martedì 14 aprile 2009

Repubblica 14.4.09
Obama può archiviare la guerra Islam-Occidente?
di Tzvetan Todorov


Lo storico discorso del presidente degli Stati Uniti ad Ankara ha aperto una nuova stagione di dialogo con il mondo musulmano È il tramonto forse definitivo della dottrina Bush

Quando si dialoga, non ci si insulta. Il che vale per noi occidentali ma vale anche per il mondo musulmano, dove spesso trionfa un´immagine caricaturale dell´occidente

L´idea dello scontro di civiltà non solo non ha descritto fedelmente la realtà del mondo contemporaneo, ma ha agito anche come una sorta d´imperativo che ha spinto i governi al conflitto con le altre civiltà. Barack Obama ha voluto rompere con questa lettura del mondo, affermando che non c´è spazio per una nuova guerra santa contro l´islam. Per lui, la Turchia non è solo il luogo dove le culture si scontrano, ma è il luogo dove s´incontrano producendo una nuova sintesi. Le sue posizioni mi sembrano molto più vicine alla realtà di quanto non lo siano i fantasmi evocati da Samuel Huntington. Inoltre, sembrano indicare la volontà di un approccio ai problemi internazionali molto più complesso e aperto, anche se certo ci vorrà del tempo per passare dalle intenzioni agli atti concreti. Non a caso, per ora non tutte le sue scelte sembrano essere in accordo con questa volontà d´apertura. Faccio due esempi di "scelte" del presidente americano su cui mi sembra sia necessario riflettere. Il primo è veniale, e riguarda il discorso di Ankara, dove, dopo aver difeso il multilateralismo e il diritto di ogni paese di decidere da solo del proprio destino, Obama ha invitato con forza l´Europa ad ammettere la Turchia nella comunità europea. Mi sembra un invito fuori luogo e non in linea con un´ottica multilaterale. Detto in poche parole: non sono gli Stati Uniti che devono dire all´Europa ciò che deve fare.
L´altro esempio è più importante e riguarda l´intervento in Afganistan. Qui per ora non c´è alcuna rottura rispetto al passato. La politica è la stessa di George W. Bush, il quale pensava di combattere i terroristi islamici controllando militarmente il paese. Personalmente, non credo che questa politica sia efficace. Credo invece che sia una logica figlia della paura. E di fronte a un pericolo, una reazione sproporzionata può a sua volta diventare un pericolo. La paura dei barbari può generare la barbarie. Lo abbiamo visto proprio negli Stati Uniti, una democrazia esemplare, dove però è stata legalizzata la tortura.
Gli attentati dei terroristi islamici negli Stati Uniti e in Europa sono gravissimi, ma non si può parlare di guerra di civiltà. È una formula troppo semplicistica e manichea che pretende di dare un nome al male, illudendosi di batterlo militarmente. È troppo facile dire che il male sono gli altri.
Tornando al discorso di Barack Obama ad Ankara, scorgo un´altra debolezza, quando accorda un´importanza eccessiva al carattere musulmano dei paesi musulmani. Per sfuggire alla logica della guerra di civiltà, il presidente Usa vuole valorizzare l´islam, sottolineandone gli aspetti positivi e i contributi alla storia della civiltà. Il che va benissimo, perché non è possibile appiattire l´immagine dell´islam su quella dei terroristi islamici, come non sarebbe possibile appiattire l´immagine del cristianesimo sull´inquisizione. Secondo me, però la varietà del mondo non è mai riducibile a un´unica dimensione.
Sia l´islam che l´occidente sono realtà complesse e multiformi, che non possono essere irrigidite nella sola identità religiosa. Nessun individuo è dominato interamente da una sola delle sue caratteristiche. La popolazione dei paesi a maggioranza musulmana, come per altro le altre popolazioni del mondo, non agiscono esclusivamente in funzione della religione. Le loro azioni sono determinate dall´insieme delle caratteristiche sociali e culturali che costituiscono la loro identità. E spesso queste contano molto di più della componente religiosa, la quale poi interviene a dare una forma alle loro rivendicazioni. Per quanto riguarda poi i punti di contatto, sul piano culturale, tra l´islam e l´occidente, questo è un problema di cui devono occuparsi gli storici. Tuttavia, aldilà del lavoro scientifico, la miglior cosa da fare è facilitare gli scambi culturali tra i due mondi per favorire la conoscenza reciproca. Occorre incoraggiare le traduzioni, gli incontri, i dibattiti, i viaggi e ogni altra occasione di scambio. Quando si dialoga, non ci si insulta. Il che vale per noi occidentali, ma vale anche per il mondo musulmano, dove molte spesso trionfa un´immagine schematica e caricaturale dell´occidente.
L´universalità della civiltà ha bisogno della pluralità delle culture. La civiltà, infatti, consiste proprio nella capacità di riconoscere che anche chi non ci assomiglia, per cultura o costumi, appartiene pienamente alla nostra stessa umanità. Senza pluralità di culture non c´è progresso della civiltà. La storia dell´Europa lo dimostra. L´identità europea risiede nella sua capacità di gestire la pluralità. Da questo punto di vista, mi sembra perfettamente in grado di gestire anche l´identità musulmana, la quale per altro è già da secoli in contatto con la cultura europea. Certo, localmente possono anche sorgere dei conflitti, a volte anche violenti, di fronte ai quali occorre sempre intervenire con il rigore della legge. In un paese possono esserci diverse culture, ma deve essereci una sola legge. Le differenze culturali non possono mai essere una scusa per sottrarsi alla legge che garantisce tutti.
(testo raccolto da Fabio Gambaro)

Corriere della Sera 14.4.09
Disgelo. L’incontro di sette deputati Usa con i fratelli Castro ha aperto la strada al dialogo, 50 anni dopo il viaggio di Fidel negli Stati Uniti
L’America di Obama si avvicina a Cuba


Via le restrizioni sui viaggi nell’isola e i trasferimenti di denaro. Ma l’embargo resta
Comunicazioni tv più facili tra i due Paesi. La Casa Bianca ora si aspetta un’apertura di Raúl sui prigionieri politici

WASHINGTON — A quat­tro giorni dal vertice delle Americhe a Trinidad, il presi­dente Barack Obama s’è aperto a Cuba revocando al­cune delle restrizioni impo­ste da Bush figlio: i cuba­no- americani potranno libe­ramente visitare l’isola e assi­stere finanziariamente i fa­miliari là residenti, e saran­no anche permesse comuni­cazioni tv e di altro tipo tra i due Paesi.
Obama ha lasciato intatto l’embargo commerciale con­tro Cuba in vigore da 47 an­ni, ma la Casa Bianca non ha nascosto la speranza che «con una minore dipenden­za dal regime e una maggio­re autonomia economica», come ha detto un portavoce, Cuba si avvii alla democra­zia liberando i detenuti poli­tici e cessando le violazioni dei diritti umani. Con queste misure Obama ha mantenu­to l’impegno assunto duran­te le elezioni di cercare il dia­logo con L’Avana.
Il presidente ha giocato d’anticipo nei confronti del leader venezuelano Hugo Chávez, che venerdì si era re­cato da Fidel e Raúl Castro a L’Avana, e che al summit a Trinidad dal 17 al 19 prossi­mi proporrà il rientro di Cu­ba nella Organizzazione de­gli Stati americani (Osa) da cui venne espulsa nel ’62, rientro a cui sembra favore­vole anche il leader brasilia­no Lula da Silva.
Obama intende chiedere che il regime castrista con­traccambi prima le sue misu­re, una posizione assunta al­tresì da José Insulza, il presi­dente dell’Osa: l’apertura a Cuba, caldeggiata dalla mag­gioranza democratica al Con­gresso, è anatema per i con­servatori, contrari «a parlare col nemico», si tratti dei Ca­stro o del leader iraniano Ah­madinejad.
L’iniziativa di Obama poggia su tre rappor­ti, il primo del sottosegreta­rio Tom Shannon, responsa­bile degli Affari dell’emisfe­ro occidentale, il secondo della commissione Esteri del Senato guidata da John Ker­ry, il terzo di una delegazio­ne di sette deputati, capeg­giata da Barbara Lee, che il mese scorso visitò i fratelli Castro.
Secondo i tre rapporti, Raúl e Fidel sono aperti a lo­ro volta al dialogo: entrambi avrebbero assicurato i parla­mentari americani di volere il disgelo, una svolta storica. Dalle dichiarazioni della Ca­sa Bianca Obama, che ha l’esplicito sostegno del mon­do degli affari Usa, procede­rà tuttavia con cautela, per non alienare le potenti lobby anticastriste e per non spac­care in due il Congresso.
Il cambiamento di clima avviene nel cinquantenario dell’unico viaggio di Fidel Castro negli Stati Uniti, quan­do il Líder Máximo ricevette un’accoglienza trionfale.
Nell’aprile del ’59 Fidel smentì di essere comunista e garantì l’osservanza del patto di reciproca difesa con l’America. Una luna di miele che durò solo qualche mese.

Corriere della Sera 14,.4.09
La crisi e il segretario alla difesa Usa
I tagli alle spese militari: così finisce un tabù
di Fareed Zakaria


Robert Gates prova a intaccare interessi molto potenti. Gli Stati Uniti continuano a produrre i costosi aerei F22; eppure ne hanno in dotazione già 135, e non ne utilizzano neanche uno

«Quando appare un vero ge­nio », scrisse Jonathan Swift, «lo si ri­conosce dal fatto che tutti gli sciocchi si coalizzano contro di lui». Genio è forse un appel­lativo un po' esagerato per il Segretario alla Difesa, ma il programma di spesa di Robert Gates ha certamente raccolto tutti gli oppositori giusti. Ci so­no le ditte che ricevono com­messe militari, preoccupate che decenni di contabilità fa­sulle stiano per finire; gli esperti mediatici, per i quali la guerra al terrore è stata una pacchia; le forze armate, abi­tuate a veder finanziare qualsi­asi fantasia; gli esponenti del Congresso che coprono que­sta corruzione istituzionalizza­ta solo per salvaguardare dei posti di lavoro nei loro Stati.
Se ci si chiede come giudica­re il piano di Gates, ecco una semplice guida: John McCain, il legislatore più ragionevole e portato alle riforme sulle que­stioni militari, «lo appoggia fortemente». Il senatore dell' Oklahoma, James Inhofe — che ha paragonato l'Agenzia per la Protezione dell'Ambien­te alla Gestapo, l'assistente di Obama per l'energia e il clima, Carol Browner, alle propagan­diste nipponiche in lingua in­glese «Tokyo Rose», e gli am­bientalisti al Terzo Reich — so­stiene che porterà al «disarmo dell'America». Scegliete voi.
Negli ultimi decenni il bud­get della difesa ha vissuto nel mondo dei sogni, dove si co­struiscono armi sempre più so­fisticate senza tener conto dei nemici, dei costi o delle conse­guenze. Nel 2008 il General Ac­counting Office ha detto che gli aumenti dei costi per i 95 maggiori programmi di arma­mento del Pentagono — solo gli aumenti! — ammontavano a 300 miliardi di dollari. Il si­stema si è talmente diffuso e radicato che la maggior parte della gente non si indigna ne­anche più. L'illimitato afflusso di dena­ro dei contribuenti ha impedi­to di formulare un pensiero strategico. Gran parte del bud­get del Pentagono è basato su liste di desiderata dei diversi settori militari, liste spesso na­te durante la Guerra Fredda. L'aeronautica si era talmente affezionata al suo programma di aerei da caccia F-22 da non accorgersi neanche che l'Unio­ne Sovietica era caduta e non c'era più una grande potenza rivale che potesse ingaggiare duelli aerei con l'esercito statu­nitense. Abbiamo attualmente in corso due guerre, nelle qua­li nessuno dei circa 135 F-22 che abbiamo viene usato. Se vi chiedete perché il piano di rea­lizzazione di questi aerei è an­cora in piedi, eccovi la ragio­ne: la loro costruzione coinvol­ge 44 Stati. Gates riduce anche l'elenco dei desiderata della Marina, tagliando il suo pro­gramma di nuovi cacciatorpe­dinieri. Ma a questo punto i suoi ambiziosi propositi si so­no arrestati. Ha proposto che gli Stati Uniti diminuiscano di uno i gruppi delle portaerei, passando da 11 a 10, ma a que­sto si arriverà tra 31 anni! Cio­nonostante, deve naturalmen­te affrontare la consueta oppo­sizione dei conservatori. Il Wall Street Journal si preoccu­pa che una Marina di 300 navi sia «pericolosamente mode­sta ». Nel recente scontro con i pirati somali, quel quotidiano fa notare che le navi militari statunitensi erano «a ore di di­stanza ». Beh, se avete viaggia­to per mare, saprete che le na­vi si muovono più lentamente degli aerei. Date le vaste di­mensioni degli oceani, il fatto che le unità navali americane fossero in grado di raggiunge­re un luogo relativamente non strategico in poche ore è di fat­to un segno delle incredibili capacità logistiche della Mari­na, non del contrario.
Gates è in realtà appena all' inizio di un indispensabile ri­pensamento della strategia di­fensiva americana dopo la Guerra Fredda. Si è concentra­to, ragionevolmente, sulle guerre che stiamo combatten­do, per assicurarsi che i solda­ti siano attrezzati per affrontar­le con successo. Ma anche se non abbiamo bisogno degli F-22, costruiremo ancora 2.443 F-35, a un costo ipotizza­to di circa 1000 miliardi di dol­lari. Ne abbiamo veramente bi­sogno? Qual è la logica di que­sto programma? I budget mili­tari americani dovrebbero ba­sarsi su due esigenze in com­petizione tra di loro. La prima deriva dal fatto che saremo probabilmente impegnati in conflitti piccoli e complessi con avversari molto più deboli su terreni difficili. In altre pa­role l'Iraq e l'Afghanistan. Il bu­dget di Gates affronta con ac­cortezza queste due guerre, in cui sono di fondamentale im­portanza gli uomini e l'intelli­gence. La seconda esigenza è quella di mantenere un deter­rente. L'esercito statunitense protegge le rotte navali del mondo e, in linea di principio, mantiene la pace. Se i pirati so­mali dovessero dare troppi problemi, sarebbero le forze militari americane, alla fine, a doverli fermare. Se i cinesi do­vessero pensare a muovere azioni offensive in Asia, sareb­be il timore di una reazione americana a renderli cauti. Queste esigenze sarebbero pe­rò sicuramente soddisfatte da un esercito più snello, con co­sti ottimizzati, più efficiente e consapevole della forza dei po­tenziali avversari. La Marina statunitense ha 11 gruppi di portaerei: la Cina non ne ha nessuno. Il budget statuniten­se del 2009 per la difesa è di 655 miliardi di dollari, quello della Cina di 70 miliardi, e quello della Russia di 50. L'au­mento dei costi in sé, per l'America, è superiore ai bud­get annuali per la difesa di Ci­na, Russia, Gran Bretagna e Francia messe insieme. La co­sa dà più l'impressione di as­surde stravaganze e sprechi che di deterrenza.
Il prossimo appuntamento, per Gates, è la riflessione stra­tegica legata alla Quadrennial Defense Review. Dovrebbe co­gliere questa occasione — l'ul­tima che ha per lasciare un'ere­dità duratura — e spingere gli Stati Uniti verso una strategia militare modellata sul mondo in cui oggi viviamo. Questo lo renderebbe un vero genio. A dimostrarlo, tutti gli sciocchi sicuramente si coalizzerebbe­ro contro di lui.

il Riformista 14.4.09
Ormai è fatta, moriremo berlusconiani
di Peppino Caldarola


Il Pd segue questa vigilia elettorale con alterni sentimenti. I sondaggi sfavorevoli deprimono una parte del gruppo dirigente ma soprattutto i militanti. Eppure c'è chi immaginando quei voti in fuga non si rattrista. Chi frequenta gli ambienti del Pd racconta di importanti lavori in corso. La sconfitta elettorale, soprattutto se è sconfitta eclatante, lascerebbe libero spazio a nuovi progetti. Non è più un mistero che ambienti vicini all'ex Margherita si stanno preparando alla confluenza con Casini per dare vita alla Costituente di centro che dovrebbe rappresentare il polo moderato di una nuova alleanza di centro-sinistra. Dall'altra sponda in ambienti ex diessini si guarda all'ipotesi di divorzio dai cattolici con meno angoscia che nel passato. A sinistra nascerebbe una forza di tipo socialista che attirerebbe i seguaci di Vendola e di Fabio Mussi. Assistiamo al paradosso di un partito che tutti vogliono lanciato nella contesa elettorale alla ricerca dei voti perduti mentre una parte del gruppo dirigente tifa per la propria sconfitta per liberarsi dalle catene. Il fallimento del Pd prima di essere elettorale è sentimentale. Dopo poco più di un anno c'è chi spera che siano gli elettori a dare il via alla più clamorosa separazione consensuale della politica italiana. Le due forze che si accingono a nascere raggiungerebbero sommate poco più del 30%, una cifra lontana dal minacciare il predominio di Berlusconi. Non lo fermerà più nessuno. Moriremo berlusconiani. Ci poteva andare peggio.

il Riformista 14.4.09
Il terremoto e il quadro politico prossimo venturo
Neppure nei tempi d'oro della Balena bianca c'era un partito che aspirava a oltre la metà dei seggi in Parlamento
di Ritanna Armeni


Quale Italia politica emergerà dalle terre terremotate dell'Abruzzo? Quali nuovi equilibri del quadro politico potremo verificare quando, come è inevitabile, i riflettori si sposteranno dalle tendopoli e dalle macerie ai rapporti di forza fra i partiti, a quelli fra maggioranza e opposizione, alle relazioni interne alla maggioranza?
Questione di giorni e avremo di fronte a noi un nuovo quadro che forse possiamo già descrivere. Finora rimasto nell'ombra, oscurato dalla drammatica vicenda abruzzese, ora apparirà finalmente nitido.
Il Pdl sarà - è - più forte. Come partito principale della maggioranza ha sicuramente esteso la sua influenza sul Paese. E ancora una volta la sua forza è stata quella del premier. Silvio Berlusconi si è mosso nelle terre d'Abruzzo con tempismo e abilità, mostrando nell'emergenza un governo che "fa" e mettendo a tacere come inopportuna e fuor di luogo ogni eventuale critica.
Se qualcuno poteva dubitare delle cifre sul consenso raggiunto nei sondaggi che il premier ha fornito nel congresso costitutivo del Pdl, ora quel 42/43 per cento di cui ha parlato non appare così improbabile. L'ambizione di arrivare al 50 per cento, se non dei consensi, dei seggi in Parlamento, non così velleitaria. Nell'Italia che esce dall'emergenza terremoto si intravede la possibilità, finora mai verificata, neppure nei tempi d'oro della Balena bianca, di un partito con oltre la metà dei seggi in Parlamento in grado, quindi, di costruire "democraticamente" un regime. Un partito che può modificare la Costituzione e può far passare senza ricorrere a nessuna mediazione, se non quelle interne a se stesso, qualunque legge. Si intravede, insomma, una forza politica diversa anche da quella che si è costituita qualche settimana fa, i cui caratteri sono tutti da scoprire, la cui identità composita e in cambiamento potrebbe dar vita a un amalgama tutto da decifrare.
Ma proprio questa aspirazione non nascosta dal premier ha già portato a una modifica consistente nei rapporti fra i partiti della maggioranza e, ormai, alla competizione aperta fra Lega e Pdl. La richiesta di un referendum che, se celebrato con successo insieme alle elezioni europee e amministrative di giugno, potrebbe portare un cospicuo premio di maggioranza al maggiore partito cioè al Pdl, ha irritato non poco la Lega che con la nuova legge elettorale, avrebbe nella maggioranza e nel quadro politico un ruolo meno pregnante e decisivo di quello attuale. Con la richiesta di voler celebrare e vincere il referendum, un messaggio simbolico di rottura è stato inviato. Dice con chiarezza che il partito di Silvio Berlusconi può aspirare a governare il Paese anche senza la Lega. Forse la considera ormai un alleato scomodo. Non è un caso che nei giorni precedenti il terremoto e nei giorni dell'emergenza il partito di Bossi abbia registrato alcune sonore sconfitte proprio sul tema che insieme al federalismo gli stava più a cuore: la sicurezza e l'immigrazione. La bocciatura delle ronde e dei Cie, la precedente presa di distanza di parte consistente della maggioranza dalla norma che prevedeva la denuncia dei clandestini da parte dei pubblici ufficiali, medici e insegnanti, hanno costituito una presa di distanza chiara del Pdl dall'estremismo leghista. Il nuovo partito che aspira al 50 per cento deve adottare - evidentemente - un atteggiamento più moderato e meno aggressivo di quello di Umberto Bossi e dei suoi padani.
Diverso, e alquanto fosco, appare il quadro dell'opposizione. Il Pd costretto al silenzio durante i giorni del terremoto dall'attivismo berlusconiano appare prigioniero di un circuito perverso che lo porta nei sondaggi a qualche settimana dalle elezioni a perdere ulteriormente consensi. Contribuisce a questo risultato l'abbandono di parte dei suoi elettori conquistati dall'anti-berlusconismo radicale di Antonio Di Pietro, ma, come tutti gli studi e le ricerche dimostrano, il calo dei consensi del Pd va soprattutto in direzione dell'astensione. Dopo la delusione veltroniana, dopo lo sbarramento del 4 per cento voluto dal Pd, che ha provocato l'indignazione non solo della sinistra radicale ma di un'area democratica, e dopo il sostegno suicida al referendum elettorale che potrebbe sancire una vittoria eclatante per Silvio Berlusconi, le quotazioni del principale partito di opposizione si sono ulteriormente indebolite. Gli sforzi del neosegretario Dario Franceschini sono apparsi tentativi deboli di ricostruire un'identità ormai labile e una contrapposizione a Berlusconi che appare non convincente.
Gli elettori dell'opposizione assistono sconsolati all'avanzare del Pdl e trovano - paradosso dei paradossi - solo in Gianfranco Fini una parziale risposta alla domanda di contrastare l'ulteriore l'affermazione di Silvio Berlusconi. Ora che i riflettori dal terremoto si sposteranno sul quadro politico la situazione del Partito democratico apparirà in tutta la sua triste chiarezza. Il Pd constaterà il suo isolamento, l'assenza di possibilità di alleanze che ha esso stesso costruito, ma che non per questo è meno grave. E i giochi si riapriranno anche al suo interno. Con quali prospettive? Questo, per il momento, è davvero oscuro.

l’Unità 14.4.09
Pd e radicali verso l’addio
Alle Europee ognuno per sé
di Bruno Miserendino


Al Nazareno confermano il divorzio annunciato: «Ci sarà una lista Bonino, quindi...»
Pannella pomo della discordia. Fioroni: «Non lo vogliamo, non siamo un albergo a ore»

Pd e radicali, ognuno per la sua via. Divorzio annunciato dopo un rapporto mai decollato. Fioroni: «Pannella non lo vogliamo, il Pd non è un albergo a ore». Rammarico per Emma Bonino: «Fa la sua lista, quindi...»

Pd e radicali, è l’ora dell’addio. Non saranno nelle liste democratiche per le europee e soprattutto non ci sarà Marco Pannella. È un divorzio nei fatti. Come dicono al Nazareno, dalle parti di Franceschini: «Non si è mai aperto un tavolo, Emma Bonino ha deciso di fare una sua lista, quindi...». Quindi la storia, che non è mai stata esaltante, finisce. A quanto pare il segretario, come tutta l’area cattolica del Pd, non verserà molte lacrime. Fioroni ci ha messo una pietra tombale: «Noi dobbiamo fare le liste con chi condivide il progetto, il Pd non è un albergo a ore». A quanto pare non tutti sono contenti che le cose siano andate così, però le recriminazioni ufficiali si contano sulle dita di una mano: Furio Colombo, Luigi Manconi, Magda Negri. «L’esperienza parlamentare con i Radicali è stata proficua, non si capisce perché escluderli a priori dalle liste - dice la senatrice democratica - il Pd deve trovare un’anima e quest’anima si deve vedere al momento della formazione delle liste, che non devono essere una mera sommatoria di Ds e Margherita, per questo penso che personalità come Cappato e Pannella dovrebbero far parte delle liste del Pd. Vocazione maggioritaria per me vuol dire che il partito deve aspirare a rappresentare la maggioranza democratica, progressista, liberale del Paese. Ho mandato questa lettera a Franceschini e spero che qualcuno ci possa riflettere».
Tuttavia nel Pd la maggioranza pensa che il rapporto non ha mai funzionato e alla fine, è l’opinione anche di qualche veltroniano, hanno portato meno voti di quanti ne abbiano fatti perdere nei confronti dell’area cattolica moderata. Questo nonostante siano in molti a riconoscere che Emma Bonino è sempre stata un valore aggiunto e che si è comportata con grande lealtà nella breve convivenza. Il problema non è lei, nè la pattuglia dei radicali eletti alle ultime elezioni, il problema, dicono al Pd, è stata la riproposizione del personaggio Pannella, figura nobile ma ingombrante e ingestibile. «Giocherebbe per sé, non per il Pd», dicono al Nazareno. Fioroni, a scanso di equivoci, lo ribadisce: «Non sono ammesse furbizie, non lo vogliamo».
Certo, una vaga promessa per la sua candidatura europea, da parte di Goffredo Bettini, che al tempo delle politiche aveva gestito la pratica radicali, c’era stata. Poi però, ricordano, Pannella si mise a fare lo sciopero della sete dicendo che gli eletti radicali erano meno del numero pattuito e nemmeno sicuri. Giorni e giorni di tira e molla, una spina nel fianco per Veltroni, su cui si sono gettati a capofitto tv e giornali. L’immagine di un Pd diviso prima ancora del risultato elettorale. I mugugni dei cattolici. Si sa come è andata: nove eletti, in un quadro politico terremotato, dove sono scomparsi partiti come Rifondazione comunista. La «ratio» dell’accordo politico c’era: l’idea di un partito aperto, tanto aperto e liberal da far convivere Emma Bonino e Paola Binetti. La prima era stata voluta fortemente da Veltroni per le sue competenze riconosciute, per attrarre voti soprattutto al nord. La presenza della pattuglia radicale doveva anche rassicurare i timori sulla assoluta laicità del Pd. Timori che adesso riprenderanno quota, anche se nessuno rimpiangerà quell’alleanza.
Non sembra questa, comunque, la spina più grossa per Franceschini. Qualche scricchiolio si sente dalle parti di Enrico Letta che vuole «rispacchettare tutto», perché il Pd, dice, «così come è è destinato alla sconfitta». Letta vuole un nuovo centrosinistra col trattino e con la C di centro maiuscola.

il Riformista 14.4.09
«Mi stai forse dando del mafioso?»
La Pasqua di guerra tra Bordin e Pannella
di Tommaso Labate


Per i fedelissimi di Radio radicale, la domenica di Pasqua potrebbe diventare una giornata di quelle che non si dimenticano. Perché, nel corso di un alterco mica male avvenuto nel bel mezzo della consueta «conversazione domenicale con Pannella», il direttore Massimo Bordin ha interrotto l'ira funesta di Giacinto detto Marco e ha scandito: «Va bene, andiamo avanti ed evidentemente faremo il top di ascolti... Ma vi assicuro che questa è l'ultima trasmissione della Conversazione di Bordin con Pannella».
A scatenare la lite tra il deus ex machina del partito (radicale) e quello della radio (sempre radicale) è stato lo sciopero della fame annunciato dal primo a sostegno dell'ultima campagna che partirà dal quartier generale di Torre Argentina. Della serie: Pannella sostiene che «la notizia» sia la campagna (presentazione delle liste radicali alle Europee legata alla stesura di un libro bianco che ripercorre sessant'anni di Costituzione e fa il punto sulle tante «violazioni» alla Carta); Bordin - che ha dalla sua il fatto di andare a «pane e giornali» da anni - rileva che l'elemento di interesse giornalistico sia lo sciopero.
Apriti cielo. L'incidente avviene a ridosso del minuto 48 della conversazione. Bordin, pacatamente, fa notare: «Adesso noi abbiamo in questa trasmissione un elemento nuovo: lo sciopero della fame appena annunciato da Pannella». E Pannella: «No, è un elemento consueto. L'astensione dal cibo non mi pare una notizia». A quel punto, Bordin rileva con voce serena: «Va bene, prendiamo atto di essere fuori linea anche sull'interpretazione dello sciopero della fame di Pannella». E Giacinto detto Marco, per tutta risposta, esplode furibondo: «Guarda che il "fuori linea" te lo vai a trovare eventualmente altrove, se ne hai bisogno».
Nei minuti successivi, la Conversazione (si può riascoltare e anche vedere su www.radioradicale.it) ha il passo di Tutto il calcio minuto per minuto nell'ultima giornata di campionato, quella in cui si decide lo scudetto. «Cosa fai urli?» (Bordin). «Io mi appassiono, io non sono distinto ed elegante come te» (Pannella). «Penso di esserti antipatico ma non è un problema» (B). «Tu sei allusivo e vagamente "minacciatorio". Vabbé, ognuno ha il suo stile» (P). «Mi stai dando del mafioso? Io non sono né allusivo né minaccioso» (B).
Nessun gong, nessun time out. Il direttore, per rafforzare la sua tesi, sintetizza che «tu sei l'unico politico a fare lo sciopero della fame mentre gli altri mangiano». Il vecchio leader usa la frase per tirare la sua personale conclusione: «È falso, non sono l'unico. E gli altri radicali? (...) Chiunque dica che sono l'unico involontariamente o volontariamente fa parte di quelli che negano l'esistenza della ricchezza del movimento radicale». Troppo, anche per Bordin, che annuncia la fine della trasmissione: «Marco, tutto questo è veramente brutto. Sono metodi politici poco belli». «Se è questo a cui volevi arrivare - è la risposta del Capo - da domani sarai un martire di Pannella». «Ma io - è la controreplica del direttore - non cerco il martirio».
Quando la Conversazione finisce, sulla pagina Facebook di Bordin ci sono le prime reazioni. F.M. G. gli scrive: «Caro direttore, per quello che vale, in macchina eravamo in tre e tutti e tre abbiamo ben compreso». E il direttore di Radio radicale risponde: «Beati voi. Io stento a capacitarmi. Che la faccenda possa essere in fondo così banale, perché di questo temo si tratti». «Direttore, resti con noi», è il leitmotiv dei messaggi che giungono a Bordin, con qualcuno che fa notare che «Marco è così e così, per fortuna, dobbiamo tenercelo».
Addio per sempre alla Conversazione domenicale tra Bordin e Pannella? Il primo, contattato dal Riformista, «Marco, nel suo stesso interesse, ha bisogno di altri interlocutori. Se andiamo avanti così, questa formula rischia di logorarsi». Il secondo, contattato dal Riformista, non ha risposto al telefono.

Repubblica 14.4.09
Quando la piazza protesta on line
Così la rete organizza la gente
di Riccardo Staglianò


Scoop ma anche falsi allarmi Inchieste collettive e denunce che partono dai social network Nell´era di Internet le persone si mobilitano e cambiano il flusso delle informazioni Due nuovi libri raccontano vizi e virtù dei dilettanti del web
L´analisi di Andrew Keen è più severa: "Questa rivoluzione rovinerà la nostra cultura"
Clay Shirky, docente di Nuovi Media, parla di "distruzione creativa"

È la storia di come un cellulare smarrito su un sedile di un taxi di New York finisce con lo scatenare un´inarrestabile gogna pubblica. Ma anche di una frase razzista, sfuggita ai radar dei giornali, che costa il posto a un mammasantissima repubblicano. E di un caso di pedofilia che, tracimando dal web, dilaga in scandalo internazionale e prelude alla cacciata di un alto prelato. È la storia di masse che si coordinano. Di greggi che diventano pastori. Di «dilettanti» irregolari che armati solo della voce di internet riescono a radunare una forza collettiva impressionante. Uno per uno, tutti per tutti. Il potere di organizzare senza organizzazione di Clay Shirky (Codice Edizioni, pagg. 242, euro 23) tratta della «distruzione creativa» portata dalla rete sul modo in cui viviamo, collaboriamo, produciamo.
Shirky, docente di nuovi media della New York University parte da qui: «Ogni consumatore è oggi un potenziale produttore con l´intero mondo come potenziale pubblico». Siamo tutti «ex audience», come spiegò Dan Gilmor nel suo We, the media. Ci siamo alzati dal divano e siamo andati alla scrivania. Abbiamo posato il telecomando e imbracciato la telecamera. Il terremoto in Abruzzo, con le sue centinaia di video amatoriali, ne è solo l´ultima conferma. Shirky, collaboratore a sua volta del New York Times e Wired, constata la fine del monopolio dei giornalisti nell´informazione. Porta, tra gli altri, l´esempio di Trent Lott, capogruppo repubblicano al senato. Che a una cena aveva lodato Strom Thurmond, noto segregazionista. Molti media non avevano raccolto, i blogger sì. E l´imbarazzante dichiarazione, una volta entrata in loop, l´aveva spinto alle dimissioni. Sottovaluta il lato oscuro della forza, però. Come quando Matt Drudge, alfiere del "prima pubblica poi verifica", dette la notizia (falsa) che Sidney Blumenthal, allora consulente di Clinton, picchiava la moglie. E della causa da 30 milioni di dollari per diffamazione che ne seguì. Il punto è qui: la rete è un mare dove circolano molte notizie. Che possono essere vere o false. Al contrario di quel che accade nei quotidiani non ci sono responsabili a renderne conto. Spesso accertare se ci si trova di fronte ad un fatto o ad una bufala che circola on line è impossibile.
Parole come pietre rotolano a valle, diventano valanghe e seppelliscono reputazioni. Per esempio: nel 2002 a Boston la notizia era vera. Preti accusati di abusi sessuali su bambini. Il Boston Globe fa il suo mestiere ma la notizia esplode soprattutto grazie a Voice of the Faithful. Trenta parrocchiani offesi che, dandosi appuntamento sul web, diventano 25 mila in sei mesi. Alla fine il responsabile della diocesi, cardinale Bernard Law, lascia. Shirky parla del suo paese, noi sappiamo del nostro. Del caso di Federico Aldrovandi, diciottenne di Ferrara morto nel 2005 durante un controllo di polizia. Gli agenti chiudono presto il caso, sua madre lo riapre un post alla volta. Il suo blog obbliga i giornali a tornarci su e i poliziotti finiscono in tribunale. Online il confine tra informazione e azione politica si assottiglia. Succede per il testamento biologico, all´indomani della vicenda Englaro. I radicali presentano 2.500 emendamenti alla proposta del governo. Il 20 per cento raccolti via internet. Non era mai successo, succederà sempre più spesso.
Si può discutere tutto di Beppe Grillo, non la sapienza con cui ha saputo sfruttare la piattaforma internettiana. La stessa con cui Barack Obama ha concepito parte della sua vittoriosa campagna. A dire solo «no, non mi piace», rimpiangendo gli anni eroici dei comizi nelle piazze, si rischia di fare la figura di Giovanni Tritemio, rievocato nel libro. L´abate di Sponheim nel 1492 scrive un pamphlet in cui difende la superiorità degli scriba, minacciati di estinzione dall´invenzione della stampa di Gutenberg. Affida però De laude scriptorum ai tipografi, perché abbia più vasta e spedita circolazione. Mai autosmentita fu più efficace. Eppure la tentazione sopravvive. Dilettanti.com (DeAgostini, pagg. 269, euro 15) di Andrew Keen spiega «come la rivoluzione del web 2.0 sta uccidendo la nostra cultura e distruggendo la nostra economia». Ma se certi contenitori (la carta) sono sotto botta ma il contenuto (il giornalismo) non è mai stato così prezioso.
La Cultura può dormire sogni tranquilli. Perché le masse organizzate, oltre a prendere a picconate le istituzioni, sanno costruire. Shirky cita Wikipedia, l´enciclopedia editata dall´intelligenza collettiva. Ne dà una definizione originale: «È essenzialmente una burocrazia per litigare». Nel senso che uno scrive una voce, un altro propone modifiche, un terzo obietta e corregge di nuovo, in un affinamento progressivo. Escono anche bufale colossali. Mai come qui è utile la lezione delle scuole di giornalismo americane: "Se vostra madre vi dice che vi ama� verificatelo". Però, onestamente, chi ne farebbe a meno?
Il libro di Shirky deluderà i più "digitalizzati". Scrive: «Gli strumenti di comunicazione non sono socialmente interessanti sin quando non diventano tecnologicamente noiosi». Parla di sms, blog, mailing list, pleistocene internettiano solo adesso diventato normale, precipitato dalle élite alle masse. Così quando la giovane Ivanna dimentica il suo telefonino in un taxi e poi scopre che chi l´ha trovato non ha alcuna intenzione di restituirlo, mette in piedi un sito (evanwashere. com/StolenSidekick/) tanto che la polizia è costretta a intervenire. Così va il mondo quando tutti collaborano con tutti. Per i ragazzi è più facile, i post-1980 non ne conoscono un altro. «In un periodo di rivoluzioni l´esperienza diventa zavorra» avverte l´autore, perché se hai una weltanschaung tradizionale, «quando arriva un cambiamento epocale rischi di considerarlo cosa di scarsa importanza».

Repubblica 14.4.09
Al Teatro India di Roma da domani "L´illusione di Dio"
Atei e cattolici a confronto da Spinoza a Scalfari
di a. b.


È un teatro che ha uno stretto rapporto con la vita e la nostra vita sociale, L´illusione di dio, lo spettacolo che debutta a Roma, da domani a domenica al Teatro India e dal 21 all´Orologio, scritto e diretto Adriana Martino: si e ci interroga sul tema della fede e della ragione, sul rapporto tra cultura laica e religione con spessore di riferimenti e l´ordinato lavoro di congiunzione tra pensieri diversi, «selezionati con una scelta di campo radicale», spiega Adriana Martino, «seguendo il filone illuminista». Si parte da quel pilastro che è Spinoza, poi Dostoevskij, Nietzsche, mettendoli a confronto con studiosi di oggi, da Paolo Flores D´Arcais e Odifreddi a Eugenio Scalfari. Saranno gli attori Pietro Bontempo, Nicola D´Eramo, Bruno Viola, Fabrizio Raggi, Maurizio Repetto a dare loro voce, talvolta anche in forte contrapposizione tra loro, come quella di «un credente vicino a Heidegger, Vattimo e di un materialista ateo, Michel Onfray. A se stante, nel finale, ci sarà Scalfari. Colleziono i suoi articoli. Ho fatto un montaggio da alcuni estratti che poi lui ha rivisto. È diventato "La gabbia dell´io" un bellissimo monologo sulle ragioni delle sue convinzioni profondamente laiche».

l’Unità 14.4.09
Legionari di Cristo sesso, droga, scandali
di Toni Jop


Discutibile la vita segreta del fondatore della potentissima congregazione
Ottocento sacerdoti, 2.500 seminaristi, 65.000 laici nel Regnum Christi

No, questa storia che aveva anche una figlia, non ci voleva proprio. Persino il discretissimo Vaticano che pure era stato paziente per decenni nei suoi confronti si è sentito in dovere di fare qualcosa. Così, ecco che una delegazione di «inquisitori» gentili inviati dal Papa hanno «visitato» un paio di giorni fa le sedi dei potentissimi Legionari di Cristo. Solo che il soggetto principale dell’indagine è morto da un pezzo: padre Marcial Maciel Degollado, fondatore del piccolo impero di tonache e non solo, ci ha lasciati all’inizio del 2008 portando una tribolata verità nella tomba. Chissà se la figlia gli porterà dei fiori.
Brutta storia: perché sguazza nel sesso omo ed etero - se le accuse son vere, quell’uomo non guardava in faccia nessuno - nella pedofilia, e anche negli affari, nel business. Inoltre, cautela massima da parte del Vaticano rispetto a una congregazione che, a dispetto di tutti gli indici delle vocazioni in calo, recluta preti su preti mentre moltiplica sedi e insidia vecchi poteri consolidati nella Chiesa. Ottocento sacerdoti, 2500 seminaristi, 65mila laici raccolti nell’associazione parallela Regnum Christi.
La crema della Destra-destra
Benvenuti a destra, e che destra. Intanto il nome: Legionari di Cristo, ci vuole un bel fegato per avvicinare il nome di Cristo, il simbolo della mitezza e dell’amore, all’idea rombante di una legione, strumento di guerra assunto in onore a una manifesta volontà di potenza. Ma non è la prima volta che in seno alla Chiesa si cede a questa sirena. Poi, il fatto che la congregazione abbia contato nella Spagna umiliata dal fascismo franchista sull’appoggio di personalità del governo. Non solo: nella Legione sono finiti una quantità di rappresentanti della upper-class spagnola, conservatori quando non reazionari, la crema della destra-destra sfuggita al reclutamento dell’Opus Dei. Quindi, la legione ha una buona rilevanza politica e un valore strategico che, fino a ieri, era in crescita.
Anche in Italia, dove, spulciando tra i nomi dei vip, poteva contare sulla solidarietà fattiva dell’ex governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio. Quest’ultimo, nel corso di una telefonata a Fioroni - intercettata nell’ambito della inchiesta sullo scadalo della Banca Popolare di Lodi - fa esplicita richiesta che siano versati soldi anche ai Legionari. Il Vaticano stimava molto Fazio. E stima i Legionari: il cardinale Sodano, segretario di Stato, ha difeso allo stremo padre Degollado benché le accuse e le testimonianze fossero corali. Come mai?
Droga e violenze
Dicono che facesse uso di stupefacenti, morfina. Che abbia coltivato relazioni con donne molto ricche mentre costruiva il suo impero. E ben 8 ex legionari si sono sentiti in obbligo di denunciare di essere stati violentati o insidiati quando erano ragazzini da questo bel tomo in odor di santità. Gli otto sarebbero solo la punta dell’iceberg dell’umanità assoggettata alle pulsioni sessuali del sacerdote partito dal Messico per conquistare con le sue Legioni il mondo intero nel nome di Cristo. Ma questa è storia nota, così com’è noto che il Vaticano - ci pensò Benedetto XVI - fu costretto a prendere in esame la situazione; intanto il prete era diventato vecchio e Santa Madre Chiesa non ama il clamore: in pratica, gli dissero che era colpevole ma si limitarono ad invitarlo a ritirarsi e a fare penitenza. Era il 2006. Tutto qui? Pecca fortemente ma credi ancor più forte? Sarà anche stato devoto alla Madonna ma padre Degollado aveva imposto il silenzio assoluto e censura totale a tutta la sua poderosa macchina da «guerra»: forse credeva nel potere più che nella madre di Cristo.
Pareva vicenda chiusa, nonostante uno choccante libro - «El Ilusionista» - scritto da un suo nipote ex legionario. Senonché è saltata fuori questa povera ragazza di vent’anni che assieme alla madre pretende soldi dalla congregazione: la figlia di Degollado, la madre sarebbe stata l’amante fissa del pio fondatore. Tra l’altro, pare si siano scoperti strani movimenti di denaro nei conti della congregazione: qualcuno da convincere al silenzio, qualcun altro da mantenere, e la politica? Sicuri che non c’entri nulla?
Trema l’attuale leader dell’organizzazione, padre Corcuera, l’uomo che ha ricevuto il potere direttamente dalle mani di Degollado. Possibile fosse all’oscuro di tutto? Il fascicolo è nelle mani del cardinal Bertone. Le Legioni sono in rotta.

Corriere della Sera 14.4.09
Religioni
Viaggio all’origine del mistero indiano
di Roberto Calasso


Per la prima volta in italiano le lezioni di Sylvain Lévi sui Brahmana
Genesi I testi liturgici sull’origine del mondo e il significato del sacrificio rituale
Prajapati, il dio che creò gli dei E sarà dimenticato da tutti
Il «signore delle creature» è l’essere primordiale; all’inizio niente esisteva nell’universo tranne lui

I Brahmana sono trattati in prosa sul sacrificio (sui molti tipi del sacrificio). Testi al tempo stesso di esegesi liturgica e di metafisica, perché il sacrificio è tutto e parlarne implica dire ciò che è. Nel corpus vedico, massiccio abrupto e solitario di parole che appaiono senza essere accompagnate da alcuna testimonianza palpabile — oggetti, edifici, iscrizioni —, i Brahmana occupano lo spazio centrale fra il Rigveda, che è una raccolta di milleventotto inni, in gran parte cifrati e allusivi a vicende mitiche di cui si presuppone la conoscenza, e i Sutra.
I Sutra sono prescrizioni aforistiche che si presentano in formulazioni asciut­te e stringate per favorire la memorizza­zione. I Brahmana, invece, sono testi dif­fusi e minuziosi, che si propongono di il­luminare ogni dettaglio del rito. La loro mira non è soltanto quella di mostrare ciò che deve accadere, ma di renderne ra­gione. Il significato diventa una striscia continua che corre in parallelo al rito, il quale tende a invadere la totalità del tem­po.
I Brahmana sono una grandiosa impre­sa di interpretazione, decisa a non lascia­re nulla nell’inerzia dell’insignificante. Ciò che si vedeva ogni giorno, nei gesti degli officianti e dei patroni dei sacrifici, veniva a essere sommerso dai significati e dalle storie, che ne giustificavano l’ori­gine e ora gli si sovrapponevano come una folta vegetazione epifitica. Nel conti­nente dei Veda, i Brahmana erano al tem­po stesso la «foresta», aranya, che signi­fica il luogo della dottrina segreta, e la guida per addentrarsi in quella foresta.

Prajapati è il personaggio dominante dei Brahmana. Instancabili, i testi a lui tornano: «Prajapati era solo...»; «I Deva e gli Asura, gli uni e gli altri generati da Prajapati...»; «Prajapati desiderò...». Le sue vicende sono le più drammatiche: suicida, ferito in un agguato, disarticola­to, agonizzante, minacciato di morte dal figlio primogenito. Eppure, questo non è bastato per gli indologi, anche per alcuni fra i più illuminati. Continuavano a ravvi­sare in lui un qualcosa di scialbo, artifi­cioso, quasi fosse un’astrazione escogita­ta da dotti ritualisti. Non era un dio co­me gli altri, con le sue avventure e vicissi­tudini. Oldenberg non gli concedeva al­tro che di essere «un vertice del sistema degli dèi, costruito dai sacerdoti». E con­cludeva: «Non è un dio vivente, che dà prova della sua potenza nella vita dell’ani­ma umana, nelle battaglie, nelle sofferen­ze dei popoli, non è un dio come più tar­di lo fu Shiva».
Paradossalmente il fatto di non essere tutto ciò che Oldenberg non gli concede di essere è il presupposto del più alto e inconfondibile pathos di Prajapati. Non conosciamo un altro creatore che, al pari di lui, si perda nelle vicende della creazio­ne, si sfibri nei rinnovati, spesso falliti, esasperanti tentativi di dare forma al mondo, di renderlo abitato da esseri pie­namente viventi. E quando finalmente ta­li esseri appariranno — gli dèi —, comin­ceranno subito a battersi tra loro, in due schiere di fratelli nemici, i Deva e gli Asu­ra, e tale sarà la loro furia e concentrazio­ne nella lotta che presto dimenticheran­no e accantoneranno il Padre, figura or­mai inutile e sorpassata. In fondo gli uo­mini moderni non furono che gli ultimi a ignorare Prajapati. Primi erano stati gli dèi; poi vennero gli antichi, che lo dimen­ticarono: non esiste tempio indiano dove Prajapati sia raffigurato. Alla fine giunse­ro gli studiosi e caddero nell’equivoco più beffardo: credettero che Prajapati, dal quale tutto era sorto, fosse un’inven­zione tardiva, un nome che serviva per coprire una lacuna, ma rimaneva inconsi­stente.
Quando le creature hanno finito di ap­parire, la visione che si presenta è un im­mane disastro. Prajapati è sfinito, svuota­to. Solitario come all’inizio era solitario, perché le creature si sono subito rivolte via da lui. Il fine dell’opera — gioia e cibo — non è stato raggiunto. Questo è lo sfondo su cui ogni altro evento si delinea: una sce­na di desolazione e di ab­bandono, come al termine di uno sforzo vano. Tutta la storia, da allora, è il pro­cesso con cui Prajapati ten­ta di reintegrare le sue forze. Mai come nella storia di Prajapati è evidente quello che Sylvain Lévi ha chiamato il «realismo selvaggio» dei Brahmana. Mai un dio cre­atore è stato esposto come Prajapati al tormento, dall’interno e dall’esterno. Mai un essere divino è stato così dipendente dalla sua fisiologia. Dio solitario, arden­te, suicidale, sessuale, le sue creature lo trattano con eccessiva familiarità, come se non si fossero ancora del tutto distac­cate da lui. La creazione è una sequenza convulsa. Nessuno ha il tempo di fermar­si per onorare il Padre. E presto tutti lo fuggono. Ma come mai le creature abban­donarono Prajapati? Erano appena appar­se e il Progenitore giaceva sfibrato, «svuotato» ( riricanah, termine perfetta­mente corrispondente alla kénosis paoli­na: « exinanivit se »). Subito, le creature gli voltano le spalle. Votato alla solitudi­ne, prima e dopo avere creato, Prajapati non può mai gioire degli esseri che ha fat­to esistere. È condannato a un perenne monologo, che a tratti può concentrarsi nell’«ardore», nel tapas.
Le creature non spiegano mai perché scompaiono. Per indifferenza? Perché non riescono a convivere con il Padre? Sovrapponendo le molte versioni di que­sta fase degli eventi, si può azzardare che le creature fuggano dal Padre perché si vergognano di lui, perché riconoscono in lui il primo colpevole. Non solo per­ché si è subito congiunto con la figlia Ushas — e questa era apparsa «una azio­ne cattiva agli occhi degli dèi». C’è chi di­ce che si fossero anche messi subito a di­sputare sul perché Prajapati avesse crea­to i ladri, i tafani, le zanzare e altro anco­ra. Ma tutto era un pretesto per alludere alla colpa maggiore, forse l’unica: la crea­zione stessa, quella ferita inferta nella pienezza, che l’aveva dispersa in un pulvi­scolo di esseri; quel passaggio irreversibi­le dal continuo al discontinuo, che ora avrebbe costretto tutti a vivere faticosa­mente tentando di ricomporre quel con­tinuo — cioè il corpo stesso del Padre. E non sarebbero mai riusciti a farlo una vol­ta per tutte. Ma, prima di giungere a quel punto — e quasi non volessero pensare a che cosa li aspettava —, fuggirono. La­sciarono di nuovo il Padre nel deserto de­gli esseri, e l’osservarono da lontano mentre scopriva un modesto sacrificio per tentare — già da solo — di migliora­re la sua condizione. Eppure, quella ceri­monia gli giovò. Per il puro fatto di offri­re. Ma a chi? C’era solo il vuoto davanti a lui. Allora ricordò: Chi? — Ka — era il suo nome. Offriva se stesso a se stesso.
Ma non sarebbe mai bastato. Per ri­comporre Prajapati non sarebbe occorso nulla di meno dell’immane costruzione dell’altare del fuoco. Gli uomini pensava­no ai diecimilaottocento mattoni di cui avrebbero avuto bisogno per innalzarlo, per ricomporre il Padre.
I Brahmana sono di per sé testi ardui, così come sono ardue la Critica della ra­gione pura di Kant o l’Etica di Spinoza, forse le opere più affini ai Brahmana che possa offrire l’Occidente moderno. Ma un’ulteriore difficoltà è costituita dall’at­teggiamento ostile e sprezzante che mo­strarono verso questo genere di scritti al­cuni dei padri fondatori dell’indologia. Paradossalmente, si trattava in certi casi degli studiosi che più si adoperarono per­ché la letteratura dei Brahmana fosse co­nosciuta. Nel caso dello Shatapatha Brahmana innanzitutto Max Müller e Ju­lius Eggeling. Max Müller promosse la prima traduzione, integrale e commenta­ta, del testo. Affidata a Julius Eggeling, questa edizione, che rimane l’unica com­pleta fino a oggi e spicca tuttora come un’impresa grandiosa e preziosa, fu pub­blicata a Oxford fra il 1882 e il 1900.
Ma nel 1898, a distanza di pochi anni dai giudizi scoraggianti di Max Müller e Julius Eggeling sulla letteratura dei Brah­mana, veniva pubblicato a Parigi un libro di genio: La dottrina del sacrificio nei Brahmana di Sylvain Lévi. Per primo, Lévi aveva capito che i Brahmana posso­no essere intesi soltanto attraverso i Brah­mana — in modo non dissimile da come il suo maestro Abel Bergaigne aveva pro­vato a intendere il Rigveda soltanto attra­verso il Rigveda. Così rinunciò non sol­tanto a ogni pretesa di ricostruzione sto­rica, che in questo caso è illusoria e svian­te, come si è dimostrato con abbondanza di esempi sino a oggi; ma anche a riferi­menti ad altri testi del corpus vedico, in­nanzitutto al Rigveda. A parte la breve e densa Introduzione, il libro è tutto una sequenza di citazioni, mirabilmente scel­te e concatenate. Nonché finalmente tra­dotte in una lingua sobria e vigorosa, che non attenua la bruschezza del testo. Si può dire che qui per la prima volta, da­vanti ad attoniti occhi occidentali, affiori la macchina speculativa del sacrificio brahmanico — portentosa macchina di cui Sylvain Lévi era consapevole di mo­strare soltanto alcuni dei congegni fonda­mentali.
La qualità altissima del libro di Lévi non è certo dovuta alla teoria, che quasi non sussiste e, nei rari momenti in cui appare, non si discosta di molto da certe idee correnti dell’epoca. Non è certo dun­que per la sua visione storico-religiosa che, a distanza di un secolo, apriamo an­cora La dottrina del sacrificio nei Brah­mana con sempre rinnovato stupore e ammirazione, trovandovi ogni volta qual­cosa di nuovo. Ma dove risiede allora il genio del libro? Nella sua forma. Più pre­cisamente, nella sua capacità di acco­stare e montare cita­zioni. Di fatto, con temerario understa­tement, Mauss ave­va definito il libro «una raccolta ordi­nata dei testi dei Brahmana sul sacri­ficio ». Ed è un po’ come se si definis­se il Passagen-We­rk di Benjamin una raccolta ordinata di citazioni su Parigi.
Mentre non c’è dubbio su questo: il li­bro è una composizione di citazioni — e sostanzialmente null’altro. Occorre però osservare da vicino il procedimento di Lévi. Nella selva dei Brahmana Lévi proce­de con un invisibile machete e, senza mo­strare alcuna incertezza, isola i passi che costituiscono le giunture essenziali nella smisurata costruzione. Li accosta e li tra­duce, con un vigore che appare tanto più vibrante se si confrontano quei passi con le cartilaginose e arcaizzanti traduzioni di Eggeling. In certo modo, Lévi si muo­ve come l’adhvaryu, l’officiante che inces­santemente si adopera per eseguire tutti i gesti miranti a ricomporre il corpo di­sarticolato e dolorante di Prajapati, quale giaceva da secoli, ignorato dagli occhi oc­cidentali e anche trascurato dagli occhi dei nativi, che a lungo avevano ritenuto più urgente offrire la propria devozione ad altri dèi. A suo modo, La dottrina del sacrificio è un Prajapati ricomposto, co­me mille altre volte era stato ricomposto nel culto.

Corriere della Sera 14.4.09
L’incanto delle neuroscienze
Così la fantasia diventa realtà
di Edoardo Boncinelli


Chris Frith illustra le scoperte più recenti sulla mente e le implicazioni nella vita quotidiana

Smontare e rimontare la mente, scomporla nei suoi elementi co­stitutivi per poi tenta­re di ricomporla, guardare dentro la nostra testa con lo scopo di comprendere, senza per questo rovinare l’incanto; questi sono gli obiettivi delle neuroscienze cognitive, la ver­sione contemporanea della psicologia sperimentale e uno dei maggiori traguardi del nostro tempo.
Innumerevoli sono ormai i libri sull’argomento, alcuni più spostati sul versante neu­robiologico, altri più aderenti a una visione psicologica o psicologistica. Bene in bilico tra i due campi si tiene Chris Frith nel suo Inventare la mente (traduzione di Manue­la Berlingeri e Luca Guzzardi, edizione italiana a cura di Eral­do Paulesu, Raffaello Cortina, pp. 304, e 24), libro piacevole e leggibilissimo, pieno di scienza e di buon senso, che costituisce una guida ideale per chi si vuole informare sul­le conquiste delle neuroscien­ze senza perdere di vista le lo­ro implicazioni per la vita di tutti i giorni. Si tratta di un li­bro molto discorsivo, il cui ca­pitolo centrale è per me quel­lo intitolato «La nostra perce­zione del mondo è una fanta­sia che coincide con la real­tà ». Noi conosciamo il mon­do sulla base delle «fantasie» dei nostri organi di senso e delle aspettative che noi ab­biamo, basate sulle nostre esperienze e sui «sogni» dei nostri geni.
Ciò che l’autore non ci di­ce, perché esula dai suoi sco­pi, è perché tali fantasie, co­munque raggiunte, corrispon­dono abbastanza bene ai con­notati della realtà esterna. Questo, che è in fondo il pro­blema di Kant e di tutta la filo­sofia della conoscenza, è sta­to chiarito brillantemente an­ni fa da Konrad Lorenz. Le no­stre fantasie corrispondono abbastanza bene alla realtà— senza peraltro ambire a cono­scerla nella sua essenza e nemmeno a scalfirla — per­ché, se ciò non fosse, noi non avremmo nessuna speranza di sopravvivere e i nostri ante­nati di milioni di anni addie­tro non sarebbero sopravvis­suti e quindi non avrebbero la­sciato discendenti.
Si tratta di un esempio par­ticolarmente brillante di quel tipo di ragionamento evolu­zionistico che nel passato non sarebbe stato nemmeno concepibile. I nostri a priori insomma trascendono noi co­me individui, ma non come specie o addirittura come ani­mali superiori, come in fondo aveva adombrato lo stesso Kant, senza sospettarne il mo­tivo.
A molti questo sembra un ragionamento circolare, una petitio principii. Perché cono­sciamo il mondo, pur non avendo con esso nessun con­tatto diretto? Perché siamo equipaggiati per farlo. E per­ché siamo equipaggiati per farlo? Perché altrimenti non ci saremmo. Come argomen­to speculativo appare in real­tà circolare, ma come dato di fatto è ineccepibile e inconfu­tabile: noi ci siamo e conti­nuiamo ad esserci. Quindi qualcosa ci deve riuscire per forza. Alla barba di tutti i sofi­smi alla don Ferrante del Man­zoni, prototipo dell’intellet­tuale disconnesso dalla real­tà; dalla «realtà effettuale» di­rebbe il Machiavelli, uno dei grandi italiani che a noi piace così spesso rinnegare.
Frith non si limita a porsi il problema di come conoscia­mo il mondo, ma si chiede an­che come riusciamo a farci un’idea di quello che pensano gli altri — usando le sue paro­le «Come i cervelli modellano le menti» — e come riuscia­mo a «Condividere le menti». Si tratta ovviamente del pas­saggio dalla percezione e dal­l’ideazione individuale a quel­la collettiva e culturale. Anche qui possiamo apprezzare mol­ta dottrina e molta abilità espositiva, che nasconde poi una profondità di pensiero che solo la scienza opportuna­mente meditata può dare. Per­ché la scienza è aperta al mon­do e sempre ansiosa di impa­rare qualcosa, magari sorpren­dente, magari controintuiti­vo, magari non proprio grade­vole da ascoltare: Amicus Pla­to, sed magis amica veritas.

il Riformista 14.4.09
Le autorità che contano sarebbero altrove, non visibili alla luce del sole
Il potere è tiranno ma non da solo, parola di Canfora
di Andrea Valdambrini


Pamphlet. Le «lezioni» politiche dello studioso e filologo. Chi governa è al centro di «una complessa rete di consenso». Il parlamento ? «Un gioco stucchevole». Gli interessi forti, occulti e finanziari «sono i veri attori» sulla scena. E l'ipotesi tirannicidio? Solo un gesto «inutile e da narcisi» come insegna Tucidide. I media? «Un nuovo fascismo sostenuto da una struttura sociale». Cosa rimane allora della democrazia: solo violenza?

Iniziamo dalla fine, una volta tanto, e dichiariamo brutalmente chi è l'assassino. La natura del potere (Laterza, 2009, pp. 99, € 14) di Luciano Canfora è un libro (anche) su Berlusconi. Oltre che sui poteri occulti, naturalmente. Perché secondo Canfora il potere, quello con la lettera maiuscola, è altrove, non sotto la luce dei riflettori, visibile a tutti. I veri attori del gioco sono i giornalisticamente detti poteri forti, come quello della Bce, ad esempio, come le banche in generale, i finanzieri e le multinazionali. Cosa non nuova a sapersi, certamente. Ma la conclusione corrosiva di fronte alla desolante realtà dei fatti, è che tra un tiranno e un regime parlamentare non c'è poi tutta questa differenza. Con una postilla: se il tiranno è una manifestazione del potere non meno illegittima della democrazia parlamentare, il tirannicidio è un atto inutile, nel migliore dei casi, e controproducente nel peggiore.
Non a caso il nodo centrale del saggio potrebbe riassumersi in questa dichiarazione resa da Stalin nel 1927: «Nei Paesi capitalistici nonostante l'esistenza di parlamenti democratici i governi sono controllati dalle grandi banche». Sono queste che di fatto dirigono i politici. Quello che chiamiamo con i nomi di democrazia, parlamentarismo, elezioni, delega popolare della rappresentanza e quant'altro, è solo una rappresentazione, un gioco stucchevole per ingenui o stupidi che ci vogliono proprio credere.
La convinzione del potere occulto è sostanziata da una ricchissima esemplificazione storica, che oscilla suggestivamente tra il mondo antico e l'epoca dei totalitarsmi del Novecento. Partendo da Atene, Canfora ammonisce che la democrazia ha avuto la necessità di legittimarsi in contrasto alla tirannide. Tucidide, però, ci svela i retroscena della favola democratica, smontando il mito di Armodio e Aristogitone tirannicidi in nome della libertà. L'acuto storico greco riduce sarcasticamente tutto al personale invaghimento di uno degli Alcmeonidi verso il tiranno. Né, passando a Roma, si vede in cosa consisterebbero la bontà e l'utilità del tirannicidio. Atto non eroico, ma di narcisismo e presunzione ideologica, praticato da oligarchi imbevuti di miti greci risalenti proprio alla fondazione dell'Atene democratica. Chiediamoci se le pugnalate a Cesare hanno forse fermato la nascita dell'impero. Ottaviano Augusto sarebbe stato solo più accorto di suo zio a non irritare l'oligarchia senatoria, ma egualmente convinto che la Res publica necessitava ormai di un nuovo assetto istituzionale, l'impero appunto. E parallelamente, un ipotetico attentato a Hitler ci avrebbe forse salvato dalla catastrofe della guerra mondiale? Anche qui la risposta sembra desolantemente negativa.
L'inutilità del tirannicidio scaturisce innanzitutto dall'errore concettuale su cui si fonda. Il tiranno non è il solo responsabile del male, ma il centro della complessa rete di consenso che lo sostiene. Inoltre, facendo leva su una base velatamente hegeliana (tutto quello che è reale è razionale: se la storia è così come è c'è una ragione profonda), Canfora giunge a sposare la pessimisitica asserzione gramsciana: ogni potere è dittatura, e dunque, aggiungiamo, se deve grondare lacrime e sangue è bene che lo faccia. Lo sapevano certamente Pericle e Demostene, campioni della democrazia ateniese attraverso l'uso persuasivo delle parole, ne era al contrario spaventato Platone.
È con la parola, infatti, che si acquista il consenso necessario a legittimarsi, tanto nelle democrazie che nelle dittature. Nell'antichità, la parola seduce, blandisce, guida il popolo. Nell'era moderna, all'irrompere delle masse sulla scena della storia, il crinale tra democrazie e totalitarismo appare assottigliarsi. La teatrale retorica di Mussolini, ieri, la suadente voce televisiva oggi. Senza mezzi termini, Canfora affonda: il berlusconismo è il «nuovo fascismo». Ecco quindi spiegato perché e come Silvio è di nuovo l'assassino, il responsabile dell'attuale inebetimento del popolo votante. Un Silvio mai citato, considerato al di là del culto della personalità da psicodramma morettiano. Anche in questo caso, si può ragionare con Canfora, il tirannicidio sarebbe ridicolo. Il nuovo fascismo dei mezzi di comunicazione di massa è di fatto sostenuto da una struttura sociale, e dunque, ahimé, hegelianamente necessario nel suo momento storico. Come ipotetici tirannicidi, finiremmo quindi per suicidarci.
Le analisi volte a far emergere la struttura dalla sovrastruttura, come avrebbe detto Marx, ovvero la verità del potere dai suoi nascondimenti, sono sempre le benvenute. È sempre bene tenere alta la guardia di fronte al potere, che per sua definizione, coincide con la forza e non con la gentilezza. L'unica accortezza, dato che forse siamo rimasti ingenui, è quella di non arrendersi alla dittatura necessaria, democratica, tirannica, o mediatica che sia. O quanto meno di distinguere. Se il potere è sempre violenza, bisognerà cercare una formula in cui la democrazia non coincide esclusivamente con il potere. Non so se a questo punto abbiamo capito bene la lezione, professore.

Liberazione 14.4.09
Siete bravi giornalisti e dovreste sapere che recensire libri lontani dal nostro pensiero non solo è lecito, ma doveroso
di Giuseppe Prestipino


Stiamo ricevendo una quantità di contributi sulla querelle aperta dalla lettera di una parte dei redattori e delle redattrici di "Liberazione" sulla recensione di Guido Liguori al libro di Domenico Losurdo su Stalin. Ci scuseranno gli interessati/e se evitiamo la pubblicazione che occuperebbe, allo stato, diverse pagine del giornale. Salvo per la lettera che segue, direttamente rivolta da Giuseppe Prestipino ai protagonisti della protesta.

Cari compagni firmatari della lettera antistalinista, i venti di scissione dal Prc si sono levati prima che si scatenasse la bufera della crisi globale. Non tutti, a sinistra, potevano prevedere la bufera, anche se alcuni l'abbiamo prevista. Diversa è oggi la situazione. Capitali e paesi capitalistici sono più uniti che mai per fronteggiare la crisi. Si abbracciano tutti: dagli Stati Uniti all'Iran. Progettano persino il disarmo generale, mettendo per ora a tacere la guerra infinita. La risposta che viene da una certa sinistra italiana è invece quella della scissione infinita. Cari compagni, lottate contro i vivi e non resuscitate politicamente i morti. Avete letto tutti voi il libro di Losurdo? Se lo leggerete vedrete che non è negazionista. Tendenzialmente giustificazionista forse, ma più ancora è il libro di uno storico comparativista nel paragonare un certo colonialismo liberale all'"universo concentrazionario" (così lo definisce) voluto da Stalin. Il comunismo non è oggi l'erede di Stalin, mentre i valori di libertà e di democrazia, nei quali noi crediamo, sono eredità venuta anche da Robespierre, i cui crimini sono, comparativamente, tanto in minor numero quanto la Francia è più piccola dell'impero sovietico.
Leggo sempre con piacere Frida Nacinovich, abile e sottile giocherellona anche sulle serie e tristi imprese della cronaca politica e del palazzo. Ma perché, al contrario, prende sul serio un gioco al massacro dentro il partito (e il suo giornale)? La pubblicità al libro di Losurdo c'è stata, non per la recensione di Guido Liguori, ma per la lettera dei malpensanti e le sue conseguenze. Siete bravi giornalisti e dovreste sapere che alcuni interrogativi, come vi ricorda anche Liguori, sono retorici e perciò pesano più della corrispondente forma affermativa. Tale voleva essere l'interrogativo: «Può uno Stato socialista creare un sistema concentrazionario tanto vasto?». E anche vasto non significa solo quantitativamente esteso o numericamente grande. The vaste land, in Eliot, significa la terra desolata. Ma anche in italiano de-vastato o de-vastante possono considerarsi sinonimi del "vasto" di Liguori. Sempre sulla res extensa: troppo spazio ai trent'anni della dittatura staliniana? Meno che un decimo dello spazio occupato, sul nostro giornale, da quell'unico giorno nel quale il muro di Berlino fu abbattuto. Allora si riempirà una pagina per Hitler e Mussolini? Perché no, se la (cattiva) storia del mondo è andata storta, tra i dieci (dal 1933) e i venti anni (dal 1922), anche per causa loro. E per Pol Pot e Ceausescu? Non direi, perché erano ai margini della storia mondiale, quasi come criminali comuni. La buona sinistra vede il male e vede le contraddizioni nello stesso male: Stalin che (a volte) predica bene e (molto più spesso) razzola male, mentre Hitler, Mussolini o anche Pol Pot e Ceausescu, più "coerenti", predicano e razzolano sempre male. Tra Hitler e Stalin, peraltro, è soltanto Hitler il personaggio storico che (per effetto della xenofobia e del razzismo generati dalla globalizzazione) tuttora ispira ovunque, dagli Stati uniti alla Russia e all'Italia, alcuni gruppi organizzati di nostalgici violenti. Non vedo stalinisti, invece, se non in singole persone, tra le quali ne conosco un paio di raffinata cultura e incapaci di ferire una mosca, che "riabilitano" quel dittatore perché disgustate (non solo da questa globalizzazione e da questo nuovo razzismo) anche dalle scomuniche perpetue contro Stalin soltanto. Se dunque il personaggio non ha fatto scuola nelle frange o leggende nere della politica odierna, continuare a maledirlo e a maledire i suoi storici è come maledire Caligola e Tacito, perché il corso veloce della storia dopo la metà del secolo scorso sospinge Stalin lontano da noi quasi quanto Caligola. Perciò abbiamo necessità di batterci ancora per i valori dell'antifascismo, non altrettanto di dedicare all'antistalinismo una bandiera o un partito o una setta. Ai morti della storia non si benedice né si maledice. Si fanno processi, ma per un'istruttoria storica rispettosa dei codici di procedura storiografica soltanto.
Nel merito: no alle risposte definitive (pare che solo il Papa e i firmatari della lettera le conoscano), no allo storicismo giustificatorio (solo uno storico illustre come Leopold von Ranke credeva che tutte le epoche fossero egualmente vicine a Dio), sì a uno storicismo che veda le condizioni oggettivamente necessarie (per esempio, i rapporti di forza nel ‘900, sfavorevoli alla costruzione del socialismo), ma operi anche con ipotesi controfattuali su altre risposte soggettivamente possibili: invece che il terrore staliniano, una più effimera perestroika come quella gorbacioviana o una più duratura via cinese ai due capitalismi: di Stato e di imprese sovranazionali, o altre ipotesi ancora. Non credo che la Nep di Lenin fosse di ostacolo, come giudica Losurdo, alla preparazione dell'Urss in vista dell'invasione hitleriana, e quindi che la collettivizzazione forzata fosse necessaria.. Altre decisioni erano possibili. In ogni caso, dice bene Liguori: Stalin voleva tutto e subito. E invece aveva ragione Lenin: si potevano fare due passi avanti e uno indietro. Meno socialismo? Un socialismo dimidiato e imperfetto? Si dica pure così, se perficere il socialismo era allora impossibile.
"Liberazione" giustamente intervista anche i fascisti e i seguaci di Evola, mentre i giornali di destra si guardano bene dal dare la parola ai loro avversari. Infine: recensire il libri lontani dal nostro punto di vista non solo è lecito, ma è doveroso se sono libri documentati e, per giunta, con continue citazioni di opere fortemente anti-staliniane. Il silenzio su chi non la pensa come noi non è nostro costume, è invece in uso nelle veline consegnate ai media o berlusconiani o pubblici o "indipendenti".

Liberazione 14.4.09
Beppino Englaro
Ho fatto un «master di vita estrema»
di Beppino Englaro


Stralcio da "La vita estrema", conversazione di Beppino Englaro con Piero Colaprico, pubblicata sul nuovo numero di MicroMega in edicola e nelle librerie

Ho fatto un «master di vita estrema». Ho visto mia figlia morta nell'ospedale di Udine, in seguito all'interruzione delle terapie che ci è stata permessa dai giudici, dopo quasi dieci anni di ricorsi e controricorsi. Guardo mia moglie, che s'è consumata ardendo come una candela per il dolore e la rabbia, ed è molto malata. Ho affrontato credo migliaia di discussioni con medici e avvocati e giornalisti, e non con tutti avrei parlato volentieri. E, per quanto mi riguarda, so che la parola fine a tutta questa vicenda non c'è ancora. Non per me. Però so di aver compiuto un passo e di aver viaggiato, di essermi spostato dal luogo in cui stavo. All'inizio, quando Eluana ha avuto l'incidente, il 18 gennaio del 1992, sono arrivato in ospedale e, al quarto giorno di terapie, sono stato informato che il giorno seguente avrebbero operato una tracheotomia per la rianimazione a oltranza. Allora ho detto che mia figlia avrebbe rifiutato quelle cure, che considerava l'essere lasciata morire la cosa più naturale del mondo - e mi sono sentito trattare come un bambino dell'asilo. Ora quel bambino non c'è più, c'è stata una lunga vicenda umana, giudiziaria, medica, anche politica e religiosa, e nessuno può più trattare un padre come un bambino [...].
Devo quindi tornare a quelle notti del gennaio del 1992, quando il mondo era crollato addosso a noi genitori, quando nostra figlia, confinata in un letto dove mai avrebbe dovuto stare, era l'unica bussola possibile per trovare la rotta. Mia moglie Sati ha dato tutta se stessa per la figlia, come faceva prima dell'incidente. Madre e figlia sono inscindibili, sono un binomio, carne della stessa carne. Da un marito puoi scioglierti, da una figlia no, credo che ogni adulto lo sappia. La madre era eccezionale, perché non c'era sempre il padre, io per lavoro giravo parecchio, era lei che si caricava sulle spalle anche il padre, parlava, spiegava e discuteva…
Eluana quel gennaio era rimasta a casa, io e Sati eravamo andati a Sesto, in Val Pusteria, per una settimana bianca. Sono le 22,30 e ci scambiamo una telefonata, sappiamo che Eluana stava per andare a dormire, ci salutiamo, spegniamo la luce anche noi, senza nemmeno immaginare che gli amici invece la invitano fuori, in uno dei pochi locali della zona. Nostra figlia ci va e, quando torna a casa - lei sulla mia auto, un amico dietro che la seguiva - slitta sull'asfalto ghiacciato. Fa un testacoda e si schianta tra un palo e un muro. Sono le 3 e mezzo. L'amico, che la segue, dà l'allarme immediato, ma si capisce presto che è messa molto male. Poche ore dopo, vengo avvisato da mio fratello. E con mia moglie partiamo subito per l'ospedale di Lecco, dove mi dicono che Eluana è gravissima, la tac mostra micidiali lesioni al cervello, si capisce che non ce la farà.
E anche se il nostro mondo, come dicevo, ci crolla addosso in quel preciso istante, la famiglia è rimasta unita. Quante volte mi sono sentito dire da medici, da parenti, da amici: «Eluana, lo sappiamo, è messa com'è messa, ma tu come fai a non vivere? Vuoi buttare via la tua vita?». Cioè, l'idea di chi mi conosceva poco o nulla era che potevo mettere una certa distanza tra me e mia moglie e mia figlia. Per Eluana ci sono le cure, c'è qualche cosa, in ogni modo lasciamo lei in quel letto così noi possiamo pensare ad altro, pensiamo, appunto, a vivere. Ma quello è vivere? Dimmi se è vivere sapere che tua figlia sta prigioniera in un letto, che viene non accudita, ma maneggiata, che non è padrona di alcuna azione, ma può solo subire le cure, che non deglutisce, ma viene nutrita con un tubo. Come fai a vivere, dimmelo? Per me è barcamenarsi, è sopravvivere, è tirare a campare. Vivere è un'altra cosa, credo. E se sto ancora qui a ragionare e ad arrovellarmi, è perché so che quello in cui ci avevano costretto a entrare i medici era il mondo che non volevamo, e che dovevamo lasciare quanto prima. Per tornare nel nostro mondo, in quello che rimaneva: ma un mondo [...].
La sua morte sarebbe dovuta avvenire quella notte stessa, quando la strada le è impazzita davanti. Invece questo addio alla vita, tragico ma umano, feroce eppure comprensibile perché nel nostro dna e nelle nostre esperienze l'ala della morte è ben conosciuta, viene interrotto dalla medicina che non medica e dalla rianimazione che rianima a metà. E bisognava che quel cammino riprendesse, che Eluana ci salutasse e andasse dove il destino ha voluto. Ecco perché alla fine ho questo «master di vita estrema», perché noi Englaro ci siamo misurati con la morte. Tutti noi sappiamo che la morte fa parte della vita, ma quando ti ci misuri è tremendo: è definitivo.
Ma peggio della morte è la violenza. La violenza che subisci un po' ti disumanizza. Sei come sotto anestetico. L'impatto della morte è forte, ma poi finisce. Quando vedi tua figlia obbligata alle cure che mai avrebbe voluto, e tante volte ne avevamo parlato in famiglia, la senti violentata. E assieme a lei, siamo stati violentati noi genitori. Mi incoraggiavo a resistere pensando agli internati dei campi di concentramento. Se sono stati capaci loro di sopportare le azioni indegne degli esseri umani, forse ci riuscirò anch'io. Devo andare avanti, in questa disumanità mascherata da umanità, in questa medicina che non cura, ma sfascia le vite, in questo amore che non è amore, perché alle mani migliori che Eluana potesse avere in quel periodo e in quelle case di cura, e sono quelle di suor Rosangela, ho sempre preferito le braccia naturali della morte.
La maschera pacificatrice della morte è una maschera. Quando a Udine sono corso a vedere Eluana, mia figlia ormai senza più battito e respiro, uscita dalla clinica e portata all'ospedale, sapendo tutto quello che era successo, rivedendo in pochi attimi una sequenza inenarrabile durata diciassette anni, ho pensato che anche la sua morte era ridotta a una maschera, maledizione. Non sarebbe stata una maschera il 18 gennaio del 1992, sarebbe stato atroce, ma, ripeto, umano. A quanti poveri papà e mamma succede di restare orfani dei figli. Invece con Eluana è stato diverso. Hai strappato un corpo alla morte, ma ne risono rimasti brandelli. Hai creato la morte a brandelli. Hai dato a mia figlia un sogno artificiale di una vita artificiale. Ho intuito sin da subito in che viaggio aspro e fasullo, fatto non per l'uomo - ma per il medico, per la legge, per gli oltranzisti della religione che guardano molto in alto e si dimenticano troppo spesso della «finitezza» dell'esistenza - ci stai infilando [...].
Nel gennaio del 1994 ci dettero la prognosi-diagnosi del «non ritorno». Ci dissero: «Non ci sono più risposte né soluzioni». E adesso, che cosa posso fare? Chi è per la medicina la mia unica figlia? «È una non morta encefalica, non ci sono soluzioni e non ho risposte», mi spiega ancora il professor Massei. Morto è il contrario di vivo. «Non morto» è il contrario di che cosa? Ma non siete voi che avete creato questa situazione? «Noi facciamo di tutto, poi se va male, ed è andata male, che possiamo fare di più oltre quello che abbiamo fatto? Fattene una ragione». Ma non c'è una ragione. Non c'è per noi genitori. I genitori come noi non capiscono. E nemmeno nostra figlia capiva questi discorsi. Noi abbiamo accettato lei per quello che era, il purosangue, il cristallo, e adesso era diventata, come dicono loro, una non morta, e, quindi, come possiamo dire noi, una non viva. Si era chiuso il ciclo delle terapie riabilitative all'ospedale di Sondrio, dovevamo cercarci un altro posto. È finita dunque la riabilitazione che non riabilita. E allora che fai? Sì, c'era l'alternativa che suggeriscono a tanti genitori sfortunati e, spesso, spossati, esauriti da dolore, fatica, angoscia, genitori lasciati soli di fronte a se stessi. «Portatela a casa e lì…». E là, a casa, nel segreto, nel buio, nel silenzio, puoi fare ciò che vuoi, caro genitore. Curarla o lasciarla andare. Accudirla oppure no. Aspettare o favorire la fine. Ti lasciano questa possibilità. Sono generosi, sono umani, pietosi a dirti questo… E invece noi genitori abbiamo detto no [...]. «Mi avete fatto entrare voi in questo meccanismo, come ne usciamo?». Se non lo fai clinicamente, e hai visto quello che ci è costato, come lo fai? Arbitrariamente? I protocolli per una morte che cala alla fine dello stato vegetativo non ci sono. Li abbiamo dovuti creare noi Englaro, con i professori Carlo Alberto Defanti, Giandomenico Borasio e il primario di Udine Amato De Monte, dicendo grazie agli infermieri di Udine e alla casa di cura «La quiete». Ma immaginiamo che cosa accade se uno se la porta a casa. Devi cercare una complicità di medici e infermieri, devi cercare un'umanità che è ipocrisia, e devi fare i conti con la coscienza, se ce l'hai. Chi dà l'autorizzazione a un genitore di fare questo? Che senso ha per un medico dire che agisce in scienza e coscienza e codice deontologico se poi tu medico non dai una risposta alla situazione e dici: «Portatela a casa, aumm aumm»?
Mi spiego meglio. Ti dicono che tua figlia è un non morto encefalico e poi ti fanno i loro migliori saluti: questa che cos'è? È medicina, è umanità, è rispetto della vita e della speranza, o è una presa in giro? È come quell'incitamento a vivere, il suggerimento al «bisogna saper vivere». Significa chiudere il mondo fuori della porta di casa per fare quello che ti sembra giusto fare in solitudine. Tu medico mi crei le difficoltà per uscire da un «qualche cosa» che non esiste in natura, che hai voluto e creato tu, sostituendoti a dio nella vita e nella morte e poi, come se fossi dio, che mi dici? «Fai i conti con te stesso, io me ne sto nel paradiso della scienza medica» [...].
Ormai uno, in Italia, non può dire di non sapere, ormai l'esperienza c'è stata e funziona per tutti. C'è chi dice per me c'è Dio, non voglio staccare niente. C'è chi dice per me no. Ma il tema non è confessionale, non è scientifico, è di identità: io essere umano, che credo in Dio o nella materialità più pura, ho il diritto di dire no alle cure che non voglio o vuoi farmi vivere come un forzato? Per me la risposta è semplice, ma proprio nei giorni in cui Eluana moriva il discorso è diventato politico e partitico - e mai l'avrei immaginato - perché scattano altri meccanismi. Per esempio, quando Eluana a dicembre sta per essere trasferita nella casa di cura Città di Udine, che aveva accettato il ricovero e i protocolli della fine vita, viene emessa la direttiva del ministero del Welfare che blocca il trasferimento. Lo stesso ministro parla di «conseguenze inimmaginabili» se verranno adottati questi protocolli medici per dare seguito alla sentenza. E per me, che un politico si scateni in una mossa del genere è cosa da trasecolare [...].
Mistificano ancora oggi, parlano di eutanasia. Ma che c'entra? «Meno di chiedere niente, che cosa c'è?», quante volte ho detto questa frase… Ma la morte per fame e sete è una tortura, ribattono. E ancora una volta disinformano la gente, la tengono ignorante apposta. Le bottigliette d'acqua, il pane, che cosa c'entrano? Imbrogliano i semplici. Non sanno queste persone che Eluana non mangiava biscotti, ma una miscela di proteine, carboidrati e vitamine che viene immessa nello stomaco per ore e ore? Quello che volevamo era dire no a questo e, come accadeva ai vecchi della mia terra, ai vecchi di tutte le terre, di poter morire senza bere e senza mangiare, quando sei stanco. Quando la vita sta finendo, quando non ne puoi più, te ne vai e smetti di respirare.
Dire «no grazie» è possibile? Se mi avessero offerto una cura, avrei detto di no. Non ho bisogno di questo.
A un certo punto, questo sciame di voci contrarie e armate del pungiglione della menzogna mascherata da informazione e fede s'era così ingrossato da farmi invocare la presenza del presidente della Repubblica e del presidente del Consiglio accanto al letto di mia figlia: venitela a vedere, vedete con i vostri occhi come sta, giudicate, ascoltate i vostri sensi e le parole dei medici, avvicinatevi al silenzio che la circonda da quando c'è stato l'incidente. Sembrava che Eluana dovesse subire davvero l'ultimo oltraggio, quando c'è stata una corsa contro il tempo per approvare una legge e «obbligarla» a essere alimentata a forza… Non voglio più nemmeno pensarci, no. Ho solo pensato che facendo nascere l'associazione «Per Eluana» si può mantenere la memoria di questa tragedia e farla fruttificare, trasformandola in qualcosa di buono. So che ho dato fastidio a molti perché dall'inizio esigo una risposta concreta. Mi dicevano che non c'erano risposte, ma abbiamo dimostrato che la risposta c'era. Ora, con gli avvocati Campeis e Angiolini, resistiamo agli ultimi colpi di coda e, ci contiamo, restituiremo grazie alla legge qualcuno dei colpi bassi e perversi che abbiamo ricevuto.
Qualcuno mi dice che ho vinto. Mi fa ridere. Ma che cosa ho vinto?
EDITORIA: DI MAULA, PRONTI A SFIDA MERCOLEDI' IN EDICOLA TERRA
Si', sono pronto ad un'altra nuova sfida affascinante: al centro dell'interesse l'ecologia e, al centro dell'ecologia, la realta' umana ed ovviamente il rapporto tra l'uomo e l'ambiente. Cosi' l'ex-direttore del settimanale Left, Pino Di Maula, parla di 'Terra' primo quotidiano 'ambientalista europeo' in edicola mercoledi' prossimo 15 aprile. Affermatosi per l'ideazione e direzione di prodotti editoriali 'di nicchia' come Clorofilla.it che si guadagno' sul caso Cogne gli onori di 'Porta a Porta' e di iniziative di comunicazione per promuovere novita' legislative e campagne di sensibilizzazione targate Legambiente, Di Maula vuole portare in una 'sofferente' editoria "un nuovo modo di pensare originale, fuori dagli schemi, lontano dai dogmi - precisa - religiosi e ideologici dell'ultimo secolo: e' questa la mia sfida e della squadra". Non ditegli impossibile perche' da 'Il laureato' del '97 con la denuncia del 'business' degli psicofarmaci nelle scuole a
Clorofilla.it del 1998 da cui prese il via Clorofilla Film Festival, prima rassegna di cinema internazionale realizzata nei parchi italiani, con suggestive ed inedite storie di vita, anzi scelte di vita di 'barboni' di oggi e di ieri, "mi sono sempre mosso in questa direzione e per me e la mia squadra il riferimento, nella navigazione, sono le regole del corretto giornalismo, con un pizzico di sana provocazione". Non credente, non comunista, non verde, un po' di simpatia per i Radicali, quel che teme soprattutto e' "la fatuita', aggiunge il direttore di 'Terra', quotidiano dei Verdi. Poi basta? E le elezioni europee? "Il ceto politico di centro-sinistra e' cosi' mal ridotto, senza idee che - nota - non impressiona piu' nessuno. Diversamente dal potere del Vaticano e del suo braccio armato governativo". Coadiuvato da un valido comitato scientifico coordinato da Massimo Serafini e da una squadra di giovani cronisti, Di Maula assicura che in questa
ennesima sfida 'culturale' non solo editoriale, "mettero' tutta la passione possibile e tutta l'intelligenza collettiva di cui - afferma - ci potremo avvalere, consci che sono parole grosse in un mondo basato sull'annullamento del rapporto interumano. Anzi a volte fanno cosi' paura da provocare reazioni violente, come quelle di Berlusconi verso Eluana e Beppino Englaro, come quelle di chi non sopporta l'intelligenza irrazionale che origina dall'amore per l'altro, specie se e' diverso da se'". Insomma, Lei non e' cattolico e neanche catto-comunista? "Assolutamente, altrimenti non farei questi discorsi", conclude.

domenica 12 aprile 2009

LE OPERE DI JOUMANA HADDAD

Bibliografìa in arabo
* Il tempo del sogno, poesia, s.e, (1995)
* Invito a una cena segreta, poesia, Edizioni An Nahar, (1998)
* Due mani verso l’abisso, poesia, Edizioni An Nahar, (2000)
* Non ho peccato abbastanza, poesia, Edizioni Kaf Noun, (2003)
* Il ritorno di Lilith, poesia, Edizioni An Nahar, (2004)
* La pantera nascosta alla base delle spalle, poesia, Edizioni Al Ikhtilaf, (2006)
* In compagnia dei ladri di fuoco, interviste con scrittori internazionali, Edizioni An Nahar, (2006)
* Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 150 poeti che si sono suicidati nel ventesimo secolo, antologia poetica, Edizioni An Nahar, (2007)
* Cattive abitudini, poesia, Edizioni ministero della culture egiziana, (2007)
* Specchi delle passanti nei sogni, poesia, Edizioni An Nahar, (2008)

Bibliografìa in lingue straniere
Alcuni libri di Joumana Haddad
* Damit ich abreisen kann, 2005, Lisan Verlag, Bâle, Svizzera.
* Allí donde el río se incendia, 2005, Ediciones De Aquí, Málaga, Spagna, 2006, Fundación Editorial El Perro y la Rana, Caracas, Venezuela/ 2007, Editorial Praxis, Messico, Messico 2007.
* Cuando me hice fruta, 2006, Monte Ávila Editores, Caracas, Venezuela.
* El retorno de Lilith, 2007, Editorial Praxis, Messico, Messico.
* Le retour de Lilith, 2007, Editions L’Inventaire, Parigi, Francia.
* Liliths Wiederkehr, 2008, Verlag Hans Schiler, Berlino, Germania.
* Invitation to a Secret Feast, 2008, Tupelo Press, Vermont, Stati Uniti.
* Madinah, city stories from the Middle East, 2008, "Comma Press", Manchester, Inghilterra.
* Adrenalina, 2009, "Edizioni del Leone", Venezia, Italia.

Bibliografìa in italiano
* in Parola di donna, corpo di donna, 2006, "Mondadori" (antologia curata da Valentina Colombo).
* in Non ho peccato abbastanza, 2005, "Mondadori" (antologia curata da Valentina Colombo).
* Adrenalina, 2009, "Edizioni del Leone" (traduzione di Oriana Capezio).
l’Unità 12.4.09
Premier a reti unificate
Monologhi dalle rovine
di Natalia Lombardo


Nella tragica settimana Berlusconi ha comunicato direttamente con gli
italiani dalle tv. Rai e Mediaset ne moltiplicano l’immagine. E la popolarità

Tempestivo, determinato a intraprendere in Abruzzo il «metodo Napoli», gestire in prima persona l’emergenza terremoto passo passo, vestire i panni del tecnico, Silvio Berlusconi nella settimana della tragedia si è rivolto solo alla gente attraverso la moltiplicazione mediatica. Dagli sfollati sopravvissuti ai telespettatori, arrivando così agli elettori. Per stracciare ogni filtro ha comunicato solo in tv, onnipresente e dilagante in ogni tg Rai e sulle sue reti Mediaset, fino alla celebrazione stucchevole che ne ha fatto Matrix, su Canale5, nel venerdì Santo del funerale.
Un’intervista telefonica del conduttore che ha sostituito Enrico Mentana, Alessio Vinci. Parole e racconti esaltati dalle immagini ripetute a loop, a rullo continuo: Silvio che prega, che abbraccia una signora che ha perso i suoi cari, che accarezza un ragazzo, che si mischia con i volontari della Protezione civile e che si tira fuori dalla fotografia immobile e granitica delle figure di Stato. Dalla (sua) tv ripete che offre tre delle sue case agli sfollati, per mettersi alla pari con gli italiani a cui ha chiesto un atto di generosità, nascondendo il metro di paragone fra appartamentini sulla costa e le sue Ville accomodate in luoghi ameni.
È l’esaltazione di un culto della personalità messa in atto sulle televisioni di sua proprietà. Qualcosa che, forse, tracima in modo sgradevole da quella che, tutto sommato, è apparsa una reale commozione del premier e una immedesimazione nel dolore collettivo.
Ma è stato proprio Berlusconi, a sorpresa, ad avere cancellato le mediazioni fin dalla prima sera. Quando, dopo il primo consiglio dei ministri lunedì 6, mentre i cronisti aspettavano a Palazzo Chigi l’annunciata conferenza stampa, il premier ha scelto il messaggio a reti unificate, di fatto, nella ormai sempre più consolidata Raiset, dove i confini proprietari fra tv pubblica e privata sono slabrati. Le doppie telefonate, a Matrix e a Porta a Porta, per comunicare agli italiani che Lui era sul campo, aveva rinunciato ad andare a Mosca per volare a L’Aquila.
Una costante, dal giorno dopo. Sottolineata dalle conferenze stampa quotidiane, oculatamente previste in orario per il Tg1 e gli altri, mostrandosi come «l’uomo del fare» in maglioncino, con mappe e carte e casco accanto al nuovo angelo custode Bertolaso; annunci e correzioni sulle New Town, spot utili a far pre-digerire il Piano casa. Di mattina parla ancora a Canale5 con Belpietro (in corsa per il Tg1) e, da Roma, si esalta sul (suo) sondaggio che vedrebbe schizzare la sua popolarità oltre il 70 per cento, nonostante le gaffes delle tendopoli, cliché notati ormai solo dai giornali stranieri.
La prostrazione mediatica si ripete anche su Rai1: La Vita in diretta venerdì dispensa una lunga intervista con tono enfatico e compreso. E ancora ieri in tutti i tg l’immagine fissa di Silvio ha lanciato messaggi, nonostante sia entrata in vigore la par condicio. Ma l’uomo del «ghe pensi mi» è sfuggente quando deve associarsi a una denuncia del Capo dello Stato sulla responsabilità di costruttori. E oggi sarà di nuovo lì: dalle tendopoli alle tavole del pranzo di Pasqua degli italiani.

l’Unità 12.4.09
«Leader messianico e populista come era Peron»
Intervista a Alessandro Amadori di Natalia Lombardo


Il “fenomeno messianico” Berlusconi non è razionale, è pre-politico: bypassa tutte le mediazioni e entra in rapporto diretto con l’opinione pubblica. E i media si appiattiscono in un monologo, un reality show»: Alessandro Amadori, psicologo, semiologo e fondatore di Coesis Research; sulla strategia comunicativa di Silvio Berlusconi nel 2001 scrisse il libro «Mi consenta».
Secondo lei la sovraesposizione mediatica sul dramma del terremoto è stata voluta dal premier?
«A me è sembrato che Berlusconi abbia manifestato una parte reale del suo modo di essere. La parte che chiama e riesce a instaurare il contatto messianico con l’opinione pubblica. Esiste la categoria dei leader messianici, un leader che bypassa i filtri, supera i corpi intermedi di mediazione e cerca di entrare in risonanza diretta col proprio popolo. È la base del populismo. Questa volta credo Berlusconi sia stato spontaneo, non voluto o costruito. È così».
Quindi andare fra la gente al funerale, piuttosto che fra le autorità, non è stato un calcolo preciso?
«Lo escluderei. Esiste un meccanismo, sottovalutato, che porta al lungo successo di Berlusconi: questa capacità di risonanza diretta. Un grande punto di forza per lui, ma che espone a rischi di una deriva personalista, più che autoritaria. Non lo immagino aspirante dittarore».
Già ma il volere più poteri per il premier, il vivere il Parlamento come un freno, non sono rischi?
«Sì, ma non tanto per volontà autoritaria, quanto per questo rapporto messianico, diretto».
Vuol fare tutto da solo?
«In un certo senso sì. È una forma di empatia portata all’estremo, e questo lo rende insofferente per i processi di mediazione. Ma non lo accomunerei a Mussolini, a Stalin o a Hitler, quanto a leader come De Gaulle e Peron, soprattutto quest’ultimo. Berlusconi è più impulsivo che machiavellico».
Chi lo conosce dice che non fa niente a caso...
«Forse sì, ma più nella politologia classica che quando è in mezzo alla gente. In questo è davvero allievo di Bossi, si somigliano. Insomma, al funerale mi è sembrato un leader popolare, anche populista, con un rapporto stretto, diretto e reciproco con la sua opinione pubblica».
Berlusconi capisce la gente anche quando fa le battute del tipo: una vacanza “in campeggio” o “al mare”?
«Sì. anche se nel voler sempre sdrammatizzare gli sfuggono battute distoniche. Ma la gente gliele perdona, subito dopo il meccanismo si rimette in moto. Però nessun altro leader ha questo rapporto con i suoi elettori. Franceschini, infatti, oltre alla gravità del momento, ha capito che sarebbe stato fuori luogo attaccare o ironizzare su Berlusconi, semmai bisogna rifletetre su questo rapporto».
Controcampo: le televisioni alimentano il culto della personalità?
«Ho notato un forte appiattimento dell’offerta televisiva. Tutto è raccontato nello stesso modo, senza capacità di elaborazione, quasi in “presa diretta”. Ecco, i media hanno seguito il format del reality show. Un monologo visivo senza pluralismo delle voci, tutti gli altri sono scomparsi. Capisco che per le tv è difficile sottrarsi al fascino polarizzante di Berlusconi, ma la scena, oggi, è un monologo».

l’Unità 12.4.09
Radiografia di un terremoto catodico
L’Aquila, il premier e le trasmissioni tv
di Enzo Costa


Certo, rispetto al Premier che, in piena crisi Alitalia, plana con l’elicottero di Stato sulla Beauty Farm Méssegué, meglio il Premier che, in pieno disastro terremoto, plana su L’Aquila. E, in barba a ogni allergia al Capo, uno si impegna ad apprezzare quel segno di presenza sopportando i segnali di presenzialismo che lo corredano: le visite agli sfollati con apposito look informale che fa tanto "uomo del fare"; le incongrue parole sulla Pasqua da trascorrere al mare e sulla crema solare da spalmarsi (accolte bene dai destinatari, a triste riprova di una sintonia tra Eletto ed elettori fondata sul "battutese" televisivo spacciato per anni dal primo ai secondi); le conferenze stampa quotidiane, rubrica fissa che ricalca analoghi tormentoni partenopei (sul luogo del disastro ambientale), a cavalcare l’onda emotiva e (forse) i sondaggi positivi, con sfoggio di mimica telegenica atta a raffigurare la tosta operatività del Leader, celebrata per iscritto dai cronisti embedded, da Minzolini in giù.
Più in generale, ci si adatta ad accettare la cannibalizzazione catodica della tragedia: con inevitabile (ma perché?) indotto pre e postprandiale a base di Cucuzza, Sposini e D’Urso, reduci e prossimi ad efferate gossipate ma intenti ad ora a focalizzare il lato umano del dramma, a volte anche umanamente, con le classiche retoriche a fin di bene, e di propaganda. Vero, le Carfagna e Gelmini che la sera dopo il sisma bivaccano a "Matrix", non sono digeribilissime. E ancora meno nelle successive passerelle umanitarie in favore di telecamera, come il resto del battaglione ministeriale in missione superflua immortalato dai tiggì.
Mentre il Vespa del "Porta a Porta" speciale della prima sera che, dopo un sensato sorvolo sul luogo della catastrofe, si strugge su un peluche spuntato fra le macerie, ti imbarazza un po’: non per la scena in sé, legittimamente patetica, ma perché ti evoca il cinico brandire, da parte del conduttore, altri tragici oggetti (lo zoccolo di Cogne, la bicicletta di Garlasco). Ma è ad un punto preciso di quel "Porta a Porta", che la tua resistenza cede: quando, presenti i ministri Maroni e Matteoli (e soffocata la domanda spontanea "ma la sera del terremoto non dovevano essere a lavorare, invece che in tivù?"), il Premier intima via telefono a Maroni di provvedere all’invio di nuovi vigili del fuoco.
Delle due l’una: o gliel’aveva già detto, e lì recitava a mo’ di reality; oppure, invece di interloquire coi ministri nei luoghi deputati, lo faceva alla tele per fare più scena. In ogni caso, una brutta scena. Insopportabile.
enzo@enzocosta.net www.enzocosta.net

l’Unità 12.4.09
Conversando con Edoardo Sanguineti
Poeta e scrittore
«Questa Italia scoraggiata è finita nelle mani dell’uomo delle tende azzurre»
intervista di Pietro Spataro


La sinistra scomparsa: «C’è stata una generazione che ha voluto cancellare la storia in modo dissennato»
Il potere di Berlusconi: «Con le tv nasce un avveduto affarista che si è comprato l’Italia e fa di tutto per dominarla»

Il poeta e l’operaio: «Per me è cambiato tutto quando, giovane borghese, conobbi un vero operaio. Capii che era parte di un altro mondo. Quell’operaio aveva il fucile ed era un partigiano. Allora, a Torino, sono diventato materialista».

In tv continuano a scorrere le immagini del disastro dell’Abruzzo. Le case sventrate, le chiese ferite, le bare allineate, gli sfollati spersi. «È terribile», dice Edoardo Sanguineti. «È terribile vedere come certi edifici siano finiti in briciole e abbiano portato la morte. Eppure dovevano essere garantiti dal rischio sismico...».
Si ferma un attimo poi aggiunge con tono polemico: «E davanti a questa grande tragedia c’è chi cerca di ricavare consenso dalle tende azzurre...». A Edoardo Sanguineti, poeta e saggista acuto e ironico, Berlusconi non è mai piaciuto e non lo nasconde. Non gli piace per niente, oggi, quella continua esibizione di sé tra le rovine dell’Aquila. Proprio il terremoto - il segno di questa Italia vulnerabile e sofferente - è il punto da cui partiamo per ragionare su di noi e sul futuro.
Allora, Sanguineti un disastro ineluttabile quello dell’Abruzzo?
«Non credo proprio. Diciamo che non c’è stato controllo. Come è stato possibile che l’ospedale, la prefettura, la casa dello studente siano venuti giù in quel modo? Come è possibile che chi era lì per studiare non abbia avuto la minima garanzia di sicurezza? Che fine hanno fatto le leggi sul rischio sismico? È tutto terribile e dimostra a che livello di degrado siamo arrivati. Meno male che di fronte all’emergenza almeno una certa risposta di solidarietà c’è stata...»
L’emergenza mostra sempre il lato migliore degli italiani. Ma secondo lei nella normalità l’Italia di oggi non è invece cinica e indifferente?
«Io direi che questa Italia è molto scoraggiata. È caduta ogni fiducia, ormai si dice solo “spendete e spandete”. Ma questo scoraggiamento va oltre i nostri confini. La globalizzazione infatti sta mostrando i suoi effetti perversi. C’è un mondo pieno di proletari che non sanno di esserlo e la coscienza di classe si è persa. Ormai la pratica sociale più diffusa è il mobbing».
Eppure solo qualche anno fa ci dicevano che il capitalismo era trionfante...
«E invece nel momento di massimo splendore il capitalismo entra in crisi. Ma attenzione, perché vedrete che reagirà e lo farà con durezza. Però, possiamo dirlo: aveva ragione Marx. Basta vedere come nelle nostre città si aggirano masse disperate e ricchi spaventosamente ricchi per i quali non ci sono limiti. Rileggere Marx, questo dobbiamo fare se vogliamo riorientarci. Dico Marx, ma anche Gramsci e Benjamin: credo possano ancora aiutarci».
Qualcuno dice che è fallito un modello, quello del consumismo. È d’accordo?
«Certo. Ormai siamo cittadini non più di una Repubblica fondata sul lavoro ma di una Repubblica fondata sulla concorrenza spietata. Quando il consumo è tutto la Costituzione può essere rovesciata come un guanto. È quel che dice il nostro premier».
Insomma ha vinto Berlusconi?
«Sì, ha vinto violando, tanti anni fa, le norme sulle tv. Lì è nato un avveduto affarista che costruisce il suo apparato di persuasione. La tv non serve più a insegnare a leggere e a scrivere come faceva il maestro Manzi, né a formare una coscienza critica. La tv si occupa di questioni di letto, di grandi fratelli. E allora Berlusconi diventa un modello. Appunto: è l’uomo che ricava consensi dalle tende azzurre del terremoto. Le tende azzurre sono il simbolo del berlusconismo. Si è comprato il paese e utilizza ogni mezzo per dominarlo: il suo è un modello nazional popolare».
Che arriva persino all’uso delle ronde contro gli immigrati...
«Anche le ronde sono espressione di un paese arcaico. Un paese che non è più in grado di sopportare la presenza di chi non è noto. Non si tollera lo straniero e allora si occupa il territorio. È un elemento spaventoso della nostra storia recente».
Un vero disastro. E la sinistra dov’è finita?
«E chi lo sa... La sinistra è scomparsa in tutte le sue forme. E non solo nei suoi tentativi di trasformazione dopo gli errori di Occhetto. C’è stata una generazione dissennata che ha lavorato per cancellare la propria storia. E Berlusconi infatti si presenta come il salvatore dal comunismo. All’opposizione dice: arrendetevi. Tutto questo fa impressione».
Insomma non c’è speranza?
«Ma no, mantengo sempre una disperata speranza nella sinistra. Ma devo dire che è sempre più flebile».
Qualche segnale positivo ci sarà pure. Per esempio, i ragazzi dell’Onda. O il sindacato. Non sono un po’ di luce in mezzo al buio?
«Il sindacato sì. La Cgil sì e non solo per la bella manifestazione del Circo Massimo. L’Onda invece no, assolutamente. Ho visto in quel movimento una spaventosa depoliticizzazione, non sanno proprio quel che vogliono. C’è solo tanto individualismo».
Per fortuna che c’è Obama allora. Persino Ingrao dice che è l’unica grande novità...
«Non sono d’accordo con Ingrao. Certo Obama mica è da buttar via, un nero alla Casa Bianca, o un abbronzato come dice qualcuno, è una novità. E ci sono elementi positivi nei suoi primi passi. Anche una certa spinta utopica. Il punto è: chi rappresenta e quali classi? Non dimentichiamo che l’America non ha mai conosciuto la lotta di classe».
E se invece Obama riuscisse laddove la sinistra ha fallito, cioè cambiare il mondo?
«È possibile, è possibile. Ma io non ci credo, non credo che l’America cambierà mai. Un paese nato con una Dichiarazione di Indipendenza così arcaica e conservatrice dove può andare? Per me Obama non è una speranza. L’unica speranza resta il comunismo».
Il comunismo è la sua ossessione...
«Ma che cosa c’è d’altro? Il mondo è precarizzato, l’uomo è ridotto a merce. Quando vai in banca ti rendi conto che chi ti serve dietro lo sportello è uno sportello. È un essere docile che obbedisce per salvarsi. Se questo è il mondo bisogna impegnarsi e non solo con le manifestazioni o con le notti bianche. Ho spiegato due anni fa, proprio in occasione di un compleanno di Ingrao, come si diventa materialisti storici, come ci sono diventato io...»
E come ci si diventa?
«Con gli operai. La mia storia di materialista comincia con un operaio. Per me, bravo ragazzo borghese, tutto è cambiato quando ho conosciuto un operaio per la prima volta. Eravamo in guerra, lui si è fermato e ho capito che era parte di un altro mondo. L’ho visto poi con il fucile in spalla il giorno della Liberazione: l’operaio era un partigiano. Abitavo a Torino, tutto è cominciato da lì».
Un verso della sua raccolta “Postkarten” dice: “la poesia è ancora praticabile probabilmente”. In un mondo così a che serve la poesia?
«Serve a scrivere poesie che guardano il mondo con ottica comunista. Guardano il mondo, lo raccontano, lo interpretano».
Qual è il poeta che ha capito meglio il carattere degli italiani?
«Sicuramente Dante anche se era un feroce reazionario. Lui ha capito che il mondo era cambiato, che la borghesia era in ascesa, ha capito che la storia aveva avuto una svolta irreparabile. Insomma ha capito meglio di altri il disordine del mondo».
Sanguineti, qual è il leader della sinistra a cui si è sentito più legato?
«L’ultima persona sana è stato Berlinguer. Poi certo la sua impresa è fallita. Ma è fallita perché sono arrivate le armi. Hanno rapito Moro, sono cominciate le sedute spiritiche e il progetto si fermò».
Quale lezione ha lasciato Berlinguer?
«Berlinguer diceva allora una cosa semplice e forte: far soldi non è lo scopo dell’esistenza. C’è ancora qualcuno che lo dice? Mi pare di no e infatti guardate dove siamo finiti».
Ancora comunista, ancora avanguardista: insomma fedele a se stesso?
«Una volta mi chiesero quale fosse la mia migliore qualità e quale il mio peggior difetto. Risposi: l’ostinazione. Mi ostino, come Berlinguer, a dire che non si vive per accumulare ricchezza e penso che la nostra Repubblica è fondata sul lavoro e non sul consumo. Qui invece ti dicono grazie solo perché consumi. E allora io ripeto: no grazie. E mantengo la mia ostinazione».
Ha descritto un quadro fosco: quindi è pessimista per il futuro?
«Userei questa espressione: ottimismo catastrofico. Certo che è un dovere essere ottimisti, come si fa. Però, devo essere sincero: non scommetterei un soldo sull’ipotesi che il mondo così com’è duri altri cinquant’anni. Forse ce ne andremo su Marte. Ma costa troppo, vedrete che non si farà».

il Riformista 12.4.09
L'immaginazione (non quella prevista) è giunta al potere
di Luca Josi


Il sospetto è che dove Berlusconi è architetto altri giochino col Lego, dove lui immagina nuove strade questi recitino mantra di circostanza

Che nausea orrenda questi mestatori di sciagure. Avete presente quelle facce ispirate e contrite che qualche feuilleton mediatico vi propina? Quelle che imprecano contro il dolore degli uomini, la disperazione dell'ingiustizia, la maledizione della disgrazia ma se li ascolti con calma, se guardi la maniera della loro sofferenza ti sembra di leggere la trama di una recita, lo spartito di un concertino barocco dove ognuno suona le corde del suo accordo lezioso?
Perché la ragione di quello strazio che avrebbe origine nella tragedia umana ti sembra sostituibile. Cioè parrebbe l'Uomo al centro della loro preoccupazione ma intuisci presto che l'uomo è sempre il mezzo di una propaganda sciacalla pronta a rimpiazzarlo se il programma dello spettacolo cambia.
Una volta è il popolo, un'altra la legalità, un'altra ancora l'ambiente, poi il reietto, poi il diverso, poi, poi, poi. Poi una volta che il popolo va dove non dovrebbe andare ti spiegano che la Società civile ha bisogno di essere civilizzata; la Gente, evoluta; e la legalità, se disturba loro, opacizzata.
Il cataclisma lo bramerebbe governativo in filigrana così da imbastire un altro processino divino, buttando sul proscenio pullman di sfollati, disperazione vera, spalmati di colonne sonore struggenti, di montaggi sapiente per giungere rapidamente a sentenza.
In realtà il loro terremoto, ciò che li fa tremare dentro, è Berlusconi. Non l'Aquila, l'Abruzzo, i senza tetto o i cassintegrati, i disoccupati, gli immigrati tutti semplici vuoti a perdere da riempire e shakerare col veleno di turno. Il problema non sono le vite che non ci sono più, il dramma del presente e l'attrezzarsi al futuro ma il terrore, dopo Napoli, che un'emergenza venga ribaltata in virtù dal giocoliere di Arcore.
Il loro incubo è Berlusconi e il suo talento del consenso. Urlano a Berlusconi la rabbia per ciò che non è riuscito a loro. Il matrimonio, consensuale, con la maggioranza del Paese.
Perché lui è più bravo di loro e in fondo ha tutto quello che loro vorrebbero avere.
E quindi è tutto un no. Perché vogliamo le ricostruzioni ma non vogliamo il Piano casa, perché vogliamo la ripresa ma non vogliamo la società dei consumi, perché vogliamo il domani ma per favore non preparatelo oggi. Perché il ponte costa troppo, è rischioso, è inutile e ci teniamo le barchette, le navette e tutto il resto.
Ma non c'è storia che non sia nata dall'aver provato, tentato, riprovato e sbagliato nel costruire, nel fare, nell'inventare. Rinascimento? Siete matti? Vie nuove, palazzi nuovi, abbattimenti, stravolgimenti, cafonerie nuoviste, bizzarrie principesche, spericolatezze tecnologiche? Teniamoci il Medioevo; Colombo e le Nuove Indie? Ma con tutte le strade che ci sono da scoprire e migliorare a cavallo! O a piedi; Kennedy e la Luna? La Luna? Ma siete impazziti quando da Sacramento a Philadelphia è ancora un'Odissea!
Allora non vanno bene le Nuove città? Squadernate i vostri urbanisti, le vostre intelligenze, i vostri visionari e mostrate un'idea alternativa (tipo quartiere Zen); raccontateci nuove pratiche di imbragatura, di come si tiene su una cupola del Valadier, della riqualificazione dell'Italia a modo vostro con meccanismi economici percorribili e finanziabili.
Non vanno bene le nuove case antisismiche perché sgraziate? Disegniamole meglio. Non vanno bene le case ecocompatibili governative? Scegliamo quelle d'opposizione. Non va bene l'immediatezza dell'azione? Meglio un crono programma Irpino?
Ma perché tra un'arringa e un'inchiesta qualcuno insomma non ci spiega che farebbe lui al suo posto?
Il sospetto è che dove Berlusconi è architetto altri giochino con Lego e Attak, dove lui immagina nuove strade questi recitino mantra di circostanza.
In realtà dopo aver provato a seppellirlo di ogni cosa - tra Tribunali e conflitti - lo riconoscono più forte che prima. Consegnandoci un monopartitismo simmetrico - pro/contro Berlusconi - e regalandogli l'imprevisto ruolo di progressista. Perché così si definisce chi sperimenta e adegua l'oggi al tempo della sua tecnica possibile, alle sue esigenze, ai costumi delle maggioranza. E diventa statista chi guida una nazione nella sua catastrofe ribaltandone la difficoltà in opportunità.
Col suo paternalismo efficiente e accogliente regnerà a lungo e finalmente anche i suoi oppositori entreranno nella storia: avranno fatto nascere un nuovo, meritato, Eroe d'Italia.
L'Immaginazione è andata al potere. Ma non è la loro.
Ben gli sta e, visti i critici, speriamo che duri.
luca@josi.it

l’Unità 12.4.09
Il fatalismo e l’anima, il bivio del Pd
di Conchita de Gregorio


«Spassionatezza»: è il sentimento che prova oggi l’elettorato di centrosinistra. Nel saggio «Un’anima per il Pd» Luigi Manconi parte da qui per suggerire la strada da seguire: ogni scelta maggioritaria non sconfessi la minoranza

Dico subito che sono entusiasta del libro di Luigi Manconi Un’anima per il Pd. Questa perciò non è una recensione tecnica, ammesso che ne esistano (non credo). È una recensione militante, è un invito a leggere, condividere, prestare, eventualmente fotocopiare e comunque far circolare anche a memoria e a voce le domande che Manconi pone, le sue risposte. Credo che ogni discussione sul futuro del Partito democratico, del ruolo e del senso dell’opposizione ad un’idea maggioritaria di governo (non tanto e non solo a Berlusconi: al berlusconismo e ai suoi mille rivoli) debba ricominciare da qui. Provo a spiegare perché.
Il sottotitolo del libro (ed. Nutrimenti, 152 pagg. 12 euro) è «La sinistra e le passioni tristi». La «spassionatezza»: cioè la coscienza di ciò che si è perduto in energia ed emozione, il rincrescimento per il declino di quel che è stato forte, il rimpianto di ciò che si è consumato. Quella specie di fatalismo che nelle conversazioni comuni si nutre dell’intercalare del «tanto, ormai». L’oggetto di cui si tratta è l’identità del Pd, la sua anima. Ce l’ha un’anima il Pd? È, sarà capace di riempire quel senso di vuoto e di sgomento che si impadronisce dei suoi elettori ogni volta che i parlamentari e i dirigenti sono chiamati ad esprimere una posizione chiara e netta su un tema che ci riguarda e ci appassiona? Vediamo.
LA MASSIMA AGENZIA ETICA
Al centro del libro sta incardinato un capitolo dal titolo «la loro morale e la nostra». Trascrivo. «La sinistra italiana nel suo complesso sembra essere priva di una propria e autonoma etica. Per eccesso di pragmatismo o ridondanza di retorica, per debolezza di carattere o per infantilismo sentimentale la sinistra tutta risulta afflitta da un complesso di inferiorità nei confronti delle culture e delle morali più fortemente strutturate. In Italia quelle di ispirazione cattolica». La chiesa come Massima Agenzia Etica. Su questioni come fecondazione assistita, testamento biologico, interruzione di gravidanza ma anche immigrazione e intolleranza etnica, impoverimento di nuovi gruppi sociali. Nel tempo, dalla scomparsa della Dc in poi, la Chiesa è divenuta Esclusiva Autorità Morale: rafforzandosi in questo ruolo proprio mentre, per paradosso, gli stili di vita dei cittadini anche cattolici si discostavano sempre più dalla dottrina.
Ecco quindi che anche tra cattolici c’è chi interpreta la «morale pratica» e chi ripropone quella confessionale. Le posizioni di Ignazio Marino e Paola Binetti sul testamento biologico, per esempio. Dunque che fare? Scegliere una via ed escludere l’altra? No, dice il capitolo intitolato «perché non posso vivere senza Paola Binetti». I codici morali debbono convivere in un costante palestra di confronto. La scelta, di volta in volta da compiersi a maggioranza, non comporterà la sconfessione dell’opzione minoritaria: affermerà piuttosto che ciascun valore è in sé assoluto e non suscettibile di negoziati.
Manconi indica la via dell’inclusione. Un «partito grande a struttura coalizionale». Un partito come una famiglia allargata: coi nonni, i nipoti, i figli acquisiti, i fratelli e i cognati. Il ragionamento si rivolge ora alla Sinistra, ai radicali e ai verdi, all’Italia dei valori, al centro. Con notazioni anche molto critiche ma con una visione prospettica alla quale, francamente, non si vedono alternative se l’obiettivo è (sempre che l’obiettivo davvero sia) quello di costruire una forza democratica capace di governare il Paese. L’orizzonte è quello del «bene possibile» (molto meglio del «male minore»): tarare le aspettative sulla base delle risorse a disposizione. Partecipare a un destino condiviso e costruire un’identità comune sulla base delle scelte, attraversando le incertezze e le paure. Sulle cose, sui fatti della vita.

IN CERCA DI UNA VIA
L’autore. Luigi Manconi (nato a Sassari il 21 febbraio 1948), commentatore per l’Unità, è professore di Sociologia dei fenomeni politici allo Iulm di Milano.
La proposta. Nel suo nuovo libro «Un’anima per il PD. La sinistra e le passioni tristi» (Nutrimenti, pp. 152, euro 12) cerca risposta a questo interrogativo: come focolarini, comunisti, riformisti, ecologisti, cattolici popolari, radicali, extraparlamentari, socialisti, Partito umanista, Opus Dei, devono stare dentro e intorno al Partito democratico.
L’analisi sulle Br. L’opera precedente era «Terroristi Italiani. Le Brigate Rosse e la guerra totale 1970- 2008» (Rizzoli, 2008).


Corriere della Sera 12.4.09
A un anno dalle politiche il Pd perde un voto su tre
di Renato Mannheimer


Attratti da Fini Il partito di Franceschini è sceso al 24-25%: voti in partenza verso l’Idv ma anche il Pdl, grazie all’attrazione esercitata da Fini

Sono trascorsi esattamente dodici mesi da quando, nel­l’aprile 2008, si è votato per le politiche. Cosa faremmo og­gi se si dovesse rivotare? Un quesito del genere, posto qualche giorno fa ad un campione di italiani, mostra, forse più di ogni altra considerazione, quanto l’elettorato sia potenzialmente mobile e quanto lo scenario politico sia soggetto a mutamen­ti, anche in tempi rapidi. Quasi il 20% della popolazione, infat­ti, dichiara che muterebbe il proprio comportamento rispetto ad un anno fa. La quota maggiore è rappresentata da chi dice che se fosse chiamato oggi a votare si rifiuterebbe, rifugiando­si nell’astensione.
Si tratta dei delusi dalla politica, di chi ha maturato in que­sti mesi la disaffezione nei confronti del partito votato e/o, spesso, dell’intero sistema politico. Questo segmento di citta­dini è più presente tra i residenti nelle zone meridionali che, come si sa, sono sempre tendenzialmente più mobili. Ma la caratteristica più significativa dei «delusi» è il loro orienta­mento politico. La decisione di astenersi, infatti, è più diffusa tra chi nel 2008 aveva votato per il centrosinistra e, in partico­lare, per il Pd. Più del 15% degli elettori dell’anno scorso per Veltroni dichiara oggi di volersi astenere. Ma, per misurare la perdita complessiva subita dal Pd, a costoro va aggiunto un altro 14% che afferma che, in caso di elezioni, opterebbe co­munque per un altro partito.
Ciò conferma quanto emerge dalle analisi sulle intenzioni di voto, che vedono come tratto caratterizzante il crollo del Pd e il successo del Pdl. Dal 33,1% ottenu­to l’anno scorso, il partito ora gui­dato da Franceschini è sceso oggi al 24-25%. Come si è detto, una buona parte dei votanti di allora si asterrebbe. Ma molti altri sce­glierebbero forze diverse: soprat­tutto l’Idv di Di Pietro, ma, in cer­ti casi, il Pdl, specie grazie all’at­trazione esercitata di Fini su una quota crescente di ex elettori del Pd.
All’andamento negativo del Pd si contrappone il trend posi­tivo del Pdl. Passo dopo passo, Berlusconi ha conquistato por­zioni sempre più ampie di elettorato, sino a giungere al 42-43%. Le aree di maggior successo sono ancora quelle deli­neate dalle elezioni dell’anno scorso: il Sud, i lavoratori auto­nomi, i meno giovani (tutte categorie nelle quali, non a caso, il Pd ha visto le erosioni maggiori) e, specialmente, le casalin­ghe. Ma si tratta di mere accentuazioni: l’ampiezza del consen­so è tale da rendere il Pdl un partito trasversale, presente in misura significativa in tutti i settori demografici e socioecono­mici.
A questo segmento di elettorato, per così dire «certo», si può affiancare il mercato potenziale, costituito da chi, pur non scegliendo per ora il Pdl, afferma di prenderlo comunque in considerazione per un eventuale voto futuro. Si tratta di un altro 13% di elettorato, situato perlopiù tra gli astenuti, gli in­decisi e i votanti per la Lega.
Quest’ultima si conferma al tempo stesso il principale allea­to e il maggior concorrente di Berlusconi, quantomeno sul piano della raccolta dei consensi elettorali. Se il Cavaliere riu­scisse a conquistare parte del proprio elettorato potenziale— sottraendolo soprattutto a Bossi — raggiungerebbe l’obiettivo del 51%, più volte annunciato al congresso. Ciò che spiega in larga misura le frizioni emerse proprio in questi giorni tra Ber­lusconi e il leader leghista.

Repubblica 12.4.09
Ma oltre l’emergenza incombe il futuro
di Eugenio Scalfari


Lacrime lacrime lacrime. Composte, represse, trattenute, a volte singhiozzanti, a volte silenziose in lunga riga sulle guance da occhi che fissano il vuoto. Ma ora, in questa Pasqua dolente, non è più tempo di lacrime che non siano strettamente private. Ora è tempo di decisioni rapide e sagge e di pubbliche assunzioni di responsabilità.
Siamo un paese capace di mobilitarsi e di dare il meglio di sé nell´emergenza, sedendosi poi su se stesso nei tempi lunghi. Accade addirittura che lo sguardo lungo verso il futuro si addica di più alle famiglie che al potere pubblico e alle istituzioni. Dovrebbe avvenire il contrario ma non è così, non in Italia.
Prendete il piano casa voluto dal governo. Al principio fu una proposta avventurosa di Berlusconi per rilanciare l´industria delle costruzioni: il 20 per cento di cubatura in più concessa a tutti i proprietari di case, in città, nei centri storici, nelle campagne. Le sovrintendenze costrette al silenzio-assenso con trenta giorni di tempo per opporsi. I privati autorizzati a iniziare i lavori con la semplice autocertificazione firmata dal professionista incaricato di dirigere i lavori. E sgravi fiscali per tutti.
Poi le Regioni bloccarono il progetto, lo ridimensionarono escludendo le città e le aree vincolate al rispetto paesaggistico, introdussero vincoli speciali per le zone a rischio sismico.
Adesso, dopo il terremoto d´Abruzzo, quel piano è da buttare. L´emergenza ha riproposto il problema delle scuole fatiscenti (San Giuliano di Puglia insegni) e dei rischi naturali. Non siamo soltanto la terra ballerina dei terremoti, ma anche la terra dei torrenti e dei fiumi senza argini, secchi d´estate e devastanti d´inverno; la terra dei vulcani non spenti; la terra delle montagne franose; lo "sfasciume pendulo" che incombe sulle sottostanti marine.
Un piano casa deve dunque includere la messa in sicurezza di tutti gli edifici scolastici, la messa in sicurezza di tutte le costruzioni nelle aree di rischio sismico seguendo le priorità già indicate nelle mappe del 1996; la ricostruzione degli edifici abbattuti e lesionati dal terremoto in Abruzzo. Infine la costruzione di case nuove nei limiti indicati dal mercato per abitazioni dignitosamente economiche. E criteri di rigorose demolizioni per le abitazioni e gli edifici industriali eretti lungo i fiumi, i torrenti e i vulcani a rischio di esondazione e di eruzione.
C´è un lavoro enorme da fare, che non riguarda il bravissimo Bertolaso che di lavori ne fa già troppi, non riguarda l´emergenza di poche settimane e di pochi mesi, ma un arco di anni e impegni di bilancio di grandi dimensioni. Riguarda il tempo lungo che le nostre classi dirigenti non hanno mai preso in considerazione, assorbito soltanto dal fare con ritorni politici ed elettorali immediati, lasciando che le antiche piaghe geofisiche del "Bel Paese" imputridissero e incancrenissero, provocando emergenza dopo emergenza, strage dopo strage e lutti e rovine e lacrime.
* * *
Ricordiamole quelle catastrofi avvenute che hanno costellato la storia nazionale nel dopoguerra (senza scordare il terremoto-maremoto che distrusse Messina e lo Stretto ai primi del secolo scorso provocando una strage di proporzioni inusitate).
Il primo fu l´alluvione del Polesine. Poi l´immensa e paurosa ondata del Vajont. Il terremoto del Belice. L´esondazione dell´Arno che sommerse Firenze mentre un´acqua alta eccezionale sommergeva Venezia. Poi il terremoto dell´Irpinia. Quello del Friuli. La catastrofe in Valtellina. L´esondazione della Dora e degli affluenti del Po. Il terremoto in Umbria e nelle Marche. L´ondata di fango che devastò la valle del Sarno. Ed ora l´Abruzzo.
Sessant´anni di rovine, lutti, tendopoli, roulotte, prefabbricati, cucine da campo, Forze dell´ordine e Forze armate mobilitate, pompieri e vigili, ordinanze, editti, processi, mafie e camorre all´opera per trarre vantaggi.
E lacrime lacrime lacrime. Di emergenza in emergenza. Ma tra l´una e l´altra liberi tutti. Liberi di costruire sul bordo dei fiumi e dei vulcani. Liberi di impastare il cemento con la sabbia del mare. Liberi di lesinare sulle armature di ferro. Liberi di scempiare il paesaggio. Liberi di violare i piani regolatori. Un popolo di eroi, di navigatori e di abusivi. Sempre condonati. Spesso incitati ad abusare. Come accade quando il fare diventa un fine a se stesso e sgomita per farsi largo, egoismo che lotta con altri egoismi.
Sono queste le invasioni barbariche del nostro tempo, in testa alle quali ha cavalcato e cavalca gran parte della classe dirigente di ieri e di oggi. Anche di domani?
* * *
Il terremoto d´Abruzzo, pur col suo carico terribile di vittime, ha registrato un numero di morti e di feriti minore di quelli che l´hanno preceduto. Ma con alcune particolarità che aggravano molto le incognite della ricostruzione.
La principale di queste particolarità riguarda l´Università, una delle più antiche d´Italia, concentrata sulla facoltà di Ingegneria, frequentata complessivamente da trentamila studenti molti dei quali provenienti da paesi e luoghi lontani. È improbabile che questi studenti "foranei" tornino a L´Aquila anche quando la città sarà stata ricostruita. I rischi sono troppi. Ma lo smantellamento del polo universitario sarebbe (sarà) un´altra catastrofe nella catastrofe della città. La popolazione universitaria produce infatti un indotto di traffico e di servizi che è il vero motore propulsivo dell´economia cittadina.
Un discorso analogo, anche se in misura più ridotta, vale per le scuole elementari e secondarie, anch´esse a rischio di spopolamento e intanto di lunga interruzione. Bisognerà organizzare un anno scolastico d´emergenza cercando in tutti i modi di preservare l´unità delle classi e dei loro insegnanti.
La terza questione riguarda i modi della ricostruzione e innanzitutto la scelta del luogo: una nuova città lontana dall´attuale insediamento oppure ricostruire negli stessi luoghi e nelle stesse forme architettoniche badando ovviamente ad una rigorosa vigilanza sulla progettazione tecnica e sulla qualità dei materiali?
La maggior parte degli esperti propende per questa seconda soluzione ma c´è ancora discordanza. Forse dovrebbero essere gli abitanti a decidere.
Quale che sia la scelta occorre far presto: il clima in Abruzzo è rigido, ad ottobre l´inverno è già cominciato. Trascorrerlo sotto le tende è impensabile, tanto più che abbondano le persone anziane. Ma è impensabile anche disperderli e non si tratta soltanto del capoluogo: il sisma ancora parzialmente in corso ha sconvolto gran parte dell´Abruzzo, sicché è un´intera regione con caratteristiche alpine che si accinge a passare un inverno assai disagiato.
Da questo punto di vista l´emergenza è massima e la sua durata non sarà certo minore dei diciotto mesi. Una regione intera. Non è pensabile che ci si affidi all´improvvisazione: governo e protezione civile dovranno presentare un piano ed una tempistica attuativa al Parlamento e indicando insieme con essa l´ammontare dei fondi necessari e la loro copertura.
La Cassa depositi e prestiti potrà fornire un appoggio che in parte rientra nelle sue competenze istituzionali. Si tratta tuttavia di investimenti infrastrutturali (ospedale, palazzi di città, scuole e Università) che riguardano istituzioni e pubblici servizi in capo alla Regione, ai Comuni e allo Stato. Per la Cassa si tratta comunque di prestiti che dovranno esser rimborsati e che richiedono quindi copertura.
Con i tempi che corrono questa partita è molto difficoltosa. Se non ci fosse di mezzo l´orgoglio di Berlusconi, il provvedimento più logico riguarderebbe la reintroduzione dell´Ici sulle prime case che frutterebbe all´Erario un maggior gettito di 3 o 4 miliardi. Ad essi si potrebbe aggiungere un "eccezionale" inasprimento dell´Irpef del 2 per cento per i redditi superiori a 120mila euro annui, il cui maggior gettito, stimato dai tecnici del Partito democratico che ha formulato la proposta, darebbe 2 miliardi. Sarebbe un´imposta di scopo motivata dal terremoto e quindi percepibile ed accettabile dai contribuenti chiamati a farvi fronte.
Infine l´accorpamento del referendum alle elezioni europee del 7 giugno, con un risparmio di 400 milioni.
Si tratta complessivamente di risorse che ammontano a circa 6 miliardi, per far fronte ad una ricostruzione "una tantum". È chiaro che ben altre cifre sono quelle che riguardano la messa in sicurezza delle scuole e delle costruzioni in zone a rischio di catastrofi naturali.
* * *
È stata notata da gran parte dell´opinione pubblica e sottolineata da giornali e televisioni la diversità di comportamento tra il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio di fronte al terremoto d´Abruzzo. Più composto e riservato Napolitano, più emotivamente impegnato nel dirigere e nel fare Berlusconi. Commossi ambedue e più volte presenti sui luoghi del disastro, Napolitano con appena un tremito della voce subito represso, Berlusconi con lacrime sincere e copiose. Infine il Capo dello Stato ha chiamato in causa le responsabilità di quanti hanno male progettato e male eseguito opere che � se le regole fossero state osservate � avrebbero dovuto reggere all´impatto del sisma ed ha stimolato la magistratura ad accertare eventuali reati.
Si potrebbe dire con una punta di ottimismo che i due maggiori rappresentanti delle nostre istituzioni hanno caratteri e culture molto diversi ma complementari che, presi nel loro insieme, danno luogo ad un tandem bene assortito.
Purtroppo questa punta di ottimismo è troppo� ottimistica. Il fare del presidente del Consiglio � l´abbiamo già detto in precedenza � si limita ad una veduta corta e si esaurisce nell´immediato, insegue ritorni politici ed elettorali a scadenza breve, è intriso di emotività e di populismo. La sua sincerità non è sufficiente a dar vita a processi produttivi di lunga lena e di scarsa redditività ai fini del consenso e della popolarità.
Quanto al presidente della Repubblica, non è suo compito proporre programmi politici né Napolitano è persona che voglia eludere le sue competenze istituzionali. Ha grande rispetto per i poteri del governo e per quelli del Parlamento. Incoraggia nei modi appropriati alla sua carica il guardare lungo, a darsi carico del futuro, insomma a guidare il paese come spetta ad una classe dirigente consapevole delle sue responsabilità. Più di questo non può fare, anche se è prezioso che lo stia facendo con tenacia e fermezza.
Il resto spetta a tutti gli altri settori che formano la classe dirigente: i rappresentanti degli imprenditori, i sindacati dei lavoratori, i partiti, gli ordini professionali, la magistratura, le Regioni e gli Enti locali. Ma spetta soprattutto ai cittadini.
I cittadini (l´ho già scritto in altre occasioni ma voglio qui ripeterlo) sembrano ormai presi da sentimenti di indifferenza e apatia che non sono consoni alla temperie che stiamo attraversando. Sono delusi ed hanno buone ragioni per esserlo, ma la delusione non ha alcuna logica connessione con l´apatia, specie quando una parte non piccola di essa riguarda anche il modo come abbiamo esercitato il nostro ruolo di cittadini e di popolo, come abbiamo vissuto il nostro diritto di cittadinanza.
È illusorio pensare che la classe dirigente possa esser migliore del popolo che la esprime. C´è un rapporto stretto tra questi due elementi di una democrazia funzionante e governante, tra la cittadinanza e la dirigenza. Se entrambe sono parte d´un circolo virtuoso si migliorano a vicenda, ma se entrambe fanno parte d´un circolo perverso, a vicenda si imbarbariscono.
In questa Pasqua dolorosa sia questo un pensiero sul quale impegnarsi e sul quale tutte le persone di buona volontà sappiano guardarsi negli occhi e stringersi la mano.

l’Unità 12.4.09
Progressista moderato o populista
Intorno alla candidatura di Pannella si è creato un clima alla Iannacci: «No, tu no»
Ma i radicali sono davvero così distanti?
di Furio Colombo


Candidare Marco Pannella nelle liste Pd alle elezioni Europee? Comprensibile il dibattito, la preferenza, l'indifferenza, l'ostilità. Nel Pd ciascuno è lontano da un punto e vicino a un altro punto, ma il più delle volte non è lo stesso punto. Però intorno a una candidatura di Pannella - che più europeo di formazione e di esperienza non si può - si è creato un clima alla Jannacci, un «no, tu no» rigoroso che un po' meraviglia in un partito che, se non è liquido, almeno è elastico, e lo ha dimostrato con due o tre vittorie negli ultimi giorni. Il comunicato - ufficioso però autorevole - è a firma del generale Fioroni, uno dello stato maggiore. Constata che «il percorso dei radicali ormai è cambiato e non resta più alcuna strada da fare insieme».
Poiché sono alla Camera, mi capita di vedere ogni giorno i parlamentari del Partito radicale sempre nei loro banchi, area Pd da eletti nel Pd, li trovo sempre fermi nella difesa dei diritti umani e civili che sono un impegno mai interrotto da molti decenni di quel partito, vedo i loro voti, in tutte le situazioni cruciali, uniti ai voti del Pd. C'è stato l'episodio della loro ostinata opposizione al trattato di integrazione militare tra l'Italia e la Libia. Ma i lettori ricorderanno che anch'io mi sono battuto contro quel trattato, per la stessa ragione (difesa dei diritti umani in un paese che li nega). So, d'altra parte, che molti colleghi del Pd avrebbero volentieri fatto a meno dell'abbraccio con la Libia (che purtroppo ci riserverà brutte sorprese) se l'indicazione di voto (per me misteriosa) non fosse stata così pressante e autorevole. Ma tutto ciò non è che una piccola parte delle contraddizioni e tensioni, per fortuna molte volte utili e creative (non è sempre Libia) che attraversano il Pd e sono il suo sciame di tremori e - speriamo - di assestamento.
Sui giornali di questi giorni c'è un bel repertorio. Per esempio c'è il campione anagrafico Matteo Renzi, candidato Pd sindaco di Firenze, che afferma che giovane come lui non c'è nessuno e chi non è giovane si tolga di mezzo. E’ un attegiamento che gli toglie la voglia di sapere che nel «Paese più vecchio del mondo» l'età media della Camera dei deputati italiana è appena sopra i 50 anni, dunque alquanto più giovane della Camera americana (per dire che non è l'età che fa la crisi).
Per esempio, un bel gruppo di giovanissimi Pd trenta-quarantenni, uniti dal nuovissimo slogan «I giovani vogliono contare di più» e subito dopo (in contraddizione) «vogliamo superare il recinto generazionale», ha deciso di riunirsi a Piombino «per fare rete», come si dice da giovani invece di «organizzare una corrente». I vegliardi tipo Enrico Letta sono avvisati. Ma proprio Enrico Letta ci guida, con la chiarissima intervista data ad Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera (10 aprile), a sapere come è variamente popolata e animata la cittadella del Partito democratico. Dunque ascoltiamo Letta: «Questo bipolarismo è finito. L'elettorato non è bipolare ma tripolare: diviso non tra destra e sinistra, ma tra progressisti, moderati e populisti. Si tratta di unire progressisti e moderati in un patto che non potrà includere né la Lega da una parte né Di Pietro e i comunisti dall'altra. Dobbiamo costruire un nuovo centro-sinistra con la C di Centro maiuscola. E’ evidente che dobbiamo rispacchettare tutto. Il Pd, così com’è, è condannato alla sconfitta».
Parole pesanti che spingono a domandarsi: ma se la vera ragione di sconfitta non fosse il «Pd così come è» ma «il Pd così come non è»? Per esempio, dove è finito Berlusconi in questa foto di gruppo della nuova famiglia? Torna a casa, tutto è perdonato? È vero che il populista Sansonetti, nuovo direttore del nuovo quotidiano L'Altro ci fa sapere che si asterrà «dall'antiberlusconismo spinto, che dobbiamo superare con le idee». L'Altro andrà a ruba, per capire cosa vuol dire.
Ma - per esempio - su tutto il fronte in movimento non troviamo traccia dell'offensiva del Cardinal Bagnasco: «Tre sì alla vita». (intende dire: curare gli ammalati). E «Tre grandi no». Intende dire: niente testamento biologico, scordatevi di imporre la vostra volontà (cito da L'Espresso del 12 aprile). Il Cardinale come lo ri-impacchettiamo? E perché, in questa fase movimentista e dunque in sé non negativa del Partito democratico, non affiora mai la questione della profonda divisione fra laici e credenti adulti da un lato e teocon disposti a qualunque gesto di cieca obbedienza vaticana dall'altro? Dove è finita la Binetti? E' tra i progressisti, i moderati o i populisti? E siamo sicuri che la sua distanza rispetto a un Partito democratico che cerca ragionevolmente consenso dentro e fuori su tanti fronti (primo fra tutti i diritti umani) sia meno grande e meno incompatibile della storia, vita e testimonianza di Marco Pannella?

l’Unità 12.4.09
La legge 40 e la fuga per la libertà
di Luigi Manconi


La Corte Costituzionale ha dichiarato la parziale illegittimità della legge 40 sulla procreazione assistita, esprimendosi sul limite numerico dei tre embrioni previsti per un unico e contemporaneo impianto; e sul comma 3 nella parte in cui non prevede che il trasferimento degli embrioni debba essere effettuato senza pregiudizio per la salute della donna. La Consulta interviene, così, su due dei punti più qualificanti e più contestati della normativa, evidenziandone il profilo di incostituzionalità. Non è mera questione di diritto: il tema è quello dei vincoli legislativi che dal 2004 a oggi hanno ridotto le nascite per fecondazione assistita del 2,78% (stante un aumento delle coppie che ricorrono a quella tecnica); hanno accresciuto le gravidanze multiple, dal 16% al 23%, con una percentuale di parti trigemini del 3,5% mentre in Europa è dello 0,8%; hanno indotto circa 4.000 coppie l'anno a recarsi all'estero per concepire un figlio, con un incremento del 200% (erano poco più di 1.000 prima dell'entrata in vigore della legge 40).
Si manifesta, con ciò, un "turismo" (mai definizione fu più impropria) che trova origine nella sfera degli orientamenti personali in fatto di procreazione: ovvero la libertà di ricorrere alla scienza medica per avere un figlio, o per non averlo. Nel 2008 nel Canton Ticino sono stati fatti 682 aborti (+11,25% rispetto al 2007). Nel 33% dei casi le donne erano residenti "all'estero"; e quelle provenienti dall'Italia 221 (di cui 206 italiane e 5 straniere). Appena 5 anni prima, nel 2003, il "turismo" abortivo aveva interessato 78 donne. Le cause dell'incremento sono da rinvenirsi nella scarsa o difficile reperibilità, nel nostro paese, della Ru486; nelle politiche più rigorose di altri stati in materia di privacy; infine, in un'efficienza sanitaria altrimenti sconosciuta e nella presenza di un personale medico non tentato dall'obiezione di coscienza. Il ginecologo Silvio Viale dice al Corriere della Sera che una simile migrazione sanitaria è composta da persone che "preferiscono spendere da 400 a 600 euro oltre confine piuttosto che fare le code nei nostri consultori, dove c'è sempre qualcuno che ti può riconoscere o ricordarsi di te. E poi sono donne che non vogliono rischiare la corsa contro il tempo dei pochi ospedali che oggi importano l'Ru486. Dal momento della richiesta alla Francia, in genere, passano 4-5 giorni": basta un imprevisto per impedire l'interruzione della gravidanza tramite quella pillola. Come si vede, altro che "turismo": siamo in presenza, piuttosto, di un cercare soccorso, di un rifugiarsi altrove, di una sorta di "fuga per la libertà" (senza nemmeno Sergio Castellitto).
Scrivere a info@innocentievasioni.net

Repubblica 12.4.09
La giustizia di dio nella pasqua del terremto
risponde Corrado Augias


Gentile Augias, la domenica delle Palme a L'Aquila centinaia di fedeli, cantando e pregando, in mano un ramoscello di ulivo, si sono recati in pellegrinaggio alla Madonna Fore, santuario di San Giuliano. Come la folla a Gerusalemme duemila anni fa, hanno gridato: «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d'Israele!». Poi sono tornati a casa con la pace nel cuore. Durante la notte è arrivata la tragedia. Molti fedeli restano sconcertati. Non capiscono l'assenza di Dio. Ma la delusione deriva dal fatto d'avere di Dio un concetto sbagliato. Il Signore non frena i terremoti, non sceglie l'ora in cui arrivano, non calma gli uragani, né i vulcani; il Signore non fa miracoli, non salva un bambino e ne fa morire cento, non liquefa sangue rappreso. La fede in Dio può darci solo la forza di affrontare, qualora sia inevitabile, il dolore e le tragedie della vita. Chi crede in questo Dio, nel Signore che dà speranza, ma non fa miracoli neppure la domenica della Palme, non rischia delusioni.
Miriam Della Croce miriamdellacroce@tiscali.it

Questa lettera solleva ancora una volta un problema mai risolto che Leibniz battezzò "Teodicea", ovvero il problematico rapporto di Dio con la Giustizia e con il Male del mondo. Domanda terribile che affiora già nella Bibbia con la vicenda di Giobbe che, innocente, viene colpito da una serie di sciagure. Unde malum ? Da dove viene il Male, si chiedeva già Tertulliano aggiungendo che si trattava di una di quelle domande «che rendono le persone eretiche». La parola Teodicea venne coniata giustapponendo due lemmi greci Theos (Dio) e Dike (Giustizia). L'occasione fu l'evento tragico e grandioso che, il primo novembre 1755, colpì la città di Lisbona. Un terre e maremoto spaventoso devastò la capitale portoghese ma anche le coste settentrionali dell'Africa e perfino quelle di una parte dell'Europa. Un'onda alta più di dieci metri si abbatté su Lisbona uccidendo migliaia di persone; tra gli altri un gruppo di bambini che s'erano rifugiati sotto un grande crocifisso nella cattedrale. Il crocifisso si staccò dalla parete schiacciandoli. Per teologi e filosofi l'evento fu difficile da spiegare, Voltaire colse l'occasione per sferzare il sistema dell'ottimismo filosofico ( Candide ). Quanto al delicatissimo tema dei miracoli, un altro grande filosofo, Baruch Spinoza già nel XVII secolo aveva scritto ( Breve trattato su Dio ): «Dio, per farsi conoscere agli uomini, non può né deve usare parole o miracoli né alcuna altra cosa creata, ma solo se stesso». È un pregiudizio, concludeva il grande pensatore, sperare che Dio possa sospendere con un "miracolo" le leggi che egli stesso ha assegnato alla natura. Questa è, per chi crede, una visione adulta e coerente. Il resto è infantile superstizione.

Repubblica 12.4.09
"Negazionismo su Stalin" Liberazione si ribella al direttore
di Alessandra Longo


ROMA - «Si vuole riabilitare Stalin? Noi non ci stiamo». Una ventina di redattori di «Liberazione» scrive una nota durissima nella pagina dei commenti, quasi fosse ospite del proprio giornale. È il nuovo, dirompente caso che scoppia nel quotidiano comunista, ora diretto da Dino Greco, scelto dalla gestione Ferrero. I giornalisti che hanno firmato la protesta si dichiarano «molto amareggiati» dopo aver letto la recensione del libro di Domenico Losurdo «Stalin. Storia e critica di una leggenda nera», edito da Carocci. Una recensione, curata da Guido Liguori, pubblicata a tutta pagina nell´edizione di venerdì scorso e che inizia così: «Stalin mostro sanguinario o politico realista costretto dalla storia a scelte obbligate?». Per Losurdo molto c´è da riflettere sulla figura di Stalin, troppo compressa in un «ritratto caricaturale» che finisce per ignorare il cosiddetto «contesto».
Cresciuti con Piero Sansonetti, l´ex numero uno di «Liberazione», che li ha fatti sparigliare al limite dell´eresia, i venti redattori (non tutti orfani dell´ex direttore) sentono puzza di "negazionismo" («Abbiamo toccato il fondo») e subito reagiscono: «Di fronte ai milioni di morti che il sistema dei campi staliniani ha lasciato dietro di sé, nella memoria collettiva del mondo intero e della cultura di sinistra in particolare, riteniamo che non ci sia nulla da aggiungere: non c´è interpretazione storica che tenga». Una nota durissima, pubblicata ieri, alla quale oggi risponde, altrettanto fuori dai denti, Dino Greco. Un po´ l´atto finale di un rapporto travagliato. Si litiga su Stalin ma il messaggio è chiaro: il giornale, la maggioranza di chi ci lavora, non «vuol tornare indietro, dopo aver cercato di aprire spazi e liberare energie».
Sui gulag, sui «mostri e gli orrori», è stato detto già tutto. «Possiamo serenamente considerare chiuso il confronto su queste tragedie o dobbiamo subirne "revisioni" addirittura apologetiche?». Il direttore di "Liberazione", naturalmente, è di tutt´altro parere. Accusa di «autoritarismo» il «gruppo di redattori» in rivolta e rivendica la libertà di parlare di tutto: «Nessun argomento è tabù». Posizioni inconciliabili. «Non possiamo accettare la sua risposta - dicono i ribelli - che già preannunciano una controreplica a Pasquetta. I maligni potrebbero pensare che dietro il malumore ci sia la resistenza della squadra legata a Piero Sansonetti il quale, tra l´altro, si accinge a partire con un nuovo quotidiano. «L´ex direttore non c´entra niente - assicurano a "Liberazione" - e la prova è che la nota è stata firmata da colleghi che non avevano alcun rapporto preferenziale con lui».
C´entra - par di capire - la paura che «tesi negazioniste» vengano riammesse nel dibattito di idee. «Viene da chiedersi -si legge nella nota - a quando una pagina intera di pubblicità gratuita, sotto veste di recensione "equilibrata", a testi di "rilettura", delle gesta di Ceausescu o di Pol Pot?».

il Riformista 12.4.09
Butovo, una Katyn alle porte di Mosca
di Ubaldo Casotto


Fosse comuni. In Russia sono oltre seicento. Dal 1918 al 1953 sono state fucilate 826.645 persone. Lidija Golovkova, musicista e professoressa d'arte, ha scoperto per caso una di queste fosse, con 20mila corpi. E, novella Antigone, ha deciso di consegnare alla nostra memoria la storia di quei martiri, uno per uno.

Ho finalmente visto "Katyn". Il film di Andrzej Wajda sulla strage di circa ventimila soldati polacchi, tra cui 4.500 ufficiali, perpetrata dai russi nell'aprile-maggio 1940. Furono tutti uccisi con un colpo alla nuca e gettati "alla rinfusa in fosse comuni" come annota nel suo diario personale il ministro tedesco per la propaganda Joseph Gobbels, alla data del 9 aprile 1943, dopo la scoperta dell'eccidio dei suoi ex alleati.
A vedere il film del grande regista polacco, fra parenti e amici, eravamo in otto. Io che mi sono laureato in filosofia agli inizi degli anni Ottanta e che conoscevo la storia, ma non perché l'avessi appresa su qualche manuale. Una professoressa di lettere in un istituto tecnico di Roma, che non ne sapeva niente. Mia figlia di diciassette anni, che ha già studiato due volte la Seconda guerra mondiale, in quinta elementare e in terza media. Una laureata in lettere e suo marito ingegnere che chiedevano lumi sulle date e sui luoghi. Una laureanda in magistero inconsapevole del fatto. Un laureato in giurisprudenza che sapeva, ma solo in virtù del suo mestiere di giornalista. E mio figlio di undici, l'unico assolvibile per la sua ignoranza, i nuovi programmi di storia per le elementari si fermano al Medio evo.
Questa premessa per dire che quello che viene chiamato maldestramente e con intento di accusa "revisionismo storico" - mentre è solo ricostruzione delle memoria censurata - ha purtroppo molto cammino da fare.
«Ancora Katyn? Ma le sappiamo da vent'anni queste cose…». Innanzitutto chiedetevi perché solo da vent'anni. In secondo luogo prendetevi la briga di entrare in una qualsiasi aula di una scuola superiore italiana o di una università, dite "Katyn" e contate le mani che si alzano per darvi una risposta. Rischiate percentuali più basse della mia comitiva cinematografica.
Ma non è di Katyn che volevo parlare, anche se consiglio a tutti di vederlo - se riescono a trovare un cinema che lo programmi, piuttosto acquistino una copia e orgnizzino proiezioni speciali. È non bello, bellissimo. Lento? Della doverosa lentezza e solennità della tragedia. Pesante? Uccidete ventimila persone con un colpo alla nuca e poi ditemi se vi sentite leggeri.
Non è di Katyn, dicevo, che voglio scrivere. Bensì di un'altra foresta, di altri boschi. Di un'altra voragine della memoria che va riempita. I boschi sono a sud di Mosca. Il posto si chiama Butovo. Qui nel 1937/38 vennero fucilate oltre ventimila persone.
Se sappiamo qualcosa di Butovo, lo dobbiamo a una sconosciuta donna russa, Lidija Golovkova. Nel suo "Liberi. Storie e testimonianze dalla Russia" (Bur, 176 pagine, 9 euro) Giovanna Parravicini la definisce «un'Antigone dei nostri giorni». Il libro è una raccolta di piccole biografia di protagonisti della vita russa del Ventesimo secolo (la pianista, il sacerdote, la scrittrice, il professore di filologia, la dattilografa del Samizdat…) conosciuti dall'autrice, che ha frequentato clandestinamente il dissenso russo fin dal 1979, e che ora vive e lavora a Mosca dove anima un centro culturale. Le sue sono storie di resistenza all'idelogia, di coraggio per la testimonianza della verità e quindi, paradossalmente - perché tutti questi personaggi, chi più chi meno hanno conosciuto la censura, il carcere, la Lubianka, gli interrogatori, il confino, il Gulag - un'esperienza di libertà.
Lidia Golovkova è una di questi "liberi". Adesso insegna Storia della Chiesa contemporanea presso l'Università ortodossa San Tichon, ma non era certo questa l'immagine che si era fatta della sua vita. Padre compositore e madre concertista di pianoforte, vive immersa nella musica fin da piccola, in un grande appartamento in coabitazione con altre famiglie perché il padre era partito per la guerra nel giugno 1941, due mesi dopo la sua nascita. Un'insegnante domestica scopre il suo talento pittorico e la indirizza alla famosa Scuola d'arte Surikov.
Inquieta, a diciott'anni riesce a farsi assumere in un circo dove si esibisce con dodici cani barboni e diciotto pappagalli indonesiani parlanti. Diplomata, diventa hostess e gira il mondo per tre anni. Poi torna alla pittura. In questo periodo, fine Sessanta inizio Ottanta, nulla sa del "dissenso" che cova sotto la vita ufficiale del mondo artistico che frequenta. È la condizione di tanti, della maggioranza delle persone, lei stessa ora si stupisce, leggendo le lettere fra suo padre e sua madre quando erano fidanzati, era il 1938, di come non ci fosse «neppure un accenno a quello che stava succedendo intorno… La verità è che, incredibilmente, la gente poteva non rendersi conto di niente».
Poi arriva la perestrojka e Lidija si ritrova senza mezzi, senza lavoro, senza soldi. La ventata di libertà del periodo riporta a galla una dimensione pubblica dell'annuncio cristiano rimasto fino allora nell'ombra. Lidija ritrova la fede. Inizia a insegnare in uno dei primi ginnasi ortodossi che riaprono. Nel tempo libero ritrae dal vero architetture d'altri tempi, spesso semidiroccate, per «fissare la memoria del passato». Costruisce una mappa di Mosca con i luoghi di questi edifici morenti: chiese monasteri, ville.
Un giorno, in una di queste sue perlustrazioni, accetta un passaggio in auto da un poliziotto che le parla di un'ex monastero. Lui ci ha fatto i corsi di polizia, era una prigione con una fama terribile. Giunto in prossimità del luogo il poliziotto però non la fa scendere, sta facendo buio, troppo pericoloso. Lidija scende alla stazione... e poi torna indietro a piedi, trova un varco nella recinzione ed entra nell'edificio. Scopre le celle, trova un proiettile... Tornerà di nascosto per mesi, e per mesi chiede notizie su quel posto. Invano. Finché un uomo nato in un lager le scioglie il segreto: «È la Suchanovka», l'ex eremo di Santa Caterina trasformato in prigione nel 1931, poi usato come luogo di tortura ai tempi di Berija; pochi ne sono usciti vivi.
Lidija inizia a cercare i sopravvissuti, i secondini e i torturatori. Riesce ad arrivare, tramite il rettore dell'università San Tichon, agli archivi della Lubjanka. Ci passa anni. Recupera i fascicoli di migliaia di vittime, ne ricostruisce la vita, l'arresto, la fine. Si rivolge anche al Memorial, l'associazione laica fondata da Sacharov all'epoca della perestrojka, tra loro e la San Tichon non corre buon sangue, ma Lidija riesce a farli lavorare insieme. Scopre due siti di fucilazione e sepoltura di massa fuori Mosca: l'ex poligono dell'NKVD a Butovo e l'ex sovchoz a Kommunarda. Continua a raccogliere storie e a catalogarle fino alla pubblicazione del "Libro della memoria" di Butovo. Ne sono usciti, per ora, otto volumi. Di libri simili in Russia ce ne sono oggi ottantanove: le fosse comuni che si scoprono sembrano non finire mai. Quelle ritrovate a oggi sono seicento. I fucilati dal 1918 al 1953 sono 826.645.
Nel poligono di Butovo è stata costruita una chiesa. In una bacheca di vetro ci sono: una scarpa sfondata, alcuni cenci, manciate di terra, proiettili... e un foglio di carta, il verbale di interrogatorio di un anziano sacerdote, con la firma dell'imputato all'inizio e alla fine, non sembra fatta dalla stessa mano, non era più la stessa persona quella che poche ore dopo aver scritto il suo nome in bella calligrafia non riusciva a portare a termine uno scarabocchio tremolante.
Il lavoro di Lidija Golovkova, film come quello di Wajda non sono una commiserazione nel ricordo, non costituiscono una sorta di risarcimento per la dimenticanza. Sono opere indispensapili per l'identità personale di molti e per la nostra identità collettiva. L'uomo non si differenzia dall'animale per il linguaggio, ma per la capacità di coscienza. E la capacità di coscienza, che è un atto del presente, è capacità di memoria. La memoria è, infatti, qualcosa di più del ricordo perché dà statura e consistenza all'altrimenti effimero istante presente. Un popolo separato dalle sue radici storiche, o impossibilitato a ricordarle, è disponibile a qualsiasi progetto totalitario.
Ma c'è un'altra conseguenza della memoria, e non si tratta di un effetto collaterale. È nel titolo del libro di Anna Parravicini: "Liberi". La memoria rende liberi. Come al solito qualcuno l'ha già detto meglio di noi: «A che serve la memoria? A liberarsi!» (T.S. Eliot, "Quattro quartetti").

Corriere della Sera 12.4.09
Ho vissuto un secolo senza padroni
di Aldo Cazzullo


Tra 10 giorni, il 22 aprile, il Paese intero si stringerà attorno al Nobel Rita Levi-Montalcini per i suoi 100 anni. «Ma non ho paura di morire», dice. Le persecuzioni razziali, il Nobel e la vita privata: «Ero ancora adolescente quando decisi che non mi sarei sposata. Dissi a me stessa che non avrei mai obbedito a un uomo» .
«Letta, Alemanno Stimo anche chi sta a destra»

ROMA — Visto di persona, il volto notissimo di Rita Levi-Montalcini colpisce per il colore verde ac­qua degli occhi — «La vista è calata, ma uso uno speciale visore che ingrandisce le parole di libri e giornali e mi consente di leggere da sola» —, e per la bellezza dei gioielli. «Li ho disegnati io. Questo bracciale l’ho fatto per mia sorella Paola. Questo in­vece è l’anello di fidanzamento di mia madre. La fe­dina me l’hanno regalata a Uppsala: è il simbolo del mio matrimonio con la scienza. La prima volta che andai in America, mi chiesero chi fosse mio marito. Non erano abituati a una donna che conducesse la sua vita di studiosa da sola. 'I’m my own husband', sono il marito di me stessa, risposi. Non capirono. Pensarono non sapessi l’inglese».
Professoressa Levi-Montalcini, tra dieci giorni, il 22 aprile, il paese intero si stringerà a lei per il suo compleanno. Com’è la vita a cento anni?
«Ottima. Anche l’udito è calato. Ma il cervello per fortuna funziona».
È vero che mangia e dorme pochissimo?
«Sì. Mangio una sola volta al giorno, dormo due o tre ore per notte».
Legge?
«Sì. I quotidiani: Repubblica e Corriere della Se­ra. E pubblicazioni scientifiche. Ma non la notte. La notte penso alle ricerche e agli esperimenti per il giorno dopo. Il mattino vado all’Ebri: European Brain Research Institute. C’è un gruppo di giovani ricercatrici molto affiatato, che lavorano in laborato­rio. Il pomeriggio mi sposto alla Fondazione che porta il mio nome. La coordina Giuseppina Tripodi, al mio fianco da molti anni, consigliere delegato del­la Fondazione che ha come scopo il sostegno al­l’istruzione, a tutti i livelli, delle donne africane».
Le piacciono i giovani d’oggi?
«Questa è una domanda generica. Ci sono giova­ni eccellenti, ma sono una minoranza. Ce ne sono molti che non sono diversi da quelli del passato. Purtroppo, sono riapparsi i fascisti».
Ho letto che ai fascisti lei non porta rancore. È così?
«Non è così! Rancore ne ho per quello che hanno fatto: lo sterminio degli ebrei, la Germania distrut­ta, l’Italia a pezzi. Non ho rancori personali, quelli no. Senza le leggi razziali, quando lo Stato stabilì che la mia famiglia e io appartenevamo a una razza inferiore, non sarei stata costretta a lavorare chiusa nella mia camera da letto, dove avevo allestito un piccolo laboratorio, sia a Torino che ad Asti. Ricer­che che nel 1986 mi hanno portato a Stoccolma».
Quali sono stati i libri della sua vita?
«Kafka. Calvino. E Primo Levi. Se questo è un uo­mo me lo regalò sua sorella. L’editore Einaudi l’ave­va rifiutato, su indicazione di Natalia Ginzburg, e l’aveva pubblicato Antonicelli con la sua piccola ca­sa editrice. Fu una folgorazione. Con Primo diven­tammo molto amici. Ho sofferto per la sua tragica fine; anche se credo che non sia andata come è stato raccontato».
Cioè crede che Primo Levi non si sia suicidato?
«Una persona della sua altezza morale non deci­de di buttarsi giù dalle scale: non era nello stile di Primo Levi. Sono convinta sia andata diversamente: penso che abbia perso l’equilibrio».
Lei è stata allieva del padre di Natalia Ginz­burg, Giuseppe Levi, il protagonista di «Lessico fa­migliare ».
«Una persona di valore. Non una mente origina­le, ma un bravo maestro. Eravamo in tre, Dulbecco, Luria e io: tutti suoi allievi, tutti arrivati a Stoccol­ma. Ricordo quando Giuseppe Levi venne a Firenze, nella pensione dov’eravamo nascosti, e non sapeva che nome dire. Per non sbagliare, chiese solo: dov’è la Rita?».
Eravate fuggiti da Torino?
«Dopo l’8 settembre lasciammo Torino per rag­giungere il Sud, ma scendemmo di soppiatto a Fi­renze perché sul treno avevo notato un ufficiale fa­scista. Arrivammo alla pensione dando un falso no­me, il primo che mi era venuto in mente: Lupani. I proprietari avevano intuito qualcosa, ma tacquero».
Lei ha conosciuto bene altri due grandi del No­vecento: Bobbio e Montanelli.
«Con Bobbio eravamo amici di famiglia: suo pa­dre e suo fratello Antonio erano chirurghi. Vecchie frequentazioni torinesi. Siamo rimasti amici per tut­ta la vita. Con Montanelli eravamo coetanei: nati lo stesso giorno mese e anno, il 22 aprile 1909. A lun­go ho fatto fatica a stimarlo: era un uomo di destra. Poi l’ho conosciuto di persona. E l’ho stimato».
Lei nel biennio del governo Prodi è stata molto lodata e molto criticata per la sua scelta di soste­nere sempre il governo.
«Stimo molto Prodi, e anche la Finocchiaro. Non ho mai mancato una votazione perché il mio voto era decisivo; ora che è ininfluente non serve la mia presenza. Ma non ho mai inteso la mia funzione di senatore a vita come una funzione di parte. Sento di rappresentare l’intero mio Paese, tutti gli italiani».
Ci sono donne e uomini di destra che stima?
«Innanzitutto, Gianni Letta. L’ho visto di recente: uomo di valore, al servizio dello Stato italiano. Cono­sco da tempo la Moratti, una persona seria. Ora ho incontrato anche Alemanno e con mia sorpresa l’ho trovato simpatico, mi piace quando parla. Mi pare stia facendo bene il sindaco di Roma».
Lei ha incontrato anche la Gelmini. Che impres­sione le ha fatto?
«Buona. Una persona gentile, con cui è facile co­municare. Abbiamo instaurato un eccellente rappor­to. La stimo anche per le cose che ha fatto: il ripristi­no del voto di condotta è giusto. Pur essendo così giovane e pur non avendo conoscenze scientifiche, visto che è avvocato, sta svolgendo il suo lavoro con coerenza».
È vero che l’ha emozionata più la notizia della nomina a senatore a vita di quella del Nobel?
«Sono state due emozioni diverse. Da Stoccolma chiamarono mentre stavo leggendo un giallo di Aga­tha Christie, Dieci piccoli indiani. Mentre ricordo a memoria la telefonata dal Quirinale: 'Sono Ciampi. La nomino senatore a vita per la sua attività scientifi­ca e sociale, e la abbraccio'. La mia ammirazione e gratitudine per Ciampi è stata ed è enorme. Anche per Napolitano, che incontro spesso, ho viva simpa­tia e ammirazione».
Non le sono mancati un marito e i figli?
«Ero ancora adolescente quando decisi che non mi sarei sposata. Dissi a me stessa che non avrei mai obbedito a un uomo come mia madre obbediva a mio padre. Eravamo una famiglia vittoriana. Mam­ma dipendeva dalle decisioni che venivano da mio padre. Era questo il motivo per il quale gli serbavo rancore. L’ho stimato solo dopo la sua morte preco­ce ».
Com’è il suo rapporto con Israele? Teme per il futuro?
«Sono molto amica del presidente, Shimon Pe­res. Spero che l’apertura di Obama all’Iran dia buoni risultati. Se si dovessero usare armi distruttive non scomparirebbe solo Israele. Per questo la sua distru­zione non è accettabile, non è concepibile, e non la penso possibile».
Ricorda l’altra grande crisi, quella del 1929?
«Certo. Ero ragazza, e rammento un’epoca dura, difficile. Oggi ritrovo un’atmosfera analoga, ma an­che con motivi di speranza. Ricorderò sempre il pri­mo viaggio in America: in particolare mi aveva colpi­to il fatto che i neri, quando salivo sull’autobus, era­no tenuti ad alzarsi per cedermi il posto in quanto bianca, e io non riuscivo a comprenderne la ragio­ne. Oggi però un nero è presidente degli Stati Uniti. E può rappresentare per l’America un nuovo Roose­velt ».
Vivremo davvero molto più a lungo?
«No. Non c’è posto. Se tutti vivessimo sino a cen­to o più anni, non lasceremmo il giusto spazio ai nuovi nati».
Lei è stata la prima donna ammessa all’Ac­cademia Pontificia. Che ricordo ha di Wojtyla?
«Meraviglioso. Una personalità carismatica, spesso incompresa dai laici. Non tutti capirono che era uomo illumina­to, progressista. Certo più di Roncalli, che pri­ma di diventare Papa in­tratteneva rapporti ami­chevoli con Mussolini».
E Ratzinger?
«Ho avuto modo di incontrarlo varie volte: è per­sona estremamente colta, con una forte preparazio­ne filosofica. Come Pontefice, non posso e non deb­bo giudicarlo».
Non ha paura della morte?
«Non me ne importa. È solo il corpo che muore. Credo che qualcosa di noi sopravviva».
L’anima?
«No. Il messaggio. Le azioni, i pensieri è quanto rimane di ognuno di noi. Io credo di lasciare buone azioni, buoni pensieri. Per questo, anche se alla mia età può succedere in ogni momento, non ho paura di morire».

il Riformista 12.4.09
La scienziata più amata dagli italiani
di Anna Meldolesi


RITA LEVI MONTALCINI. Il 22 aprile compie 100 anni. È l'icona vivente del potere dell'intelligenza. Donna emancipata, laica convinta, ebrea, cervello in fuga con passaporto italiano e statunitense, premiata con il Nobel. Ma oltre le celebrazioni istituzionali, serve una riflessione sul futuro della ricerca: il nostro Paese è più bravo a erigere piedistalli che a costruire laboratori.

Il 22 aprile compie 100 anni Rita Levi Montalcini. È il primo Nobel al mondo a superare la soglia del secolo. Incomparabile. Intramontabile. Con la sua gracilità e il suo carisma, gli abiti che sembrano usciti da un film d'epoca, gli occhi stanchi che tutti immaginano ancora puntati sul microscopio, Rita è da tempo immemorabile l'imperatrice e l'immagine pubblica della scienza italiana. Nel bene e nel male. Di ritratti celebratori ne sono stati scritti tanti nel corso degli anni, altri ancora usciranno nei prossimi giorni. Allison Abbott ha appena dedicato al suo compleanno quattro pagine su Nature e chi legge le riviste scientifiche sa che si tratta di un omaggio tutt'altro che rituale.
Non ce ne voglia Rita se dopo averle fatto i nostri migliori auguri proviamo a uscire dal coro, almeno in parte. Il fatto è che la centralità che la sua figura continua ad avere in Italia non è soltanto la logica conseguenza di meriti scientifici indiscutibili. È anche il sintomo di una patologia nazionale. Perché questo paese è più incline a erigere piedistalli che a costruire laboratori. Più interessato a celebrare i cento anni della sua figlia più illustre - sono previste iniziative al Quirinale e in Campidoglio - che a dare un futuro ai suoi giovani cervelli emigrati all'estero. Siamo portati a credere che Rita sia d'accordo con noi, perché lei stessa è stata un cervello in fuga, prima di tornare in patria negli anni ‘60 al Consiglio Nazionale delle Ricerche, con la doppia cittadinanza italiana e statunitense in tasca.
La Montalcini è amata da tutti o quasi. Certo non piace a Francesco Storace, che le ha promesso delle stampelle in regalo quando il governo Prodi si reggeva sul suo voto di senatrice a vita. Piace poco anche alla Lega, che preferirebbe dirottare sul San Raffaele di Milano i finanziamenti per l'European Brain Research Institute creato dalla neuroscienziata a Roma. Ma restare insensibili al suo fascino è davvero difficile. Perché viviamo in un paese conformista, semianalfabeta dal punto di vista scientifico e ancora piuttosto misogino, in cui il sottosegretario all'università e alla ricerca può dire che il basso tasso di occupazione femminile non è un problema: «È una questione di cultura: in Sicilia le donne preferiscono stare a casa invece di andare a lavorare» (Giuseppe Pizza, gennaio 2009). Lei invece è stata ed è un simbolo del potere dell'intelligenza, dell'emancipazione femminile, della passione politica, della laicità. Non è difficile immaginarsela bambina, quando alle domande delle coetanee su quale fosse la sua religione rispondeva: «Sono una libera pensatrice». E neppure quando nel 1974 lei, la prima donna chiamata a fare parte dell'Accademia Pontificia delle Scienze, strinse anziché baciare la mano di Paolo VI. Suo padre, amatissimo, non voleva che andasse all'università, le leggi razziali l'hanno costretta a organizzare un laboratorio segreto in camera da letto, molti colleghi hanno dubitato che la sua molecola - l'Ngf o nerve growth factor - esistesse davvero. E invece lei ha avuto ragione di tutto e di tutti, arrivando fino a Stoccolma. Ricordo che mia nonna, una maestra di campagna, leggeva le sue memorie. La vita di una donna che non si è mai voluta sposare, storie di guerra e di grandi intuizioni, di embrioni di pollo manipolati con l'ago e poi rimossi in modo che quelle stesse uova potessero diventare frittate. L'8 marzo di quest'anno è stata votata come la figura femminile più importante del secolo insieme a Maria Montessori e Oriana Fallaci. Qualche anno fa ha scavalcato Valentino Rossi in una classifica di gradimento tra i ragazzi. Una popolarità eccezionale per uno scienziato, che potrebbe sembrare una fortuna per il mondo scientifico, visto il disinteresse e i sospetti nutriti da tanti politici e intellettuali italiani nei confronti della ricerca. Ma potrebbe anche essere stata una trappola, perché la scienza non si regge sul principio di autorità, progredisce sulle gambe del ricambio generazionale, lasciando spazio ai nuovi talenti, nel rispetto delle diverse competenze.
In Italia invece la scienza si è incarnata in Rita. Renato Dulbecco ha condotto un festival di Sanremo, nel complesso però è rimasto più defilato. Il terzo Nobel dell'irripetibile nidiata torinese, allevata dal neuroistologo Giuseppe Levi, era Salvatore Luria. Ma è morto da tempo, dopo aver cambiato nome (Salvador Luria) e dopo aver ripudiato l'Italia. Fra tutti e tre è quello che gli italiani conoscono meno, anche se i suoi esperimenti hanno scritto una pagina fondamentale della genetica rivoluzionando la biologia moderna.
Quando la matassa dei rapporti con la scienza si ingarbuglia, dunque, è a Rita che la politica si rivolge. Nel 2004 Letizia Moratti affida a lei il compito di ricucire lo strappo avvenuto con la riforma che voleva cancellare l'insegnamento dell'evoluzione nelle scuole primarie. E lei ricuce, sigillando con il suo Nobel una soluzione di compromesso scientificamente piuttosto discutibile. Nel 2000 è sempre lei a mediare tra il governo Amato e i ricercatori che si sono ribellati ad Alfonso Pecoraro Scanio, come racconta Gilberto Corbellini nel suo ultimo libro (Perché gli scienziati non sono pericolosi, Longanesi). L'appello contro il ministro verde che ha ridotto in brandelli la ricerca pubblica in campo biotecnologico è partito dal basso arrivando a raccogliere firme prestigiose in Italia e all'estero. L'assemblea dei rivoltosi a San Macuto finisce sulle prime pagine dei giornali e ad ascoltare gli scienziati vengono politici di prima grandezza. Con grande sorpresa degli organizzatori si presenta anche Rita, fuori programma perché il suo nome non compare nella lista dei firmatari. Lei comunque si siede direttamente al tavolo dei relatori e conduce l'incontro come se fosse la cosa più naturale del mondo. «Non si può mettere il lucchetto al cervello» dice per spiegare il suo sostegno alla ricerca sugli Ogm. Qualche giorno dopo Giuliano Amato chiamerà lei e pochi altri a discutere una soluzione di compromesso. E sarà ancora lei ad essere convocata dal successivo ministro dell'agricoltura, Gianni Alemanno, per sancire una tregua (poi tradita) con la comunità scientifica.
Gran parte del suo successo Rita lo deve al carattere dominante. L'altra parte la deve al fortunato incontro con un embriologo tedesco approdato negli Usa e costretto dal regime nazista a rimanervi: Viktor Hamburger. La Montalcini è interessata a indagare lo sviluppo del sistema nervoso: nessuno a quei tempi immagina che un segnale proveniente dai tessuti circostanti - il fattore Ngf - indirizzi la crescita delle fibre nervose e l'innervazione degli organi. La fonte di ispirazione di Rita è uno studio sugli embrioni di pollo pubblicato qualche anno prima da Hamburger, che lei decide di replicare con l'aiuto del suo maestro Levi, amputando gli abbozzi d'ala e osservando al microscopio le conseguenze di questa operazione sui gangli nervosi. Arriva a conclusioni diverse, ma il lavoro esce su una rivista poco conosciuta e, in tempo di guerra, rischia di passare inosservato. Per fortuna Viktor lo nota e invita l'italiana alla Washington University di St Louis, dove lavoreranno per molti anni insieme. Per mettere a posto gli ultimi elementi del puzzle Hamburger recluta anche il biochimico Stanley Cohen, che scoprirà anche un altro fattore di crescita (quello dell'epidermide, Egf) e nel 1986 condividerà con la Montalcini il Nobel. Qualcuno ha detto che la più grande scoperta di Viktor è stata Rita. Comunque nella comunità scientifica internazionale sono in molti a credere che anche lui, soprattutto lui, meritasse quel riconoscimento. Hamburger inizialmente l'ha presa con ironia: «Mi sento come Giuseppe nella capanna, sta sempre sullo sfondo e il suo ruolo nel miracolo è un po' dubbio». Poi alcune dichiarazioni rilasciate dalla Montalcini hanno incrinato il loro rapporto di amicizia. In Italia in pochi hanno osato criticare l'assegnazione. Un paio di commentatori hanno avanzato delle riserve sul funzionamento del premio, non molto diverse da quelle che lo scorso ottobre hanno accompagnato l'esclusione di Robert Gallo dal Nobel per la scoperta del virus Hiv. Qualche faccendiere ha millantato di essersi dato da fare per influenzare la scelta. Da Bolzano a Lampedusa, comunque, Rita Levi Montalcini era ormai un'icona, una ragione di orgoglio nazionale. E anche oggi la sua stella brilla troppo intensamente per credere che possa essere scalfita da queste polemiche.

Corriere della Sera 12.4.09
Terrorismo. Nuovo no alla scarcerazione dell’ex br Guagliardo per l’omicidio dell’operaio del Pci. La figlia deputato del Pd: è un’ingiustizia
La battaglia di Sabina Rossa per l’uomo che sparò al padre


ROMA — Aveva chiesto di poter uscire definitivamente dal carcere, dopo oltre trent’anni di detenzione, co­me è stato concesso a quasi tutti gli altri ex terroristi con­dannati all’ergastolo per le de­cine di omicidi commessi du­rante la stagione «di piom­bo ». Lui, Vincenzo Guagliar­do, sparò a Guido Rossa, l’ope­raio iscritto al Pci e alla Cgil as­sassinato dalle Brigate rosse nel gennaio 1979. Il pubblico ministero era d’accordo: per la legge l’ex brigatista, già in regime di semilibertà, ha dirit­to a non rientrare in cella la se­ra. Ma il tribunale di sorve­glianza ha detto no, come nel­lo scorso settembre. E la vitti­ma diretta di Guagliardo — Sa­bina Rossa, oggi deputato del Partito democratico — com­menta: «E’ una vergogna, una vera ingiustizia. Lo dico con tutto il rispetto per i giudici, ma mi sembra che quest’uo­mo sia ormai diventato il ca­pro espiatorio del residuato in­soluto delle leggi speciali».
E’ una storia molto partico­lare, quella dell’assassino di Guido Rossa, fra le tante di ex terroristi ergastolani ai quali, secondo una recente giuri­sprudenza, viene concessa la liberazione per i crimini di trent’anni fa dopo qualche forma di contatto tra loro e i parenti delle persone ucci­se, come segno tangibile di contrizione e di «consape­vole revisione critica delle pregresse scelte devianti»; anche solo attraverso delle lettere a cui spesso non ar­rivano nemmeno rispo­ste, ma è quello che i giu­dici chiedono per misu­rare il «sicuro ravvedi­mento » richiesto dal co­dice per rimettere fuori i condannati a vita.
Guagliardo, che da mol­ti lustri ha abbandonato la lotta armata, non ha mai volu­to scrivere niente perché rite­neva di non avere il diritto di rivolgersi alle vittime per otte­nere un beneficio in cambio; considerando, al contrario, il silenzio «la forma di mediazio­ne più consona alla tragicità di cui mi sono macchiato». Ma quando Sabina Rossa, nel 2005, andò a cercarlo per chie­dere spiegazioni e ragioni del­l’omicidio di suo padre, lui ac­cettò l’incontro e ci parlò a lungo, come la donna ha rac­contato in un libro. L’ex br non lo disse però ai giudici, af­finché quel faccia a faccia non apparisse «merce strumentale ad interessi individuali, simu­lazione, e perciò ulteriore offe­sa » alle persone già colpite.
Così arrivò il primo no alla liberazione, dopo il quale Sabi­na Rossa ha voluto rivolgersi direttamente al presidente del tribunale di sorveglianza per testimoniare «il ravvedimen­to dell’uomo che ha sparato a mio padre; metterlo fuori, og­gi, sarebbe un gesto di civil­tà ». Dopo questa uscita pub­blica Guagliardo ha ripropo­sto la sua istanza, chiarendo ai giudici di essere disponibi­le a incontrare qualunque al­tro familiare di persone ucci­se: «Solo se lo desiderano, se non è un nostro imporci a lo­ro. Trovo infatti legittimo che una vittima non voglia né per­donare né dialogare con chi le ha procurato un dolore dalle conseguenze irreversibili».
Nell’udienza della scorsa settimana il pubblico ministe­ro s’è dichiarato favorevole al­la liberazione condizionale dell’ex brigatista, ma i giudici hanno ugualmente rigettato la richiesta. Perché, hanno scritto nell’ordinanza, chiede­re che siano le vittime a solle­citare un eventuale contatto significa dare loro «carichi in­teriori assolutamente incom­prensibili o intollerabili»; e l’atteggiamento di Sabina Ros­sa è «una manifestazione iso­lata e certamente non rappre­sentativa delle posizioni delle altre e numerose persone offe­se ».
La reazione della figlia del sindacalista ammazzato dalle Br — che da deputato ha pre­sentato un disegno di legge per modificare la norma sulla condizionale, in modo da svin­colarla dal rapporto tra assas­sini e persone colpite — è tan­to dura quanto inusuale: «So­no indignata come cittadina e come vittima. Ci sono brigati­sti con molti più delitti a cari­co liberi da anni, senza che nessuno gli abbia chiesto nul­la. C’è troppa discrezionalità. Io credo nella giustizia, ma an­che nel cambiamento degli uo­mini. Spero che la mia propo­sta di legge sia esaminata al più presto».
L’avvocato Francesco Ro­meo, difensore di Guagliardo insieme alla collega Caterina Calia, parla di «decisione che sembra scritta in altri secoli, da un giudice dell’Inquisizio­ne » e sta già preparando il ri­corso alla Corte di cassazione.

Corriere della Sera 12.4.09
Dibattiti Politici, intellettuali e blogger di fronte alla tempesta della recessione
Se l’America capitalista s’innamora del socialismo
Un sondaggio scuote le certezze su mercato e deregulation
di Paolo Valentino


WASHINGTON — «Siamo tutti sociali­sti ora», proclamava in febbraio una coper­tina di Newsweek. Una provocazione, natu­ralmente. Generata dagli oltre mille miliar­di di dollari stanziati dall’amministrazione americana, la più grande iniezione di dena­ro pubblico nell’economia in cento anni. E innescata dalle scomposte accuse di esse­re un «socialista», lanciate a Barack Oba­ma dai tribuni ultraconservatori, come l’ur­latore radiofonico Rush Limbaugh o il giornalista di Fox News, Sean Hannity.
Nella tesi del settimanale, socialismo stava per socialdemocrazia: «Vogliamo am­metterlo o meno, l’America del 2009 sta evolvendo verso un moderno Stato euro­peo. E se non prendiamo atto del crescen­te ruolo del governo nell’economia, conti­nuando invece a combattere battaglie del XXI secolo con termini e tattiche di quello scorso, siamo condannati a un dibattito sterile e divisivo». Basta un dato a soste­gno: in dieci anni, la quota della spesa pub­blica sul Prodotto interno lordo negli Usa è passata dal 34 al 40 per cento, mentre in Europa è scesa dal 48,2 al 47 per cento.
È arrivata la primavera. Lo stimolo eco­nomico è già operativo. E nel buio di una crisi che continua a mordere e far male, sconvolgendo non solo le certezze materia­li ma anche la psiche degli americani, or­mai alle prese perfino con le somatizzazio­ni da recessione, il presidente Obama dice di vedere qualche «barlume di speranza». Ma il contenzioso sul socialismo, in varie forme e gradi di sofisticazione che van­no dal confronto di alto livello all’insulto becero, è ancora più polemico e urticante.
A dargli nuovo combustibile sono stati due episodi, opposti ma collegati. Il primo è un son­daggio nazionale condotto da Rasmussen, uscito pochi gior­ni fa, secondo il quale appena il 53 per cento degli americani ritiene il ca­pitalismo un sistema migliore del sociali­smo, il 20 è convinto del contrario e il 27 non è sicuro di quale dei due sistemi sia superiore. Dividendo per classi di età, i gio­vani sotto i 30 anni si distribuiscono quasi equamente, con il 37 per cento che preferi­sce il capitalismo, il 33 il socialismo e il 30 indeciso. Sopra i 40 anni non c’è partita: i simpatizzanti del socialismo si fermano al 13 per cento. È interessante notare che la domanda posta dagli intervistatori alle mil­le persone del campione non dava alcuna definizione dei due sistemi. L’altro episo­dio corona mesi di crescente retorica re­pubblicana, intravista fin dalle ultime fasi della campagna elettorale, quando John McCain e soprattutto Sarah Palin accusaro­no Obama di essere un «socialista». Nella Weltanschauung conservatrice la S word è diventata una vera e propria ossessione.
Ne hanno fatto a varie riprese uso e abu­so deputati, senatori, bloggers, quasi sem­pre per bollare i piani economici della Ca­sa Bianca. Da ultimo, è successo tre giorni fa, un rappresentante repubblicano del­l’Alabama, Spencer Bacchus, ha detto con orrore che diciassette dei suoi colleghi al Congresso «sono socialisti». Ha avuto il buon gusto di non fare i nomi, ma l’ultima volta che si era sentito qualcosa di simile fu ai tempi di Joseph McCarthy, il senatore che fece della caccia ai comunisti la sua crociata. Ma almeno allora c’era la guerra fredda e le spie al servizio di Mosca non erano un’invenzione.
Il punto in ogni caso rimane: l’America sta diventando socialista, qualunque cosa ciò possa voler dire? «Nulla di quello che Barack Obama sta facendo annuncia la fi­ne del capitalismo — dice Bruce Watson, analista di Daily Finance —, anzi il suo pacchetto mira a ricaricare il mercato. E se proprio vogliamo usare la terminologia dei critici, l’ironia massima sarebbe se lo stimolo socialista di oggi, si rivelasse la sal­vezza del capitalismo domani».
Per Susan Duclos, blogger di WakeUpA­merica, gli americani dovrebbero vedere i risultati del sondaggio di Rasmussen dal punto di vista del bicchiere pieno al 53 per cento ed essere soddisfatti: «Non capisco perché tutti dicano 'appena'. Trovo che in questi tempi di crisi siano ottimi numeri. Anche perché, quando il capitalismo è chiamato economia del libero mercato, quella percentuale sale dal 53 al 70 per cen­to ». «Sono piacevolmente sorpresa che co­sì tanta gente pensi che il capitalismo sia migliore, è buon segno», chiosa Helen Smith, meglio nota sulla blogosfera come Mrs. Instapundit.
In ogni caso, spiega John Judis della New Republic, quel sondaggio «non è un voto per un socialismo di modello sovieti­co ». Durante la guerra fredda, «i conserva­tori fecero di tutto per identificare la so­cialdemocrazia con il comunismo del­­l’Urss, che aveva abolito il mercato, ma l’identificazione non ha avu­to vita lunga». Judis è con­vinto che quel 30 per cento di giovani favorevole al so­cialismo «pensi piuttosto a un maggior ruolo del gover­no nell’economia e a più re­gole per il mercato, frutto della disillusione verso la magia della totale deregula­tion, predicata sia dai repub­blicani che dai democrati­ci ». Come dire, parlano di socialismo, ma, coscienti o meno, pensano soprattutto a Keynes.
Nel dibattito si è inserito perfino il più celebre degli storici marxisti, Eric Hobsbawm, che in un articolo sul Guardian ha dichiarato «fal­liti » sia il socialismo che il capitalismo, spiegando come «il futuro appartenga alle economie miste». Anche se poi lo studio­so britannico non ha una risposta alla do­manda su come pubblico e privato dovran­no combinarsi, e quindi si limita a dire cripticamente «che la crescita economica e il benessere devono essere un mezzo e non un fine». Che la risposta l’abbia già da­ta Thomas Jefferson, con la «ricerca della felicità»?

Corriere della Sera 12.4.09
Ariosto al museo del Louvre
Dame e draghi in giro per Parigi
di Marina Giaveri


«Le donne, i ca­valier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’au­daci imprese io canto...». Ec­coli, volti di dame e tenzoni di cavalieri, castelli e boschi e navi fantastiche a scocca di drago, disegnati con la precisione gotica della scuo­la del Pisanello, con la sovra­na grazia del pieno Rinasci­mento, con la perversa levi­gatezza dei grandi romanti­ci: eccoli nella mostra (una sessantina di opere) dedica­ta dal Louvre a illustrare l’Immaginario dell’Ariosto, l’Ariosto immaginato.
Sono, dapprima, corsieri e paladini che popolano quel mondo multilingue ep­pur compatto della tradizio­ne cavalleresca alla quale si abbeverano — con nostal­gia ed ironia — gli scrittori di tutt’Europa; sono poi figu­re tipiche della società cin­quecentesca, quali si muo­vono fra le corti di Roma e Ferrara ai tempi del poeta; sono, infine, gli Orlandi e le Angeliche, i Ruggeri e i Mandricardi le cui avventu­re si tessono nelle stanze dell’Orlando furioso, si tra­smettono a generazioni di lettori, fanno sognare gene­razioni di artisti.
Strutturata con compe­tenza filologica, abile nel­l’uso delle risorse interne al museo, accompagnata da un attento corredo di confe­renze, letture, proposte tea­trali e musicali, la mostra è anche, per il visitatore, l’oc­casione di incantevoli sco­perte, come la serie ispirata dal poema a Henri Frago­nard.
Il pittore delle delizie set­tecentesche si rivela affasci­nato dall’Orlando furioso non solo per il numero dei disegni che gli consacra (ben 179, di cui una decina in possesso del Louvre e set­te qui esposti) ma per il gu­sto del meraviglioso e la mo­bile vivacità del tratto, che sembrano riprendere la ve­locità e la leggerezza della narrazione ariostesca.
Se i disegni del Pisanello — attivo a Ferrara meno di un secolo prima dell’Ario­sto — o quelli di Niccolò dell’Abate, contemporaneo del poeta, illustrano le fonti e l’ambiente da cui nacque­ro le caleidoscopiche avven­ture dei paladini di Francia, esaltate nell’allegra libertà del gusto italiano, la fortu­na del poema è poi tracciata anche tramite una serie si­gnificativa di oggetti, che vanno dalla prima edizione dell’Orlando furioso a picco­le sculture di mano france­se ispirate ai suoi personag­gi.
L’episodio di Ruggero che libera Angelica dal mo­stro marino ha poi uno svi­luppo iconografico partico­lare: nell’ultima delle sale Mollien che ospitano l’espo­sizione, esso è non solo con­frontato pittorica­mente con la sua fonte classica (Per­seo che libera An­dromeda) ma an­che declinato nelle discordi soluzioni di tre fra i massimi pittori dell'800 francese: Jean-Au­guste- Dominique Ingres, Eugène De­lacroix e Gustave Moreau.
Scopertamente erotico nella famo­sa tela di Ingres (qui presentata con il suo corredo di disegni prepara­tori), l’episodio si fa magmatico di co­lori nel piccolo e densissi­mo quadro di Delacroix, per poi risolversi nella con­templazione estetizzante di Moreau.
L’immagine della bella esposta al mostro («così ignuda / come Natura pri­ma la compose») e del suo bellicoso salvatore che piomba dal cielo in un arruf­fio di penne d’ippogrifo di­venta, così, pretesto di con­templazioni sado-masochi­stiche e di drammatizzazio­ni romantiche, prima di ri­solversi nella regalità stati­ca che illustra l’avvento del­la stagione simbolista.

il manifesto 11.4.09
Europee. Dal Pd addio anche ai radicali
di Matteo Bartocci


Separazione consensuale per Strasburgo. Bonino: non siamo appestati, farò la mia lista Referendum, tensione nei poli sull'«election day». Si va verso il 21 giugno

Per il Pd un'altra «separazione consensuale». Dopo quella con la sinistra «rosso-verde» prima del voto di aprile, dopo il voto è arrivata quella con Di Pietro e infine, ora, anche l'addio all'alleanza coi radicali in vista delle elezioni europee del 6-7 giugno.
Che le «trattative» fossero finite in alto mare già da diverse settimane non è un mistero. Così Emma Bonino ha ufficializzato ieri la scelta di presentarsi alle europee fuori dalla casa democratica. «Da soli?», vedremo, spiega prudentemente la vicepresidente del senato. «Di certo ci saremo con la lista col mio cognome - aggiunge Bonino - per via di queste leggi non proprio da stato di diritto con cui si possono presentare al parlamento europeo, senza raggiungere 175 mila firme, solo coloro che sono stati già eletti con lo stesso simbolo».
Così sulla scheda il simbolo dei radicali sarà la lista Bonino. Come nel 2004, quando presero il 2,2% e dunque con la nuova soglia di sbarramento al 4 sarebbero stati tagliati fuori dal parlamento.
Per usare un eufemismo, al Nazareno, sede nazionale del Pd, certo non si strappano i capelli per la rottura con il partito di Pannella. «Certo - spiega un parlamentare vicino al segretario Franceschini - a differenza di Di Pietro hanno rispettato l'impegno a entrare nel gruppo del Pd ma per il resto, nel voto e negli emendamenti, sono una componente completamente autonoma. E questo ha creato malumori e proteste». Dunque l'esperienza di aprile, con l'ospitalità offerta nelle liste democratiche, «è finita». Addio, dunque. Senza rancori almeno da parte democratica. Un po' delusa invece Emma Bonino intervistata da La7. Il Pd? «Che ci sia Veltroni o Franceschini segretario è come se fossimo degli appestati». Poi aggiunge: «Ci sono silenzi che sono più eloquenti più di mille parole. Siamo al 10 aprile e noi non abbiamo rapporti di sorta con il Pd. Li abbiamo all'interno del gruppo in parlamento, facciamo a volte battaglie insieme e a volte no. Credo che abbiamo avuto sempre un comportamento leale nelle differenze note, ma il rapporto con il segretario Franceschini non c'è e non so il perché». Infine la stilettata che non chiude del tutto la porta a un eventuale ripensamento: «Si sono alleati con Di Pietro che non ha rispettato nessuna delle parole date e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Se non facessero un altro sbaglio, non sarebbe male». Così, pare, non sarà. Franceschini non commenta la rottura consensuale perché è all'estero. Ma di certo un altro mattoncino della strategia avviata con Veltroni può dirsi archiviato.
Il «correre da soli» oggi è una realtà. Di compagni di viaggio più o meno eterogenei il Pd, vista l'assenza del voto utile per le europee, non ha più bisogno. Anzi, la lista Bonino alla fine forse potrebbe perfino dare qualche noia alle due formazioni ex Arcobaleno (Sinistra e libertà e Prc-Pdci) alla ricerca disperata del quorum vitale per non scomparire anche dal parlamento europeo dopo l'estinzione in quello italiano.
La corsa solitaria è una carta che si intreccia, almeno sul piano simbolico e politico, con la partita sul referendum Segni-Guzzetta. La tensione sui quesiti referendari che, se approvati, ridurrebbero a due «partitoni» il parlamento italiano, affossò il governo Prodi e mette in fibrillazione non solo l'opposizione ma anche la maggioranza di centrodestra. La Lega, com'è noto, vede quel referendum con ostilità perché la costringerebbe a scendere a patti col Pdl.
Anche il Pd, generalmente favorevole ai quesiti, non ha ancora deciso cosa fare. Enzo Bianco, ex relatore della «bozza» di riforma elettorale nella precedente legislatura, apre all'ipotesi di votare il referendum con i ballottaggi delle amministrative del 21 giugno. Un compromesso rispetto all'«election day» integrale (6-7 giugno) chiesto da Franceschini che Berlusconi, come ha fatto intendere, potrebbe alla fine far accettare anche alla Lega. In ogni caso, su quella partita oggi poco considerata influiranno, e non poco, i risultati della soglia di sbarramento delle europee. Si saprà subito, infatti, quanto «pesa» il voto di chi protesta.

il manifesto 11.4.09
L'unico legame con la tradizione sta nel sangue
Il ritorno dei vampiri
di Isabella Mattazzi


Oggi come mai succhiare sangue sembra nutrire uno degli incubi letterari più diffusi: tra gli esempi recenti, Il vampiro di Ropraz di Jacques Chessex, pubblicato da Fazi e Un luogo incerto di Fred Vargas uscito da Einaudi
L'editoria italiana, oggi sembra essere letteralmente invasa dai vampiri. Adolescenti immortali e traslucidi, divoratori di fanciulle dal passo silenzioso, contadini serbi sepolti da trecento anni sotto un cumulo di pietre perché non possano più tornare, sono i nuovi abitatori degli incubi letterari della nostra contemporaneità. Chiunque si sia trovato ultimamente a scorrere qualche titolo in libreria, non avrà potuto fare a meno di notare la presenza di un corpus così imponente e articolato da fare quasi genere a sé. E non soltanto con romanzi come I fratelli del vampiro, Il sangue nero, La condanna del vampiro o Vampirius, prodotti sparsi di quel sottobosco culturale che da sempre ha animato le sale d'aspetto dei treni e i viaggi in metropolitana nelle grandi città, ma anche con testi di un certo spessore come Il vampiro di Ropraz di Jacques Chessex (traduzione di Maurizio Ferrara, postfazione di Daria Galateria, Fazi, 2009, pp. 91, euro 14), o Un luogo incerto di Fred Vargas appena pubblicato da Einaudi con la bella traduzione di Margherita Botto (pp. 392, euro 18,50).
Se Newton Compton o Fazi devolvono già da qualche anno una parte del proprio catalogo al vampirismo, la leggenda di Twilight, nata dalla penna miliardaria di Stephenie Meyer, negli ultimi mesi ha letteralmente polverizzato al cinema, per incassi e numero di liceali emozionatissimi in sala, la saga forse adesso un po' stanca e imbolsita di Harry Potter e dei suoi sequel. Oggi come non mai, succhiare sangue sembra essere una delle pratiche più amate tra tutti gli incubi e le ossessioni letterarie con cui possiamo scegliere di rovinarci l'esistenza.
In comune un dato simbolico
Ma chi sono questi nuovi vampiri? Che cosa hanno fatto per imporsi in pochi anni come vero e proprio mainstream della narrativa fantastica contemporanea? Una cosa è certa, nulla di tutto quello che facevano i loro predecessori vittoriani e decadenti. Niente come la sessualità ambigua di Carmilla (sogno proibito di intere generazioni tra Otto e Novecento) sembra essere più lontano dal codice sentimentale dei pallidi sedicenni di Stephenie Meyer. Nessuna traccia di castelli in rovina tra le case del povero villaggio di Ropraz nella Svizzera francese. Nessun dandismo alla Polidori (alla Byron) per i masticatori sepolti della Vargas. Nessuna somiglianza, dunque. Nessuna parentela con una tradizione tematica tra le più ingombranti che la letteratura moderna abbia mai conosciuto. Completamente abbandonato ogni orpello neogotico, senza più sudari di seta, bare foderate, candelabri e pipistrelli, i vampiri di oggi, i «nostri» vampiri, sembrano mantenere come unico legame con il proprio passato un solo dato simbolico, il sangue. Come se la spoliazione di ogni particolare superfluo avesse reso ancora più evidente il nucleo centrale, quel grumo primordiale di bisogni e paure senza nome attorno al quale l'uomo costruisce le figure simboliche del proprio immaginario, il tema del sangue sembra essere infatti il solo tratto ancora irrinunciabile oggi per fare di un mostro un vampiro. Quell'unico elemento invariabile, rimasto praticamente intatto attraverso tre secoli letterari di creature senz'ombra e senza riflesso. Il nodo della questione insomma, probabilmente il più radicato, certamente il più antico della storia del vampirismo.
Ben più dei supereroi dalla pelle perfetta di Twilight, o dell'antico scandalo dello stupratore di cadaveri del 1903 di cui parla Chessex, le indagini del commissario Adamsberg nell'ultimo libro di Fred Vargas ci portano direttamente al cuore del problema. Resti organici sparpagliati su un pavimento come semi in un campo. Un uomo massacrato a colpi di martello e di sega elettrica senza che apparentemente nessun motivo giustifichi la furia gelida di un lavoro di ore e ore su un essere umano ormai irriconoscibile. Un commissario dall'aria distratta, incaricato di seguire la vicenda senza che l'orrore di quei «brandelli di carne abbandonati come scarti sul banco di una macelleria» riesca a paralizzarne i pensieri e l'intelligenza analitica. Ha inizio così, con un cadavere senza più piedi e senza più denti, con un morto simbolicamente non più in grado di camminare o di mangiare, il lungo viaggio di Un luogo incerto tra le radici storiche, direttamente alle fonti del mito del vampiro. Che cosa può avere spinto infatti un assassino a intestardirsi in quel modo sulla sua vittima se non la paura disperata di un suo ritorno in vita? Come spiegare altrimenti quell'accanimento sulle articolazioni delle caviglie, sulle dita dei piedi, sui denti, estratti uno a uno e ridotti in schegge con la precisione paziente di un intagliatore di diamanti?
Il giornalista Paul Vaudel è stato ucciso come si uccideva un tempo un vampiro. Il suo fegato e il suo cuore distrutti come secoli prima si bruciavano i luoghi del corpo in cui risiedevano l'anima e la vita. I tendini delle sue gambe spappolati come, nelle campagne, era uso legare le gambe o tagliare la testa e incastrarla tra i piedi perché il morto, una volta sveglio, non potesse più riconoscere la strada di casa.
Il vampiro come fenomeno «moderno» nasce a fine Seicento ai confini orientali dell'impero austro-ungarico. La Valacchia, la Moravia, la Serbia sono i nuclei, poverissimi e contadini, della nascita e dello sviluppo del vampirismo. Nulla a che vedere con le atmosfere aristocratiche a cui l'Ottocento decadente ci ha abituati. Le prime epidemie storicamente documentate di questo fenomeno appartengono piuttosto al dominio angusto della lotta per la sopravvivenza, alla paura ancestrale che i morti possano tornare per sottrarre ai vivi (come i lupi, gli orsi, le volpi) la loro parte di cibo. Più che raffinati seduttori o magnetici geni del male, i vampiri sei-settecenteschi sono infatti innanzitutto dei formidabili masticatori. La loro passione smisurata per il sangue, per la carne e le viscere di uomini e animali affonda direttamente le proprie radici nelle ansie di conservazione e gestione delle risorse primarie delle società contadine nell'Est europeo.
In un contesto in cui il cibo è scarso, la più grande angoscia immaginabile è quella di doverlo dividere ulteriormente. E il morto-in-vita, figura liminare, sovvertitore per sua stessa natura di ogni ordine costituito, sembra essere la rappresentazione immediata e sconvolgente di un'inaspettata rottura della catena alimentare; chi è morto infatti non può più tornare indietro, ma soprattutto chi è morto non può e non deve dividere il cibo con i vivi.
Qualche illustre precedente
Sono numerosi i trattati dell'epoca che raccontano come di notte, nei casolari accanto ai cimiteri, uomini e donne venissero svegliati da rumori sordi, grugniti, schiocchi secchi e insistenti. Una volta individuate e aperte le tombe, cadaveri dal colorito vermiglio, per nulla toccati e offesi dalle mani impietose della decomposizione, si offrivano immobili allo sguardo degli spettatori con gli occhi sgranati e i brandelli del sudario ancora stretti tra le gengive contratte, a immagine perturbante e bestiale di un desiderio incontenibile di fame e distruzione. Nelle Lettres juives del 1738, Jean-Baptiste Boyer, marchese d'Argens scrive come in Serbia, nel villaggio di Kiseljevo, un morto seppellito da tre giorni avesse bussato alla porta del figlio chiedendo di potersi mettere a tavola insieme a lui e, non avendo ricevuto risposta, ne avesse causato la morte improvvisa. Augustin Dom Calmet racconta nel 1751 di un contadino tornato indietro dal mondo dei morti per chiedere alla moglie le scarpe, senza le quali probabilmente non sarebbe potuto comodamente andare alla ricerca delle sue vittime.
Charles Ferdinand de Schertz, vescovo di Olmutz e di Osnabruch riporta come nelle notti di luna intorno al suo villaggio si sentissero le mucche gemere per il terrore e il dolore di morsi ben più pericolosi di quelli di un lupo. Nel giro di una manciata di anni la paura dei vampiri (la paura della loro fame) diventa così radicata nella popolazione da costringere più volte Maria Teresa d'Austria a inviare il proprio medico personale per assistere a riesumazioni e conseguenti decapitazioni di cadaveri. Corpi di donne, uomini, vecchi, fanciulle vengono trovati, per tutto il Settecento, sdraiati nelle loro bare «come appena addormentati», rossi di gote e rigonfi di sangue fresco, un sangue talmente giovane e forte da uscire a fiotti, non appena incisa la pelle, fino a inondare letteralmente il terreno, riversandosi nelle tombe circostanti. La paura dei contadini di non riuscire a difendere i cavalli, le galline, i propri stessi bambini e le donne dall'appetito terribile dei parenti, da coloro che fino a un giorno prima erano stati amici, padri, amanti sembra creare negli anni una serie infinita di rituali di protezione e di contenimento; impastare il sangue sgorgato dal cadavere di un revenant con della farina e farne del pane da mangiare tutti i giorni, seppellire i propri morti con un'ostia o un sasso in bocca, mangiare la terra dove riposa il vampiro, e infine, come extrema ratio devastare il suo corpo, tagliarne le mani perché non possa più afferrare, legarne i piedi perché non possa più fare ritorno, strapparne i denti perché non possa più divorare.
Il monito di un antico legame
In seguito, di tutte queste morti povere, di tutti questi cadaveri eternamente affamati, divoratori di maiali e di familiari si perderà lentamente la memoria. Al tema antico della sopravvivenza, alla paura niente affatto metaforica del cannibalismo, tra Otto e Novecento, si aggiungeranno altri terrori, altri fantasmi nati da ben altri problemi che la difficoltà di sostentamento di qualche contadino ungherese. Il sangue, da elemento «reale» (sangue degli animali nelle stalle, sangue degli uomini nelle case) si trasformerà sempre più in un veicolo simbolico, mescolandosi alla sessualità, al desiderio, al timore del tutto borghese della perdita di identità.
Che l'immagine del vampiro e il suo continuo bisogno di sangue possano in qualche modo essere riflesso delle condizioni socio-economiche dell'epoca che ne alimenta la leggenda, non è cosa passata del tutto inosservata. Franco Moretti in un saggio degli anni ottanta sul Dracula di Bram Stoker ne aveva intuito il legame, mettendo in diretto rapporto la produzione letteraria orrorifica di matrice vittoriana e il capitalismo. Flusso di sangue e flusso di denaro. Dracula, vampiro solitario e dispotico, e capitale monopolistico incline a distruggere ogni forma di indipendenza economica. Ma perché le morti contadine di Kiseljevo tornassero, perché il vampirismo riacquistasse il suo significato ancestrale di lotta senza quartiere per la sopravvivenza, occorrevano i nostri giorni e l'assassinio efferato del giornalista Pierre Vaudel. Vampiro figlio di vampiri, discendente di quel Peter Blagojevic, seppellito in un «luogo incerto» della Serbia dell'Est, Pierre Vaudel sembra infatti andare direttamente al cuore di quell'ossessione senza nome, di quel contenuto inconscio impossibile a dirsi se non appunto attraverso il filtro di un modello formale in grado di esprimerne e insieme di occultarne il portato perturbante: il terrore che il cibo finisca. Creatura postmoderna, devastatore di corpi e a sua volta corpo devastato, in un'epoca in cui alla povertà contadina si sono sovrapposte altre povertà, Pierre Vaudel è il monito di un antico legame tra paura e immagini.
Le sue ossa fatte a pezzi stanno lì a dirci che le modalità di rappresentazione della fame sono sempre le stesse. I suoi denti frantumati e dispersi raccontano che la macchina immaginativa dell'uomo funziona sempre con gli stessi ingranaggi. «Adamsberg risalì lentamente il boulevard, immaginando i germogli di Kiseljevo che marcivano intorno alla tomba.
Dove ricresceranno, Peter ?».

il manifesto 11.4.09
L'editoria malgrado la crisi
di Francesca Borrelli


IL MERCATO DEL LIBRO PASSA PER QUESTE PORTE Alcuni tra i responsabili della editoria maggiore parlano degli effetti razionalizzanti della attuale congiuntura economica. La messa in scena delle aste selvagge, con cifre a sei zeri e tempi di scelta dei titoli ridotti a poche ore, è finita. All'altro capo della filiera, però, si accentua la tendenza delle librerie a fare ruotare l'esposizione dei libri a una velocità proibitiva, danneggiando sia i piccoli editori che i lettori
Nel mondo dell'Ancien Régime successe all'editoria qualcosa di simile a quel che oggi accade nel sistema immobiliare: la prima crisi libraria, a Rivoluzione appena scoppiata, coincise in fondo con una crisi finanziaria, perché la maggior parte degli affari era condotta a credito e una parte notevole delle entrate di una impresa poteva essere costituita da cambiali commerciali, effetti all'ordine e lettere di cambio. Lo spiega Frédéric Barbier nella sua Storia del libro. Dall'antichità al XX secolo (Dedalo 2004), commentando il pericolo che era a quel tempo all'ordine del giorno. «Ebbene, non soltanto questi effetti circolano con firme di credito sulle quali non è sempre possibile avere informazioni precise, ma il fallimento di un attore abbastanza importante può far vacillare, con una reazione a catena, tutto l'equilibrio finanziario della catena.»
Sono passati più di due secoli e le minacce che oggi affliggono il mondo dell'editoria sembrano essere di tutt'altra natura. Certo è che tra i due estremi del book on demand, ossia il libro in una sola copia stampata su ordinazione e il mercato dei bestseller, ovvero i libri che superano le 30.000 copie vendute, l'industria editoriale ha conosciuto cambiamenti più forti negli ultimi quindici anni di quelli avvenuti lungo tutto il corso del XX secolo.
Radiografia del dopo Schiffrin
La fotografia della situazione al tempo stesso più avvincente, e più puntuale ce la restituì, alcuni anni fa André Schiffrin in due suoi pregevoli libri - Editoria senza editori, 2000 e Il controllo della parola, 2006 (entrambi di Bollati Boringhieri) quando si propose di seguire la parabola del libro e il suo rapido passaggio da prodotto di una attività di carattere artigianale a concentrato di profitti perseguiti da marchi editoriali via via assorbiti dai grandi gruppi internazionali. Le conseguenze più evidenti che Schiffrin denunciava erano la rinuncia a un progetto culturale, le scorciatoie nella acquisizione del prestigio realizzate saccheggiando i cataloghi altrui, l'accaparramento di autori della concorrenza a suon di anticipi, e soprattutto la rincorsa a margini di profitto tradizionalmente estranei al mondo dell'editoria: se una volta si limitavano al 4 per cento, oggi si pretendono tra il 12 e il 15 per cento. «Contrariamente a ciò che ci si vorrebbe far credere, il controllo dei media e del nostro modo di pensare da parte dei grandi gruppi non è una ineluttabile fatalità legata alla globalizzazione, bensì un processo politico al quale ci si può opporre, e con successo»: così André Schiffrin concludeva, circa quattro anni fa, il suo ultimo pamphlet.
Sul fronte dell'editoria, la battaglia è da tempo ingaggiata: ne sono protagoniste le più valide tra le piccole case editrici indipendenti (alle quali dedicheremo la prossima puntata di questa inchiesta, il 12 aprile) che cercano di competere come possono e di ritagliarsi uno spazio di visibilità, mentre non solo le grandi concentrazioni incalzano, ma monta la minaccia del ricorso alla stampa digitale, che oggi è in grado di sfornare all'incirca mille pagine al minuto. Confrontata con la sofferenza del mondo imprenditoriale, la crisi patita dalla editoria maggiore in coincidenza con la attuale recessione viene dichiarata come inesistente: i bilanci dell'anno passato saranno resi noti più o meno in coincidenza con la Fiera del libro di Torino, nel frattempo l'amministratore delegato della Mondadori, Gian Arturo Ferrari, si fa negare e declina l'invito a parlare anche il direttore editoriale della Einaudi, Ernesto Franco, probabilmente convinti - non senza ragioni - che i giornali abbiano una vocazione allarmista alla quale è opportuno non fornire esche. Eppure, la situazione complessiva è tutt'altro che tragica: lo conferma Stefano Mauri, presidente e amministratore delegato della GeMs (Gruppo Mauri Spagnol), che pubblica all'incirca 900 novità all'anno (di cui 400 sono riedizioni e delle 500 opere mai apparse sul mercato italiano all'incirca 150 sono di nuovi autori).
«Nel settembre scorso la crisi nera dei mercati ha indotto a contenere le prenotazioni delle novità in libreria, eppure io guardavo il sell out su Nielsen e anche nelle settimane di calo più insistente della Borsa constatavo che le vendite delle librerie non diminuivano. Poi siamo andati alla Buchmesse di Francoforte, una fiera importante non tanto per l'acquisto dei diritti, che si fa tutto l'anno via Internet, ma per tastare il polso della produzione mondiale, e l'impressione che la crisi finanziaria non si riflettesse sul mercato dei libri è stata confermata. Certo, non circolano più gli anticipi irrazionali che hanno girato fino all'anno passato, con esordienti costati più di centomila euro: la crisi ha imposto una razionalizzazione dei costi, i librai sono più cauti nel prenotare le novità, e gli agenti tengono da parte i loro goielli, perché sanno che gli editori sono meno propensi a spendere. Dunque, tutto assume un carattere di incertezza maggiore, ma poiché noi editori lavoriamo sul medio periodo, il nostro futuro dipenderà da quel che abbiamo fatto negli anni passati, ossia - per esempio - da quella che è stata la nostra capacità di coltivare gli autori a cui teniamo».
La prudenza innanzi tutto
Dall'osservatorio di Stefano Mauri, che è tra quelli con una presa diretta sul ventaglio dell'editoria più a ampio raggio, si sono avvertiti spostamenti di gusto negli ultimi anni? «Mi sembra che dopo l'11 settembre si sia sviluppato un po' di più l'interesse per la saggistica: viviamo in una contingenza storica connotata da violenti scossoni e repentini cambiamenti, di conseguenza i lettori sono più attenti a capire cosa sta succedendo in questo mondo globalizzato; d'altra parte, nel campo della narrativa abbiamo assistito, più o meno a partire dal 2000, a una maggior fiducia del pubblico nella nuova generazione degli autori italiani, che per parte loro sono più attenti alla dimensione dell'entertainment di quanto non lo fossero i loro padri.»
È un argomento, questo, del tutto estraneo alla Bollati Boringhieri, che l'anno passato ha fatto 112 novità e 132 ristampe, e per l'anno in corso si prepara a ridimensionare il numero dei titoli passando a 85 novità e 90 ristampe, restando fedele alla promozione del libro destinato a durare nel tempo. Soprattutto le collane scientifiche possono contare su lettori appassionati, dunque - dice Alberto Conte, membro del comitato scientifico e del consiglio di amministrazione della Bollati Boringhieri - tanto meglio se questa congiuntura porterà a eliminare qualche scoria. Quest'anno, nelle collane scientifiche faremo poche novità in meno e qualche riproposta in più dal catalogo, ma soprattutto per ragioni di contenuti, per esempio perché il succedersi dell'anniversario di Darwin e poi di Galilei ci ha consentito di riproporre qualche nostro classico.» Certo, poiché la sua strategia non è quella di inseguire il bestseller, anche per quanto riguarda gli anticipi la casa editrice torinese si è sempre comportata in modo molto parsimonioso, e dunque non è questo il capitolo al quale guardare per un eventuale contenimento dei costi: «mentre altri editori non esitano a pagare fino a venti, trentamila dollari anche per libri scientifici, noi non abbiamo mai proposto anticipi che andassero oltre i due-tremila dollari; e cerchiamo sempre di più di contenere i prezzi dei titoli.»
Diversamente morigerati, ma tradizionalmente restii a gettarsi nelle aste a sei zeri, anche gli editor della Feltrinelli confermano la loro politica «conservatrice». Fabio Muzi Falconi, responsabile della narrativa straniera ricorda, con l'orgoglio di chi riesce a fare bene con poco, che «da sempre siamo stati quelli che davano gli anticipi più bassi, fatte salve le eccezioni: per esempio per una autrice come Isabel Allende, i cui diritti vengono trattati direttamente da Carlo Feltrinelli, siamo nell'ordine delle centinaia di migliaia di euro, però bisogna considerare che ne vendiamo davvero tante copie. In genere, la nostra è una politica piuttosto realista, nella peggiore delle ipotesi ogni nostro libro, almeno per quel che riguarda la narrativa straniera, deve andare in pareggio. Quest'anno taglieremo forse due o tre titoli, quelli che si vendono meno, ma non intendiamo penalizzare libri di qualità, infatti - per esempio - continueremo a pubblicare un autore difficile come Lobo Antunes, sebbene ne vendiamo pochissime copie.»
Anche per Muzi Falconi la crisi si presenta, dunque, più come una occasione razionalizzante che come una difficoltà: «pubblichiamo tra le cento e le centoventi novità l'anno, cinquanta tra narrativa italiana e straniera, il resto di saggistica e tra giugno e settembre cambieremo distribuzione passando alla pde, dunque salteremo due o tre lanci estivi, ma per motivi che, appunto, nulla hanno che vedere con la crisi.» La storica cautela della Feltrinelli viene confermata anche dal responsabile della narrativa italiana, Alberto Rollo: «è tempo di stare con i piedi per terra e l'immaginazione viva. Abbiamo la necessità di meditare meglio e al tempo stesso di privilegiare la continuità, coltivando i nostri autori di bandiera, e cercando voci più giovani. Siamo incoraggiati dal fatto che sta tornando, anche presso gli esordienti italiani, l'attenzione alla trama, in passato spesso proiettata sullo sfondo a vantaggio della tessitura linguistica, dello stile: ci si è affrancati da quel leit motiv avanguardista per cui noi italiani non saremmo portati per il romanzo.»
La storia, anche nel campo dell'editoria, presenta i suoi ricorsi e poche sorprese: tra queste, la fortuna incontrata dal genere reportage scritto in uno stile marcatamente narrativo. È stata una delle scommesse, vincenti, di Matteo Codignola, che racconta come alla Adelphi, pur non risentendo della congiuntura critica, ci si accordi tuttavia alla pratica generale della prudenza: «facciamo 80-90 titoli tra novità e riproposte, e non ridurremmo il numero perché il tentativo di non strafare è per noi una costante: la lotta è sempre per cercare di pubblicare due libri in meno piuttosto che due in più. È vero che il genere del reportage incontra una buona risposta dei lettori ma, paradossalmente, questi che abbiamo pubblicato nella collana dei Casi sono un po' scrittori per scrittori, la gran parte del pubblico continua a essere più interessato alla narrativa.»
Quel che cambia nella filiera
E se dovesse segnalare le novità più significative degli ultimi anni nella filiera del libro Matteo Codignola a cosa penserebbe? «Da un certo punto di vista il mutamento più importante sta nel rapporto con le librerie, che si è molto complicato: la velocità, la rotazione ossessiva dei titoli, hanno trasformato le librerie in locali di passaggio dove i libri transitano con tempi molto rapidi, e con un meccanismo che penalizza fortissimamente i piccoli editori; ma anche dalla parte di chi legge si lamenta la mancanza di tempo per orientarsi. Questa, però, è una fase di passaggio, non bisogna mai dare le cose per eterne. Per esempio negli ultimi tempi, già a partire dal salone del libro di Londra dell'anno passato e di più a Francoforte abbiamo visto, grazie al cielo, lo sgonfiamento di una bolla internazionale che scimmiottava in modo un po' patetico la finanza d'assalto: parlo di tutta quella messa in scena determinata dalle aste selvagge, con tempi di scelta ridotti a ore per comprare libri presentati - ogni volta - come il caso del decennio. La situazione stava virando verso il grottesco puro, anche perché i libri non sono diamanti, né armi, né droga, è inutile far finta che muovano grandi quantità di denaro. Anche le cifre per gli anticipi e per la acquisizione dei diritti si sono sgonfiate, tutto è stato riportato, finalmente, a una vaga sensazione di realtà.»
Punti di riferimento internazionali
Dunque, almeno per quanto riguarda la grande editoria italiana, la crisi mondiale sembrerebbe piuttosto riscattarla da una certa arroganza degli agenti, che risultano alla fine dei conti i veri penalizzati in un mercato che non può più concedersi all'euforia. Anche Paolo Zaninoni, direttore editoriale della Rizzoli e della Bur, dice che «almeno fino alla fine di febbraio il mercato librario non ha dato segni di cedimento; ma non è detto che debba restare così per tutto il 2009, perciò navighiamo a vista. Tra Rizzoli e Bur facciamo circa 500 novità l'anno, più o meno il 30 per cento sono manuali, libri illustrati, arte e varia, il 10 per cento sono libri per ragazzi e il restante 60 è diviso in maniere paritetica tra fiction e saggistica. Quest'anno abbiamo solo un po' modificato il rapporto tra novità rilegate e tascabili, ma dipende dal fatto che ricorre il sessantesimo anniversario della Bur.» Anche Zaninoni è d'accordo sul fatto che gli autori italiani si sono guadagnati una maggior fiducia negli ultimi anni? «Sì, e una delle ragioni principali credo stia nel distacco da un certo condizionamento della nostra tradizione letteraria, e nel fatto che i punti di riferimento sono diventati più internazionali.»
«C'è una koiné narrativa globalizzata che attinge a fonti esterne ai nostri confini. Inoltre, si è formata una lingua media priva delle scollature tra alto e basso che hanno caratterizzato gli anni passati.» Ma forse è vero che se si vuole andare a cercare quali siano i cambiamenti più recenti nella industria del libro, gli aspetti ai quali bisogna guardare sono soprattutto «i canali di distribuzione e di vendita »: ne è convinta Elisabetta Sgarbi, direttore editoriale della Bompiani, per la quale «la figura del libraio che suggerisce il titolo di cui si innamora, al di là della pressione commerciale dell'editore, rischia di essere un romantico ricordo. E qualche libro, anche qualche bel libro, ne soffre. Però, il lettore forte, oggi come ieri, va a cercare le sue letture ovunque con estrema attenzione, per esempio sul web, dove ci si scambiano segnalazioni, critiche e consigli.»
Anche per Elisabetta Sgarbi, in fondo, la crisi agisce come motore di razionalizzazione: «in un clima di sfiducia nel mercato si chiede attenzione ai ricavi effettivi e il ridimensionamento delle uscite è una strada inevitabile, sebbene la Bompiani non abbia mai forzato il numero dei titoli e abbia sempre misurato il numero delle novità sull'intento di lavorare al meglio i libri pubblicati.» Anche voi avete investito di più sugli autori italiani? La Bompiani ha una tradizione di narrativa straniera che continua a essere ostinatamente coltivata, e a buon diritto; ma è anche vero che l'attenzione prestata agli autori italiani è andata crescendo negli ultimi anni, e lo si deve proprio al fatto che la nostra narrativa ha attinto nuove forze dal cuore stesso della società, che sta cambiando a ritmi vertiginosi. Molti scrittori lamentavano di non aver quasi più nulla da dire, e ora si sono come risvegliati, scoprendo un mondo imprevisto e imprevedibile che aspettava di essere raccontato.»

Liberazione 10.4.09
"Stalin. Storia e critica di una leggenda nera" di Domenico Losurdo. La biografia del dittatore tra scelte violente e politiche realiste
Il socialismo alla prova del gulag. Tanti drammi per un simile risultato?
di Guido Liguori


Stalin mostro sanguinario o politico realista costretto dalla storia a scelte obbligate? Nel suo ultimo libro (Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, con un saggio di Luciano Canfora, Carocci, pp. 382, euro 29,50) Domenico Losurdo opta per la seconda risposta. E' una tesi controcorrente e già per questo il libro è da leggere: opponendosi al "senso comune" prevalente fa pensare e induce a problematizzare ipotesi storiografiche che si danno ormai per acquisite.
Quale è l'idea di fondo di Losurdo? Le tesi interpretative del fenomeno staliniano che più hanno inciso - Trockij, Chruscev, Hannah Arendt - sono state determinate dalla lotta politica interna al campo comunista o dalla Guerra fredda. Da qui un «ritratto caricaturale» di Stalin che sottovaluta radicalmente il contesto concreto del suo operare. In questo contesto l'autore fa rientrare non solo la "lunga durata" della storia russa (i conflitti medioevali nelle campagne, l'odio per gli ebrei, il banditismo nato dalle carestie), non solo lo "stato d'eccezione" in cui si collocò l'esperienza sovietica, ma anche i lati deboli dell'ideologia marxista, un «universalismo incapace di sussumere e rispettare il particolare», le tendenze escatologiche che volevano abolire in tempo rapidi proprietà privata, nazione, famiglia, ecc.
Lo stesso Gulag si espande con la «collettivizzazione forzata dell'agricoltura». Come si spiegherebbe la cruciale svolta del '28-'29? Dopo il trattato di Locarno, il riavvicinamento Francia-Germania, il colpo di Stato di Pilsudski in Polonia, la rottura delle relazioni commerciali e diplomatiche da parte del Regno Unito, i militari sovietici lanciarono l'allarme: il pericolo di guerra aumentava, bisognava industrializzare e garantire la fedeltà delle campagne. Dopo la «notte di san Bartolomeo» (Bucharin) contro i contadini, Stalin avrebbe cercato di tornare alla normalità, tanto che Trockij nel 1935 lo accusò di «liberalismo» e di «abbandono del "sistema consiliare"», di «ritorno alla "democrazia borghese"». In effetti Stalin - per far decollare la produzione - si batte contro il «livellamento "sinistroide" dei salari», contro l'egualitarismo, e propugna una nuova Costituzione, come si sa poi rimasta sulla carta. Di nuovo irrompe infatti l'emergenza, e il terrore: Losurdo - che parte dall'esame di una letteratura internazionale molto amplia, e "anti-stalinista" - accredita il fatto che l'opposizione trockista fosse un "pericolo" reale ancora nella prima metà anni '30.
Dopo la guerra, ancora, Stalin dichiara che la dittatura del proletariato non era l'unica via al socialismo, non era obbligatoria nei paesi dell'Est europeo. Ma poi irrompe la Guerra fredda e la sicurezza nazionale dell'Urss riprende il sopravvento.
Di contro alla "cattiva" eredità dell'"utopismo" marxista Stalin impara dunque - per l'autore - la «vacuità dell'attesa messianica del dileguare dello Stato, della nazione, della religione, del mercato, del denaro, e ha altresì direttamente sperimentato l'effetto paralizzante di una visione dell'universale incline a bollare come una contaminazione l'attenzione prestata ai bisogni e agli interessi particolari di uno Stato, di una nazione, di una famiglia, di un individuo determinato». Ma - questo il suo limite per Losurdo - la lotta contro «l'utopia astratta» si ferma più volte a metà strada, per non entrare in totale rotta di collisione con alcuni degli assunti di fondo della cultura marxista e comunista. Insomma, nei tre decenni di "stalinismo" i ripetuti tentativi fatti da Stalin di abbandonare lo stato d'eccezione per tornare a una relativa normalità sarebbero stati frustrati sia dalla situazione internazionale, sia dall'utopia astratta presente nel marxismo, alimentata dall'opposizione interna. Con questa lettura di fondo, Losurdo dedica molte pagine a demolire la "leggenda" chruscioviana legata ai successi militari dell'invasore nazista; a sottolineare l'attenzione prestata da Stalin alle diverse "nazionalità"; a lodare il "realismo" stalinista a fronte delle tendenze di sinistra che volevano il superamento dello Stato, della famiglia, del denaro.
Losurdo riconosce e condanna la svolta brutale nel sistema concentrazionario che si ha nel '37. Ma sottolinea come nel Gulag sovietico non vi fosse volontà omicida, e dunque non sia possibile l'accostamento ai lager nazista: quando muoiono a migliaia nel Gulag, durante la guerra, muoiono di stenti a migliaia anche nel resto dell'Urss.
E' difficile seguire Losurdo, con la necessaria competenza critica, in tutte le pieghe del suo discorso. Alcune delle sue tesi (la critica al concetto di «totalitarismo», il rifiuto di considerare le decisioni del vertice sovietico come irrazionali, il richiamo al contesto storico) appaiono convincenti. Ciò che non convince è un discorso troppo portato a vedere sempre nella soluzione adottata la migliore delle soluzioni possibili e a sottovalutarne l'effetto disastroso sulla politica dell'egemonia (vedi la rottura dell'alleanza leninista operai-contadini) e nella costruzione stessa di una idea espansiva di socialismo. Si prenda ad esempio il Gulag: può uno Stato che si vuole socialista creare un sistema concentrazionario così vasto, in cui (anche se non sempre e ovunque) vi furono condizioni di vita - secondo le parole dello stesso Vysinskij, che Losurdo riporta - che ridussero «gli uomini "a bestie selvatiche"»? Non è già questo fatto una macchia indelebile per uno Stato che si voglia socialista? Non consola sapere che peggio fece - per fare un esempio - il Regno Unito con gli irlandesi o con i deportati in Australia: ciò che ci si aspetta da un sistema che fa dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo la sua legge non è giustificabile per uno Stato che nasce per combattere tale sfruttamento e tutto ciò che di "bestiale" vi è nell'umanità. E ancora: la situazione oggettiva aveva indotto a irrigidire l'organizzazione del lavoro, a rinunciare a un nuovo modo di intendere i rapporti tra i sessi, al superamento graduale dei limiti nazionali. Ma a questo punto non viene da chiedersi: valeva la pena di fare una rivoluzione? A cosa è servita? Credo di conoscere la risposta di Losurdo: enorme è stato comunque il sussulto di liberazione, milioni di persone si sono così liberate dal Medio Evo e dal colonialismo, in tutto il mondo. E' vero, e dunque viva la Rivoluzione russa! Ma sembra giusto anche concordare con quanto ha scritto Giuseppe Prestipino sull'ultimo numero di Critica marxista (2009/1): seguendo Losurdo arriviamo alla conclusione che nel '900 il socialismo era impossibile.
Resta la domanda se le scelte fatte nel corso del primo e fallimentare tentativo di costruzione del socialismo abbiano costruito almeno le basi per ritentare l'esperimento nel nuovo secolo o siano oggi un ostacolo in più per chi ci voglia riprovare. Da questo punto di vista lo storicismo giustificatorio di Losurdo - pur avendo alcune ragioni - sottovaluta la possibilità stessa di una alternativa rispetto all'effettivo svolgimento storico: un politico realista può anche diventare un mostro sanguinario, uccidendo così di fatto, ugualmente, la creatura che "con realismo" si propone di proteggere. E se ogni volontà di cambiare anche la qualità della vita quotidiana, i rapporti tra i generi e tra gli esseri umani, le gerarchie e l'alienazione dentro e fuori la fabbrica viene bollata come «utopismo escatologico e anarcoide», non si troveranno facilmente le forze, le volontà, le soggettività per riprendere il cammino.

Liberazione 10.4.09
Si vuole riabilitare Stalin? Non ci stiamo


Ci ha molto amareggiato leggere ieri sulle pagine di "Liberazione" la recensione a un volume che definisce fin dal titolo come "leggenda nera" gran parte della storiografia esistente sulla vicenda storica e politica di Stalin. Recensione che si apre con l'apprezzamento del carattere «controcorrente», di opposizione al «senso comune» che renderebbe il volume capace di far «pensare». Recensione, poi, che quando passa ad assumere vesti "critiche" nei confronti del testo trattato, lo fa nella forma di "dubbi" del tenore seguente: «Può uno Stato che si vuole socialista creare un sistema concentrazionario tanto vasto...?». Come a dire d'un problema quantitativo, piuttosto che di sistema.
Di fronte ai milioni di morti che il sistema dei campi staliniani, la staliniana direzione della "pianificazione socialista" e la pratica staliniana delle purghe omicide degli stessi quadri rivoluzionari hanno lasciato dietro di sé, nella memoria collettiva del mondo intero e della cultura di sinistra in particolare, riteniamo che non ci sia nulla da aggiungere: non c'è interpretazione storica che tenga, piccoli o grandi tentativi revisionisti o negazionisti non possono riguardare la figura di un dittatore feroce e brutale. Oppure, viene da chiedersi, a quando una pagina intera di pubblicità gratuita, sotto veste di recensione "equilibrata", a testi di "rilettura", magari, delle gesta di Ceausescu o di Pol Pot?
Insomma: possiamo serenamente considerare chiuso il confronto su queste tragedie o dobbiamo davvero subirne "revisioni" addirittura apologetiche?
Se questo è ancora considerato da qualcuno come "il campo" della sinistra, o "dei comunisti", ci spiace: non ci stiamo. Queste vicende terrificanti e chi se ne è fatto interprete e animatore nel corso della Storia non possono appartenere, neppure in modo critico e "ragionato" ad alcuna ipotesi di liberazione. Non solo, riteniamo che pubblicare interventi che hanno al proprio centro ipotesi del genere, esplicite o inconscie - su questo come su altri temi -, che considerino come parte del confronto di idee tesi negazioniste (l'esistenza del negazionismo sull'Olocausto non esime certo dal giudicare quello sui crimini staliniani, proprio i "dibattiti" di Losurdo dovrebbero suggerirlo...) rappresenti un salto all'indietro. Specie per un giornale che aveva cercato fin qui di aprire spazi e di liberare energie, preferendo interrogarsi di continuo piuttosto che cercare rifugio nell'eterna riconferma di un'identità interpellata da una storia fatta anche, come indica proprio il caso di Stalin, di mostri e orrori.
Checchino Antonini, Angela Azzaro, Anubi D'Avossa Lussurgiu, Stefano Bocconetti, Guido Caldiron, Paolo Carotenuto, Simonetta Cossu, Carla Cotti, Sabrina Deligia, Laura Eduati, Roberto Farneti, Antonella Marrone, Martino Mazzonis, Andrea Milluzzi, Frida Nacinovich, Angela Nocioni, Paolo Persichetti, Paola Pittei, Sandro Podda, Stefania Podda