giovedì 16 aprile 2009

l’Unità 16.4.09
Franco Volpi, storico delle idee che non fece sconti a Heidegger
di Bruno Gravagnuolo


Il miracolo non c’è stato. E i medici dell’ospedale di Vicenza hanno dichiarato la sua morte clinica. Franco Volpi, storico della filosofia, se ne è andato. A seguito di un tragico incidente in bicicletta nel giorno di Pasquetta sui colli Berici a due passi da Vicenza, dove era nato nel 1952. Una perdita davvero dolorosa per chi lo ha conosciuto, per gli allievi della sua cattedra di Storia della filosofia a Padova. E anche per i tanti cultori di filosofia e lettori (collaborava a Repubblica) che ne apprezzavano la freschezza intellettuale. La capacità divulgativa e il temperamento vitale e curioso di tutto.
Plotino e Aristotele
Grazie a Volpi, massimo traduttore di Heidegger in Italia di cui curava l’Opus per Adelphi, è stato possibile percorrere tutti gli angoli del filosofo di Messkirch. Guadagnando alla conoscenza rigorosa un pensatore controverso e ambivalente. Verso il quale Volpi non serbava nessun timore reverenziale, e nessuna fascinazione subalterna. Impegnato come era a fornirne, tramite una traduzione impeccabile, un’interpretazione originale. Allievo di Giuseppe Faggin e di Enrico Berti, aveva cominciato sui testi di Plotino e di Aristotele la sua avventura di storico della filosofia, inseparabile dall’ermeneutica e dal tradurre. E anello di congiunzione tra gli esordi e gli interessi della maturità, era stato Brentano. Con la sua psicologia trascendentale intessuta ai temi della temporalità e della «coscienza del tempo». Temi «pre-fenomenologici» e husserliani, che stanno alle origini della formazione di Heidegger. E alle fonti del problema dell’Essere, da Heidegger riversato e risolto in Essere e Tempo, la celebre opera del 1927.
Heidegger (oltre a Nietzsche e Schopenhauer) come fulcro dell’ermeneutica di Volpi, di cui restano come exempla le numerose curatele e i saggi che andava raccogliendo attorno alle sue traduzioni. Essere e tempo appunto, il glossario di Segnavia, la post-fazione al Nietzsche heideggeriano e quelle alla Fenomenologia dela vita religiosa e al Principo di ragione, per citarne alcuni. Ne risultavano schiarimenti fondamentali. Sullo Heidegger «analitico esistenziale» prima della «Svolta», e lo Heidegger del «dopo», che sceglie di far parlare l’Essere sulle rovine della tradizione filosofica e del Moderno. In un costante tentativo da parte del filosofo tedesco di «risignificare» - come diceva Volpi - quella tradizione, liberando la percezione originaria del Sein. Oltre la «deiezione» della Tecnica e del Nichilismo.
Heideggerista
E però Volpi era un «heideggerista» non heideggeriano. Che non faceva sconti al suo autore, che pure amava. E non li faceva sia sul tema della sua compromissione col nazionalsocialismo («Heidegger si illudeva di poterlo plasmare - ci disse nel 2002 su l’Unità - cavalcando la tigre e inserendolo nella sua ontologia... Equivoco di breve durata anche se non s’avvide subito del suo errore...»). Sia sul punto chiave del «superamento» heideggeriano della tecnica. Sul che Volpi affermava: «Era un ontologo che all’operare antepone l’Essere, dove il primo discende inevitabilmente dal secondo. Ma a ben guardare era anche un espressionista, un avanguardista del pensiero. Come Lucio Fontana in arte». E ancora: «Il discorso dell’ultimo Heidegger sull’impianto globalistico della tecnica è suggestivo e però inarticolato. Benché concettualmente coerente» (sempre su l’Unità del 19/4/2002). Ma Volpi non fu solo eccellente storico della filosofia. Fu giramondo e visitig professor tra due continenti. E con Antonio Gnoli di Repubblica, ci ha regalato splendidi libri insoliti. Eccone alcuni. L’ultimo sciamano, conversazioni su Heidegger (Bompiani), Il dio degli acidi (Bompiani, con l’inventore dell’Lsd Hofmann). E una celebre intervista Adelphi con Juenger del 1997: I prossimi titani. Ben più che briciole, ma vere gemmme a riprova del suo invincibile stupore per la meraviglia delle idee e della vita.

Repubblica 16.4.09
Marco Bellocchio un italiano a Cannes col film su Mussolini
La famiglia segreta del Duce
di Paolo D’Agostini


ROMA. Secondo un´indiscrezione del periodico francese Première sarebbe Marco Bellocchio con il suo film Vincere l´unica presenza italiana al prossimo festival di Cannes, per lo meno nella vetrina principale del concorso. Cadrebbero dunque le ipotesi di Michele Placido e di Giuseppe Tornatore, fino ad ora le più accreditate. Ma magari solo perché le loro opere, rispettivamente Il grande sogno e Baarìa, non sono ancora completate e disponibili.
Ecco che cosa dichiarava Bellocchio, intervistato da noi nel febbraio dell´anno passato per inaugurare - proprio lui, campionissimo con Bernardo Bertolucci (sarebbe stato un altro degli intervistati) del cinema ribelle degli anni 60 - una serie di rivisitazioni del Sessantotto in occasione del quarantennale. Già da tempo impegnato nella nuova avventura di Vincere, dedicata a un risvolto oscuro nella vita privata di Benito Mussolini, cioè l´esistenza di una compagna e di un figlio segreti, portata alla luce da un documentario (di Fabrizio Laurenti e Gianfranco Norelli) e da due libri (di Marco Zeni), così rispondeva alla domanda cosa c´entra con Bellocchio un film su Mussolini?: «A me interessa la donna, Ida Dalser. Ha conosciuto Benito nel ´14 quando è ancora socialista, si dà tutta, vende le sue proprietà per lui, rimane incinta e un mese dopo Benito sposa Rachele. Da quel momento tenterà, ossessiva e instancabile, di affermare le proprie ragioni, scrivendo lettere, ma lo vedrà soltanto nei cinegiornali. Diventando molto scomoda soprattutto nel momento in cui Mussolini si avvicina al Concordato con la Chiesa».
Ma ecco ciò che forma il nucleo vero del suo interesse, lo stimolo a rievocare e fare propria questa storia: «Io la vedo come una ribelle irriducibile, che si è sempre mantenuta lucida e integra e non ha mai accettato la sorte che le fu imposta da Benito, un uomo che scansa tutto ciò che intralcia la corsa al potere e in Rachele - brava ragazza del suo stesso paese, semianalfabeta ma ubbidiente - trova la moglie che gli va bene. Donna molto più evoluta, Ida acquista nel resistere un´intelligenza che alla fine la rende tragicamente vittoriosa, mentre il Duce finirà nella polvere. Lei non cederà mai».
E infine, la sintesi: «Nel momento del massimo consenso intorno a Mussolini lei, che non ha più nulla, che è stata rinchiusa in manicomio senza essere pazza - stesso destino toccato al figlio segreto Albino, ndr - per morire nel ´37, continua a difendere la propria identità nonostante l´abbiano fatta in briciole. Unica tra tutte le amanti del Duce, Ida non accetterà mai il minimo compromesso, compensazioni o regali. Il mio film ne farà un simbolo di opposizione».
Ma era già dall´estate del 2007 che il regista aveva iniziato a rilasciare dichiarazioni sul progetto. E in quell´occasione coniò la seguente, provocatoria ma suggestiva immagine: «Come Berlusconi e Garibaldi, Mussolini è una delle nostre star nazionali che suscitano più interesse». Il compito di incarnare Benito sullo schermo spetta a Filippo Timi. Mentre Ida è Giovanna Mezzogiorno.

Repubblica 16.4.09
La condanna della sinistra
L’accanimento ideologico e i fantasmi del passato
di Aldo Schiavone


Polemiche / Aldo Schiavone replica a un articolo di Ernesto Galli della Loggia sull´Italia "schiava" della memoria
Non è più solo la presa d´atto di una sconfitta che si richiede, ma un suicidio purificatore
Secondo alcuni bisognerebbe sopprimere la sua stessa esistenza

La sinistra italiana ha una colpa, grave e irrimediabile: quella di esistere, e di voler continuare a farlo. Chi vi si riconosce non ha scampo: la sua "appartenenza" - come un implacabile marcatore genetico - lo condanna a non capire, a "figurarsi" una realtà su misura, e peggio ancora a danneggiare il suo Paese, rendendolo prigioniero di un passato che non si riesce mai davvero a "superare".
Non sto esagerando. Questa tesi estrema (posso usare l´aggettivo?), esposta con acuminata lucidità, rappresenta il cuore della lunga recensione che Ernesto Galli della Loggia ha dedicato, sul Corriere di ieri, a un mio piccolo saggio appena uscito da Laterza. Non mi piace replicare a chi critica le cose che scrivo. I libri sanno difendersi da soli, e non hanno bisogno di proteggersi dietro la voce del loro autore. Ma qui si tocca una questione ben più importante delle mie pagine, delle quali ci si serve con eleganza per formulare un enunciato che le oltrepassa di molto, e riguarda direttamente tutti noi, fino a toccare l´immagine stessa che noi ci formiamo della storia d´Italia.
La dannazione della nostra sinistra si trova interamente, per Galli della Loggia, nella genealogia comunista che l´ha segnata. Niente basta a porre rimedio, per lui, a quell´origine: non le revisioni concettuali, di cui pure dà atto; non la memoria di solitarie battaglie (perdute) ancora dentro il Pci, che pure ricorda con onestà. Nulla è sufficiente. Se vogliamo che il l´Italia si rimetta in cammino, che la sua eterna "transizione" si concluda, non c´è che una cosa da fare: riconoscere che la sinistra continua a dirsi tale soltanto "suo malgrado", e che quindi non c´è niente da suggerire, se non di cancellare il suo punto di vista, sopprimere la sua stessa esistenza, e farla diventare qualcosa di inimmaginabile, ridurla a una prospettiva aliena che non si riesce nemmeno a nominare.
Non è la presa d´atto di una sconfitta, che si richiede - dio sa se non l´abbiamo ammessa - ma qualcosa di ben più radicale: un suicidio purificatore, una specie di sterminio ideale, senza nessuna speranza di resurrezione. E gli altri, e tutto il resto della scena politica di questo Paese? L´insostenibile unilateralità della tesi appare nuda nella stringente ovvietà della domanda che rende inevitabile. Ebbene, restino pure al loro posto, con i loro pensieri: Galli della Loggia non vi dedica una parola. Certo, anch´essi hanno la loro parte nel "grigio" che ci circonda, ma almeno non hanno mai avuto nulla a che fare con il comunismo.
Vi è molto metodo in questo freddo e implacabile furore - uno sguardo che non si accontenta delle superfici, e sa dove posarsi, per andare a fondo. Ma - Galli della Loggia mi perdonerà - c´è anche molto di stantio, di consunto, di veleni scaduti che non fanno più male. Nell´orizzonte della sinistra italiana il comunismo è scomparso da tempo - anche se scomparso malamente, e non come avremmo voluto. La sua presenza ha smesso definitivamente di pesare. E´ solo l´accanimento ideologico degli avversari, che ne agita il fantasma: Berlusconi sa bene di cosa stiamo parlando. Il problema è che ancora non vediamo come sostituirlo, anche se cominciamo a farcene qualche idea - e la crisi ci aiuterà a capire più velocemente, perché queste catastrofi agiscono come impareggiabili lenti sociali, e hanno sempre uno straordinario effetto di moltiplicazione della conoscenza.
Due in particolare sono le critiche che Galli della Loggia mi muove, tra loro strettamente legate: sul ruolo del Pci nella Prima repubblica, di cui avrei taciuto limiti e responsabilità, e sul carattere della società italiana conquistata dal "berlusconismo", rispetto alle cui degenerazioni, di nuovo, non sarei capace di valutare i coinvolgimenti della sinistra.
Ebbene, in entrambi i casi a me pare che la questione storica e politica non sia quella di "giudicare" queste "colpe" (vi è una singolare deriva "giudiziaria" nelle interpretazioni messe qui in campo da Galli della Loggia; egli assolve o condanna, piuttosto che interpretare: un atteggiamento singolare per chi sa benissimo - da par suo - che non è questo l´ufficio dello storico. Sono solo le trappole dell´incattivimento ideologico). E´ evidente che queste connessioni vi sono state, e spesso non di poco conto. Come è evidente che non è stato il "berlusconismo" a trasformare la società italiana, già cambiata sotto la pressione di ben altre forze, e che all´inizio degli anni Novanta era già pronta ad accogliere il suo nuovo leader.
Ma non è questo il punto. Si tratta piuttosto di capire perché la prima Repubblica non sia riuscita a produrre che un sistema politico bloccato - causa di molti nostri disastri - che ha avuto bisogno di una spinta esterna di inaudita potenza (il crollo dell´impero sovietico) per rimettersi in movimento, e perché il cambiamento che si stava finalmente producendo abbia assunto subito i tratti di una autentica "crisi di regime", in cui si sommavano transizione politica postdemocristiana e mutamento sociale postindustriale, e come tutto questo abbia creato un enorme spazio vuoto, nel quale si è precipitato Silvio Berlusconi, con tutti gli apparati mediatici di cui disponeva. Il Pci non è stato figlio della nostra cattiva cultura politica. Esso è nato - come la Dc, e come tutto il vecchio sistema dei partiti - dal centro fratturato della terribile prima parte del Novecento italiano: dalle sue lacerazioni e dai suoi conflitti irrisolti. Berlusconi stesso è ancora figlio di quella storia, di quello che ho chiamato "l´eccezionalismo" del ventesimo secolo. Ma è una vicenda che si sta chiudendo: e non c´è terremoto che possa riaprirla. Si volta pagina: e chi ha più filo tesserà (come si diceva una volta, dalle mie parti).

Corriere della Sera 16.4.09
Quell’Italia ancora schiava del Passato
Il peso del passato e l’identità incerta della sinistra d’oggi
di Ernesto Galli della Loggia


Discussioni Un saggio di Aldo Schiavone sull’interminabile transizione rivela anche un’incapacità culturale e politica di fare autocritica

Responsabilità negate
Anche i progressisti hanno contribuito al clientelismo e alla lottizzazione, al dilagante permissivismo scolastico e all’evasione fiscale generalizzata

Uno sguardo verso il futuro
S’intitola L’Italia contesa. Sfide politiche ed egemonia culturale il nuovo saggio di Aldo Schiavone (Laterza, pagine 100, e 14): il suo scopo è cercare di comprendere come si assesterà il sistema politico italiano dopo il periodo dominato dalla presenza di Silvio Berlusconi, una fase che l’autore giudica ormai in via di esaurimento.
Studioso di diritto romano, Schiavone dirige attualmente l’Istituto di scienze umane (Sum). Ai temi della rivoluzione biotecnologica ha dedicato nel 2007 il saggio Storia e destino (Einaudi).

Perché tanto il Pdl che il Pd appaiono organismi tuttora fragili e dall’incerto destino?
Perché la transizione italiana ancora non accenna a finire? Perché non siamo ancora riusciti a dar vita a culture e forze politiche che appaiano realmente nuove e vitali?
Vorrei provare a dare una risposta diversa da quelle che si danno di solito, una risposta che guarda al passato. La mia ipotesi è che non riusciamo a fondare nulla di nuovo perché non riusciamo a superare il passato.
E non riusciamo a superarlo, vi siamo incon­sapevolmente inchiodati, perché non siamo d’accordo su come sono andate le cose. La se­conda Repubblica non può nascere perché an­cora siamo divisi sia su che cosa è stata e per­ché è finita la prima, sia su che cosa è l’Italia che essa ci ha lasciato.
Questo disaccordo di fondo l’ho sentito in tutta la sua forza leggendo l’ultimo libro di Al­do Schiavone. Il libro cioè di uno storico di va­glia che come pochi contribuisce da anni in modo originale al discorso pubblico del Paese, e che con questa sua ultima fatica — L’Italia contesa (Laterza editore) — procede ad una ri­cognizione del presente italiano e dei suoi tra­scorsi. Ma lo fa — e questo è il punto decisivo — sforzandosi di essere comunque fedele ad un’appartenenza, intenzionato a non troncar­ne il filo che corre attraverso gli anni. E dun­que non riuscendo a vedere le cose da una di­stanza sufficiente a pensarle con la necessaria dose di spregiudicata esattezza.
È, questa, una condizione che oggi riguarda in particolare tanti italiani che sono stati comu­nisti durante la prima Repubblica. Che lo sono stati molto spesso in modo intelligente e per nulla dogmatico — com’è appunto il caso di Schiavone, estromesso a suo tempo dalla dire­zione dell’Istituto Gramsci; che si sono allonta­nati del tutto da quel panorama ideologico, ma che, soprattutto a causa dell’avvento di una destra come quella incarnata da Berlusconi, si sentono nonostante tutto obbligati a dirsi, e a pensarsi, ancora «di sinistra». Quasi per forza d’inerzia, ma comunque abbastanza da essere spinti a figurarsi la realtà italiana presente e passata in modo da non disturbare troppo il loro precario accomodamento di oggi, anziché per ciò che essa è stata ed è realmente. Si tratta di un fenomeno importante ai fini del supera­mento del passato dal momento che finché le energie intellettuali e morali rappresentate da questa sinistra che fu, da questa sorta di pen­siero prigioniero di se stesso, non si sblocche­ranno, non avranno il coraggio di liberarsi per intero dei vincoli della loro vecchia apparte­nenza, fino ad allora la chiusura dei conti con il passato italiano non si potrà fare, il discorso politico non potrà ripartire, e dunque restere­mo quello che siamo: un Paese fermo.
Il libro di Schiavone consente di vedere in modo nettissimo i due principali travisamenti storici (tali secondo chi scrive, beninteso) su cui è rimasto incagliato il punto di vista della sinistra che fu e che oggi mi pare piuttosto una «sinistra suo malgrado». Travisamenti che hanno una duplice funzione: da un lato quella di sollevare la sinistra (o per meglio dire il Partito comunista) dalla piena responsabilità della patologia politico-sociale che finì per di­struggere la prima Repubblica; dall’altro servo­no a dipingere un panorama dell’Italia attuale tutto sommato ottimistico perché diviso sì tra «buoni» e «cattivi», ma con questi ultimi e il loro capo, Silvio Berlusconi, che sarebbero or­mai vicini alla fine del loro predominio.
Innanzitutto il ruolo del Pci, dunque. Schia­vone non vede, a mio giudizio, fino a che pun­to il «congelamento politico» del Paese dal ’48 in poi, la sua «sovranità limitata», la mancanza di alternanza, la memoria antifascista come unica matrice possibile dell’identità democrati­ca, fino a che punto ognuno di questi caratteri negativi, che egli per primo richiama con for­za, sia da ricondurre direttamente e per intero a null’altro che alla presenza nel sistema politi­co italiano del Partito comunista. A proposito del quale egli non esita ad adoperare ancora l’indulgente categoria del «ritardo», categoria tipica dell’armamentario concettuale del dibat­tito comunista dell’epoca. Ma altro che di «ri­tardo » si è trattato! Ormai dovrebbe essere evi­dente che fu la stessa natura più intima, il ca­rattere e la storia profonda di quell’organismo politico, che ne fecero un ostacolo formidabile per lo sviluppo democratico del Paese: non qualche casuale arresto, qualche fortuito in­ciampo (e che poi anche in quel partito ci fos­se qualcosa o magari parecchio di buono, è ov­vio: nella storia la negatività assoluta è rarissi­ma). Fu la presenza del Pci, e dunque l’assenza di un’opposizione costituzionale e il clima di divisività ideologica che ne derivarono, l’ele­mento decisivo che fece dell’Italia una demo­crazia diversa (nel male) da tutte le altre del­l’Occidente. Quando avvenne il crollo della coa­lizione di governo nel 1992-93 in seguito alle inchieste di «Mani pulite» fu per l’appunto questa anomalia assoluta del nostro sistema politico che impedì l’altrimenti ovvio passag­gio di mano all’opposizione, determinando in­vece il collasso di tutto il sistema e il suo pas­saggio alla fragile novità in cui viviamo. Come si fa ancora oggi a non porre tale questione al centro dell’analisi?
L’altro punto di disaccordo riguarda l’Italia post-Mani pulite, che Schiavone considera con­quistata all’egemonia populista di Berlusconi, egemonia che ora però sarebbe ormai giunta al capolinea grazie alla crisi economica mon­diale.
Colpisce come solo a questo esaurimento, per così dire nei fatti, siano affidate in sostanza le possibilità di riscossa della sinistra, circa la cui futura azione politica e le relative risorse necessarie il libro non riesce a darci però la minima indicazione concreta.
La realtà è che in queste pagine il berlusconi­smo appare molto spesso un alibi per non ve­dere che cosa è oggi (ma non da oggi) la socie­tà italiana. La quale, forse, più che farsi «berlu­sconizzare » dalle magiche arti del premier, è stata lei, io credo, a scegliere Berlusconi per es­sere ciò che voleva essere. Ciò che voleva conti­nuare ad essere dopo la grande trasformazio­ne antropologico-culturale degli anni Settanta e Ottanta. Ma ancora una volta, per evitare che la sinistra possa incorrere in una ulteriore, sgradevole, chiamata in correità e perdere così anche la sua presunta natura alternativa alla de­stra, Schiavone non vuol vedere — e infatti non cita neppure una volta — la parte attiva anche da essa avuta (o meglio avuta dai suoi immediati antenati, il Pci e la Dc dei «cattolici democratici») nel produrre la non entusia­smante realtà sociale italiana di oggi. Così co­me neppure un cenno viene fatto agli effetti deleteri che pure sul popolo di sinistra hanno avuto, dagli anni Settanta in poi, mutandone radicalmente il profilo morale e culturale, le politiche di conquista del consenso sia a livel­lo locale che nazionale, la sindacalizzazione dell’impiego pubblico, la degenerazione della giustizia, il permissivismo scolastico, l’evasio­ne fiscale assolutamente generalizzata, la lottiz­zazione e l’antimeritocrazia dappertutto, il mo­ralismo dipietrista, la divulgazione di tutte le più idiote mitologie modernistico-massmedia­tiche, le «notti bianche», i premi Grinzane-Ca­vour, i «vaffa day» e così via, così via. Ma in questo modo svanisce di fatto l’Italia vera e pro­fonda. Un’Italia che oggi può essere definita «contesa» solo guardandone la superficie, dal momento che in essa, in realtà, destra e sini­stra appaiono avvinte (non da oggi!) l’una all’al­tra: un grigio Paese che una spenta politica, sia di destra che di sinistra, non ha la minima idea di come fare uscire dal vicolo cieco in cui si è cacciato.

il Riformista 16.4.09
Il referendum arebbe l'eutanasia della sinistra
di Stefano Passigli


Caro direttore, rinviato di un anno a causa delle elezioni anticipate, il referendum Segni-Guzzetta torna di attualità risvegliando nella maggioranza tensioni che si credevano sopite. I referendari chiedono di andare al voto il 7 giugno unitamente alle elezioni europee e al primo turno delle amministrative.
Scopo dichiarato è quello di risparmiare una cifra che i referendari indicano in 400 milioni e il ministro Maroni in 173. Scopo reale quello di avvalersi della concomitanza delle elezioni per raggiungere il quorum della metà più uno degli elettori prescritto dalla legge per la validità dei referendum. Quanto i referendari tacciono, e molti dei commentatori non dicono, è che - proprio per assicurare che la partecipazione sia spontanea e non indotta artificiosamente - il referendum non deve tenersi in coincidenza con altre consultazioni elettorali. Poiché la legge prescrive che i referendum si tengano in una domenica tra il 15 aprile e il 15 giugno, la sola data di giugno che soddisfi ogni precedente e ogni requisito di legge è il 14. Ogni altra data richiederebbe una modifica normativa che, in ragione dei tempi, imporrebbe un ricorso alla decretazione di urgenza. Ma l'obbligo di fissare una data essendo noto da oltre un anno, è indubbio che non ricorrano le condizioni di "necessità e urgenza" prescritte dalla Costituzione. L'adozione di un decreto legge in materia elettorale potrebbe così giustificarsi solo in presenza di un generale consenso tra le forze politiche che garantendone una pronta ratifica sanasse l'avvenuta forzatura della legittimità costituzionale, consenso - che stando agli ultimi annunci - è forse possibile sulla data del 21 ma non certo su quella del 7 giugno.
Si aggiunga che l'abbinamento del referendum con le elezioni non è un fatto tecnico di scarso rilievo, ma un intervento politico di grande portata che, favorendo il successo del referendum, modificherebbe profondamente la natura del nostro sistema politico. Il referendum non porta risposta ad uno dei principali difetti dell'attuale legge elettorale: contrariamente a quanto affermano i referendari, mantenendo le liste bloccate, la vittoria del "si" non ridarebbe ai cittadini il diritto di scegliere i propri rappresentanti, conservando alle segreterie dei partiti il potere di nominarli a proprio piacimento. Ma a questa mancata modifica, il referendum aggiungerebbe un'innovazione ancor più nefasta: la nascita di "partiti-coalizione" profondamente disomogenei, ove i precedenti partiti sopravviverebbero sotto forma di correnti organizzate. Anziché avere una frammentazione limitata dal ricorso a soglie di sbarramento, avremmo una proliferazione incontrollata di gruppi vecchi e nuovi, uniti al solo scopo di conseguire il premio di maggioranza, ma privi di una comune identità. Le difficoltà che già oggi si avvertono nel Pd e nel PdL ne uscirebbero ingigantite. Né questo sarebbe il solo male: al posto dell'attuale "multipartitismo moderato" , caratterizzato da 5 partiti al di sopra del 4%, pienamente compatibile con quella "competizione bipolare" che è la vera essenza del bipolarismo, avremmo un bipartitismo indotto forzosamente che paradossalmente finirebbe col negare proprio l'alternarsi al governo di centro-destra e centro-sinistra. L'incipiente e ancor timida democrazia dell'alternanza cui abbiamo assistito negli ultimi anni è stata infatti resa possibile dall'autonomia rispetto al PdL di UdC e Lega, e nel centro-sinistra dalla capacità dell'IdV di intercettare elettori altrimenti orientati verso l'astensione o un voto di protesta radicale. Senza Lega, UdC, e IdV non avremmo una competizione bipolare ma un netto e stabile predominio del centro-destra sul centro-sinistra. Non un sistema competitivo, con un frequente alternarsi di governo e opposizione, ma il progressivo affermarsi di un sistema a partito dominante. Non l'annunciato salvifico bipartitismo, ma una nuova forma di "bipartitismo imperfetto". Ogni qualvolta si è assistito in Italia ad una riduzione della competizione ad un confronto diretto tra destra e sinistra senza la possibile mediazione di forze di centro, la sfida ha infatti premiato la destra. Costretti a scegliere tra destra e sinistra gli elettori del centro moderato hanno sempre scelto a destra: nel 1924, nel 1948, e nuovamente oggi con Berlusconi. In altre parole, una sinistra riformista può vincere e governare in Italia solo rinunciando ad ogni pretesa di autosufficienza e solo se sostenuta da autonome forze di centro. Adottare con il referendum un sistema elettorale che, distruggendo il centro e ogni spazio di autonomia per i partiti non allineati, favorisse strutturalmente la destra sarebbe per il centro-sinistra e per i suoi elettori una vera e propria forma di eutanasia politica. A ciò si aggiunga che attribuendo il 55% dei seggi alla lista più votata il referendum può porre alla portata del partito dominante persino la modifica della Costituzione con 2/3 dei voti e senza possibilità di referendum confermativo. Una ragione in più per evitare l'election day, e non ricorrere ad un decreto che oltre a porre seri problemi di legittimità costituzionale rappresenterebbe un grave rischio per la democrazia dell'alternanza.

il Riformista 16.4.09
Bottegone, altro che Loft
intervista a Emanuele Macaluso di Fabrizio d'Esposito


Una sinistra sobria e operosa. Emanuele Macaluso ricorda trent'anni di lavoro nel palazzo del Pci. La prima riunione nel 1947, con Di Vittorio. Poi l'arrivo nel 1962 all'organizzazione con Berlinguer: «Pensavano che avessi dei tempi siciliani, invece andavo in ufficio alle otto di mattina». E per pranzo un panino dal pizzicagnolo: «Avevamo tre regole: rigore, serietà e riservatezza». La commozione del 4 aprile scorso con una compagna di Savona.

Dopo il trasloco, quando ci passo provo angoscia perché rappresenta la crisi di una sinistra che non ha più una casa: la nuova non è mai stata costruita.

In trent'anni, Emanuele Macaluso ha girato quattro piani del palazzone rosso di Botteghe Oscure, al civico cinque. Era il 1962 e Macaluso aveva 38 anni. Arrivò a Roma dalla Sicilia per lavorare con Enrico Berlinguer all'organizzazione del Pci, la potente macchina del Partito. L'organizzazione era al quarto piano. Nel 1966, poi, Macaluso passò alla propaganda, sesto piano. Infine ci furono il terzo, alla commissione agraria, e il secondo, il piano del Compagno Segretario. Una vita a Botteghe Oscure. Da migliorista un po' eretico. Macaluso, parlamentare fino al 1992, è stato anche direttore dell'Unità. Oggi è al timone delle Ragioni del Socialismo, rivista che ha fondato nel 1996, scrive per la Stampa e il Mattino e non ha aderito al Pd. La conversazione inizia con un paio di minuti di ritardo: Macaluso, a mano, sta completando un articolo nel suo ufficio. Niente computer e tanti quotidiani sparsi sulla scrivania.
Nostalgia per il Bottegone?
Quando ci passo, ancora oggi, provo un forte senso di angoscia, più che di nostalgia. Angoscia perché simboleggia la crisi della sinistra dopo il trasloco del Partito a via Nazionale. Il giorno della manifestazione della Cgil, il 4 aprile scorso, però mi sono commosso.
Perché?
Ero proprio lì sotto, che camminavo, quando mi sono sentito chiamare: «Macaluso, Macaluso». Era una compagna di Savona con le figlie. Mi ha salutato e io le ho chiesto: «Che cosa ci fai qui?». Lei mi ha risposto: «Siamo qui per rivedere la nostra casa». Perciò mi sono commosso. Botteghe Oscure ha rappresentato qualcosa di sacrale per tantissimi militanti e quella compagna ancora oggi sentiva il bisogno di renderle omaggio. Quando io arrivai all'organizzazione avevamo un milione e 600mila iscritti.
Era il 1962, il suo battesimo a Botteghe Oscure.
In realtà, la prima volta che ci misi piede fu nel 1947 per una riunione in preparazione del congresso nazionale della Cgil. C'erano Giuseppe Di Vittorio, Luigi Longo, Giuseppe Rossi. Io all'epoca ero al sindacato, in Sicilia.
L'inizio di una lunga marcia di avvicinamento.
Vede, nel Pci c'era la cooptazione, è vero, ma si veniva scelti non in base a una simpatia, una corrente, una fedeltà. I dirigenti subivano un esame severo da parte dei vari organi. Il mio curriculum per entrare in direzione e andare all'organizzazione era questo: avevo guidato la Lega e la Camera del lavoro a Caltanissetta, poi la Cgil siciliana. Infine segretario regionale del Partito. Il nostro lavoro veniva verificato sui risultati ottenuti nell'attività di base.
Una sinistra sobria e operosa.
Quando fui nominato all'organizzazione qualcuno era scettico. Pensava che da siciliano avessi tempi meridionali. Io invece entravo in ufficio tutte le mattine alle otto e mezzo e all'ora di pranzo facevo solo una breve pausa. Andavo dal pizzicagnolo giù, mangiavo un panino e poi il caffè al bar di Vezio. E quando si riprendeva, la sera non c'erano orari, dipendeva dalle riunioni.
Un ritmo estenuante.
Il centralismo democratico ha garantito sempre una forte dialettica interna. La direzione si riuniva al secondo piano ed era composta da ventuno persone. Si iniziava la mattina e si finiva a notte inoltrata, con un breve intermezzo. I comitati centrali duravano due, tre giorni. C'erano settanta interventi e i resoconti venivano pubblicati dall'Unità. La discussione era reale, vera e quando ci si divideva valevano tre regole: rigore, serietà e riservatezza.
Un esempio?
Ricordo che Togliatti era morto da poco e l'ufficio politico doveva decidere chi votare tra Saragat e Fanfani per la presidenza della Repubblica. Non eravamo più nove, ma otto e spaccati a metà: quattro per Saragat e quattro per Fanfani. Poi si decise per Saragat, ma tutto avvenne con un stile austero, senza parlare con nessuno all'esterno. Oggi, invece, tutti rincorrono i media, le guerre interne sono tutte pubbliche.
Il Pd non le piace proprio, eh?
Io ho sostenuto la svolta di Occhetto ma da allora il Partito, prima Pds, poi Ds infine Pd è sempre rimasto nel limbo. C'è un vuoto che si cerca di coprire con l'alibi della fine delle ideologie e così, ormai, siamo all'ideologia dell'anti-ideologia. Al Pci, però, ricordo che per statuto si aderiva sulla base del programma e non dell'ideologia.
Una difesa riformista del Pci?
Io ho sempre sostenuto il cambiamento ma la verità è che il Pci aveva un intreccio di valori e di idee che ancora non è stato sostituito. Il nuovo non è mai stato elaborato, provocando questo continuo slabbramento della sinistra. Il Pci non è mai stato sostituito da una cosa che sia una. Ed è per tutto questo, come dicevo prima, che provo angoscia quando passo per Botteghe Oscure.
Fino a quando ci è rimasto?
Ho avuto una stanzetta fino al 1992, al secondo piano. L'ho sempre conservata, anche da direttore dell'Unità. E quando lasciai il giornale, nel 1986, tornai con Natta segretario a fare il portavoce del Partito.
E dopo l'arrivo nel 1962?
Nel 1963 presi il posto di Berlinguer, chiamato a coordinare la segreteria, alla guida dell'organizzazione. Poi nel 1966 andai alla commissione propaganda, al sesto piano.
Dove un tempo avevano abitato Togliatti e Nilde Iotti.
Questa è una storia che dimostra l'arretratezza del Partito. C'era una parte consistente dei dirigenti che non voleva che Togliatti si separasse dalla moglie Rita Montagnana. Erano convinti che le masse non avrebbero capito. Togliatti giunse a dire: «Fate una commissione per decidere cosa devo fare».
Quanto rimase alla propaganda, al sesto piano?
Poco, un anno. Nel 1967 tornai in Sicilia a guidare il partito al posto di Pio La Torre. Pensi, che si era dimesso perché aveva perso due punti percentuali alle elezioni regionali. A Roma, però, tornavo tutti i mercoledì e nel 1972 rientrai definitivamente. Stavolta al terzo piano, alla commissione agraria. E lì rimasi quando feci il responsabile del Mezzogiorno. Ho passato una vita dentro Botteghe Oscure.
E oggi prova angoscia quando ci passa.
È un simbolo che parecchi ancora rimpiangono. Mica è il Loft.

Repubblica 16.4.09
Il percorso di "Liberazione"
di Alessandra Longo


I giornalisti di Liberazione tornano alla carica. Dopo la polemica con il direttore Dino Greco sull´opportunità di pubblicare la recensione di un libro su Stalin, ritenuta un tentativo di «riabilitazione», le acque non si sono calmate. La risposta seccata di Greco scatena adesso un´altra lettera. «Una lettera che non leggerete mai su Liberazione», scrivono su Internet 26 redattori «profondamente a disagio».
Non sono piaciute la pagina su Stalin ma anche l´ «incertezza» del giornale nel denunciare «i crimini cinesi in Tibet», l´approccio alla questione mediorientale, la «riproposizione di analisi "ideologiche" sulle politiche della destra di governo e sull´evoluzione della coalizione berlusconiana». Dicono i ribelli: «Abbiamo fatto un difficile percorso, non possiamo accettare regressioni politiche e culturali». Attesa controreplica di Greco.

Repubblica 16.4.09
John Stuart Mill e la proprietà dei nostri corpi
risponde Corrado Augias


Caro Augias, una sommessa protesta per la fretta, forse eccessiva, con cui ha riportato alcune mie parole estrapolandole, dunque dandogli un significato più radicale che nella versione originale. Vorrei esprimere anche qualche dubbio sulla frase di Stuart Mill con cui lei ha creduto di mettermi a tacere. Il modo in cui lei cita il grande pensatore inglese - "ipse dixit! come si permette di contraddirlo?" somiglia molto al modo (giustamente ridicolizzato dal nostro Manzoni) di citare Aristotele, fuori dal suo contesto. Mill si riferiva a quelle che erano le libertà in discussione al suo tempo: libertà di pensiero e di vita, libertà politiche e civili, in particolare la libertà che bisognava garantire ad ogni essere umano purtroppo non garantita neppure oggi nel mondo. L'esistenza di un supposto diritto ad avere l'assenso dello Stato al coinvolgimento di un'altra persona nella propria morte è un'idea recente, essenzialmente motivata dal timore che le scoperte tecnoscientifiche, che tanto sono servite a prolungare l'età media, in alcuni casi possano essere impiegate anche per prolungare una lenta, troppo dolorosa agonia. Problema vero, che però non si può risolvere con un semplicistico: ma sì, ognuno faccia come vuole! E neppure ricorrendo all'autorità di un filosofo dell'800, vissuto in una situazione sociale così diversa dalla nostra.
Lucetta Scaraffia lucerne@iol.it

Su La Stampa del 2 aprile è apparsa tra virgolette questa frase della prof Scaraffia: «La verità è che nessuno è libero, e la vita non è proprietà di cui si può disporre. Ognuno è in una rete di condizionamenti fatta da parenti, amici, stati d'animo, situazione economica, ed è dunque utopia, quella sì ideologia, credere che possiamo essere noi a disporre di noi stessi». In forma più concisa lo stesso concetto appariva in un'intervista su 'Panorama' del gennaio scorso in risposta alla domanda 'Come giudica il testamento biologico?' «Non lo chiamerei testamento perché la vita non è una proprietà di cui l'individuo possa disporre a suo piacimento». Del resto è lo stesso concetto base che informa il ddl Calabrò approvato di recente al Senato. La mia opinione è che negare ad un individuo la disponibilità piena della propria esistenza è delittuoso e assurdo. Di che altro dovremmo essere considerati proprietari se nemmeno della nostra carcassa possiamo disporre? Quanto a Mill, ogni pensatore elabora certo attraverso il filtro del suo tempo e della sua vita. Scrivendo però che: «per l'aspetto che riguarda soltanto lui, la sua indipendenza è, di diritto, assoluta. Su se stesso, sulla sua mente e sul suo corpo, l'individuo è sovrano», il filosofo fondava uno dei canoni del liberalismo progressivamente affermatisi nel mondo civile. Infatti oggi contestati solo in questa povera Italia.

Corriere della Sera 16.4.09
«Ma tra noi distanze siderali»
Il laico Manconi pro Binetti: il Pd non può farne a meno
di Francesca Basso


MILANO — «Mi batto perché la Binetti possa esprimere il proprio pensiero, che nel Pd è di assoluta minoranza. Non perché lei rimanga se la sua volontà è di andare altrove, persino in un partito di profonda ispirazione pagana come il Pdl». Chiarito l’arcano. Il laico Luigi Manconi ha dedicato un capitolo del suo ultimo libro Un’anima per il Pd. La sinistra e le passioni tristi — che oggi presenta a Roma con Dario Franceschini — alla collega teodem, spiegando che non può «vivere senza Paola Binetti e che il Pd non può vivere senza Paola Binetti», benché su tutte le questioni di bioetica abbiano «posizioni sideralmente lontane». Nessuna difesa a oltranza o tattica politica, solo la rivendicazione del «diritto delle minoranze». Perché per l’ex sottosegretario alla Giustizia nel Prodi II, docente di Sociologia dei fenomeni politici, il punto sta tutto lì: «Non si deve fare l’errore di ritenere che le posizioni della Binetti siano quelle dei cattolici italiani. All’interno della Chiesa cattolica i pensatori più acuti e autorevoli, da Possenti a Reale, da Vito Mancuso a Roberta De Monticelli, hanno offerto i contributi più illuminanti sulla questione dell’autodeterminazione e della libertà individuale». «Per questo — continua Manconi — è un errore identificarsi con la posizione della Binetti. Resta chiaro che anche sulle questioni di bioetica si vota e si decide a maggioranza». E chi ha deciso di lasciare il partito, come il poeta Valerio Magrelli, sbaglia perché se «le delusioni sono motivatissime, nel Pd c’è ancora l’opportunità di condurre battaglie».

Corriere della Sera 16.4.09
Bioetica Il gruppo di Milano e il dibattito sul testamento biologico
I dubbi dei medici cattolici: il sondino non sia un obbligo
«Decidere caso per caso sui pazienti in stato vegetativo»
di Simona Ravizza


Il presidente milanese dell’Amci : a volte interventi gravosi per i pazienti. Il vice: prevalga la dignità del malato

MILANO — Medici cattoli­ci, ma fuori dal coro sull’obbli­go di nutrire e idratare artifi­cialmente — sempre e comun­que — i pazienti in stato vege­tativo: «Questi interventi, a volte, non ottengono il fine per cui sono instaurati o sono troppo gravosi per il pazien­te ». Il sondino, insomma, non deve essere un obbligo. È la presa di posizione dell’Asso­ciazione medici cattolici di Mi­lano (Amci), che l’ha messa nero su bianco in un docu­mento presentato ieri all’ospe­dale Policlinico alla presenza del teologo don Antonio Lat­tuada, uomo di fiducia del car­dinale Dionigi Tettamanzi.
Una voce controcorrente, soprattutto nella Lombardia del diktat del governatore Ro­berto Formigoni sul caso di Eluana Englaro: «Il personale che procedesse alla sospensio­ne dell’alimentazione e idrata­zione artificiale verrebbe me­no ai propri obblighi profes­sionali », aveva avvisato lo scorso settembre il direttore generale della Sanità, Carlo Lucchina, quando il padre del­la donna in stato vegetativo da 17 anni cercava un luogo per staccare la spina.
Mentre è al vaglio del Parla­mento il pluricontestato dise­gno di legge Calabrò sul testa­mento biologico (con il divie­to di sospensione della nutri­zione assistita), l’invito dei Medici cattolici di Milano è di non perdere mai di vista le condizioni psico-fisiche dei malati: «Bisogna valutare ca­so per caso», dice il presiden­te Giorgio Lambertenghi Deli­liers. Carlo Vergani, geriatra conosciuto a livello internazio­nale e vicepresidente dell’asso­ciazione milanese, riassume: «Cibo e acqua somministrati artificialmente possono diven­tare accanimento terapeutico. Il prolungamento della vita non deve essere un principio assoluto. Al di sopra di esso prevale la dignità del malato». L’Amci di Milano, tra le più importanti d’Italia, non è nuo­va a tesi destinate a fare discu­tere. Già due anni fa Lamber­tenghi si era espresso a favore del testamento biologico: «È giusto affermare il diritto del paziente a respingere le tera­pie che prolungano la vita arti­ficiale — aveva detto —. La li­bertà di scegliere il proprio de­stino in condizioni terminali non è in contrasto con la dife­sa della sacralità della vita». Di ieri il richiamo alla necessi­tà di «cure proporzionate» al­l’interno di un’alleanza tra me­dico e assistito: «Perché il pa­ziente possa continuare a vive­re con dignità o con dignità sia accompagnato nel proces­so del morire — si legge nel documento che sarà presenta­to anche alla Cei —. Il tutto fuggendo ogni idea di eutana­sia ». A Milano anche Alfredo Anzani, vicepresidente della Federazione europea delle As­sociazioni medici cattolici, che cita un passaggio della Congregazione per la dottrina della Fede dell’agosto 2007: «L’obbligo di somministrare cibo e acqua per vie artificiali c’è nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiun­gere la sua finalità propria».
Sul fronte opposto Medici­na e Persona, l’associazione vi­cina a Comunione e Liberazio­ne: «L’idratazione e l’alimenta­zione fanno parte del prender­si cura del paziente — sostie­ne il neopresidente Marco Bre­gni —. Di qui la necessità di proseguirle. Soprattutto in ca­so di pazienti in stato vegetati­vo ».

Nutrizione artificiale
Consiste nella somministrazione di proteine, carboidrati, lipidi, vitamine e oligoelementi per coprire in parte o del tutto i fabbisogni nutrizionali del paziente Accanimento terapeutico Viene definito, in assenza del consenso informato, dall’impiego di macchinari e farmaci per sostenere artificialmente le funzioni vitali di pazienti affetti da patologie inguaribili. Senza, il malato morirebbe
Eutanasia
È la morte provocata con un un mix di medicinali per porre fine alle sofferenze di un malato inguaribile. In Italia è vietata, in Europa è permessa in Belgio, Olanda e Lussemburgo

Repubblica 16.4.09
Il Salone del Libro di Torino e il boicottaggio per la presenza dell´Egitto
La Fiera si difende e attacca Vattimo


Tra gli ospiti Rushdie e David Grossman invitati insieme a Tariq Ramadan

TORINO Se non è bella la vita dei consoli onorari, come la letteratura insegna, figuriamoci quella dei diplomatici di carriera. Ieri mattina, alla presentazione della prossima edizione della Fiera del Libro di Torino (andrà in scena dal 14 al 18 maggio), già minacciata a un mese dall´apertura dalle contestazioni politiche, è toccato proprio a un console il difficile tentativo di difendere il suo paese. In questo caso si tratta dell´Egitto, finito nel mirino di alcuni gruppi filopalestinesi e della sinistra radicale in quanto ritenuto dittatoriale, negatore della libertà di espressione e complice dell´assedio di Gaza. Si è assunta il compito una signora sorridente, dall´aspetto mite. É Sherine Maher, rappresentante generale a Milano dell´Egitto, che ha detto brevemente in inglese, un po´ imbarazzata: «Non credo che da noi ci sia questo problema. La libertà di parola è garantita ovunque, a tutti».
Non poteva che rispondere in questo modo, visto il suo ruolo ufficiale. E non altrimenti potevano fare Rolando Picchioni ed Ernesto Ferrero, timonieri da dieci anni della kermesse. Hanno difeso la «pluralità della fiera, che non invita i Paesi e le loro politiche interne ed estere, ma le loro culture». E Picchioni, in particolare, se l´è presa con il filosofo Gianni Vattimo, che ha dato semplicemente la sua adesione alla campagna di boicottaggio antiegiziana promossa dall´International Solidarity Movement e dal Forum Palestina. «Non vorremmo - ha sottolineato con forza il presidente della Fondazione per il libro, la musica e la cultura - che tutto ciò fosse un pretesto per attaccare la Fiera del Libro in quanto tale. Perché, in questo caso, anche i futuri Paesi ospiti d´onore (saranno verosimilmente Sudafrica e Argentina, ndr) dovranno passare al vaglio della "personale democrazia" del filosofo e dei suoi accoliti».
Polemiche e «accoliti» a parte, il salone del Lingotto, giunto alla ventiduesima edizione e declinato stavolta nel filo conduttore di «Io, gli altri», si annuncia con un programma ricco e con un gran numero di nomi importanti della cultura, della letteratura, del giornalismo, della scienza. Un elenco di assoluto rispetto che annovera, tra gli altri, da Orhan Pamuk a Salman Rushdie, da David Grossman allo scrittore cinese Yu Hua, da Eugenio Scalfari (che terrà anche una lezione magistrale) a Donald Sassoon, impegnati in un certame che li vedrà dare voce rispettivamente a Nietzsche e a Marx. Mentre Umberto Eco, Jean-Claude Carrière e a Marco Belpoliti, in dialogo tra loro la mattina di giovedì 14 maggio, battezzeranno l´inizio di Librolandia.
Nell´oceano di incontri, dibattiti e personalità, ci sarà posto per tutto e per il contrario di tutto. Se la fiera ospiterà Salman Rushdie, perseguitato dai fanatici musulmani, dedicherà un ampio spazio agli scrittori palestinesi, ricompensati in qualche modo dalla presenza israeliana del 2008. L´invito è stato esteso pure a Tariq Ramadan. Islamista discusso e discutibile, l´anno scorso si era schierato con chi aveva osteggiato la passerella di Israele ospite d´onore al salone di Torino. Nei giorni scorsi Ramadan è stato accusato di «omofobia», a causa di alcune dichiarazioni rilasciate ai giornali olandesi. Ma il nipote del fondatore dei Fratelli Musulmani, che è consulente del comune di Rotterdam, ha saputo smussare i toni, sostenendo che quelle frasi erano state utilizzate «fuori dal loro contesto».

Corriere della Sera 16.4.09
Scuola, escono 42 mila docenti
di Annachiara Sacchi


Mariastella Gelmini: «La riorganizzazione della spesa ci permetterà di avere più risorse per i laboratori, per le strutture, per aumentare il tempo pieno»

La riduzione di personale farà risparmiare allo Stato 1.600 milioni. In pensione 32 mila insegnanti
Nel 2009-2010 il numero degli iscritti aumenterà soprattutto al Nord. Calo di alunni al Sud

I tagli regione per regione: Campania in testa Più richieste di tempo pieno. Il ministero: accolte

I genitori di Retescuole: ricorreremo al Tar. I prof delle medie: «Si riducono anche le ore di italiano». La Cgil: restano a casa trentamila supplenti annuali

Maestro unico, cinque in condotta, antici­po alle elementari, inglese potenziato alle me­die, educazione alla cittadi­nanza, 350 istituti accorpati. Scuola, si cambia. E si taglia. O, se si preferisce, si raziona­lizza. Con una riduzione di 42 mila docenti che farà rispar­miare allo Stato 1.600 milioni di euro nel 2009-2010, 3.200 milioni nel prossimo trien­nio. Meno prof e più studenti (aumentano di circa diecimi­la unità). Ma il ministro Ma­riastella Gelmini assicura: «La riorganizzazione della spesa per la scuola ci consen­tirà di avere più risorse per i laboratori, per le strutture, per aumentare il tempo pie­no ». Presa di posizione. Che non convince i sindacati: «È tutto da vedere».

Le regole
Nessuno lo ha nascosto. «Saranno lacrime e sangue», è stato detto fin dalla firma della legge 133, la Finanziaria varata nell’agosto 2008. E co­sì è stato. Anche per il mon­do della scuola. La circolare ministeriale dello scorso 2 aprile non lascia dubbi: 6 mi­la e cento prof in meno in Campania, 4 mila in Puglia, oltre 5 mila in Sicilia, 2.700 in Calabria, 4.800 in Lombardia. In totale, 37 mila posti ridotti in organico di diritto (e cioè quello definito sulla previsio­ne degli iscritti) e altri 5 mila stipendi rosicchiati in organi­co di fatto (quello «corretto» ogni anno a settembre). E tut­to sommato è andata meglio del previsto: grazie allo slitta­mento della riforma delle su­periori — posticipata al 2010 — il ministero dell’Istruzione ha potuto sottrarre alla scure della legge 133 altri cinquemi­la posti di lavoro. In più, i 32 mila docenti che a settembre andranno in pensione do­vrebbero ridurre gli effetti dei tagli sui supplenti annua­li.
Risparmi, si parte. Del re­sto il ministro Gelmini lo ha sempre detto: «Il 97 per cento della spesa della scuola è de­stinata agli stipendi dei do­centi. Per investire nella quali­tà non ci resta che il 3 per cen­to, laddove altri Paesi Ocse hanno a disposizione il 20. Ebbene, liberando queste ri­sorse noi potremo spendere meglio». La macchina è parti­ta. Il più penalizzato, il Mezzo­giorno. La colpa è da attribui­re al calo delle nascite: «Pur­troppo — dicono i presidi campani — a differenza delle Regioni del Nord, non possia­mo contare sulle iscrizioni dei giovani extracomunitari. Perdendo alunni, perdiamo anche insegnanti».
I due moschettieri
Ammettere che sì, i tagli ci sono. E confermare che però non cambia niente, che l’of­ferta formativa resta intatta e che i genitori devono stare tranquilli. La missione — non semplice — è stata affida­ta a due superesperti del mini­stero, i direttori generali Lu­ciano Chiappetta e Giuseppe Cosentino. I due stanno giran­do l’Italia per incontrare sin­dacati, direttori regionali, ad­detti ai lavori. Armati di pa­zienza, tabelle e quadri orari, riepilogano numeri e proget­ti. Primo: «Le riduzioni di or­ganico non toccano il tempo scuola ma vanno a drenare le ore che i docenti hanno sem­pre impiegato in supplenze e compresenze». Secondo: «Non sono tagli indiscrimina­ti, abbiamo tenuto conto de­gli indici di industrializzazio­ne delle città, delle aree debo­li, di quelle montane, delle piccole isole, delle zone a for­te processo migratorio o con elevati tassi di dispersione».
Il nodo del tempo pieno
Triplo salto mortale. Che di­venta quadruplo quando si tratta di tempo pieno, il nodo di quest’anno. Sparite le com­presenze — «e quindi le fon­damenta del modello didatti­co che il resto d’Europa ci ha sempre invidiato», protesta­no i comitati anti-Gelmini— le direttive ministeriali dico­no così: «Nulla è innovato per quanto riguarda il tempo pieno. Restano pertanto con­fermati l’orario di 40 ore per classe comprensivo del tem­po dedicato alla mensa e l’as­segnazione di due docenti per classe».
Garanzie. E un’offerta varie­gata: quest’anno, per l’iscri­zione alla prima elementare si potevano richiedere 24 ore settimanali, 27, 30 e 40. Venta­glio ampio, scelta univoca: so­lo il 3,8 per cento delle fami­glie ha preferito un orario in­feriore alle trenta ore. Succes­so del tempo pieno. Che a Mi­lano è passato da 91,19 per cento delle richieste al 91,94 per cento. Ma anche nelle Re­gioni del Sud c’è stato un boom (a Palermo si passa dal 2 al 3 per cento). E allora? Co­me si concilia il picco di gradi­mento per l’orario lungo con i tagli? Risposta: eliminate le quattro ore di compresenza (in cui i due insegnanti della classe partecipavano insieme alla didattica), sfruttati «tutti i residui possibili», grattata via la concomitanza tra mae­stro della classe e insegnante di religione o specialista di in­glese, conteggiato solo il «net­to » del lavoro dei docenti, au­mentato il numero di alunni per classe, «i conti tornano». «Al punto che — aggiunge Chiappetta — siamo riusciti a incrementare il numero di sezioni a 40 ore». Per la precisio­ne, spiegano da Roma, le clas­si a tempo pieno saranno 2.500 in più rispetto allo scor­so settembre per un totale di circa 36 mila. Un aumento del 20 per cento. Non succedeva da nove anni.
Curiosità: Milano, capitale del tempo pieno, è anche la provincia che ha la maggior richiesta delle 24 ore. Il moti­vo lo spiegano i dirigenti sco­lastici: «Le famiglie con teno­re di vita elevato preferisco­no organizzare il pomeriggio dei figli con attività a paga­mento ».
Comitati e genitori
Non si fermano le polemi­che sui tagli. I genitori di Rete­scuole minacciano un ricorso al Tar, a Padova e provincia, denunciano i sindacati, salta­no 356 classi a tempo pieno, si moltiplicano mozioni e pe­tizioni, i professori delle me­die («le più penalizzate dalla mannaia, si riducono perfino le ore di italiano») si stanno organizzando in comitati. «Sarà una scuola più pove­ra », denuncia Mimmo Panta­leo, segretario generale della Flc lavoratori della conoscen­za Cgil. «Il Mezzogiorno, che subisce il 40 per cento di ta­gli, è in ginocchio, aumenta il rapporto tra prof e alunni e così il numero di studenti per classe». Ancora: «Ai 42 mila insegnanti tagliati si aggiun­gono 15 mila tecnici. Trenta­mila supplenti annuali saran­no sbattuti fuori dalla scuo­la ». Le richieste della Cgil: am­mortizzatori sociali e l’immis­sione in ruolo di tutto il per­sonale precario. «L’unico filo logico di questo governo è la riduzione dei costi. Non ab­biamo visto nessuna rifor­ma ».
È più ottimista Bruno Iada­resta, responsabile scuola del Moige, il Movimento Italiano Genitori: «Accogliamo positi­vamente le novità introdotte dalla riforma Gelmini. L’op­portunità di scegliere diversi modelli orari è un importan­te aspetto di partecipazione attiva delle famiglie. Bene an­che il maestro unico». Conclu­sione: «Siamo d’accordo con la riduzione degli orari del tempo ordinario, ma sottoli­neiamo la necessità che a que­sta novità venga affiancato un allargamento delle classi a 40 ore, offerta necessaria per rispondere alle esigenze so­ciali delle famiglie d’oggi e al­lo stesso tempo possibile so­luzione di assorbimento de­gli insegnanti che si sono vi­sti tagliare il proprio posto di lavoro».

Repubblica 16.4.09
Alle urne la democrazia più grande della terra tra tensioni economiche e conflitti religiosi
La svolta dell’India con le elezioni
di Federico Rampini


Il maxiscrutinio durerà tre settimane, più altri sette giorni per lo spoglio
Un´occasione per misurare l´opinione pubblica dopo l´inizio della recessione globale

Oltre 700 milioni di elettori, più di due volte l´intera popolazione degli Stati Uniti: da oggi si celebra il rito di massa del voto nella democrazia più grande del mondo. È iniziata la 15esima elezione legislativa generale in India dall´indipendenza del 1947. Come sempre, questo maxi-scrutinio durerà tre settimane, più un´altra settimana per lo spoglio delle schede. I tempi lunghissimi sono comprensibili, per un´operazione le cui dimensioni non hanno eguali al mondo.
Da quando è iniziata la recessione globale, il test indiano è la prima occasione per misurare lo stato dell´opinione pubblica in una superpotenza emergente. Anche il miracolo economico indiano è messo a dura prova. L´anno scorso le prime tensioni sociali furono provocate dall´iperinflazione alimentare. Ora i prezzi sono tornati sotto controllo, ma si è arenato il flusso di investimenti esteri dalle multinazionali che delocalizzavano i call center e la consulenza informatica.
Il verdetto degli elettori è prima di tutto un giudizio sulla maggioranza di governo uscente, guidata dal partito del Congresso che affronta il rinnovamento generazionale: l´anziano premier Manmohan Singh vuole ritirarsi. La leader del partito Sonia Gandhi sta "allenando" il figlio Rahul, di 38 anni, perché assuma il ruolo storico di erede della dinastia familiare che ha guidato il Paese per tre generazioni. Accettando l´investitura del figlio, Sonia ha dovuto superare la paura della "maledizione dinastica": sia la suocera Indira che il marito Rajiv furono assassinati. Per il Congresso lo sfidante più temuto è il partito nazionalista indù Bjp, che ha già governato fino a quattro anni fa, e che cavalca il fondamentalismo religioso alimentato dalla paura del terrorismo islamico. L´avanzata dell´integralismo induista ha fatto breccia perfino all´interno della famiglia Nehru-Gandhi: il 29enne Feroze Varun Gandhi, nipote di Indira e quindi cugino di primo grado di Rahul, è un virulento e imbarazzante candidato nelle liste del Bjp. C´è infine un composito fronte delle sinistre, che include due partiti comunisti e alcune formazioni regionali spesso ben radicate nelle caste inferiori. Né il Congresso né il Bjp sembrano in grado di raggiungere la maggioranza assoluta nel Parlamento federale, quindi dovranno poi manovrare per conquistarsi alleati in una coalizione multipartitica.
La prima preoccupazione durante queste tre settimane di voto è la sicurezza. Fra agenti di polizia e militari, due milioni di uomini armati sono schierati a vigilare sui seggi. È ancora fresco il terribile ricordo dell´"assedio di Mumbai", quando la città-simbolo della modernizzazione e del cosmopolitismo indiano fu tenuta sotto scacco da un commando di terroristi sbarcati dal mare. Ma le zone a rischio non sono solo i potenziali bersagli del terrorismo islamico foraggiato dai servizi segreti del Pakistan o del Bangladesh. Il primo attacco contro un seggio elettorale è già avvenuto nel Bihar, ed è stato rivendicato dai guerriglieri naxaliti di ispirazione maoista, un altro focolaio endemico della lotta armata che non dà tregua al Paese. È prevedibile purtroppo che gli episodi di violenza si ripetano, tuttavia nel passato non hanno mai perturbato seriamente lo svolgimento regolare delle elezioni. Pur con i suoi immensi problemi - le diseguaglianze estreme, la sopravvivenza delle caste, l´oppressione delle donne nelle campagne povere, le tensioni etnico-religiose - l´India resta un modello per la flessibilità della sua democrazia rappresentativa che ha più volte promosso l´alternanza.
Il rallentamento della crescita economica oggi è in cima alle preoccupazioni dell´opinione pubblica. Il vigoroso aumento del Pil, che toccò il record del 9% nel 2007, non è più ripetibile nelle circostanze attuali. Anche il settore di punta del miracolo indiano, l´informatica, ha avuto il suo crac: la bancarotta della Satyam di Bangalore, indagata per falso in bilancio. E tuttavia c´è meno pessimismo a New Delhi che in America o in Europa. L´India ha un vantaggio anche rispetto all´altro gigante asiatico: a differenza della Cina, infatti, non ha costruito un modello di sviluppo trainato prevalentemente dalle esportazioni. La crescita indiana è stata meno dirompente ma più equilibrata, con un ruolo importante dei consumi interni. E oggi si assiste a una sorta di "staffetta" tra i motori della crescita. Proprio mentre perde colpi la Silicon Valley indiana di Bangalore e Hyderabad, legata strettamente alle commesse delle multinazionali estere, sta reggendo meglio la domanda di consumo dell´India rurale. Nei villaggi di campagna, che continuano a ospitare 700 milioni di abitanti, l´impatto della recessione globale arriva attutito, mentre si è innescata una dinamica autonoma di sviluppo. Un ruolo lo ha anche lo Stato, che in India non si è mai veramente ritirato dall´economia. Il modello di "assistenzialismo burocratico" che risale alle idee socialiste di Nehru (padre di Indira e artefice dell´indipendenza) non è mai stato completamente ripudiato, e questa crisi porta a rivalutarlo.

Corriere della Sera 16.4.09
Il cambiamento possibile. Il Paese che più ha beneficiato della globalizzazione potrebbe rispondere in modo sorprendente alla crisi
L’India, il gigante al voto e la tentazione della sinistra
di Bill Emmott


Elezioni al via: spunta un terzo «polo» tra il partito del Congresso e il Bjp

Negli ultimi tempi, si sente spesso dire che la crisi economica rischia di innescare la mar­cia indietro della globalizzazione, riportare in vigore l’interventismo statale, persino segnare una svolta politica a sinistra. Eppure, è difficile trovare esempi di paesi dove ciò stia realmente accadendo. Se Barack Obama viene considera­to di sinistra, allora forse anche l’America lo è. E nel resto del mondo? Non la Gran Bretagna, né la Francia o la Germania, e certamente non l’Italia. Oggi, però, un altro Paese si reca alle urne e il risultato elettorale potrebbe decretare una virata a sinistra, malgrado tutti i benefici sinora ricevuti dalla globalizzazione e dal capi­talismo liberale — per lo meno, in base alle no­stre valutazioni europee. Parliamo della più grande democrazia del pianeta, l’India.
Tutto ciò che attiene alle elezioni politiche indiane è impressionante. Le operazioni di vo­to sono lunghissime — si svolgono nell’arco di circa cinque settimane — e riguardano 543 cir­coscrizioni, 714 milioni di elettori, oltre 800.000 seggi elettorali, protetti da sei milioni di addetti, tra funzionari e forze dell’ordine. Le percentuali dei votanti non sono alte, in con­fronto all’Italia, ma anche un 60 per cento all’in­circa rappresenta un risultato considerevole, se teniamo conto del fatto che oltre un terzo degli adulti indiani è analfabeta. Sono cifre rag­guardevoli, ma la cosa più sorprendente della politica e delle elezioni in questo Paese è un’al­tra: l’incredibile frammentazione politica del­l’India.
Oltre 40 partiti politici avevano seggi nel Par­lamento uscente. La coalizione di governo, gui­data dall’Indian National Congress, uno dei due soli partiti politici su scala nazionale, rac­coglieva dieci partiti, ma contava sul sostegno informale di altri quattro. La precedente coali­zione, che ha governato il paese dal 1998 al 2004, è stata guidata dall’altro partito naziona­le, il Bharatiya Janata Party (Bjp) — partito na­zionalista indù — e combinava anch’esso le for­ze di dieci partiti, ma in diversi momenti era stato appoggiato da un’altra dozzina di schiera­menti.
In confronto a quella indiana, la politica ita­liana — persino sotto la Prima Repubblica — appare banale. Ma gli stessi risultati elettorali, in India, sono tutt’altro che semplici: non si tratta soltanto del numero dei voti e dei seggi conquistati, ma anche delle potenziali alleanze tra i vari partiti.
È qui che entra in gioco la possibilità di una svolta a sinistra, ma per motivi legati alla fram­mentazione, anziché al dibattito politico. L’In­dia, sotto il governo guidato dal Partito del Congresso, ha assistito al periodo di massima crescita economica della sua storia: fino al 2009, il tasso annuale di crescita del Pil ha fatto registrare oltre l’8 per cento. Quest’anno, la cre­scita ha subito un forte rallentamento, per il collasso degli scambi internazionali e la crisi dei mercati finanziari. Gli economisti prevedo­no per l’anno in corso una crescita del 4-5 per cento.
Il governo in carica non sarà considerato re­sponsabile di questa contrazione, perché tutti sanno che ha avuto cause globali. Ma non si è nemmeno guadagnato molta stima per gli ec­cellenti risultati economici finora raggiunti, e il motivo è duplice. Innanzitutto, i contadini in­diani hanno tratto ben pochi vantaggi dal suc­cesso economico del paese, e questo conta mol­to sotto il profilo politico, visto che il 70 per cento della popolazione vive ancora nei villag­gi. Secondo, negli ultimi anni l’inflazione ha danneggiato i poveri, a causa degli aumenti dei prezzi dei carburanti e delle derrate alimentari. La fiammata inflazionistica oggi si è attenuata, ma il ricordo non è stato cancellato.
Nelle ultime elezioni politiche, nel 2004, il governo guidato dal Bjp era dato per vincente, grazie ai buoni risultati economici. Ma la natu­ra frammentaria della politica indiana, associa­ta al malcontento della popolazione rurale, ne ha decretato la sconfitta. Nel 2009, molti anali­sti politici in India prevedono che il Partito del Congresso si assicurerà un numero sufficiente di seggi per formare un nuovo governo, con l’aiuto di Rahul, figlio di Sonia Gandhi, che ha in mano, di fatto, le redini del partito. I fedelis­simi della famiglia Gandhi sperano che Rahul possa occupare la pol­trona di primo mini­stro tra un anno o due, pur avendo anco­ra 38 anni in un Paese dove i premier hanno in genere tra i 70 e gli 80 anni.
Ma gli analisti po­trebbero sbagliarsi di nuovo. Il Bjp potreb­be rivelarsi forte abba­stanza da formare la propria coalizione di governo. In quel caso, i cambiamenti sarebbero assai pochi, dato che il Bjp e il Partito del Congresso concordano fon­damentalmente su politica estera ed economi­ca. Già si annuncia peraltro una terza possibili­tà. I partiti che contano sul sostegno delle ca­ste inferiori della società indiana, vale a dire dei ceti più poveri, negli ultimi tempi si sono rafforzati politicamente. Il maggiore tra questi partiti, basato in uno degli stati più grandi, l’Ut­tar Pradesh, è guidato da una donna, Mayawa­ti. Se i partiti come il suo raccoglieranno un buon numero di voti in queste elezioni, per via dell’insoddisfazione rurale e il brutto ricordo dell’inflazione, potrebbe anche darsi che Ma­yawati riesca a formare una coalizione di gover­no, alleandosi con ogni probabilità con i partiti comunisti indiani.
Al momento, i sondaggi di opinione non puntano affatto in questa direzione, ma nell’In­dia rurale, diffusamente analfabeta e divisa po­liticamente, i sondaggi di opinione si rivelano spesso ingannevoli. Se sarà Mayawati a forma­re il nuovo governo, allora l’India, uno dei gi­ganti emergenti della globalizzazione, potreb­be virare bruscamente a sinistra, rivedendo le riforme economiche e persino ripristinando le barriere commerciali. Questo sì che sarebbe un risultato sorprendente.
(Traduzione di Rita Baldassarre)

Corriere della Sera 16.4.09
Il sultano democratico
Come si corrodono le garanzie costituzionali
di Giovanni Sartori


Esce da Laterza una raccolta di scritti sulle trasformazioni del potere e sul rischio di svuotamento delle istituzioni dall’interno

Dopo le elezioni idilliache volute e pe­santemente perdute da Veltroni, l’idillio è presto finito e la sinistra torna ad accusare Berlusconi di in­tenzioni dittatoriali e anche di essere già un dit­tatore in pectore. Ma «dittatura» non deve esse­re usato a vanvera.
Per lungo tempo il termine è stato inteso nel suo antico significato romano, un significato del quale ci dobbiamo dimenticare. Perché og­gi «dittatura» denota una fattispecie che si è af­fermata tra le due guerre mondiali, che in que­gli anni ha largamente travolto le democrazie parlamentari, che a sua volta è stata travolta dal­la sconfitta bellica del nazi-fascismo e che pur­tuttavia resta viva e vegeta, sotto mentite spo­glie, in giro per il mondo. Visto che molti non lo sanno, importa ricordare che le democrazie dell’Ottocento sono già cadute una prima volta. Agli inizi degli anni Venti il regime sovietico era già dittatoriale e tutti gli Stati comunisti so­no stati tali finché sono durati. Il camuffamen­to fu solo di dichiararli «dittature del proletaria­to »; dizione che Marx usò di rado e a casaccio, per poi essere reclamizzata dal marxismo-leni­nismo. Ma era, ed è, una nozione assurda. Una dittatura collettiva di una intera classe, o anche di un demos nel suo insieme, non ha alcun sen­so. E se qualcuno ricorda, a questo proposito, che i costituenti americani, e poi Tocqueville e John Stuart Mill, usarono la dizione «dittatura della maggioranza», quel qualcuno ricorda ma­le: quei signori non dissero mai dittatura ma ti­rannide, «tirannide della maggioranza».
La precisazione è, allora, che le dittature de­gli anni ’20-40 si gloriavano di essere tali. Abbat­tevano, a loro dire, una democrazia spregevole, una plutocrazia corrotta e un governo imbelle, incapace di assicurare l’ordine e di contrastare il caos rivoluzionario dei «rossi». In quegli anni l’Inghilterra resse e anche la Francia; ma Italia, Germania, Spagna, Portogallo e quasi tutta l’Eu­ropa dell’Est (salvo la Cecoslovacchia) passaro­no sotto il tallone di dittatori o di monarchi-dit­tatori. Il punto è che in quegli anni le dittature si consideravano regimi legittimi che «supera­vano » le democrazie. Oggi le nostre democra­zie sono di nuovo in perdita di credibilità. Ma reggono anche perché il principio indiscusso di legittimità del nostro tempo è (teocrazie a parte) che il potere viene dal basso, che si deve fondare sul consenso e sulla libera espressione della volontà popolare. Il che rende le dittature regimi «cattivi», regimi illegittimi. E questa è la grossa differenza che al giorno d’oggi non con­sente più alle dittature di esibirsi come tali e di presentarsi come superamenti delle democra­zie. Oggi le dittature sono endemiche in Africa e abbondano in gran parte del mondo. Ma sono dittature camuffate, che smentiscono di essere tali e fingono di essere democrazie o quantome­no regimi in corso di democratizzazione. Que­sta è una importante differenza rispetto alle dit­tature fasciste, naziste e comuniste di settanta anni fa. E anche una differenza che ci impone più che mai di stabilire cosa sia una dittatura anche se e quando si camuffa.
In prima approssimazione la dittatura è pote­re concentrato in una sola persona. Per così di­re, la dittatura è del dittatore, un signore (an­che donna, s’intende) legibus solutus che non è sottoposto a leggi e che usa le leggi per sotto­porre i sudditi al suo volere.
Al che viene opposto che sono anche esistite «dittature collegiali» e cioè gestite da una pic­colissima oligarchia. Sì, tale è stata dopo la mor­te di Stalin la formula adottata nell’Unione So­vietica. Ma fu soprattutto una formula salva vita (che non salvò la vita di Beria, ma che consentì a tutti gli altri membri del politburo moscovita di morire nel proprio letto). Comunque sia, la dittatura collegiale, che oggi vige soprattutto in Cina, resta una anomalia di alcuni regimi comu­nisti.
Una anomalia spesso più apparente che reale e che comunque non basta a inficiare la caratterizzazione «personalistica» delle dittatu­re. Che passo a definire così: un regime di pote­re assoluto e concentrato in una sola persona, nel quale il diritto è sottomesso alla forza.
La sostanza delle dittature è e resta questa. Ma la strategia della loro creazione è cambiata. Prima il dittatore abrogava senza infingimenti la Costituzione preesistente. Senza arrivare al caso limite di Hitler che dichiarava «la Costitu­zione sono io», il dittatore del secolo scorso eli­minava platealmente le camere elettive e istitui­va scopertamente strutture di comando a suo uso e consumo. Oggi, invece, il dittatore si infil­tra gradualmente e senza troppo parere nelle istituzioni democratiche preesistenti e le svuo­ta dall’interno. Una prima incarnazione di que­sta strategia furono le «democrazie popolari» inventate nel secondo dopoguerra dal Cremli­no per i Paesi dell’Europa dell’Est restati nella zona di influenza sovietica. Ma in quel caso il camuffamento fu soltanto nella denominazio­ne, nel nome. L’accettazione, nella cosiddetta democrazia popolare, di partitini satelliti era soltanto una cortina fumogena dietro la quale il bastone di comando restava interamente in mano del partito comunista di ogni Paese.
Ma oggi la strategia di conquista dittatoriale delle democrazie è graduale e molto più raffina­ta. È una strategia che sviluppa «Costituzioni in­costituzionali » e cioè che ne elimina senza dare nell’occhio le strutture garantistiche. Il costitu­zionalismo è tale nella misura in cui istituisce poteri controbilancianti che si limitano e con­trollano a vicenda. Quando è così i cittadini so­no garantiti dall’abuso di potere e sono comun­que in condizione di difendere e di affermare la loro libertà. Quando non è più così, le Costitu­zioni diventano semplicemente qualsiasi for­ma, qualsiasi struttura, che ogni Stato si dà. Con tanti saluti, in tal caso, alle libertà del citta­dino.
Riassumo così: oggi le dittature sono Stati ca­ratterizzati, dicevo, da Costituzioni incostituzio­nali, Stati la cui forma (Costituzione) consente e autorizza un esercizio concentrato e incontrol­lato del potere politico. Nessuno si dichiara più dittatore. Tutti fanno finta di non esserlo. Ma lo sono.
Arrivo a Silvio Berlusconi. È un dittatore? No: non viola la Costituzione. Lo può diventare? Sì, le riforme costituzionali che caldeggia sono tut­te intese a depotenziare e fagocitare i contropo­teri che lo intralciano. Ma vuole davvero diven­tare un dittatore? Qui dobbiamo rispondere a naso, a fiuto. A mio fiuto, a Berlusconi interes­sa semplicemente fare quello che vuole. Si ritie­ne bravissimo ed è a questo titolo che pretende a mano libera, che mal sopporta chi lo frena. Però è vero che la sua megalomania sta crescen­do, che esibisce un complesso di persecuzione addirittura nei confronti dei media (tutta la tele­visione che gli spara contro! Figurarsi). Il che depone male. Eppure a tutt’oggi il personaggio resta, a mio vedere, soprattutto quello di un pa­drone autoritario.
Congetture a parte, nei suoi due precedenti periodi di governo Berlusconi si è impegnato a salvare se stesso dalla magistratura e a corazza­re un impero tutto intriso di conflitti e di abusi di interesse. Questa volta su questo fronte è ora­mai tranquillo. E si è così dato a costruire, all’in­terno di Palazzo Chigi, e della sua personale sfe­ra di potere, un sultanato. Mi sono divertito a battezzarlo così perché il termine (islamico) è evocativo, insieme, di fasto e di potere dispoti­co. Il fatto è che Berlusconi concede a Bossi quel che Bossi vuole (federalismo e due mini­steri chiave) e concede qualche contentino an­che a Fini (promosso a presidente della Camera per meglio rimuoverlo da An). Dopodiché il Ca­valiere sultaneggia su un partito cartaceo davve­ro prostrato ai suoi piedi. Nomina ministri e mi­nistre chi vuole. Caccia chi vuole, come se fosse personale di servizio. Nessuno fiata. I ministri del partito di sua proprietà sono tali per grazia ricevuta. E tornano a casa senza nemmeno un gemito se così decide il padrone. Non manca, nel suo governo, nemmeno un gradevole ha­rem di belle donne. Il sultanato era un po’ così.

Corriere della Sera 16.4.09
La follia secondo Tobino
di Giorgio De Rienzo


Curato da Monica Marti, con un’introduzione di Michele Zappella e una nota storica di Primo De Vecchis torna, negli Oscar Mondadori, Gli ultimi giorni di Magliano di Mario
Tobino (pp. CVI+259, e 9) che uscì fra molte polemiche nel 1982. È la risposta dura alla legge Basaglia che decretava la chiusura dei manicomi, a cui lo scrittore, ma soprattutto lo psichiatra Tobino, si oppone con fermezza. Al testo segue un’appendice inedita dai Diari. Un solo amarissimo pensiero: «Giunge voce, si viene a sapere che diversi malati, dimessi dai manicomi, spinti fuori nel mondo, nella società, per guarire, come proclamano i novatori, per inserirsi sono già in galera, in prigione, arrestati per atti che hanno commesso. Nessuno più li proteggeva, li consigliava, gli impediva. Nessuno li manteneva con amorevolezza e fermezza, li conduceva per mano lungo la loro possibile strada. Ed ora precipitano, si apre per loro il manicomio criminale. La follia non c’è, non esiste, deriva dalla società. Evviva!».

Corriere della Sera 16.4.09
Quando i clandestini erano italiani: il passato rimosso come una colpa
L’emigrazione del dopoguerra verso l’Europa: gli irregolari erano il 90 per cento
di Gian Antonio Stella


Un reportage storico di Sandro Rinauro. Famiglie decimate dagli «scafisti delle Alpi»
Abbiamo dimenticato tutto, rimosso tutto. Anche quelle copertine della Domenica che raccontavano le tragedie di chi non ce l’aveva fatta.
Come una donna che «sorpresa dalla tempesta di neve vide il suo bambino spi­rarle tra le braccia, proseguì per qualche tratto e infine cadde esausta con l’altro figlio: i tre corpi furono trovati due gior­ni dopo».

Quando gli emigranti eravamo noi, non tanto tempo fa, il co­mune di Giaglione, in Val di Su­sa, arrivò a chiedere aiuto alla prefettura di Torino «non avendo più ri­sorse per dare sepoltura ai clandestini che morivano nell’impresa disperata di valicare le Alpi». Ogni notte, scriveva il «Bollettino quindicinale dell’emigrazio­ne » nel 1948, passavano da lì in Francia, illegalmente, «molto più di cento emi­granti ».
Erano in tanti, a lasciarci la pelle. «Due o tre al mese, almeno» dice il rap­porto di un agente del Sim, soltanto su quelle montagne dalle quali si scendeva verso Modane. Al punto che il sindaco di Bardonecchia, Mauro Amprimo, fu co­stretto ad affiggere un manifesto per invi­tare le guide alpine (gli «scafisti» della montagna) a essere meno ciniche: «An­che se compiono azione contraria alla legge, sappiano almeno compierla obbe­dendo a una legge del cuore (...) sceglien­do altresì condizioni di clima che non sia­no proibitive e non abbandonando i di­sgraziati emigranti a metà percorso».
È uscito un libro, su quella nostra di­sperata epopea. Si intitola Il cammino della speranza (come il film di Pietro Ger­mi ispirato alla copertina della Domenica che illustra la pagina), l’ha scritto Sandro Rinauro (Einaudi, pagine 442, e 35) e par­la dell’«emigrazione clandestina degli ita­liani nel secondo dopoguerra».
Come andasse «prima» un po’ si sape­va. Basta ricordare uno studio di Adriana Lotto secondo cui nel 1905 su quattro ita­liani al lavoro nell’Impero tedesco solo uno era registrato e gli altri tre erano «clandestini in senso stretto». O la rela­zione di Stefano Jacini jr alla Camera nel 1922: «Alla frontiera del colle di Tenda ogni notte decine e decine di lavoratori, per non dire centinaia, passano clandesti­namente la frontiera». Il libro di Rinauro toglie il fiato. E spaz­za via definitivamente (sventagliando 258 note bibliografiche per il solo capito­lo terzo) uno dei luoghi comuni intorno alla differenza «fra noi e loro». Ha detto Carlo Sgorlon: «Gli immigrati italiani, e quelli friulani in particolare, non erano mai clandestini. In genere erano grandi lavoratori, rispettavano le leggi locali, ra­ramente protestavano, non si ribellavano mai. Subivano quarantene, vaccinazioni, controlli di ogni genere». Non è così. Me­glio: era «anche» così, ma non solo. Ac­canto a quella «assistita» che «prevedeva il reclutamento degli emigranti da parte degli Stati d’esodo e di destinazione me­diante accordo bilaterale» e radunava quanti volevano andarsene (aspirazione che per un sondaggio Doxa del 1952 ani­mava perfino il 56% dei giovani lombar­di) nei centri di smistamento dove c’era «la selezione medica e professionale», c’era infatti l’«altra» emigrazione: illega­le. Ed erano soprattutto lombardi, vene­ti, piemontesi, friulani.
Certo, ci sono un mucchio di differen­ze tra l’emigrazione di allora e di oggi. Il mondo intero era diverso. Al punto che Charles de Gaulle, che amava come nes­sun altro la Francia ma sapeva quanto avessero contato nella storia patria il ligu­re Léon Gambetta, il piemontese Paul Cé­zanne (Paolo Cesana) o il veneto Emile Zola, si spinse a incoraggiare l’immigra­zione «al fine di mettere al mondo i 12 milioni di bei bambini di cui necessita la Francia in 10 anni».
Chiudeva un occhio, Parigi, in certi an­ni, sui clandestini. Come lo chiudevano i governi tedeschi, belgi... Perché, certo, le ripetute sanatorie urtavano l’Italia che cercava, attraverso gli accordi, di argina­re lo sfruttamento dei suoi emigranti. Ma l’economia reale badava al sodo e, spiega Rinauro, l’immigrazione illegale era «il meccanismo di elasticità che per­metteva alla rigida politica ufficiale del­l’immigrazione di adeguarsi a qualunque congiuntura». Pochi esempi? In Germa­nia «nel 1959 entrarono mediante la sele­zione ufficiale 24.000 lavoratori italiani a fronte di 25.000 emigranti 'spontanei'». In Lussemburgo si inserirono illegalmen­te oltre un quarto degli immigrati tricolo­ri del 1958. Il Belgio era pieno di italiani clandestini espatriati «per il 50%» dalla Francia. E perfino la Svizzera, stando a un rapporto del ministero del Lavoro del 1954, era così permeabile che i «recluta­menti irregolari da parte delle ditte elveti­che » erano «il più alto contingente del movimento migratorio italiano per la Svizzera». Ma come: più irregolari che re­golari? Sì. «Considerando che tra il ’46 e il ’61 la media delle entrate annue degli italiani ufficialmente registrate si aggira­va sulle 75.000 — scrive Rinauro — si può avere un’idea sia pure imprecisa del­la grande entità dell’afflusso illegale».
Ma a gelare il sangue sono i dati fran­cesi: «Del campione de­gli italiani giunti dal ’45 nella regione parigi­na intervistati nel 1951-52 dalla famosa in­chiesta dell’Institut na­tional d’études démo­graphiques sull’immi­grazione italiana e po­lacca in Francia, ben l’80% era entrato senza contratto di lavoro, cioè clandestinamente o da 'turista'». Per non dire di chi lavora­va nell’agricoltura. «Secondo il direttore della Manodopera straniera del ministe­ro del Lavoro, Alfred Rosier, alla fine del 1948 dei 15.000 italiani presenti nel dipar­timento agricolo del Gers, ben il 95% era irregolare o clandestino». Quanto ai fami­liari, «emigrò illegalmente» addirittura «il 90%». Solcando le Alpi, ad esempio, al di là della Val d’Isère fino a Bourg-Sa­int- Maurice dove nel settembre 1946 «ne arrivavano mediamente 300 al giorno, ma toccarono addirittura le 526 unità in una sola giornata».

l’Unità 16.4.09
Intervista a Michel Onfray
«Impariamo a maneggiare il nostro corpo la nostra libertà»
di Silvio Bernelli


Il filosofo francese presenta in Italia il suo nuovo libro, «La potenza di esistere», sintesi di tutti i suoi interessi: etica, bioetica ed estetica

«La potenza di esistere. Manifesto edonista» di Michel Onfray è edito dalla casa editrice Ponte alle Grazie, collana «Saggi» (pagine 203, euro 15,00)

Francese, cinquantenne, Michel Onfray è un personaggio a tutto tondo, capace di accendere entusiasmi e attirarsi le critiche più feroci. Autore di una trentina di libri, tra i quali il celebre Trattato di ateologia pubblicato in Italia da Fazi, interviene spesso nel dibattito sulla laicità dello stato, la libertà dei comportamenti sessuali e la politica della sinistra europea. Incontriamo Michel Onfray in un albergo del centro di Torino, poco prima della presentazione al Circolo dei Lettori del suo La potenza di esistere, appena pubblicato in Italia da Ponte alla Grazie. Capelli bianchi scompigliati, camicia di lino chiara, pantaloni neri, modi di fare più che informali: Onfray assomiglia assai più a un giovane ribelle che a un pensatore serioso.
In molte sue opere, «Teoria del corpo amoroso» ad esempio, (edito in Italia da Fazi, n.d.a.), lei si occupa del corpo. Da dove nasce questo interesse?
«Con la fine del marxismo e il declino della religione cristiana, da quando i grandi temi stanno scomparendo insomma, l’argomento più allettante rimasto è il corpo. Da qui nascono gli interrogativi che oggi sono sulla bocca di tutti. Che cos’è il corpo? Cosa si può fare con il proprio corpo? Ho scritto molto su temi bioetici, quali l’eutanasia, ma anche la procreazione assistita, il problema dei trapianti e dell’eugenetica. Sono sempre stato favorevole a un uomo capace di riappropriarsi del proprio corpo, un uomo post-cristiano».
Pare che le istituzioni, ma anche la società nel suo insieme, non siano ancora state capaci di produrre un’idea di famiglia che vada d’accordo con la nuova idea di libertà del corpo. Come risolvere questa contraddizione?
«In questo caso, sono d’accordo con quanto dice Benedetto XVI...»
Se lo dice lei, che è una specie di campione dell’ateismo, questa è una notizia...
«Volevo darle un titolo per il giornale (Onfray si lascia andare a una risata, n.d.a.)… A parte gli scherzi, sono contrario a una sessualità nichilista, al sesso per il sesso. Bisogna dare sempre un senso al corpo e a ciò che ne facciamo. Ogni persona deve essere libera di stipulare un contratto con il proprio partner, dove in cambio dell’esclusività sessuale si riceve la possibilità di costruire qualcosa».
È d’accordo con Benedetto XVI anche per quanto riguarda la dichiarazione sui profilattici che non servirebbero a combattere l’Aids?
«È un’affermazione che non mi sorprende, in linea con la dottrina cattolica. Mi sembra comunque che rispetto a Giovanni Paolo II, molto sensibile alle dinamiche dei mass media, Benedetto XVI lo sia molto meno. Detto ciò, è un uomo molto colto, un filosofo che ha sempre il merito di sapere cosa dice».
Lei è un pensatore individualista e libertario, fa parte di una corrente di pensiero che il comunismo europeo, in particolare quello italiano, e credo anche quello francese, ha sempre detestato. Pensa che l’attuale incapacità della sinistra di comprendere la società nasca proprio da questa frattura?
«Il marxismo è passato come un rullo compressore sulla nostra società, e non a caso oggi la sinistra deve essere post-marxista. Dopo le terribili tragedie del XX secolo, è necessario ripensare la resistenza al capitalismo non in termini di rivoluzione. Bisogna imparare a maneggiare la propria libertà e cercare di costruire una società anti-dogmatica, federata, basata su tanti micro-sistemi collegati in un network».
Una sinistra vista così non sembra un partito. Quale forma potrebbe avere?
«La sinistra deve essere anche un partito. Se ci fosse una sinistra unita, forte, anti-liberista potrebbe costituire una forza capace di raggiungere una massa critica tale da condizionare la società».
Con quali parole presenta ai nostri lettori il suo libro «La potenza di esistere»?
«Ogni libro appartiene alle persone che lo leggono, ciascuno ci trova il filo che gli è più congeniale. La potenza di esistere comincia con un parte autobiografica in cui racconto i quattro anni vissuti da bambino in un orfanotrofio salesiano. Non è stata comunque questa esperienza a fare di me un ateo: è che non ho mai avuto il senso della trascendenza. Da piccolo, quando mi sentivo raccontare la storia di Gesù, l’ascoltavo come fosse quella di Zorro, come un’avventura. Per il resto, La potenza di esistere è un po’ la sintesi di tutti i miei interessi: l’etica, la bio-etica, l’estetica».
Il sottotitolo di «La potenza di esistere» è «Manifesto edonista». Questo aggettivo viene per lo più percepito con un significato molto vicino a egoista. È un segno di come certe parole abbiano ormai perso il loro significato originario, siano state consumate dal tempo?
«Questo della perdita di senso delle parole è un vero problema. È un fenomeno di consunzione molto forte anche nel campo della filosofia. Pensiamo al significato del termine “materialista”, che oggi non ha più niente a che fare con Democrito, che non parlava affatto di attaccamento al denaro; oppure al termine “stoicismo”, che non significa accettare con rassegnazione di prendersi un pugno in faccia, come sembra voglia dire oggi. Questa svalutazione dei termini porta, per forza di cose, a un mondo triviale, dominato da parole senza valore, che faremmo bene a combattere».

mercoledì 15 aprile 2009

Repubblica Roma 15.4.09
Testamento biologico così da oggi le iscrizioni
di Rory Cappelli


La nuova iniziativa del municipio X, dopo quella del registro delle coppie di fatto, da oggi diventerà attiva. Si tratta dell`iscrizione nel registro del testamento biologico, presentato qualche giorno fa dal presidente del X, Sandro Medici, insieme a Mina Welby, moglie di quel Piergiorgio Welby che lottò fino all`ultimo perché diventasse libera la decisione di accettare o meno terapie invasive in caso di morte cerebrale odi situazioni irreversibili. La Welby l`8 aprile scorso, dopo la presentazione ufficiale del nuovo registro, lo ha simbolicamente firmato per prima. E da oggi tutti i cittadini romani, presso la sede del municipio X, in piazza di Cinecittà 11 (IV piano, stanza 147), e poi tutti i mercoledì dalle 15 alle 17, previa prenotazione all`ufficio relazioni con il pubblico, potranno firmarlo e lasciare scritte le proprie volontà. Il modello di testamento dovrà essere compilato alla presenza degli impiegati incaricati: dovranno essere presenti dichiarante e fiduciario, con documento di riconoscimento valido e una sua fotocopia. Il testamento e le fotocopie saranno chiusi in un busta che poi verrà sigillata: il testamento, che avrà un numero progressivo, verrà annotato su un registro. Lo stesso numero comparirà sulla busta chiusa e sulla ricevuta. L`unica spesa sarà quella della dichiarazione sostitutiva di atto notorio (0,26 euro), necessaria al deposito della busta.

Repubblica 15.4.09
Confucio al posto di Mao /1
Nella Cina che riscopre il Saggio
di Timothy Garton Ash


Ma il modello cinese è un mix tra confucianesimo leninismo, taoismo, consumismo occidentale e socialismo
Verrà anche girato un film. Il protagonista sarà Chow Yun-Fat, il duro di tante pellicole di gangster di Hong Kong

Pechino. Da bambino la Cina per me era un cinese un po´ buffo, con i baffi lunghi e sottili una tunica di seta ricamata e un cappello a cono di paglia che con uno strano accento esclamava: «Dice il saggio…». In seguito furono le foto in bianco e nero del gruppo di sculture di epoca maoista "Corte per la riscossione della mezzadria" mostratemi con entusiasmo da un insegnante di inglese. Dopo ancora fu la follia ingenuamente travisata della rivoluzione culturale e delle Guardie Rosse. (Ho ancora la copia del libretto di Mao di quando ero studente). Oggi infine è un accademico cinese che ha studiato in America, in abito scuro, che mi dice in un ottimo inglese, «Dice il Saggio…».
È risaputo che in Cina è in atto un revival del confucianesimo. Le massime del Saggio, adattate per il vasto pubblico da una docente universitaria cinese attenta alle esigenze della a comunicazione di massa, Yu Dan, ha venduto più di dieci milioni di copie, di cui circa sei milioni, pare, in edizione pirata. Il libro è intitolato "Zuppa di pollo cinese per l´anima".
Il campus della prestigiosa Università Tsinghua di Beijing un tempo ospitava una statua del presidente Mao. Oggi vi troneggia Confucio. Una casa di produzione statale finanzierà un film su Confucio. Il Saggio sarà interpretato da Chow Yun-Fat, il duro di tanti film di gangster di Hong Kong. Esistono inoltre scuole private esplicitamente ispirate al confucianesimo.
Questo ritorno di Confucio ha una valenza sia privata che pubblica, tanto sociale che di partito. «Disse il saggio: l´armonia è un bene da tener caro», rimarcò il presidente Hu Jintao nel febbraio 2005, facendosi promotore dell´obiettivo proclamato del partito comunista di perseguire l´armonia nella società e nel mondo. «Da Confucio a Sun Yat-sen», dichiarò il premier Wen Jiaobao qualche anno dopo , «La cultura tradizionale della nazione cinese vanta numerosi elementi preziosi», tra cui citava «spirito comunitario, armonia tra diverse concezioni e condivisione del mondo comune». In un saggio sul nuovo confucianesimo cinese il politologo Daniel A. Bell ironizza sul fatto che il Partito Comunista Cinese (PCC) potrebbe un giorno essere ribattezzato Partito Confuciano Cinese.
In occasione di una mostra allestita nel più grande tempio confuciano di Pechino, è stata esposto un tabellone su cui erano evidenziate le sedi dell´Istituto Confucio nel mondo. L´Istituto Confucio è l´equivalente cinese, relativamente recente, del Goethe Institute tedesco e del British Council britannico. Attualmente le varie sedi estere si dedicano soprattutto all´insegnamento della lingua cinese, ma il messaggio esplicito della mostra è che il mondo potrebbe trarre vantaggio da una miglior conoscenza del pensiero di Confucio.
Si può dare di questa rinascenza del confucianesimo una lettura semplicistica, o più interessante. La lettura semplicistica sta nel cercare nel confucianesimo la chiave per comprendere la società, la politica e persino la politica estera della Cina di oggi. Si tratta di un esempio di Huntingtonismo volgare, come l´ho definito, ossia una versione di basso livello del determinismo culturale presente nella teoria dello Scontro di civiltà di Samuel Huntington. I cinesi sono confuciani per cui si comporteranno così�
Tanto per cominciare esistono molte versioni contrastanti di confucianesimo. Bell individua un confucianesimo progressista, un confucianesimo ufficiale o conservatore, un confucianesimo di sinistra e un confucianesimo popolare non politicizzato (la zuppa di pollo di Yu Dan). Cosa ancor più importante il confucianesimo è solo uno degli ingredienti dell´eclettico mix che contraddistingue la Cina di oggi. Molte caratteristiche della società e del sistema politico cinese possono essere definite senza riferimento alcuno al confucianesimo, e certe farebbero rivoltare il Saggio nella tomba. Accanto al confucianesimo si distinguono elementi di leninismo, capitalismo, taoismo, consumismo occidentale, socialismo, il legalismo di tradizione imperiale cinese e altri ancora.
E´ proprio questo mix che identifica il modello cinese, peraltro non ancora pienamente compiuto. Perché la Cina resta un paese in via di sviluppo in ogni senso del termine. Sapremo con precisione qual è il modello cinese quando avrà raggiunto un grado superiore di sviluppo. Nel frattempo, dovendo dare un´etichetta alla Cina di oggi il confezionismo sarebbe un miglior candidato rispetto al confucianesimo. Il segreto sta nella confezione.
Ne consegue che è un grave errore concepire la conversazione politica e intellettuale con la Cina come "dialogo tra civiltà". In questa accezione noi occidentali mettiamo in tavola i nostri cosiddetti "valori occidentali" , i cinesi i loro cosiddetti "valori cinesi" e poi si vede quali pezzi corrispondono e quali no.
Sciocchezze. Non esiste una civiltà occidentale o cinese pura, incontaminata, a parte. Da secoli tutti ci mescoliamo e soprattutto negli ultimi due. La purezza culturale è un ossimoro. È vero, il confucianesimo è più importante del cattolicesimo in Cina, e il cattolicesimo è più importante del confucianesimo in California, ma in oriente c´è più occidente e in occidente più oriente di quanto in genere si immagini. Inoltre già 2500 anni fa, quando la Cina e l´Europa erano davvero due mondi separati, certe tematiche affrontate da Confucio erano le stesse di Platone e Sofocle , perché sono tematiche universali. Non sono questioni "orientali" o "occidentali", sono questioni umane.
L´approccio interessante al confucianesimo da parte occidentale - nell´ambito di un dialogo che gli istituti Confucio farebbeno bene a sostenere - è del tutto diverso. Parte da una tesi semplice: Confucio era un grande pensatore che ancora oggi ha qualcosa da insegnarci. Nel corso di duemila anni e più numerose scuole hanno reinterpretato il pensiero di Confucio nelle varie epoche ma non solo, hanno anche aggiunto farina del loro sacco. Dovremmo leggere Confucio, e queste interpretazioni come leggiamo Platone, Gesù , Buddha o Charles Darwin, e tutti i loro interpreti. Non si tratta di un dialogo tra civiltà, bensì di un dialogo interno alla civiltà. La civiltà umana , vale a dire, ciò che ci rende migliori delle bestie.
Per condurre questo dialogo la maggior parte di noi dipende dai traduttori. Qui a Pechino ho riletto la traduzione di Simon Leys dei "Detti di Confucio" con le note dense di robusti riferimenti ad autori occidentali (il gentiluomo colto di Confucio paragonato all´ honnete homme di Pascal e così via). Grazie a Leys, trovo i Detti infinitamente più accessibili, godibili e gratificanti rispetto al testo principale di un´altra tradizione culturale con cui noi europei dobbiamo confrontarci: il Corano. Ovviamente certi passaggi sono oscuri e anacronistici , mentre altri - che esaltano il governo degli uomini invece del governo del diritto, ad esempio - si pongono in forte contrasto con il liberalismo contemporaneo. Ma molti dei detti attribuiti a Confucio emanano un umanesimo laico di grande attualità.
Preferisco la formulazione confuciana della regola d´oro della reciprocità - «Non imporre agli altri quello che tu stesso non desideri» - a quella cristiana. Qual è il compito del governo? «Dare la felicità alla gente del luogo e attrarre migranti da lontano». Come servire al meglio il nostro capo politico? «Ditegli la verità, anche se lo offende». E la massima migliore: «Si può privare un esercito del suo comandante in capo, ma non si può privare il più umile degli uomini della sua libera volontà».
Ma se queste sono riflessioni familiari in un contesto inconsueto, i detti di Confucio contengono anche accenti del tutto particolari, ad esempio esaltano una sorta di responsabilità familiare allargata alle generazioni sia passate che future. Non è una cattiva idea questa, oggi che violentiamo il pianeta lasciatoci in eredità dai nostri avi. Qualche mese fa uno dei sottosegretari britannici all´istruzione si è attirato qualche frecciata satirica per aver dichiarato che agli scolari inglesi non farebbe male studiare Confucio. Non potremmo farlo tutti? Non solo impareremmo qualcosa dei cinesi, ma anche qualcosa di noi stessi.
www.timothygartonash.com. Traduzione di Emilia Benghi

Repubblica 15.4.09
Confucio al posto di Mao /2
Il paese ritrova la autostima e il suo filosofo guida
Maestro Kung e la rivincita sui comunisti
di Federico Rampini


Nel ceto medio cinese esplode un fenomeno editoriale, il best-seller intitolato La Cina scontenta. Un libro dai toni sciovinisti, che imputa all´Occidente un bilancio fallimentare. Plebiscitato dalla gioventù cosmopolita di Pechino e Shanghai, il saggio dà sfogo a un risentimento represso, incita i cinesi a liberarsi dei complessi d´inferiorità e a occupare il posto che gli spetta nel mondo. Secondo Wang Xiaodong, uno degli autori, la recessione dimostra che gli Stati Uniti non possono più offrire al mondo una leadership adeguata. «Noi possiamo fare meglio di loro», è la sua conclusione.
Era dai tempi di Mao Zedong che non si vedeva una Repubblica Popolare decisa a esportarsi come modello. Ma oggi l´ideologia su cui poggia il neo-espansionismo cinese non è più rivoluzionaria, sovversiva e antagonista. Al posto di Mao c´è Confucio, il filosofo vissuto dal 551 al 479 avanti Cristo, che la classe dirigente cinese rivaluta come il guardiano dell´ordine sociale e della stabilità.
Kong Fuzi (Maestro Kung, latinizzato in Confucio dal gesuita Matteo Ricci) è al centro di una riabilitazione orchestrata nei minimi dettagli. Il segnale più potente è la proliferazione degli Istituti Confucio nel mondo, promossi dal governo di Pechino per diffondere lo studio del mandarino. La scelta del nome è rivelatrice di un ribaltamento clamoroso. Negli anni del maoismo Confucio fu messo al bando come un pensatore reazionario, simbolo dell´epoca imperiale. L´odio per Confucio non era una prerogativa dei soli comunisti, univa le élite progressiste nella Cina del Novecento. Ma quel secolo fu segnato dai complessi d´inferiorità; l´Occidente era il modello per ogni progetto modernizzatore. Il rilancio del confucianesimo coincide con una nuova autostima, spiega lo storico cinese Wang Gungwu della National University di Singapore. Wang descrive l´attuale rafforzamento della Cina come la quarta ascesa in duemila anni di storia, dopo l´unificazione imperiale (terzo secolo prima di Cristo), il consolidamento avvenuto nel VII e VIII secolo dopo Cristo in risposta alla minaccia di invasioni dall´Asia centrale, e infine l´espansione iniziata nel XIV secolo e culminata 400 anni dopo sotto la dinastia mancese dei Qing. Ma la "quarta ascesa", quella attuale, è la prima che proietta l´influenza cinese sul mondo intero. Il ribaltamento di prospettiva è profondo, secondo Wang. Negli anni precedenti erano europei e americani a mettere sotto pressione i cinesi perché passassero degli esami: «L´Occidente si attendeva dalla Cina ulteriori progressi nell´uniformarsi alle regole che considerava le più adatte per garantire il futuro della globalizzazione. Ora la Cina ha acquistato una nuova coscienza di sé, e rimette in discussione la validità delle pretese occidentali. La profondità della crisi economica ha scardinato la credibilità dell´Occidente come portatore di soluzioni per lo sviluppo mondiale».
Oggi è Confucio il pensatore più citato dai leader di Pechino quando noi occidentali invochiamo la necessità di riforme democratiche in Cina. A differenza che ai tempi di Mao, non è più di moda ribatterci che la nostra è una democrazia borghese, ipocrita e fasulla, che fa velo all´oppressione del proletariato. Oggi si fa ricorso al relativismo etnico-culturale. La Cina è una società segnata dal confucianesimo, dove il gruppo conta più dell´individuo, dove le relazioni sociali sono "organiche", strutturate sull´obbedienza gerarchica e sul perseguimento di obiettivi collettivi. Questo tipo di società asiatica va governata come una famiglia, con il rispetto dell´autorità paterna, e d´altra parte carica sul paterfamilias la responsabilità di garantire il benessere dei propri familiari.
I leader di Pechino hanno utilizzato Confucio dapprima in chiave difensiva, contro le "ingerenze" occidentali sui diritti umani. Un esempio è il discorso tenuto da Zhang Weiwei al Marshall Forum a Monaco di Baviera: «Voi occidentali definite la democrazia secondo il principio che ogni cittadino deve avere il diritto al voto, e nel suffragio universale diversi partiti devono competere per l´alternanza al governo. Fino a oggi è impossibile trovare un solo caso di un Paese emergente che sia riuscito a modernizzarsi con successo dopo avere adottato questo modello di democrazia. Che cosa succederebbe oggi in Cina se adottassimo una democrazia del vostro tipo? Ammesso che il Paese non sprofondi nella guerra civile o nella disgregazione, potremmo eleggere un governo di contadini, visto che i contadini sono la stragrande maggioranza della nostra popolazione. Non ho nulla contro di loro, ma è chiaro che non sarebbero capaci di guidarci nella modernizzazione. Negli ultimi trent´anni la Repubblica Popolare ha decuplicato la sua ricchezza economica, ha migliorato le condizioni di vita dei suoi cittadini, mantenendo la stabilità».
Ora la rivincita del Maestro Kung fa un passo più avanti: lo trasforma in un pensiero politico da esportare. A tutta l´Asia la Cina si propone come un modello di solidità e di tenuta, mentre l´Occidente sbanda. La decisione di dedicare un film alla vita di Confucio - con la benedizione delle autorità - assegnando il ruolo di protagonista a Chow Yun-Fat, divo dei film di arti marziali e kung-fu, è il segnale più divertente della nuova fase. L´antico teorico della «società armoniosa» adesso mostrerà anche i muscoli.

Repubblica 15.4.09
Addio a Franco Volpi
Da Nietzsche a Heidegger la filosofia come passione critica
di Sergio Givone


Ha tenuto lezioni da Padova agli Usa Tra i suoi volumi quello dedicato al nichilismo
Il suo lavoro ha permesso l´edizione di testi fondamentali
Studioso, curatore, esegeta dei maestri della modernità È scomparso ieri, vittima di un incidente stradale

Raramente, come in Franco Volpi, il filosofo italiano a cui tutti dobbiamo tantissimo, sia come esegeta e curatore di grandi testi del pensiero moderno e contemporaneo, sia come indagatore di problemi storici e di questioni speculative, la passione e l´intelligenza si intrecciano così bene nel difficile lavoro dell´interpretazione. In lui l´acribia più rigorosa è tutt´uno con lo sguardo capace di portare alla luce non solo l´intenzione profonda dell´autore ma, al di là di essa, la parola non detta, la domanda nascosta, l´apertura di un nuovo orizzonte critico. Esemplari sono le sue curatele, per Adelphi, di molte delle più importanti opere heideggeriane, alcune delle quali, e in particolare Segnavia, L´essenza della verità, e, in ultimo, i Contributi alla filosofia, rappresentano un modello insuperato di edizione da tutti i punti di vista: traduzione, note, apparati. Geniali le sue proposte, sempre per Adelphi, di opere minori di Schopenhauer, da cui ha saputo trar fuori quella accattivante miscela di filosofia popolare e filosofia alta che era nascosta in esse. Preziosa la sua monografia per Villegas Editores che accompagna l´Opera Omnia di un eccentrico di talento come Nicolás Gómez Dávila.
Allievo di Giuseppe Faggin, l´indimenticato studioso di Plotino, Volpi ha imparato fin dagli anni del liceo che quanto più si è interpreti fedeli e attenti, tanto più si è pensatori originali e in proprio. Appunto secondo l´esempio fornito da colui che più e meglio di chiunque altro trasmise all´occidente cristiano il lascito della filosofia classica. Plotino, che era greco di formazione, insegnava a Roma. Le sue lezioni si svolgevano per lo più in forma di commento e discussione delle tesi dei maestri del passato. Ma da quel suo esporre il pensiero altrui senza presunzione d´originalità sapeva ricavare approfondimenti che lasciano stupefatti per forza innovativa e capacità di penetrazione. Qualcosa di simile si deve dire di Volpi. Ovunque egli tenesse cattedra (titolare in quelle di Padova e di Witten/Herdecke, oltre che visiting professor in alcune delle principali università europee e nordamericane), sempre si presentava quale in effetti era: storico della filosofia. Verrebbe da dire: filologo della filosofia. Ma filologo che sa la potenza e lo smalto della parola, oltre che la sua fallibilità: ciò che impone un di più di scrupolo, di dedizione, di "amore per il logos". Sono precisamente questi i tratti che caratterizzano l´impegno di Volpi, il suo limpido argomentare, il suo instancabile leggere e rileggere i testi. Ciò di cui il suo Dizionario delle opere filosofiche (Bruno Mondadori) è un´eloquente testimonianza.
E quando gli accade di confrontarsi con i grandi temi che abbracciano intere epoche storiche, allora il risultato inevitabilmente è di quelli che costringono a sostare e a riflettere. Si potrà non essere d´accordo con lui. Impossibile però ignorare le sue indicazioni.
Prendiamo ad esempio il volume da lui dedicato ormai qualche anno fa a Il nichilismo (Laterza). È ancora attualissimo. Volpi sa bene che il nichilismo è un fenomeno tipicamente moderno, sviluppatosi quasi interamente fra Ottocento e Novecento, e in quanto tale da indagare specialmente lungo l´asse Nietzsche-Heidegger. Ma sa anche che questo fenomeno viene da lontano, visto che alla sua radice c´è l´esperienza del nulla. Si può ignorare questa esperienza? O chi la ignorasse - chiede Volpi citando uno dei suoi maestri - non si metterebbe senza speranza fuori della filosofia?
C´è tutto Volpi, in questo rilanciare le grandi questioni. E cioè nel suo restare in ascolto delle voci parlano dalle profondità di una tradizione tutt´altro che finita. Ma anche nel suo coraggioso riproporcele. E pensando a lui, al suo pensiero così aperto e vero, ci viene naturale farlo al presente, non al passato.

Repubblica 15.4.09
Spirito inquieto e anti-accademico
Cinquantasette anni, visse l’università con insofferenza, estraneo al potere
di Antonio Gnoli


Cominciò a collaborare a "Repubblica" con un articolo sull´autore dello "Zarathustra"

Franco Volpi è morto. E il primo pensiero va alla lunga amicizia che ci ha legato nel corso degli anni. Guardo con gratitudine a quel legame che è stato intenso e singolare. Il professore e il giornalista. C´eravamo conosciuti in occasione di una polemica che aveva diviso la scena filosofica italiana e che riguardava Nietzsche e il suo presunto testo La volontà di potenza. Mi colpì l´intervento che Volpi fece su queste pagine: demoliva i colpevolisti - coloro che imputavano a Nietzsche la sciocchezza di essere un nazista ante litteram - con garbo e competenza. Dietro lo stile preciso e l´argomentazione esauriente si scorgeva un´inquietudine antiaccademica che col tempo imparai a conoscere. Gli chiesi se avesse voglia di collaborare con Repubblica e mi rispose che per lui sarebbe stato come evadere da una gabbia.
Visse l´università con insofferenza: si sentiva estraneo alle beghe accademiche, ai rapporti di potere, ai programmi normalizzanti. Eppure era all´apparenza un tradizionalissimo filosofo venuto su con il pane di Aristotele e di Plotino, con i timidi affacci in Germania, dove aveva cominciato a specializzarsi su Heidegger. Del filosofo della Selva Nera sapeva tutto, aveva letto tutto, frugato negli archivi, conosciuto le persone che gli erano state vicine e che potevano offrire una testimonianza di prima mano. Come il figlio Hermann, che andammo a trovare in una giornata di sole pallido, mentre tornavamo da Wilflingen, dove il giorno prima avevamo incontrato Ernst Jünger. Lungo la strada Volpi mi disse: «Sai, da queste parti abita il figlio di Heidegger. Non c´entra nulla con la filosofia, però gestisce l´intera eredità spirituale del padre». Gli chiesi se si poteva intervistare. Rispose che era molto difficile, e che aveva sempre rifiutato di incontrare i giornalisti. «Forse farà un´eccezione se sei tu a chiederglielo», replicai. Ci fermammo a pochi chilometri da Friburgo davanti a una cabina telefonica. Volpi lo chiamò e, con sorpresa di entrambi, Hermann Heidegger ci ricevette il giorno dopo. Quell´intervista fece il giro del mondo.
Se ripenso ai nostri viaggi, in Germania, in Francia, in Italia, mi torna in mente la sua velocità di pensiero. Sembrava un elfo contagiato dall´inquietudine. Credo si sentisse libero solo in movimento. Poteva coprire in macchina migliaia di chilometri su e giù per l´Europa - ha insegnato in molte università - o in aereo al di qua e al di là degli oceani, senza risentirne. Non so come facesse: un seminario a Nizza, una lezione a Jena, un convegno a Buenos Aires. Era un filosofo poliglotta. Non ho mai conosciuto nessuno che avesse la versatilità per le lingue che aveva Volpi.
Di tutti i viaggi fatti, di tutte le persone incontrate, di tutte le esperienze condivise - i luoghi, gli individui, i libri - mi resta chiarissima una frase che amava ripetere: «Sbagliano quelli che pensano che la vita si spiega con la filosofia. Per quanti sforzi il pensiero faccia, il risultato è sempre lo stesso: la filosofia arranca dietro la vita che se la ride». Volpi pensava da filosofo, ma agiva da uomo che vede il mondo andare in tutt´altra direzione. Era convinto che i filosofi avessero perso la curiosità, il gusto di meravigliarsi, di lasciarsi sorprendere, di gioire del nuovo. Credevano di avere in pugno il mondo e avevano in pugno solo se stessi.
Pochi giorni fa ci sentimmo per un articolo sulle posizioni espresse dal Papa su Nietzsche. Fu puntuale come al solito. La nostra amicizia cominciò con Nietzsche e si è interrotta con lui. Continueremo a seguire da lontano gli amici che se ne vanno. La loro morte è parte della nostra morte che si annuncia attraverso il lutto e il dolore. Ma è anche la vita che ci donano come esempio e ricordo. È l´immagine che si fa traccia, che supera il pianto e ci fa dire: ho avuto la fortuna di conoscerti.

Corriere della Sera 15.4.09
Franco Volpi, la filosofia al di là del nichilismo
di Armando Torno


Lo studioso di Heidegger, travolto in bicicletta da un’auto, si è spento ieri sera a Vicenza

Franco Volpi era nato a Vicenza nel 1952 e inse­gnava Storia della filosofia all’Università di Pado­va. È morto in un incidente stradale (lunedì era in bicicletta sui monti Berici, è stato travolto da un’au­to), come Roland Barthes. Al suo nome sono legati, oltre a libri di alta e buona divulgazione, gli studi sul nichilismo, sul pensiero tedesco moderno e contem­poraneo, e soprattutto il corpus delle opere di Mar­tin Heidegger pubblicate da Adelphi. Volpi ha fatto molto per la cultura italiana e per la diffusione della filosofia in un periodo in cui l’antica disciplina di Pla­tone e Aristotele è diventata una passione popolare. Cerchiamone il ritratto aprendo semplicemente i suoi libri.
Fu uno dei migliori allievi dell’«aristotelico» Enri­co Berti, anzi è stato il più contemporaneista tra loro: ha esordito con il saggio Heidegger e Brentano (Ce­dam, 1976) e con il suo maestro ha firmato il terzo volume di una Storia della filosofia (Laterza, 1991) che conobbe una certa fortuna nei licei italiani. Ave­va la vocazione dell’organizzatore oltre che quella dello studioso. Sotto questo aspet­to va elogiato per il Dizionario del­le opere filosofiche (Bruno Monda­dori, 2000) che reca il suo nome al frontespizio, ma si avvale di de­cine e decine di collaboratori per le singole voci. Di più: Volpi, insie­me ad altri, curò nel 1988 l’edizio­ne tedesca di questo Lexicon der philosophischen Werke, poi ampliata nel 1999; infine la sistemò per gli italiani. Le polemiche corse all’usci­ta sono ormai evaporate e oggi ci rendiamo conto che l’aver dimenticato — o volutamente non ospita­to — i Principles of Mathematics di Bertrand Russell, non è peccato che richiede assoluzioni speciali. Del resto, la sua eccellente conoscenza del tedesco lo portò a realizzare l’edizione italiana di alcune tra le più importanti opere di Heidegger. Se oggi riusciamo a leggere — e in Italia i professori che possono permettersi la lingua originale sono davvero pochi — pagine fondamentali di questo filosofo, dobbia­mo ringraziare Franco Volpi. Senza di lui non avrem­mo nella prestigiosa «Biblioteca filosofica» Adelphi opere di Heidegger quali Segnavia, Parmenide, L’es­senza della verità. Sul mito della caverna e sul «Tee­teto » di Platone, gli importanti Contributi alla filoso­fia o I concetti fondamentali della filosofia antica.
Certo, c’è stato anche un Volpi che si impegnava a diffondere, attraverso la collaborazione a Repubbli­ca, le idee filosofiche (e con Antonio Gnoli firmò, tra l’altro, L’ultimo sciamano, Bompiani) o quello che si concedeva il lusso di arricciare il naso dinanzi alla nuova traduzione di Essere e tempo di Heidegger rea­lizzata da Alfredo Marini (Mondadori), e ripropone­va la vecchia versione di Pietro Chiodi, limitandosi ad aggiungere degli apparati critici alla fine.
Franco Volpi rimarrà per il suo saggio su Il nichili­smo (Laterza). Si legge facilmente e insegna che la crisi della ragione, la perdita del centro, la decaden­za dei valori si presentano a noi ogni giorno con il proprio nome o sotto altre sembianze. Nietzsche de­finiva tutto ciò «ospite inquietante». Si aggira in ca­sa nostra ed è quasi impossibile metterlo alla porta. Anche se Volpi era convinto che prima o poi se ne sarebbe andato e preparava, per questo, una prospet­tiva «oltre il nichilismo».

Repubblica 15.4.09
Il Forum Palestina (e Vattimo) contro il Salone del Libro di Torino
"Egitto come Israele boicottiamo la fiera"


Torino. Il copione che sta per andare in scena alla Fiera internazionale del Libro di Torino, a un mese esatto dal suo inizio, è uguale a quello dell´anno scorso. Si riassume in una sola e inequivocabile parola d´ordine: boicottaggio. Nel mirino, nel 2008, era finito lo stato di Israele, invitato d´onore alla kermesse del Lingotto, che era stato contestato per la sua politica nei confronti del popolo palestinese. Questa volta, a perfetto contraltare, di mezzo ci va invece un Paese di lingua araba, ossia l´Egitto. Ospite di Librolandia 2009, è ritenuto un regime dittatoriale, dove la libertà di espressione è colpita duramente. L´Egitto è accusato inoltre di stringere d´assedio la Striscia di Gaza. Anche i protagonisti del ventilato boicottaggio sono i medesimi di dodici mesi fa. Vale a dire l´Ism (International Solidarity Movement) e il Forum Palestina, associazioni della sinistra radicale, che ieri hanno invitato alla mobilitazione contro la presenza al salone torinese della nazione del Cairo, dove «da decenni sono in vigore leggi d´emergenza, il sistema è totalitario e brutale, e gli oppositori sono torturati».Non cambia nemmeno l´avallo autorevole alla protesta da parte del mondo della cultura, che, come un anno orsono, si replica nella persona di Gianni Vattimo. Pur spiegando che il suo impegno come candidato alle elezioni europee (per l´Italia dei Valori) renderà meno assidua l´adesione alla protesta annunciata, il filosofo non ha dubbi. Tanto che afferma: «Sapevo che qualcosa si stava muovendo. In ogni caso sono fondamentalmente d´accordo con il boicottaggio dell´Egitto, sostenuto dall´Ism e dal Forum Palestina». In Egitto, prosegue Vattimo, «c´è un regime poliziesco, che reprime e censura non soltanto gli intellettuali, ma l´intera popolazione. È giusto che lo si contesti, come si è fatto nel 2008 nei confronti di Israele. Pertanto do la mia adesione a una campagna con cui si vuole boicottare, pacificamente, la presenza egiziana alla manifestazione di maggio». È un po´ singolare, però, fa notare ancora il filosofo, «che ormai la Fiera del Libro scelga in modo sistematico Paesi ospiti in cui i diritti, la democrazia, sono negati. Se fosse ancora vivo il dittatore Bokassa, a questo punto, potrebbe aspirare anche lui a un invito al Lingotto?».La provocazione di Vattimo, la mobilitazione antiEgitto e le dichiarazioni di Alfredo Tradardi, esponente di rilievo dell´Ism, sulla «ennesima fiera delle vanità», non sembrano, almeno per ora, scuotere più di tanto i promotori della rassegna libraria di Torino. Anche perché le polemiche del 2008, tutto sommato, non fecero altro che accrescere la visibilità mediatica di Librolandia, che finì addirittura sulle pagine del New York Times. Rolando Picchioni, presidente della Fondazione per il libro, la musica e la cultura, che genera il salone, vorrebbe non commentare. Questa mattina, d´altronde, viene presentato ufficialmente il programma dell´edizione che aprirà i battenti il 14 maggio. Poi, però, qualcosa dice: «Non capisco queste proteste. Abbiamo accolto alcune delle loro richieste. E, infatti, alla Fiera abbiamo invitato gli intellettuali palestinesi e uno storico come Ilan Pappe, un israeliano che non esita ad accusare il governo del suo Paese di pulizia etnica della Palestina. Che cosa vogliono di più?». Certo. L´Egitto, tuttavia, qualche problema ce l´ha, no? Picchioni la prende larga: «Ma non possiamo fare mica l´esame del sangue a ogni nazione! Quante vere democrazie si salverebbero, allora?».

Repubblica 15.4.09
Che cosa si sogna nella pancia della mamma
In quelle scariche elettriche, prodotte dal cervello, non ci sono immagini La scoperta apre la strada a futuri studi neurologici
di Cristina Nadotti


Alcuni scienziati tedeschi sono riusciti a fare un elettroencefalogramma a un feto di pecora di 106 giorni Così è stata registrata un´attività cerebrale che, benché immatura, comprende cicli di sonno in fase onirica

Non c´è ancora il movimento rapido degli occhi, rivelatore di quel sonno profondo in cui la mente si abbandona a immagini fantastiche, voli sopra la città o incubi orrendi. Eppure una scarica elettrica ha fatto dire agli scienziati che il sogno è una delle prime attività che si sviluppano nel cervello. Che si fosse in grado di sognare ancor prima di nascere, la scienza l´aveva accertato proprio grazie al rilevamento della fase Rem del sonno, quella del "rapid eye movement", in feti di sette mesi. In questo stadio di sviluppo, il feto è addormentato per la maggior parte del tempo e la sua attività cerebrale alterna cicli regolari di fase Rem e non Rem, proprio come negli adulti.
Poco di più si sapeva su ciò che nel cervello accade prima, perché la misurazione diretta dell´attività cerebrale di un feto umano appariva impossibile. Elettroencefalogrammi eseguiti su neonati di cinque mesi hanno mostrato la comparsa del sonno profondo, ma tali esami sono comunque giudicati difficili dal punto di vista tecnico e pieni di errori. I neuroscienziati si interrogano perciò se prima di 20 settimane il cervello abbia cicli di sonno o sia inattivo. Dare una risposta a tale quesito non significa solo confermare un´ipotesi che scienze quali psicoanalisi e psicologia, attraverso lo studio dei sogni, hanno già avanzato, ma trovare i mezzi per studiare lo sviluppo del cervello e individuarne i momenti più importanti, quelli in cui possono avere origine patologie dell´età adulta.
Per entrare nel cervello di un feto a uno stadio ancora immaturo un gruppo di neuroscienziati della Friedrich Schiller University di Jena, in Germania, ha pensato di osservare cosa accade in un animale con uno sviluppo fetale simile a quello umano. La scelta è caduta sulla pecora, i cui piccoli sono di solito uno o, al massimo, due e i cui tempi di crescita sono molto simili ai nostri, ma nell´arco di 150 giorni invece che 280. L´esperimento poteva contare su certezze già acquisite sulla somiglianza tra sonno animale e sonno umano, poiché nei mammiferi la proporzione di fasi Rem e non Rem riflette, come negli umani, l´età, lo stile di vita e la maturità alla nascita.
I neuroscienziati sono riusciti a fare un elettroencefalogramma a un feto di pecora di appena 106 giorni e l´attività cerebrale registrata ha confermato che, seppure ancora immatura, questa comprende cicli di sonno simili a quelli delle età successive, sebbene più brevi. In un feto più sviluppato i cicli tra sonno Rem e non Rem fluttuano tra i 20 e i 40 minuti, mentre in quello di 106 giorni si è scoperta una durata compresa tra i 5 e i 10 minuti, con un lento cambiamento mano a mano che prosegue lo sviluppo. Non è facile immaginare che cosa il feto percepisca durante questi primi sogni, almeno non nei termini in cui noi lo concepiamo da adulti. Sono sensazioni più che immagini, impulsi elettrici di attività neuronali, come se in qualche modo il cervello si stesse allenando a operazioni più complesse, come un´orchestra che accorda gli strumenti e prova qualche nota prima di arrivare all´esecuzione della sinfonia. Gli scienziati sono tuttavia esaltati dalla scoperta di un´attività neuronale così precoce, un punto di osservazione essenziale per scorgere i primi passi dell´organo più complesso e ancora più sconosciuto del nostro corpo.

Liberazione 15.4.09
Gruppi di supporto ai terremotati ma anche ai soccorritori. «Bisogna parlare e non isolarsi»
«Il terremoto è dentro di noi»
Psicologi al lavoro tra le tende
di Checchino Antonini


«Il terremoto è dentro di noi», dice a Liberazione Francesca Romana Martini, maestra delle elementari di 42 anni e 2 figli, dopo otto notti passate in macchina a scrutare i rumori della terra, a vibrare con lo sciame sismico. Poco prima di mezzanotte un'altra schìcchera, lunga e potente stavolta, a segnalare che non è ancora finito lo stillicidio di scosse.

L'Aquila - nostro inviato. L'emergenza che si dilata. Nei comuni della Marsica, del Cicolano, della Valle Peligna, dell'Altopiano delle Rocche - i meno danneggiati - chi aveva trovato il coraggio di tornare a casa deve fuggire ancora verso baracche, automobili e tende. L'Aquila è la città più fredda d'Italia, la pioggia si impasta con il brecciolino su cui sono state issate le tende. Dopo le giornate di pasqua, con il loro carico di affetti festivi, le tendopoli ripiombano in un'atmosfera plumbea. Di fronte a una tenda verde a Piazza d'Armi, 1300 abitanti, un cartello avverte: "Supporto psicologico, colloquio in corso, non disturbare". «Quel boato è ormai dentro tutti», conferma Carla Pompilii, 34 anni, teramana, psicoterapeuta della Pea, l'associazione regionale di psicologia d'emergenza. Sono decine di professionisti che si formano per agire da volontari nelle catastrofi. Per la giovane associazione, il battesimo del fuoco è cominciato alle prime luci dell'alba del 6 aprile. Sono disseminati per i campi per aiutare ad affrontare le reazioni al trauma. «Alcune possono presentarsi anche mesi dopo», specifica la collega pescarese, Valentina D'Ascanio.
Si chiama Disturbo post-traumatico da stress, in gergo Dpts. Lo stesso che perseguita chi sopravvive a una guerra o a uno stupro. Su un volantino che circola negli accampamenti c'è l'elenco impressionante dei sintomi: ansia, paura per sé o per i propri cari, tristezza, colpevolezza per essere sopravvissuti, vergogna della propria vulnerabilità, stanchezza, insonnia, incubi, affaticamento mentale, palpitazioni, vertigini, tremori, diarrea, mal di testa, disfunzioni sessuali o del ciclo mestruale, costrizioni al petto e alla gola, tensioni muscolari, pensieri invadenti ricorrenti. «Parlarne può aiutare, non bisogna isolarsi», spiegano alla tenda verde e dice anche Vincenzo Irace, funzionario dei vigili del fuoco della squadra di intervento rapido per il supporto psicologico dei soccorritori, mentre opera alla Ulc, unità locale di comando, della Fontana Luminosa, alle porte del centro storico. E' qui che i cittadini si mettono in contatto per procedere al recupero degli effetti personali. Centinaia di interventi al giorno assieme a persone che hanno perduto tutto o quasi tutto e devono rivedere le rovine della propria dimora. «Non tutti hanno il coraggio di farlo, e questo è uno dei problemi», continua Pompilii. «La terra è il nostro punto fermo e invece trema». Ecco l'inizio della fine del mondo. Con la città sgretolata, nel territorio sconnesso si «disperdono identità e radici», aggiunge D'Ascanio. Ogni giorno, dalle tendopoli ai margini del centro si assiste allo skyline deformato della città. Carla e Valentina hanno incontrato bambini ammutoliti per giorni, molti fanno la pipì a letto, hanno incubi. «Fondamentale - dicono - il gran daffare dei clown dottori e le iniziative che permettono loro di recuperare una dimensione ludica. Devono giocare, devono disegnare». E' aperto il dibattito sull'utilità di una tempestiva riapertura delle scuole. C'è chi sostiene che potrebbe essere fonte di stress e improduttività per i fanciulli che hanno subito profondi cambiamenti nella realtà personale, per i luoghi affettivi distrutti, per le persone scomparse, per il tempo interiore che ora ha una scansione diversa.
Anche per i grandi è necessario «condividere - intervene Irace - non sentirsi unici, non isolarsi».
E poi ci sono le problematiche di ambientazione, la gestione dei conflitti in questi giganteschi condomini blu, il colore delle tende della protezione civile: «è difficile l'accettazione della perdita dei propri spazi - raccontano le psicologhe - sono più facili le reazioni aggressive ma, in qualche modo, la rabbia è una reazione sana. C'è chi ha difficoltà ad accettare, per la prima volta nella sua vita, vestiti dalla Caritas e allora dobbiamo intervenire per fornire un quadro della straordinarietà dell'evento». E' un lavoro di totale condivisione con gli sfollati. I turni non hanno soluzione di continuità, gli psicologi dormono nei campi. Agli incontri di gruppo si alternano i colloqui individuali e i gruppi con i soccorritori perché «è fondamentale elaborare quello che si vive. Chi ha tirato fuori i corpi dalle macerie deve poter tirare fuori il proprio vissuto».
Il gruppo di supporto psicologico dei vigili del fuoco si focalizza proprio su questo aspetto: «I pompieri aquilani vivono la duplice condizione di soccorritori e terremotati, a volte vivono il conflitto con l'assenza dalle loro famiglie - spiega Irace - il supporto è tra pari, il rapporto orizzontale, scompaiono i gradi, il "lei"». Si comincia al cambio turno delle 8 con l'incontro con le squadre impegnate negli scavi, si pranza e si cena insieme perché così «si fa famiglia». Ascolto e dialogo servono alla ricostruzione del vissuto professionale, all'emersione di un livello di consapevolezza, «di coscienza viva». E il supporto psicologico è stato fondamentale per rintracciare uno studente greco ritenuto disperso dopo la grande scossa. Irace racconta la storia di Giovanni che la notte della domenica delle Palme era restato a dormire dalla ragazza, vicino alla facoltà di Lettere. Dopo il crollo aveva chiamato aiuto e, dai piani sottostanti s'era sentito rispondere di stare tranquillo che sarebbero arrivati i soccorsi. Anche la "voce" era intrappolata. Poi la seconda scossa, un nuovo crollo. Giovanni e la fidanzata ce la fanno arrampicandosi lungo le tubature. Ma quella voce rassicurante gli era restata dentro, come un tarlo, in bilico tra dubbio e certezza. Dopo alcuni giorni Giovanni verrà aiutato nel recupero della memoria e guiderà i vigili del fuoco nel lavoro di scavo. Le tracce corrispondevano alla ricostruzione, c'era una tovaglia insanguinata, il pavimento era sprofondato ma non fu trovato nessuno. Più tardi si saprà che quello studente greco era salvo all'ospedale di Avezzano.
E ora, senza città, né casa, né lavoro? «Si ricomincia da capo - dice Carla Pompilii - se hai dei pezzetti te li porti dietro, si ricomincia da sé. Attivarsi significa già ricominciare».

Liberazione Lettere 15.4.09
L'Aquila è il nuovo Vajont

Caro Dino, invece di guardare al futuro basterebbe dare un'occhiata al passato: paghiamo l'irresponsabilità di aver conferito deleghe in bianco a una classe politica miope e avida, incomprensibilmente zelante quando si tratta di legiferare sull'embrione, sul sondino o sulla prescrizione dei reati, ma totalmente incurante delle reali esigenze dei cittadini; interessata più alla stabilità del bipartitismo che alla stabilità degli edifici, affidata esclusivamente alle benedizioni dei vescovi. Sono spariti i temi che una volta infiammavano il dibattito politico e che riguardavano i diritti che ogni cittadino ha di vivere con dignità, compreso il diritto di non morire come un cane sotto la propria casa, per trovarci in mano quel pugno di mosche che è la politica spicciola della new town, la libertà senza lacciuoli per le imprese di saccheggiare le vite degli uomini in favore del profitto: la malattia come cura della malattia. L'Aquila è il nuovo Vajont, la nuova Eternit, il compendio di mesi di morti sul lavoro. Evidentemente in questa fabbrica di stragi che è diventata l'Italia torna più utile piangere i morti che rallegrarsi dei vivi.
Roberto Martina via e-mail