domenica 12 aprile 2009

LE OPERE DI JOUMANA HADDAD

Bibliografìa in arabo
* Il tempo del sogno, poesia, s.e, (1995)
* Invito a una cena segreta, poesia, Edizioni An Nahar, (1998)
* Due mani verso l’abisso, poesia, Edizioni An Nahar, (2000)
* Non ho peccato abbastanza, poesia, Edizioni Kaf Noun, (2003)
* Il ritorno di Lilith, poesia, Edizioni An Nahar, (2004)
* La pantera nascosta alla base delle spalle, poesia, Edizioni Al Ikhtilaf, (2006)
* In compagnia dei ladri di fuoco, interviste con scrittori internazionali, Edizioni An Nahar, (2006)
* Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 150 poeti che si sono suicidati nel ventesimo secolo, antologia poetica, Edizioni An Nahar, (2007)
* Cattive abitudini, poesia, Edizioni ministero della culture egiziana, (2007)
* Specchi delle passanti nei sogni, poesia, Edizioni An Nahar, (2008)

Bibliografìa in lingue straniere
Alcuni libri di Joumana Haddad
* Damit ich abreisen kann, 2005, Lisan Verlag, Bâle, Svizzera.
* Allí donde el río se incendia, 2005, Ediciones De Aquí, Málaga, Spagna, 2006, Fundación Editorial El Perro y la Rana, Caracas, Venezuela/ 2007, Editorial Praxis, Messico, Messico 2007.
* Cuando me hice fruta, 2006, Monte Ávila Editores, Caracas, Venezuela.
* El retorno de Lilith, 2007, Editorial Praxis, Messico, Messico.
* Le retour de Lilith, 2007, Editions L’Inventaire, Parigi, Francia.
* Liliths Wiederkehr, 2008, Verlag Hans Schiler, Berlino, Germania.
* Invitation to a Secret Feast, 2008, Tupelo Press, Vermont, Stati Uniti.
* Madinah, city stories from the Middle East, 2008, "Comma Press", Manchester, Inghilterra.
* Adrenalina, 2009, "Edizioni del Leone", Venezia, Italia.

Bibliografìa in italiano
* in Parola di donna, corpo di donna, 2006, "Mondadori" (antologia curata da Valentina Colombo).
* in Non ho peccato abbastanza, 2005, "Mondadori" (antologia curata da Valentina Colombo).
* Adrenalina, 2009, "Edizioni del Leone" (traduzione di Oriana Capezio).
l’Unità 12.4.09
Premier a reti unificate
Monologhi dalle rovine
di Natalia Lombardo


Nella tragica settimana Berlusconi ha comunicato direttamente con gli
italiani dalle tv. Rai e Mediaset ne moltiplicano l’immagine. E la popolarità

Tempestivo, determinato a intraprendere in Abruzzo il «metodo Napoli», gestire in prima persona l’emergenza terremoto passo passo, vestire i panni del tecnico, Silvio Berlusconi nella settimana della tragedia si è rivolto solo alla gente attraverso la moltiplicazione mediatica. Dagli sfollati sopravvissuti ai telespettatori, arrivando così agli elettori. Per stracciare ogni filtro ha comunicato solo in tv, onnipresente e dilagante in ogni tg Rai e sulle sue reti Mediaset, fino alla celebrazione stucchevole che ne ha fatto Matrix, su Canale5, nel venerdì Santo del funerale.
Un’intervista telefonica del conduttore che ha sostituito Enrico Mentana, Alessio Vinci. Parole e racconti esaltati dalle immagini ripetute a loop, a rullo continuo: Silvio che prega, che abbraccia una signora che ha perso i suoi cari, che accarezza un ragazzo, che si mischia con i volontari della Protezione civile e che si tira fuori dalla fotografia immobile e granitica delle figure di Stato. Dalla (sua) tv ripete che offre tre delle sue case agli sfollati, per mettersi alla pari con gli italiani a cui ha chiesto un atto di generosità, nascondendo il metro di paragone fra appartamentini sulla costa e le sue Ville accomodate in luoghi ameni.
È l’esaltazione di un culto della personalità messa in atto sulle televisioni di sua proprietà. Qualcosa che, forse, tracima in modo sgradevole da quella che, tutto sommato, è apparsa una reale commozione del premier e una immedesimazione nel dolore collettivo.
Ma è stato proprio Berlusconi, a sorpresa, ad avere cancellato le mediazioni fin dalla prima sera. Quando, dopo il primo consiglio dei ministri lunedì 6, mentre i cronisti aspettavano a Palazzo Chigi l’annunciata conferenza stampa, il premier ha scelto il messaggio a reti unificate, di fatto, nella ormai sempre più consolidata Raiset, dove i confini proprietari fra tv pubblica e privata sono slabrati. Le doppie telefonate, a Matrix e a Porta a Porta, per comunicare agli italiani che Lui era sul campo, aveva rinunciato ad andare a Mosca per volare a L’Aquila.
Una costante, dal giorno dopo. Sottolineata dalle conferenze stampa quotidiane, oculatamente previste in orario per il Tg1 e gli altri, mostrandosi come «l’uomo del fare» in maglioncino, con mappe e carte e casco accanto al nuovo angelo custode Bertolaso; annunci e correzioni sulle New Town, spot utili a far pre-digerire il Piano casa. Di mattina parla ancora a Canale5 con Belpietro (in corsa per il Tg1) e, da Roma, si esalta sul (suo) sondaggio che vedrebbe schizzare la sua popolarità oltre il 70 per cento, nonostante le gaffes delle tendopoli, cliché notati ormai solo dai giornali stranieri.
La prostrazione mediatica si ripete anche su Rai1: La Vita in diretta venerdì dispensa una lunga intervista con tono enfatico e compreso. E ancora ieri in tutti i tg l’immagine fissa di Silvio ha lanciato messaggi, nonostante sia entrata in vigore la par condicio. Ma l’uomo del «ghe pensi mi» è sfuggente quando deve associarsi a una denuncia del Capo dello Stato sulla responsabilità di costruttori. E oggi sarà di nuovo lì: dalle tendopoli alle tavole del pranzo di Pasqua degli italiani.

l’Unità 12.4.09
«Leader messianico e populista come era Peron»
Intervista a Alessandro Amadori di Natalia Lombardo


Il “fenomeno messianico” Berlusconi non è razionale, è pre-politico: bypassa tutte le mediazioni e entra in rapporto diretto con l’opinione pubblica. E i media si appiattiscono in un monologo, un reality show»: Alessandro Amadori, psicologo, semiologo e fondatore di Coesis Research; sulla strategia comunicativa di Silvio Berlusconi nel 2001 scrisse il libro «Mi consenta».
Secondo lei la sovraesposizione mediatica sul dramma del terremoto è stata voluta dal premier?
«A me è sembrato che Berlusconi abbia manifestato una parte reale del suo modo di essere. La parte che chiama e riesce a instaurare il contatto messianico con l’opinione pubblica. Esiste la categoria dei leader messianici, un leader che bypassa i filtri, supera i corpi intermedi di mediazione e cerca di entrare in risonanza diretta col proprio popolo. È la base del populismo. Questa volta credo Berlusconi sia stato spontaneo, non voluto o costruito. È così».
Quindi andare fra la gente al funerale, piuttosto che fra le autorità, non è stato un calcolo preciso?
«Lo escluderei. Esiste un meccanismo, sottovalutato, che porta al lungo successo di Berlusconi: questa capacità di risonanza diretta. Un grande punto di forza per lui, ma che espone a rischi di una deriva personalista, più che autoritaria. Non lo immagino aspirante dittarore».
Già ma il volere più poteri per il premier, il vivere il Parlamento come un freno, non sono rischi?
«Sì, ma non tanto per volontà autoritaria, quanto per questo rapporto messianico, diretto».
Vuol fare tutto da solo?
«In un certo senso sì. È una forma di empatia portata all’estremo, e questo lo rende insofferente per i processi di mediazione. Ma non lo accomunerei a Mussolini, a Stalin o a Hitler, quanto a leader come De Gaulle e Peron, soprattutto quest’ultimo. Berlusconi è più impulsivo che machiavellico».
Chi lo conosce dice che non fa niente a caso...
«Forse sì, ma più nella politologia classica che quando è in mezzo alla gente. In questo è davvero allievo di Bossi, si somigliano. Insomma, al funerale mi è sembrato un leader popolare, anche populista, con un rapporto stretto, diretto e reciproco con la sua opinione pubblica».
Berlusconi capisce la gente anche quando fa le battute del tipo: una vacanza “in campeggio” o “al mare”?
«Sì. anche se nel voler sempre sdrammatizzare gli sfuggono battute distoniche. Ma la gente gliele perdona, subito dopo il meccanismo si rimette in moto. Però nessun altro leader ha questo rapporto con i suoi elettori. Franceschini, infatti, oltre alla gravità del momento, ha capito che sarebbe stato fuori luogo attaccare o ironizzare su Berlusconi, semmai bisogna rifletetre su questo rapporto».
Controcampo: le televisioni alimentano il culto della personalità?
«Ho notato un forte appiattimento dell’offerta televisiva. Tutto è raccontato nello stesso modo, senza capacità di elaborazione, quasi in “presa diretta”. Ecco, i media hanno seguito il format del reality show. Un monologo visivo senza pluralismo delle voci, tutti gli altri sono scomparsi. Capisco che per le tv è difficile sottrarsi al fascino polarizzante di Berlusconi, ma la scena, oggi, è un monologo».

l’Unità 12.4.09
Radiografia di un terremoto catodico
L’Aquila, il premier e le trasmissioni tv
di Enzo Costa


Certo, rispetto al Premier che, in piena crisi Alitalia, plana con l’elicottero di Stato sulla Beauty Farm Méssegué, meglio il Premier che, in pieno disastro terremoto, plana su L’Aquila. E, in barba a ogni allergia al Capo, uno si impegna ad apprezzare quel segno di presenza sopportando i segnali di presenzialismo che lo corredano: le visite agli sfollati con apposito look informale che fa tanto "uomo del fare"; le incongrue parole sulla Pasqua da trascorrere al mare e sulla crema solare da spalmarsi (accolte bene dai destinatari, a triste riprova di una sintonia tra Eletto ed elettori fondata sul "battutese" televisivo spacciato per anni dal primo ai secondi); le conferenze stampa quotidiane, rubrica fissa che ricalca analoghi tormentoni partenopei (sul luogo del disastro ambientale), a cavalcare l’onda emotiva e (forse) i sondaggi positivi, con sfoggio di mimica telegenica atta a raffigurare la tosta operatività del Leader, celebrata per iscritto dai cronisti embedded, da Minzolini in giù.
Più in generale, ci si adatta ad accettare la cannibalizzazione catodica della tragedia: con inevitabile (ma perché?) indotto pre e postprandiale a base di Cucuzza, Sposini e D’Urso, reduci e prossimi ad efferate gossipate ma intenti ad ora a focalizzare il lato umano del dramma, a volte anche umanamente, con le classiche retoriche a fin di bene, e di propaganda. Vero, le Carfagna e Gelmini che la sera dopo il sisma bivaccano a "Matrix", non sono digeribilissime. E ancora meno nelle successive passerelle umanitarie in favore di telecamera, come il resto del battaglione ministeriale in missione superflua immortalato dai tiggì.
Mentre il Vespa del "Porta a Porta" speciale della prima sera che, dopo un sensato sorvolo sul luogo della catastrofe, si strugge su un peluche spuntato fra le macerie, ti imbarazza un po’: non per la scena in sé, legittimamente patetica, ma perché ti evoca il cinico brandire, da parte del conduttore, altri tragici oggetti (lo zoccolo di Cogne, la bicicletta di Garlasco). Ma è ad un punto preciso di quel "Porta a Porta", che la tua resistenza cede: quando, presenti i ministri Maroni e Matteoli (e soffocata la domanda spontanea "ma la sera del terremoto non dovevano essere a lavorare, invece che in tivù?"), il Premier intima via telefono a Maroni di provvedere all’invio di nuovi vigili del fuoco.
Delle due l’una: o gliel’aveva già detto, e lì recitava a mo’ di reality; oppure, invece di interloquire coi ministri nei luoghi deputati, lo faceva alla tele per fare più scena. In ogni caso, una brutta scena. Insopportabile.
enzo@enzocosta.net www.enzocosta.net

l’Unità 12.4.09
Conversando con Edoardo Sanguineti
Poeta e scrittore
«Questa Italia scoraggiata è finita nelle mani dell’uomo delle tende azzurre»
intervista di Pietro Spataro


La sinistra scomparsa: «C’è stata una generazione che ha voluto cancellare la storia in modo dissennato»
Il potere di Berlusconi: «Con le tv nasce un avveduto affarista che si è comprato l’Italia e fa di tutto per dominarla»

Il poeta e l’operaio: «Per me è cambiato tutto quando, giovane borghese, conobbi un vero operaio. Capii che era parte di un altro mondo. Quell’operaio aveva il fucile ed era un partigiano. Allora, a Torino, sono diventato materialista».

In tv continuano a scorrere le immagini del disastro dell’Abruzzo. Le case sventrate, le chiese ferite, le bare allineate, gli sfollati spersi. «È terribile», dice Edoardo Sanguineti. «È terribile vedere come certi edifici siano finiti in briciole e abbiano portato la morte. Eppure dovevano essere garantiti dal rischio sismico...».
Si ferma un attimo poi aggiunge con tono polemico: «E davanti a questa grande tragedia c’è chi cerca di ricavare consenso dalle tende azzurre...». A Edoardo Sanguineti, poeta e saggista acuto e ironico, Berlusconi non è mai piaciuto e non lo nasconde. Non gli piace per niente, oggi, quella continua esibizione di sé tra le rovine dell’Aquila. Proprio il terremoto - il segno di questa Italia vulnerabile e sofferente - è il punto da cui partiamo per ragionare su di noi e sul futuro.
Allora, Sanguineti un disastro ineluttabile quello dell’Abruzzo?
«Non credo proprio. Diciamo che non c’è stato controllo. Come è stato possibile che l’ospedale, la prefettura, la casa dello studente siano venuti giù in quel modo? Come è possibile che chi era lì per studiare non abbia avuto la minima garanzia di sicurezza? Che fine hanno fatto le leggi sul rischio sismico? È tutto terribile e dimostra a che livello di degrado siamo arrivati. Meno male che di fronte all’emergenza almeno una certa risposta di solidarietà c’è stata...»
L’emergenza mostra sempre il lato migliore degli italiani. Ma secondo lei nella normalità l’Italia di oggi non è invece cinica e indifferente?
«Io direi che questa Italia è molto scoraggiata. È caduta ogni fiducia, ormai si dice solo “spendete e spandete”. Ma questo scoraggiamento va oltre i nostri confini. La globalizzazione infatti sta mostrando i suoi effetti perversi. C’è un mondo pieno di proletari che non sanno di esserlo e la coscienza di classe si è persa. Ormai la pratica sociale più diffusa è il mobbing».
Eppure solo qualche anno fa ci dicevano che il capitalismo era trionfante...
«E invece nel momento di massimo splendore il capitalismo entra in crisi. Ma attenzione, perché vedrete che reagirà e lo farà con durezza. Però, possiamo dirlo: aveva ragione Marx. Basta vedere come nelle nostre città si aggirano masse disperate e ricchi spaventosamente ricchi per i quali non ci sono limiti. Rileggere Marx, questo dobbiamo fare se vogliamo riorientarci. Dico Marx, ma anche Gramsci e Benjamin: credo possano ancora aiutarci».
Qualcuno dice che è fallito un modello, quello del consumismo. È d’accordo?
«Certo. Ormai siamo cittadini non più di una Repubblica fondata sul lavoro ma di una Repubblica fondata sulla concorrenza spietata. Quando il consumo è tutto la Costituzione può essere rovesciata come un guanto. È quel che dice il nostro premier».
Insomma ha vinto Berlusconi?
«Sì, ha vinto violando, tanti anni fa, le norme sulle tv. Lì è nato un avveduto affarista che costruisce il suo apparato di persuasione. La tv non serve più a insegnare a leggere e a scrivere come faceva il maestro Manzi, né a formare una coscienza critica. La tv si occupa di questioni di letto, di grandi fratelli. E allora Berlusconi diventa un modello. Appunto: è l’uomo che ricava consensi dalle tende azzurre del terremoto. Le tende azzurre sono il simbolo del berlusconismo. Si è comprato il paese e utilizza ogni mezzo per dominarlo: il suo è un modello nazional popolare».
Che arriva persino all’uso delle ronde contro gli immigrati...
«Anche le ronde sono espressione di un paese arcaico. Un paese che non è più in grado di sopportare la presenza di chi non è noto. Non si tollera lo straniero e allora si occupa il territorio. È un elemento spaventoso della nostra storia recente».
Un vero disastro. E la sinistra dov’è finita?
«E chi lo sa... La sinistra è scomparsa in tutte le sue forme. E non solo nei suoi tentativi di trasformazione dopo gli errori di Occhetto. C’è stata una generazione dissennata che ha lavorato per cancellare la propria storia. E Berlusconi infatti si presenta come il salvatore dal comunismo. All’opposizione dice: arrendetevi. Tutto questo fa impressione».
Insomma non c’è speranza?
«Ma no, mantengo sempre una disperata speranza nella sinistra. Ma devo dire che è sempre più flebile».
Qualche segnale positivo ci sarà pure. Per esempio, i ragazzi dell’Onda. O il sindacato. Non sono un po’ di luce in mezzo al buio?
«Il sindacato sì. La Cgil sì e non solo per la bella manifestazione del Circo Massimo. L’Onda invece no, assolutamente. Ho visto in quel movimento una spaventosa depoliticizzazione, non sanno proprio quel che vogliono. C’è solo tanto individualismo».
Per fortuna che c’è Obama allora. Persino Ingrao dice che è l’unica grande novità...
«Non sono d’accordo con Ingrao. Certo Obama mica è da buttar via, un nero alla Casa Bianca, o un abbronzato come dice qualcuno, è una novità. E ci sono elementi positivi nei suoi primi passi. Anche una certa spinta utopica. Il punto è: chi rappresenta e quali classi? Non dimentichiamo che l’America non ha mai conosciuto la lotta di classe».
E se invece Obama riuscisse laddove la sinistra ha fallito, cioè cambiare il mondo?
«È possibile, è possibile. Ma io non ci credo, non credo che l’America cambierà mai. Un paese nato con una Dichiarazione di Indipendenza così arcaica e conservatrice dove può andare? Per me Obama non è una speranza. L’unica speranza resta il comunismo».
Il comunismo è la sua ossessione...
«Ma che cosa c’è d’altro? Il mondo è precarizzato, l’uomo è ridotto a merce. Quando vai in banca ti rendi conto che chi ti serve dietro lo sportello è uno sportello. È un essere docile che obbedisce per salvarsi. Se questo è il mondo bisogna impegnarsi e non solo con le manifestazioni o con le notti bianche. Ho spiegato due anni fa, proprio in occasione di un compleanno di Ingrao, come si diventa materialisti storici, come ci sono diventato io...»
E come ci si diventa?
«Con gli operai. La mia storia di materialista comincia con un operaio. Per me, bravo ragazzo borghese, tutto è cambiato quando ho conosciuto un operaio per la prima volta. Eravamo in guerra, lui si è fermato e ho capito che era parte di un altro mondo. L’ho visto poi con il fucile in spalla il giorno della Liberazione: l’operaio era un partigiano. Abitavo a Torino, tutto è cominciato da lì».
Un verso della sua raccolta “Postkarten” dice: “la poesia è ancora praticabile probabilmente”. In un mondo così a che serve la poesia?
«Serve a scrivere poesie che guardano il mondo con ottica comunista. Guardano il mondo, lo raccontano, lo interpretano».
Qual è il poeta che ha capito meglio il carattere degli italiani?
«Sicuramente Dante anche se era un feroce reazionario. Lui ha capito che il mondo era cambiato, che la borghesia era in ascesa, ha capito che la storia aveva avuto una svolta irreparabile. Insomma ha capito meglio di altri il disordine del mondo».
Sanguineti, qual è il leader della sinistra a cui si è sentito più legato?
«L’ultima persona sana è stato Berlinguer. Poi certo la sua impresa è fallita. Ma è fallita perché sono arrivate le armi. Hanno rapito Moro, sono cominciate le sedute spiritiche e il progetto si fermò».
Quale lezione ha lasciato Berlinguer?
«Berlinguer diceva allora una cosa semplice e forte: far soldi non è lo scopo dell’esistenza. C’è ancora qualcuno che lo dice? Mi pare di no e infatti guardate dove siamo finiti».
Ancora comunista, ancora avanguardista: insomma fedele a se stesso?
«Una volta mi chiesero quale fosse la mia migliore qualità e quale il mio peggior difetto. Risposi: l’ostinazione. Mi ostino, come Berlinguer, a dire che non si vive per accumulare ricchezza e penso che la nostra Repubblica è fondata sul lavoro e non sul consumo. Qui invece ti dicono grazie solo perché consumi. E allora io ripeto: no grazie. E mantengo la mia ostinazione».
Ha descritto un quadro fosco: quindi è pessimista per il futuro?
«Userei questa espressione: ottimismo catastrofico. Certo che è un dovere essere ottimisti, come si fa. Però, devo essere sincero: non scommetterei un soldo sull’ipotesi che il mondo così com’è duri altri cinquant’anni. Forse ce ne andremo su Marte. Ma costa troppo, vedrete che non si farà».

il Riformista 12.4.09
L'immaginazione (non quella prevista) è giunta al potere
di Luca Josi


Il sospetto è che dove Berlusconi è architetto altri giochino col Lego, dove lui immagina nuove strade questi recitino mantra di circostanza

Che nausea orrenda questi mestatori di sciagure. Avete presente quelle facce ispirate e contrite che qualche feuilleton mediatico vi propina? Quelle che imprecano contro il dolore degli uomini, la disperazione dell'ingiustizia, la maledizione della disgrazia ma se li ascolti con calma, se guardi la maniera della loro sofferenza ti sembra di leggere la trama di una recita, lo spartito di un concertino barocco dove ognuno suona le corde del suo accordo lezioso?
Perché la ragione di quello strazio che avrebbe origine nella tragedia umana ti sembra sostituibile. Cioè parrebbe l'Uomo al centro della loro preoccupazione ma intuisci presto che l'uomo è sempre il mezzo di una propaganda sciacalla pronta a rimpiazzarlo se il programma dello spettacolo cambia.
Una volta è il popolo, un'altra la legalità, un'altra ancora l'ambiente, poi il reietto, poi il diverso, poi, poi, poi. Poi una volta che il popolo va dove non dovrebbe andare ti spiegano che la Società civile ha bisogno di essere civilizzata; la Gente, evoluta; e la legalità, se disturba loro, opacizzata.
Il cataclisma lo bramerebbe governativo in filigrana così da imbastire un altro processino divino, buttando sul proscenio pullman di sfollati, disperazione vera, spalmati di colonne sonore struggenti, di montaggi sapiente per giungere rapidamente a sentenza.
In realtà il loro terremoto, ciò che li fa tremare dentro, è Berlusconi. Non l'Aquila, l'Abruzzo, i senza tetto o i cassintegrati, i disoccupati, gli immigrati tutti semplici vuoti a perdere da riempire e shakerare col veleno di turno. Il problema non sono le vite che non ci sono più, il dramma del presente e l'attrezzarsi al futuro ma il terrore, dopo Napoli, che un'emergenza venga ribaltata in virtù dal giocoliere di Arcore.
Il loro incubo è Berlusconi e il suo talento del consenso. Urlano a Berlusconi la rabbia per ciò che non è riuscito a loro. Il matrimonio, consensuale, con la maggioranza del Paese.
Perché lui è più bravo di loro e in fondo ha tutto quello che loro vorrebbero avere.
E quindi è tutto un no. Perché vogliamo le ricostruzioni ma non vogliamo il Piano casa, perché vogliamo la ripresa ma non vogliamo la società dei consumi, perché vogliamo il domani ma per favore non preparatelo oggi. Perché il ponte costa troppo, è rischioso, è inutile e ci teniamo le barchette, le navette e tutto il resto.
Ma non c'è storia che non sia nata dall'aver provato, tentato, riprovato e sbagliato nel costruire, nel fare, nell'inventare. Rinascimento? Siete matti? Vie nuove, palazzi nuovi, abbattimenti, stravolgimenti, cafonerie nuoviste, bizzarrie principesche, spericolatezze tecnologiche? Teniamoci il Medioevo; Colombo e le Nuove Indie? Ma con tutte le strade che ci sono da scoprire e migliorare a cavallo! O a piedi; Kennedy e la Luna? La Luna? Ma siete impazziti quando da Sacramento a Philadelphia è ancora un'Odissea!
Allora non vanno bene le Nuove città? Squadernate i vostri urbanisti, le vostre intelligenze, i vostri visionari e mostrate un'idea alternativa (tipo quartiere Zen); raccontateci nuove pratiche di imbragatura, di come si tiene su una cupola del Valadier, della riqualificazione dell'Italia a modo vostro con meccanismi economici percorribili e finanziabili.
Non vanno bene le nuove case antisismiche perché sgraziate? Disegniamole meglio. Non vanno bene le case ecocompatibili governative? Scegliamo quelle d'opposizione. Non va bene l'immediatezza dell'azione? Meglio un crono programma Irpino?
Ma perché tra un'arringa e un'inchiesta qualcuno insomma non ci spiega che farebbe lui al suo posto?
Il sospetto è che dove Berlusconi è architetto altri giochino con Lego e Attak, dove lui immagina nuove strade questi recitino mantra di circostanza.
In realtà dopo aver provato a seppellirlo di ogni cosa - tra Tribunali e conflitti - lo riconoscono più forte che prima. Consegnandoci un monopartitismo simmetrico - pro/contro Berlusconi - e regalandogli l'imprevisto ruolo di progressista. Perché così si definisce chi sperimenta e adegua l'oggi al tempo della sua tecnica possibile, alle sue esigenze, ai costumi delle maggioranza. E diventa statista chi guida una nazione nella sua catastrofe ribaltandone la difficoltà in opportunità.
Col suo paternalismo efficiente e accogliente regnerà a lungo e finalmente anche i suoi oppositori entreranno nella storia: avranno fatto nascere un nuovo, meritato, Eroe d'Italia.
L'Immaginazione è andata al potere. Ma non è la loro.
Ben gli sta e, visti i critici, speriamo che duri.
luca@josi.it

l’Unità 12.4.09
Il fatalismo e l’anima, il bivio del Pd
di Conchita de Gregorio


«Spassionatezza»: è il sentimento che prova oggi l’elettorato di centrosinistra. Nel saggio «Un’anima per il Pd» Luigi Manconi parte da qui per suggerire la strada da seguire: ogni scelta maggioritaria non sconfessi la minoranza

Dico subito che sono entusiasta del libro di Luigi Manconi Un’anima per il Pd. Questa perciò non è una recensione tecnica, ammesso che ne esistano (non credo). È una recensione militante, è un invito a leggere, condividere, prestare, eventualmente fotocopiare e comunque far circolare anche a memoria e a voce le domande che Manconi pone, le sue risposte. Credo che ogni discussione sul futuro del Partito democratico, del ruolo e del senso dell’opposizione ad un’idea maggioritaria di governo (non tanto e non solo a Berlusconi: al berlusconismo e ai suoi mille rivoli) debba ricominciare da qui. Provo a spiegare perché.
Il sottotitolo del libro (ed. Nutrimenti, 152 pagg. 12 euro) è «La sinistra e le passioni tristi». La «spassionatezza»: cioè la coscienza di ciò che si è perduto in energia ed emozione, il rincrescimento per il declino di quel che è stato forte, il rimpianto di ciò che si è consumato. Quella specie di fatalismo che nelle conversazioni comuni si nutre dell’intercalare del «tanto, ormai». L’oggetto di cui si tratta è l’identità del Pd, la sua anima. Ce l’ha un’anima il Pd? È, sarà capace di riempire quel senso di vuoto e di sgomento che si impadronisce dei suoi elettori ogni volta che i parlamentari e i dirigenti sono chiamati ad esprimere una posizione chiara e netta su un tema che ci riguarda e ci appassiona? Vediamo.
LA MASSIMA AGENZIA ETICA
Al centro del libro sta incardinato un capitolo dal titolo «la loro morale e la nostra». Trascrivo. «La sinistra italiana nel suo complesso sembra essere priva di una propria e autonoma etica. Per eccesso di pragmatismo o ridondanza di retorica, per debolezza di carattere o per infantilismo sentimentale la sinistra tutta risulta afflitta da un complesso di inferiorità nei confronti delle culture e delle morali più fortemente strutturate. In Italia quelle di ispirazione cattolica». La chiesa come Massima Agenzia Etica. Su questioni come fecondazione assistita, testamento biologico, interruzione di gravidanza ma anche immigrazione e intolleranza etnica, impoverimento di nuovi gruppi sociali. Nel tempo, dalla scomparsa della Dc in poi, la Chiesa è divenuta Esclusiva Autorità Morale: rafforzandosi in questo ruolo proprio mentre, per paradosso, gli stili di vita dei cittadini anche cattolici si discostavano sempre più dalla dottrina.
Ecco quindi che anche tra cattolici c’è chi interpreta la «morale pratica» e chi ripropone quella confessionale. Le posizioni di Ignazio Marino e Paola Binetti sul testamento biologico, per esempio. Dunque che fare? Scegliere una via ed escludere l’altra? No, dice il capitolo intitolato «perché non posso vivere senza Paola Binetti». I codici morali debbono convivere in un costante palestra di confronto. La scelta, di volta in volta da compiersi a maggioranza, non comporterà la sconfessione dell’opzione minoritaria: affermerà piuttosto che ciascun valore è in sé assoluto e non suscettibile di negoziati.
Manconi indica la via dell’inclusione. Un «partito grande a struttura coalizionale». Un partito come una famiglia allargata: coi nonni, i nipoti, i figli acquisiti, i fratelli e i cognati. Il ragionamento si rivolge ora alla Sinistra, ai radicali e ai verdi, all’Italia dei valori, al centro. Con notazioni anche molto critiche ma con una visione prospettica alla quale, francamente, non si vedono alternative se l’obiettivo è (sempre che l’obiettivo davvero sia) quello di costruire una forza democratica capace di governare il Paese. L’orizzonte è quello del «bene possibile» (molto meglio del «male minore»): tarare le aspettative sulla base delle risorse a disposizione. Partecipare a un destino condiviso e costruire un’identità comune sulla base delle scelte, attraversando le incertezze e le paure. Sulle cose, sui fatti della vita.

IN CERCA DI UNA VIA
L’autore. Luigi Manconi (nato a Sassari il 21 febbraio 1948), commentatore per l’Unità, è professore di Sociologia dei fenomeni politici allo Iulm di Milano.
La proposta. Nel suo nuovo libro «Un’anima per il PD. La sinistra e le passioni tristi» (Nutrimenti, pp. 152, euro 12) cerca risposta a questo interrogativo: come focolarini, comunisti, riformisti, ecologisti, cattolici popolari, radicali, extraparlamentari, socialisti, Partito umanista, Opus Dei, devono stare dentro e intorno al Partito democratico.
L’analisi sulle Br. L’opera precedente era «Terroristi Italiani. Le Brigate Rosse e la guerra totale 1970- 2008» (Rizzoli, 2008).


Corriere della Sera 12.4.09
A un anno dalle politiche il Pd perde un voto su tre
di Renato Mannheimer


Attratti da Fini Il partito di Franceschini è sceso al 24-25%: voti in partenza verso l’Idv ma anche il Pdl, grazie all’attrazione esercitata da Fini

Sono trascorsi esattamente dodici mesi da quando, nel­l’aprile 2008, si è votato per le politiche. Cosa faremmo og­gi se si dovesse rivotare? Un quesito del genere, posto qualche giorno fa ad un campione di italiani, mostra, forse più di ogni altra considerazione, quanto l’elettorato sia potenzialmente mobile e quanto lo scenario politico sia soggetto a mutamen­ti, anche in tempi rapidi. Quasi il 20% della popolazione, infat­ti, dichiara che muterebbe il proprio comportamento rispetto ad un anno fa. La quota maggiore è rappresentata da chi dice che se fosse chiamato oggi a votare si rifiuterebbe, rifugiando­si nell’astensione.
Si tratta dei delusi dalla politica, di chi ha maturato in que­sti mesi la disaffezione nei confronti del partito votato e/o, spesso, dell’intero sistema politico. Questo segmento di citta­dini è più presente tra i residenti nelle zone meridionali che, come si sa, sono sempre tendenzialmente più mobili. Ma la caratteristica più significativa dei «delusi» è il loro orienta­mento politico. La decisione di astenersi, infatti, è più diffusa tra chi nel 2008 aveva votato per il centrosinistra e, in partico­lare, per il Pd. Più del 15% degli elettori dell’anno scorso per Veltroni dichiara oggi di volersi astenere. Ma, per misurare la perdita complessiva subita dal Pd, a costoro va aggiunto un altro 14% che afferma che, in caso di elezioni, opterebbe co­munque per un altro partito.
Ciò conferma quanto emerge dalle analisi sulle intenzioni di voto, che vedono come tratto caratterizzante il crollo del Pd e il successo del Pdl. Dal 33,1% ottenu­to l’anno scorso, il partito ora gui­dato da Franceschini è sceso oggi al 24-25%. Come si è detto, una buona parte dei votanti di allora si asterrebbe. Ma molti altri sce­glierebbero forze diverse: soprat­tutto l’Idv di Di Pietro, ma, in cer­ti casi, il Pdl, specie grazie all’at­trazione esercitata di Fini su una quota crescente di ex elettori del Pd.
All’andamento negativo del Pd si contrappone il trend posi­tivo del Pdl. Passo dopo passo, Berlusconi ha conquistato por­zioni sempre più ampie di elettorato, sino a giungere al 42-43%. Le aree di maggior successo sono ancora quelle deli­neate dalle elezioni dell’anno scorso: il Sud, i lavoratori auto­nomi, i meno giovani (tutte categorie nelle quali, non a caso, il Pd ha visto le erosioni maggiori) e, specialmente, le casalin­ghe. Ma si tratta di mere accentuazioni: l’ampiezza del consen­so è tale da rendere il Pdl un partito trasversale, presente in misura significativa in tutti i settori demografici e socioecono­mici.
A questo segmento di elettorato, per così dire «certo», si può affiancare il mercato potenziale, costituito da chi, pur non scegliendo per ora il Pdl, afferma di prenderlo comunque in considerazione per un eventuale voto futuro. Si tratta di un altro 13% di elettorato, situato perlopiù tra gli astenuti, gli in­decisi e i votanti per la Lega.
Quest’ultima si conferma al tempo stesso il principale allea­to e il maggior concorrente di Berlusconi, quantomeno sul piano della raccolta dei consensi elettorali. Se il Cavaliere riu­scisse a conquistare parte del proprio elettorato potenziale— sottraendolo soprattutto a Bossi — raggiungerebbe l’obiettivo del 51%, più volte annunciato al congresso. Ciò che spiega in larga misura le frizioni emerse proprio in questi giorni tra Ber­lusconi e il leader leghista.

Repubblica 12.4.09
Ma oltre l’emergenza incombe il futuro
di Eugenio Scalfari


Lacrime lacrime lacrime. Composte, represse, trattenute, a volte singhiozzanti, a volte silenziose in lunga riga sulle guance da occhi che fissano il vuoto. Ma ora, in questa Pasqua dolente, non è più tempo di lacrime che non siano strettamente private. Ora è tempo di decisioni rapide e sagge e di pubbliche assunzioni di responsabilità.
Siamo un paese capace di mobilitarsi e di dare il meglio di sé nell´emergenza, sedendosi poi su se stesso nei tempi lunghi. Accade addirittura che lo sguardo lungo verso il futuro si addica di più alle famiglie che al potere pubblico e alle istituzioni. Dovrebbe avvenire il contrario ma non è così, non in Italia.
Prendete il piano casa voluto dal governo. Al principio fu una proposta avventurosa di Berlusconi per rilanciare l´industria delle costruzioni: il 20 per cento di cubatura in più concessa a tutti i proprietari di case, in città, nei centri storici, nelle campagne. Le sovrintendenze costrette al silenzio-assenso con trenta giorni di tempo per opporsi. I privati autorizzati a iniziare i lavori con la semplice autocertificazione firmata dal professionista incaricato di dirigere i lavori. E sgravi fiscali per tutti.
Poi le Regioni bloccarono il progetto, lo ridimensionarono escludendo le città e le aree vincolate al rispetto paesaggistico, introdussero vincoli speciali per le zone a rischio sismico.
Adesso, dopo il terremoto d´Abruzzo, quel piano è da buttare. L´emergenza ha riproposto il problema delle scuole fatiscenti (San Giuliano di Puglia insegni) e dei rischi naturali. Non siamo soltanto la terra ballerina dei terremoti, ma anche la terra dei torrenti e dei fiumi senza argini, secchi d´estate e devastanti d´inverno; la terra dei vulcani non spenti; la terra delle montagne franose; lo "sfasciume pendulo" che incombe sulle sottostanti marine.
Un piano casa deve dunque includere la messa in sicurezza di tutti gli edifici scolastici, la messa in sicurezza di tutte le costruzioni nelle aree di rischio sismico seguendo le priorità già indicate nelle mappe del 1996; la ricostruzione degli edifici abbattuti e lesionati dal terremoto in Abruzzo. Infine la costruzione di case nuove nei limiti indicati dal mercato per abitazioni dignitosamente economiche. E criteri di rigorose demolizioni per le abitazioni e gli edifici industriali eretti lungo i fiumi, i torrenti e i vulcani a rischio di esondazione e di eruzione.
C´è un lavoro enorme da fare, che non riguarda il bravissimo Bertolaso che di lavori ne fa già troppi, non riguarda l´emergenza di poche settimane e di pochi mesi, ma un arco di anni e impegni di bilancio di grandi dimensioni. Riguarda il tempo lungo che le nostre classi dirigenti non hanno mai preso in considerazione, assorbito soltanto dal fare con ritorni politici ed elettorali immediati, lasciando che le antiche piaghe geofisiche del "Bel Paese" imputridissero e incancrenissero, provocando emergenza dopo emergenza, strage dopo strage e lutti e rovine e lacrime.
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Ricordiamole quelle catastrofi avvenute che hanno costellato la storia nazionale nel dopoguerra (senza scordare il terremoto-maremoto che distrusse Messina e lo Stretto ai primi del secolo scorso provocando una strage di proporzioni inusitate).
Il primo fu l´alluvione del Polesine. Poi l´immensa e paurosa ondata del Vajont. Il terremoto del Belice. L´esondazione dell´Arno che sommerse Firenze mentre un´acqua alta eccezionale sommergeva Venezia. Poi il terremoto dell´Irpinia. Quello del Friuli. La catastrofe in Valtellina. L´esondazione della Dora e degli affluenti del Po. Il terremoto in Umbria e nelle Marche. L´ondata di fango che devastò la valle del Sarno. Ed ora l´Abruzzo.
Sessant´anni di rovine, lutti, tendopoli, roulotte, prefabbricati, cucine da campo, Forze dell´ordine e Forze armate mobilitate, pompieri e vigili, ordinanze, editti, processi, mafie e camorre all´opera per trarre vantaggi.
E lacrime lacrime lacrime. Di emergenza in emergenza. Ma tra l´una e l´altra liberi tutti. Liberi di costruire sul bordo dei fiumi e dei vulcani. Liberi di impastare il cemento con la sabbia del mare. Liberi di lesinare sulle armature di ferro. Liberi di scempiare il paesaggio. Liberi di violare i piani regolatori. Un popolo di eroi, di navigatori e di abusivi. Sempre condonati. Spesso incitati ad abusare. Come accade quando il fare diventa un fine a se stesso e sgomita per farsi largo, egoismo che lotta con altri egoismi.
Sono queste le invasioni barbariche del nostro tempo, in testa alle quali ha cavalcato e cavalca gran parte della classe dirigente di ieri e di oggi. Anche di domani?
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Il terremoto d´Abruzzo, pur col suo carico terribile di vittime, ha registrato un numero di morti e di feriti minore di quelli che l´hanno preceduto. Ma con alcune particolarità che aggravano molto le incognite della ricostruzione.
La principale di queste particolarità riguarda l´Università, una delle più antiche d´Italia, concentrata sulla facoltà di Ingegneria, frequentata complessivamente da trentamila studenti molti dei quali provenienti da paesi e luoghi lontani. È improbabile che questi studenti "foranei" tornino a L´Aquila anche quando la città sarà stata ricostruita. I rischi sono troppi. Ma lo smantellamento del polo universitario sarebbe (sarà) un´altra catastrofe nella catastrofe della città. La popolazione universitaria produce infatti un indotto di traffico e di servizi che è il vero motore propulsivo dell´economia cittadina.
Un discorso analogo, anche se in misura più ridotta, vale per le scuole elementari e secondarie, anch´esse a rischio di spopolamento e intanto di lunga interruzione. Bisognerà organizzare un anno scolastico d´emergenza cercando in tutti i modi di preservare l´unità delle classi e dei loro insegnanti.
La terza questione riguarda i modi della ricostruzione e innanzitutto la scelta del luogo: una nuova città lontana dall´attuale insediamento oppure ricostruire negli stessi luoghi e nelle stesse forme architettoniche badando ovviamente ad una rigorosa vigilanza sulla progettazione tecnica e sulla qualità dei materiali?
La maggior parte degli esperti propende per questa seconda soluzione ma c´è ancora discordanza. Forse dovrebbero essere gli abitanti a decidere.
Quale che sia la scelta occorre far presto: il clima in Abruzzo è rigido, ad ottobre l´inverno è già cominciato. Trascorrerlo sotto le tende è impensabile, tanto più che abbondano le persone anziane. Ma è impensabile anche disperderli e non si tratta soltanto del capoluogo: il sisma ancora parzialmente in corso ha sconvolto gran parte dell´Abruzzo, sicché è un´intera regione con caratteristiche alpine che si accinge a passare un inverno assai disagiato.
Da questo punto di vista l´emergenza è massima e la sua durata non sarà certo minore dei diciotto mesi. Una regione intera. Non è pensabile che ci si affidi all´improvvisazione: governo e protezione civile dovranno presentare un piano ed una tempistica attuativa al Parlamento e indicando insieme con essa l´ammontare dei fondi necessari e la loro copertura.
La Cassa depositi e prestiti potrà fornire un appoggio che in parte rientra nelle sue competenze istituzionali. Si tratta tuttavia di investimenti infrastrutturali (ospedale, palazzi di città, scuole e Università) che riguardano istituzioni e pubblici servizi in capo alla Regione, ai Comuni e allo Stato. Per la Cassa si tratta comunque di prestiti che dovranno esser rimborsati e che richiedono quindi copertura.
Con i tempi che corrono questa partita è molto difficoltosa. Se non ci fosse di mezzo l´orgoglio di Berlusconi, il provvedimento più logico riguarderebbe la reintroduzione dell´Ici sulle prime case che frutterebbe all´Erario un maggior gettito di 3 o 4 miliardi. Ad essi si potrebbe aggiungere un "eccezionale" inasprimento dell´Irpef del 2 per cento per i redditi superiori a 120mila euro annui, il cui maggior gettito, stimato dai tecnici del Partito democratico che ha formulato la proposta, darebbe 2 miliardi. Sarebbe un´imposta di scopo motivata dal terremoto e quindi percepibile ed accettabile dai contribuenti chiamati a farvi fronte.
Infine l´accorpamento del referendum alle elezioni europee del 7 giugno, con un risparmio di 400 milioni.
Si tratta complessivamente di risorse che ammontano a circa 6 miliardi, per far fronte ad una ricostruzione "una tantum". È chiaro che ben altre cifre sono quelle che riguardano la messa in sicurezza delle scuole e delle costruzioni in zone a rischio di catastrofi naturali.
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È stata notata da gran parte dell´opinione pubblica e sottolineata da giornali e televisioni la diversità di comportamento tra il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio di fronte al terremoto d´Abruzzo. Più composto e riservato Napolitano, più emotivamente impegnato nel dirigere e nel fare Berlusconi. Commossi ambedue e più volte presenti sui luoghi del disastro, Napolitano con appena un tremito della voce subito represso, Berlusconi con lacrime sincere e copiose. Infine il Capo dello Stato ha chiamato in causa le responsabilità di quanti hanno male progettato e male eseguito opere che � se le regole fossero state osservate � avrebbero dovuto reggere all´impatto del sisma ed ha stimolato la magistratura ad accertare eventuali reati.
Si potrebbe dire con una punta di ottimismo che i due maggiori rappresentanti delle nostre istituzioni hanno caratteri e culture molto diversi ma complementari che, presi nel loro insieme, danno luogo ad un tandem bene assortito.
Purtroppo questa punta di ottimismo è troppo� ottimistica. Il fare del presidente del Consiglio � l´abbiamo già detto in precedenza � si limita ad una veduta corta e si esaurisce nell´immediato, insegue ritorni politici ed elettorali a scadenza breve, è intriso di emotività e di populismo. La sua sincerità non è sufficiente a dar vita a processi produttivi di lunga lena e di scarsa redditività ai fini del consenso e della popolarità.
Quanto al presidente della Repubblica, non è suo compito proporre programmi politici né Napolitano è persona che voglia eludere le sue competenze istituzionali. Ha grande rispetto per i poteri del governo e per quelli del Parlamento. Incoraggia nei modi appropriati alla sua carica il guardare lungo, a darsi carico del futuro, insomma a guidare il paese come spetta ad una classe dirigente consapevole delle sue responsabilità. Più di questo non può fare, anche se è prezioso che lo stia facendo con tenacia e fermezza.
Il resto spetta a tutti gli altri settori che formano la classe dirigente: i rappresentanti degli imprenditori, i sindacati dei lavoratori, i partiti, gli ordini professionali, la magistratura, le Regioni e gli Enti locali. Ma spetta soprattutto ai cittadini.
I cittadini (l´ho già scritto in altre occasioni ma voglio qui ripeterlo) sembrano ormai presi da sentimenti di indifferenza e apatia che non sono consoni alla temperie che stiamo attraversando. Sono delusi ed hanno buone ragioni per esserlo, ma la delusione non ha alcuna logica connessione con l´apatia, specie quando una parte non piccola di essa riguarda anche il modo come abbiamo esercitato il nostro ruolo di cittadini e di popolo, come abbiamo vissuto il nostro diritto di cittadinanza.
È illusorio pensare che la classe dirigente possa esser migliore del popolo che la esprime. C´è un rapporto stretto tra questi due elementi di una democrazia funzionante e governante, tra la cittadinanza e la dirigenza. Se entrambe sono parte d´un circolo virtuoso si migliorano a vicenda, ma se entrambe fanno parte d´un circolo perverso, a vicenda si imbarbariscono.
In questa Pasqua dolorosa sia questo un pensiero sul quale impegnarsi e sul quale tutte le persone di buona volontà sappiano guardarsi negli occhi e stringersi la mano.

l’Unità 12.4.09
Progressista moderato o populista
Intorno alla candidatura di Pannella si è creato un clima alla Iannacci: «No, tu no»
Ma i radicali sono davvero così distanti?
di Furio Colombo


Candidare Marco Pannella nelle liste Pd alle elezioni Europee? Comprensibile il dibattito, la preferenza, l'indifferenza, l'ostilità. Nel Pd ciascuno è lontano da un punto e vicino a un altro punto, ma il più delle volte non è lo stesso punto. Però intorno a una candidatura di Pannella - che più europeo di formazione e di esperienza non si può - si è creato un clima alla Jannacci, un «no, tu no» rigoroso che un po' meraviglia in un partito che, se non è liquido, almeno è elastico, e lo ha dimostrato con due o tre vittorie negli ultimi giorni. Il comunicato - ufficioso però autorevole - è a firma del generale Fioroni, uno dello stato maggiore. Constata che «il percorso dei radicali ormai è cambiato e non resta più alcuna strada da fare insieme».
Poiché sono alla Camera, mi capita di vedere ogni giorno i parlamentari del Partito radicale sempre nei loro banchi, area Pd da eletti nel Pd, li trovo sempre fermi nella difesa dei diritti umani e civili che sono un impegno mai interrotto da molti decenni di quel partito, vedo i loro voti, in tutte le situazioni cruciali, uniti ai voti del Pd. C'è stato l'episodio della loro ostinata opposizione al trattato di integrazione militare tra l'Italia e la Libia. Ma i lettori ricorderanno che anch'io mi sono battuto contro quel trattato, per la stessa ragione (difesa dei diritti umani in un paese che li nega). So, d'altra parte, che molti colleghi del Pd avrebbero volentieri fatto a meno dell'abbraccio con la Libia (che purtroppo ci riserverà brutte sorprese) se l'indicazione di voto (per me misteriosa) non fosse stata così pressante e autorevole. Ma tutto ciò non è che una piccola parte delle contraddizioni e tensioni, per fortuna molte volte utili e creative (non è sempre Libia) che attraversano il Pd e sono il suo sciame di tremori e - speriamo - di assestamento.
Sui giornali di questi giorni c'è un bel repertorio. Per esempio c'è il campione anagrafico Matteo Renzi, candidato Pd sindaco di Firenze, che afferma che giovane come lui non c'è nessuno e chi non è giovane si tolga di mezzo. E’ un attegiamento che gli toglie la voglia di sapere che nel «Paese più vecchio del mondo» l'età media della Camera dei deputati italiana è appena sopra i 50 anni, dunque alquanto più giovane della Camera americana (per dire che non è l'età che fa la crisi).
Per esempio, un bel gruppo di giovanissimi Pd trenta-quarantenni, uniti dal nuovissimo slogan «I giovani vogliono contare di più» e subito dopo (in contraddizione) «vogliamo superare il recinto generazionale», ha deciso di riunirsi a Piombino «per fare rete», come si dice da giovani invece di «organizzare una corrente». I vegliardi tipo Enrico Letta sono avvisati. Ma proprio Enrico Letta ci guida, con la chiarissima intervista data ad Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera (10 aprile), a sapere come è variamente popolata e animata la cittadella del Partito democratico. Dunque ascoltiamo Letta: «Questo bipolarismo è finito. L'elettorato non è bipolare ma tripolare: diviso non tra destra e sinistra, ma tra progressisti, moderati e populisti. Si tratta di unire progressisti e moderati in un patto che non potrà includere né la Lega da una parte né Di Pietro e i comunisti dall'altra. Dobbiamo costruire un nuovo centro-sinistra con la C di Centro maiuscola. E’ evidente che dobbiamo rispacchettare tutto. Il Pd, così com’è, è condannato alla sconfitta».
Parole pesanti che spingono a domandarsi: ma se la vera ragione di sconfitta non fosse il «Pd così come è» ma «il Pd così come non è»? Per esempio, dove è finito Berlusconi in questa foto di gruppo della nuova famiglia? Torna a casa, tutto è perdonato? È vero che il populista Sansonetti, nuovo direttore del nuovo quotidiano L'Altro ci fa sapere che si asterrà «dall'antiberlusconismo spinto, che dobbiamo superare con le idee». L'Altro andrà a ruba, per capire cosa vuol dire.
Ma - per esempio - su tutto il fronte in movimento non troviamo traccia dell'offensiva del Cardinal Bagnasco: «Tre sì alla vita». (intende dire: curare gli ammalati). E «Tre grandi no». Intende dire: niente testamento biologico, scordatevi di imporre la vostra volontà (cito da L'Espresso del 12 aprile). Il Cardinale come lo ri-impacchettiamo? E perché, in questa fase movimentista e dunque in sé non negativa del Partito democratico, non affiora mai la questione della profonda divisione fra laici e credenti adulti da un lato e teocon disposti a qualunque gesto di cieca obbedienza vaticana dall'altro? Dove è finita la Binetti? E' tra i progressisti, i moderati o i populisti? E siamo sicuri che la sua distanza rispetto a un Partito democratico che cerca ragionevolmente consenso dentro e fuori su tanti fronti (primo fra tutti i diritti umani) sia meno grande e meno incompatibile della storia, vita e testimonianza di Marco Pannella?

l’Unità 12.4.09
La legge 40 e la fuga per la libertà
di Luigi Manconi


La Corte Costituzionale ha dichiarato la parziale illegittimità della legge 40 sulla procreazione assistita, esprimendosi sul limite numerico dei tre embrioni previsti per un unico e contemporaneo impianto; e sul comma 3 nella parte in cui non prevede che il trasferimento degli embrioni debba essere effettuato senza pregiudizio per la salute della donna. La Consulta interviene, così, su due dei punti più qualificanti e più contestati della normativa, evidenziandone il profilo di incostituzionalità. Non è mera questione di diritto: il tema è quello dei vincoli legislativi che dal 2004 a oggi hanno ridotto le nascite per fecondazione assistita del 2,78% (stante un aumento delle coppie che ricorrono a quella tecnica); hanno accresciuto le gravidanze multiple, dal 16% al 23%, con una percentuale di parti trigemini del 3,5% mentre in Europa è dello 0,8%; hanno indotto circa 4.000 coppie l'anno a recarsi all'estero per concepire un figlio, con un incremento del 200% (erano poco più di 1.000 prima dell'entrata in vigore della legge 40).
Si manifesta, con ciò, un "turismo" (mai definizione fu più impropria) che trova origine nella sfera degli orientamenti personali in fatto di procreazione: ovvero la libertà di ricorrere alla scienza medica per avere un figlio, o per non averlo. Nel 2008 nel Canton Ticino sono stati fatti 682 aborti (+11,25% rispetto al 2007). Nel 33% dei casi le donne erano residenti "all'estero"; e quelle provenienti dall'Italia 221 (di cui 206 italiane e 5 straniere). Appena 5 anni prima, nel 2003, il "turismo" abortivo aveva interessato 78 donne. Le cause dell'incremento sono da rinvenirsi nella scarsa o difficile reperibilità, nel nostro paese, della Ru486; nelle politiche più rigorose di altri stati in materia di privacy; infine, in un'efficienza sanitaria altrimenti sconosciuta e nella presenza di un personale medico non tentato dall'obiezione di coscienza. Il ginecologo Silvio Viale dice al Corriere della Sera che una simile migrazione sanitaria è composta da persone che "preferiscono spendere da 400 a 600 euro oltre confine piuttosto che fare le code nei nostri consultori, dove c'è sempre qualcuno che ti può riconoscere o ricordarsi di te. E poi sono donne che non vogliono rischiare la corsa contro il tempo dei pochi ospedali che oggi importano l'Ru486. Dal momento della richiesta alla Francia, in genere, passano 4-5 giorni": basta un imprevisto per impedire l'interruzione della gravidanza tramite quella pillola. Come si vede, altro che "turismo": siamo in presenza, piuttosto, di un cercare soccorso, di un rifugiarsi altrove, di una sorta di "fuga per la libertà" (senza nemmeno Sergio Castellitto).
Scrivere a info@innocentievasioni.net

Repubblica 12.4.09
La giustizia di dio nella pasqua del terremto
risponde Corrado Augias


Gentile Augias, la domenica delle Palme a L'Aquila centinaia di fedeli, cantando e pregando, in mano un ramoscello di ulivo, si sono recati in pellegrinaggio alla Madonna Fore, santuario di San Giuliano. Come la folla a Gerusalemme duemila anni fa, hanno gridato: «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d'Israele!». Poi sono tornati a casa con la pace nel cuore. Durante la notte è arrivata la tragedia. Molti fedeli restano sconcertati. Non capiscono l'assenza di Dio. Ma la delusione deriva dal fatto d'avere di Dio un concetto sbagliato. Il Signore non frena i terremoti, non sceglie l'ora in cui arrivano, non calma gli uragani, né i vulcani; il Signore non fa miracoli, non salva un bambino e ne fa morire cento, non liquefa sangue rappreso. La fede in Dio può darci solo la forza di affrontare, qualora sia inevitabile, il dolore e le tragedie della vita. Chi crede in questo Dio, nel Signore che dà speranza, ma non fa miracoli neppure la domenica della Palme, non rischia delusioni.
Miriam Della Croce miriamdellacroce@tiscali.it

Questa lettera solleva ancora una volta un problema mai risolto che Leibniz battezzò "Teodicea", ovvero il problematico rapporto di Dio con la Giustizia e con il Male del mondo. Domanda terribile che affiora già nella Bibbia con la vicenda di Giobbe che, innocente, viene colpito da una serie di sciagure. Unde malum ? Da dove viene il Male, si chiedeva già Tertulliano aggiungendo che si trattava di una di quelle domande «che rendono le persone eretiche». La parola Teodicea venne coniata giustapponendo due lemmi greci Theos (Dio) e Dike (Giustizia). L'occasione fu l'evento tragico e grandioso che, il primo novembre 1755, colpì la città di Lisbona. Un terre e maremoto spaventoso devastò la capitale portoghese ma anche le coste settentrionali dell'Africa e perfino quelle di una parte dell'Europa. Un'onda alta più di dieci metri si abbatté su Lisbona uccidendo migliaia di persone; tra gli altri un gruppo di bambini che s'erano rifugiati sotto un grande crocifisso nella cattedrale. Il crocifisso si staccò dalla parete schiacciandoli. Per teologi e filosofi l'evento fu difficile da spiegare, Voltaire colse l'occasione per sferzare il sistema dell'ottimismo filosofico ( Candide ). Quanto al delicatissimo tema dei miracoli, un altro grande filosofo, Baruch Spinoza già nel XVII secolo aveva scritto ( Breve trattato su Dio ): «Dio, per farsi conoscere agli uomini, non può né deve usare parole o miracoli né alcuna altra cosa creata, ma solo se stesso». È un pregiudizio, concludeva il grande pensatore, sperare che Dio possa sospendere con un "miracolo" le leggi che egli stesso ha assegnato alla natura. Questa è, per chi crede, una visione adulta e coerente. Il resto è infantile superstizione.

Repubblica 12.4.09
"Negazionismo su Stalin" Liberazione si ribella al direttore
di Alessandra Longo


ROMA - «Si vuole riabilitare Stalin? Noi non ci stiamo». Una ventina di redattori di «Liberazione» scrive una nota durissima nella pagina dei commenti, quasi fosse ospite del proprio giornale. È il nuovo, dirompente caso che scoppia nel quotidiano comunista, ora diretto da Dino Greco, scelto dalla gestione Ferrero. I giornalisti che hanno firmato la protesta si dichiarano «molto amareggiati» dopo aver letto la recensione del libro di Domenico Losurdo «Stalin. Storia e critica di una leggenda nera», edito da Carocci. Una recensione, curata da Guido Liguori, pubblicata a tutta pagina nell´edizione di venerdì scorso e che inizia così: «Stalin mostro sanguinario o politico realista costretto dalla storia a scelte obbligate?». Per Losurdo molto c´è da riflettere sulla figura di Stalin, troppo compressa in un «ritratto caricaturale» che finisce per ignorare il cosiddetto «contesto».
Cresciuti con Piero Sansonetti, l´ex numero uno di «Liberazione», che li ha fatti sparigliare al limite dell´eresia, i venti redattori (non tutti orfani dell´ex direttore) sentono puzza di "negazionismo" («Abbiamo toccato il fondo») e subito reagiscono: «Di fronte ai milioni di morti che il sistema dei campi staliniani ha lasciato dietro di sé, nella memoria collettiva del mondo intero e della cultura di sinistra in particolare, riteniamo che non ci sia nulla da aggiungere: non c´è interpretazione storica che tenga». Una nota durissima, pubblicata ieri, alla quale oggi risponde, altrettanto fuori dai denti, Dino Greco. Un po´ l´atto finale di un rapporto travagliato. Si litiga su Stalin ma il messaggio è chiaro: il giornale, la maggioranza di chi ci lavora, non «vuol tornare indietro, dopo aver cercato di aprire spazi e liberare energie».
Sui gulag, sui «mostri e gli orrori», è stato detto già tutto. «Possiamo serenamente considerare chiuso il confronto su queste tragedie o dobbiamo subirne "revisioni" addirittura apologetiche?». Il direttore di "Liberazione", naturalmente, è di tutt´altro parere. Accusa di «autoritarismo» il «gruppo di redattori» in rivolta e rivendica la libertà di parlare di tutto: «Nessun argomento è tabù». Posizioni inconciliabili. «Non possiamo accettare la sua risposta - dicono i ribelli - che già preannunciano una controreplica a Pasquetta. I maligni potrebbero pensare che dietro il malumore ci sia la resistenza della squadra legata a Piero Sansonetti il quale, tra l´altro, si accinge a partire con un nuovo quotidiano. «L´ex direttore non c´entra niente - assicurano a "Liberazione" - e la prova è che la nota è stata firmata da colleghi che non avevano alcun rapporto preferenziale con lui».
C´entra - par di capire - la paura che «tesi negazioniste» vengano riammesse nel dibattito di idee. «Viene da chiedersi -si legge nella nota - a quando una pagina intera di pubblicità gratuita, sotto veste di recensione "equilibrata", a testi di "rilettura", delle gesta di Ceausescu o di Pol Pot?».

il Riformista 12.4.09
Butovo, una Katyn alle porte di Mosca
di Ubaldo Casotto


Fosse comuni. In Russia sono oltre seicento. Dal 1918 al 1953 sono state fucilate 826.645 persone. Lidija Golovkova, musicista e professoressa d'arte, ha scoperto per caso una di queste fosse, con 20mila corpi. E, novella Antigone, ha deciso di consegnare alla nostra memoria la storia di quei martiri, uno per uno.

Ho finalmente visto "Katyn". Il film di Andrzej Wajda sulla strage di circa ventimila soldati polacchi, tra cui 4.500 ufficiali, perpetrata dai russi nell'aprile-maggio 1940. Furono tutti uccisi con un colpo alla nuca e gettati "alla rinfusa in fosse comuni" come annota nel suo diario personale il ministro tedesco per la propaganda Joseph Gobbels, alla data del 9 aprile 1943, dopo la scoperta dell'eccidio dei suoi ex alleati.
A vedere il film del grande regista polacco, fra parenti e amici, eravamo in otto. Io che mi sono laureato in filosofia agli inizi degli anni Ottanta e che conoscevo la storia, ma non perché l'avessi appresa su qualche manuale. Una professoressa di lettere in un istituto tecnico di Roma, che non ne sapeva niente. Mia figlia di diciassette anni, che ha già studiato due volte la Seconda guerra mondiale, in quinta elementare e in terza media. Una laureata in lettere e suo marito ingegnere che chiedevano lumi sulle date e sui luoghi. Una laureanda in magistero inconsapevole del fatto. Un laureato in giurisprudenza che sapeva, ma solo in virtù del suo mestiere di giornalista. E mio figlio di undici, l'unico assolvibile per la sua ignoranza, i nuovi programmi di storia per le elementari si fermano al Medio evo.
Questa premessa per dire che quello che viene chiamato maldestramente e con intento di accusa "revisionismo storico" - mentre è solo ricostruzione delle memoria censurata - ha purtroppo molto cammino da fare.
«Ancora Katyn? Ma le sappiamo da vent'anni queste cose…». Innanzitutto chiedetevi perché solo da vent'anni. In secondo luogo prendetevi la briga di entrare in una qualsiasi aula di una scuola superiore italiana o di una università, dite "Katyn" e contate le mani che si alzano per darvi una risposta. Rischiate percentuali più basse della mia comitiva cinematografica.
Ma non è di Katyn che volevo parlare, anche se consiglio a tutti di vederlo - se riescono a trovare un cinema che lo programmi, piuttosto acquistino una copia e orgnizzino proiezioni speciali. È non bello, bellissimo. Lento? Della doverosa lentezza e solennità della tragedia. Pesante? Uccidete ventimila persone con un colpo alla nuca e poi ditemi se vi sentite leggeri.
Non è di Katyn, dicevo, che voglio scrivere. Bensì di un'altra foresta, di altri boschi. Di un'altra voragine della memoria che va riempita. I boschi sono a sud di Mosca. Il posto si chiama Butovo. Qui nel 1937/38 vennero fucilate oltre ventimila persone.
Se sappiamo qualcosa di Butovo, lo dobbiamo a una sconosciuta donna russa, Lidija Golovkova. Nel suo "Liberi. Storie e testimonianze dalla Russia" (Bur, 176 pagine, 9 euro) Giovanna Parravicini la definisce «un'Antigone dei nostri giorni». Il libro è una raccolta di piccole biografia di protagonisti della vita russa del Ventesimo secolo (la pianista, il sacerdote, la scrittrice, il professore di filologia, la dattilografa del Samizdat…) conosciuti dall'autrice, che ha frequentato clandestinamente il dissenso russo fin dal 1979, e che ora vive e lavora a Mosca dove anima un centro culturale. Le sue sono storie di resistenza all'idelogia, di coraggio per la testimonianza della verità e quindi, paradossalmente - perché tutti questi personaggi, chi più chi meno hanno conosciuto la censura, il carcere, la Lubianka, gli interrogatori, il confino, il Gulag - un'esperienza di libertà.
Lidia Golovkova è una di questi "liberi". Adesso insegna Storia della Chiesa contemporanea presso l'Università ortodossa San Tichon, ma non era certo questa l'immagine che si era fatta della sua vita. Padre compositore e madre concertista di pianoforte, vive immersa nella musica fin da piccola, in un grande appartamento in coabitazione con altre famiglie perché il padre era partito per la guerra nel giugno 1941, due mesi dopo la sua nascita. Un'insegnante domestica scopre il suo talento pittorico e la indirizza alla famosa Scuola d'arte Surikov.
Inquieta, a diciott'anni riesce a farsi assumere in un circo dove si esibisce con dodici cani barboni e diciotto pappagalli indonesiani parlanti. Diplomata, diventa hostess e gira il mondo per tre anni. Poi torna alla pittura. In questo periodo, fine Sessanta inizio Ottanta, nulla sa del "dissenso" che cova sotto la vita ufficiale del mondo artistico che frequenta. È la condizione di tanti, della maggioranza delle persone, lei stessa ora si stupisce, leggendo le lettere fra suo padre e sua madre quando erano fidanzati, era il 1938, di come non ci fosse «neppure un accenno a quello che stava succedendo intorno… La verità è che, incredibilmente, la gente poteva non rendersi conto di niente».
Poi arriva la perestrojka e Lidija si ritrova senza mezzi, senza lavoro, senza soldi. La ventata di libertà del periodo riporta a galla una dimensione pubblica dell'annuncio cristiano rimasto fino allora nell'ombra. Lidija ritrova la fede. Inizia a insegnare in uno dei primi ginnasi ortodossi che riaprono. Nel tempo libero ritrae dal vero architetture d'altri tempi, spesso semidiroccate, per «fissare la memoria del passato». Costruisce una mappa di Mosca con i luoghi di questi edifici morenti: chiese monasteri, ville.
Un giorno, in una di queste sue perlustrazioni, accetta un passaggio in auto da un poliziotto che le parla di un'ex monastero. Lui ci ha fatto i corsi di polizia, era una prigione con una fama terribile. Giunto in prossimità del luogo il poliziotto però non la fa scendere, sta facendo buio, troppo pericoloso. Lidija scende alla stazione... e poi torna indietro a piedi, trova un varco nella recinzione ed entra nell'edificio. Scopre le celle, trova un proiettile... Tornerà di nascosto per mesi, e per mesi chiede notizie su quel posto. Invano. Finché un uomo nato in un lager le scioglie il segreto: «È la Suchanovka», l'ex eremo di Santa Caterina trasformato in prigione nel 1931, poi usato come luogo di tortura ai tempi di Berija; pochi ne sono usciti vivi.
Lidija inizia a cercare i sopravvissuti, i secondini e i torturatori. Riesce ad arrivare, tramite il rettore dell'università San Tichon, agli archivi della Lubjanka. Ci passa anni. Recupera i fascicoli di migliaia di vittime, ne ricostruisce la vita, l'arresto, la fine. Si rivolge anche al Memorial, l'associazione laica fondata da Sacharov all'epoca della perestrojka, tra loro e la San Tichon non corre buon sangue, ma Lidija riesce a farli lavorare insieme. Scopre due siti di fucilazione e sepoltura di massa fuori Mosca: l'ex poligono dell'NKVD a Butovo e l'ex sovchoz a Kommunarda. Continua a raccogliere storie e a catalogarle fino alla pubblicazione del "Libro della memoria" di Butovo. Ne sono usciti, per ora, otto volumi. Di libri simili in Russia ce ne sono oggi ottantanove: le fosse comuni che si scoprono sembrano non finire mai. Quelle ritrovate a oggi sono seicento. I fucilati dal 1918 al 1953 sono 826.645.
Nel poligono di Butovo è stata costruita una chiesa. In una bacheca di vetro ci sono: una scarpa sfondata, alcuni cenci, manciate di terra, proiettili... e un foglio di carta, il verbale di interrogatorio di un anziano sacerdote, con la firma dell'imputato all'inizio e alla fine, non sembra fatta dalla stessa mano, non era più la stessa persona quella che poche ore dopo aver scritto il suo nome in bella calligrafia non riusciva a portare a termine uno scarabocchio tremolante.
Il lavoro di Lidija Golovkova, film come quello di Wajda non sono una commiserazione nel ricordo, non costituiscono una sorta di risarcimento per la dimenticanza. Sono opere indispensapili per l'identità personale di molti e per la nostra identità collettiva. L'uomo non si differenzia dall'animale per il linguaggio, ma per la capacità di coscienza. E la capacità di coscienza, che è un atto del presente, è capacità di memoria. La memoria è, infatti, qualcosa di più del ricordo perché dà statura e consistenza all'altrimenti effimero istante presente. Un popolo separato dalle sue radici storiche, o impossibilitato a ricordarle, è disponibile a qualsiasi progetto totalitario.
Ma c'è un'altra conseguenza della memoria, e non si tratta di un effetto collaterale. È nel titolo del libro di Anna Parravicini: "Liberi". La memoria rende liberi. Come al solito qualcuno l'ha già detto meglio di noi: «A che serve la memoria? A liberarsi!» (T.S. Eliot, "Quattro quartetti").

Corriere della Sera 12.4.09
Ho vissuto un secolo senza padroni
di Aldo Cazzullo


Tra 10 giorni, il 22 aprile, il Paese intero si stringerà attorno al Nobel Rita Levi-Montalcini per i suoi 100 anni. «Ma non ho paura di morire», dice. Le persecuzioni razziali, il Nobel e la vita privata: «Ero ancora adolescente quando decisi che non mi sarei sposata. Dissi a me stessa che non avrei mai obbedito a un uomo» .
«Letta, Alemanno Stimo anche chi sta a destra»

ROMA — Visto di persona, il volto notissimo di Rita Levi-Montalcini colpisce per il colore verde ac­qua degli occhi — «La vista è calata, ma uso uno speciale visore che ingrandisce le parole di libri e giornali e mi consente di leggere da sola» —, e per la bellezza dei gioielli. «Li ho disegnati io. Questo bracciale l’ho fatto per mia sorella Paola. Questo in­vece è l’anello di fidanzamento di mia madre. La fe­dina me l’hanno regalata a Uppsala: è il simbolo del mio matrimonio con la scienza. La prima volta che andai in America, mi chiesero chi fosse mio marito. Non erano abituati a una donna che conducesse la sua vita di studiosa da sola. 'I’m my own husband', sono il marito di me stessa, risposi. Non capirono. Pensarono non sapessi l’inglese».
Professoressa Levi-Montalcini, tra dieci giorni, il 22 aprile, il paese intero si stringerà a lei per il suo compleanno. Com’è la vita a cento anni?
«Ottima. Anche l’udito è calato. Ma il cervello per fortuna funziona».
È vero che mangia e dorme pochissimo?
«Sì. Mangio una sola volta al giorno, dormo due o tre ore per notte».
Legge?
«Sì. I quotidiani: Repubblica e Corriere della Se­ra. E pubblicazioni scientifiche. Ma non la notte. La notte penso alle ricerche e agli esperimenti per il giorno dopo. Il mattino vado all’Ebri: European Brain Research Institute. C’è un gruppo di giovani ricercatrici molto affiatato, che lavorano in laborato­rio. Il pomeriggio mi sposto alla Fondazione che porta il mio nome. La coordina Giuseppina Tripodi, al mio fianco da molti anni, consigliere delegato del­la Fondazione che ha come scopo il sostegno al­l’istruzione, a tutti i livelli, delle donne africane».
Le piacciono i giovani d’oggi?
«Questa è una domanda generica. Ci sono giova­ni eccellenti, ma sono una minoranza. Ce ne sono molti che non sono diversi da quelli del passato. Purtroppo, sono riapparsi i fascisti».
Ho letto che ai fascisti lei non porta rancore. È così?
«Non è così! Rancore ne ho per quello che hanno fatto: lo sterminio degli ebrei, la Germania distrut­ta, l’Italia a pezzi. Non ho rancori personali, quelli no. Senza le leggi razziali, quando lo Stato stabilì che la mia famiglia e io appartenevamo a una razza inferiore, non sarei stata costretta a lavorare chiusa nella mia camera da letto, dove avevo allestito un piccolo laboratorio, sia a Torino che ad Asti. Ricer­che che nel 1986 mi hanno portato a Stoccolma».
Quali sono stati i libri della sua vita?
«Kafka. Calvino. E Primo Levi. Se questo è un uo­mo me lo regalò sua sorella. L’editore Einaudi l’ave­va rifiutato, su indicazione di Natalia Ginzburg, e l’aveva pubblicato Antonicelli con la sua piccola ca­sa editrice. Fu una folgorazione. Con Primo diven­tammo molto amici. Ho sofferto per la sua tragica fine; anche se credo che non sia andata come è stato raccontato».
Cioè crede che Primo Levi non si sia suicidato?
«Una persona della sua altezza morale non deci­de di buttarsi giù dalle scale: non era nello stile di Primo Levi. Sono convinta sia andata diversamente: penso che abbia perso l’equilibrio».
Lei è stata allieva del padre di Natalia Ginz­burg, Giuseppe Levi, il protagonista di «Lessico fa­migliare ».
«Una persona di valore. Non una mente origina­le, ma un bravo maestro. Eravamo in tre, Dulbecco, Luria e io: tutti suoi allievi, tutti arrivati a Stoccol­ma. Ricordo quando Giuseppe Levi venne a Firenze, nella pensione dov’eravamo nascosti, e non sapeva che nome dire. Per non sbagliare, chiese solo: dov’è la Rita?».
Eravate fuggiti da Torino?
«Dopo l’8 settembre lasciammo Torino per rag­giungere il Sud, ma scendemmo di soppiatto a Fi­renze perché sul treno avevo notato un ufficiale fa­scista. Arrivammo alla pensione dando un falso no­me, il primo che mi era venuto in mente: Lupani. I proprietari avevano intuito qualcosa, ma tacquero».
Lei ha conosciuto bene altri due grandi del No­vecento: Bobbio e Montanelli.
«Con Bobbio eravamo amici di famiglia: suo pa­dre e suo fratello Antonio erano chirurghi. Vecchie frequentazioni torinesi. Siamo rimasti amici per tut­ta la vita. Con Montanelli eravamo coetanei: nati lo stesso giorno mese e anno, il 22 aprile 1909. A lun­go ho fatto fatica a stimarlo: era un uomo di destra. Poi l’ho conosciuto di persona. E l’ho stimato».
Lei nel biennio del governo Prodi è stata molto lodata e molto criticata per la sua scelta di soste­nere sempre il governo.
«Stimo molto Prodi, e anche la Finocchiaro. Non ho mai mancato una votazione perché il mio voto era decisivo; ora che è ininfluente non serve la mia presenza. Ma non ho mai inteso la mia funzione di senatore a vita come una funzione di parte. Sento di rappresentare l’intero mio Paese, tutti gli italiani».
Ci sono donne e uomini di destra che stima?
«Innanzitutto, Gianni Letta. L’ho visto di recente: uomo di valore, al servizio dello Stato italiano. Cono­sco da tempo la Moratti, una persona seria. Ora ho incontrato anche Alemanno e con mia sorpresa l’ho trovato simpatico, mi piace quando parla. Mi pare stia facendo bene il sindaco di Roma».
Lei ha incontrato anche la Gelmini. Che impres­sione le ha fatto?
«Buona. Una persona gentile, con cui è facile co­municare. Abbiamo instaurato un eccellente rappor­to. La stimo anche per le cose che ha fatto: il ripristi­no del voto di condotta è giusto. Pur essendo così giovane e pur non avendo conoscenze scientifiche, visto che è avvocato, sta svolgendo il suo lavoro con coerenza».
È vero che l’ha emozionata più la notizia della nomina a senatore a vita di quella del Nobel?
«Sono state due emozioni diverse. Da Stoccolma chiamarono mentre stavo leggendo un giallo di Aga­tha Christie, Dieci piccoli indiani. Mentre ricordo a memoria la telefonata dal Quirinale: 'Sono Ciampi. La nomino senatore a vita per la sua attività scientifi­ca e sociale, e la abbraccio'. La mia ammirazione e gratitudine per Ciampi è stata ed è enorme. Anche per Napolitano, che incontro spesso, ho viva simpa­tia e ammirazione».
Non le sono mancati un marito e i figli?
«Ero ancora adolescente quando decisi che non mi sarei sposata. Dissi a me stessa che non avrei mai obbedito a un uomo come mia madre obbediva a mio padre. Eravamo una famiglia vittoriana. Mam­ma dipendeva dalle decisioni che venivano da mio padre. Era questo il motivo per il quale gli serbavo rancore. L’ho stimato solo dopo la sua morte preco­ce ».
Com’è il suo rapporto con Israele? Teme per il futuro?
«Sono molto amica del presidente, Shimon Pe­res. Spero che l’apertura di Obama all’Iran dia buoni risultati. Se si dovessero usare armi distruttive non scomparirebbe solo Israele. Per questo la sua distru­zione non è accettabile, non è concepibile, e non la penso possibile».
Ricorda l’altra grande crisi, quella del 1929?
«Certo. Ero ragazza, e rammento un’epoca dura, difficile. Oggi ritrovo un’atmosfera analoga, ma an­che con motivi di speranza. Ricorderò sempre il pri­mo viaggio in America: in particolare mi aveva colpi­to il fatto che i neri, quando salivo sull’autobus, era­no tenuti ad alzarsi per cedermi il posto in quanto bianca, e io non riuscivo a comprenderne la ragio­ne. Oggi però un nero è presidente degli Stati Uniti. E può rappresentare per l’America un nuovo Roose­velt ».
Vivremo davvero molto più a lungo?
«No. Non c’è posto. Se tutti vivessimo sino a cen­to o più anni, non lasceremmo il giusto spazio ai nuovi nati».
Lei è stata la prima donna ammessa all’Ac­cademia Pontificia. Che ricordo ha di Wojtyla?
«Meraviglioso. Una personalità carismatica, spesso incompresa dai laici. Non tutti capirono che era uomo illumina­to, progressista. Certo più di Roncalli, che pri­ma di diventare Papa in­tratteneva rapporti ami­chevoli con Mussolini».
E Ratzinger?
«Ho avuto modo di incontrarlo varie volte: è per­sona estremamente colta, con una forte preparazio­ne filosofica. Come Pontefice, non posso e non deb­bo giudicarlo».
Non ha paura della morte?
«Non me ne importa. È solo il corpo che muore. Credo che qualcosa di noi sopravviva».
L’anima?
«No. Il messaggio. Le azioni, i pensieri è quanto rimane di ognuno di noi. Io credo di lasciare buone azioni, buoni pensieri. Per questo, anche se alla mia età può succedere in ogni momento, non ho paura di morire».

il Riformista 12.4.09
La scienziata più amata dagli italiani
di Anna Meldolesi


RITA LEVI MONTALCINI. Il 22 aprile compie 100 anni. È l'icona vivente del potere dell'intelligenza. Donna emancipata, laica convinta, ebrea, cervello in fuga con passaporto italiano e statunitense, premiata con il Nobel. Ma oltre le celebrazioni istituzionali, serve una riflessione sul futuro della ricerca: il nostro Paese è più bravo a erigere piedistalli che a costruire laboratori.

Il 22 aprile compie 100 anni Rita Levi Montalcini. È il primo Nobel al mondo a superare la soglia del secolo. Incomparabile. Intramontabile. Con la sua gracilità e il suo carisma, gli abiti che sembrano usciti da un film d'epoca, gli occhi stanchi che tutti immaginano ancora puntati sul microscopio, Rita è da tempo immemorabile l'imperatrice e l'immagine pubblica della scienza italiana. Nel bene e nel male. Di ritratti celebratori ne sono stati scritti tanti nel corso degli anni, altri ancora usciranno nei prossimi giorni. Allison Abbott ha appena dedicato al suo compleanno quattro pagine su Nature e chi legge le riviste scientifiche sa che si tratta di un omaggio tutt'altro che rituale.
Non ce ne voglia Rita se dopo averle fatto i nostri migliori auguri proviamo a uscire dal coro, almeno in parte. Il fatto è che la centralità che la sua figura continua ad avere in Italia non è soltanto la logica conseguenza di meriti scientifici indiscutibili. È anche il sintomo di una patologia nazionale. Perché questo paese è più incline a erigere piedistalli che a costruire laboratori. Più interessato a celebrare i cento anni della sua figlia più illustre - sono previste iniziative al Quirinale e in Campidoglio - che a dare un futuro ai suoi giovani cervelli emigrati all'estero. Siamo portati a credere che Rita sia d'accordo con noi, perché lei stessa è stata un cervello in fuga, prima di tornare in patria negli anni ‘60 al Consiglio Nazionale delle Ricerche, con la doppia cittadinanza italiana e statunitense in tasca.
La Montalcini è amata da tutti o quasi. Certo non piace a Francesco Storace, che le ha promesso delle stampelle in regalo quando il governo Prodi si reggeva sul suo voto di senatrice a vita. Piace poco anche alla Lega, che preferirebbe dirottare sul San Raffaele di Milano i finanziamenti per l'European Brain Research Institute creato dalla neuroscienziata a Roma. Ma restare insensibili al suo fascino è davvero difficile. Perché viviamo in un paese conformista, semianalfabeta dal punto di vista scientifico e ancora piuttosto misogino, in cui il sottosegretario all'università e alla ricerca può dire che il basso tasso di occupazione femminile non è un problema: «È una questione di cultura: in Sicilia le donne preferiscono stare a casa invece di andare a lavorare» (Giuseppe Pizza, gennaio 2009). Lei invece è stata ed è un simbolo del potere dell'intelligenza, dell'emancipazione femminile, della passione politica, della laicità. Non è difficile immaginarsela bambina, quando alle domande delle coetanee su quale fosse la sua religione rispondeva: «Sono una libera pensatrice». E neppure quando nel 1974 lei, la prima donna chiamata a fare parte dell'Accademia Pontificia delle Scienze, strinse anziché baciare la mano di Paolo VI. Suo padre, amatissimo, non voleva che andasse all'università, le leggi razziali l'hanno costretta a organizzare un laboratorio segreto in camera da letto, molti colleghi hanno dubitato che la sua molecola - l'Ngf o nerve growth factor - esistesse davvero. E invece lei ha avuto ragione di tutto e di tutti, arrivando fino a Stoccolma. Ricordo che mia nonna, una maestra di campagna, leggeva le sue memorie. La vita di una donna che non si è mai voluta sposare, storie di guerra e di grandi intuizioni, di embrioni di pollo manipolati con l'ago e poi rimossi in modo che quelle stesse uova potessero diventare frittate. L'8 marzo di quest'anno è stata votata come la figura femminile più importante del secolo insieme a Maria Montessori e Oriana Fallaci. Qualche anno fa ha scavalcato Valentino Rossi in una classifica di gradimento tra i ragazzi. Una popolarità eccezionale per uno scienziato, che potrebbe sembrare una fortuna per il mondo scientifico, visto il disinteresse e i sospetti nutriti da tanti politici e intellettuali italiani nei confronti della ricerca. Ma potrebbe anche essere stata una trappola, perché la scienza non si regge sul principio di autorità, progredisce sulle gambe del ricambio generazionale, lasciando spazio ai nuovi talenti, nel rispetto delle diverse competenze.
In Italia invece la scienza si è incarnata in Rita. Renato Dulbecco ha condotto un festival di Sanremo, nel complesso però è rimasto più defilato. Il terzo Nobel dell'irripetibile nidiata torinese, allevata dal neuroistologo Giuseppe Levi, era Salvatore Luria. Ma è morto da tempo, dopo aver cambiato nome (Salvador Luria) e dopo aver ripudiato l'Italia. Fra tutti e tre è quello che gli italiani conoscono meno, anche se i suoi esperimenti hanno scritto una pagina fondamentale della genetica rivoluzionando la biologia moderna.
Quando la matassa dei rapporti con la scienza si ingarbuglia, dunque, è a Rita che la politica si rivolge. Nel 2004 Letizia Moratti affida a lei il compito di ricucire lo strappo avvenuto con la riforma che voleva cancellare l'insegnamento dell'evoluzione nelle scuole primarie. E lei ricuce, sigillando con il suo Nobel una soluzione di compromesso scientificamente piuttosto discutibile. Nel 2000 è sempre lei a mediare tra il governo Amato e i ricercatori che si sono ribellati ad Alfonso Pecoraro Scanio, come racconta Gilberto Corbellini nel suo ultimo libro (Perché gli scienziati non sono pericolosi, Longanesi). L'appello contro il ministro verde che ha ridotto in brandelli la ricerca pubblica in campo biotecnologico è partito dal basso arrivando a raccogliere firme prestigiose in Italia e all'estero. L'assemblea dei rivoltosi a San Macuto finisce sulle prime pagine dei giornali e ad ascoltare gli scienziati vengono politici di prima grandezza. Con grande sorpresa degli organizzatori si presenta anche Rita, fuori programma perché il suo nome non compare nella lista dei firmatari. Lei comunque si siede direttamente al tavolo dei relatori e conduce l'incontro come se fosse la cosa più naturale del mondo. «Non si può mettere il lucchetto al cervello» dice per spiegare il suo sostegno alla ricerca sugli Ogm. Qualche giorno dopo Giuliano Amato chiamerà lei e pochi altri a discutere una soluzione di compromesso. E sarà ancora lei ad essere convocata dal successivo ministro dell'agricoltura, Gianni Alemanno, per sancire una tregua (poi tradita) con la comunità scientifica.
Gran parte del suo successo Rita lo deve al carattere dominante. L'altra parte la deve al fortunato incontro con un embriologo tedesco approdato negli Usa e costretto dal regime nazista a rimanervi: Viktor Hamburger. La Montalcini è interessata a indagare lo sviluppo del sistema nervoso: nessuno a quei tempi immagina che un segnale proveniente dai tessuti circostanti - il fattore Ngf - indirizzi la crescita delle fibre nervose e l'innervazione degli organi. La fonte di ispirazione di Rita è uno studio sugli embrioni di pollo pubblicato qualche anno prima da Hamburger, che lei decide di replicare con l'aiuto del suo maestro Levi, amputando gli abbozzi d'ala e osservando al microscopio le conseguenze di questa operazione sui gangli nervosi. Arriva a conclusioni diverse, ma il lavoro esce su una rivista poco conosciuta e, in tempo di guerra, rischia di passare inosservato. Per fortuna Viktor lo nota e invita l'italiana alla Washington University di St Louis, dove lavoreranno per molti anni insieme. Per mettere a posto gli ultimi elementi del puzzle Hamburger recluta anche il biochimico Stanley Cohen, che scoprirà anche un altro fattore di crescita (quello dell'epidermide, Egf) e nel 1986 condividerà con la Montalcini il Nobel. Qualcuno ha detto che la più grande scoperta di Viktor è stata Rita. Comunque nella comunità scientifica internazionale sono in molti a credere che anche lui, soprattutto lui, meritasse quel riconoscimento. Hamburger inizialmente l'ha presa con ironia: «Mi sento come Giuseppe nella capanna, sta sempre sullo sfondo e il suo ruolo nel miracolo è un po' dubbio». Poi alcune dichiarazioni rilasciate dalla Montalcini hanno incrinato il loro rapporto di amicizia. In Italia in pochi hanno osato criticare l'assegnazione. Un paio di commentatori hanno avanzato delle riserve sul funzionamento del premio, non molto diverse da quelle che lo scorso ottobre hanno accompagnato l'esclusione di Robert Gallo dal Nobel per la scoperta del virus Hiv. Qualche faccendiere ha millantato di essersi dato da fare per influenzare la scelta. Da Bolzano a Lampedusa, comunque, Rita Levi Montalcini era ormai un'icona, una ragione di orgoglio nazionale. E anche oggi la sua stella brilla troppo intensamente per credere che possa essere scalfita da queste polemiche.

Corriere della Sera 12.4.09
Terrorismo. Nuovo no alla scarcerazione dell’ex br Guagliardo per l’omicidio dell’operaio del Pci. La figlia deputato del Pd: è un’ingiustizia
La battaglia di Sabina Rossa per l’uomo che sparò al padre


ROMA — Aveva chiesto di poter uscire definitivamente dal carcere, dopo oltre trent’anni di detenzione, co­me è stato concesso a quasi tutti gli altri ex terroristi con­dannati all’ergastolo per le de­cine di omicidi commessi du­rante la stagione «di piom­bo ». Lui, Vincenzo Guagliar­do, sparò a Guido Rossa, l’ope­raio iscritto al Pci e alla Cgil as­sassinato dalle Brigate rosse nel gennaio 1979. Il pubblico ministero era d’accordo: per la legge l’ex brigatista, già in regime di semilibertà, ha dirit­to a non rientrare in cella la se­ra. Ma il tribunale di sorve­glianza ha detto no, come nel­lo scorso settembre. E la vitti­ma diretta di Guagliardo — Sa­bina Rossa, oggi deputato del Partito democratico — com­menta: «E’ una vergogna, una vera ingiustizia. Lo dico con tutto il rispetto per i giudici, ma mi sembra che quest’uo­mo sia ormai diventato il ca­pro espiatorio del residuato in­soluto delle leggi speciali».
E’ una storia molto partico­lare, quella dell’assassino di Guido Rossa, fra le tante di ex terroristi ergastolani ai quali, secondo una recente giuri­sprudenza, viene concessa la liberazione per i crimini di trent’anni fa dopo qualche forma di contatto tra loro e i parenti delle persone ucci­se, come segno tangibile di contrizione e di «consape­vole revisione critica delle pregresse scelte devianti»; anche solo attraverso delle lettere a cui spesso non ar­rivano nemmeno rispo­ste, ma è quello che i giu­dici chiedono per misu­rare il «sicuro ravvedi­mento » richiesto dal co­dice per rimettere fuori i condannati a vita.
Guagliardo, che da mol­ti lustri ha abbandonato la lotta armata, non ha mai volu­to scrivere niente perché rite­neva di non avere il diritto di rivolgersi alle vittime per otte­nere un beneficio in cambio; considerando, al contrario, il silenzio «la forma di mediazio­ne più consona alla tragicità di cui mi sono macchiato». Ma quando Sabina Rossa, nel 2005, andò a cercarlo per chie­dere spiegazioni e ragioni del­l’omicidio di suo padre, lui ac­cettò l’incontro e ci parlò a lungo, come la donna ha rac­contato in un libro. L’ex br non lo disse però ai giudici, af­finché quel faccia a faccia non apparisse «merce strumentale ad interessi individuali, simu­lazione, e perciò ulteriore offe­sa » alle persone già colpite.
Così arrivò il primo no alla liberazione, dopo il quale Sabi­na Rossa ha voluto rivolgersi direttamente al presidente del tribunale di sorveglianza per testimoniare «il ravvedimen­to dell’uomo che ha sparato a mio padre; metterlo fuori, og­gi, sarebbe un gesto di civil­tà ». Dopo questa uscita pub­blica Guagliardo ha ripropo­sto la sua istanza, chiarendo ai giudici di essere disponibi­le a incontrare qualunque al­tro familiare di persone ucci­se: «Solo se lo desiderano, se non è un nostro imporci a lo­ro. Trovo infatti legittimo che una vittima non voglia né per­donare né dialogare con chi le ha procurato un dolore dalle conseguenze irreversibili».
Nell’udienza della scorsa settimana il pubblico ministe­ro s’è dichiarato favorevole al­la liberazione condizionale dell’ex brigatista, ma i giudici hanno ugualmente rigettato la richiesta. Perché, hanno scritto nell’ordinanza, chiede­re che siano le vittime a solle­citare un eventuale contatto significa dare loro «carichi in­teriori assolutamente incom­prensibili o intollerabili»; e l’atteggiamento di Sabina Ros­sa è «una manifestazione iso­lata e certamente non rappre­sentativa delle posizioni delle altre e numerose persone offe­se ».
La reazione della figlia del sindacalista ammazzato dalle Br — che da deputato ha pre­sentato un disegno di legge per modificare la norma sulla condizionale, in modo da svin­colarla dal rapporto tra assas­sini e persone colpite — è tan­to dura quanto inusuale: «So­no indignata come cittadina e come vittima. Ci sono brigati­sti con molti più delitti a cari­co liberi da anni, senza che nessuno gli abbia chiesto nul­la. C’è troppa discrezionalità. Io credo nella giustizia, ma an­che nel cambiamento degli uo­mini. Spero che la mia propo­sta di legge sia esaminata al più presto».
L’avvocato Francesco Ro­meo, difensore di Guagliardo insieme alla collega Caterina Calia, parla di «decisione che sembra scritta in altri secoli, da un giudice dell’Inquisizio­ne » e sta già preparando il ri­corso alla Corte di cassazione.

Corriere della Sera 12.4.09
Dibattiti Politici, intellettuali e blogger di fronte alla tempesta della recessione
Se l’America capitalista s’innamora del socialismo
Un sondaggio scuote le certezze su mercato e deregulation
di Paolo Valentino


WASHINGTON — «Siamo tutti sociali­sti ora», proclamava in febbraio una coper­tina di Newsweek. Una provocazione, natu­ralmente. Generata dagli oltre mille miliar­di di dollari stanziati dall’amministrazione americana, la più grande iniezione di dena­ro pubblico nell’economia in cento anni. E innescata dalle scomposte accuse di esse­re un «socialista», lanciate a Barack Oba­ma dai tribuni ultraconservatori, come l’ur­latore radiofonico Rush Limbaugh o il giornalista di Fox News, Sean Hannity.
Nella tesi del settimanale, socialismo stava per socialdemocrazia: «Vogliamo am­metterlo o meno, l’America del 2009 sta evolvendo verso un moderno Stato euro­peo. E se non prendiamo atto del crescen­te ruolo del governo nell’economia, conti­nuando invece a combattere battaglie del XXI secolo con termini e tattiche di quello scorso, siamo condannati a un dibattito sterile e divisivo». Basta un dato a soste­gno: in dieci anni, la quota della spesa pub­blica sul Prodotto interno lordo negli Usa è passata dal 34 al 40 per cento, mentre in Europa è scesa dal 48,2 al 47 per cento.
È arrivata la primavera. Lo stimolo eco­nomico è già operativo. E nel buio di una crisi che continua a mordere e far male, sconvolgendo non solo le certezze materia­li ma anche la psiche degli americani, or­mai alle prese perfino con le somatizzazio­ni da recessione, il presidente Obama dice di vedere qualche «barlume di speranza». Ma il contenzioso sul socialismo, in varie forme e gradi di sofisticazione che van­no dal confronto di alto livello all’insulto becero, è ancora più polemico e urticante.
A dargli nuovo combustibile sono stati due episodi, opposti ma collegati. Il primo è un son­daggio nazionale condotto da Rasmussen, uscito pochi gior­ni fa, secondo il quale appena il 53 per cento degli americani ritiene il ca­pitalismo un sistema migliore del sociali­smo, il 20 è convinto del contrario e il 27 non è sicuro di quale dei due sistemi sia superiore. Dividendo per classi di età, i gio­vani sotto i 30 anni si distribuiscono quasi equamente, con il 37 per cento che preferi­sce il capitalismo, il 33 il socialismo e il 30 indeciso. Sopra i 40 anni non c’è partita: i simpatizzanti del socialismo si fermano al 13 per cento. È interessante notare che la domanda posta dagli intervistatori alle mil­le persone del campione non dava alcuna definizione dei due sistemi. L’altro episo­dio corona mesi di crescente retorica re­pubblicana, intravista fin dalle ultime fasi della campagna elettorale, quando John McCain e soprattutto Sarah Palin accusaro­no Obama di essere un «socialista». Nella Weltanschauung conservatrice la S word è diventata una vera e propria ossessione.
Ne hanno fatto a varie riprese uso e abu­so deputati, senatori, bloggers, quasi sem­pre per bollare i piani economici della Ca­sa Bianca. Da ultimo, è successo tre giorni fa, un rappresentante repubblicano del­l’Alabama, Spencer Bacchus, ha detto con orrore che diciassette dei suoi colleghi al Congresso «sono socialisti». Ha avuto il buon gusto di non fare i nomi, ma l’ultima volta che si era sentito qualcosa di simile fu ai tempi di Joseph McCarthy, il senatore che fece della caccia ai comunisti la sua crociata. Ma almeno allora c’era la guerra fredda e le spie al servizio di Mosca non erano un’invenzione.
Il punto in ogni caso rimane: l’America sta diventando socialista, qualunque cosa ciò possa voler dire? «Nulla di quello che Barack Obama sta facendo annuncia la fi­ne del capitalismo — dice Bruce Watson, analista di Daily Finance —, anzi il suo pacchetto mira a ricaricare il mercato. E se proprio vogliamo usare la terminologia dei critici, l’ironia massima sarebbe se lo stimolo socialista di oggi, si rivelasse la sal­vezza del capitalismo domani».
Per Susan Duclos, blogger di WakeUpA­merica, gli americani dovrebbero vedere i risultati del sondaggio di Rasmussen dal punto di vista del bicchiere pieno al 53 per cento ed essere soddisfatti: «Non capisco perché tutti dicano 'appena'. Trovo che in questi tempi di crisi siano ottimi numeri. Anche perché, quando il capitalismo è chiamato economia del libero mercato, quella percentuale sale dal 53 al 70 per cen­to ». «Sono piacevolmente sorpresa che co­sì tanta gente pensi che il capitalismo sia migliore, è buon segno», chiosa Helen Smith, meglio nota sulla blogosfera come Mrs. Instapundit.
In ogni caso, spiega John Judis della New Republic, quel sondaggio «non è un voto per un socialismo di modello sovieti­co ». Durante la guerra fredda, «i conserva­tori fecero di tutto per identificare la so­cialdemocrazia con il comunismo del­­l’Urss, che aveva abolito il mercato, ma l’identificazione non ha avu­to vita lunga». Judis è con­vinto che quel 30 per cento di giovani favorevole al so­cialismo «pensi piuttosto a un maggior ruolo del gover­no nell’economia e a più re­gole per il mercato, frutto della disillusione verso la magia della totale deregula­tion, predicata sia dai repub­blicani che dai democrati­ci ». Come dire, parlano di socialismo, ma, coscienti o meno, pensano soprattutto a Keynes.
Nel dibattito si è inserito perfino il più celebre degli storici marxisti, Eric Hobsbawm, che in un articolo sul Guardian ha dichiarato «fal­liti » sia il socialismo che il capitalismo, spiegando come «il futuro appartenga alle economie miste». Anche se poi lo studio­so britannico non ha una risposta alla do­manda su come pubblico e privato dovran­no combinarsi, e quindi si limita a dire cripticamente «che la crescita economica e il benessere devono essere un mezzo e non un fine». Che la risposta l’abbia già da­ta Thomas Jefferson, con la «ricerca della felicità»?

Corriere della Sera 12.4.09
Ariosto al museo del Louvre
Dame e draghi in giro per Parigi
di Marina Giaveri


«Le donne, i ca­valier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’au­daci imprese io canto...». Ec­coli, volti di dame e tenzoni di cavalieri, castelli e boschi e navi fantastiche a scocca di drago, disegnati con la precisione gotica della scuo­la del Pisanello, con la sovra­na grazia del pieno Rinasci­mento, con la perversa levi­gatezza dei grandi romanti­ci: eccoli nella mostra (una sessantina di opere) dedica­ta dal Louvre a illustrare l’Immaginario dell’Ariosto, l’Ariosto immaginato.
Sono, dapprima, corsieri e paladini che popolano quel mondo multilingue ep­pur compatto della tradizio­ne cavalleresca alla quale si abbeverano — con nostal­gia ed ironia — gli scrittori di tutt’Europa; sono poi figu­re tipiche della società cin­quecentesca, quali si muo­vono fra le corti di Roma e Ferrara ai tempi del poeta; sono, infine, gli Orlandi e le Angeliche, i Ruggeri e i Mandricardi le cui avventu­re si tessono nelle stanze dell’Orlando furioso, si tra­smettono a generazioni di lettori, fanno sognare gene­razioni di artisti.
Strutturata con compe­tenza filologica, abile nel­l’uso delle risorse interne al museo, accompagnata da un attento corredo di confe­renze, letture, proposte tea­trali e musicali, la mostra è anche, per il visitatore, l’oc­casione di incantevoli sco­perte, come la serie ispirata dal poema a Henri Frago­nard.
Il pittore delle delizie set­tecentesche si rivela affasci­nato dall’Orlando furioso non solo per il numero dei disegni che gli consacra (ben 179, di cui una decina in possesso del Louvre e set­te qui esposti) ma per il gu­sto del meraviglioso e la mo­bile vivacità del tratto, che sembrano riprendere la ve­locità e la leggerezza della narrazione ariostesca.
Se i disegni del Pisanello — attivo a Ferrara meno di un secolo prima dell’Ario­sto — o quelli di Niccolò dell’Abate, contemporaneo del poeta, illustrano le fonti e l’ambiente da cui nacque­ro le caleidoscopiche avven­ture dei paladini di Francia, esaltate nell’allegra libertà del gusto italiano, la fortu­na del poema è poi tracciata anche tramite una serie si­gnificativa di oggetti, che vanno dalla prima edizione dell’Orlando furioso a picco­le sculture di mano france­se ispirate ai suoi personag­gi.
L’episodio di Ruggero che libera Angelica dal mo­stro marino ha poi uno svi­luppo iconografico partico­lare: nell’ultima delle sale Mollien che ospitano l’espo­sizione, esso è non solo con­frontato pittorica­mente con la sua fonte classica (Per­seo che libera An­dromeda) ma an­che declinato nelle discordi soluzioni di tre fra i massimi pittori dell'800 francese: Jean-Au­guste- Dominique Ingres, Eugène De­lacroix e Gustave Moreau.
Scopertamente erotico nella famo­sa tela di Ingres (qui presentata con il suo corredo di disegni prepara­tori), l’episodio si fa magmatico di co­lori nel piccolo e densissi­mo quadro di Delacroix, per poi risolversi nella con­templazione estetizzante di Moreau.
L’immagine della bella esposta al mostro («così ignuda / come Natura pri­ma la compose») e del suo bellicoso salvatore che piomba dal cielo in un arruf­fio di penne d’ippogrifo di­venta, così, pretesto di con­templazioni sado-masochi­stiche e di drammatizzazio­ni romantiche, prima di ri­solversi nella regalità stati­ca che illustra l’avvento del­la stagione simbolista.

il manifesto 11.4.09
Europee. Dal Pd addio anche ai radicali
di Matteo Bartocci


Separazione consensuale per Strasburgo. Bonino: non siamo appestati, farò la mia lista Referendum, tensione nei poli sull'«election day». Si va verso il 21 giugno

Per il Pd un'altra «separazione consensuale». Dopo quella con la sinistra «rosso-verde» prima del voto di aprile, dopo il voto è arrivata quella con Di Pietro e infine, ora, anche l'addio all'alleanza coi radicali in vista delle elezioni europee del 6-7 giugno.
Che le «trattative» fossero finite in alto mare già da diverse settimane non è un mistero. Così Emma Bonino ha ufficializzato ieri la scelta di presentarsi alle europee fuori dalla casa democratica. «Da soli?», vedremo, spiega prudentemente la vicepresidente del senato. «Di certo ci saremo con la lista col mio cognome - aggiunge Bonino - per via di queste leggi non proprio da stato di diritto con cui si possono presentare al parlamento europeo, senza raggiungere 175 mila firme, solo coloro che sono stati già eletti con lo stesso simbolo».
Così sulla scheda il simbolo dei radicali sarà la lista Bonino. Come nel 2004, quando presero il 2,2% e dunque con la nuova soglia di sbarramento al 4 sarebbero stati tagliati fuori dal parlamento.
Per usare un eufemismo, al Nazareno, sede nazionale del Pd, certo non si strappano i capelli per la rottura con il partito di Pannella. «Certo - spiega un parlamentare vicino al segretario Franceschini - a differenza di Di Pietro hanno rispettato l'impegno a entrare nel gruppo del Pd ma per il resto, nel voto e negli emendamenti, sono una componente completamente autonoma. E questo ha creato malumori e proteste». Dunque l'esperienza di aprile, con l'ospitalità offerta nelle liste democratiche, «è finita». Addio, dunque. Senza rancori almeno da parte democratica. Un po' delusa invece Emma Bonino intervistata da La7. Il Pd? «Che ci sia Veltroni o Franceschini segretario è come se fossimo degli appestati». Poi aggiunge: «Ci sono silenzi che sono più eloquenti più di mille parole. Siamo al 10 aprile e noi non abbiamo rapporti di sorta con il Pd. Li abbiamo all'interno del gruppo in parlamento, facciamo a volte battaglie insieme e a volte no. Credo che abbiamo avuto sempre un comportamento leale nelle differenze note, ma il rapporto con il segretario Franceschini non c'è e non so il perché». Infine la stilettata che non chiude del tutto la porta a un eventuale ripensamento: «Si sono alleati con Di Pietro che non ha rispettato nessuna delle parole date e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Se non facessero un altro sbaglio, non sarebbe male». Così, pare, non sarà. Franceschini non commenta la rottura consensuale perché è all'estero. Ma di certo un altro mattoncino della strategia avviata con Veltroni può dirsi archiviato.
Il «correre da soli» oggi è una realtà. Di compagni di viaggio più o meno eterogenei il Pd, vista l'assenza del voto utile per le europee, non ha più bisogno. Anzi, la lista Bonino alla fine forse potrebbe perfino dare qualche noia alle due formazioni ex Arcobaleno (Sinistra e libertà e Prc-Pdci) alla ricerca disperata del quorum vitale per non scomparire anche dal parlamento europeo dopo l'estinzione in quello italiano.
La corsa solitaria è una carta che si intreccia, almeno sul piano simbolico e politico, con la partita sul referendum Segni-Guzzetta. La tensione sui quesiti referendari che, se approvati, ridurrebbero a due «partitoni» il parlamento italiano, affossò il governo Prodi e mette in fibrillazione non solo l'opposizione ma anche la maggioranza di centrodestra. La Lega, com'è noto, vede quel referendum con ostilità perché la costringerebbe a scendere a patti col Pdl.
Anche il Pd, generalmente favorevole ai quesiti, non ha ancora deciso cosa fare. Enzo Bianco, ex relatore della «bozza» di riforma elettorale nella precedente legislatura, apre all'ipotesi di votare il referendum con i ballottaggi delle amministrative del 21 giugno. Un compromesso rispetto all'«election day» integrale (6-7 giugno) chiesto da Franceschini che Berlusconi, come ha fatto intendere, potrebbe alla fine far accettare anche alla Lega. In ogni caso, su quella partita oggi poco considerata influiranno, e non poco, i risultati della soglia di sbarramento delle europee. Si saprà subito, infatti, quanto «pesa» il voto di chi protesta.

il manifesto 11.4.09
L'unico legame con la tradizione sta nel sangue
Il ritorno dei vampiri
di Isabella Mattazzi


Oggi come mai succhiare sangue sembra nutrire uno degli incubi letterari più diffusi: tra gli esempi recenti, Il vampiro di Ropraz di Jacques Chessex, pubblicato da Fazi e Un luogo incerto di Fred Vargas uscito da Einaudi
L'editoria italiana, oggi sembra essere letteralmente invasa dai vampiri. Adolescenti immortali e traslucidi, divoratori di fanciulle dal passo silenzioso, contadini serbi sepolti da trecento anni sotto un cumulo di pietre perché non possano più tornare, sono i nuovi abitatori degli incubi letterari della nostra contemporaneità. Chiunque si sia trovato ultimamente a scorrere qualche titolo in libreria, non avrà potuto fare a meno di notare la presenza di un corpus così imponente e articolato da fare quasi genere a sé. E non soltanto con romanzi come I fratelli del vampiro, Il sangue nero, La condanna del vampiro o Vampirius, prodotti sparsi di quel sottobosco culturale che da sempre ha animato le sale d'aspetto dei treni e i viaggi in metropolitana nelle grandi città, ma anche con testi di un certo spessore come Il vampiro di Ropraz di Jacques Chessex (traduzione di Maurizio Ferrara, postfazione di Daria Galateria, Fazi, 2009, pp. 91, euro 14), o Un luogo incerto di Fred Vargas appena pubblicato da Einaudi con la bella traduzione di Margherita Botto (pp. 392, euro 18,50).
Se Newton Compton o Fazi devolvono già da qualche anno una parte del proprio catalogo al vampirismo, la leggenda di Twilight, nata dalla penna miliardaria di Stephenie Meyer, negli ultimi mesi ha letteralmente polverizzato al cinema, per incassi e numero di liceali emozionatissimi in sala, la saga forse adesso un po' stanca e imbolsita di Harry Potter e dei suoi sequel. Oggi come non mai, succhiare sangue sembra essere una delle pratiche più amate tra tutti gli incubi e le ossessioni letterarie con cui possiamo scegliere di rovinarci l'esistenza.
In comune un dato simbolico
Ma chi sono questi nuovi vampiri? Che cosa hanno fatto per imporsi in pochi anni come vero e proprio mainstream della narrativa fantastica contemporanea? Una cosa è certa, nulla di tutto quello che facevano i loro predecessori vittoriani e decadenti. Niente come la sessualità ambigua di Carmilla (sogno proibito di intere generazioni tra Otto e Novecento) sembra essere più lontano dal codice sentimentale dei pallidi sedicenni di Stephenie Meyer. Nessuna traccia di castelli in rovina tra le case del povero villaggio di Ropraz nella Svizzera francese. Nessun dandismo alla Polidori (alla Byron) per i masticatori sepolti della Vargas. Nessuna somiglianza, dunque. Nessuna parentela con una tradizione tematica tra le più ingombranti che la letteratura moderna abbia mai conosciuto. Completamente abbandonato ogni orpello neogotico, senza più sudari di seta, bare foderate, candelabri e pipistrelli, i vampiri di oggi, i «nostri» vampiri, sembrano mantenere come unico legame con il proprio passato un solo dato simbolico, il sangue. Come se la spoliazione di ogni particolare superfluo avesse reso ancora più evidente il nucleo centrale, quel grumo primordiale di bisogni e paure senza nome attorno al quale l'uomo costruisce le figure simboliche del proprio immaginario, il tema del sangue sembra essere infatti il solo tratto ancora irrinunciabile oggi per fare di un mostro un vampiro. Quell'unico elemento invariabile, rimasto praticamente intatto attraverso tre secoli letterari di creature senz'ombra e senza riflesso. Il nodo della questione insomma, probabilmente il più radicato, certamente il più antico della storia del vampirismo.
Ben più dei supereroi dalla pelle perfetta di Twilight, o dell'antico scandalo dello stupratore di cadaveri del 1903 di cui parla Chessex, le indagini del commissario Adamsberg nell'ultimo libro di Fred Vargas ci portano direttamente al cuore del problema. Resti organici sparpagliati su un pavimento come semi in un campo. Un uomo massacrato a colpi di martello e di sega elettrica senza che apparentemente nessun motivo giustifichi la furia gelida di un lavoro di ore e ore su un essere umano ormai irriconoscibile. Un commissario dall'aria distratta, incaricato di seguire la vicenda senza che l'orrore di quei «brandelli di carne abbandonati come scarti sul banco di una macelleria» riesca a paralizzarne i pensieri e l'intelligenza analitica. Ha inizio così, con un cadavere senza più piedi e senza più denti, con un morto simbolicamente non più in grado di camminare o di mangiare, il lungo viaggio di Un luogo incerto tra le radici storiche, direttamente alle fonti del mito del vampiro. Che cosa può avere spinto infatti un assassino a intestardirsi in quel modo sulla sua vittima se non la paura disperata di un suo ritorno in vita? Come spiegare altrimenti quell'accanimento sulle articolazioni delle caviglie, sulle dita dei piedi, sui denti, estratti uno a uno e ridotti in schegge con la precisione paziente di un intagliatore di diamanti?
Il giornalista Paul Vaudel è stato ucciso come si uccideva un tempo un vampiro. Il suo fegato e il suo cuore distrutti come secoli prima si bruciavano i luoghi del corpo in cui risiedevano l'anima e la vita. I tendini delle sue gambe spappolati come, nelle campagne, era uso legare le gambe o tagliare la testa e incastrarla tra i piedi perché il morto, una volta sveglio, non potesse più riconoscere la strada di casa.
Il vampiro come fenomeno «moderno» nasce a fine Seicento ai confini orientali dell'impero austro-ungarico. La Valacchia, la Moravia, la Serbia sono i nuclei, poverissimi e contadini, della nascita e dello sviluppo del vampirismo. Nulla a che vedere con le atmosfere aristocratiche a cui l'Ottocento decadente ci ha abituati. Le prime epidemie storicamente documentate di questo fenomeno appartengono piuttosto al dominio angusto della lotta per la sopravvivenza, alla paura ancestrale che i morti possano tornare per sottrarre ai vivi (come i lupi, gli orsi, le volpi) la loro parte di cibo. Più che raffinati seduttori o magnetici geni del male, i vampiri sei-settecenteschi sono infatti innanzitutto dei formidabili masticatori. La loro passione smisurata per il sangue, per la carne e le viscere di uomini e animali affonda direttamente le proprie radici nelle ansie di conservazione e gestione delle risorse primarie delle società contadine nell'Est europeo.
In un contesto in cui il cibo è scarso, la più grande angoscia immaginabile è quella di doverlo dividere ulteriormente. E il morto-in-vita, figura liminare, sovvertitore per sua stessa natura di ogni ordine costituito, sembra essere la rappresentazione immediata e sconvolgente di un'inaspettata rottura della catena alimentare; chi è morto infatti non può più tornare indietro, ma soprattutto chi è morto non può e non deve dividere il cibo con i vivi.
Qualche illustre precedente
Sono numerosi i trattati dell'epoca che raccontano come di notte, nei casolari accanto ai cimiteri, uomini e donne venissero svegliati da rumori sordi, grugniti, schiocchi secchi e insistenti. Una volta individuate e aperte le tombe, cadaveri dal colorito vermiglio, per nulla toccati e offesi dalle mani impietose della decomposizione, si offrivano immobili allo sguardo degli spettatori con gli occhi sgranati e i brandelli del sudario ancora stretti tra le gengive contratte, a immagine perturbante e bestiale di un desiderio incontenibile di fame e distruzione. Nelle Lettres juives del 1738, Jean-Baptiste Boyer, marchese d'Argens scrive come in Serbia, nel villaggio di Kiseljevo, un morto seppellito da tre giorni avesse bussato alla porta del figlio chiedendo di potersi mettere a tavola insieme a lui e, non avendo ricevuto risposta, ne avesse causato la morte improvvisa. Augustin Dom Calmet racconta nel 1751 di un contadino tornato indietro dal mondo dei morti per chiedere alla moglie le scarpe, senza le quali probabilmente non sarebbe potuto comodamente andare alla ricerca delle sue vittime.
Charles Ferdinand de Schertz, vescovo di Olmutz e di Osnabruch riporta come nelle notti di luna intorno al suo villaggio si sentissero le mucche gemere per il terrore e il dolore di morsi ben più pericolosi di quelli di un lupo. Nel giro di una manciata di anni la paura dei vampiri (la paura della loro fame) diventa così radicata nella popolazione da costringere più volte Maria Teresa d'Austria a inviare il proprio medico personale per assistere a riesumazioni e conseguenti decapitazioni di cadaveri. Corpi di donne, uomini, vecchi, fanciulle vengono trovati, per tutto il Settecento, sdraiati nelle loro bare «come appena addormentati», rossi di gote e rigonfi di sangue fresco, un sangue talmente giovane e forte da uscire a fiotti, non appena incisa la pelle, fino a inondare letteralmente il terreno, riversandosi nelle tombe circostanti. La paura dei contadini di non riuscire a difendere i cavalli, le galline, i propri stessi bambini e le donne dall'appetito terribile dei parenti, da coloro che fino a un giorno prima erano stati amici, padri, amanti sembra creare negli anni una serie infinita di rituali di protezione e di contenimento; impastare il sangue sgorgato dal cadavere di un revenant con della farina e farne del pane da mangiare tutti i giorni, seppellire i propri morti con un'ostia o un sasso in bocca, mangiare la terra dove riposa il vampiro, e infine, come extrema ratio devastare il suo corpo, tagliarne le mani perché non possa più afferrare, legarne i piedi perché non possa più fare ritorno, strapparne i denti perché non possa più divorare.
Il monito di un antico legame
In seguito, di tutte queste morti povere, di tutti questi cadaveri eternamente affamati, divoratori di maiali e di familiari si perderà lentamente la memoria. Al tema antico della sopravvivenza, alla paura niente affatto metaforica del cannibalismo, tra Otto e Novecento, si aggiungeranno altri terrori, altri fantasmi nati da ben altri problemi che la difficoltà di sostentamento di qualche contadino ungherese. Il sangue, da elemento «reale» (sangue degli animali nelle stalle, sangue degli uomini nelle case) si trasformerà sempre più in un veicolo simbolico, mescolandosi alla sessualità, al desiderio, al timore del tutto borghese della perdita di identità.
Che l'immagine del vampiro e il suo continuo bisogno di sangue possano in qualche modo essere riflesso delle condizioni socio-economiche dell'epoca che ne alimenta la leggenda, non è cosa passata del tutto inosservata. Franco Moretti in un saggio degli anni ottanta sul Dracula di Bram Stoker ne aveva intuito il legame, mettendo in diretto rapporto la produzione letteraria orrorifica di matrice vittoriana e il capitalismo. Flusso di sangue e flusso di denaro. Dracula, vampiro solitario e dispotico, e capitale monopolistico incline a distruggere ogni forma di indipendenza economica. Ma perché le morti contadine di Kiseljevo tornassero, perché il vampirismo riacquistasse il suo significato ancestrale di lotta senza quartiere per la sopravvivenza, occorrevano i nostri giorni e l'assassinio efferato del giornalista Pierre Vaudel. Vampiro figlio di vampiri, discendente di quel Peter Blagojevic, seppellito in un «luogo incerto» della Serbia dell'Est, Pierre Vaudel sembra infatti andare direttamente al cuore di quell'ossessione senza nome, di quel contenuto inconscio impossibile a dirsi se non appunto attraverso il filtro di un modello formale in grado di esprimerne e insieme di occultarne il portato perturbante: il terrore che il cibo finisca. Creatura postmoderna, devastatore di corpi e a sua volta corpo devastato, in un'epoca in cui alla povertà contadina si sono sovrapposte altre povertà, Pierre Vaudel è il monito di un antico legame tra paura e immagini.
Le sue ossa fatte a pezzi stanno lì a dirci che le modalità di rappresentazione della fame sono sempre le stesse. I suoi denti frantumati e dispersi raccontano che la macchina immaginativa dell'uomo funziona sempre con gli stessi ingranaggi. «Adamsberg risalì lentamente il boulevard, immaginando i germogli di Kiseljevo che marcivano intorno alla tomba.
Dove ricresceranno, Peter ?».

il manifesto 11.4.09
L'editoria malgrado la crisi
di Francesca Borrelli


IL MERCATO DEL LIBRO PASSA PER QUESTE PORTE Alcuni tra i responsabili della editoria maggiore parlano degli effetti razionalizzanti della attuale congiuntura economica. La messa in scena delle aste selvagge, con cifre a sei zeri e tempi di scelta dei titoli ridotti a poche ore, è finita. All'altro capo della filiera, però, si accentua la tendenza delle librerie a fare ruotare l'esposizione dei libri a una velocità proibitiva, danneggiando sia i piccoli editori che i lettori
Nel mondo dell'Ancien Régime successe all'editoria qualcosa di simile a quel che oggi accade nel sistema immobiliare: la prima crisi libraria, a Rivoluzione appena scoppiata, coincise in fondo con una crisi finanziaria, perché la maggior parte degli affari era condotta a credito e una parte notevole delle entrate di una impresa poteva essere costituita da cambiali commerciali, effetti all'ordine e lettere di cambio. Lo spiega Frédéric Barbier nella sua Storia del libro. Dall'antichità al XX secolo (Dedalo 2004), commentando il pericolo che era a quel tempo all'ordine del giorno. «Ebbene, non soltanto questi effetti circolano con firme di credito sulle quali non è sempre possibile avere informazioni precise, ma il fallimento di un attore abbastanza importante può far vacillare, con una reazione a catena, tutto l'equilibrio finanziario della catena.»
Sono passati più di due secoli e le minacce che oggi affliggono il mondo dell'editoria sembrano essere di tutt'altra natura. Certo è che tra i due estremi del book on demand, ossia il libro in una sola copia stampata su ordinazione e il mercato dei bestseller, ovvero i libri che superano le 30.000 copie vendute, l'industria editoriale ha conosciuto cambiamenti più forti negli ultimi quindici anni di quelli avvenuti lungo tutto il corso del XX secolo.
Radiografia del dopo Schiffrin
La fotografia della situazione al tempo stesso più avvincente, e più puntuale ce la restituì, alcuni anni fa André Schiffrin in due suoi pregevoli libri - Editoria senza editori, 2000 e Il controllo della parola, 2006 (entrambi di Bollati Boringhieri) quando si propose di seguire la parabola del libro e il suo rapido passaggio da prodotto di una attività di carattere artigianale a concentrato di profitti perseguiti da marchi editoriali via via assorbiti dai grandi gruppi internazionali. Le conseguenze più evidenti che Schiffrin denunciava erano la rinuncia a un progetto culturale, le scorciatoie nella acquisizione del prestigio realizzate saccheggiando i cataloghi altrui, l'accaparramento di autori della concorrenza a suon di anticipi, e soprattutto la rincorsa a margini di profitto tradizionalmente estranei al mondo dell'editoria: se una volta si limitavano al 4 per cento, oggi si pretendono tra il 12 e il 15 per cento. «Contrariamente a ciò che ci si vorrebbe far credere, il controllo dei media e del nostro modo di pensare da parte dei grandi gruppi non è una ineluttabile fatalità legata alla globalizzazione, bensì un processo politico al quale ci si può opporre, e con successo»: così André Schiffrin concludeva, circa quattro anni fa, il suo ultimo pamphlet.
Sul fronte dell'editoria, la battaglia è da tempo ingaggiata: ne sono protagoniste le più valide tra le piccole case editrici indipendenti (alle quali dedicheremo la prossima puntata di questa inchiesta, il 12 aprile) che cercano di competere come possono e di ritagliarsi uno spazio di visibilità, mentre non solo le grandi concentrazioni incalzano, ma monta la minaccia del ricorso alla stampa digitale, che oggi è in grado di sfornare all'incirca mille pagine al minuto. Confrontata con la sofferenza del mondo imprenditoriale, la crisi patita dalla editoria maggiore in coincidenza con la attuale recessione viene dichiarata come inesistente: i bilanci dell'anno passato saranno resi noti più o meno in coincidenza con la Fiera del libro di Torino, nel frattempo l'amministratore delegato della Mondadori, Gian Arturo Ferrari, si fa negare e declina l'invito a parlare anche il direttore editoriale della Einaudi, Ernesto Franco, probabilmente convinti - non senza ragioni - che i giornali abbiano una vocazione allarmista alla quale è opportuno non fornire esche. Eppure, la situazione complessiva è tutt'altro che tragica: lo conferma Stefano Mauri, presidente e amministratore delegato della GeMs (Gruppo Mauri Spagnol), che pubblica all'incirca 900 novità all'anno (di cui 400 sono riedizioni e delle 500 opere mai apparse sul mercato italiano all'incirca 150 sono di nuovi autori).
«Nel settembre scorso la crisi nera dei mercati ha indotto a contenere le prenotazioni delle novità in libreria, eppure io guardavo il sell out su Nielsen e anche nelle settimane di calo più insistente della Borsa constatavo che le vendite delle librerie non diminuivano. Poi siamo andati alla Buchmesse di Francoforte, una fiera importante non tanto per l'acquisto dei diritti, che si fa tutto l'anno via Internet, ma per tastare il polso della produzione mondiale, e l'impressione che la crisi finanziaria non si riflettesse sul mercato dei libri è stata confermata. Certo, non circolano più gli anticipi irrazionali che hanno girato fino all'anno passato, con esordienti costati più di centomila euro: la crisi ha imposto una razionalizzazione dei costi, i librai sono più cauti nel prenotare le novità, e gli agenti tengono da parte i loro goielli, perché sanno che gli editori sono meno propensi a spendere. Dunque, tutto assume un carattere di incertezza maggiore, ma poiché noi editori lavoriamo sul medio periodo, il nostro futuro dipenderà da quel che abbiamo fatto negli anni passati, ossia - per esempio - da quella che è stata la nostra capacità di coltivare gli autori a cui teniamo».
La prudenza innanzi tutto
Dall'osservatorio di Stefano Mauri, che è tra quelli con una presa diretta sul ventaglio dell'editoria più a ampio raggio, si sono avvertiti spostamenti di gusto negli ultimi anni? «Mi sembra che dopo l'11 settembre si sia sviluppato un po' di più l'interesse per la saggistica: viviamo in una contingenza storica connotata da violenti scossoni e repentini cambiamenti, di conseguenza i lettori sono più attenti a capire cosa sta succedendo in questo mondo globalizzato; d'altra parte, nel campo della narrativa abbiamo assistito, più o meno a partire dal 2000, a una maggior fiducia del pubblico nella nuova generazione degli autori italiani, che per parte loro sono più attenti alla dimensione dell'entertainment di quanto non lo fossero i loro padri.»
È un argomento, questo, del tutto estraneo alla Bollati Boringhieri, che l'anno passato ha fatto 112 novità e 132 ristampe, e per l'anno in corso si prepara a ridimensionare il numero dei titoli passando a 85 novità e 90 ristampe, restando fedele alla promozione del libro destinato a durare nel tempo. Soprattutto le collane scientifiche possono contare su lettori appassionati, dunque - dice Alberto Conte, membro del comitato scientifico e del consiglio di amministrazione della Bollati Boringhieri - tanto meglio se questa congiuntura porterà a eliminare qualche scoria. Quest'anno, nelle collane scientifiche faremo poche novità in meno e qualche riproposta in più dal catalogo, ma soprattutto per ragioni di contenuti, per esempio perché il succedersi dell'anniversario di Darwin e poi di Galilei ci ha consentito di riproporre qualche nostro classico.» Certo, poiché la sua strategia non è quella di inseguire il bestseller, anche per quanto riguarda gli anticipi la casa editrice torinese si è sempre comportata in modo molto parsimonioso, e dunque non è questo il capitolo al quale guardare per un eventuale contenimento dei costi: «mentre altri editori non esitano a pagare fino a venti, trentamila dollari anche per libri scientifici, noi non abbiamo mai proposto anticipi che andassero oltre i due-tremila dollari; e cerchiamo sempre di più di contenere i prezzi dei titoli.»
Diversamente morigerati, ma tradizionalmente restii a gettarsi nelle aste a sei zeri, anche gli editor della Feltrinelli confermano la loro politica «conservatrice». Fabio Muzi Falconi, responsabile della narrativa straniera ricorda, con l'orgoglio di chi riesce a fare bene con poco, che «da sempre siamo stati quelli che davano gli anticipi più bassi, fatte salve le eccezioni: per esempio per una autrice come Isabel Allende, i cui diritti vengono trattati direttamente da Carlo Feltrinelli, siamo nell'ordine delle centinaia di migliaia di euro, però bisogna considerare che ne vendiamo davvero tante copie. In genere, la nostra è una politica piuttosto realista, nella peggiore delle ipotesi ogni nostro libro, almeno per quel che riguarda la narrativa straniera, deve andare in pareggio. Quest'anno taglieremo forse due o tre titoli, quelli che si vendono meno, ma non intendiamo penalizzare libri di qualità, infatti - per esempio - continueremo a pubblicare un autore difficile come Lobo Antunes, sebbene ne vendiamo pochissime copie.»
Anche per Muzi Falconi la crisi si presenta, dunque, più come una occasione razionalizzante che come una difficoltà: «pubblichiamo tra le cento e le centoventi novità l'anno, cinquanta tra narrativa italiana e straniera, il resto di saggistica e tra giugno e settembre cambieremo distribuzione passando alla pde, dunque salteremo due o tre lanci estivi, ma per motivi che, appunto, nulla hanno che vedere con la crisi.» La storica cautela della Feltrinelli viene confermata anche dal responsabile della narrativa italiana, Alberto Rollo: «è tempo di stare con i piedi per terra e l'immaginazione viva. Abbiamo la necessità di meditare meglio e al tempo stesso di privilegiare la continuità, coltivando i nostri autori di bandiera, e cercando voci più giovani. Siamo incoraggiati dal fatto che sta tornando, anche presso gli esordienti italiani, l'attenzione alla trama, in passato spesso proiettata sullo sfondo a vantaggio della tessitura linguistica, dello stile: ci si è affrancati da quel leit motiv avanguardista per cui noi italiani non saremmo portati per il romanzo.»
La storia, anche nel campo dell'editoria, presenta i suoi ricorsi e poche sorprese: tra queste, la fortuna incontrata dal genere reportage scritto in uno stile marcatamente narrativo. È stata una delle scommesse, vincenti, di Matteo Codignola, che racconta come alla Adelphi, pur non risentendo della congiuntura critica, ci si accordi tuttavia alla pratica generale della prudenza: «facciamo 80-90 titoli tra novità e riproposte, e non ridurremmo il numero perché il tentativo di non strafare è per noi una costante: la lotta è sempre per cercare di pubblicare due libri in meno piuttosto che due in più. È vero che il genere del reportage incontra una buona risposta dei lettori ma, paradossalmente, questi che abbiamo pubblicato nella collana dei Casi sono un po' scrittori per scrittori, la gran parte del pubblico continua a essere più interessato alla narrativa.»
Quel che cambia nella filiera
E se dovesse segnalare le novità più significative degli ultimi anni nella filiera del libro Matteo Codignola a cosa penserebbe? «Da un certo punto di vista il mutamento più importante sta nel rapporto con le librerie, che si è molto complicato: la velocità, la rotazione ossessiva dei titoli, hanno trasformato le librerie in locali di passaggio dove i libri transitano con tempi molto rapidi, e con un meccanismo che penalizza fortissimamente i piccoli editori; ma anche dalla parte di chi legge si lamenta la mancanza di tempo per orientarsi. Questa, però, è una fase di passaggio, non bisogna mai dare le cose per eterne. Per esempio negli ultimi tempi, già a partire dal salone del libro di Londra dell'anno passato e di più a Francoforte abbiamo visto, grazie al cielo, lo sgonfiamento di una bolla internazionale che scimmiottava in modo un po' patetico la finanza d'assalto: parlo di tutta quella messa in scena determinata dalle aste selvagge, con tempi di scelta ridotti a ore per comprare libri presentati - ogni volta - come il caso del decennio. La situazione stava virando verso il grottesco puro, anche perché i libri non sono diamanti, né armi, né droga, è inutile far finta che muovano grandi quantità di denaro. Anche le cifre per gli anticipi e per la acquisizione dei diritti si sono sgonfiate, tutto è stato riportato, finalmente, a una vaga sensazione di realtà.»
Punti di riferimento internazionali
Dunque, almeno per quanto riguarda la grande editoria italiana, la crisi mondiale sembrerebbe piuttosto riscattarla da una certa arroganza degli agenti, che risultano alla fine dei conti i veri penalizzati in un mercato che non può più concedersi all'euforia. Anche Paolo Zaninoni, direttore editoriale della Rizzoli e della Bur, dice che «almeno fino alla fine di febbraio il mercato librario non ha dato segni di cedimento; ma non è detto che debba restare così per tutto il 2009, perciò navighiamo a vista. Tra Rizzoli e Bur facciamo circa 500 novità l'anno, più o meno il 30 per cento sono manuali, libri illustrati, arte e varia, il 10 per cento sono libri per ragazzi e il restante 60 è diviso in maniere paritetica tra fiction e saggistica. Quest'anno abbiamo solo un po' modificato il rapporto tra novità rilegate e tascabili, ma dipende dal fatto che ricorre il sessantesimo anniversario della Bur.» Anche Zaninoni è d'accordo sul fatto che gli autori italiani si sono guadagnati una maggior fiducia negli ultimi anni? «Sì, e una delle ragioni principali credo stia nel distacco da un certo condizionamento della nostra tradizione letteraria, e nel fatto che i punti di riferimento sono diventati più internazionali.»
«C'è una koiné narrativa globalizzata che attinge a fonti esterne ai nostri confini. Inoltre, si è formata una lingua media priva delle scollature tra alto e basso che hanno caratterizzato gli anni passati.» Ma forse è vero che se si vuole andare a cercare quali siano i cambiamenti più recenti nella industria del libro, gli aspetti ai quali bisogna guardare sono soprattutto «i canali di distribuzione e di vendita »: ne è convinta Elisabetta Sgarbi, direttore editoriale della Bompiani, per la quale «la figura del libraio che suggerisce il titolo di cui si innamora, al di là della pressione commerciale dell'editore, rischia di essere un romantico ricordo. E qualche libro, anche qualche bel libro, ne soffre. Però, il lettore forte, oggi come ieri, va a cercare le sue letture ovunque con estrema attenzione, per esempio sul web, dove ci si scambiano segnalazioni, critiche e consigli.»
Anche per Elisabetta Sgarbi, in fondo, la crisi agisce come motore di razionalizzazione: «in un clima di sfiducia nel mercato si chiede attenzione ai ricavi effettivi e il ridimensionamento delle uscite è una strada inevitabile, sebbene la Bompiani non abbia mai forzato il numero dei titoli e abbia sempre misurato il numero delle novità sull'intento di lavorare al meglio i libri pubblicati.» Anche voi avete investito di più sugli autori italiani? La Bompiani ha una tradizione di narrativa straniera che continua a essere ostinatamente coltivata, e a buon diritto; ma è anche vero che l'attenzione prestata agli autori italiani è andata crescendo negli ultimi anni, e lo si deve proprio al fatto che la nostra narrativa ha attinto nuove forze dal cuore stesso della società, che sta cambiando a ritmi vertiginosi. Molti scrittori lamentavano di non aver quasi più nulla da dire, e ora si sono come risvegliati, scoprendo un mondo imprevisto e imprevedibile che aspettava di essere raccontato.»

Liberazione 10.4.09
"Stalin. Storia e critica di una leggenda nera" di Domenico Losurdo. La biografia del dittatore tra scelte violente e politiche realiste
Il socialismo alla prova del gulag. Tanti drammi per un simile risultato?
di Guido Liguori


Stalin mostro sanguinario o politico realista costretto dalla storia a scelte obbligate? Nel suo ultimo libro (Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, con un saggio di Luciano Canfora, Carocci, pp. 382, euro 29,50) Domenico Losurdo opta per la seconda risposta. E' una tesi controcorrente e già per questo il libro è da leggere: opponendosi al "senso comune" prevalente fa pensare e induce a problematizzare ipotesi storiografiche che si danno ormai per acquisite.
Quale è l'idea di fondo di Losurdo? Le tesi interpretative del fenomeno staliniano che più hanno inciso - Trockij, Chruscev, Hannah Arendt - sono state determinate dalla lotta politica interna al campo comunista o dalla Guerra fredda. Da qui un «ritratto caricaturale» di Stalin che sottovaluta radicalmente il contesto concreto del suo operare. In questo contesto l'autore fa rientrare non solo la "lunga durata" della storia russa (i conflitti medioevali nelle campagne, l'odio per gli ebrei, il banditismo nato dalle carestie), non solo lo "stato d'eccezione" in cui si collocò l'esperienza sovietica, ma anche i lati deboli dell'ideologia marxista, un «universalismo incapace di sussumere e rispettare il particolare», le tendenze escatologiche che volevano abolire in tempo rapidi proprietà privata, nazione, famiglia, ecc.
Lo stesso Gulag si espande con la «collettivizzazione forzata dell'agricoltura». Come si spiegherebbe la cruciale svolta del '28-'29? Dopo il trattato di Locarno, il riavvicinamento Francia-Germania, il colpo di Stato di Pilsudski in Polonia, la rottura delle relazioni commerciali e diplomatiche da parte del Regno Unito, i militari sovietici lanciarono l'allarme: il pericolo di guerra aumentava, bisognava industrializzare e garantire la fedeltà delle campagne. Dopo la «notte di san Bartolomeo» (Bucharin) contro i contadini, Stalin avrebbe cercato di tornare alla normalità, tanto che Trockij nel 1935 lo accusò di «liberalismo» e di «abbandono del "sistema consiliare"», di «ritorno alla "democrazia borghese"». In effetti Stalin - per far decollare la produzione - si batte contro il «livellamento "sinistroide" dei salari», contro l'egualitarismo, e propugna una nuova Costituzione, come si sa poi rimasta sulla carta. Di nuovo irrompe infatti l'emergenza, e il terrore: Losurdo - che parte dall'esame di una letteratura internazionale molto amplia, e "anti-stalinista" - accredita il fatto che l'opposizione trockista fosse un "pericolo" reale ancora nella prima metà anni '30.
Dopo la guerra, ancora, Stalin dichiara che la dittatura del proletariato non era l'unica via al socialismo, non era obbligatoria nei paesi dell'Est europeo. Ma poi irrompe la Guerra fredda e la sicurezza nazionale dell'Urss riprende il sopravvento.
Di contro alla "cattiva" eredità dell'"utopismo" marxista Stalin impara dunque - per l'autore - la «vacuità dell'attesa messianica del dileguare dello Stato, della nazione, della religione, del mercato, del denaro, e ha altresì direttamente sperimentato l'effetto paralizzante di una visione dell'universale incline a bollare come una contaminazione l'attenzione prestata ai bisogni e agli interessi particolari di uno Stato, di una nazione, di una famiglia, di un individuo determinato». Ma - questo il suo limite per Losurdo - la lotta contro «l'utopia astratta» si ferma più volte a metà strada, per non entrare in totale rotta di collisione con alcuni degli assunti di fondo della cultura marxista e comunista. Insomma, nei tre decenni di "stalinismo" i ripetuti tentativi fatti da Stalin di abbandonare lo stato d'eccezione per tornare a una relativa normalità sarebbero stati frustrati sia dalla situazione internazionale, sia dall'utopia astratta presente nel marxismo, alimentata dall'opposizione interna. Con questa lettura di fondo, Losurdo dedica molte pagine a demolire la "leggenda" chruscioviana legata ai successi militari dell'invasore nazista; a sottolineare l'attenzione prestata da Stalin alle diverse "nazionalità"; a lodare il "realismo" stalinista a fronte delle tendenze di sinistra che volevano il superamento dello Stato, della famiglia, del denaro.
Losurdo riconosce e condanna la svolta brutale nel sistema concentrazionario che si ha nel '37. Ma sottolinea come nel Gulag sovietico non vi fosse volontà omicida, e dunque non sia possibile l'accostamento ai lager nazista: quando muoiono a migliaia nel Gulag, durante la guerra, muoiono di stenti a migliaia anche nel resto dell'Urss.
E' difficile seguire Losurdo, con la necessaria competenza critica, in tutte le pieghe del suo discorso. Alcune delle sue tesi (la critica al concetto di «totalitarismo», il rifiuto di considerare le decisioni del vertice sovietico come irrazionali, il richiamo al contesto storico) appaiono convincenti. Ciò che non convince è un discorso troppo portato a vedere sempre nella soluzione adottata la migliore delle soluzioni possibili e a sottovalutarne l'effetto disastroso sulla politica dell'egemonia (vedi la rottura dell'alleanza leninista operai-contadini) e nella costruzione stessa di una idea espansiva di socialismo. Si prenda ad esempio il Gulag: può uno Stato che si vuole socialista creare un sistema concentrazionario così vasto, in cui (anche se non sempre e ovunque) vi furono condizioni di vita - secondo le parole dello stesso Vysinskij, che Losurdo riporta - che ridussero «gli uomini "a bestie selvatiche"»? Non è già questo fatto una macchia indelebile per uno Stato che si voglia socialista? Non consola sapere che peggio fece - per fare un esempio - il Regno Unito con gli irlandesi o con i deportati in Australia: ciò che ci si aspetta da un sistema che fa dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo la sua legge non è giustificabile per uno Stato che nasce per combattere tale sfruttamento e tutto ciò che di "bestiale" vi è nell'umanità. E ancora: la situazione oggettiva aveva indotto a irrigidire l'organizzazione del lavoro, a rinunciare a un nuovo modo di intendere i rapporti tra i sessi, al superamento graduale dei limiti nazionali. Ma a questo punto non viene da chiedersi: valeva la pena di fare una rivoluzione? A cosa è servita? Credo di conoscere la risposta di Losurdo: enorme è stato comunque il sussulto di liberazione, milioni di persone si sono così liberate dal Medio Evo e dal colonialismo, in tutto il mondo. E' vero, e dunque viva la Rivoluzione russa! Ma sembra giusto anche concordare con quanto ha scritto Giuseppe Prestipino sull'ultimo numero di Critica marxista (2009/1): seguendo Losurdo arriviamo alla conclusione che nel '900 il socialismo era impossibile.
Resta la domanda se le scelte fatte nel corso del primo e fallimentare tentativo di costruzione del socialismo abbiano costruito almeno le basi per ritentare l'esperimento nel nuovo secolo o siano oggi un ostacolo in più per chi ci voglia riprovare. Da questo punto di vista lo storicismo giustificatorio di Losurdo - pur avendo alcune ragioni - sottovaluta la possibilità stessa di una alternativa rispetto all'effettivo svolgimento storico: un politico realista può anche diventare un mostro sanguinario, uccidendo così di fatto, ugualmente, la creatura che "con realismo" si propone di proteggere. E se ogni volontà di cambiare anche la qualità della vita quotidiana, i rapporti tra i generi e tra gli esseri umani, le gerarchie e l'alienazione dentro e fuori la fabbrica viene bollata come «utopismo escatologico e anarcoide», non si troveranno facilmente le forze, le volontà, le soggettività per riprendere il cammino.

Liberazione 10.4.09
Si vuole riabilitare Stalin? Non ci stiamo


Ci ha molto amareggiato leggere ieri sulle pagine di "Liberazione" la recensione a un volume che definisce fin dal titolo come "leggenda nera" gran parte della storiografia esistente sulla vicenda storica e politica di Stalin. Recensione che si apre con l'apprezzamento del carattere «controcorrente», di opposizione al «senso comune» che renderebbe il volume capace di far «pensare». Recensione, poi, che quando passa ad assumere vesti "critiche" nei confronti del testo trattato, lo fa nella forma di "dubbi" del tenore seguente: «Può uno Stato che si vuole socialista creare un sistema concentrazionario tanto vasto...?». Come a dire d'un problema quantitativo, piuttosto che di sistema.
Di fronte ai milioni di morti che il sistema dei campi staliniani, la staliniana direzione della "pianificazione socialista" e la pratica staliniana delle purghe omicide degli stessi quadri rivoluzionari hanno lasciato dietro di sé, nella memoria collettiva del mondo intero e della cultura di sinistra in particolare, riteniamo che non ci sia nulla da aggiungere: non c'è interpretazione storica che tenga, piccoli o grandi tentativi revisionisti o negazionisti non possono riguardare la figura di un dittatore feroce e brutale. Oppure, viene da chiedersi, a quando una pagina intera di pubblicità gratuita, sotto veste di recensione "equilibrata", a testi di "rilettura", magari, delle gesta di Ceausescu o di Pol Pot?
Insomma: possiamo serenamente considerare chiuso il confronto su queste tragedie o dobbiamo davvero subirne "revisioni" addirittura apologetiche?
Se questo è ancora considerato da qualcuno come "il campo" della sinistra, o "dei comunisti", ci spiace: non ci stiamo. Queste vicende terrificanti e chi se ne è fatto interprete e animatore nel corso della Storia non possono appartenere, neppure in modo critico e "ragionato" ad alcuna ipotesi di liberazione. Non solo, riteniamo che pubblicare interventi che hanno al proprio centro ipotesi del genere, esplicite o inconscie - su questo come su altri temi -, che considerino come parte del confronto di idee tesi negazioniste (l'esistenza del negazionismo sull'Olocausto non esime certo dal giudicare quello sui crimini staliniani, proprio i "dibattiti" di Losurdo dovrebbero suggerirlo...) rappresenti un salto all'indietro. Specie per un giornale che aveva cercato fin qui di aprire spazi e di liberare energie, preferendo interrogarsi di continuo piuttosto che cercare rifugio nell'eterna riconferma di un'identità interpellata da una storia fatta anche, come indica proprio il caso di Stalin, di mostri e orrori.
Checchino Antonini, Angela Azzaro, Anubi D'Avossa Lussurgiu, Stefano Bocconetti, Guido Caldiron, Paolo Carotenuto, Simonetta Cossu, Carla Cotti, Sabrina Deligia, Laura Eduati, Roberto Farneti, Antonella Marrone, Martino Mazzonis, Andrea Milluzzi, Frida Nacinovich, Angela Nocioni, Paolo Persichetti, Paola Pittei, Sandro Podda, Stefania Podda