza gonfia le tasche ma spesso rinsecchisce la fantasia. Col tempo diventa più facile scrivere, ma è sempre più difficile sorprendersi e sorprendere: l’esperienza acquisita è un tesoro che va metabolizzato, ma poi bisogna avere il coraggio di buttarlo a mare. Non è facile, ma è meglio vivere così che rincorrendo cifre...
Siamo in molti a trovare inaccettabile la divisione preconcetta fra musica d’arte e musica popolare. Eppure, specie oggi che la strategia dell’industria mediatica si incentra sullo spiazzamento, sul rimescolare abilmente le carte, abbiamo bisogno di criteri in base ai quali giudicare il valore di una musica. O no?
«Dubito esistano valori assoluti, ma i criteri sono indispensabili, a patto che si rispettino le diverse funzioni sociali della musica: non possiamo festeggiare il Capodanno ballando una sinfonia di Bruckner. Né ha molto senso ascoltare in religioso silenzio la Macarena in una sala da concerto! Personalmente ho scritto uno Stabat Mater e La banda del pinzimonio (la marcetta che accompagna l’ingresso in scena di Benigni, n.d.r.). Non ha senso chiedersi quale delle due valga di più. So solo che se eseguo lo Stabat Mater il pubblico e noi che suoniamo ci caliamo in una condizione quasi rituale, di profonda partecipazione. Quando invece scoppia La banda del pinzimonio e si applaude l’ingresso del nostro beniamino, c’è una modulazione di frequenza tutta diversa».
Cinque anni fa su queste stesse pagine aveva espresso qualche giudizio non proprio lusinghiero sugli enti lirici. E oggi?
«Per l’amor del cielo! Qualche frasetta di troppo mi costò carissima: ho ricevuto insulti di ogni genere e ho dovuto scrivere un lungo articolo riparatore, in cui spiegavo la mia idea forse utopistica: non tagli, ma interventi energici per teatri lirici più agili, più funzionali, più democratici; con più recite, più circolazione degli allestimenti (come nella prosa), più incentivi per i giovani. Ma oggi, con i teatri sempre più malati, questa è letteratura. Sopprimere il malato con la scure, come vorrebbero Brunetta & C, certo è una scorciatoia, ma non è una cura, è tutt’altro».

l'Unità 11.4.09
Colorni, la Resistenza con Saba e con Freud
La storia di un’avventura intellettuale e politica straordinaria negli scritti filosofici e autobiografici dello studioso socialista ucciso a Roma nel 1944 dalla banda Koch
di Bruno Gravagnuolo


Si intitola «La malattia della metafisica» la raccolta dei saggi di Eugenio Colorni ripubblicata in una nuova edizione da Einaudi. È la parabola di un metafisico divenuto epistemologo e cospiratore attraverso la psicoanalisi.

Antifascista e filosofo. Metafisico e antimetafisico passando per la psicoanalisi. Epistemologo e alla fine cospiratore della Resistenza, stroncato dal piombo della banda Koch a Roma il 28 maggio del 1944, dalle cui grinfie cercò di sottrarsi, mentre portava con sé materiale clandestino. Sono le tappe di una esistenza straordinaria, quella di Eugenio Colorni, socialista «giellista», allievo teoretico di Pietro Martinetti a Milano, e di Basso e Rosselli. E che è possibile ripercorrere attraverso un libro chiave: La malattia della metafisica, tratto dal titolo del saggio autobiografico che lo apre (La malattia filosofica). Racchiude gli scritti più importanti di Colorni, quelli che ne spiegano l’avventura e gli approdi, dagli esordi filosofici all’ «antifilosofismo» finale (Einaudi, Scritti filosofici e autobiografici, pp. 382, euro 24, prefazione e cura di Geri Cerchiai).
Il suo valore aggiunto, rispetto alla precedente edizione Nuova Italia a cura di Norberto Bobbio e Ferruccio Rossi Landi? Eccolo. Oltre alla rigorosa tessitura filogica, questa edizione consente di andare al cuore pulsante delle «motivazioni» di Colorni. Che sta in una sorta di «pensiero vissuto», di «anamnesi» anche generazionale. Dove si mescolano vita personale, anni del regime, incontri, lessico familiare e scelte etiche. Quelle che danno il sigillo ad un destino e lo rendono significativo per chi viene dopo. Intanto lo sfondo. Una famiglia ebraica e anzi due. Quella di Colorni, figlio di un industriale mantovano e di una Pontecorvo romana da Pisa. E quella dei Sereni, cugini di Colorni per via di un’altra Pontecorvo (qui l’intreccio è anche con Gillo il regista e Bruno il fisico). È la saga familiare che spiega l’eticità e le battaglie di Eugenio, orfano precoce di padre. E ne chiarisce il coraggioso sforzo di autoidentificazione, alla conquista di una «sua» posizione: su storia, scienza, filosofia, politica. Laddove decisiva sarà l’atmosfera culturale resiprata a Forte dei Marmi coi cugini Sereni, che lo stimolano al sapere e all’autonomia. Ma risolutivo sarà l’incontro con Ernesto Saba a Trieste, il poeta libraio in analisi da Weiss, incontrato da Colorni quando nel 1935 insegnava filosofia al Magistrale femminile, dove il giuramento fascista non era richiesto.
Saba «contamina» Colorni, e insinua in lui il dubbio che la metafisica sia un sintomo. Un «crampo» dell’istinto e del flusso vitale, che irrigidisce la mente in astrazioni e fissità cristallizzate. E che paralizzano il conoscere e lo avvitano in enigmi «difensivi». Una conclusione in traccia di cui Colorni marciava da solo. Da quando cominciò a staccarsi da Croce e da Leibniz, nelle cui metafisiche cercava realtà contraddittorie: la vitalità del sensibile, dell’individuale, svincolati dal sistema. E un principio sintetico (kantiano) di Unità assoluta e fondativo. Di qui all’epistemologia il passo è breve. Colorni passa a occuparsi di scienza. Meglio, delle forme simboliche che consentono la scienza e ne schiudono il campo, fuori dall’«antropomorfismo» che proietta una Verità finale nelle cose. Non per caso Vittorio Somenzi, filosofo della scienza del dopoguerra, avvicinerà le sue idee a quelle «anti-animistiche» del biologo Monod. In realtà Colorni non sfuggirà mai del tutto alla filosofia e all’ossessione della verità, di cui la sua raffinata riflessione empiriocriticista e post-crociana riprodurrà sempre l’ombra. Ma intanto apre due campi nuovi da noi: psicoanalisi e filosofia della scienza. Non solo. Con Spinelli, che sposerà sua moglie Ursula Hirschmann, anticipa il federalismo europeo. Mentre decisiva resta la sua riflessione etica. Quella dedicata all’Altro. Per Colorni, amarlo davvero e liberarlo equivale a volerlo come Altro. A battersi perché divenga un singolo: soggetto e non appendice altrui. E stava qui il fascino del suo socialismo radicale e libertario. Ben più che solo «liberale» alla Rosselli.

Repubblica Lettere 11.4.09
L'otto per mille destinato ai terremotati abruzzesi

di Matteo Wells
La grande enfasi con cui nei telegiornali è stata data la notizia del recupero delle spoglie di Celestino V dovrebbe indurre il papa a contraccambiare. Per esempio, destinando ai sopravvissuti e ai parenti delle vittime del terremoto una parte cospicua di quanto di qui a poco le casse d'Oltretevere percepiranno grazie all'otto per mille.

venerdì 10 aprile 2009

l’Unità 10.4.09
Il sorriso del ministro padano
di Furio Colombo


Il responsabile dell’Interno è rimasto in Aula
a parlare di ronde mentre il mondo lo pensava
nel luogo del terremoto a organizzare soccorsi

Signor Presidente, è stato osservato da parecchi colleghi che il ministro dell’Interno, quando non è occupato ad aprire il salotto con i suoi collaboratori o i suoi colleghi, è occupato a guardare in alto e a sorridere. Fa male a sorridere, perché oggi si celebra qui la perduta occasione di essere un normale ministro dell’Interno italiano, invece che un eccellente ministro dell’Interno padano.
Vi è una differenza tra l’invenzione della Padania e la realtà italiana. Questa differenza crea una situazione drammatica che non suggerisce alcun sorriso. (Applausi polemici dei deputati del gruppo Lega Nord Padania).
Signor Presidente, la ragione per cui facevo riferimento al sorriso fuori posto del ministro era dovuta anche alla lunga e compiaciuta telefonata che ha fatto dal banco del governo. Si trattava evidentemente di un’intervista, perché ha parlato sempre lui e non poteva quindi essere intento a ricevere informazioni dalla zona terremotata. D’altra parte, signor Presidente, il ministro era stato tutto il giorno in quest’aula a parlare di ronde padane mentre tutto il mondo si immagina che il ministro dell’Interno italiano stia nelle terre della distruzione sin dal primo terremoto.
Ma rileggiamo le prime parole del decreto legge che oggi vogliono farci approvare: «Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di introdurre misure per assicurare una maggiore tutela della sicurezza della collettività, a fronte dell’allarmante crescita di episodi collegati alla violenza sessuale contro le donne...». Adesso vediamo poco sotto, la conclusione di questo primo schizofrenico articolo del decreto Maroni: «Introdurre una più efficace disciplina dell’espulsione e del respingimento degli immigrati irregolari, nonché un più articolato controllo del territorio». (Applausi polemici dei deputati del gruppo Lega Nord Padania).
L’incivile soluzione è: immigrati come criminali. E ronde padane per purificare le strade italiane dagli immigrati. C’è una sorta di follia che domina e ricatta tutta la destra di questo Parlamento. Qui non si parla di stalking, non si parla di violenza sessuale contro le donne, non si parla di difesa dei più deboli, non si parla di tutela dei nostri Comuni. Si parla di immigrati a cui bisogna dare la caccia.
Questo è il ministro dell’Interno, signor Presidente, che avendo a disposizione Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza, Corpo forestale, e quella parte della Forze armate che il ministro della Difesa ha voluto rendere disponibile per la sicurezza vuole forzare questa Repubblica a creare le ronde padane. Non c’è alcun Paese nel quale le ronde siano state istituite per legge, signor Presidente, questo ci mette fuori da ogni immagine civile. Ci sono le leghe ma non sono al governo. Ci sono le ronde ma sono contro le leggi. Ci sono le ronde, e si chiamano Ku Klux Klan. Ci sono le ronde, ed è stato contro le ronde che si è battuto Martin Luther King, e sono stati forse personaggi delle ronde che lo hanno abbattuto sul balcone del «Lorraine Motel» di Memphis il 4 aprile 1968. Attraverso la presenza della Lega nei punti cruciali del governo italiano noi stiamo notando un fenomeno che si sta verificando in questo Paese. Nel diventare ministri, i leader di un partito secessionista non hanno smesso di essere secessionisti, ma realizzano la secessione attraverso le loro funzioni di Governo e questo è particolarmente grave. La ronda è in sé elemento di distruzione dello Stato, negazione dell’autorità dello Stato, delle forze di Polizia, dei Carabinieri, della loro efficienza, della capacità di esserci a confronto con la continua diminuzione di sostegno finanziario, organizzativo e logistico che le forze dell’ordine italiane continuano a patire.
Io che sono nato molto più a Nord di tutti voi mi sento molto più legato a Roberto Saviano che a Roberto Maroni di cui mi vergogno. Perché ha accettato di essere ministro della Lega invece che ministro della Repubblica italiana. Ecco perché, signor Presidente, ritengo che sia importante non transigere neppure per un istante, neppure con una forma di accomodamento. Tutti i Paesi che hanno conosciuto le ronde, hanno conosciuto violenza. Nessun Paese di vita democratica, a cominciare dall’America, ha o tollera o permette le ronde (commenti dei deputati del gruppo Lega Nord Padania). Dunque, siete fuori dell’Europa, siete fuori dei tempi moderni, siete fuori dall’oggi, siete fuori dalla cultura, siete soltanto nel profondo della mente claustrofobica di coloro che si sono perduti fuori dalla Storia. (Applausi dei deputati dei gruppi Pd e Idv).

Stralci dell’intervento alla Camera dei Deputati il 7 aprile

l’Unità 10.4.09
La riforma tradita
Manicomi privati
di Cristiana Pulcinelli


Più della metà dei posti letto per i malati psichiatrici è fuori dalle strutture pubbliche. Per le altre specialità mediche si è al di sotto del 20 per cento.
In 200 strutture (su un totale di 285) è praticata la contenzione
Ma c’è anche chi mette in atto i principi della legge-Basaglia

Com’è lo stato delle strutture di psichiatria per pazienti acuti in Italia? L’Istituto Superiore di Sanità e il Dipartimento di salute mentale di Trieste qualche anno fa hanno coordinato uno studio a cui hanno aderito tutte le regioni (con la sola esclusione della Sicilia) con lo scopo di disegnare un quadro della situazione.
La prima cosa che salta agli occhi è il peso del privato: il 54,2 per cento dei posti letto in psichiatria si trova nelle strutture private. Una percentuale molto alta che rappresenta un’anomalia nella sanità italiana visto che, per quanto riguarda le altre specialità mediche, la percentuale di posti letto privati è solo del 19,5 per cento. E c’è un altro dato su cui riflettere: nelle strutture private, inoltre, il ricovero dura tre volte di più rispetto alle strutture pubbliche.
I Servizi psichiatrici diagnosi e cura pubblici sono situati spesso in strutture inadeguate: oltre il 3 per cento si trova in seminterrati, uno su tre non ha uno spazio all’aperto per i ricoverati e circa la metà non ha una sala comune. Alcuni non hanno neppure una sala per le attività cliniche o gli incontri con i familiari.
Nell’80 per cento dei casi, i Servizi diagnosi e cura visitati avevano la porta d’ingresso chiusa: è il dato più alto in Europa. Nelle strutture pubbliche vengono ricoverati soprattutto uomini abbastanza giovani, mentre in quelle private i ricoverati sono per lo più donne anziane.
Ma la cosa più grave è che in molti di questi luoghi i pazienti vengono ancora legati ai letti. In 200 Servizi di diagnosi e cura (su un totale di 285) si dichiara di attuare la contenzione meccanica e di usare un camerino di isolamento. Visto che i rimanenti 85 Servizi dichiarano di non ricorrere mai alla contenzione, se ne deduce che si tratta di maltrattamenti evitabili.
«Nei tre giorni fissati per la rilevazione sul campo, in 3 su 10 delle strutture visitate - si legge in uno dei resoconti - c’era almeno una persona legata. Fino a 4 contemporaneamente in alcuni. Gli uomini molto di più che le donne, gli immigrati più dei locali. In uno a essere legata era una ragazzina di 14 anni. Nei reparti di neuropsichiatria infantile, in civilissime città (a Monza come a Torino, per esempio), bambini tra i 9 e 14 anni vengono legati al letto e trattati con dosi “eroiche” di psicofarmaci. Malgrado la disponibilità ormai diffusissima di educatori, accompagnatori, volontari. Soltanto negli ultimi due anni almeno 5 persone sono morte legate ai letti a causa dell’immobilità dovuta alla contenzione e delle dosi massicce di psicofarmaci. In ricche, civili e insospettabili città, al sud come al nord».
Ci sono i casi-limite come quello dell’istituto Giovanni XXIII di Serra d’Aiello in Calabria gestito da religiosi dove, nel 2007, Finanza e Carabinieri hanno trovato un inferno fatto di sporcizia, degrado e dolore per 300 ricoverati. Ma quante sono le situazioni simili ancora sommerse e che non riescono ad emergere?
Ma poiché l’Italia è il paese delle contraddizioni, accanto a queste tragedie, si trovano esempi positivi che sono diventati dei modelli a livello internazionale. Uno di questi è il Dipartimento di salute mentale di Trieste, centro collaboratore dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. A Trieste nel 1971 Franco Basaglia assunse la direzione dell’ospedale psichiatrico e qui è cominciato il processo di smantellamento del manicomio e della sua sostituzione con i servizi territoriali che oggi è diventato un obiettivo mondiale secondo l’Oms. La legge 180 è del 1978 ed è frutto anche di quello che avvenne a Trieste negli anni precedenti. Dal 1980 l’ospedale psichiatrico di Trieste è definitivamente chiuso, ma il lavoro cominciato da Basaglia continua nel Dipartimento di salute mentale della città.
Dimenticate i muri scrostati e le sedie di ferro. Qui ci sono pareti fiorite, tavoli semplici ma di design, poltrone bianche, una cucina in acciaio, una sala cinema con il soffitto in legno, camere con uno o due letti, ognuno dotato di un comodino e un armadietto, dove, chi vuole, può rimanere a dormire o può riposare anche durante il giorno. Tutto come in una vera casa. Una casa bella e semplice. Ma il Csm da solo non basta. I dipartimenti di salute mentale infatti hanno al loro interno un Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura (Spdc), che si trova nell’ospedale ed è il luogo dove vengono ricoverati i pazienti dal pronto soccorso psichiatrico e dove vanno i trattamenti sanitari obbligatori. A Trieste questo servizio ha solo 6 posti letto, «ma funziona la rete territoriale» commenta Dell’Acqua. Qui da 35 anni non si lega più nessuno, ma altrove non è così: «Da un’indagine dell’Istituto superiore di sanità - ci spiega Dell’Acqua - in 6 Spdc italiani su 10 si usa ancora la contenzione, almeno in modo sporadico».
Nella rete territoriale c’è poi la terza gamba del dipartimento: il Servizio abilitazione e residenze. Il suo compito è quello di coordinare le strutture residenziali (dove vivono le persone che non possono rimanere nella casa di famiglia) e le attività riabilitative. In città ci sono 6 strutture residenziali con 40 posti e un centro diurno con 6 laboratori. Nel centro diurno hanno la loro sede le cooperative sociali all’interno delle quali lavorano la persone con disagio mentale. Si occupano di sartoria, edilizia, pulizie, giardinaggio, ristorazione, piccola editoria. I laboratori fanno corsi di arti visive, musica, tessuti.
Il modello triestino ha avuto molti riconoscimenti. L’Oms ha indicato il dipartimento triestino come centro per la formazione dei «mental health center community based» in Europa. E tuttavia, sono in molti ad osteggiarlo. Recentemente il suo operato è stato oggetto di un attacco da parte del quotidiano Libero e di una interrogazione di Paolo Guzzanti al ministro Sacconi in cui si accusa gli psichiatri di Trieste di «atteggiamenti disumani» e si chiede con urgenza di modificare la legge 180 (Guzzanti, peraltro, è firmatario di una delle proposte di legge di riforma).
Peppe Dell’Acqua è preoccupato. Da che? «Da una psichiatria che vede solo malattia, che fonda la sua credibilità sulla promessa della sicurezza e dell’ordine, sull’industria del farmaco. Questa psichiatria è tornata nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura ospedalieri blindati, nelle affollate e immobili strutture residenziali, nei Centri di salute mentale vuoti e ridotti a miseri ambulatori. Non a caso le ultime proposte di modifica della legge 180 si muovono in questa direzione. Propongono adeguate strutture di cura «ad alta protezione» e procedura più restrittive, più rapide e meno garantite di obbligatorietà alla cura». Ma questo non lo vogliono neppure i familiari. L’Unasam, che rappresenta oltre 150 associazioni di familiari, nella home page del suo sito ha scritto a chiare lettere cosa vogliono e cosa non vogliono. Nel primo elenco troviamo: un’assistenza adeguata sia in fase di cronicità sia in quelle di emergenza; la riabilitazione psicosociale continuativa, cioè abitativa, lavorativa e con servizi di supporto; la chiusura definitiva degli ultimi ospedali psichiatrici. Tra le cose che non vogliono: una situazione logora, in cui buone leggi rimangono inapplicate; i malati abbandonati con le loro famiglie; le strutture neomanicomiali nelle quali si entra per non uscire più; una università vecchia, ferma nel passato, che continua a sfornare giovani psichiatri su modelli ormai desueti e criticabili, trascurando la nuova psichiatria di comunità.

l’Unità 10.4.09
Luogo aperto a tutti, il modello di Trieste
di Cristiana Pulcinelli


Oggi di Centri di salute mentale aperti 24 ore al giorno per 7 giorni ce ne sono 4 a Trieste, 13 in tutto il Friuli Venezia Giulia, ma il progetto è quello di arrivare a 20. Funzionano? Un metodo per valutarlo è quello di contare i Trattamenti sanitari obbligatori (Tso). «A Trieste –spiega Dell’Acqua- abbiamo 7 Tso ogni 100mila abitanti, in Italia la media è di 24 ogni 100mila abitanti». Avere un Csm aperto sempre vuol dire dover ricorrere di meno all’ospedalizzazione coatta. In Italia i Csm di quel tipo non sono più di una ventina. Perché? La prima spiegazione è che la legge 180 non dà indicazioni su come organizzare l’assistenza. L’unica cosa che viene regolamentata dalla 180 è il Tso, il ricovero contro la volontà del paziente. Per il resto, è demandato alle regioni. E ogni regione opera in modo diverso.

Da un padiglione dell’ex ospedale psichiatrico di Trieste trasmette «Radio Fragola». È una radio comunitaria, ovvero una radio senza scopo di lucro, gestita da una cooperativa che al suo interno ha una quota di soci provenienti dal disagio psichico. Le sue trasmissioni coprono via etere l’area triestina, ma in streaming si possono sentire da tutt’Italia (www.radiofragola.com). La redazione è formata da professionisti, ma i programmi di intrattenimento musicale vengono gestiti da volontari la cui età va dai 14 ai 70 anni. Qui si fa anche formazione alle persone che provengono dal disagio psichico e vogliono fare per un periodo questa esperienza lavorativa.

Peppe, dobbiamo andare in America». «A che fare, Mauro?». «A levarci l’età». «Quanto costa?». «Un milione di dollari». «Ma io non ce li ho tutti ’sti soldi. Senti a me, Mauro, l’unico modo per levarti l’età è goderti la vita di più». «Non posso, Peppe». Quando Mauro dice «non posso», lascia trasparire un mondo di sofferenza che Peppe conosce e noi possiamo solo intuire.
Peppe è lo psichiatra, Mauro il matto. Ma quando si incontrano nel corridoio di uno dei padiglioni dell’ex ospedale psichiatrico San Giovanni di Trieste sono solo due vecchi amici. Si conoscono dai primi anni Settanta, quando entrambi avevano poco più di vent’anni. Peppe era appena laureato e arrivava da Salerno accolto da Basaglia che stava radunando attorno a sé giovani psichiatri. Mauro aveva avuto le sue prime crisi. Oggi, Peppe è il direttore del dipartimento di salute mentale della città e Mauro fa il custode in una delle strutture del dipartimento.
Con Peppe Dell’Acqua, ci incontriamo al Posto delle fragole, un piccolo ristorante all’interno dell’ex manicomio. Un luogo bellissimo in cima a una collina, circondato da un meraviglioso parco dove sorgono le palazzine che un tempo ospitavano i malati, divisi in categorie precise: i sudici, i violenti, gli incontinenti. Il ristorante è gestito da una cooperativa di tipo B, ovvero all’interno della quale ci deve essere il 30% di persone svantaggiate, e propone dei piatti deliziosi.
«L’anno scorso il manicomio di Trieste ha compiuto cento anni - racconta Dell’Acqua - È nato sul modello austriaco: una cittadella separata dal resto del mondo, luogo di cura e di reclusione». Prima ancora che fosse approvata la riforma psichiatrica e cominciasse lo smantellamento dei manicomi, qui a Trieste si cominciò a pensare a luoghi di cura diversi. Si ipotizzò che questi luoghi dovessero essere inseriti nella città, ma dovessero anche essere aperti sempre: giorno e notte, giorni feriali e domeniche. «Trent’anni fa ci inventammo questa macchina da corsa: un Centro di Salute Mentale aperto 24 ore su 24 e 7 giorni su 7. E ancora oggi credo sia uno strumento potente», racconta Franco Rotelli, psichiatra e oggi direttore della Asl durante la presentazione di una mostra sui progetti architettonici per i Csm. «Quando a Barcola, uno dei quartieri bene della città, si propose di aprire la prima struttura di questo genere nel 1976 la popolazione era spaventata - continua Rotelli - poi organizzammo un’assemblea pubblica dove spiegammo le nostre ragioni e i cittadini capirono». L’idea era quella di costruire un luogo aperto, di coinvolgimento. Un luogo dove chiunque fosse invitato ad entrare, dove le porte fossero aperte anche la notte. L’esatto opposto del manicomio.
«Certo, una struttura di questo tipo costa - spiega Dell’Acqua - ci vuole più personale e attenzione ai luoghi: l’architettura, i mobili». Siamo andati a visitare un Csm a Trieste, anzi due: il vecchio, che stava per essere smantellato, e il nuovo, che lo stava per sostituire.

l’Unità 10.4.09
La fede über alles
Anatema del papa su Nietzsche «Troppo libero»
Ratzinger ai sacerdoti Ieri in un’omelia ha lanciato un atto d’accusa contro il filosofo tedesco, la sua «superbia distruttiva» e la sua «presunzione che finiscono nella violenza». Lo avrà letto sul serio?
di Bruno Gravagnuolo


C’è ragione e ragione. La scienza ce l’ha «piccola»
«Nell’ultimo decennio, la resistenza della creazione a farsi manipolare dall’uomo si è manifestata come elemento di novità nella situazione culturale complessiva. La domanda circa i limiti della scienza e i criteri cui essa deve attenersi si è fatta inevitabile»: Ratzinger nel ’92. Da Papa non ha cambiato idea: la fede è più verità della scienza

Galileo? «La sentenza della Chiesa fu giusta»
L’anno scorso il Papa, usando erroneamente una frase del filosofo agnostico-scettico Feyerabend scrisse nel discorso che avrebbe dovuto tenere alla Sapienza di Roma: «La sua (della Chiesa, ndr) sentenza contro Galileo fu razionale e giusta, e solo per motivi di opportunità politica se ne può legittimare la revisione».

L’evoluzionismo ha una «razionalità ridotta»
Conferenza di Ratisbona, 2006. Il Papa distingue tra «ragione ristretta» tipica della scienza e «ragione estesa» che coincide con la fede. Alla luce della ragione estesa, il darwinismo diventa dotato di una razionalità inferiore. Il Papa ha aperto quindi un conflitto non tra scienza e fede ma tra due razionalità di rango diverso.

Tutta colpa di Nietzsche. E non solo la crisi delle vocazioni, il rifiuto dell’obbedienza, e della parola di Dio. Ma anche l’omologazione delle coscienze, figlia della «superficialità di tutto ciò che di solito si impone all’uomo di oggi». E tutta colpa di Nietzsche pure «la superbia distruttiva e la presunzione, che disgregano ogni comunità e finiscono nella violenza». Insomma, atto d’accusa globale contro il filosofo tedesco, quello pronunciato ieri da Papa Ratzinger, in occasione della «messa crismale», durante la quale si benedicono gli olii santi prima della Pasqua. Un’accusa esplosa in un’omelia dedicata ai sacerdoti delle Diocesi di Roma, e riuniti in San Pietro. E con toni e accenti davvero inconsueti in un Pontefice. Almeno dai tempi in cui nel Sillabo Pio IX condannava liberalismo e ideologie democratiche e socialiste, come fomite dei mali assoluti di quel tempo.
In realtà mai in passato un Papa si era scagliato con tanta foga contro un solo filosofo, fatto responsabile di tutte le nequizie dell’umanità contemporanea. Come se il filosofo dell’Eterno Ritorno fosse lui stesso, e in prima persona, una sorta di incarnazione del diavolo, e della superbia tentatrice e luciferina che ne caratterizza l’ombra distruttiva all’opera.
Quindi, valore paradigmatico per il Papa delle idee nietzscheane in ordine al fondamento del «male». E inserite in quanto tali in un ragionamento etico e teologico ben preciso. Che mette al centro due colpe ben precise del filosofo: l’aver «dileggiato l’umiltà e l’obbedienza come virtù servili, mediante le quali gli uomini sarebbero stati repressi». E l’aver «messo al loro posto la fierezza e la libertà assoluta dell’uomo». Di qui appunto il rifiuto del’Autorità e la violenza distruttiva connesse alla presunzione di un «volere autonomo», svincolato dala fede. E di qui il mito dell’«autorealizzazione», che rifiuta la vera «verità del nostro essere», ovvero «la retta umiltà che si sotomette a Dio». Certo ammette il Papa - con riferimento alla critica nietzscheana dello zelo virtuoso - esistono anche «caricature di una sottomissione e di una umiltà sbagliata». Ma il rischio più grave per il Pontefice teologo restano la ribellione e la presunzione. Nonché il rifiuto dei «sacrifici» che ci rendono amici di Cristo e che a Lui consacrano la nostra esistenza. Una esistenza che è davvero consacrata, aggiunge il Papa, proprio quando essa è rescissa da «connessioni mondane», come nel sacerdozio obbediente. Che ben per questo può poi diventare «disponibile per gli altri».
Toni demonizzanti, lo abbiamo detto, ma che rivelano altresì molte cose. In primo ruolo il rifiuto da parte di questo Papa di riconoscere dignità autonoma al valore della libera coscienza e della libera indagine a partire dalla «soggettività», moderna o premoderna. Un atteggiamento in flagrante contraddizione sia con l’etica «rischiosa» di Agostino, che prescriveva la ricerca del vero in interiore homine. Sia con quella kantiana, basata sull’autonomia della «ragione pratica», e coincidente con il «regno dei fini», senza necessariamente vederselo prescritto dalle norme positive racchiuse nella fede rivelata. Non parliamo poi del «libero esame luterano» e della «giustificazione individuale per fede e non per le opere». Dimensioni che questo Pontefice evidentemente respinge, e che stante il suo rifiuto programmatico del «dialogo», non riesce a includere nemmeno dentro il semplice ascolto «inter-confessionale».
Paradossalmente, è proprio il principio della libertà interiore - seme germogliato dal cristianesimo stesso e secolarizzatosi nella modernità - ciò che questo Papa rifiuta. A meno che esso non sia inserito dentro il «crisma» dell’Autocritas e delle Chiavi di Pietro - dalla Chiesa detenute. Tutto il resto è relativismo, presunzione. E infine violenza distruttiva. Come tali frutto dell’indebita autonomia della ragione, che lasciata a sé è male. È il Male. E Nietzsche? Senza dubbio nella sua radicalità libertaria si presta a meraviglia all’intemerata papale. Salvo che la sua «recezione» da parte di Ratzinger è banale e orecchiata. Non è fondata sui testi, e corrisponde piattamente alle interpretazioni più logore dei fascismi e del marxismo-stalinismo. Le prime persuase di trovare nel filosofo un anticipatore della volontà di potenza etnica e imperiale (il Nietzsche riscritto dalla sorella reazionaria e «nordificato» dai nazisti). Le seconde convinte di aver scoperto nel filosofo il volto della «borghesia irrazionalista» nell’epoca dell’«Imperialismo fase suprema del capitalismo». Interpretazione questa avallata oggi da Ernst Nolte, che vede nel Superuomo la rivolta del borghese tedesco minacciato di annientamento da parte socialista e comunista. Il vero Nietzsche? Fragile, problematico, a modo suo disperato. E in certo senso cristiano, come scrisse con acume Karl Jaspers, capace di scoprire in lui una radicalità etica volta a liberare l’uomo dalle illusioni che lo rendono ipocrita e violento, magari con la scusa di fedi e ideologie. Nietzsche perciò dai mille volti ma teso alla gioia del conoscere (Gaia Scienza). Alla «pienezza del dare» e al grande stile estetico che fa del mondo un giardino. E Nietzsche che scrive: «Dove si dice “ama il prossimo” tuo c’è sempre qualcuno che è escluso da quell’amore, un lontano. Ecco, io amo quel lontano». Già, tra Nietzsche e Cristo ci sono forse più cose in comune che questo Papa non immagini. A leggerlo sul serio.

La gaia fede di Nietzsche:
«La nascita della tragedia dallo spirito della musica» (1872); «Considerazioni inattuali» (1873-76); «Umano troppo umano» (1878); «Aurora» (1881); «La gaia scienza» (1882); «Così parlò Zarathustra» (1883); «Al di là del bene e del male» (1886); «L’anticristo», «Ecce Homo» (postumi). Tutti nell’edizione Adelphi, a cura di Colli-Montinari.
Alcuni testi base per capire:
Su Nietzsche si vedano almeno Gilles Deleuze, «Nietzsche e la filosofia» (Einaudi, 2002); Martin Heidegger, «Nietzsche» (1961, Adelphi); Karl Jaspers, «Nietzsche» (1936, Mursia); Gianni Vattimo, «Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione» (1974, Bompiani).

Repubblica 10.4.09
Contro Nietzsche
L’accusa del papa al filosofo nichilista
di Franco Volpi


I mali che secondo Ratzinger risalgono al filosofo tedesco, dalla violenza al relativismo

Durante la messa del giovedì santo Benedetto XVI ne richiama la figura: "il suo pensiero ha dileggiato l´umiltà e l´obbedienza"
Il suo pensiero è stato considerato una fonte di ispirazione per l´ideologia nazista
Molti stereotipi, tra cui l´idea della morte di Dio hanno condizionato il pensiero
Un tragico osservatore del vuoto spirituale in cui versa il mondo moderno

Povero Nietzsche! È stato l´unico filosofo a cui è toccato il singolare privilegio di essere considerato responsabile niente meno che di una guerra mondiale. Durante il conflitto del 1914-1918 in una libreria di Piccadilly erano esposti in vetrina i diciotto volumi delle sue opere complete in inglese, con una scritta a lettere cubitali: The Euro-Nietzschean-War: leggete il diavolo per poterlo combattere meglio!
Poi venne il nazionalsocialismo, e alcune sue dottrine - il superuomo nel senso della selezione biologica, la volontà di potenza, l´antropologia dell´animale da preda e della bestia bionda - furono considerate alla stregua di una fonte di ispirazione dell´ideologia razzista e del totalitarismo.
Più tardi, dato che egli diagnostica alcune esperienze negative del Novecento come la «morte di Dio», la decadenza dei valori tradizionali o l´avvento del nichilismo, si è prodotto un singolare transfert: si è scambiato il suo pensiero per la causa della crisi che esso in realtà voleva solo analizzare e superare. Nietzsche è diventato allora il distruttore della ragione, il maestro dell´irrazionale, il teorizzatore del nichilismo e del relativismo.
Tutti questi stereotipi hanno fortemente condizionato la sua immagine e la sua fortuna. E per questo egli ha suscitato entusiasmi e attirato anatemi, ha ispirato movimenti di avanguardia, mode culturali e stili di pensiero, ma anche provocato reazioni e rifiuti altrettanto risoluti. Ovviamente anche da parte cattolica.
Benché autorevoli interpreti - padre Paul Valadier, per esempio, o il teologo Eugen Biser - abbiano cercato di mostrare il contrario, non c´è dubbio che tra alcune dottrine nicciane e altrettanti insegnamenti fondamentali del cristianesimo ci sia una profonda incompatibilità. Non stupisce perciò che il Papa consideri Nietzsche un cattivo maestro, e che riconduca alla sua filosofia alcuni mali del mondo contemporaneo. Negli ultimi anni egli non si è stancato di denunciare il pericolo del relativismo e del nichilismo, fomentato da Nietzsche. Adesso, nel criticare l´ideale di umanità predominante nel mondo attuale, basato sul valore dell´autoaffermazione individuale, egoistica e libertaria, ricorda la responsabilità di Nietzsche: «Egli ha dileggiato l´umiltà e l´obbedienza come virtù servili, mediante le quali gli uomini sarebbero stati repressi, e ha messo al loro posto la fierezza e la libertà assoluta dell´uomo».
Ora, al di là del fatto che l´opera di Nietzsche è un autentico puzzle, un subisso di frammenti e aforismi la cui combinazione in una dottrina d´insieme è tutt´altro che assodata, sarebbe un peccato non approfondire gli spunti che vengono da queste critiche con qualche domanda. Ed è meglio prendere Nietzsche non per le risposte che dà, ma per le domande che pone.
Primo: dopo che la storia ci ha insegnato che spesso il possesso della Verità produce fanatismo, e che un individuo armato di verità è un potenziale terrorista, vien fatto di chiedere: il relativismo e il nichilismo sono davvero quel male radicale che si vuol far credere? O essi non producono forse anche la consapevolezza della relatività di ogni punto di vista, quindi anche di ogni religione? E allora non veicolano forse il rispetto del punto di vista dell´altro e dunque il valore fondamentale della tolleranza? C´è del bello anche nel relativismo e nel nichilismo: inibiscono il fanatismo.
Quanto poi alla concezione dell´uomo aristocratica e libertaria, anche qui sarebbe un peccato limitarsi alla superficie dei singoli aforismi di Nietzsche. Sarebbe come, in un quadro pointilliste, vedere solo i tocchi cromatici e non l´insieme della pittura. Ebbene, da tragico osservatore del vuoto spirituale in cui versa il mondo moderno, Nietzsche non vuole essere un «predicatore di morte». Non intende adagiarsi nella negazione dei valori e nel cupio dissolvi. Al contrario, vuole superare il nichilismo: vuole far sì che esso si compia in modo da «averlo dietro di sé, sotto di sé, fuori di sé». A tal fine auspica un contro-movimento da cui nascano nuovi valori, e lo individua nella creatività dionisiaca dell´arte.
La sua critica della mentalità e della morale «del gregge», la sua difesa di quello che potremmo definire un «diritto all´eccellenza», è un tentativo di superare la sterilità della semplice proibizione, dell´abnegazione e della rinuncia, che mortificano la vita. Nietzsche vuole che la vita si realizzi in tutte le sue potenzialità. E consiglia perciò un atteggiamento «creativo» che dia alla vita tutta la sua pienezza, analogo a quello dell´artista che imprime alla sua opera una forma bella. In tal senso la sua nuova morale è una sorta di «estetica dell´esistenza» il cui imperativo raccomanda: «Diventa quello che sei!» E anche se la vita non è bella, sta a noi cercare di renderla tale.
Uno dei problemi della Chiesa attuale è che la produzione della felicità le è sfuggita di mano. Ma non è colpa di Nietzsche se la forza dei Vangeli svanisce e la condizione dell´uomo occidentale è sempre più paganizzata.

Corriere della Sera 10.4.09
Cacciari critico, Reale approva. Vattimo: un cristiano inconsapevole. Severino: nega l’eterno
Il Papa e Nietzsche, duello tedesco
«Libertà assoluta» e «dileggio dell’umiltà»: Ratzinger contesta il filosofo
di Gian Guido Vecchi


«Via sulle navi, filosofi!», escla­ma ne La gaia scienza. E inAu­rora: «E dove dunque voglia­mo arrivare? Al di là del ma­re? ». Nietzsche e l’idea di libertà. Dell’andare ol­tre ogni «miserevole ricetto». Un pensiero che ha una responsabilità grande, riflette Benedet­to XVI citando — come già nell’enciclica Deus Caritas est — il filosofo suo compatriota: «Frie­drich Nietzsche ha dileggiato l’umiltà e l’obbe­dienza come virtù servili, mediante le quali gli uomini sarebbero stati repressi. Ha messo al lo­ro posto la fierezza e la libertà assoluta dell’uo­mo ».

Parole tanto più significative se si considera che il Papa, ieri mattina nella Basilica di San Pie­tro, parlava ai sacerdoti durante la Messa cri­smale: davanti a cardinali, vescovi e presbiteri che «rinnovano le promesse» prima delle cele­brazioni di Pasqua. Un’omelia raffinata sul sen­so della «consacrazione» come «sacrificio» di sé, un «togliere dal mondo e consegnare a Dio» che per i sacerdoti «non è una segregazione» ma un donarsi a tutti, come Gesù «sacerdote e vittima» che «si consegna al Padre per noi» e prega per i discepoli: «Consacrali nella verità». È a questo punto che Benedetto XVI ha alzato lo sguardo: «Come stanno le cose nella nostra vi­ta? Siamo veramente pervasi dalla parola di Dio? O non è piuttosto che il nostro pensiero sempre di nuovo si modella con tutto ciò che si dice e che si fa? Non sono forse assai spesso le opinioni predominanti i criteri secondo cui ci misuriamo?». Di qui il riferimento a Nietzsche e al dileggio dell’umiltà in favore della libertà assoluta. Il Papa chiede di «imparare da Cristo la retta umiltà», non certo «una sottomissione sbagliata, che non vogliamo imitare». E vede un pericolo: «Esiste anche la superbia distrutti­va e la presunzione, che disgregano ogni comu­nità e finiscono nella violenza».

Problema: le cose stanno così? E fino a che punto Nietzsche ne sarebbe responsabile? «Il Papa ha perfettamente ragione nel prendersela con le libertà assolute e le fierezze virili, ma te­mo che la sua lettura di Nietzsche risenta di un’interpretazione vecchia», commenta Massi­mo Cacciari, autore di un saggio sul «Gesù di Nietzsche», un tema che compare anche nella sua opera più recente, Della cosa ultima. «La libertà di Nietzsche è problematica, non è quel­la dei moderni che anzi critica: la sua è una vi­sione presente in Schelling che sarà ripresa da Heidegger, la libertà non come qualcosa che 'tu hai' ma che 'ti ha'». Ma non basta: «Lo Za­rathustra ha pagine in cui indica nella figura dell’Oltreuomo la capacità di donare tutto, di non tenere nulla per sé: amo coloro che sanno tramontare, dice. Ci sono passi in cui l’affinità tra Oltreuomo e Gesù è fortissima. Del resto la polemica di Nietzsche contro il cristianesimo è rivolta alla teologia paolina, peraltro fraintesa, e non alla figura sinottica di Gesù». Secondo Cacciari, insomma, «la grandezza di un filosofo imprescindibile per la contemporaneità an­drebbe compresa in tutta la sua complessità, al­trimenti la polemica danneggia la stessa predi­cazione come capacità di assimilare a sé le voci discordanti. Gesù andava da coloro che lo ris­pecchiavano, era un narciso? O invece si rivolge­va ai pubblicani, al centurione? 'Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!'. Perché la Chiesa non si sforza di fare lo stesso con Nietzsche e la cultura contempora­nea? ».

Emanuele Severino, che al filosofo tedesco ha dedicato L’anello del ritorno, sorride: «Ai cat­tolici dico sempre che con l’inevitabilità di que­sti pensieri bisogna fare seriamente i conti». Dal suo punto di vista, capisce il Papa: «Per la tradizione al centro della verità c’è Dio mentre Nietzsche, preceduto da Leopardi, mostra l’im­possibilità di ogni eterno e di ogni divino. Con­seguenza necessaria è la negazione di ogni 'umiltà' rispetto al divino. E l’esaltazione di li­bertà e fierezza». Questo però non c’entra con le idee correnti: «La libertà di Nietzsche presup­pone si sappia perché 'Dio è morto'. L’ateismo, il relativismo, l’indifferentismo sono essi stessi superficiali e dogmatici, non hanno nulla a che fare con la radicalità di quel pensiero. Ci vuole ben altro per arrivare a Nietzsche e a Cristo!».

In tutto questo, uno studioso nietzschiano come Gianni Vattimo riconosce a Benedetto XVI di «aver ragione sul dileggio dell’obbedien­za », ma non sull’umiltà: «Nietzsche è un cristia­no inconsapevole, o che non voleva riconosce­re di esserlo: un po’ per via del padre pastore protestante e un po’ perché amava il Vangelo ma non la struttura gerarchica della Chiesa, co­me me. Penso alle tre metamorfosi che aprono lo Zarathustra: lo spirito da cammello si fa leo­ne e si rivolta alle autorità, ma alla fine si muta in fanciullo, 'occorre un sacro dire di sì'. E non era Gesù a dire che dobbiamo diventare come fanciulli?». Sarà, ma il filosofo cattolico Giovan­ni Reale non è convinto: «Nietzsche ha scritto cose molto belle e cose terribili. Ciò che presen­tava come una conquista si è rivelato terribile, Benedetto XVI ha ragione. La libertà assoluta al­la fine l’abbiamo avuta. Però, come diceva Bau­man, ci è arrivata con il cartellino del prezzo, un prezzo salatissimo: l’egoismo, la solitudi­ne ». Non è un caso che il Papa si sia rivolto ai sacerdoti: «Loro hanno la responsabilità di dire la Parola. Io non mi capacitavo: perché Gesù non ha lasciato nulla di scritto? L’ho capito gra­zie a Platone, al finale del Fedro: la verità non si scrive sui rotoli di carta ma nel cuore degli uo­mini».

Repubblica 10.4.09
Intervista su MicroMega
Englaro e 17 anni di battaglie "Così ho cancellato una barbarie"


L´intervista sul numero in edicola da oggi, dedicato ai temi del testamento biologico

ROMA - «Una medicina che non cura, una rianimazione che rianima a metà, una società che ti suggerisce, sottovoce, �portatela a casa, e lì... ´. E lì, cosa? Per me quell´idea di portarmela a casa allo scopo di lasciarla andare era una barbarie. La medicina aveva creato quella situazione e ora se ne lavava le mani... Ora qualcuno mi dice che ho vinto. Mi fa ridere. Ma che cosa ho vinto?».
Beppino Englaro parla, racconta, ricorda 17 anni di vita, di lotte per fare valere la volontà di sua figlia Eluana. La sua è una delle lunghe, sofferte, dense, lucide, testimonianze raccolte da Micromega per un numero - oggi in edicola - tutto dedicato al Testamento biologico, un volume monografico sul fine vita. Un argomento che ha diviso il paese e il parlamento per mesi in un drammatico dibattito sul diritto di ognuno a decidere in prima persona sulla fine della propria esistenza.
Sono pagine, quelle di Micromega, che raccolgono le storie emblematiche di chi quelle vicende le ha vissute o condivise: da Englaro a Mina Welby, da Maria Antonietta Coscioni a Maddalena Nuvoli, dal filosofo Gianni Vattimo a Paolo di Modica, musicista malato di sclerosi laterale amiotrofica, come Luca Coscioni, che con il progressivo immobilismo della sla ha riscoperto la voglia di lottare, per non arrendersi alla malattia e alla deriva del paese in cui vive.
Accanto alle storie, l´argomento viene esaminato sotto il profilo medico-scientifico nei testi di Carlo Alberto Defanti, medico di Eluana Englaro fino alla sua morte e Gian Domenico Borasio , un palliativista che da anni si occupa del fine-vita. Del profilo giuridico si occupano Stefano Rodotà e Luca Tancredi Barone, mentre monsignor Giuseppe Casale e il teologo valdese Daniele Garrone affrontano la problematica dal punto di vista religioso. Inoltre Paolo Flores d´Arcais si confronta con Angelo Panebianco e Roberta De Monticelli dialoga con Giovanni Reale. A Micromega è allegato un dvd con una lectio magistralis sulla Costituzione tenuta dal presidente emerito della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro.

Corriere della Sera 10.4.09
La nuova Bastiglia Nelle librerie si vende il pamphlet anonimo «L’insurrection qui vient»
Quel vento che spira dalla Francia e la sinistra che incita alla rivolta
di Massimo Nava


PARIGI — «È una rivolta? No, si­re, è una rivoluzione!» dissero a Luigi XVI. Non siamo a questo pun­to, ma, nel Paese che ha nei cromo­somi i miti della Bastiglia e del Maggio Sessantotto, segnali di pro­teste esasperate e illegalità teoriz­zate (nonché comprese dalla mag­gioranza della popolazione e quin­di imitate) vanno presi sul serio. Anche perché amplificati dai gior­nali e dalle asperità del dibattito politico.

I sequestri di dirigenti d’impre­se non sono una moda, ma si ripe­tono con l’annuncio di licenzia­menti e piani di riduzione del lavo­ro. L’ultimo episodio, il sesto dall' inizio di marzo, è avvenuto ieri al­la Faurecia, una ditta di componen­ti per auto, dove tre dirigenti sono stati sequestrati per alcune ore.

L’allarme negli ambienti im­prenditoriali è alto, al punto che circolano «kit» di consigli per te­nere aperti canali di dialogo e di sopravvivenza in caso di fallimen­to delle trattative, come ad esem­pio l’inserimento di numeri utili nel telefonino e il cambio di bian­cheria in ufficio. La causa principale di queste proteste è ovviamente la crisi eco­nomica che fa lievitare il numero di disoccupati e precari e aumenta il senso di sfiducia e insicurezza, essendo i margini di trattative mol­to ristretti. Almeno per ora, le con­clusioni del G20 e il messaggio di rifondazione del capitalismo non sono antidoti sufficienti.

A questo si aggiungono specifi­cità francesi. In primo luogo, la dif­ficoltà strutturale dei sindacati che, soprattutto in ambito priva­to, controllano pochi iscritti e su­biscono l’emorragia di organizza­zioni più radicali.

La rabbia sociale si nutre di un «esprit» anticapitalista che soprav­vive in parte della cultura della si­nistra. «L’insurrection qui vient» è un pamphlet anonimo proposto con successo nelle librerie.

L’arroganza di alcuni patrons e lo scandalo di liquidazioni d’oro e stock options milionarie ha ali­mentato il senso di rivolta e fru­strazione. Olivier Besancenot, il giovane portalettere alla guida del Nuovo partito anticapitalista, cre­sce nei sondaggi, fa il pieno d’ascolti in televisione e imbaraz­za la sinistra tradizionale: Martine Aubry e Ségolène Royal hanno condannato l'«illegalità», ma mo­strano di comprenderla con il lin­guaggio di Besancenot, denun­ciando «violenza sociale» e «senti­menti d'ingiustizia, inquietudine, esasperazione».

Il presidente Sarkozy è ondiva­go. Qualche storico lo ha paragona­to a Napoleone III nel tentativo conciliare ordine, populismo e giu­stizia sociale. E' stato il primo a de­nunciare l'immoralità di alcuni pa­droni, ha condannato i sequestri, ma ha invitato all’Eliseo i seque­stratori, impegnandosi a fare il pos­sibile per garantire posti di lavoro. L’invito, tra parentesi, è stato re­spinto al mittente: venga lui in azienda, gli hanno mandato a dire. Se ciò che avviene nelle fabbri­che si somma alla paralisi delle uni­versità — con molte facoltà occu­pate, qualche caso di presidi seque­strati, il boicottaggio delle giurie d’esame e anno accademico in peri­colo — si capisce che il clima si è pesantemente invelenito. Anche in questo ambito non mancano le condanne del governo, ma i mini­stri nel mirino (Xavier Dercos, Istruzione, e Valerie Pecresse, Uni­versità) tirano il freno a mano sul­l’attuazione delle riforme.

La propensione francese ad at­teggiamenti di rivolta e disobbe­dienza estrema è confermata dal­l’autodenuncia di migliaia di citta­dini che hanno dichiarato di aver aiutato immigrati clandestini. Tut­ti emuli di un eroe del cinema, Vin­cent Lindon, protagonista di Wel­come, storia strappalacrime di un rifugiato curdo aiutato ad attraver­sare la Manica. Il film accusa la Francia di essere sempre meno ter­ra d'asilo e patria dei diritti dell’uo­mo. Inevitabili le polemiche.

Nella Francia in subbuglio, non poteva mancare l'attacco ai simbo­li: bloccata dai cassieri anche la Tour Eiffel, nel giorno in cui il grande chef Ducasse voleva inau­gurare il ristorante panoramico. Prezzi da giustizia sociale, ma solo fino alle sei di sera.