mercoledì 15 aprile 2009

Repubblica Roma 15.4.09
Testamento biologico così da oggi le iscrizioni
di Rory Cappelli


La nuova iniziativa del municipio X, dopo quella del registro delle coppie di fatto, da oggi diventerà attiva. Si tratta dell`iscrizione nel registro del testamento biologico, presentato qualche giorno fa dal presidente del X, Sandro Medici, insieme a Mina Welby, moglie di quel Piergiorgio Welby che lottò fino all`ultimo perché diventasse libera la decisione di accettare o meno terapie invasive in caso di morte cerebrale odi situazioni irreversibili. La Welby l`8 aprile scorso, dopo la presentazione ufficiale del nuovo registro, lo ha simbolicamente firmato per prima. E da oggi tutti i cittadini romani, presso la sede del municipio X, in piazza di Cinecittà 11 (IV piano, stanza 147), e poi tutti i mercoledì dalle 15 alle 17, previa prenotazione all`ufficio relazioni con il pubblico, potranno firmarlo e lasciare scritte le proprie volontà. Il modello di testamento dovrà essere compilato alla presenza degli impiegati incaricati: dovranno essere presenti dichiarante e fiduciario, con documento di riconoscimento valido e una sua fotocopia. Il testamento e le fotocopie saranno chiusi in un busta che poi verrà sigillata: il testamento, che avrà un numero progressivo, verrà annotato su un registro. Lo stesso numero comparirà sulla busta chiusa e sulla ricevuta. L`unica spesa sarà quella della dichiarazione sostitutiva di atto notorio (0,26 euro), necessaria al deposito della busta.

Repubblica 15.4.09
Confucio al posto di Mao /1
Nella Cina che riscopre il Saggio
di Timothy Garton Ash


Ma il modello cinese è un mix tra confucianesimo leninismo, taoismo, consumismo occidentale e socialismo
Verrà anche girato un film. Il protagonista sarà Chow Yun-Fat, il duro di tante pellicole di gangster di Hong Kong

Pechino. Da bambino la Cina per me era un cinese un po´ buffo, con i baffi lunghi e sottili una tunica di seta ricamata e un cappello a cono di paglia che con uno strano accento esclamava: «Dice il saggio…». In seguito furono le foto in bianco e nero del gruppo di sculture di epoca maoista "Corte per la riscossione della mezzadria" mostratemi con entusiasmo da un insegnante di inglese. Dopo ancora fu la follia ingenuamente travisata della rivoluzione culturale e delle Guardie Rosse. (Ho ancora la copia del libretto di Mao di quando ero studente). Oggi infine è un accademico cinese che ha studiato in America, in abito scuro, che mi dice in un ottimo inglese, «Dice il Saggio…».
È risaputo che in Cina è in atto un revival del confucianesimo. Le massime del Saggio, adattate per il vasto pubblico da una docente universitaria cinese attenta alle esigenze della a comunicazione di massa, Yu Dan, ha venduto più di dieci milioni di copie, di cui circa sei milioni, pare, in edizione pirata. Il libro è intitolato "Zuppa di pollo cinese per l´anima".
Il campus della prestigiosa Università Tsinghua di Beijing un tempo ospitava una statua del presidente Mao. Oggi vi troneggia Confucio. Una casa di produzione statale finanzierà un film su Confucio. Il Saggio sarà interpretato da Chow Yun-Fat, il duro di tanti film di gangster di Hong Kong. Esistono inoltre scuole private esplicitamente ispirate al confucianesimo.
Questo ritorno di Confucio ha una valenza sia privata che pubblica, tanto sociale che di partito. «Disse il saggio: l´armonia è un bene da tener caro», rimarcò il presidente Hu Jintao nel febbraio 2005, facendosi promotore dell´obiettivo proclamato del partito comunista di perseguire l´armonia nella società e nel mondo. «Da Confucio a Sun Yat-sen», dichiarò il premier Wen Jiaobao qualche anno dopo , «La cultura tradizionale della nazione cinese vanta numerosi elementi preziosi», tra cui citava «spirito comunitario, armonia tra diverse concezioni e condivisione del mondo comune». In un saggio sul nuovo confucianesimo cinese il politologo Daniel A. Bell ironizza sul fatto che il Partito Comunista Cinese (PCC) potrebbe un giorno essere ribattezzato Partito Confuciano Cinese.
In occasione di una mostra allestita nel più grande tempio confuciano di Pechino, è stata esposto un tabellone su cui erano evidenziate le sedi dell´Istituto Confucio nel mondo. L´Istituto Confucio è l´equivalente cinese, relativamente recente, del Goethe Institute tedesco e del British Council britannico. Attualmente le varie sedi estere si dedicano soprattutto all´insegnamento della lingua cinese, ma il messaggio esplicito della mostra è che il mondo potrebbe trarre vantaggio da una miglior conoscenza del pensiero di Confucio.
Si può dare di questa rinascenza del confucianesimo una lettura semplicistica, o più interessante. La lettura semplicistica sta nel cercare nel confucianesimo la chiave per comprendere la società, la politica e persino la politica estera della Cina di oggi. Si tratta di un esempio di Huntingtonismo volgare, come l´ho definito, ossia una versione di basso livello del determinismo culturale presente nella teoria dello Scontro di civiltà di Samuel Huntington. I cinesi sono confuciani per cui si comporteranno così�
Tanto per cominciare esistono molte versioni contrastanti di confucianesimo. Bell individua un confucianesimo progressista, un confucianesimo ufficiale o conservatore, un confucianesimo di sinistra e un confucianesimo popolare non politicizzato (la zuppa di pollo di Yu Dan). Cosa ancor più importante il confucianesimo è solo uno degli ingredienti dell´eclettico mix che contraddistingue la Cina di oggi. Molte caratteristiche della società e del sistema politico cinese possono essere definite senza riferimento alcuno al confucianesimo, e certe farebbero rivoltare il Saggio nella tomba. Accanto al confucianesimo si distinguono elementi di leninismo, capitalismo, taoismo, consumismo occidentale, socialismo, il legalismo di tradizione imperiale cinese e altri ancora.
E´ proprio questo mix che identifica il modello cinese, peraltro non ancora pienamente compiuto. Perché la Cina resta un paese in via di sviluppo in ogni senso del termine. Sapremo con precisione qual è il modello cinese quando avrà raggiunto un grado superiore di sviluppo. Nel frattempo, dovendo dare un´etichetta alla Cina di oggi il confezionismo sarebbe un miglior candidato rispetto al confucianesimo. Il segreto sta nella confezione.
Ne consegue che è un grave errore concepire la conversazione politica e intellettuale con la Cina come "dialogo tra civiltà". In questa accezione noi occidentali mettiamo in tavola i nostri cosiddetti "valori occidentali" , i cinesi i loro cosiddetti "valori cinesi" e poi si vede quali pezzi corrispondono e quali no.
Sciocchezze. Non esiste una civiltà occidentale o cinese pura, incontaminata, a parte. Da secoli tutti ci mescoliamo e soprattutto negli ultimi due. La purezza culturale è un ossimoro. È vero, il confucianesimo è più importante del cattolicesimo in Cina, e il cattolicesimo è più importante del confucianesimo in California, ma in oriente c´è più occidente e in occidente più oriente di quanto in genere si immagini. Inoltre già 2500 anni fa, quando la Cina e l´Europa erano davvero due mondi separati, certe tematiche affrontate da Confucio erano le stesse di Platone e Sofocle , perché sono tematiche universali. Non sono questioni "orientali" o "occidentali", sono questioni umane.
L´approccio interessante al confucianesimo da parte occidentale - nell´ambito di un dialogo che gli istituti Confucio farebbeno bene a sostenere - è del tutto diverso. Parte da una tesi semplice: Confucio era un grande pensatore che ancora oggi ha qualcosa da insegnarci. Nel corso di duemila anni e più numerose scuole hanno reinterpretato il pensiero di Confucio nelle varie epoche ma non solo, hanno anche aggiunto farina del loro sacco. Dovremmo leggere Confucio, e queste interpretazioni come leggiamo Platone, Gesù , Buddha o Charles Darwin, e tutti i loro interpreti. Non si tratta di un dialogo tra civiltà, bensì di un dialogo interno alla civiltà. La civiltà umana , vale a dire, ciò che ci rende migliori delle bestie.
Per condurre questo dialogo la maggior parte di noi dipende dai traduttori. Qui a Pechino ho riletto la traduzione di Simon Leys dei "Detti di Confucio" con le note dense di robusti riferimenti ad autori occidentali (il gentiluomo colto di Confucio paragonato all´ honnete homme di Pascal e così via). Grazie a Leys, trovo i Detti infinitamente più accessibili, godibili e gratificanti rispetto al testo principale di un´altra tradizione culturale con cui noi europei dobbiamo confrontarci: il Corano. Ovviamente certi passaggi sono oscuri e anacronistici , mentre altri - che esaltano il governo degli uomini invece del governo del diritto, ad esempio - si pongono in forte contrasto con il liberalismo contemporaneo. Ma molti dei detti attribuiti a Confucio emanano un umanesimo laico di grande attualità.
Preferisco la formulazione confuciana della regola d´oro della reciprocità - «Non imporre agli altri quello che tu stesso non desideri» - a quella cristiana. Qual è il compito del governo? «Dare la felicità alla gente del luogo e attrarre migranti da lontano». Come servire al meglio il nostro capo politico? «Ditegli la verità, anche se lo offende». E la massima migliore: «Si può privare un esercito del suo comandante in capo, ma non si può privare il più umile degli uomini della sua libera volontà».
Ma se queste sono riflessioni familiari in un contesto inconsueto, i detti di Confucio contengono anche accenti del tutto particolari, ad esempio esaltano una sorta di responsabilità familiare allargata alle generazioni sia passate che future. Non è una cattiva idea questa, oggi che violentiamo il pianeta lasciatoci in eredità dai nostri avi. Qualche mese fa uno dei sottosegretari britannici all´istruzione si è attirato qualche frecciata satirica per aver dichiarato che agli scolari inglesi non farebbe male studiare Confucio. Non potremmo farlo tutti? Non solo impareremmo qualcosa dei cinesi, ma anche qualcosa di noi stessi.
www.timothygartonash.com. Traduzione di Emilia Benghi

Repubblica 15.4.09
Confucio al posto di Mao /2
Il paese ritrova la autostima e il suo filosofo guida
Maestro Kung e la rivincita sui comunisti
di Federico Rampini


Nel ceto medio cinese esplode un fenomeno editoriale, il best-seller intitolato La Cina scontenta. Un libro dai toni sciovinisti, che imputa all´Occidente un bilancio fallimentare. Plebiscitato dalla gioventù cosmopolita di Pechino e Shanghai, il saggio dà sfogo a un risentimento represso, incita i cinesi a liberarsi dei complessi d´inferiorità e a occupare il posto che gli spetta nel mondo. Secondo Wang Xiaodong, uno degli autori, la recessione dimostra che gli Stati Uniti non possono più offrire al mondo una leadership adeguata. «Noi possiamo fare meglio di loro», è la sua conclusione.
Era dai tempi di Mao Zedong che non si vedeva una Repubblica Popolare decisa a esportarsi come modello. Ma oggi l´ideologia su cui poggia il neo-espansionismo cinese non è più rivoluzionaria, sovversiva e antagonista. Al posto di Mao c´è Confucio, il filosofo vissuto dal 551 al 479 avanti Cristo, che la classe dirigente cinese rivaluta come il guardiano dell´ordine sociale e della stabilità.
Kong Fuzi (Maestro Kung, latinizzato in Confucio dal gesuita Matteo Ricci) è al centro di una riabilitazione orchestrata nei minimi dettagli. Il segnale più potente è la proliferazione degli Istituti Confucio nel mondo, promossi dal governo di Pechino per diffondere lo studio del mandarino. La scelta del nome è rivelatrice di un ribaltamento clamoroso. Negli anni del maoismo Confucio fu messo al bando come un pensatore reazionario, simbolo dell´epoca imperiale. L´odio per Confucio non era una prerogativa dei soli comunisti, univa le élite progressiste nella Cina del Novecento. Ma quel secolo fu segnato dai complessi d´inferiorità; l´Occidente era il modello per ogni progetto modernizzatore. Il rilancio del confucianesimo coincide con una nuova autostima, spiega lo storico cinese Wang Gungwu della National University di Singapore. Wang descrive l´attuale rafforzamento della Cina come la quarta ascesa in duemila anni di storia, dopo l´unificazione imperiale (terzo secolo prima di Cristo), il consolidamento avvenuto nel VII e VIII secolo dopo Cristo in risposta alla minaccia di invasioni dall´Asia centrale, e infine l´espansione iniziata nel XIV secolo e culminata 400 anni dopo sotto la dinastia mancese dei Qing. Ma la "quarta ascesa", quella attuale, è la prima che proietta l´influenza cinese sul mondo intero. Il ribaltamento di prospettiva è profondo, secondo Wang. Negli anni precedenti erano europei e americani a mettere sotto pressione i cinesi perché passassero degli esami: «L´Occidente si attendeva dalla Cina ulteriori progressi nell´uniformarsi alle regole che considerava le più adatte per garantire il futuro della globalizzazione. Ora la Cina ha acquistato una nuova coscienza di sé, e rimette in discussione la validità delle pretese occidentali. La profondità della crisi economica ha scardinato la credibilità dell´Occidente come portatore di soluzioni per lo sviluppo mondiale».
Oggi è Confucio il pensatore più citato dai leader di Pechino quando noi occidentali invochiamo la necessità di riforme democratiche in Cina. A differenza che ai tempi di Mao, non è più di moda ribatterci che la nostra è una democrazia borghese, ipocrita e fasulla, che fa velo all´oppressione del proletariato. Oggi si fa ricorso al relativismo etnico-culturale. La Cina è una società segnata dal confucianesimo, dove il gruppo conta più dell´individuo, dove le relazioni sociali sono "organiche", strutturate sull´obbedienza gerarchica e sul perseguimento di obiettivi collettivi. Questo tipo di società asiatica va governata come una famiglia, con il rispetto dell´autorità paterna, e d´altra parte carica sul paterfamilias la responsabilità di garantire il benessere dei propri familiari.
I leader di Pechino hanno utilizzato Confucio dapprima in chiave difensiva, contro le "ingerenze" occidentali sui diritti umani. Un esempio è il discorso tenuto da Zhang Weiwei al Marshall Forum a Monaco di Baviera: «Voi occidentali definite la democrazia secondo il principio che ogni cittadino deve avere il diritto al voto, e nel suffragio universale diversi partiti devono competere per l´alternanza al governo. Fino a oggi è impossibile trovare un solo caso di un Paese emergente che sia riuscito a modernizzarsi con successo dopo avere adottato questo modello di democrazia. Che cosa succederebbe oggi in Cina se adottassimo una democrazia del vostro tipo? Ammesso che il Paese non sprofondi nella guerra civile o nella disgregazione, potremmo eleggere un governo di contadini, visto che i contadini sono la stragrande maggioranza della nostra popolazione. Non ho nulla contro di loro, ma è chiaro che non sarebbero capaci di guidarci nella modernizzazione. Negli ultimi trent´anni la Repubblica Popolare ha decuplicato la sua ricchezza economica, ha migliorato le condizioni di vita dei suoi cittadini, mantenendo la stabilità».
Ora la rivincita del Maestro Kung fa un passo più avanti: lo trasforma in un pensiero politico da esportare. A tutta l´Asia la Cina si propone come un modello di solidità e di tenuta, mentre l´Occidente sbanda. La decisione di dedicare un film alla vita di Confucio - con la benedizione delle autorità - assegnando il ruolo di protagonista a Chow Yun-Fat, divo dei film di arti marziali e kung-fu, è il segnale più divertente della nuova fase. L´antico teorico della «società armoniosa» adesso mostrerà anche i muscoli.

Repubblica 15.4.09
Addio a Franco Volpi
Da Nietzsche a Heidegger la filosofia come passione critica
di Sergio Givone


Ha tenuto lezioni da Padova agli Usa Tra i suoi volumi quello dedicato al nichilismo
Il suo lavoro ha permesso l´edizione di testi fondamentali
Studioso, curatore, esegeta dei maestri della modernità È scomparso ieri, vittima di un incidente stradale

Raramente, come in Franco Volpi, il filosofo italiano a cui tutti dobbiamo tantissimo, sia come esegeta e curatore di grandi testi del pensiero moderno e contemporaneo, sia come indagatore di problemi storici e di questioni speculative, la passione e l´intelligenza si intrecciano così bene nel difficile lavoro dell´interpretazione. In lui l´acribia più rigorosa è tutt´uno con lo sguardo capace di portare alla luce non solo l´intenzione profonda dell´autore ma, al di là di essa, la parola non detta, la domanda nascosta, l´apertura di un nuovo orizzonte critico. Esemplari sono le sue curatele, per Adelphi, di molte delle più importanti opere heideggeriane, alcune delle quali, e in particolare Segnavia, L´essenza della verità, e, in ultimo, i Contributi alla filosofia, rappresentano un modello insuperato di edizione da tutti i punti di vista: traduzione, note, apparati. Geniali le sue proposte, sempre per Adelphi, di opere minori di Schopenhauer, da cui ha saputo trar fuori quella accattivante miscela di filosofia popolare e filosofia alta che era nascosta in esse. Preziosa la sua monografia per Villegas Editores che accompagna l´Opera Omnia di un eccentrico di talento come Nicolás Gómez Dávila.
Allievo di Giuseppe Faggin, l´indimenticato studioso di Plotino, Volpi ha imparato fin dagli anni del liceo che quanto più si è interpreti fedeli e attenti, tanto più si è pensatori originali e in proprio. Appunto secondo l´esempio fornito da colui che più e meglio di chiunque altro trasmise all´occidente cristiano il lascito della filosofia classica. Plotino, che era greco di formazione, insegnava a Roma. Le sue lezioni si svolgevano per lo più in forma di commento e discussione delle tesi dei maestri del passato. Ma da quel suo esporre il pensiero altrui senza presunzione d´originalità sapeva ricavare approfondimenti che lasciano stupefatti per forza innovativa e capacità di penetrazione. Qualcosa di simile si deve dire di Volpi. Ovunque egli tenesse cattedra (titolare in quelle di Padova e di Witten/Herdecke, oltre che visiting professor in alcune delle principali università europee e nordamericane), sempre si presentava quale in effetti era: storico della filosofia. Verrebbe da dire: filologo della filosofia. Ma filologo che sa la potenza e lo smalto della parola, oltre che la sua fallibilità: ciò che impone un di più di scrupolo, di dedizione, di "amore per il logos". Sono precisamente questi i tratti che caratterizzano l´impegno di Volpi, il suo limpido argomentare, il suo instancabile leggere e rileggere i testi. Ciò di cui il suo Dizionario delle opere filosofiche (Bruno Mondadori) è un´eloquente testimonianza.
E quando gli accade di confrontarsi con i grandi temi che abbracciano intere epoche storiche, allora il risultato inevitabilmente è di quelli che costringono a sostare e a riflettere. Si potrà non essere d´accordo con lui. Impossibile però ignorare le sue indicazioni.
Prendiamo ad esempio il volume da lui dedicato ormai qualche anno fa a Il nichilismo (Laterza). È ancora attualissimo. Volpi sa bene che il nichilismo è un fenomeno tipicamente moderno, sviluppatosi quasi interamente fra Ottocento e Novecento, e in quanto tale da indagare specialmente lungo l´asse Nietzsche-Heidegger. Ma sa anche che questo fenomeno viene da lontano, visto che alla sua radice c´è l´esperienza del nulla. Si può ignorare questa esperienza? O chi la ignorasse - chiede Volpi citando uno dei suoi maestri - non si metterebbe senza speranza fuori della filosofia?
C´è tutto Volpi, in questo rilanciare le grandi questioni. E cioè nel suo restare in ascolto delle voci parlano dalle profondità di una tradizione tutt´altro che finita. Ma anche nel suo coraggioso riproporcele. E pensando a lui, al suo pensiero così aperto e vero, ci viene naturale farlo al presente, non al passato.

Repubblica 15.4.09
Spirito inquieto e anti-accademico
Cinquantasette anni, visse l’università con insofferenza, estraneo al potere
di Antonio Gnoli


Cominciò a collaborare a "Repubblica" con un articolo sull´autore dello "Zarathustra"

Franco Volpi è morto. E il primo pensiero va alla lunga amicizia che ci ha legato nel corso degli anni. Guardo con gratitudine a quel legame che è stato intenso e singolare. Il professore e il giornalista. C´eravamo conosciuti in occasione di una polemica che aveva diviso la scena filosofica italiana e che riguardava Nietzsche e il suo presunto testo La volontà di potenza. Mi colpì l´intervento che Volpi fece su queste pagine: demoliva i colpevolisti - coloro che imputavano a Nietzsche la sciocchezza di essere un nazista ante litteram - con garbo e competenza. Dietro lo stile preciso e l´argomentazione esauriente si scorgeva un´inquietudine antiaccademica che col tempo imparai a conoscere. Gli chiesi se avesse voglia di collaborare con Repubblica e mi rispose che per lui sarebbe stato come evadere da una gabbia.
Visse l´università con insofferenza: si sentiva estraneo alle beghe accademiche, ai rapporti di potere, ai programmi normalizzanti. Eppure era all´apparenza un tradizionalissimo filosofo venuto su con il pane di Aristotele e di Plotino, con i timidi affacci in Germania, dove aveva cominciato a specializzarsi su Heidegger. Del filosofo della Selva Nera sapeva tutto, aveva letto tutto, frugato negli archivi, conosciuto le persone che gli erano state vicine e che potevano offrire una testimonianza di prima mano. Come il figlio Hermann, che andammo a trovare in una giornata di sole pallido, mentre tornavamo da Wilflingen, dove il giorno prima avevamo incontrato Ernst Jünger. Lungo la strada Volpi mi disse: «Sai, da queste parti abita il figlio di Heidegger. Non c´entra nulla con la filosofia, però gestisce l´intera eredità spirituale del padre». Gli chiesi se si poteva intervistare. Rispose che era molto difficile, e che aveva sempre rifiutato di incontrare i giornalisti. «Forse farà un´eccezione se sei tu a chiederglielo», replicai. Ci fermammo a pochi chilometri da Friburgo davanti a una cabina telefonica. Volpi lo chiamò e, con sorpresa di entrambi, Hermann Heidegger ci ricevette il giorno dopo. Quell´intervista fece il giro del mondo.
Se ripenso ai nostri viaggi, in Germania, in Francia, in Italia, mi torna in mente la sua velocità di pensiero. Sembrava un elfo contagiato dall´inquietudine. Credo si sentisse libero solo in movimento. Poteva coprire in macchina migliaia di chilometri su e giù per l´Europa - ha insegnato in molte università - o in aereo al di qua e al di là degli oceani, senza risentirne. Non so come facesse: un seminario a Nizza, una lezione a Jena, un convegno a Buenos Aires. Era un filosofo poliglotta. Non ho mai conosciuto nessuno che avesse la versatilità per le lingue che aveva Volpi.
Di tutti i viaggi fatti, di tutte le persone incontrate, di tutte le esperienze condivise - i luoghi, gli individui, i libri - mi resta chiarissima una frase che amava ripetere: «Sbagliano quelli che pensano che la vita si spiega con la filosofia. Per quanti sforzi il pensiero faccia, il risultato è sempre lo stesso: la filosofia arranca dietro la vita che se la ride». Volpi pensava da filosofo, ma agiva da uomo che vede il mondo andare in tutt´altra direzione. Era convinto che i filosofi avessero perso la curiosità, il gusto di meravigliarsi, di lasciarsi sorprendere, di gioire del nuovo. Credevano di avere in pugno il mondo e avevano in pugno solo se stessi.
Pochi giorni fa ci sentimmo per un articolo sulle posizioni espresse dal Papa su Nietzsche. Fu puntuale come al solito. La nostra amicizia cominciò con Nietzsche e si è interrotta con lui. Continueremo a seguire da lontano gli amici che se ne vanno. La loro morte è parte della nostra morte che si annuncia attraverso il lutto e il dolore. Ma è anche la vita che ci donano come esempio e ricordo. È l´immagine che si fa traccia, che supera il pianto e ci fa dire: ho avuto la fortuna di conoscerti.

Corriere della Sera 15.4.09
Franco Volpi, la filosofia al di là del nichilismo
di Armando Torno


Lo studioso di Heidegger, travolto in bicicletta da un’auto, si è spento ieri sera a Vicenza

Franco Volpi era nato a Vicenza nel 1952 e inse­gnava Storia della filosofia all’Università di Pado­va. È morto in un incidente stradale (lunedì era in bicicletta sui monti Berici, è stato travolto da un’au­to), come Roland Barthes. Al suo nome sono legati, oltre a libri di alta e buona divulgazione, gli studi sul nichilismo, sul pensiero tedesco moderno e contem­poraneo, e soprattutto il corpus delle opere di Mar­tin Heidegger pubblicate da Adelphi. Volpi ha fatto molto per la cultura italiana e per la diffusione della filosofia in un periodo in cui l’antica disciplina di Pla­tone e Aristotele è diventata una passione popolare. Cerchiamone il ritratto aprendo semplicemente i suoi libri.
Fu uno dei migliori allievi dell’«aristotelico» Enri­co Berti, anzi è stato il più contemporaneista tra loro: ha esordito con il saggio Heidegger e Brentano (Ce­dam, 1976) e con il suo maestro ha firmato il terzo volume di una Storia della filosofia (Laterza, 1991) che conobbe una certa fortuna nei licei italiani. Ave­va la vocazione dell’organizzatore oltre che quella dello studioso. Sotto questo aspet­to va elogiato per il Dizionario del­le opere filosofiche (Bruno Monda­dori, 2000) che reca il suo nome al frontespizio, ma si avvale di de­cine e decine di collaboratori per le singole voci. Di più: Volpi, insie­me ad altri, curò nel 1988 l’edizio­ne tedesca di questo Lexicon der philosophischen Werke, poi ampliata nel 1999; infine la sistemò per gli italiani. Le polemiche corse all’usci­ta sono ormai evaporate e oggi ci rendiamo conto che l’aver dimenticato — o volutamente non ospita­to — i Principles of Mathematics di Bertrand Russell, non è peccato che richiede assoluzioni speciali. Del resto, la sua eccellente conoscenza del tedesco lo portò a realizzare l’edizione italiana di alcune tra le più importanti opere di Heidegger. Se oggi riusciamo a leggere — e in Italia i professori che possono permettersi la lingua originale sono davvero pochi — pagine fondamentali di questo filosofo, dobbia­mo ringraziare Franco Volpi. Senza di lui non avrem­mo nella prestigiosa «Biblioteca filosofica» Adelphi opere di Heidegger quali Segnavia, Parmenide, L’es­senza della verità. Sul mito della caverna e sul «Tee­teto » di Platone, gli importanti Contributi alla filoso­fia o I concetti fondamentali della filosofia antica.
Certo, c’è stato anche un Volpi che si impegnava a diffondere, attraverso la collaborazione a Repubbli­ca, le idee filosofiche (e con Antonio Gnoli firmò, tra l’altro, L’ultimo sciamano, Bompiani) o quello che si concedeva il lusso di arricciare il naso dinanzi alla nuova traduzione di Essere e tempo di Heidegger rea­lizzata da Alfredo Marini (Mondadori), e ripropone­va la vecchia versione di Pietro Chiodi, limitandosi ad aggiungere degli apparati critici alla fine.
Franco Volpi rimarrà per il suo saggio su Il nichili­smo (Laterza). Si legge facilmente e insegna che la crisi della ragione, la perdita del centro, la decaden­za dei valori si presentano a noi ogni giorno con il proprio nome o sotto altre sembianze. Nietzsche de­finiva tutto ciò «ospite inquietante». Si aggira in ca­sa nostra ed è quasi impossibile metterlo alla porta. Anche se Volpi era convinto che prima o poi se ne sarebbe andato e preparava, per questo, una prospet­tiva «oltre il nichilismo».

Repubblica 15.4.09
Il Forum Palestina (e Vattimo) contro il Salone del Libro di Torino
"Egitto come Israele boicottiamo la fiera"


Torino. Il copione che sta per andare in scena alla Fiera internazionale del Libro di Torino, a un mese esatto dal suo inizio, è uguale a quello dell´anno scorso. Si riassume in una sola e inequivocabile parola d´ordine: boicottaggio. Nel mirino, nel 2008, era finito lo stato di Israele, invitato d´onore alla kermesse del Lingotto, che era stato contestato per la sua politica nei confronti del popolo palestinese. Questa volta, a perfetto contraltare, di mezzo ci va invece un Paese di lingua araba, ossia l´Egitto. Ospite di Librolandia 2009, è ritenuto un regime dittatoriale, dove la libertà di espressione è colpita duramente. L´Egitto è accusato inoltre di stringere d´assedio la Striscia di Gaza. Anche i protagonisti del ventilato boicottaggio sono i medesimi di dodici mesi fa. Vale a dire l´Ism (International Solidarity Movement) e il Forum Palestina, associazioni della sinistra radicale, che ieri hanno invitato alla mobilitazione contro la presenza al salone torinese della nazione del Cairo, dove «da decenni sono in vigore leggi d´emergenza, il sistema è totalitario e brutale, e gli oppositori sono torturati».Non cambia nemmeno l´avallo autorevole alla protesta da parte del mondo della cultura, che, come un anno orsono, si replica nella persona di Gianni Vattimo. Pur spiegando che il suo impegno come candidato alle elezioni europee (per l´Italia dei Valori) renderà meno assidua l´adesione alla protesta annunciata, il filosofo non ha dubbi. Tanto che afferma: «Sapevo che qualcosa si stava muovendo. In ogni caso sono fondamentalmente d´accordo con il boicottaggio dell´Egitto, sostenuto dall´Ism e dal Forum Palestina». In Egitto, prosegue Vattimo, «c´è un regime poliziesco, che reprime e censura non soltanto gli intellettuali, ma l´intera popolazione. È giusto che lo si contesti, come si è fatto nel 2008 nei confronti di Israele. Pertanto do la mia adesione a una campagna con cui si vuole boicottare, pacificamente, la presenza egiziana alla manifestazione di maggio». È un po´ singolare, però, fa notare ancora il filosofo, «che ormai la Fiera del Libro scelga in modo sistematico Paesi ospiti in cui i diritti, la democrazia, sono negati. Se fosse ancora vivo il dittatore Bokassa, a questo punto, potrebbe aspirare anche lui a un invito al Lingotto?».La provocazione di Vattimo, la mobilitazione antiEgitto e le dichiarazioni di Alfredo Tradardi, esponente di rilievo dell´Ism, sulla «ennesima fiera delle vanità», non sembrano, almeno per ora, scuotere più di tanto i promotori della rassegna libraria di Torino. Anche perché le polemiche del 2008, tutto sommato, non fecero altro che accrescere la visibilità mediatica di Librolandia, che finì addirittura sulle pagine del New York Times. Rolando Picchioni, presidente della Fondazione per il libro, la musica e la cultura, che genera il salone, vorrebbe non commentare. Questa mattina, d´altronde, viene presentato ufficialmente il programma dell´edizione che aprirà i battenti il 14 maggio. Poi, però, qualcosa dice: «Non capisco queste proteste. Abbiamo accolto alcune delle loro richieste. E, infatti, alla Fiera abbiamo invitato gli intellettuali palestinesi e uno storico come Ilan Pappe, un israeliano che non esita ad accusare il governo del suo Paese di pulizia etnica della Palestina. Che cosa vogliono di più?». Certo. L´Egitto, tuttavia, qualche problema ce l´ha, no? Picchioni la prende larga: «Ma non possiamo fare mica l´esame del sangue a ogni nazione! Quante vere democrazie si salverebbero, allora?».

Repubblica 15.4.09
Che cosa si sogna nella pancia della mamma
In quelle scariche elettriche, prodotte dal cervello, non ci sono immagini La scoperta apre la strada a futuri studi neurologici
di Cristina Nadotti


Alcuni scienziati tedeschi sono riusciti a fare un elettroencefalogramma a un feto di pecora di 106 giorni Così è stata registrata un´attività cerebrale che, benché immatura, comprende cicli di sonno in fase onirica

Non c´è ancora il movimento rapido degli occhi, rivelatore di quel sonno profondo in cui la mente si abbandona a immagini fantastiche, voli sopra la città o incubi orrendi. Eppure una scarica elettrica ha fatto dire agli scienziati che il sogno è una delle prime attività che si sviluppano nel cervello. Che si fosse in grado di sognare ancor prima di nascere, la scienza l´aveva accertato proprio grazie al rilevamento della fase Rem del sonno, quella del "rapid eye movement", in feti di sette mesi. In questo stadio di sviluppo, il feto è addormentato per la maggior parte del tempo e la sua attività cerebrale alterna cicli regolari di fase Rem e non Rem, proprio come negli adulti.
Poco di più si sapeva su ciò che nel cervello accade prima, perché la misurazione diretta dell´attività cerebrale di un feto umano appariva impossibile. Elettroencefalogrammi eseguiti su neonati di cinque mesi hanno mostrato la comparsa del sonno profondo, ma tali esami sono comunque giudicati difficili dal punto di vista tecnico e pieni di errori. I neuroscienziati si interrogano perciò se prima di 20 settimane il cervello abbia cicli di sonno o sia inattivo. Dare una risposta a tale quesito non significa solo confermare un´ipotesi che scienze quali psicoanalisi e psicologia, attraverso lo studio dei sogni, hanno già avanzato, ma trovare i mezzi per studiare lo sviluppo del cervello e individuarne i momenti più importanti, quelli in cui possono avere origine patologie dell´età adulta.
Per entrare nel cervello di un feto a uno stadio ancora immaturo un gruppo di neuroscienziati della Friedrich Schiller University di Jena, in Germania, ha pensato di osservare cosa accade in un animale con uno sviluppo fetale simile a quello umano. La scelta è caduta sulla pecora, i cui piccoli sono di solito uno o, al massimo, due e i cui tempi di crescita sono molto simili ai nostri, ma nell´arco di 150 giorni invece che 280. L´esperimento poteva contare su certezze già acquisite sulla somiglianza tra sonno animale e sonno umano, poiché nei mammiferi la proporzione di fasi Rem e non Rem riflette, come negli umani, l´età, lo stile di vita e la maturità alla nascita.
I neuroscienziati sono riusciti a fare un elettroencefalogramma a un feto di pecora di appena 106 giorni e l´attività cerebrale registrata ha confermato che, seppure ancora immatura, questa comprende cicli di sonno simili a quelli delle età successive, sebbene più brevi. In un feto più sviluppato i cicli tra sonno Rem e non Rem fluttuano tra i 20 e i 40 minuti, mentre in quello di 106 giorni si è scoperta una durata compresa tra i 5 e i 10 minuti, con un lento cambiamento mano a mano che prosegue lo sviluppo. Non è facile immaginare che cosa il feto percepisca durante questi primi sogni, almeno non nei termini in cui noi lo concepiamo da adulti. Sono sensazioni più che immagini, impulsi elettrici di attività neuronali, come se in qualche modo il cervello si stesse allenando a operazioni più complesse, come un´orchestra che accorda gli strumenti e prova qualche nota prima di arrivare all´esecuzione della sinfonia. Gli scienziati sono tuttavia esaltati dalla scoperta di un´attività neuronale così precoce, un punto di osservazione essenziale per scorgere i primi passi dell´organo più complesso e ancora più sconosciuto del nostro corpo.

Liberazione 15.4.09
Gruppi di supporto ai terremotati ma anche ai soccorritori. «Bisogna parlare e non isolarsi»
«Il terremoto è dentro di noi»
Psicologi al lavoro tra le tende
di Checchino Antonini


«Il terremoto è dentro di noi», dice a Liberazione Francesca Romana Martini, maestra delle elementari di 42 anni e 2 figli, dopo otto notti passate in macchina a scrutare i rumori della terra, a vibrare con lo sciame sismico. Poco prima di mezzanotte un'altra schìcchera, lunga e potente stavolta, a segnalare che non è ancora finito lo stillicidio di scosse.

L'Aquila - nostro inviato. L'emergenza che si dilata. Nei comuni della Marsica, del Cicolano, della Valle Peligna, dell'Altopiano delle Rocche - i meno danneggiati - chi aveva trovato il coraggio di tornare a casa deve fuggire ancora verso baracche, automobili e tende. L'Aquila è la città più fredda d'Italia, la pioggia si impasta con il brecciolino su cui sono state issate le tende. Dopo le giornate di pasqua, con il loro carico di affetti festivi, le tendopoli ripiombano in un'atmosfera plumbea. Di fronte a una tenda verde a Piazza d'Armi, 1300 abitanti, un cartello avverte: "Supporto psicologico, colloquio in corso, non disturbare". «Quel boato è ormai dentro tutti», conferma Carla Pompilii, 34 anni, teramana, psicoterapeuta della Pea, l'associazione regionale di psicologia d'emergenza. Sono decine di professionisti che si formano per agire da volontari nelle catastrofi. Per la giovane associazione, il battesimo del fuoco è cominciato alle prime luci dell'alba del 6 aprile. Sono disseminati per i campi per aiutare ad affrontare le reazioni al trauma. «Alcune possono presentarsi anche mesi dopo», specifica la collega pescarese, Valentina D'Ascanio.
Si chiama Disturbo post-traumatico da stress, in gergo Dpts. Lo stesso che perseguita chi sopravvive a una guerra o a uno stupro. Su un volantino che circola negli accampamenti c'è l'elenco impressionante dei sintomi: ansia, paura per sé o per i propri cari, tristezza, colpevolezza per essere sopravvissuti, vergogna della propria vulnerabilità, stanchezza, insonnia, incubi, affaticamento mentale, palpitazioni, vertigini, tremori, diarrea, mal di testa, disfunzioni sessuali o del ciclo mestruale, costrizioni al petto e alla gola, tensioni muscolari, pensieri invadenti ricorrenti. «Parlarne può aiutare, non bisogna isolarsi», spiegano alla tenda verde e dice anche Vincenzo Irace, funzionario dei vigili del fuoco della squadra di intervento rapido per il supporto psicologico dei soccorritori, mentre opera alla Ulc, unità locale di comando, della Fontana Luminosa, alle porte del centro storico. E' qui che i cittadini si mettono in contatto per procedere al recupero degli effetti personali. Centinaia di interventi al giorno assieme a persone che hanno perduto tutto o quasi tutto e devono rivedere le rovine della propria dimora. «Non tutti hanno il coraggio di farlo, e questo è uno dei problemi», continua Pompilii. «La terra è il nostro punto fermo e invece trema». Ecco l'inizio della fine del mondo. Con la città sgretolata, nel territorio sconnesso si «disperdono identità e radici», aggiunge D'Ascanio. Ogni giorno, dalle tendopoli ai margini del centro si assiste allo skyline deformato della città. Carla e Valentina hanno incontrato bambini ammutoliti per giorni, molti fanno la pipì a letto, hanno incubi. «Fondamentale - dicono - il gran daffare dei clown dottori e le iniziative che permettono loro di recuperare una dimensione ludica. Devono giocare, devono disegnare». E' aperto il dibattito sull'utilità di una tempestiva riapertura delle scuole. C'è chi sostiene che potrebbe essere fonte di stress e improduttività per i fanciulli che hanno subito profondi cambiamenti nella realtà personale, per i luoghi affettivi distrutti, per le persone scomparse, per il tempo interiore che ora ha una scansione diversa.
Anche per i grandi è necessario «condividere - intervene Irace - non sentirsi unici, non isolarsi».
E poi ci sono le problematiche di ambientazione, la gestione dei conflitti in questi giganteschi condomini blu, il colore delle tende della protezione civile: «è difficile l'accettazione della perdita dei propri spazi - raccontano le psicologhe - sono più facili le reazioni aggressive ma, in qualche modo, la rabbia è una reazione sana. C'è chi ha difficoltà ad accettare, per la prima volta nella sua vita, vestiti dalla Caritas e allora dobbiamo intervenire per fornire un quadro della straordinarietà dell'evento». E' un lavoro di totale condivisione con gli sfollati. I turni non hanno soluzione di continuità, gli psicologi dormono nei campi. Agli incontri di gruppo si alternano i colloqui individuali e i gruppi con i soccorritori perché «è fondamentale elaborare quello che si vive. Chi ha tirato fuori i corpi dalle macerie deve poter tirare fuori il proprio vissuto».
Il gruppo di supporto psicologico dei vigili del fuoco si focalizza proprio su questo aspetto: «I pompieri aquilani vivono la duplice condizione di soccorritori e terremotati, a volte vivono il conflitto con l'assenza dalle loro famiglie - spiega Irace - il supporto è tra pari, il rapporto orizzontale, scompaiono i gradi, il "lei"». Si comincia al cambio turno delle 8 con l'incontro con le squadre impegnate negli scavi, si pranza e si cena insieme perché così «si fa famiglia». Ascolto e dialogo servono alla ricostruzione del vissuto professionale, all'emersione di un livello di consapevolezza, «di coscienza viva». E il supporto psicologico è stato fondamentale per rintracciare uno studente greco ritenuto disperso dopo la grande scossa. Irace racconta la storia di Giovanni che la notte della domenica delle Palme era restato a dormire dalla ragazza, vicino alla facoltà di Lettere. Dopo il crollo aveva chiamato aiuto e, dai piani sottostanti s'era sentito rispondere di stare tranquillo che sarebbero arrivati i soccorsi. Anche la "voce" era intrappolata. Poi la seconda scossa, un nuovo crollo. Giovanni e la fidanzata ce la fanno arrampicandosi lungo le tubature. Ma quella voce rassicurante gli era restata dentro, come un tarlo, in bilico tra dubbio e certezza. Dopo alcuni giorni Giovanni verrà aiutato nel recupero della memoria e guiderà i vigili del fuoco nel lavoro di scavo. Le tracce corrispondevano alla ricostruzione, c'era una tovaglia insanguinata, il pavimento era sprofondato ma non fu trovato nessuno. Più tardi si saprà che quello studente greco era salvo all'ospedale di Avezzano.
E ora, senza città, né casa, né lavoro? «Si ricomincia da capo - dice Carla Pompilii - se hai dei pezzetti te li porti dietro, si ricomincia da sé. Attivarsi significa già ricominciare».

Liberazione Lettere 15.4.09
L'Aquila è il nuovo Vajont

Caro Dino, invece di guardare al futuro basterebbe dare un'occhiata al passato: paghiamo l'irresponsabilità di aver conferito deleghe in bianco a una classe politica miope e avida, incomprensibilmente zelante quando si tratta di legiferare sull'embrione, sul sondino o sulla prescrizione dei reati, ma totalmente incurante delle reali esigenze dei cittadini; interessata più alla stabilità del bipartitismo che alla stabilità degli edifici, affidata esclusivamente alle benedizioni dei vescovi. Sono spariti i temi che una volta infiammavano il dibattito politico e che riguardavano i diritti che ogni cittadino ha di vivere con dignità, compreso il diritto di non morire come un cane sotto la propria casa, per trovarci in mano quel pugno di mosche che è la politica spicciola della new town, la libertà senza lacciuoli per le imprese di saccheggiare le vite degli uomini in favore del profitto: la malattia come cura della malattia. L'Aquila è il nuovo Vajont, la nuova Eternit, il compendio di mesi di morti sul lavoro. Evidentemente in questa fabbrica di stragi che è diventata l'Italia torna più utile piangere i morti che rallegrarsi dei vivi.
Roberto Martina via e-mail

martedì 14 aprile 2009

Repubblica 14.4.09
Obama può archiviare la guerra Islam-Occidente?
di Tzvetan Todorov


Lo storico discorso del presidente degli Stati Uniti ad Ankara ha aperto una nuova stagione di dialogo con il mondo musulmano È il tramonto forse definitivo della dottrina Bush

Quando si dialoga, non ci si insulta. Il che vale per noi occidentali ma vale anche per il mondo musulmano, dove spesso trionfa un´immagine caricaturale dell´occidente

L´idea dello scontro di civiltà non solo non ha descritto fedelmente la realtà del mondo contemporaneo, ma ha agito anche come una sorta d´imperativo che ha spinto i governi al conflitto con le altre civiltà. Barack Obama ha voluto rompere con questa lettura del mondo, affermando che non c´è spazio per una nuova guerra santa contro l´islam. Per lui, la Turchia non è solo il luogo dove le culture si scontrano, ma è il luogo dove s´incontrano producendo una nuova sintesi. Le sue posizioni mi sembrano molto più vicine alla realtà di quanto non lo siano i fantasmi evocati da Samuel Huntington. Inoltre, sembrano indicare la volontà di un approccio ai problemi internazionali molto più complesso e aperto, anche se certo ci vorrà del tempo per passare dalle intenzioni agli atti concreti. Non a caso, per ora non tutte le sue scelte sembrano essere in accordo con questa volontà d´apertura. Faccio due esempi di "scelte" del presidente americano su cui mi sembra sia necessario riflettere. Il primo è veniale, e riguarda il discorso di Ankara, dove, dopo aver difeso il multilateralismo e il diritto di ogni paese di decidere da solo del proprio destino, Obama ha invitato con forza l´Europa ad ammettere la Turchia nella comunità europea. Mi sembra un invito fuori luogo e non in linea con un´ottica multilaterale. Detto in poche parole: non sono gli Stati Uniti che devono dire all´Europa ciò che deve fare.
L´altro esempio è più importante e riguarda l´intervento in Afganistan. Qui per ora non c´è alcuna rottura rispetto al passato. La politica è la stessa di George W. Bush, il quale pensava di combattere i terroristi islamici controllando militarmente il paese. Personalmente, non credo che questa politica sia efficace. Credo invece che sia una logica figlia della paura. E di fronte a un pericolo, una reazione sproporzionata può a sua volta diventare un pericolo. La paura dei barbari può generare la barbarie. Lo abbiamo visto proprio negli Stati Uniti, una democrazia esemplare, dove però è stata legalizzata la tortura.
Gli attentati dei terroristi islamici negli Stati Uniti e in Europa sono gravissimi, ma non si può parlare di guerra di civiltà. È una formula troppo semplicistica e manichea che pretende di dare un nome al male, illudendosi di batterlo militarmente. È troppo facile dire che il male sono gli altri.
Tornando al discorso di Barack Obama ad Ankara, scorgo un´altra debolezza, quando accorda un´importanza eccessiva al carattere musulmano dei paesi musulmani. Per sfuggire alla logica della guerra di civiltà, il presidente Usa vuole valorizzare l´islam, sottolineandone gli aspetti positivi e i contributi alla storia della civiltà. Il che va benissimo, perché non è possibile appiattire l´immagine dell´islam su quella dei terroristi islamici, come non sarebbe possibile appiattire l´immagine del cristianesimo sull´inquisizione. Secondo me, però la varietà del mondo non è mai riducibile a un´unica dimensione.
Sia l´islam che l´occidente sono realtà complesse e multiformi, che non possono essere irrigidite nella sola identità religiosa. Nessun individuo è dominato interamente da una sola delle sue caratteristiche. La popolazione dei paesi a maggioranza musulmana, come per altro le altre popolazioni del mondo, non agiscono esclusivamente in funzione della religione. Le loro azioni sono determinate dall´insieme delle caratteristiche sociali e culturali che costituiscono la loro identità. E spesso queste contano molto di più della componente religiosa, la quale poi interviene a dare una forma alle loro rivendicazioni. Per quanto riguarda poi i punti di contatto, sul piano culturale, tra l´islam e l´occidente, questo è un problema di cui devono occuparsi gli storici. Tuttavia, aldilà del lavoro scientifico, la miglior cosa da fare è facilitare gli scambi culturali tra i due mondi per favorire la conoscenza reciproca. Occorre incoraggiare le traduzioni, gli incontri, i dibattiti, i viaggi e ogni altra occasione di scambio. Quando si dialoga, non ci si insulta. Il che vale per noi occidentali, ma vale anche per il mondo musulmano, dove molte spesso trionfa un´immagine schematica e caricaturale dell´occidente.
L´universalità della civiltà ha bisogno della pluralità delle culture. La civiltà, infatti, consiste proprio nella capacità di riconoscere che anche chi non ci assomiglia, per cultura o costumi, appartiene pienamente alla nostra stessa umanità. Senza pluralità di culture non c´è progresso della civiltà. La storia dell´Europa lo dimostra. L´identità europea risiede nella sua capacità di gestire la pluralità. Da questo punto di vista, mi sembra perfettamente in grado di gestire anche l´identità musulmana, la quale per altro è già da secoli in contatto con la cultura europea. Certo, localmente possono anche sorgere dei conflitti, a volte anche violenti, di fronte ai quali occorre sempre intervenire con il rigore della legge. In un paese possono esserci diverse culture, ma deve essereci una sola legge. Le differenze culturali non possono mai essere una scusa per sottrarsi alla legge che garantisce tutti.
(testo raccolto da Fabio Gambaro)

Corriere della Sera 14.4.09
Disgelo. L’incontro di sette deputati Usa con i fratelli Castro ha aperto la strada al dialogo, 50 anni dopo il viaggio di Fidel negli Stati Uniti
L’America di Obama si avvicina a Cuba


Via le restrizioni sui viaggi nell’isola e i trasferimenti di denaro. Ma l’embargo resta
Comunicazioni tv più facili tra i due Paesi. La Casa Bianca ora si aspetta un’apertura di Raúl sui prigionieri politici

WASHINGTON — A quat­tro giorni dal vertice delle Americhe a Trinidad, il presi­dente Barack Obama s’è aperto a Cuba revocando al­cune delle restrizioni impo­ste da Bush figlio: i cuba­no- americani potranno libe­ramente visitare l’isola e assi­stere finanziariamente i fa­miliari là residenti, e saran­no anche permesse comuni­cazioni tv e di altro tipo tra i due Paesi.
Obama ha lasciato intatto l’embargo commerciale con­tro Cuba in vigore da 47 an­ni, ma la Casa Bianca non ha nascosto la speranza che «con una minore dipenden­za dal regime e una maggio­re autonomia economica», come ha detto un portavoce, Cuba si avvii alla democra­zia liberando i detenuti poli­tici e cessando le violazioni dei diritti umani. Con queste misure Obama ha mantenu­to l’impegno assunto duran­te le elezioni di cercare il dia­logo con L’Avana.
Il presidente ha giocato d’anticipo nei confronti del leader venezuelano Hugo Chávez, che venerdì si era re­cato da Fidel e Raúl Castro a L’Avana, e che al summit a Trinidad dal 17 al 19 prossi­mi proporrà il rientro di Cu­ba nella Organizzazione de­gli Stati americani (Osa) da cui venne espulsa nel ’62, rientro a cui sembra favore­vole anche il leader brasilia­no Lula da Silva.
Obama intende chiedere che il regime castrista con­traccambi prima le sue misu­re, una posizione assunta al­tresì da José Insulza, il presi­dente dell’Osa: l’apertura a Cuba, caldeggiata dalla mag­gioranza democratica al Con­gresso, è anatema per i con­servatori, contrari «a parlare col nemico», si tratti dei Ca­stro o del leader iraniano Ah­madinejad.
L’iniziativa di Obama poggia su tre rappor­ti, il primo del sottosegreta­rio Tom Shannon, responsa­bile degli Affari dell’emisfe­ro occidentale, il secondo della commissione Esteri del Senato guidata da John Ker­ry, il terzo di una delegazio­ne di sette deputati, capeg­giata da Barbara Lee, che il mese scorso visitò i fratelli Castro.
Secondo i tre rapporti, Raúl e Fidel sono aperti a lo­ro volta al dialogo: entrambi avrebbero assicurato i parla­mentari americani di volere il disgelo, una svolta storica. Dalle dichiarazioni della Ca­sa Bianca Obama, che ha l’esplicito sostegno del mon­do degli affari Usa, procede­rà tuttavia con cautela, per non alienare le potenti lobby anticastriste e per non spac­care in due il Congresso.
Il cambiamento di clima avviene nel cinquantenario dell’unico viaggio di Fidel Castro negli Stati Uniti, quan­do il Líder Máximo ricevette un’accoglienza trionfale.
Nell’aprile del ’59 Fidel smentì di essere comunista e garantì l’osservanza del patto di reciproca difesa con l’America. Una luna di miele che durò solo qualche mese.

Corriere della Sera 14,.4.09
La crisi e il segretario alla difesa Usa
I tagli alle spese militari: così finisce un tabù
di Fareed Zakaria


Robert Gates prova a intaccare interessi molto potenti. Gli Stati Uniti continuano a produrre i costosi aerei F22; eppure ne hanno in dotazione già 135, e non ne utilizzano neanche uno

«Quando appare un vero ge­nio », scrisse Jonathan Swift, «lo si ri­conosce dal fatto che tutti gli sciocchi si coalizzano contro di lui». Genio è forse un appel­lativo un po' esagerato per il Segretario alla Difesa, ma il programma di spesa di Robert Gates ha certamente raccolto tutti gli oppositori giusti. Ci so­no le ditte che ricevono com­messe militari, preoccupate che decenni di contabilità fa­sulle stiano per finire; gli esperti mediatici, per i quali la guerra al terrore è stata una pacchia; le forze armate, abi­tuate a veder finanziare qualsi­asi fantasia; gli esponenti del Congresso che coprono que­sta corruzione istituzionalizza­ta solo per salvaguardare dei posti di lavoro nei loro Stati.
Se ci si chiede come giudica­re il piano di Gates, ecco una semplice guida: John McCain, il legislatore più ragionevole e portato alle riforme sulle que­stioni militari, «lo appoggia fortemente». Il senatore dell' Oklahoma, James Inhofe — che ha paragonato l'Agenzia per la Protezione dell'Ambien­te alla Gestapo, l'assistente di Obama per l'energia e il clima, Carol Browner, alle propagan­diste nipponiche in lingua in­glese «Tokyo Rose», e gli am­bientalisti al Terzo Reich — so­stiene che porterà al «disarmo dell'America». Scegliete voi.
Negli ultimi decenni il bud­get della difesa ha vissuto nel mondo dei sogni, dove si co­struiscono armi sempre più so­fisticate senza tener conto dei nemici, dei costi o delle conse­guenze. Nel 2008 il General Ac­counting Office ha detto che gli aumenti dei costi per i 95 maggiori programmi di arma­mento del Pentagono — solo gli aumenti! — ammontavano a 300 miliardi di dollari. Il si­stema si è talmente diffuso e radicato che la maggior parte della gente non si indigna ne­anche più. L'illimitato afflusso di dena­ro dei contribuenti ha impedi­to di formulare un pensiero strategico. Gran parte del bud­get del Pentagono è basato su liste di desiderata dei diversi settori militari, liste spesso na­te durante la Guerra Fredda. L'aeronautica si era talmente affezionata al suo programma di aerei da caccia F-22 da non accorgersi neanche che l'Unio­ne Sovietica era caduta e non c'era più una grande potenza rivale che potesse ingaggiare duelli aerei con l'esercito statu­nitense. Abbiamo attualmente in corso due guerre, nelle qua­li nessuno dei circa 135 F-22 che abbiamo viene usato. Se vi chiedete perché il piano di rea­lizzazione di questi aerei è an­cora in piedi, eccovi la ragio­ne: la loro costruzione coinvol­ge 44 Stati. Gates riduce anche l'elenco dei desiderata della Marina, tagliando il suo pro­gramma di nuovi cacciatorpe­dinieri. Ma a questo punto i suoi ambiziosi propositi si so­no arrestati. Ha proposto che gli Stati Uniti diminuiscano di uno i gruppi delle portaerei, passando da 11 a 10, ma a que­sto si arriverà tra 31 anni! Cio­nonostante, deve naturalmen­te affrontare la consueta oppo­sizione dei conservatori. Il Wall Street Journal si preoccu­pa che una Marina di 300 navi sia «pericolosamente mode­sta ». Nel recente scontro con i pirati somali, quel quotidiano fa notare che le navi militari statunitensi erano «a ore di di­stanza ». Beh, se avete viaggia­to per mare, saprete che le na­vi si muovono più lentamente degli aerei. Date le vaste di­mensioni degli oceani, il fatto che le unità navali americane fossero in grado di raggiunge­re un luogo relativamente non strategico in poche ore è di fat­to un segno delle incredibili capacità logistiche della Mari­na, non del contrario.
Gates è in realtà appena all' inizio di un indispensabile ri­pensamento della strategia di­fensiva americana dopo la Guerra Fredda. Si è concentra­to, ragionevolmente, sulle guerre che stiamo combatten­do, per assicurarsi che i solda­ti siano attrezzati per affrontar­le con successo. Ma anche se non abbiamo bisogno degli F-22, costruiremo ancora 2.443 F-35, a un costo ipotizza­to di circa 1000 miliardi di dol­lari. Ne abbiamo veramente bi­sogno? Qual è la logica di que­sto programma? I budget mili­tari americani dovrebbero ba­sarsi su due esigenze in com­petizione tra di loro. La prima deriva dal fatto che saremo probabilmente impegnati in conflitti piccoli e complessi con avversari molto più deboli su terreni difficili. In altre pa­role l'Iraq e l'Afghanistan. Il bu­dget di Gates affronta con ac­cortezza queste due guerre, in cui sono di fondamentale im­portanza gli uomini e l'intelli­gence. La seconda esigenza è quella di mantenere un deter­rente. L'esercito statunitense protegge le rotte navali del mondo e, in linea di principio, mantiene la pace. Se i pirati so­mali dovessero dare troppi problemi, sarebbero le forze militari americane, alla fine, a doverli fermare. Se i cinesi do­vessero pensare a muovere azioni offensive in Asia, sareb­be il timore di una reazione americana a renderli cauti. Queste esigenze sarebbero pe­rò sicuramente soddisfatte da un esercito più snello, con co­sti ottimizzati, più efficiente e consapevole della forza dei po­tenziali avversari. La Marina statunitense ha 11 gruppi di portaerei: la Cina non ne ha nessuno. Il budget statuniten­se del 2009 per la difesa è di 655 miliardi di dollari, quello della Cina di 70 miliardi, e quello della Russia di 50. L'au­mento dei costi in sé, per l'America, è superiore ai bud­get annuali per la difesa di Ci­na, Russia, Gran Bretagna e Francia messe insieme. La co­sa dà più l'impressione di as­surde stravaganze e sprechi che di deterrenza.
Il prossimo appuntamento, per Gates, è la riflessione stra­tegica legata alla Quadrennial Defense Review. Dovrebbe co­gliere questa occasione — l'ul­tima che ha per lasciare un'ere­dità duratura — e spingere gli Stati Uniti verso una strategia militare modellata sul mondo in cui oggi viviamo. Questo lo renderebbe un vero genio. A dimostrarlo, tutti gli sciocchi sicuramente si coalizzerebbe­ro contro di lui.

il Riformista 14.4.09
Ormai è fatta, moriremo berlusconiani
di Peppino Caldarola


Il Pd segue questa vigilia elettorale con alterni sentimenti. I sondaggi sfavorevoli deprimono una parte del gruppo dirigente ma soprattutto i militanti. Eppure c'è chi immaginando quei voti in fuga non si rattrista. Chi frequenta gli ambienti del Pd racconta di importanti lavori in corso. La sconfitta elettorale, soprattutto se è sconfitta eclatante, lascerebbe libero spazio a nuovi progetti. Non è più un mistero che ambienti vicini all'ex Margherita si stanno preparando alla confluenza con Casini per dare vita alla Costituente di centro che dovrebbe rappresentare il polo moderato di una nuova alleanza di centro-sinistra. Dall'altra sponda in ambienti ex diessini si guarda all'ipotesi di divorzio dai cattolici con meno angoscia che nel passato. A sinistra nascerebbe una forza di tipo socialista che attirerebbe i seguaci di Vendola e di Fabio Mussi. Assistiamo al paradosso di un partito che tutti vogliono lanciato nella contesa elettorale alla ricerca dei voti perduti mentre una parte del gruppo dirigente tifa per la propria sconfitta per liberarsi dalle catene. Il fallimento del Pd prima di essere elettorale è sentimentale. Dopo poco più di un anno c'è chi spera che siano gli elettori a dare il via alla più clamorosa separazione consensuale della politica italiana. Le due forze che si accingono a nascere raggiungerebbero sommate poco più del 30%, una cifra lontana dal minacciare il predominio di Berlusconi. Non lo fermerà più nessuno. Moriremo berlusconiani. Ci poteva andare peggio.

il Riformista 14.4.09
Il terremoto e il quadro politico prossimo venturo
Neppure nei tempi d'oro della Balena bianca c'era un partito che aspirava a oltre la metà dei seggi in Parlamento
di Ritanna Armeni


Quale Italia politica emergerà dalle terre terremotate dell'Abruzzo? Quali nuovi equilibri del quadro politico potremo verificare quando, come è inevitabile, i riflettori si sposteranno dalle tendopoli e dalle macerie ai rapporti di forza fra i partiti, a quelli fra maggioranza e opposizione, alle relazioni interne alla maggioranza?
Questione di giorni e avremo di fronte a noi un nuovo quadro che forse possiamo già descrivere. Finora rimasto nell'ombra, oscurato dalla drammatica vicenda abruzzese, ora apparirà finalmente nitido.
Il Pdl sarà - è - più forte. Come partito principale della maggioranza ha sicuramente esteso la sua influenza sul Paese. E ancora una volta la sua forza è stata quella del premier. Silvio Berlusconi si è mosso nelle terre d'Abruzzo con tempismo e abilità, mostrando nell'emergenza un governo che "fa" e mettendo a tacere come inopportuna e fuor di luogo ogni eventuale critica.
Se qualcuno poteva dubitare delle cifre sul consenso raggiunto nei sondaggi che il premier ha fornito nel congresso costitutivo del Pdl, ora quel 42/43 per cento di cui ha parlato non appare così improbabile. L'ambizione di arrivare al 50 per cento, se non dei consensi, dei seggi in Parlamento, non così velleitaria. Nell'Italia che esce dall'emergenza terremoto si intravede la possibilità, finora mai verificata, neppure nei tempi d'oro della Balena bianca, di un partito con oltre la metà dei seggi in Parlamento in grado, quindi, di costruire "democraticamente" un regime. Un partito che può modificare la Costituzione e può far passare senza ricorrere a nessuna mediazione, se non quelle interne a se stesso, qualunque legge. Si intravede, insomma, una forza politica diversa anche da quella che si è costituita qualche settimana fa, i cui caratteri sono tutti da scoprire, la cui identità composita e in cambiamento potrebbe dar vita a un amalgama tutto da decifrare.
Ma proprio questa aspirazione non nascosta dal premier ha già portato a una modifica consistente nei rapporti fra i partiti della maggioranza e, ormai, alla competizione aperta fra Lega e Pdl. La richiesta di un referendum che, se celebrato con successo insieme alle elezioni europee e amministrative di giugno, potrebbe portare un cospicuo premio di maggioranza al maggiore partito cioè al Pdl, ha irritato non poco la Lega che con la nuova legge elettorale, avrebbe nella maggioranza e nel quadro politico un ruolo meno pregnante e decisivo di quello attuale. Con la richiesta di voler celebrare e vincere il referendum, un messaggio simbolico di rottura è stato inviato. Dice con chiarezza che il partito di Silvio Berlusconi può aspirare a governare il Paese anche senza la Lega. Forse la considera ormai un alleato scomodo. Non è un caso che nei giorni precedenti il terremoto e nei giorni dell'emergenza il partito di Bossi abbia registrato alcune sonore sconfitte proprio sul tema che insieme al federalismo gli stava più a cuore: la sicurezza e l'immigrazione. La bocciatura delle ronde e dei Cie, la precedente presa di distanza di parte consistente della maggioranza dalla norma che prevedeva la denuncia dei clandestini da parte dei pubblici ufficiali, medici e insegnanti, hanno costituito una presa di distanza chiara del Pdl dall'estremismo leghista. Il nuovo partito che aspira al 50 per cento deve adottare - evidentemente - un atteggiamento più moderato e meno aggressivo di quello di Umberto Bossi e dei suoi padani.
Diverso, e alquanto fosco, appare il quadro dell'opposizione. Il Pd costretto al silenzio durante i giorni del terremoto dall'attivismo berlusconiano appare prigioniero di un circuito perverso che lo porta nei sondaggi a qualche settimana dalle elezioni a perdere ulteriormente consensi. Contribuisce a questo risultato l'abbandono di parte dei suoi elettori conquistati dall'anti-berlusconismo radicale di Antonio Di Pietro, ma, come tutti gli studi e le ricerche dimostrano, il calo dei consensi del Pd va soprattutto in direzione dell'astensione. Dopo la delusione veltroniana, dopo lo sbarramento del 4 per cento voluto dal Pd, che ha provocato l'indignazione non solo della sinistra radicale ma di un'area democratica, e dopo il sostegno suicida al referendum elettorale che potrebbe sancire una vittoria eclatante per Silvio Berlusconi, le quotazioni del principale partito di opposizione si sono ulteriormente indebolite. Gli sforzi del neosegretario Dario Franceschini sono apparsi tentativi deboli di ricostruire un'identità ormai labile e una contrapposizione a Berlusconi che appare non convincente.
Gli elettori dell'opposizione assistono sconsolati all'avanzare del Pdl e trovano - paradosso dei paradossi - solo in Gianfranco Fini una parziale risposta alla domanda di contrastare l'ulteriore l'affermazione di Silvio Berlusconi. Ora che i riflettori dal terremoto si sposteranno sul quadro politico la situazione del Partito democratico apparirà in tutta la sua triste chiarezza. Il Pd constaterà il suo isolamento, l'assenza di possibilità di alleanze che ha esso stesso costruito, ma che non per questo è meno grave. E i giochi si riapriranno anche al suo interno. Con quali prospettive? Questo, per il momento, è davvero oscuro.

l’Unità 14.4.09
Pd e radicali verso l’addio
Alle Europee ognuno per sé
di Bruno Miserendino


Al Nazareno confermano il divorzio annunciato: «Ci sarà una lista Bonino, quindi...»
Pannella pomo della discordia. Fioroni: «Non lo vogliamo, non siamo un albergo a ore»

Pd e radicali, ognuno per la sua via. Divorzio annunciato dopo un rapporto mai decollato. Fioroni: «Pannella non lo vogliamo, il Pd non è un albergo a ore». Rammarico per Emma Bonino: «Fa la sua lista, quindi...»

Pd e radicali, è l’ora dell’addio. Non saranno nelle liste democratiche per le europee e soprattutto non ci sarà Marco Pannella. È un divorzio nei fatti. Come dicono al Nazareno, dalle parti di Franceschini: «Non si è mai aperto un tavolo, Emma Bonino ha deciso di fare una sua lista, quindi...». Quindi la storia, che non è mai stata esaltante, finisce. A quanto pare il segretario, come tutta l’area cattolica del Pd, non verserà molte lacrime. Fioroni ci ha messo una pietra tombale: «Noi dobbiamo fare le liste con chi condivide il progetto, il Pd non è un albergo a ore». A quanto pare non tutti sono contenti che le cose siano andate così, però le recriminazioni ufficiali si contano sulle dita di una mano: Furio Colombo, Luigi Manconi, Magda Negri. «L’esperienza parlamentare con i Radicali è stata proficua, non si capisce perché escluderli a priori dalle liste - dice la senatrice democratica - il Pd deve trovare un’anima e quest’anima si deve vedere al momento della formazione delle liste, che non devono essere una mera sommatoria di Ds e Margherita, per questo penso che personalità come Cappato e Pannella dovrebbero far parte delle liste del Pd. Vocazione maggioritaria per me vuol dire che il partito deve aspirare a rappresentare la maggioranza democratica, progressista, liberale del Paese. Ho mandato questa lettera a Franceschini e spero che qualcuno ci possa riflettere».
Tuttavia nel Pd la maggioranza pensa che il rapporto non ha mai funzionato e alla fine, è l’opinione anche di qualche veltroniano, hanno portato meno voti di quanti ne abbiano fatti perdere nei confronti dell’area cattolica moderata. Questo nonostante siano in molti a riconoscere che Emma Bonino è sempre stata un valore aggiunto e che si è comportata con grande lealtà nella breve convivenza. Il problema non è lei, nè la pattuglia dei radicali eletti alle ultime elezioni, il problema, dicono al Pd, è stata la riproposizione del personaggio Pannella, figura nobile ma ingombrante e ingestibile. «Giocherebbe per sé, non per il Pd», dicono al Nazareno. Fioroni, a scanso di equivoci, lo ribadisce: «Non sono ammesse furbizie, non lo vogliamo».
Certo, una vaga promessa per la sua candidatura europea, da parte di Goffredo Bettini, che al tempo delle politiche aveva gestito la pratica radicali, c’era stata. Poi però, ricordano, Pannella si mise a fare lo sciopero della sete dicendo che gli eletti radicali erano meno del numero pattuito e nemmeno sicuri. Giorni e giorni di tira e molla, una spina nel fianco per Veltroni, su cui si sono gettati a capofitto tv e giornali. L’immagine di un Pd diviso prima ancora del risultato elettorale. I mugugni dei cattolici. Si sa come è andata: nove eletti, in un quadro politico terremotato, dove sono scomparsi partiti come Rifondazione comunista. La «ratio» dell’accordo politico c’era: l’idea di un partito aperto, tanto aperto e liberal da far convivere Emma Bonino e Paola Binetti. La prima era stata voluta fortemente da Veltroni per le sue competenze riconosciute, per attrarre voti soprattutto al nord. La presenza della pattuglia radicale doveva anche rassicurare i timori sulla assoluta laicità del Pd. Timori che adesso riprenderanno quota, anche se nessuno rimpiangerà quell’alleanza.
Non sembra questa, comunque, la spina più grossa per Franceschini. Qualche scricchiolio si sente dalle parti di Enrico Letta che vuole «rispacchettare tutto», perché il Pd, dice, «così come è è destinato alla sconfitta». Letta vuole un nuovo centrosinistra col trattino e con la C di centro maiuscola.

il Riformista 14.4.09
«Mi stai forse dando del mafioso?»
La Pasqua di guerra tra Bordin e Pannella
di Tommaso Labate


Per i fedelissimi di Radio radicale, la domenica di Pasqua potrebbe diventare una giornata di quelle che non si dimenticano. Perché, nel corso di un alterco mica male avvenuto nel bel mezzo della consueta «conversazione domenicale con Pannella», il direttore Massimo Bordin ha interrotto l'ira funesta di Giacinto detto Marco e ha scandito: «Va bene, andiamo avanti ed evidentemente faremo il top di ascolti... Ma vi assicuro che questa è l'ultima trasmissione della Conversazione di Bordin con Pannella».
A scatenare la lite tra il deus ex machina del partito (radicale) e quello della radio (sempre radicale) è stato lo sciopero della fame annunciato dal primo a sostegno dell'ultima campagna che partirà dal quartier generale di Torre Argentina. Della serie: Pannella sostiene che «la notizia» sia la campagna (presentazione delle liste radicali alle Europee legata alla stesura di un libro bianco che ripercorre sessant'anni di Costituzione e fa il punto sulle tante «violazioni» alla Carta); Bordin - che ha dalla sua il fatto di andare a «pane e giornali» da anni - rileva che l'elemento di interesse giornalistico sia lo sciopero.
Apriti cielo. L'incidente avviene a ridosso del minuto 48 della conversazione. Bordin, pacatamente, fa notare: «Adesso noi abbiamo in questa trasmissione un elemento nuovo: lo sciopero della fame appena annunciato da Pannella». E Pannella: «No, è un elemento consueto. L'astensione dal cibo non mi pare una notizia». A quel punto, Bordin rileva con voce serena: «Va bene, prendiamo atto di essere fuori linea anche sull'interpretazione dello sciopero della fame di Pannella». E Giacinto detto Marco, per tutta risposta, esplode furibondo: «Guarda che il "fuori linea" te lo vai a trovare eventualmente altrove, se ne hai bisogno».
Nei minuti successivi, la Conversazione (si può riascoltare e anche vedere su www.radioradicale.it) ha il passo di Tutto il calcio minuto per minuto nell'ultima giornata di campionato, quella in cui si decide lo scudetto. «Cosa fai urli?» (Bordin). «Io mi appassiono, io non sono distinto ed elegante come te» (Pannella). «Penso di esserti antipatico ma non è un problema» (B). «Tu sei allusivo e vagamente "minacciatorio". Vabbé, ognuno ha il suo stile» (P). «Mi stai dando del mafioso? Io non sono né allusivo né minaccioso» (B).
Nessun gong, nessun time out. Il direttore, per rafforzare la sua tesi, sintetizza che «tu sei l'unico politico a fare lo sciopero della fame mentre gli altri mangiano». Il vecchio leader usa la frase per tirare la sua personale conclusione: «È falso, non sono l'unico. E gli altri radicali? (...) Chiunque dica che sono l'unico involontariamente o volontariamente fa parte di quelli che negano l'esistenza della ricchezza del movimento radicale». Troppo, anche per Bordin, che annuncia la fine della trasmissione: «Marco, tutto questo è veramente brutto. Sono metodi politici poco belli». «Se è questo a cui volevi arrivare - è la risposta del Capo - da domani sarai un martire di Pannella». «Ma io - è la controreplica del direttore - non cerco il martirio».
Quando la Conversazione finisce, sulla pagina Facebook di Bordin ci sono le prime reazioni. F.M. G. gli scrive: «Caro direttore, per quello che vale, in macchina eravamo in tre e tutti e tre abbiamo ben compreso». E il direttore di Radio radicale risponde: «Beati voi. Io stento a capacitarmi. Che la faccenda possa essere in fondo così banale, perché di questo temo si tratti». «Direttore, resti con noi», è il leitmotiv dei messaggi che giungono a Bordin, con qualcuno che fa notare che «Marco è così e così, per fortuna, dobbiamo tenercelo».
Addio per sempre alla Conversazione domenicale tra Bordin e Pannella? Il primo, contattato dal Riformista, «Marco, nel suo stesso interesse, ha bisogno di altri interlocutori. Se andiamo avanti così, questa formula rischia di logorarsi». Il secondo, contattato dal Riformista, non ha risposto al telefono.

Repubblica 14.4.09
Quando la piazza protesta on line
Così la rete organizza la gente
di Riccardo Staglianò


Scoop ma anche falsi allarmi Inchieste collettive e denunce che partono dai social network Nell´era di Internet le persone si mobilitano e cambiano il flusso delle informazioni Due nuovi libri raccontano vizi e virtù dei dilettanti del web
L´analisi di Andrew Keen è più severa: "Questa rivoluzione rovinerà la nostra cultura"
Clay Shirky, docente di Nuovi Media, parla di "distruzione creativa"

È la storia di come un cellulare smarrito su un sedile di un taxi di New York finisce con lo scatenare un´inarrestabile gogna pubblica. Ma anche di una frase razzista, sfuggita ai radar dei giornali, che costa il posto a un mammasantissima repubblicano. E di un caso di pedofilia che, tracimando dal web, dilaga in scandalo internazionale e prelude alla cacciata di un alto prelato. È la storia di masse che si coordinano. Di greggi che diventano pastori. Di «dilettanti» irregolari che armati solo della voce di internet riescono a radunare una forza collettiva impressionante. Uno per uno, tutti per tutti. Il potere di organizzare senza organizzazione di Clay Shirky (Codice Edizioni, pagg. 242, euro 23) tratta della «distruzione creativa» portata dalla rete sul modo in cui viviamo, collaboriamo, produciamo.
Shirky, docente di nuovi media della New York University parte da qui: «Ogni consumatore è oggi un potenziale produttore con l´intero mondo come potenziale pubblico». Siamo tutti «ex audience», come spiegò Dan Gilmor nel suo We, the media. Ci siamo alzati dal divano e siamo andati alla scrivania. Abbiamo posato il telecomando e imbracciato la telecamera. Il terremoto in Abruzzo, con le sue centinaia di video amatoriali, ne è solo l´ultima conferma. Shirky, collaboratore a sua volta del New York Times e Wired, constata la fine del monopolio dei giornalisti nell´informazione. Porta, tra gli altri, l´esempio di Trent Lott, capogruppo repubblicano al senato. Che a una cena aveva lodato Strom Thurmond, noto segregazionista. Molti media non avevano raccolto, i blogger sì. E l´imbarazzante dichiarazione, una volta entrata in loop, l´aveva spinto alle dimissioni. Sottovaluta il lato oscuro della forza, però. Come quando Matt Drudge, alfiere del "prima pubblica poi verifica", dette la notizia (falsa) che Sidney Blumenthal, allora consulente di Clinton, picchiava la moglie. E della causa da 30 milioni di dollari per diffamazione che ne seguì. Il punto è qui: la rete è un mare dove circolano molte notizie. Che possono essere vere o false. Al contrario di quel che accade nei quotidiani non ci sono responsabili a renderne conto. Spesso accertare se ci si trova di fronte ad un fatto o ad una bufala che circola on line è impossibile.
Parole come pietre rotolano a valle, diventano valanghe e seppelliscono reputazioni. Per esempio: nel 2002 a Boston la notizia era vera. Preti accusati di abusi sessuali su bambini. Il Boston Globe fa il suo mestiere ma la notizia esplode soprattutto grazie a Voice of the Faithful. Trenta parrocchiani offesi che, dandosi appuntamento sul web, diventano 25 mila in sei mesi. Alla fine il responsabile della diocesi, cardinale Bernard Law, lascia. Shirky parla del suo paese, noi sappiamo del nostro. Del caso di Federico Aldrovandi, diciottenne di Ferrara morto nel 2005 durante un controllo di polizia. Gli agenti chiudono presto il caso, sua madre lo riapre un post alla volta. Il suo blog obbliga i giornali a tornarci su e i poliziotti finiscono in tribunale. Online il confine tra informazione e azione politica si assottiglia. Succede per il testamento biologico, all´indomani della vicenda Englaro. I radicali presentano 2.500 emendamenti alla proposta del governo. Il 20 per cento raccolti via internet. Non era mai successo, succederà sempre più spesso.
Si può discutere tutto di Beppe Grillo, non la sapienza con cui ha saputo sfruttare la piattaforma internettiana. La stessa con cui Barack Obama ha concepito parte della sua vittoriosa campagna. A dire solo «no, non mi piace», rimpiangendo gli anni eroici dei comizi nelle piazze, si rischia di fare la figura di Giovanni Tritemio, rievocato nel libro. L´abate di Sponheim nel 1492 scrive un pamphlet in cui difende la superiorità degli scriba, minacciati di estinzione dall´invenzione della stampa di Gutenberg. Affida però De laude scriptorum ai tipografi, perché abbia più vasta e spedita circolazione. Mai autosmentita fu più efficace. Eppure la tentazione sopravvive. Dilettanti.com (DeAgostini, pagg. 269, euro 15) di Andrew Keen spiega «come la rivoluzione del web 2.0 sta uccidendo la nostra cultura e distruggendo la nostra economia». Ma se certi contenitori (la carta) sono sotto botta ma il contenuto (il giornalismo) non è mai stato così prezioso.
La Cultura può dormire sogni tranquilli. Perché le masse organizzate, oltre a prendere a picconate le istituzioni, sanno costruire. Shirky cita Wikipedia, l´enciclopedia editata dall´intelligenza collettiva. Ne dà una definizione originale: «È essenzialmente una burocrazia per litigare». Nel senso che uno scrive una voce, un altro propone modifiche, un terzo obietta e corregge di nuovo, in un affinamento progressivo. Escono anche bufale colossali. Mai come qui è utile la lezione delle scuole di giornalismo americane: "Se vostra madre vi dice che vi ama� verificatelo". Però, onestamente, chi ne farebbe a meno?
Il libro di Shirky deluderà i più "digitalizzati". Scrive: «Gli strumenti di comunicazione non sono socialmente interessanti sin quando non diventano tecnologicamente noiosi». Parla di sms, blog, mailing list, pleistocene internettiano solo adesso diventato normale, precipitato dalle élite alle masse. Così quando la giovane Ivanna dimentica il suo telefonino in un taxi e poi scopre che chi l´ha trovato non ha alcuna intenzione di restituirlo, mette in piedi un sito (evanwashere. com/StolenSidekick/) tanto che la polizia è costretta a intervenire. Così va il mondo quando tutti collaborano con tutti. Per i ragazzi è più facile, i post-1980 non ne conoscono un altro. «In un periodo di rivoluzioni l´esperienza diventa zavorra» avverte l´autore, perché se hai una weltanschaung tradizionale, «quando arriva un cambiamento epocale rischi di considerarlo cosa di scarsa importanza».

Repubblica 14.4.09
Al Teatro India di Roma da domani "L´illusione di Dio"
Atei e cattolici a confronto da Spinoza a Scalfari
di a. b.


È un teatro che ha uno stretto rapporto con la vita e la nostra vita sociale, L´illusione di dio, lo spettacolo che debutta a Roma, da domani a domenica al Teatro India e dal 21 all´Orologio, scritto e diretto Adriana Martino: si e ci interroga sul tema della fede e della ragione, sul rapporto tra cultura laica e religione con spessore di riferimenti e l´ordinato lavoro di congiunzione tra pensieri diversi, «selezionati con una scelta di campo radicale», spiega Adriana Martino, «seguendo il filone illuminista». Si parte da quel pilastro che è Spinoza, poi Dostoevskij, Nietzsche, mettendoli a confronto con studiosi di oggi, da Paolo Flores D´Arcais e Odifreddi a Eugenio Scalfari. Saranno gli attori Pietro Bontempo, Nicola D´Eramo, Bruno Viola, Fabrizio Raggi, Maurizio Repetto a dare loro voce, talvolta anche in forte contrapposizione tra loro, come quella di «un credente vicino a Heidegger, Vattimo e di un materialista ateo, Michel Onfray. A se stante, nel finale, ci sarà Scalfari. Colleziono i suoi articoli. Ho fatto un montaggio da alcuni estratti che poi lui ha rivisto. È diventato "La gabbia dell´io" un bellissimo monologo sulle ragioni delle sue convinzioni profondamente laiche».

l’Unità 14.4.09
Legionari di Cristo sesso, droga, scandali
di Toni Jop


Discutibile la vita segreta del fondatore della potentissima congregazione
Ottocento sacerdoti, 2.500 seminaristi, 65.000 laici nel Regnum Christi

No, questa storia che aveva anche una figlia, non ci voleva proprio. Persino il discretissimo Vaticano che pure era stato paziente per decenni nei suoi confronti si è sentito in dovere di fare qualcosa. Così, ecco che una delegazione di «inquisitori» gentili inviati dal Papa hanno «visitato» un paio di giorni fa le sedi dei potentissimi Legionari di Cristo. Solo che il soggetto principale dell’indagine è morto da un pezzo: padre Marcial Maciel Degollado, fondatore del piccolo impero di tonache e non solo, ci ha lasciati all’inizio del 2008 portando una tribolata verità nella tomba. Chissà se la figlia gli porterà dei fiori.
Brutta storia: perché sguazza nel sesso omo ed etero - se le accuse son vere, quell’uomo non guardava in faccia nessuno - nella pedofilia, e anche negli affari, nel business. Inoltre, cautela massima da parte del Vaticano rispetto a una congregazione che, a dispetto di tutti gli indici delle vocazioni in calo, recluta preti su preti mentre moltiplica sedi e insidia vecchi poteri consolidati nella Chiesa. Ottocento sacerdoti, 2500 seminaristi, 65mila laici raccolti nell’associazione parallela Regnum Christi.
La crema della Destra-destra
Benvenuti a destra, e che destra. Intanto il nome: Legionari di Cristo, ci vuole un bel fegato per avvicinare il nome di Cristo, il simbolo della mitezza e dell’amore, all’idea rombante di una legione, strumento di guerra assunto in onore a una manifesta volontà di potenza. Ma non è la prima volta che in seno alla Chiesa si cede a questa sirena. Poi, il fatto che la congregazione abbia contato nella Spagna umiliata dal fascismo franchista sull’appoggio di personalità del governo. Non solo: nella Legione sono finiti una quantità di rappresentanti della upper-class spagnola, conservatori quando non reazionari, la crema della destra-destra sfuggita al reclutamento dell’Opus Dei. Quindi, la legione ha una buona rilevanza politica e un valore strategico che, fino a ieri, era in crescita.
Anche in Italia, dove, spulciando tra i nomi dei vip, poteva contare sulla solidarietà fattiva dell’ex governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio. Quest’ultimo, nel corso di una telefonata a Fioroni - intercettata nell’ambito della inchiesta sullo scadalo della Banca Popolare di Lodi - fa esplicita richiesta che siano versati soldi anche ai Legionari. Il Vaticano stimava molto Fazio. E stima i Legionari: il cardinale Sodano, segretario di Stato, ha difeso allo stremo padre Degollado benché le accuse e le testimonianze fossero corali. Come mai?
Droga e violenze
Dicono che facesse uso di stupefacenti, morfina. Che abbia coltivato relazioni con donne molto ricche mentre costruiva il suo impero. E ben 8 ex legionari si sono sentiti in obbligo di denunciare di essere stati violentati o insidiati quando erano ragazzini da questo bel tomo in odor di santità. Gli otto sarebbero solo la punta dell’iceberg dell’umanità assoggettata alle pulsioni sessuali del sacerdote partito dal Messico per conquistare con le sue Legioni il mondo intero nel nome di Cristo. Ma questa è storia nota, così com’è noto che il Vaticano - ci pensò Benedetto XVI - fu costretto a prendere in esame la situazione; intanto il prete era diventato vecchio e Santa Madre Chiesa non ama il clamore: in pratica, gli dissero che era colpevole ma si limitarono ad invitarlo a ritirarsi e a fare penitenza. Era il 2006. Tutto qui? Pecca fortemente ma credi ancor più forte? Sarà anche stato devoto alla Madonna ma padre Degollado aveva imposto il silenzio assoluto e censura totale a tutta la sua poderosa macchina da «guerra»: forse credeva nel potere più che nella madre di Cristo.
Pareva vicenda chiusa, nonostante uno choccante libro - «El Ilusionista» - scritto da un suo nipote ex legionario. Senonché è saltata fuori questa povera ragazza di vent’anni che assieme alla madre pretende soldi dalla congregazione: la figlia di Degollado, la madre sarebbe stata l’amante fissa del pio fondatore. Tra l’altro, pare si siano scoperti strani movimenti di denaro nei conti della congregazione: qualcuno da convincere al silenzio, qualcun altro da mantenere, e la politica? Sicuri che non c’entri nulla?
Trema l’attuale leader dell’organizzazione, padre Corcuera, l’uomo che ha ricevuto il potere direttamente dalle mani di Degollado. Possibile fosse all’oscuro di tutto? Il fascicolo è nelle mani del cardinal Bertone. Le Legioni sono in rotta.

Corriere della Sera 14.4.09
Religioni
Viaggio all’origine del mistero indiano
di Roberto Calasso


Per la prima volta in italiano le lezioni di Sylvain Lévi sui Brahmana
Genesi I testi liturgici sull’origine del mondo e il significato del sacrificio rituale
Prajapati, il dio che creò gli dei E sarà dimenticato da tutti
Il «signore delle creature» è l’essere primordiale; all’inizio niente esisteva nell’universo tranne lui

I Brahmana sono trattati in prosa sul sacrificio (sui molti tipi del sacrificio). Testi al tempo stesso di esegesi liturgica e di metafisica, perché il sacrificio è tutto e parlarne implica dire ciò che è. Nel corpus vedico, massiccio abrupto e solitario di parole che appaiono senza essere accompagnate da alcuna testimonianza palpabile — oggetti, edifici, iscrizioni —, i Brahmana occupano lo spazio centrale fra il Rigveda, che è una raccolta di milleventotto inni, in gran parte cifrati e allusivi a vicende mitiche di cui si presuppone la conoscenza, e i Sutra.
I Sutra sono prescrizioni aforistiche che si presentano in formulazioni asciut­te e stringate per favorire la memorizza­zione. I Brahmana, invece, sono testi dif­fusi e minuziosi, che si propongono di il­luminare ogni dettaglio del rito. La loro mira non è soltanto quella di mostrare ciò che deve accadere, ma di renderne ra­gione. Il significato diventa una striscia continua che corre in parallelo al rito, il quale tende a invadere la totalità del tem­po.
I Brahmana sono una grandiosa impre­sa di interpretazione, decisa a non lascia­re nulla nell’inerzia dell’insignificante. Ciò che si vedeva ogni giorno, nei gesti degli officianti e dei patroni dei sacrifici, veniva a essere sommerso dai significati e dalle storie, che ne giustificavano l’ori­gine e ora gli si sovrapponevano come una folta vegetazione epifitica. Nel conti­nente dei Veda, i Brahmana erano al tem­po stesso la «foresta», aranya, che signi­fica il luogo della dottrina segreta, e la guida per addentrarsi in quella foresta.

Prajapati è il personaggio dominante dei Brahmana. Instancabili, i testi a lui tornano: «Prajapati era solo...»; «I Deva e gli Asura, gli uni e gli altri generati da Prajapati...»; «Prajapati desiderò...». Le sue vicende sono le più drammatiche: suicida, ferito in un agguato, disarticola­to, agonizzante, minacciato di morte dal figlio primogenito. Eppure, questo non è bastato per gli indologi, anche per alcuni fra i più illuminati. Continuavano a ravvi­sare in lui un qualcosa di scialbo, artifi­cioso, quasi fosse un’astrazione escogita­ta da dotti ritualisti. Non era un dio co­me gli altri, con le sue avventure e vicissi­tudini. Oldenberg non gli concedeva al­tro che di essere «un vertice del sistema degli dèi, costruito dai sacerdoti». E con­cludeva: «Non è un dio vivente, che dà prova della sua potenza nella vita dell’ani­ma umana, nelle battaglie, nelle sofferen­ze dei popoli, non è un dio come più tar­di lo fu Shiva».
Paradossalmente il fatto di non essere tutto ciò che Oldenberg non gli concede di essere è il presupposto del più alto e inconfondibile pathos di Prajapati. Non conosciamo un altro creatore che, al pari di lui, si perda nelle vicende della creazio­ne, si sfibri nei rinnovati, spesso falliti, esasperanti tentativi di dare forma al mondo, di renderlo abitato da esseri pie­namente viventi. E quando finalmente ta­li esseri appariranno — gli dèi —, comin­ceranno subito a battersi tra loro, in due schiere di fratelli nemici, i Deva e gli Asu­ra, e tale sarà la loro furia e concentrazio­ne nella lotta che presto dimenticheran­no e accantoneranno il Padre, figura or­mai inutile e sorpassata. In fondo gli uo­mini moderni non furono che gli ultimi a ignorare Prajapati. Primi erano stati gli dèi; poi vennero gli antichi, che lo dimen­ticarono: non esiste tempio indiano dove Prajapati sia raffigurato. Alla fine giunse­ro gli studiosi e caddero nell’equivoco più beffardo: credettero che Prajapati, dal quale tutto era sorto, fosse un’inven­zione tardiva, un nome che serviva per coprire una lacuna, ma rimaneva inconsi­stente.
Quando le creature hanno finito di ap­parire, la visione che si presenta è un im­mane disastro. Prajapati è sfinito, svuota­to. Solitario come all’inizio era solitario, perché le creature si sono subito rivolte via da lui. Il fine dell’opera — gioia e cibo — non è stato raggiunto. Questo è lo sfondo su cui ogni altro evento si delinea: una sce­na di desolazione e di ab­bandono, come al termine di uno sforzo vano. Tutta la storia, da allora, è il pro­cesso con cui Prajapati ten­ta di reintegrare le sue forze. Mai come nella storia di Prajapati è evidente quello che Sylvain Lévi ha chiamato il «realismo selvaggio» dei Brahmana. Mai un dio cre­atore è stato esposto come Prajapati al tormento, dall’interno e dall’esterno. Mai un essere divino è stato così dipendente dalla sua fisiologia. Dio solitario, arden­te, suicidale, sessuale, le sue creature lo trattano con eccessiva familiarità, come se non si fossero ancora del tutto distac­cate da lui. La creazione è una sequenza convulsa. Nessuno ha il tempo di fermar­si per onorare il Padre. E presto tutti lo fuggono. Ma come mai le creature abban­donarono Prajapati? Erano appena appar­se e il Progenitore giaceva sfibrato, «svuotato» ( riricanah, termine perfetta­mente corrispondente alla kénosis paoli­na: « exinanivit se »). Subito, le creature gli voltano le spalle. Votato alla solitudi­ne, prima e dopo avere creato, Prajapati non può mai gioire degli esseri che ha fat­to esistere. È condannato a un perenne monologo, che a tratti può concentrarsi nell’«ardore», nel tapas.
Le creature non spiegano mai perché scompaiono. Per indifferenza? Perché non riescono a convivere con il Padre? Sovrapponendo le molte versioni di que­sta fase degli eventi, si può azzardare che le creature fuggano dal Padre perché si vergognano di lui, perché riconoscono in lui il primo colpevole. Non solo per­ché si è subito congiunto con la figlia Ushas — e questa era apparsa «una azio­ne cattiva agli occhi degli dèi». C’è chi di­ce che si fossero anche messi subito a di­sputare sul perché Prajapati avesse crea­to i ladri, i tafani, le zanzare e altro anco­ra. Ma tutto era un pretesto per alludere alla colpa maggiore, forse l’unica: la crea­zione stessa, quella ferita inferta nella pienezza, che l’aveva dispersa in un pulvi­scolo di esseri; quel passaggio irreversibi­le dal continuo al discontinuo, che ora avrebbe costretto tutti a vivere faticosa­mente tentando di ricomporre quel con­tinuo — cioè il corpo stesso del Padre. E non sarebbero mai riusciti a farlo una vol­ta per tutte. Ma, prima di giungere a quel punto — e quasi non volessero pensare a che cosa li aspettava —, fuggirono. La­sciarono di nuovo il Padre nel deserto de­gli esseri, e l’osservarono da lontano mentre scopriva un modesto sacrificio per tentare — già da solo — di migliora­re la sua condizione. Eppure, quella ceri­monia gli giovò. Per il puro fatto di offri­re. Ma a chi? C’era solo il vuoto davanti a lui. Allora ricordò: Chi? — Ka — era il suo nome. Offriva se stesso a se stesso.
Ma non sarebbe mai bastato. Per ri­comporre Prajapati non sarebbe occorso nulla di meno dell’immane costruzione dell’altare del fuoco. Gli uomini pensava­no ai diecimilaottocento mattoni di cui avrebbero avuto bisogno per innalzarlo, per ricomporre il Padre.
I Brahmana sono di per sé testi ardui, così come sono ardue la Critica della ra­gione pura di Kant o l’Etica di Spinoza, forse le opere più affini ai Brahmana che possa offrire l’Occidente moderno. Ma un’ulteriore difficoltà è costituita dall’at­teggiamento ostile e sprezzante che mo­strarono verso questo genere di scritti al­cuni dei padri fondatori dell’indologia. Paradossalmente, si trattava in certi casi degli studiosi che più si adoperarono per­ché la letteratura dei Brahmana fosse co­nosciuta. Nel caso dello Shatapatha Brahmana innanzitutto Max Müller e Ju­lius Eggeling. Max Müller promosse la prima traduzione, integrale e commenta­ta, del testo. Affidata a Julius Eggeling, questa edizione, che rimane l’unica com­pleta fino a oggi e spicca tuttora come un’impresa grandiosa e preziosa, fu pub­blicata a Oxford fra il 1882 e il 1900.
Ma nel 1898, a distanza di pochi anni dai giudizi scoraggianti di Max Müller e Julius Eggeling sulla letteratura dei Brah­mana, veniva pubblicato a Parigi un libro di genio: La dottrina del sacrificio nei Brahmana di Sylvain Lévi. Per primo, Lévi aveva capito che i Brahmana posso­no essere intesi soltanto attraverso i Brah­mana — in modo non dissimile da come il suo maestro Abel Bergaigne aveva pro­vato a intendere il Rigveda soltanto attra­verso il Rigveda. Così rinunciò non sol­tanto a ogni pretesa di ricostruzione sto­rica, che in questo caso è illusoria e svian­te, come si è dimostrato con abbondanza di esempi sino a oggi; ma anche a riferi­menti ad altri testi del corpus vedico, in­nanzitutto al Rigveda. A parte la breve e densa Introduzione, il libro è tutto una sequenza di citazioni, mirabilmente scel­te e concatenate. Nonché finalmente tra­dotte in una lingua sobria e vigorosa, che non attenua la bruschezza del testo. Si può dire che qui per la prima volta, da­vanti ad attoniti occhi occidentali, affiori la macchina speculativa del sacrificio brahmanico — portentosa macchina di cui Sylvain Lévi era consapevole di mo­strare soltanto alcuni dei congegni fonda­mentali.
La qualità altissima del libro di Lévi non è certo dovuta alla teoria, che quasi non sussiste e, nei rari momenti in cui appare, non si discosta di molto da certe idee correnti dell’epoca. Non è certo dun­que per la sua visione storico-religiosa che, a distanza di un secolo, apriamo an­cora La dottrina del sacrificio nei Brah­mana con sempre rinnovato stupore e ammirazione, trovandovi ogni volta qual­cosa di nuovo. Ma dove risiede allora il genio del libro? Nella sua forma. Più pre­cisamente, nella sua capacità di acco­stare e montare cita­zioni. Di fatto, con temerario understa­tement, Mauss ave­va definito il libro «una raccolta ordi­nata dei testi dei Brahmana sul sacri­ficio ». Ed è un po’ come se si definis­se il Passagen-We­rk di Benjamin una raccolta ordinata di citazioni su Parigi.
Mentre non c’è dubbio su questo: il li­bro è una composizione di citazioni — e sostanzialmente null’altro. Occorre però osservare da vicino il procedimento di Lévi. Nella selva dei Brahmana Lévi proce­de con un invisibile machete e, senza mo­strare alcuna incertezza, isola i passi che costituiscono le giunture essenziali nella smisurata costruzione. Li accosta e li tra­duce, con un vigore che appare tanto più vibrante se si confrontano quei passi con le cartilaginose e arcaizzanti traduzioni di Eggeling. In certo modo, Lévi si muo­ve come l’adhvaryu, l’officiante che inces­santemente si adopera per eseguire tutti i gesti miranti a ricomporre il corpo di­sarticolato e dolorante di Prajapati, quale giaceva da secoli, ignorato dagli occhi oc­cidentali e anche trascurato dagli occhi dei nativi, che a lungo avevano ritenuto più urgente offrire la propria devozione ad altri dèi. A suo modo, La dottrina del sacrificio è un Prajapati ricomposto, co­me mille altre volte era stato ricomposto nel culto.

Corriere della Sera 14.4.09
L’incanto delle neuroscienze
Così la fantasia diventa realtà
di Edoardo Boncinelli


Chris Frith illustra le scoperte più recenti sulla mente e le implicazioni nella vita quotidiana

Smontare e rimontare la mente, scomporla nei suoi elementi co­stitutivi per poi tenta­re di ricomporla, guardare dentro la nostra testa con lo scopo di comprendere, senza per questo rovinare l’incanto; questi sono gli obiettivi delle neuroscienze cognitive, la ver­sione contemporanea della psicologia sperimentale e uno dei maggiori traguardi del nostro tempo.
Innumerevoli sono ormai i libri sull’argomento, alcuni più spostati sul versante neu­robiologico, altri più aderenti a una visione psicologica o psicologistica. Bene in bilico tra i due campi si tiene Chris Frith nel suo Inventare la mente (traduzione di Manue­la Berlingeri e Luca Guzzardi, edizione italiana a cura di Eral­do Paulesu, Raffaello Cortina, pp. 304, e 24), libro piacevole e leggibilissimo, pieno di scienza e di buon senso, che costituisce una guida ideale per chi si vuole informare sul­le conquiste delle neuroscien­ze senza perdere di vista le lo­ro implicazioni per la vita di tutti i giorni. Si tratta di un li­bro molto discorsivo, il cui ca­pitolo centrale è per me quel­lo intitolato «La nostra perce­zione del mondo è una fanta­sia che coincide con la real­tà ». Noi conosciamo il mon­do sulla base delle «fantasie» dei nostri organi di senso e delle aspettative che noi ab­biamo, basate sulle nostre esperienze e sui «sogni» dei nostri geni.
Ciò che l’autore non ci di­ce, perché esula dai suoi sco­pi, è perché tali fantasie, co­munque raggiunte, corrispon­dono abbastanza bene ai con­notati della realtà esterna. Questo, che è in fondo il pro­blema di Kant e di tutta la filo­sofia della conoscenza, è sta­to chiarito brillantemente an­ni fa da Konrad Lorenz. Le no­stre fantasie corrispondono abbastanza bene alla realtà— senza peraltro ambire a cono­scerla nella sua essenza e nemmeno a scalfirla — per­ché, se ciò non fosse, noi non avremmo nessuna speranza di sopravvivere e i nostri ante­nati di milioni di anni addie­tro non sarebbero sopravvis­suti e quindi non avrebbero la­sciato discendenti.
Si tratta di un esempio par­ticolarmente brillante di quel tipo di ragionamento evolu­zionistico che nel passato non sarebbe stato nemmeno concepibile. I nostri a priori insomma trascendono noi co­me individui, ma non come specie o addirittura come ani­mali superiori, come in fondo aveva adombrato lo stesso Kant, senza sospettarne il mo­tivo.
A molti questo sembra un ragionamento circolare, una petitio principii. Perché cono­sciamo il mondo, pur non avendo con esso nessun con­tatto diretto? Perché siamo equipaggiati per farlo. E per­ché siamo equipaggiati per farlo? Perché altrimenti non ci saremmo. Come argomen­to speculativo appare in real­tà circolare, ma come dato di fatto è ineccepibile e inconfu­tabile: noi ci siamo e conti­nuiamo ad esserci. Quindi qualcosa ci deve riuscire per forza. Alla barba di tutti i sofi­smi alla don Ferrante del Man­zoni, prototipo dell’intellet­tuale disconnesso dalla real­tà; dalla «realtà effettuale» di­rebbe il Machiavelli, uno dei grandi italiani che a noi piace così spesso rinnegare.
Frith non si limita a porsi il problema di come conoscia­mo il mondo, ma si chiede an­che come riusciamo a farci un’idea di quello che pensano gli altri — usando le sue paro­le «Come i cervelli modellano le menti» — e come riuscia­mo a «Condividere le menti». Si tratta ovviamente del pas­saggio dalla percezione e dal­l’ideazione individuale a quel­la collettiva e culturale. Anche qui possiamo apprezzare mol­ta dottrina e molta abilità espositiva, che nasconde poi una profondità di pensiero che solo la scienza opportuna­mente meditata può dare. Per­ché la scienza è aperta al mon­do e sempre ansiosa di impa­rare qualcosa, magari sorpren­dente, magari controintuiti­vo, magari non proprio grade­vole da ascoltare: Amicus Pla­to, sed magis amica veritas.

il Riformista 14.4.09
Le autorità che contano sarebbero altrove, non visibili alla luce del sole
Il potere è tiranno ma non da solo, parola di Canfora
di Andrea Valdambrini


Pamphlet. Le «lezioni» politiche dello studioso e filologo. Chi governa è al centro di «una complessa rete di consenso». Il parlamento ? «Un gioco stucchevole». Gli interessi forti, occulti e finanziari «sono i veri attori» sulla scena. E l'ipotesi tirannicidio? Solo un gesto «inutile e da narcisi» come insegna Tucidide. I media? «Un nuovo fascismo sostenuto da una struttura sociale». Cosa rimane allora della democrazia: solo violenza?

Iniziamo dalla fine, una volta tanto, e dichiariamo brutalmente chi è l'assassino. La natura del potere (Laterza, 2009, pp. 99, € 14) di Luciano Canfora è un libro (anche) su Berlusconi. Oltre che sui poteri occulti, naturalmente. Perché secondo Canfora il potere, quello con la lettera maiuscola, è altrove, non sotto la luce dei riflettori, visibile a tutti. I veri attori del gioco sono i giornalisticamente detti poteri forti, come quello della Bce, ad esempio, come le banche in generale, i finanzieri e le multinazionali. Cosa non nuova a sapersi, certamente. Ma la conclusione corrosiva di fronte alla desolante realtà dei fatti, è che tra un tiranno e un regime parlamentare non c'è poi tutta questa differenza. Con una postilla: se il tiranno è una manifestazione del potere non meno illegittima della democrazia parlamentare, il tirannicidio è un atto inutile, nel migliore dei casi, e controproducente nel peggiore.
Non a caso il nodo centrale del saggio potrebbe riassumersi in questa dichiarazione resa da Stalin nel 1927: «Nei Paesi capitalistici nonostante l'esistenza di parlamenti democratici i governi sono controllati dalle grandi banche». Sono queste che di fatto dirigono i politici. Quello che chiamiamo con i nomi di democrazia, parlamentarismo, elezioni, delega popolare della rappresentanza e quant'altro, è solo una rappresentazione, un gioco stucchevole per ingenui o stupidi che ci vogliono proprio credere.
La convinzione del potere occulto è sostanziata da una ricchissima esemplificazione storica, che oscilla suggestivamente tra il mondo antico e l'epoca dei totalitarsmi del Novecento. Partendo da Atene, Canfora ammonisce che la democrazia ha avuto la necessità di legittimarsi in contrasto alla tirannide. Tucidide, però, ci svela i retroscena della favola democratica, smontando il mito di Armodio e Aristogitone tirannicidi in nome della libertà. L'acuto storico greco riduce sarcasticamente tutto al personale invaghimento di uno degli Alcmeonidi verso il tiranno. Né, passando a Roma, si vede in cosa consisterebbero la bontà e l'utilità del tirannicidio. Atto non eroico, ma di narcisismo e presunzione ideologica, praticato da oligarchi imbevuti di miti greci risalenti proprio alla fondazione dell'Atene democratica. Chiediamoci se le pugnalate a Cesare hanno forse fermato la nascita dell'impero. Ottaviano Augusto sarebbe stato solo più accorto di suo zio a non irritare l'oligarchia senatoria, ma egualmente convinto che la Res publica necessitava ormai di un nuovo assetto istituzionale, l'impero appunto. E parallelamente, un ipotetico attentato a Hitler ci avrebbe forse salvato dalla catastrofe della guerra mondiale? Anche qui la risposta sembra desolantemente negativa.
L'inutilità del tirannicidio scaturisce innanzitutto dall'errore concettuale su cui si fonda. Il tiranno non è il solo responsabile del male, ma il centro della complessa rete di consenso che lo sostiene. Inoltre, facendo leva su una base velatamente hegeliana (tutto quello che è reale è razionale: se la storia è così come è c'è una ragione profonda), Canfora giunge a sposare la pessimisitica asserzione gramsciana: ogni potere è dittatura, e dunque, aggiungiamo, se deve grondare lacrime e sangue è bene che lo faccia. Lo sapevano certamente Pericle e Demostene, campioni della democrazia ateniese attraverso l'uso persuasivo delle parole, ne era al contrario spaventato Platone.
È con la parola, infatti, che si acquista il consenso necessario a legittimarsi, tanto nelle democrazie che nelle dittature. Nell'antichità, la parola seduce, blandisce, guida il popolo. Nell'era moderna, all'irrompere delle masse sulla scena della storia, il crinale tra democrazie e totalitarismo appare assottigliarsi. La teatrale retorica di Mussolini, ieri, la suadente voce televisiva oggi. Senza mezzi termini, Canfora affonda: il berlusconismo è il «nuovo fascismo». Ecco quindi spiegato perché e come Silvio è di nuovo l'assassino, il responsabile dell'attuale inebetimento del popolo votante. Un Silvio mai citato, considerato al di là del culto della personalità da psicodramma morettiano. Anche in questo caso, si può ragionare con Canfora, il tirannicidio sarebbe ridicolo. Il nuovo fascismo dei mezzi di comunicazione di massa è di fatto sostenuto da una struttura sociale, e dunque, ahimé, hegelianamente necessario nel suo momento storico. Come ipotetici tirannicidi, finiremmo quindi per suicidarci.
Le analisi volte a far emergere la struttura dalla sovrastruttura, come avrebbe detto Marx, ovvero la verità del potere dai suoi nascondimenti, sono sempre le benvenute. È sempre bene tenere alta la guardia di fronte al potere, che per sua definizione, coincide con la forza e non con la gentilezza. L'unica accortezza, dato che forse siamo rimasti ingenui, è quella di non arrendersi alla dittatura necessaria, democratica, tirannica, o mediatica che sia. O quanto meno di distinguere. Se il potere è sempre violenza, bisognerà cercare una formula in cui la democrazia non coincide esclusivamente con il potere. Non so se a questo punto abbiamo capito bene la lezione, professore.

Liberazione 14.4.09
Siete bravi giornalisti e dovreste sapere che recensire libri lontani dal nostro pensiero non solo è lecito, ma doveroso
di Giuseppe Prestipino


Stiamo ricevendo una quantità di contributi sulla querelle aperta dalla lettera di una parte dei redattori e delle redattrici di "Liberazione" sulla recensione di Guido Liguori al libro di Domenico Losurdo su Stalin. Ci scuseranno gli interessati/e se evitiamo la pubblicazione che occuperebbe, allo stato, diverse pagine del giornale. Salvo per la lettera che segue, direttamente rivolta da Giuseppe Prestipino ai protagonisti della protesta.

Cari compagni firmatari della lettera antistalinista, i venti di scissione dal Prc si sono levati prima che si scatenasse la bufera della crisi globale. Non tutti, a sinistra, potevano prevedere la bufera, anche se alcuni l'abbiamo prevista. Diversa è oggi la situazione. Capitali e paesi capitalistici sono più uniti che mai per fronteggiare la crisi. Si abbracciano tutti: dagli Stati Uniti all'Iran. Progettano persino il disarmo generale, mettendo per ora a tacere la guerra infinita. La risposta che viene da una certa sinistra italiana è invece quella della scissione infinita. Cari compagni, lottate contro i vivi e non resuscitate politicamente i morti. Avete letto tutti voi il libro di Losurdo? Se lo leggerete vedrete che non è negazionista. Tendenzialmente giustificazionista forse, ma più ancora è il libro di uno storico comparativista nel paragonare un certo colonialismo liberale all'"universo concentrazionario" (così lo definisce) voluto da Stalin. Il comunismo non è oggi l'erede di Stalin, mentre i valori di libertà e di democrazia, nei quali noi crediamo, sono eredità venuta anche da Robespierre, i cui crimini sono, comparativamente, tanto in minor numero quanto la Francia è più piccola dell'impero sovietico.
Leggo sempre con piacere Frida Nacinovich, abile e sottile giocherellona anche sulle serie e tristi imprese della cronaca politica e del palazzo. Ma perché, al contrario, prende sul serio un gioco al massacro dentro il partito (e il suo giornale)? La pubblicità al libro di Losurdo c'è stata, non per la recensione di Guido Liguori, ma per la lettera dei malpensanti e le sue conseguenze. Siete bravi giornalisti e dovreste sapere che alcuni interrogativi, come vi ricorda anche Liguori, sono retorici e perciò pesano più della corrispondente forma affermativa. Tale voleva essere l'interrogativo: «Può uno Stato socialista creare un sistema concentrazionario tanto vasto?». E anche vasto non significa solo quantitativamente esteso o numericamente grande. The vaste land, in Eliot, significa la terra desolata. Ma anche in italiano de-vastato o de-vastante possono considerarsi sinonimi del "vasto" di Liguori. Sempre sulla res extensa: troppo spazio ai trent'anni della dittatura staliniana? Meno che un decimo dello spazio occupato, sul nostro giornale, da quell'unico giorno nel quale il muro di Berlino fu abbattuto. Allora si riempirà una pagina per Hitler e Mussolini? Perché no, se la (cattiva) storia del mondo è andata storta, tra i dieci (dal 1933) e i venti anni (dal 1922), anche per causa loro. E per Pol Pot e Ceausescu? Non direi, perché erano ai margini della storia mondiale, quasi come criminali comuni. La buona sinistra vede il male e vede le contraddizioni nello stesso male: Stalin che (a volte) predica bene e (molto più spesso) razzola male, mentre Hitler, Mussolini o anche Pol Pot e Ceausescu, più "coerenti", predicano e razzolano sempre male. Tra Hitler e Stalin, peraltro, è soltanto Hitler il personaggio storico che (per effetto della xenofobia e del razzismo generati dalla globalizzazione) tuttora ispira ovunque, dagli Stati uniti alla Russia e all'Italia, alcuni gruppi organizzati di nostalgici violenti. Non vedo stalinisti, invece, se non in singole persone, tra le quali ne conosco un paio di raffinata cultura e incapaci di ferire una mosca, che "riabilitano" quel dittatore perché disgustate (non solo da questa globalizzazione e da questo nuovo razzismo) anche dalle scomuniche perpetue contro Stalin soltanto. Se dunque il personaggio non ha fatto scuola nelle frange o leggende nere della politica odierna, continuare a maledirlo e a maledire i suoi storici è come maledire Caligola e Tacito, perché il corso veloce della storia dopo la metà del secolo scorso sospinge Stalin lontano da noi quasi quanto Caligola. Perciò abbiamo necessità di batterci ancora per i valori dell'antifascismo, non altrettanto di dedicare all'antistalinismo una bandiera o un partito o una setta. Ai morti della storia non si benedice né si maledice. Si fanno processi, ma per un'istruttoria storica rispettosa dei codici di procedura storiografica soltanto.
Nel merito: no alle risposte definitive (pare che solo il Papa e i firmatari della lettera le conoscano), no allo storicismo giustificatorio (solo uno storico illustre come Leopold von Ranke credeva che tutte le epoche fossero egualmente vicine a Dio), sì a uno storicismo che veda le condizioni oggettivamente necessarie (per esempio, i rapporti di forza nel ‘900, sfavorevoli alla costruzione del socialismo), ma operi anche con ipotesi controfattuali su altre risposte soggettivamente possibili: invece che il terrore staliniano, una più effimera perestroika come quella gorbacioviana o una più duratura via cinese ai due capitalismi: di Stato e di imprese sovranazionali, o altre ipotesi ancora. Non credo che la Nep di Lenin fosse di ostacolo, come giudica Losurdo, alla preparazione dell'Urss in vista dell'invasione hitleriana, e quindi che la collettivizzazione forzata fosse necessaria.. Altre decisioni erano possibili. In ogni caso, dice bene Liguori: Stalin voleva tutto e subito. E invece aveva ragione Lenin: si potevano fare due passi avanti e uno indietro. Meno socialismo? Un socialismo dimidiato e imperfetto? Si dica pure così, se perficere il socialismo era allora impossibile.
"Liberazione" giustamente intervista anche i fascisti e i seguaci di Evola, mentre i giornali di destra si guardano bene dal dare la parola ai loro avversari. Infine: recensire il libri lontani dal nostro punto di vista non solo è lecito, ma è doveroso se sono libri documentati e, per giunta, con continue citazioni di opere fortemente anti-staliniane. Il silenzio su chi non la pensa come noi non è nostro costume, è invece in uso nelle veline consegnate ai media o berlusconiani o pubblici o "indipendenti".

Liberazione 14.4.09
Beppino Englaro
Ho fatto un «master di vita estrema»
di Beppino Englaro


Stralcio da "La vita estrema", conversazione di Beppino Englaro con Piero Colaprico, pubblicata sul nuovo numero di MicroMega in edicola e nelle librerie

Ho fatto un «master di vita estrema». Ho visto mia figlia morta nell'ospedale di Udine, in seguito all'interruzione delle terapie che ci è stata permessa dai giudici, dopo quasi dieci anni di ricorsi e controricorsi. Guardo mia moglie, che s'è consumata ardendo come una candela per il dolore e la rabbia, ed è molto malata. Ho affrontato credo migliaia di discussioni con medici e avvocati e giornalisti, e non con tutti avrei parlato volentieri. E, per quanto mi riguarda, so che la parola fine a tutta questa vicenda non c'è ancora. Non per me. Però so di aver compiuto un passo e di aver viaggiato, di essermi spostato dal luogo in cui stavo. All'inizio, quando Eluana ha avuto l'incidente, il 18 gennaio del 1992, sono arrivato in ospedale e, al quarto giorno di terapie, sono stato informato che il giorno seguente avrebbero operato una tracheotomia per la rianimazione a oltranza. Allora ho detto che mia figlia avrebbe rifiutato quelle cure, che considerava l'essere lasciata morire la cosa più naturale del mondo - e mi sono sentito trattare come un bambino dell'asilo. Ora quel bambino non c'è più, c'è stata una lunga vicenda umana, giudiziaria, medica, anche politica e religiosa, e nessuno può più trattare un padre come un bambino [...].
Devo quindi tornare a quelle notti del gennaio del 1992, quando il mondo era crollato addosso a noi genitori, quando nostra figlia, confinata in un letto dove mai avrebbe dovuto stare, era l'unica bussola possibile per trovare la rotta. Mia moglie Sati ha dato tutta se stessa per la figlia, come faceva prima dell'incidente. Madre e figlia sono inscindibili, sono un binomio, carne della stessa carne. Da un marito puoi scioglierti, da una figlia no, credo che ogni adulto lo sappia. La madre era eccezionale, perché non c'era sempre il padre, io per lavoro giravo parecchio, era lei che si caricava sulle spalle anche il padre, parlava, spiegava e discuteva…
Eluana quel gennaio era rimasta a casa, io e Sati eravamo andati a Sesto, in Val Pusteria, per una settimana bianca. Sono le 22,30 e ci scambiamo una telefonata, sappiamo che Eluana stava per andare a dormire, ci salutiamo, spegniamo la luce anche noi, senza nemmeno immaginare che gli amici invece la invitano fuori, in uno dei pochi locali della zona. Nostra figlia ci va e, quando torna a casa - lei sulla mia auto, un amico dietro che la seguiva - slitta sull'asfalto ghiacciato. Fa un testacoda e si schianta tra un palo e un muro. Sono le 3 e mezzo. L'amico, che la segue, dà l'allarme immediato, ma si capisce presto che è messa molto male. Poche ore dopo, vengo avvisato da mio fratello. E con mia moglie partiamo subito per l'ospedale di Lecco, dove mi dicono che Eluana è gravissima, la tac mostra micidiali lesioni al cervello, si capisce che non ce la farà.
E anche se il nostro mondo, come dicevo, ci crolla addosso in quel preciso istante, la famiglia è rimasta unita. Quante volte mi sono sentito dire da medici, da parenti, da amici: «Eluana, lo sappiamo, è messa com'è messa, ma tu come fai a non vivere? Vuoi buttare via la tua vita?». Cioè, l'idea di chi mi conosceva poco o nulla era che potevo mettere una certa distanza tra me e mia moglie e mia figlia. Per Eluana ci sono le cure, c'è qualche cosa, in ogni modo lasciamo lei in quel letto così noi possiamo pensare ad altro, pensiamo, appunto, a vivere. Ma quello è vivere? Dimmi se è vivere sapere che tua figlia sta prigioniera in un letto, che viene non accudita, ma maneggiata, che non è padrona di alcuna azione, ma può solo subire le cure, che non deglutisce, ma viene nutrita con un tubo. Come fai a vivere, dimmelo? Per me è barcamenarsi, è sopravvivere, è tirare a campare. Vivere è un'altra cosa, credo. E se sto ancora qui a ragionare e ad arrovellarmi, è perché so che quello in cui ci avevano costretto a entrare i medici era il mondo che non volevamo, e che dovevamo lasciare quanto prima. Per tornare nel nostro mondo, in quello che rimaneva: ma un mondo [...].
La sua morte sarebbe dovuta avvenire quella notte stessa, quando la strada le è impazzita davanti. Invece questo addio alla vita, tragico ma umano, feroce eppure comprensibile perché nel nostro dna e nelle nostre esperienze l'ala della morte è ben conosciuta, viene interrotto dalla medicina che non medica e dalla rianimazione che rianima a metà. E bisognava che quel cammino riprendesse, che Eluana ci salutasse e andasse dove il destino ha voluto. Ecco perché alla fine ho questo «master di vita estrema», perché noi Englaro ci siamo misurati con la morte. Tutti noi sappiamo che la morte fa parte della vita, ma quando ti ci misuri è tremendo: è definitivo.
Ma peggio della morte è la violenza. La violenza che subisci un po' ti disumanizza. Sei come sotto anestetico. L'impatto della morte è forte, ma poi finisce. Quando vedi tua figlia obbligata alle cure che mai avrebbe voluto, e tante volte ne avevamo parlato in famiglia, la senti violentata. E assieme a lei, siamo stati violentati noi genitori. Mi incoraggiavo a resistere pensando agli internati dei campi di concentramento. Se sono stati capaci loro di sopportare le azioni indegne degli esseri umani, forse ci riuscirò anch'io. Devo andare avanti, in questa disumanità mascherata da umanità, in questa medicina che non cura, ma sfascia le vite, in questo amore che non è amore, perché alle mani migliori che Eluana potesse avere in quel periodo e in quelle case di cura, e sono quelle di suor Rosangela, ho sempre preferito le braccia naturali della morte.
La maschera pacificatrice della morte è una maschera. Quando a Udine sono corso a vedere Eluana, mia figlia ormai senza più battito e respiro, uscita dalla clinica e portata all'ospedale, sapendo tutto quello che era successo, rivedendo in pochi attimi una sequenza inenarrabile durata diciassette anni, ho pensato che anche la sua morte era ridotta a una maschera, maledizione. Non sarebbe stata una maschera il 18 gennaio del 1992, sarebbe stato atroce, ma, ripeto, umano. A quanti poveri papà e mamma succede di restare orfani dei figli. Invece con Eluana è stato diverso. Hai strappato un corpo alla morte, ma ne risono rimasti brandelli. Hai creato la morte a brandelli. Hai dato a mia figlia un sogno artificiale di una vita artificiale. Ho intuito sin da subito in che viaggio aspro e fasullo, fatto non per l'uomo - ma per il medico, per la legge, per gli oltranzisti della religione che guardano molto in alto e si dimenticano troppo spesso della «finitezza» dell'esistenza - ci stai infilando [...].
Nel gennaio del 1994 ci dettero la prognosi-diagnosi del «non ritorno». Ci dissero: «Non ci sono più risposte né soluzioni». E adesso, che cosa posso fare? Chi è per la medicina la mia unica figlia? «È una non morta encefalica, non ci sono soluzioni e non ho risposte», mi spiega ancora il professor Massei. Morto è il contrario di vivo. «Non morto» è il contrario di che cosa? Ma non siete voi che avete creato questa situazione? «Noi facciamo di tutto, poi se va male, ed è andata male, che possiamo fare di più oltre quello che abbiamo fatto? Fattene una ragione». Ma non c'è una ragione. Non c'è per noi genitori. I genitori come noi non capiscono. E nemmeno nostra figlia capiva questi discorsi. Noi abbiamo accettato lei per quello che era, il purosangue, il cristallo, e adesso era diventata, come dicono loro, una non morta, e, quindi, come possiamo dire noi, una non viva. Si era chiuso il ciclo delle terapie riabilitative all'ospedale di Sondrio, dovevamo cercarci un altro posto. È finita dunque la riabilitazione che non riabilita. E allora che fai? Sì, c'era l'alternativa che suggeriscono a tanti genitori sfortunati e, spesso, spossati, esauriti da dolore, fatica, angoscia, genitori lasciati soli di fronte a se stessi. «Portatela a casa e lì…». E là, a casa, nel segreto, nel buio, nel silenzio, puoi fare ciò che vuoi, caro genitore. Curarla o lasciarla andare. Accudirla oppure no. Aspettare o favorire la fine. Ti lasciano questa possibilità. Sono generosi, sono umani, pietosi a dirti questo… E invece noi genitori abbiamo detto no [...]. «Mi avete fatto entrare voi in questo meccanismo, come ne usciamo?». Se non lo fai clinicamente, e hai visto quello che ci è costato, come lo fai? Arbitrariamente? I protocolli per una morte che cala alla fine dello stato vegetativo non ci sono. Li abbiamo dovuti creare noi Englaro, con i professori Carlo Alberto Defanti, Giandomenico Borasio e il primario di Udine Amato De Monte, dicendo grazie agli infermieri di Udine e alla casa di cura «La quiete». Ma immaginiamo che cosa accade se uno se la porta a casa. Devi cercare una complicità di medici e infermieri, devi cercare un'umanità che è ipocrisia, e devi fare i conti con la coscienza, se ce l'hai. Chi dà l'autorizzazione a un genitore di fare questo? Che senso ha per un medico dire che agisce in scienza e coscienza e codice deontologico se poi tu medico non dai una risposta alla situazione e dici: «Portatela a casa, aumm aumm»?
Mi spiego meglio. Ti dicono che tua figlia è un non morto encefalico e poi ti fanno i loro migliori saluti: questa che cos'è? È medicina, è umanità, è rispetto della vita e della speranza, o è una presa in giro? È come quell'incitamento a vivere, il suggerimento al «bisogna saper vivere». Significa chiudere il mondo fuori della porta di casa per fare quello che ti sembra giusto fare in solitudine. Tu medico mi crei le difficoltà per uscire da un «qualche cosa» che non esiste in natura, che hai voluto e creato tu, sostituendoti a dio nella vita e nella morte e poi, come se fossi dio, che mi dici? «Fai i conti con te stesso, io me ne sto nel paradiso della scienza medica» [...].
Ormai uno, in Italia, non può dire di non sapere, ormai l'esperienza c'è stata e funziona per tutti. C'è chi dice per me c'è Dio, non voglio staccare niente. C'è chi dice per me no. Ma il tema non è confessionale, non è scientifico, è di identità: io essere umano, che credo in Dio o nella materialità più pura, ho il diritto di dire no alle cure che non voglio o vuoi farmi vivere come un forzato? Per me la risposta è semplice, ma proprio nei giorni in cui Eluana moriva il discorso è diventato politico e partitico - e mai l'avrei immaginato - perché scattano altri meccanismi. Per esempio, quando Eluana a dicembre sta per essere trasferita nella casa di cura Città di Udine, che aveva accettato il ricovero e i protocolli della fine vita, viene emessa la direttiva del ministero del Welfare che blocca il trasferimento. Lo stesso ministro parla di «conseguenze inimmaginabili» se verranno adottati questi protocolli medici per dare seguito alla sentenza. E per me, che un politico si scateni in una mossa del genere è cosa da trasecolare [...].
Mistificano ancora oggi, parlano di eutanasia. Ma che c'entra? «Meno di chiedere niente, che cosa c'è?», quante volte ho detto questa frase… Ma la morte per fame e sete è una tortura, ribattono. E ancora una volta disinformano la gente, la tengono ignorante apposta. Le bottigliette d'acqua, il pane, che cosa c'entrano? Imbrogliano i semplici. Non sanno queste persone che Eluana non mangiava biscotti, ma una miscela di proteine, carboidrati e vitamine che viene immessa nello stomaco per ore e ore? Quello che volevamo era dire no a questo e, come accadeva ai vecchi della mia terra, ai vecchi di tutte le terre, di poter morire senza bere e senza mangiare, quando sei stanco. Quando la vita sta finendo, quando non ne puoi più, te ne vai e smetti di respirare.
Dire «no grazie» è possibile? Se mi avessero offerto una cura, avrei detto di no. Non ho bisogno di questo.
A un certo punto, questo sciame di voci contrarie e armate del pungiglione della menzogna mascherata da informazione e fede s'era così ingrossato da farmi invocare la presenza del presidente della Repubblica e del presidente del Consiglio accanto al letto di mia figlia: venitela a vedere, vedete con i vostri occhi come sta, giudicate, ascoltate i vostri sensi e le parole dei medici, avvicinatevi al silenzio che la circonda da quando c'è stato l'incidente. Sembrava che Eluana dovesse subire davvero l'ultimo oltraggio, quando c'è stata una corsa contro il tempo per approvare una legge e «obbligarla» a essere alimentata a forza… Non voglio più nemmeno pensarci, no. Ho solo pensato che facendo nascere l'associazione «Per Eluana» si può mantenere la memoria di questa tragedia e farla fruttificare, trasformandola in qualcosa di buono. So che ho dato fastidio a molti perché dall'inizio esigo una risposta concreta. Mi dicevano che non c'erano risposte, ma abbiamo dimostrato che la risposta c'era. Ora, con gli avvocati Campeis e Angiolini, resistiamo agli ultimi colpi di coda e, ci contiamo, restituiremo grazie alla legge qualcuno dei colpi bassi e perversi che abbiamo ricevuto.
Qualcuno mi dice che ho vinto. Mi fa ridere. Ma che cosa ho vinto?