venerdì 17 aprile 2009

Repubblica 17.4.09
Lo psicologo sotto la tenda
Paure, incubi, depressione. Sono migliaia gli sfollati che chiedono aiuto. Perché la ricostruzione più difficile è quella dell’anima
di Michele Smargiassi


L´AQUILA. Le viene fuori di getto: «Ma io, dottoressa, posso ancora sgridare le mie tre figlie?». Anche S. s´è presentata al centro d´ascolto, come tanti, apparentemente a chiedere solo qualcosa per dormire. «Non chiudo occhio da giorni, mi aiuti»: lo psicologo da campo se lo sente ripetere decine di volte. Invece S. d´un tratto ha deciso di liberarsi dal suo tormento più segreto: «Non riesco più a fare la mamma. Non so più cos´è giusto e cos´è sbagliato. Mi spieghi dottoressa: le regole di prima valgono ancora? Anche dopo? Anche qui?».
Un terremoto non fa crollare solo i soffitti di calce. Incrina i muri portanti di un´identità. Scuote le fondamenta dell´Io. Spacca in due lo schema mentale che dà ordine a ogni vita: prima e dopo, là e qui. In mezzo: una faglia, un crepaccio di cui è difficile intravedere il fondo. La desolazione di S., sfollata dal suo ruolo materno, potremmo accontentarci di spiegarla con il senso di impotenza e anche di colpa (immotivato ma fortissimo) per non aver saputo proteggere le bambine dalla perdita di ogni sicurezza. Ma gli psicologi delle catastrofi sanno di dover cercare più a fondo. Nei sedimenti ancestrali della psiche umana. Emanuela Torbidoni, che ha lasciato il suo studio a Teramo per farsi volontaria dell´ascolto, suggerisce un indizio: «La terra è un simbolo materno». Se la Grande Madre impazzisce e si ribella ai suoi figli, come potranno le piccole madri resistere salde nel loro ruolo?
"Posso ancora sgridare le mie tre figlie?". La donna che non sa più fare la mamma è una delle migliaia di persone affette da ansia e senso d´impotenza, dopo il sisma in Abruzzo. La ricostruzione più difficile, quella dello spirito di una popolazione traumatizzata, è affidata a sessanta psicologi dell´emergenza. Raccolgono le confessioni degli sfollati e offrono loro assistenza. "Un disastro naturale è peggio della guerra. Non c´è un nemico da incolpare"
Tutti parlano all´imperfetto. "Io ero un´impiegata" Si sentono parte di una massa ferita L´identità è rimasta sotto le macerie
Le famiglie si stringono: nessuno riesce a lasciare da soli i propri cari I divorziati si riavvicinano, ma non durerà a lungo
Si piange senza vergogna. Anzi, le lacrime sono liberatorie. E chi racconta non bada più al rispetto della privacy
Nella piccola "città di tela" di Poggio di Roio nessuno ha ancora visto il paese distrutto "Sarebbe uno shock troppo forte"
La psicologia dell´emergenza è giovane ma ha una storia e una letteratura ormai consolidate. Però forse è qui, nelle tendopoli d´Abruzzo, che per la prima volta si è fatta esperimento di massa. Una sessantina gli psicologi costantemente sul campo, organizzati da associazioni professionali specializzate: sono abbastanza per coprire quasi tutti i cento campi degli sfollati. In quello più grande, piazza d´Armi all´Aquila, le tende del pronto soccorso dell´anima sono addirittura tre: una per gli incontri di gruppo, una per i colloqui individuali e una per lo scarico di tensione dei volontari, perché anche tirar fuori cadaveri dalle macerie lascia cicatrici interiori. Le sottili pareti di tela verde non fanno gran schermo alla privacy, filtrano brandelli di confessioni, «non so cosa mi succede, ero così energico», «non riesco a consolare mia madre». Non importa, tanto tutti, nel cuore, hanno le stesse cose. Il pudore e la riservatezza sono cose del prima. Nei debriefing collettivi, per dirla con Federica, psicologa di Novara, «si apre il rubinetto» davanti agli sconosciuti, si racconta ancora una volta quella notte. Un cieco parla del boato. Un vedente preferirebbe non aver visto. Un uomo descrive per dieci minuti buoni una sola cosa, una lampada, statuetta di porcellana e sfera di cristallo, dono di matrimonio, «fragile, bellissima» finita in briciole. «Una vita condensata in un oggetto», traduce Oriana Broccolini di Pea, associazione abruzzese di psicologi d´emergenza. Si piange senza vergogna, a torrenti. Lacrime liberatorie, benvenute, perché i volti che appaiono sulla soglia delle tende spesso sono come le facciate delle case abbandonate: mostrano poche crepe, ma dietro magari è crollato tutto. A sorpresa, giungono risate dalla tenda 56: vere, gioiose, cristalline. Ne sbuca un medico-clown, Professor Pastrocchio, naso rosso a pallina e scarpone smisurate, è uno psicologo anche lui, a suo modo: «La signora mi ha detto: di notte bene o male dormi, ma i giorni non finiscono mai».
Ansia, crisi di panico sono solo la superficie del nulla che incombe. «Come ti senti?», è la domanda d´approccio. «Vuoto», è la risposta standard. Nel vuoto, gli echi più brutti della tua vita risuonano più forte. «Mi sento come quando divorziai da mio marito»: questa è una signora matura, storia vecchia di vent´anni, eppure rieccola qui come una scossa del quinto grado. «Non faccio altro che pensare a mio padre»: questo invece è un ragazzo ormai grande, allevato da una ragazza-madre, papà non l´ha mai conosciuto, ma ecco che gli appare dalle crepe del muro. «Sono la passività forzata e la vita sospesa che resuscitano fantasmi del passato», spiega Antonio Mancinella che per la Società italiana di psicologia dell´emergenza accudisce gli sfollati degli alberghi al mare, situazione logisticamente felice e interiormente rischiosissima. Nella saletta dell´hotel Don Juan di Giulianova riceve ogni pomeriggio persone che parlano di sé all´imperfetto: «Io ero un ingegnere», «io ero un´impiegata», perché ora si sentono rifuse in massa nell´indifferenziata categoria dei terremotati. «Ci hanno anche dato la maglietta della Protezione civile�». L´identità di un tempo è sotto le macerie. Quella futura, chissà. Nel presente, nulla. Dieci giorni dopo la grande paura, anche l´euforia degli abbracci è esaurita. I teorici conoscono bene la progressione delle fasi post-cataclisma: l´eroismo sovrumano delle prime ore, l´esplosione affettiva del subito-dopo, poi la delusione del tempo sospeso. L´evaporazione dello stress da lavoro lascia campo libero all´esplosione degli affetti. Le famiglie si stringono nelle tende. «Il mio ufficio ha riaperto ma non posso andare a lavorare, ho paura a lasciarli qui»: un padre. Contatto visivo obbligatorio. A vedere i muri della casa vecchia si va in processione familiare. Raccontano di coppie divorziate che hanno chiesto una tenda insieme. Ma anche questo finirà. Un terremoto non ricuce mai. La psicologa Lucrezia: «Ricominciano le liti. Il padre preferisce l´albergo, la madre restare vicino alla casa. I figli grandi vogliono cambiare città, ricominciare da zero, i genitori li rimproverano soffrendo: allora tutto quello che abbiamo costruito per voi?».
Chi non ha un passato da perdere o da ritrovare, invece, soffre di più. I bambini. Due giorni fa, chiamata d´urgenza da un hotel di Roseto: «È scoppiato il panico fra i ragazzini», pianti, ansie, una crisi collettiva. Il terremoto replicato con grida, rumori, tremori, da chi non sa tradurlo in parole. Il vuoto è contagioso. Per quelli appena più grandicelli è anche un vuoto cibernetico: i computer per Messenger e Facebook sono sotto i mattoni, e il mondo s´è di colpo rimpicciolito. «Ho perso tutti gli amici», ragazzina in lacrime, lo psicologo Antonio le ha trovato un Internet point. Ma fosse sempre così facile. «È lo stress da campo ora il nemico più insidioso», spiega Fabio Sbattella, presidente di Psicologi dei Popoli: in quello affidato alle loro cure, Monticchio, il primo impegno è stato ridare nome ai luoghi e misura al tempo. Orologi e calendari appesi nei locali collettivi. Cartelli con i nomi dei camminamenti fra le tende, «Piazza Speranza», «Via Ricostruzione». Claudia e Marco ci passeggiano con le loro casacche gialle e la scritta "psicologo" sul petto, sicuri che qualcuno li fermerà, infatti succede a ogni passo: c´è la biondina che domani torna a lavorare alle Poste e anche questo le dà ansia, «mi sembra di essere tornata bambina, ho paura di non saper più fare nulla». C´è la madre di famiglia che tiene insieme a fatica i pezzi del clan, la sorella è appena «scappata via, io invece resto qui», ma ci sta male. C´è l´operaio robusto che si rode per il rimorso di aver stuzzicato il destino: «Stavamo a giocà col terremoto, ci scherzavamo�». C´è l´infermiera pensionata già in sindrome da abbandono: «Come faremo quando ve ne andrete?».
«Qualcuno dovrà continuare, faremo i turni», immagina Marilena Esposito, veterana della psicologia d´emergenza: ha fatto il Pakistan, l´Iraq, lo Tsunami e ora è alle prese col microcosmo di Roio Poggio, forse la più piccola delle cittadelle blu senza nome che punteggiano la valle, issata dopo decine di tornanti fuori dal clamore delle telecamere. «Il terremoto è peggio della guerra. Non c´è un nemico a cui dare la colpa. Non c´è un senso». Il paese distrutto è lì sotto, basterebbe affacciarsi oltre quel bordo, ma un altro del team, Maurizio Agnesi, ha fatto sbarrare il sentiero: «Nessuno ha ancora visto cos´è rimasto, lo shock può essere troppo». Ma nella Roio di tela e brande nessuno ha il coraggio di fare quei due tornanti. Solo una settantenne, solo lei ha voluto farsi accompagnare a vedere. Ha vacillato. Ha resistito. Poi ha deciso cosa fare del suo passato. «Tenga questo», ha allungato a Marilena un ciondolino a forma di animaletto, «è l´unica cosa che mi è rimasta di quel che avevo. Gliela regalo», ed è tornata nel limbo della sua irreale, nuova casa blu.

Repubblica 17.4.09
Antonio Picano, dell´Associazione Strade 360
"Serve una task force contro la depressione"


Una task force di psichiatri per curare la depressione post-terremoto, una struttura specifica di professionisti specializzati nella cura dei traumi provocati da catastrofi. È la proposta di Antonio Picano, psichiatra, presidente dell´Associazione Strade 360, che si occupa da anni di organizzare strutture pubbliche per il trattamento della depressione.
Professore, di che si tratta?
«È un progetto che verrà presentato alla Protezione civile, da trasformare in un comitato permanente che gestisce eventi di questo genere. Il trattamento della depressione dopo un terremoto va affrontato in modo scientifico, non può essere una cosa affidata al volontariato, ci vogliono professionisti».
Quante persone dovranno essere seguite?
«Possiamo ipotizzare che ci saranno circa 10 mila persone da trattare e dobbiamo prevedere un periodo di lavoro di almeno tre anni. La depressione dopo una catastrofe è una branchia della psichiatria, investire sulla sua cura è una cosa strategica per lo Stato, è fondamentale per il recupero di queste persone e quindi per il recupero di tutta l´area colpita».
La depressione ha un costo sociale.
«Sì, e bisogna evitare che la situazione si degradi, il terremoto ha colpito un capoluogo, tutta la classe dirigente è segnata, bisogna agire in modo professionale non basta la buona volontà».
Dopo le perdite, i lutti, quale pericolo rischiano ora i sopravvissuti?
«L´improduttività, l´isolamento, la noia della vita nelle tendopoli possono destabilizzare ulteriormente. Dopo un evento di questo genere c´è anche il rischio di suicidio. Alcuni tentativi, nelle aree terremotate d´Abruzzo, ci sono già stati».
(m. c.)

Repubblica 17.4.09
Parigi, tutte le case del Vaticano anche Kouchner tra gli inquilini
Affitti bassi per molti politici. E scoppia la polemica
Imbarazzo per il ministro degli Esteri. Che replica: "Contratto vecchio di 35 anni"
di Anais Ginori


PARIGI - In un lussuoso appartamento di rue Guynemer, nel cuore di Parigi, abitano Bernard Kouchner e sua moglie, la giornalista Christine Ockrent. Il palazzo ottocentesco ha una splendida vista sui giardini del Luxembourg. «Non vedo dove sia il problema» ha commentato ieri il ministro degli Esteri.
L´indirizzo del titolare della diplomazia non avrebbe in sé nessun interesse se non fosse per il padrone di casa che ogni mese riscuote l´affitto. Kouchner è infatti uno dei tanti inquilini eccellenti del Vaticano. Certo è in buona compagnia. Un tempo, nello stesso immobile di Kouchner, viveva François Mitterrand. E a pochi passi, in un altro palazzo della Santa Sede, in boulevard Montparnasse, ha abitato l´attuale ministro della Cultura, Christine Albanel.
"Le ricchezze nascoste della Chiesa", titolava ieri in prima pagina Le Parisien con una documentata inchiesta. Nella capitale francese, ha rivelato il giornale, il Vaticano gestisce una decina di immobili di grande valore attraverso una sua controllata, la Sopridex. Albanel ha confermato la notizia, precisando però che ha lasciato l´appartamento nel 2006: 85 metri quadrati a 1.700 euro al mese. «Un prezzo di mercato» ha commentato il ministro della Cultura. Kouchner non ha voluto invece rivelare dettagli sulla casa né dire quanto paga. Il suo portavoce ha fatto sapere che il contratto è vecchio di 35 anni, quando era solo un «french doctor», semplice militante di organizzazioni umanitarie. Il nuovo incarico di governo rischia però di creare qualche imbarazzo. Il Quai d´Orsay è interlocutore costante della Santa Sede. Negli ultimi tempi non sono mancati i punti di disaccordo: Kouchner ha duramente criticato le frasi di Papa Benedetto XVI sui preservativi.
Ci sarebbero, secondo Le Parisien, altri politici e personalità importanti che abitano in case del Vaticano. Ma il quotidiano non è stato in grado di fornirne i nomi. Ancora più ricco sarebbe il patrimonio immobiliare della Chiesa francese. Secondo Jean-Michel Coulot, vice segretario generale alla Conferenza episcopale, gli affitti a Parigi equivalgono a un reddito variabile fra i 10 e i 20 milioni di euro. «Smettiamola con queste polemiche - ha replicato Coulot - La Chiesa è povera, abbiamo più spese che entrate». I redditi immobiliari, ha spiegato ancora il responsabile, sono infatti destinati alla manutenzione di scuole e chiese, che secondo la legge del 1905 sono beni dello Stato. Eppure la Chiesa francese ha comprato due anni fa, nell´elegante settimo arrondissement, altri 5.000 metri quadri sulla avenue de Breteuil, per 36 milioni di euro. Le «Piccole suore dei poveri» hanno invece venduto il loro ospizio e i terreni adiacenti in boulevard Murat, nel sedicesimo arrondissement, alla società Cogedim. Prezzo della transazione: 37 milioni di euro. Qui sorgeranno 180 appartamenti, 80 alloggi popolari, una casa di riposo e un giardino pubblico. Sarà il più grande cantiere immobiliare dentro Parigi dei prossimi anni. Con il ricavato, hanno detto le suore, finanzieranno le loro missioni nel mondo.

Repubblica 17.4.09
Centro psichiatrico degli orrori, arrestato direttore
di Benedetta Pintus


Parma, secondo l´accusa i ragazzi ospitati nella struttura venivano maltrattati e sedati con la forza a scopo punitivo

PARMA - Maltrattamenti e somministrazione forzata di medicinali ad adolescenti con disturbi psichiatrici, anche a scopo punitivo. È questa l´accusa con cui da due giorni è agli arresti domiciliari Ron Shmueli, direttore della comunità terapeutica Cavanà di Pellegrino Parmense, in provincia di Parma, dove sono ospitati ragazzi dai 14 ai 19 anni. Sette dei suoi collaboratori sono stati iscritti nel registro degli indagati.
Gli accertamenti dei Nas sono iniziati la scorsa estate dopo che un ex educatore del centro, Lorenzo Vecchi, aveva denunciato sul sito di Repubblica Parma la sedazione forzata dei ragazzi. «All´interno del Cavanà - si legge nell´esposto poi presentato in Procura - si ricorre alla fiala contro il consenso dell´utente in maniera coercitiva, anche quando il ragazzo si rifiuta di obbedire agli ordini impartiti o si permette di contestarli». La "fiala" è un mix di psicofarmaci iniettati per endovena che «nello spazio di pochi minuti causa una profonda debolezza e sonnolenza». In seguito a queste accuse Shmueli si era affrettato a screditare la figura di Lorenzo Vecchi, definendo le sue dichiarazioni «pura fantasia morbosa».
A gennaio il Cavanà è tornato a far parlare di sé dopo la fuga di uno dei suoi ospiti, un giovane appena diventato maggiorenne: «Mi hanno dato dei farmaci contro la mia volontà». I carabinieri hanno accertato che in certe circostanze, anche in assenza del medico responsabile, venivano eseguite delle terapie contro la volontà degli ospiti. «Sono tranquillo», ha commentato il direttore dopo la notizia dell´arresto. «Non sapevo di essere indagato e nemmeno ho ricevuto un avviso di garanzia. Di certo questo provvedimento cautelare mi appare esagerato ed eclatante».

l’Unità 17.4.09
Consiglio d’Europa: l’Italia criminalizza gli immigrati
di Maristella Iervasi


Il rapporto del commissario per i diritti umani Thomas Hammarberg: «Rivedere le leggi»
Critiche alle politiche per i Rom, ddl sicurezza ed espulsioni. «Condannare le intolleranze»
Laura Boldrini (Unhcr): I 300 morti in mare meritavano la stessa
solidarietà dell’Abruzzo

In Italia «c’è una tendenza al razzismo e alla xenofobia». Dal Consiglio europeo un richiamo alle politiche migratorie del governo, che rimanda al mittente le critiche. Maroni a Tunisi ma gli sbarchi non cessano.

Diritti umani ignorati, leggi ingiuste e draconiane, che criminalizzano l’immigrazione irregolare. L’Italia è di nuovo sotto accusa per le politiche sui i Rom, le misure legislative contenute nel ddl sicurezza (la contestatissima norma sui medici che possono denunciare i clandestini che si rivolgono al sistema sanitario) e le espulsioni facili degli stranieri in paesi dove «è accertato che ricorrono alla tortura». Un richiamo pesante per il governo Berlusconi, che arriva dal Consiglio d’europa - l’organismo internazionale che non fa parte dell’Ue e che ha tra i suoi compiti la tutela dei diritti dell’uomo - proprio nel giorno in cui il ministro dell’Interno Roberto Maroni è in Tunisia per accelerare i rimpatri dei migranti sbarcati sulle coste siciliane. Sbarchi che sono senza fine: solo ieri 3 imbarcazioni a Lampedusa per un totale di 300 persone.
Tendenza al razzismo
«Le autorità italiane dovrebbero condannare con più fermezza tutte le manifestazioni di razzismo o di intolleranza, ed assicurare un’efficace attuazione della legislazione anti-discriminazione», ha scritto nero su bianco Thomas Hammarberg, commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, nel rapporto sul Belpaese dopo una visita nel gennaio scorso. «Nonostante siano stati compiuti degli sforzi - precisa Hammarberg - siamo preoccupati per la tendenza al razzismo e all’xenofobia in Italia che sfocia in atti estremamente violenti, rivolti principalmente contro immigrati, Rom e Sinti o cittadini italiani con origini straniere, anche in ambito sportivo».
La replica
Il governo rimanda al mittente la richieste di cambiare le misure legate alla politica migratoria: «sono essenziali - riporta l’agenzia Ansa - per una efficacia dei flussi migratori». Secondo l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali, organismo del ministero delle Pari opportunità, inoltre, sono stati elaborati piani di azione che prevedono interventi strutturali a favore delle comunità Rom e Sinti. Secondo Hammarberg, invece, l’Italia dovrebbe «condannare con maggiore forza» ogni forma di razzismo applicando «pene più severe» per i reati legati a questo fenomeno, procedere a una revisione di alcune misure riguardanti l’immigrazione e aumentare la rappresentanza di gruppi etnici nella polizia.
Rom e Sinti
«Vi è un persistente clima di intolleranza contro di loro - scrive Hammarberg - e le loro condizioni di vita sono ancora inaccettabili in numerosi insediamenti da me visitati. Esistono esempi di buone pratiche che dovrebbero essere estese». Preoccupazione anche anche per il censimento nei campi nomadi.
Ddl sicurezza
«Criminalizzare i migranti è una misura sproporzionata che rischia di provocare ulteriori tendenze discriminatorie e xenofobia nel paese»: il riferimento è alla norma introdotta al Senato nel provvedimento sulla sicurezza che consente al personale medico di denunciare i migranti irregolari.
Espulsioni e terrorismo
Sul caso dei ritorni forzati in Tunisia imposti per motivi di sicurezza, Hammarber lamenta: «L’Italia non ha provveduto ad applicare le misure provvisorie e le vincolanti richieste della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo volte a fermare le espulsioni, compromettendo l’efficacia del sistema europeo».
Le reazioni
Livia Turco, Pd: «Aumento di clandestini e città insicure. Maroni dovrebbe dimettersi». Filippo Miraglia, Arci: «Il rapporto è una bocciatura per l’Italia, il giudizio europeo è condivisibile».

l’Unità 17.4.09
L’India vota
La leader degli Intoccabili sogna l’exploit
di Gabriel Bertinetto


Da un anno Mayawati governa l’Uttar Pradesh, il più popoloso Stato dell’Unione indiana. Fra un mese potrebbe dirigere l’intero Paese. L’India ha già avuto una donna premier. Mai però sinora un’«intoccabile».

La rivincita. Mayawati Kumari potrebbe diventare l’ago della bilancia per il nuovo governo
La maratona elettorale. Si svolgerà in quattro tornate e passerà un mese per avere i risultati

Tutelati dalle leggi dello Stato. Disprezzati dal comune pregiudizio. Vittime di discriminazioni sociali e di violenze, tollerate nei fatti quanto estranee ai valori fondanti della democrazia indiana. Sono i dalit, gli «intoccabili», i fuoricasta. Il mahatma Gandhi voleva sollevarli dal fango della loro atavica esclusione. Li chiamava «harijan» (paria), cioè «figli di Dio». Una bella parola, cui tuttora corrisponde spesso purtroppo una condizione abominevole. Sono loro i mestieri più sporchi: pulire le latrine, rimuovere le carcasse, maneggiare i concimi più luridi. Esseri impuri, da tenere a distanza, ai quali vietare l’accesso ai templi come ai ristoranti. Intoccabili, appunto.
Per 170 milioni di indiani, il 16% rispetto alla popolazione complessiva, ma quasi un quarto sul totale dei cittadini di fede indù, è vicino forse il momento della rivincita. Una di loro potrebbe ricevere talmente tanti voti da diventare l’ago della bilancia, quando, fra un mese circa, si tireranno le fila della maratona elettorale iniziata ieri e destinata a proseguire attraverso quattro successive tappe sino al 16 maggio prossimo. Si chiama Mayawati Kumari, 53 anni, e dirige il «Bahujan Samaj» («Partito della maggioranza», Bsp).
Poco più di un anno fa Maywati stravinse le elezioni nello Stato dell’Uttar Pradesh, diventandone primo ministro. Ed ora, confortata dalle previsioni di analisti e sondaggi, spera di replicare il successo su scala nazionale. Impensabile che possa scavalcare i due partiti maggiori, di governo e di opposizione, rispettivamente il «Congresso» ed il «Bharatiya Janata» (Bjp). Ma la probabile crescita nei consensi popolari, accompagnata al pronosticato calo dei due colossi, darebbe a Mayawati una tale forza contrattuale, da permetterle persino, si dice, di barattare il sostegno all’uno o all’altro con la poltrona di premier.
Un gran passo in avanti per l’intoccabile Mayawati. Da bambina andava a scuola scalza come tanti coetanei poveri della poverissima India. Abitava a Delhi con otto tra fratelli e sorelle che Ram Rati, la mamma, aveva avuto da Prabhu Das, un impiegato della compagnia telefonica statale. La democrazia indiana promuove il riscatto degli umili e cerca di contrastare il peso di tradizioni strumentalizzate per usi socialmente nefasti. Quote di impieghi pubblici ed iscrizioni scolastiche ed universitarie sono riservate ai fuoricasta ed ai membri delle caste più basse. Beneficiando di quei meccanismi di tutela, il padre aveva trovato un lavoro da colletto bianco, e grazie a quegli stessi meccanismi Mayawati conseguì un diploma in legge. Nel 1977 l’incontro con Kanshi Ram, fondatore del Bahujan Samaj, segnò una svolta nella sua vita proiettandola in politica.
INSOLITA ALLEANZA
Diversamente dal Congresso, che si è sempre rivolto ai connazionali con un messaggio interclassista intersecato con l’appello alla collaborazione fra le caste, il Bsp di Kanshi Ram si ispirava ad un’ideologia che mette al primo posto l’avanzamento delle caste inferiori, e soprattutto di coloro che sono addirittura considerati fuori dalla ripartizione in caste, i paria, così come di quel quasi venti per cento di cittadini che non si riconoscono nella religione di Brama Shiva e Vishnu: buddhisti, cristiani, musulmani. Eppure per ottenere nelle urne il trionfo che le consente di governare da oltre un anno in Uttar Pradesh, Mayawati ha dovuto varare un’inedita alleanza fra gli infimi scalini della scala sociale, naturale bacino elettorale del Bsp, e la casta superiore, quella dei bramini. L’esercito dei senzaterra delle campagne ha trovato nei gruppi dirigenti delle città sostegno nella lotta contro i proprietari terrieri delle caste intermedie.
L’Uttar Pradesh è il più popoloso Stato dell’Unione ma anche uno dei più poveri. Fra il 1999 ed il 2008 il prodotto lordo è cresciuto qui a ritmi inferiori al 5%, un’inezia rispetto alla media nazionale. Quasi metà del reddito proviene dall’agricoltura, e nei lavori dei campi sono impegnati tre quarti degli abitanti. Mayawati ed il Bahujan Samaj hanno trovato seguito nella sconfinata massa di braccianti e contadini senza terra. Hanno dato voce agli intoccabili indù, ai buddhisti emarginati, alle caste più basse. Che nelle zone rurali, assai più che nelle città, subiscono le conseguenze dell’emarginazione perpetrata dietro il paravento delle consuetudini e dei valori religiosi.
STIMATA SORELLA
L’Uttar Pradesh contribuisce massicciamente a rimpolpare le statistiche sugli atti di violenza commessi contro i dalit in India. Ogni anno vengono ufficialmente registrati nel Paese 110mila casi di omicidi, stupri, aggressioni ai danni dei fuoricasta. L’opinione comune è che la cifra sia in realtà molto più alta, perché tanti episodi non sono denunciati. Mayawati ha alzato la voce contro intolleranza ed abusi. Ha promosso iniziative legali contro funzionari disonesti e poliziotti infedeli. Non è uscita indenne a sua volta da pesanti accuse di corruzione e autoritarismo. Ha lanciato grandi opere pubbliche, ma non è riuscita per ora a ridurre in maniera evidente la disoccupazione. Il bilancio della sua azione di governo nell’Uttar Pradesh non è tutto positivo. Ma per molti intoccabili oggi è un raggio di luce nel buio. La chiamano «Behenji» (Stimata sorella). Ieri molti hanno probabilmente votato per lei e altri lo faranno nelle prossime tornate.

l’Unità 17.4.09
L’anno nero dell’editoria
Nel 2008 perdite più 100%
di Oscar De Biasi


Conti in rosso per il calo (talvolta crollo) della pubblicità e dei lettori
Anche per i giornalisi potrà sperare qualcosa a partire dal 2010
Situazione d’allarme per i giornali italiani: lettori in calo, pubblicità in calo, bilanci in rosso. Il presidente degli editori chiede interventi rapidi e la convocazione degli Stati generali dell’editoria. D’accordo la Fnsi.

Che la salute dei giornali fosse malferma lo si sapeva e lo dicevano i bilanci non certo brillanti di alcune delle testate più prestigiose e più ricche (di pubblicità) a cominciare da quelle del gruppo Corriere della Sera. La conferma, che peggiora le sensazioni, arriva dalla Fieg, Federazione italiana degli editori, che presenta il suo rapporto annuale, denunciando calo della pubblicità, diminuzione dei lettori e costi che gravano e la cui riduzione non è stata sufficiente a raggiungere la parità dei bilanci. Il biennio 2009-2010 sarà decisivo. Perciò «bisogna muoversi con urgenza e delineare un disegno coerente di intervento per restituire slancio al settore». La raccomandazione con il sapore dell’avvertenza intimidatoria, è degli editori, che hanno proposto rimedi urgenti: credito agevolato per accelerare il meccanismo produttivo; credito d'imposta su carta e investimenti per stimolare innovazioni di processo e prodotto; promozione della lettura in scuole e famiglie.
Anno orribile
Per il complesso delle società editrici di quotidiani nel 2008, quando la crisi ancora non aveva dispiegato i suoi terribili effetti, come ha spiegato il presidente Fieg Carlo Malinconico, si è rilevato un aumento delle perdite del 100% ed una contrazione degli utili del 30%. I numeri peggioreranno nel 2009, considerando che gli investimenti pubblicitari nei primi due mesi dell’anno sono diminuiti in media del 25%, con punte anche del 60% in giornali locali.
In media, ha spiegato ancora il presidente Fieg, il fatturato editoriale del 2008 ha fatto registrare un calo del 3,3% rispetto al 2007. La componente dei ricavi che ha mostrato segnali di maggiore debolezza è stata la pubblicità, calata nell'anno del 3,8%, con un trend che si è andato aggravando. Quanto ai ricavi da diffusione delle copie, la flessione media annua è stata del 2,8%.
Il primo commento alla relazione di Malinconico è stato di Franco Siddi, segretario della Federazione nazionale della stampa, che ha rivendicato il valore del nuovo contratto giornalistico:, «un perno per il sistema dell'editoria». Alle aziende Siddi ha chiesto più coraggio, condividendo l’appello per Stati Generali dell'editoria, occasione per definire un quadro organico di sistema che accompagni le trasformazioni e valorizzi la specificità dell'impresa editoriale e del lavoro giornalistico. Il sottosegretario Bonaiuti e il ministro Sacconi si sono detti disponbili.

l’Unità 17.4.09
Testamento biologico
Medici, pazienti e quell’ambigua alleanza
di Sergio Bartolommei


A proposito del Disegno di legge sul testamento biologico approvato in Senato si è mancato di rilevare un aspetto preliminare che svela il carattere ideologico dell’intero impianto. Riguarda il titolo stesso del DL: «Disposizioni in materia di alleanza terapeutica ecc. ecc». Forse non tutti sanno che l’“alleanza” di cui si parla è quella tra medico e paziente. La formula è accattivante, e a nessuno verrebbe in mente di contestarla: sarebbe come boicottare l’intesa, che si presume ovvia e naturale, tra due amici. Il ragionamento è tuttavia errato, e non solo perché tra amici “si bisticcia” e le intese si esauriscono.
In un certo senso si può dire che la bioetica contemporanea è nata dalla trasformazione radicale della relazione medico-paziente. Perno di questo cambiamento è stata la “rivoluzione” del “consenso informato”. Dalla lunga stagione ippocratica, contrassegnata dall’idea che il medico conosce più e meglio del paziente quale sia il vero bene di quest’ultimo, si è passati a vedere nella libertà di scelta del cittadino in fatto di salute e malattia il criterio di liceità degli atti medici. Il rifiuto delle cure, anche delle cure salvavita, è divenuta l’espressione più avanzata del “consenso” e dell’autonomia del paziente.
Ciò significa che la nozione di “alleanza terapeutica” non può essere usata come una nozione descrittiva. È una categoria morale frutto di una visione del rapporto medico-paziente secondo cui il secondo non può che affidarsi al primo e entrambi non possono che convergere su “soluzioni condivise”. Eppure oggi nelle relazioni sanitarie troviamo sì pazienti che continuano ad affidarsi ciecamente ai medici, ma anche altri che, sul piano morale, si affidano solo a se stessi e alle proprie idee, preferendo per esempio alla proposta di nuove terapie nessuna terapia, fino al sacrificio della vita. Ciò che il paziente vuole o non vuole per sé può anche non coincidere con l’orientamento del medico perché medico e paziente non formano una simbiosi con interessi logicamente convergenti.
“Alleanza terapeutica” è dunque il nuovo nome per ridare smalto al “vecchio” paternalismo medico. Intitolare ad essa una legge dello Stato rivela l’ispirazione illiberale del Disegno: volendo rendere indisponibile la vita agli individui, la si consegna alla tecnica e alla discrezionalità dei medici. Correggere questa impostazione avrebbe un doppio vantaggio. Non solo libera il paziente da uno stato di minorità nei confronti del medico. Libera anche i medici da una responsabilità tirannica, quella che il DL intenderebbe attribuire loro imponendogli l’obbligo di nutrire e idratare anche i pazienti che rifiutano questi trattamenti.
Docente di Bioetica, Università di Pisa, Membro della Consulta di Bioetica

Corriere della Sera 17.4.09
Funerali di Stato e laicità. I riti del lutto collettivo
Risponde Sergio Romano


Ricordo che l’articolo 3 della Costituzione della Repubblica italiana dice testualmente: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Le chiedo quindi: a chi spettava la decisione di far celebrare i funerali di Stato delle vittime del sisma dell’Aquila al cardinale Tarcisio Bertone? La decisione viola palesemente l’articolo 3, impedendo che tutti i cittadini possano sentirsi parimenti rappresentati come si conviene a uno Stato effettivamente laico. La scelta, al contrario, ne privilegia alcuni e ne discrimina molti altri. I funerali di Stato devono essere laici e, a seguito di questi, ogni famiglia può decidere se e come celebrare un rito che soddisfi la propria fede, religiosa o laica che sia. Dato il ripetersi gravissimo di queste imposizioni tutt’altro che democratiche, sarebbe il caso che si avesse il coraggio di modificare davvero quella Costituzione partendo proprio dall’articolo 3 e accettando la realtà che vede il nostro come uno Stato confessionale che non considera affatto i cittadini tutti uguali, perché alcuni sono più uguali di altri.
Enrico Bonfatti

Caro Bonfatti,
Potrei risponderle che l’Italia è stata laica sol­tanto per qualche de­cennio fra l’Unità e il 1929, vale a dire negli anni in cui gli uomini pubblici sfidava­no la scomunica pur di resta­re fedeli all’indipendenza dello Stato che stavano co­struendo. Non è più laica dal momento in cui, nel 1929, firmò con la Santa Sede un trattato (il Concordato) che garantisce alla Chiesa un ruo­lo privilegiato nella società nazionale e le affida alcune funzioni ufficiali. Da allora, il problema italiano non è la separazione fra Stato e Chie­sa, ormai impossibile, ma il rapporto di forze tra i due fir­matari del Trattato. Vi è sta­to un periodo, durante il fa­scismo, quando lo Stato poté usare la Chiesa, entro certi limiti, per rafforzare se stesso e conquistare maggio­re consenso. Vi è stato un se­condo periodo, dopo la fine della Seconda guerra mon­diale, quando la Chiesa di Pio XII cercò di fare dello Sta­to, nelle questioni etiche, l’esecutore della sua volon­tà.
Vi è stato un terzo perio­do, fra gli anni Sessanta e Ottanta, quando la società strappò ai governi alcuni di­ritti che la Chiesa considera­va contrari ai suoi insegna­menti. E stiamo attraversan­do una fase, infine, in cui la politica, chiunque governi, è troppo debole per resiste­re alle offensive della Chie­sa nelle questioni a cui que­sta attribuisce grande im­portanza.
Detto questo, caro Bonfat­ti, è difficile immaginare che l’Italia, anche senza i vincoli del Concordato, possa essere laica nel senso che lei sem­bra attribuire alla parola. Il cristianesimo romano, per noi, non è soltanto una reli­gione. È la forma concreta­mente assunta, nel corso dei secoli, dalla spiritualità italia­na. È il titolare dei riti e delle liturgie con cui scandiamo la nostra vita quotidiana e cele­briamo i momenti fonda­mentali dell’esistenza. Vi è una parte della società italia­na che ha cercato di elabora­re liturgie alternative a cui ciascuno di noi può libera­mente ricorrere. Ma temo che un grande funerale laico nella piazza d’Armi dell’Aqui­la per le vittime del terremo­to sarebbe stato una ridicola scopiazzatura e non avrebbe soddisfatto nemmeno i mol­ti agnostici che hanno parte­cipato alla messa del cardina­le Bertone. È possibile essere laici e liberali senza ignorare i sentimenti e le tradizioni della maggior parte della so­cietà in cui viviamo. La Fran­cia, ad esempio, è probabil­mente lo Stato più laico d’Eu­ropa. Ma la prima cerimonia a cui il generale de Gaulle prese parte dopo la liberazio­ne di Parigi nel 1944 fu un so­lenne Te Deum nella catte­drale di Notre Dame. E a nes­suno venne in mente che la Francia stesse rinunciando al principio della separazio­ne tra lo Stato e la Chiesa.

Corriere della Sera 17.4.09
La Biennale di studi su Giordano Bruno: astrofisica e filosofia alla ricerca dei modi di penetrare i segreti dell’universo
Elogio dell’incertezza: è l’insoddisfazione che muove la scienza
Ogni teoria è provvisoria e passibile di smentita perciò è vitale che le tesi eretiche si facciano avanti
di Giulio Giorello


Studi bruniani e libero pensiero
Continua a Nola fino al 19 aprile Elogio dell’incertezza, prima Biennale di studi bruniani. L’intervento di Giulio Giorello anticipato in questa pagina è previsto per oggi alle 18 nell’Aula Magna del Seminario arcivescovile, dove, sul tema «Liberi di scegliere. Lo Stato tra ragione e religione», interverrà anche Edoardo Boncinelli. I relatori saranno introdotti da Nuccio Ordine, presidente della fondazione Giordano Bruno. Per informazioni: www.fondazionegiordano­bruno.org.

È uscito il secondo tomo di Opere mnemotecniche di Giordano Bruno (Adelphi, pp. LXXVI-992, e 80), edizione diretta da Michele Ciliberto e curata da Marco Matteoli, Rita Sturlese, Nicoletta Tirinnanzi.

«Vorrei proprio sapere quale sia la legge o il compito di queste stelle e di questi globi», dotati di «moto incessante» come delle «palle erranti», le quali «emettono e ri­cevono l’una nei confronti dell’altra raggi di luce e influenze benefiche». Verso il 1617 così scriveva il copernicano Mark Ridley. Pochi an­ni dopo, nel Saggiatore (1623) Galileo Galilei, di fronte al proliferare di «sistemi» che pretendevano tutti di spiegare «come vanno i cieli » (Tolomeo, Copernico, Tycho Brahe, ecc.) rivendica il diritto a «desiderare la vera costituzione dell’universo», con un tono che assomiglia al linguaggio dell’eros. L’amore per la conoscenza doveva portarlo davanti al Sant’Uffizio, che l’avrebbe costretto all’abiura (1633). Più di trent’anni prima, con maggiore coerenza filosofica, Giordano Bruno aveva affrontato il rogo (1600). Era stato proprio lui a smantellare la distinzione aristotelica tra fisica terrestre e celeste, a teorizzare la relatività del movimento, a sostenere, prima di Galileo, la rotazione del sole attorno al proprio asse.
Certo, anche se esortava a fondare «il principio della scienza sulla considerazione dei rapporti intercorrenti tra gli oggetti e sulla concordante testimonianza dei sensi», il Nolano non era uno scienziato nell’accezione moderna del termine e neanche un filosofo della natura come Galileo: niente apparati sperimentali, niente strumenti tecnologici come il telescopio e la sua matematica (diversamente da quella galileiana) era piuttosto una «matemagica » (per dirla... con Paperino). Il Dio di Bruno, «infinito nell’infinito», è «dovunque in tutte le cose». Ecco perché il desiderio è insieme mancanza e tensione: come si legge in una pagina del De immenso (1591), «l’inda­gine e la ricerca non si appagano nel conse­guimento di una verità limitata e di un bene definito». Non c’è essere umano che non vo­glia abbracciare la totalità: ma come Narciso rischia di affogare nell’acqua cercando inva­no di afferrare la propria immagine. I dogma­tici di tutte le risme si accontentano della par­te per il tutto e troppo spesso si compiaccio­no della ristrettezza delle loro idee. I veri filo­sofi, invece, sanno che ogni conquista è prov­visoria. Questa perpetua insoddisfazione è il nucleo della loro libertà, per la quale possono anche rinunciare alla vita.
Karl Popper, teorico del carattere sempre ri­vedibile della conoscenza scientifica e del­l’apertura al nuovo per qualsiasi società libe­ra, ha dichiarato una volta che la filosofia è in fondo cosmologia. Il filosofo novecentesco non aveva in mente solo la lezione della scien­za galileiana, ma anche le scoperte che, nel XX secolo, avevano indicato come il cosmo ab­bia una storia. Ha scritto l’astrofisico Martin Rees in Prima dell’inizio (Raffaello Cortina, pp. 382, e 25): «Possiamo risalire nell’evolu­zione dell’universo fino al suo primo secondo di vita... io, personalmente, sarei disposto a scommettere dieci contro uno che ogni cosa che osser­viamo ha avuto il suo inizio in una palla di fuoco estrema­mente compressa, assai più calda del sole». Questa teo­ria, detta del Big Bang, era eresia nella prima metà del secolo scorso e oggi costitui­sce invece l’ortodossia scienti­fica; anche se, come aggiun­ge Rees, «c’è ancora una mi­noranza che non sarebbe tan­to d’accordo».
Intervistando Popper, nel­l’estate 1986 (il testo è stato poi pubblicato sul numero 15 della rivista Panta, 1987) gli chiesi cosa pensasse di tutta quanta la vicenda. Negli anni Venti del Novecento non po­chi astronomi si erano dedi­cati all’analisi della luce pro­veniente dalle galassie. Attra­verso un prisma, questa pote­va venire scomposta in uno spettro di vari colori e l’ameri­cano Edwin Hubble constatò che le lunghezze d’onda era­no più lunghe, cioè spostate verso il rosso, a paragone di quelle misurate in laborato­rio o in spettri di stelle della nostra galassia (la Via Lattea).
Congetturò pure che tale spo­stamento verso il rosso (o re­dshift) dovesse essere proporzionale alla di­stanza delle galassie e formulò infine l’ipotesi che esse dovessero allontanarsi da noi (e cia­scuna da ogni altra) con velocità proporziona­le alla distanza. E qui stava, per Popper, il noc­ciolo della questione. «Come sappiamo che tali galassie sono tanto distanti? Lo sappiamo attraverso lo spostamento verso il rosso. Co­me calcoliamo la velocità di espansione dell’universo? La ricaviamo calcolando la di­stanza e vedendo poi quale sia la relazione tra la distanza e lo spostamento verso il ros­so... Hubble aveva introdotto metodi di misurazione della distanza di galassie non mol­to lontane che erano indipen­denti da tale redshift. Ma se si estende il metodo di calco­lo da queste galassie alle altre si cade in un ragionamento circolare». Se l’ortodossia ver­sa in queste condizioni, per­ché non ridare voce all’ere­sia? Per Popper chi era con­vinto della teoria del Big Bang doveva continuare a uti­lizzarla; ma era importante che altri cosmologi si facesse­ro avanti con teorie alternati­ve.
Halton Arp, astronomo americano, che a suo tempo è stato discepolo di Hubble e ora è «esule» in Europa, ha fatto sua, per così dire, l’esor­tazione del Don Giovanni di Mozart e Da Ponte: «È aperto a tutti quanti. Viva la libertà». Popper approvava. La comu­nità degli «esperti» no. Arp ha davvero «visto rosso», co­me recita il titolo della sua ul­tima fatica ( Seeing red, ora edito in Italia da Jaca Book, pp. 387, e 40,80). Lungi dal mostra­re che l’universo si espande, gli spostamenti verso il rosso per Arp rifletterebbero invece l’età degli oggetti cosmici, come le galassie che hanno ormai preso nel dibattito il posto delle palle erranti di Ridley. Riprendendo idee alternative al Big Bang, Arp sostiene che i mattoni dell’Universo, le particelle elementa­ri, variano nel tempo. In breve, redshift eleva­to vuol dire semplicemente giovinezza dell’og­getto cosmico pertinente.
Non entro in merito alla validità delle tesi di Arp. Ovviamente, nessuno ha mai visto un atomo crescere o un elettrone acquistare mas­sa nel tempo! Penso però che la provocazione di Arp sfidi quell’abitudine intellettuale per cui «la nostra minuscola porzione di spazio e di tempo sarebbe rappresentativa del tutto». Ma non è questa la radice del narcisismo di cui parlava Bruno quattro secoli fa? Nel pre­sentare il volume di Arp al pubblico italiano, Enrico Biava invoca uno «spirito di tolleranza per chi nutre opinioni diverse». Di mio, ag­giungo che ciò deve valere anche e soprattut­to se l’opinione «emarginata» ci sembra erro­nea e le ragioni militano a favore dell’ortodos­sia! È solo così che possiamo riconoscere nel conflitto delle opinioni un’occasione per an­dar oltre il vecchio pessimismo biblico: «Nul­la di nuovo sotto il sole». Come hanno mostra­to l’astronomia dei tempi di Bruno e di Gali­leo o il dibattito cosmologico dopo Hubble, molte novità sono comparse, per così dire, sia sopra che sotto la nostra stella.

Corriere della Sera 17.4.09
Per Galli della Loggia, Berlusconi ha dato al Paese una connotazione ideologica analoga a quella della prima Repubblica. Risponde Virginio Rognoni
L’anticomunismo come l’antifascismo: un’equazione che svaluta la Costituzione
«Conciliare le due Italie non vuol dire omologarle: si tradirebbe la Carta»
di Virginio Rognoni


La Legge fondamentale suggerisce ancora positive lealtà anche a chi le era storicamente estraneo

Caro direttore, qualche settimana fa, sulle co­lonne di questo giornale (ve­di Corriere del 29 marzo), Ernesto Galli della Loggia ha sostenuto che Silvio Berlusconi, col suo discorso inaugurale del primo congresso del «Popolo della Libertà», in una sede formale e altamente simbolica, ha collocato il suo partito nella prospet­tiva di un anticomunismo inteso «co­me reale ideologia fondativa dell’or­dine politico e motivo di autoidentifi­cazione legittimante»; un partito, dunque, che nasce «contro la sini­stra » (perché la sinistra «è il comuni­smo ») e, così identificandosi, si pre­sta a proporre la sua ideologia alla base dell’ordine politico del Paese.
Affermando la centralità dell’anti­comunismo e dandogli questa finali­tà, Berlusconi — sostiene sempre Galli della Loggia — «compie la stes­sa operazione che la prima Repubbli­ca compì con l’antifascismo».
Io non so se l’anticomunismo del partito di Berlusconi abbia la funzio­ne o la finalità descritta da Galli della Loggia; se l’avesse sarebbe assai peri­coloso perché, presto o tardi, potreb­be affacciarsi, sul pretesto anche di chiudere la lunga «transizione» ita­liana (ma la politica non è sempre transizione?) una inquietante fase co­stituente per il nostro Paese; l’antico­munismo di Berlusconi mi pare, più banalmente, un’arma, fino a che pun­to duratura non lo so, di forte propa­ganda, una operazione fruttuosa di ricerca del consenso.
Ma non è qui il mio interesse. È la simmetria che Galli della Loggia pro­spetta fra l’uso dell’anticomunismo di Berlusconi e l’uso dell’antifasci­smo della prima Repubblica, l’uno e l’altro a sostegno dell’ordine politico del Paese, che mi suggerisce qualche riflessione.
L’antifascismo dei gruppi dirigen­ti della prima Repubblica non era una ideologia dei partiti che ne costi­tuivano il nerbo e l’ossatura; essi era­no antifascisti perché democristiani, comunisti, socialisti, liberali, repub­blicani e così via. Il loro antifasci­smo, affermato con maggiore o mi­nore forza a seconda della storia di ciascuno (di più il Pci, giusto per la sua storia, in particolare per il ruolo che aveva giocato, anche sul piano organizzativo, nella lotta partigiana, e non solo, come è stato detto, per legittimarsi come partito nazionale, quasi a compenso del legame con l’Unione Sovietica), era il riferimento costante alle ragioni di una lunga op­posizione a un regime autoritario e illiberale che aveva, via via, portato il Paese alla rovina, coinvolgendolo, al­la fine, nella folle guerra nazista. Di più, era il riferimento costante al ri­sultato politico straordinario di quel processo di libertà e di liberazione che, con la fine del regime fascista, il crollo della monarchia e l’avvento della Repubblica aveva portato alla Costituzione, cambiando e segnan­do profondamente la vita istituziona­le del Paese.
Tutta questa complessa realtà sto­rico- civile può essere intesa, se si vuole, per usare ancora parole di Gal­li della Loggia, anche «come ideolo­gia fondante dell’ordine politico», del nuovo ordine costituzionale. Una realtà e, insieme, una lealtà che hanno permesso di incanalare negli spazi costituzionali, previsti dalla Carta del ’48, tutta la tumultuo­sa vicenda politica del Paese, senza quelle rotture, di volta in volta sem­pre annunciate o anche tentate (ba­sta pensare ai cosiddetti «anni di piombo»). Lo stesso passaggio dalla prima alla seconda Repubblica non è stato una rottura costituzionale, ma il crollo improvviso di importanti for­mazioni politiche, con la sanzione, che ne è conseguita, dell’esaurimen­to di un assetto politico da tempo esi­stente. Ma l’architettura costituziona­le ha retto bene e ha resistito al for­midabile urto. Tutte queste mie osservazioni so­no cose molto ovvie che ho fin il pu­dore di ricordarle a Galli della Log­gia, ma la simmetria da lui costruita, e di cui ho parlato all’inizio, non mi piace affatto, la ritengo sbagliata.
Del resto, l’analisi che egli fa par­te da una pregiudiziale a mio giudi­zio sbagliata e inaccettabile. Parte dalla svalutazione della Costituzio­ne e del suo valore di fondo come patto di cittadinanza nella Repubbli­ca. Galli della Loggia lo dice aperta­mente e anche in via indiretta quan­do mette la Carta del lavoro fascista (ma come si fa?!) sullo stesso piano della Carta del ’48 e dello stesso Sta­tuto albertino per accomunarle nel giudizio negativo di «scarso valore ideal-simbolico».
È una svalutazione che, a sua volta, parte dalla considerazione di quel lontano 8 settembre non come il gior­no da cui inizia il riscatto della Pa­tria, ma come il giorno della morte della Patria. Da qui, e fino alla fine della guerra, un Paese, dunque, attra­versato da eserciti stranieri, con gli italiani alla finestra o a far la guerra fra loro sul fronte fascismo-antifasci­smo. Una guerra civile che, avulsa dal grande conflitto mondiale, cancella d’un colpo la Resistenza in sé e come premessa dei processi istituzionali che vengono dopo, a partire dalla Re­pubblica e dalla sua Costituzione.
Questa argomentazione l’ho sem­pre ritenuta pericolosa sul piano po­litico- istituzionale perché, se fosse vero, e non lo è, che la lotta partigia­na è stata niente più che un cruento regolamento di conti fra due Italie ideologicamente opposte, allora, a distanza di tempo, le due Italie non solo si possono e si debbono conci­liare, come è giusto, ma si omologa­no, l’una è uguale all’altra. Ma così salta la Carta del ’48, ormai priva del­la sua storia e, come pure è stato adombrato, può iniziare una fase co­stituente per il Paese, libera final­mente dall’antifascismo e dall’antico­munismo, «ombre del passato».
Sarebbe questa una deriva avven­turosa; ancora di più se poi fosse esatta la prospettiva che Galli della Loggia vede coltivata da Berlusconi e dal suo «popolo», di cui si è parlato all’inizio; il Paese sarebbe sottoposto a una fortissima e inutile tensione.
Per fortuna non è così o, quanto­meno, mi pare che non sia così: la Carta del ’48, proprio per il suo valo­re di fondo, che non ha creato in pas­sato nè crea oggi vuoti pericolosi nel­la vita del Paese (mi riferisco natural­mente ai suoi principi fondamenta­­li), non solo è riconosciuta, ma sugge­risce positive lealtà proprio in chi le era stato storicamente più estraneo. Basta pensare alla posizione del lea­der di questa parte politica, Gianfran­co Fini, e le sue dichiarazioni di rico­noscimento dell’antifascismo, prima e alle spalle della Costituzione.
L’unità degli italiani che si ritrova e si rinnova quando sofferenze e tra­gedie ne colpiscono il vissuto, può essere stabilmente quella che si rico­nosce nella Carta del ’48 e nella sto­ria che l’ha preparata; il 25 aprile (è prossima la ricorrenza) insieme al 2 giugno ne sono certamente un forte simbolo riassuntivo e ideale.

il Riformista 17.4.09
Resoconti di Bottegone
di Fabrizio d'Esposito


Giornalisti al Comitato centrale. Parla il decano dell'Unità e della stampa parlamentare, Giorgio Frasca Polara: «Eravamo gli unici giornalisti ammessi al Cc. Poi i testi venivano vistati dall'oratore e dalla segreteria e passati all'ufficio stampa che li recapitava ai quotidiani borghesi». L'esame con Togliatti e la morte di Petroselli, sindaco di Roma: «Ma per noi il momento più difficile fu la radiazione di Natoli, Pintor e Rossanda».

Quando la politica era una cosa seria e grave, grave sia nel senso di importanza sia in quello di pesantezza, nei quotidiani di partito c'erano i resocontisti. All'Unità comunista i resocontisti erano amanuensi laici che davano conto fedelmente ai militanti lettori degli interventi sgranati come un rosario rosso nella liturgia del comitato centrale, organo santificato nella mitica sigla Cc. Il Cc si teneva con cadenza regolare ogni mese e mezzo e spesso era abbinato alle riunioni della Ccc, Commissione centrale di controllo. A Botteghe Oscure il salone dove prendevano posto i componenti del Cc, massimo settanta, era al quinto piano. I resocontisti lavoravano in una stanzetta attigua, insieme con i tecnici addetti alla registrazione.
Decano di questo "ordine" ormai estinto del giornalismo italiano è Giorgio Frasca Polara. Esponente storico della stampa parlamentare, Frasca Polara è stato quarantatré anni all'Unità, che comprendono anche i tredici trascorsi a Montecitorio da portavoce di Nilde Iotti, la prima donna a essere eletta presidente della Camera. GFP, come veniva chiamato dai suo redattori, era il capo dei resocontisti. Prima di accedere nel 1962 al santuario di Botteghe Oscure, Frasca Polara fece il suo vero esame da giornalista con Palmiro Togliatti. Era la fine degli anni cinquanta e il Compagno Segretario era a Palermo per un comizio serale.
Come andò?
Io allora abitavo a Palermo perché i miei si erano trasferiti in Sicilia da Roma. Ero l'ultimo arrivato alla redazione locale dell'Unità, un ragazzino. Il resocontista abituale di Togliatti era Luca Pavolini, ma quel giorno era malato e io ero da solo in redazione. Mi dissero: «Vai tu». Mi venne una strizza tremenda: il comizio era alle nove di sera quando il giornale era già in stampa.
Cosa accadde?
Andai da Togliatti in albergo e lui mi consegnò gli appunti del comizio che avrebbe fatto, ovviamente scritti con l'inchiostro verde. Tornai poco dopo con l'articolo già pronto. Togliatti lo prese e lo passò a Nilde Iotti, accanto a lui sul divano: «Nilde, vedi un po' cosa ha fatto il nostro giovane compagno». Lei si alzò e si mise seduta a un tavolo: cambiò un aggettivo e tolse una frase. Ce l'avevo fatta.
E poi?
In seguito divenni capo della redazione siciliana. Quand'era direttore Mario Alicata chiesi di fare un'esperienza a Roma. Mi risposero di sì e dopo un passaggio alla redazione culturale mi chiamarono a far parte della squadra dei resocontisti del comitato centrale.
Come funzionava?
Noi eravamo chiusi in una stanzetta attaccata al salone delle riunioni, al quinto piano. Dentro, a fianco dell'oratore, c'era un tavolino dove a turno ci alternavamo. I giornalisti dei quotidiani "borghesi" erano parcheggiati giù. I nostri testi erano rivisti dall'oratore e nei casi più delicati anche da un membro della segreteria. Poi passavano all'ufficio stampa che li fotocopiava e li dava ai cronisti "borghesi". I resocontisti sono esistiti fino al 1991.
Quanti eravate?
Sette, al massimo otto. In occasione dei congressi la squadra si allargava. Umberto Terracini, per esempio, era roba mia. Lo seguivo sempre io. Aveva un intercalare, «nevero», che mi dispiaceva non inserire nei testi. Ognuno aveva i "suoi" esponenti. Ugo Baduel era il resocontista di Berlinguer ma quando si ammalò per un anno toccò a me, che ero anche portavoce di Iotti e capo dei servizi parlamentari dell'Unità. I compiti venivano distribuiti per consonanze regionali e simpatie personali. Non c'era calcolo politico.
Lo spazio sul giornale variava?
Sì. In genere il relatore che introduceva il Cc aveva l'intervento quasi integrale. Le regole erano poche e poco elastiche. Per i dirigenti periferici era prevista una cartella e mezza, per i big almeno tre.
Il più pignolo?
Giorgio Napolitano, una volta mi disse: «Qua ricordo di aver messo una virgola, dov'è?». Anche Alfredo Reichlin era preciso. Ma c'era un allenamento tale che non avevamo grossi problemi. L'unico momento difficile fu con la radiazione di Aldo Natoli, Luigi Pintor e Rossana Rossanda nel 1969. Io ero già capo dei resocontisti.
Il caso del manifesto.
Sì. Il clima era pesante ma sempre civile. Si sapeva come sarebbe andata a finire: la Ccc avrebbe optato per la radiazione e non l'espulsione. Una misura più cauta che prevedeva un giorno la possibilità di rientrare. Andai quindi a parlare con Natta, che era il relatore.
Per quale motivo?
Gli dissi: «I loro interventi faranno notizia, ci conviene darli ampiamente, altrimenti i giornali "borghesi" cercheranno di servirsi di altre fonti». Natta, di cui avevo una profondissima stima, riconobbe il valore dell'osservazione e approvò. Scrivemmo senza pensare al numero delle cartelle. Ma il ricordo personale più scioccante è un altro.
Quale?
La morte di Luigi Petroselli, sindaco di Roma, in pieno comitato centrale. Si sentì male e di lì a poco morì. Un'emozione fortissima.
Un ricordo bello?
Quando mi affacciai con Berlinguer al famoso balcone e c'era il nostro popolo sotto che festeggiava la storica vittoria alle amministrative del '75. Enrico era felice come una Pasqua e sorrideva. Ebbi la percezione netta che eravamo una grande forza.
Lei ha seguito per un anno Berlinguer.
Era una persona deliziosa, terribilmente timida. Quando non era impacciato era capace persino di fare battute spiritose. Ricordo soprattutto le nostre diatribe musicali. Io sono un verdian-belliniano. Lui era un wagneriano.
Wagneriano?
Sì. E si tormentava per questo. Mi chiedeva: «Amo Wagner: sono passibile di sospetto nazismo?».
Che giornalista era il resocontista?
Siamo sempre stati considerati una sottospecie di cronisti. All'Unità c'erano gli "scrittori", tipo Enzo Roggi e Bruno Miserendino, e i resocontisti. Sono stato a capo di fior di giornalisti: Vincenzo Vasile, Stefano Di Michele, Peppino Mennella, Bruno Enriotti, Bianca Mazzoni, Onide Donati, Renzo Cassigoli, Sergio Sergi, Matilde Passa. Qualcuno c'era, però, che non voleva riconoscersi in questa sottospecie.
Chi era?
Antonio Caprarica. Oggi ci sono giornalisti della Rai che nelle loro biografie omettono di essere stati all'Unità. Caprarica diceva: «Io non voglio andare nella squadra di GFP, fatemi scrivere di politica». Io, invece, sono sempre stato fiero di essere un bracciante della tastiera.
Del resto lavorare a Botteghe Oscure era un privilegio.
Vero, era un privilegio. Quante storie e quanti amori clandestini. E poi si scendeva tutti alla libreria Rinascita. L'unico che si autoescludeva da questo rito era Togliatti.
Perché?
Quando l'Unità era a via IV Novembre lui iniziò a frequentare la libreria Tombolini e non cambiò mai.
Nostalgia per il Bottegone?
Non tanto per il palazzo quanto per lo stile cui ci aveva educato il Partito. Avevamo un'identità. Per questo motivo non ho aderito al Pd e mi sono iscritto al Pse.

l’Unità Lettere 17.4.09
Il nuovo Vajont

Abbiamo conferito deleghe in bianco a una classe politica miope e avida, zelante solo quando si tratta di legiferare sull’embrione, sul sondino o sulla prescrizione dei reati, interessata più alla stabilità del bipartitismo che alla stabilità degli edifici, affidata esclusivamente alle benedizioni dei vescovi. L’Aquila è il nuovo Vajont
Roberto Martina

RISPOSTA. I palazzi crollati, lì, c’erano tutti. Il censimento di vulnerabilità degli edifici pubblici, strategici e speciali in Abruzzo, Basilicata, Campania, Molise, Puglia e Sicilia redatto nel 1999 da Vincenzo Petrini direttore dell’istituto di Ricerca sul rischio sismico su richiesta di Franco Barberi sottosegretario del governo Prodi segnalava il deficit strutturale della Regione Abruzzo, dove 171 palazzi destinati all’istruzione erano in fascia alta di vulnerabilità ed altri 314 in quella medio-alta. A l’Aquila erano censiti come ad alto rischio l’Università e l’Ospedale, la Prefettura e il Catasto. Su questi documenti sta lavorando oggi la Procura. Sul modo in cui la politica è riuscita ad ignorare gli avvertimenti dei tecnici siamo chiamati a riflettere tutti. Quello cui ci troviamo di fronte, infatti, è un sistema politico sempre più chiuso di fronte al progredire delle conoscenze scientifiche. Autoreferenziale. Paralizzato dalla mancanza di competenze professionali dei tuttologi che pensano (sognano) di essere stati chiamati (da Dio, dal popolo?) a svolgere attività di governo.
Luigi Cancrini

Repubblica Lettere 17.4.09
Franco Volpi in bicicletta travolto come Barthes
di Flore Murard-Yovanovitch

Scrivono che Franco Volpi è morto in un incidente stradale. Precisione: è morto in bicicletta, travolto da un'auto. Bicyclette, mi ricorda la canzone di Montand. Forse andava più lentamente, con la lentezza che scegliamo, noi che scegliamo la bici come mezzo di mobilità eco sostenibile e non violenta. Forse lo studioso di Heidegger, contemplava un dettaglio del paesaggio, un frammento di cielo, un suo pensiero da fare nascere. In bicicletta. Una macchina lo travolge. Come Roland Barthes (le statistiche dimostrano il folle incremento: più 82% rispetto al 2007 gli atti di pirateria, persino sulle strisce). Un traffico "disumano" che ti ammazza per non fare tardi, per arrivare prima. Dove? Resta solo piangere.

giovedì 16 aprile 2009

l’Unità 16.4.09
Franco Volpi, storico delle idee che non fece sconti a Heidegger
di Bruno Gravagnuolo


Il miracolo non c’è stato. E i medici dell’ospedale di Vicenza hanno dichiarato la sua morte clinica. Franco Volpi, storico della filosofia, se ne è andato. A seguito di un tragico incidente in bicicletta nel giorno di Pasquetta sui colli Berici a due passi da Vicenza, dove era nato nel 1952. Una perdita davvero dolorosa per chi lo ha conosciuto, per gli allievi della sua cattedra di Storia della filosofia a Padova. E anche per i tanti cultori di filosofia e lettori (collaborava a Repubblica) che ne apprezzavano la freschezza intellettuale. La capacità divulgativa e il temperamento vitale e curioso di tutto.
Plotino e Aristotele
Grazie a Volpi, massimo traduttore di Heidegger in Italia di cui curava l’Opus per Adelphi, è stato possibile percorrere tutti gli angoli del filosofo di Messkirch. Guadagnando alla conoscenza rigorosa un pensatore controverso e ambivalente. Verso il quale Volpi non serbava nessun timore reverenziale, e nessuna fascinazione subalterna. Impegnato come era a fornirne, tramite una traduzione impeccabile, un’interpretazione originale. Allievo di Giuseppe Faggin e di Enrico Berti, aveva cominciato sui testi di Plotino e di Aristotele la sua avventura di storico della filosofia, inseparabile dall’ermeneutica e dal tradurre. E anello di congiunzione tra gli esordi e gli interessi della maturità, era stato Brentano. Con la sua psicologia trascendentale intessuta ai temi della temporalità e della «coscienza del tempo». Temi «pre-fenomenologici» e husserliani, che stanno alle origini della formazione di Heidegger. E alle fonti del problema dell’Essere, da Heidegger riversato e risolto in Essere e Tempo, la celebre opera del 1927.
Heidegger (oltre a Nietzsche e Schopenhauer) come fulcro dell’ermeneutica di Volpi, di cui restano come exempla le numerose curatele e i saggi che andava raccogliendo attorno alle sue traduzioni. Essere e tempo appunto, il glossario di Segnavia, la post-fazione al Nietzsche heideggeriano e quelle alla Fenomenologia dela vita religiosa e al Principo di ragione, per citarne alcuni. Ne risultavano schiarimenti fondamentali. Sullo Heidegger «analitico esistenziale» prima della «Svolta», e lo Heidegger del «dopo», che sceglie di far parlare l’Essere sulle rovine della tradizione filosofica e del Moderno. In un costante tentativo da parte del filosofo tedesco di «risignificare» - come diceva Volpi - quella tradizione, liberando la percezione originaria del Sein. Oltre la «deiezione» della Tecnica e del Nichilismo.
Heideggerista
E però Volpi era un «heideggerista» non heideggeriano. Che non faceva sconti al suo autore, che pure amava. E non li faceva sia sul tema della sua compromissione col nazionalsocialismo («Heidegger si illudeva di poterlo plasmare - ci disse nel 2002 su l’Unità - cavalcando la tigre e inserendolo nella sua ontologia... Equivoco di breve durata anche se non s’avvide subito del suo errore...»). Sia sul punto chiave del «superamento» heideggeriano della tecnica. Sul che Volpi affermava: «Era un ontologo che all’operare antepone l’Essere, dove il primo discende inevitabilmente dal secondo. Ma a ben guardare era anche un espressionista, un avanguardista del pensiero. Come Lucio Fontana in arte». E ancora: «Il discorso dell’ultimo Heidegger sull’impianto globalistico della tecnica è suggestivo e però inarticolato. Benché concettualmente coerente» (sempre su l’Unità del 19/4/2002). Ma Volpi non fu solo eccellente storico della filosofia. Fu giramondo e visitig professor tra due continenti. E con Antonio Gnoli di Repubblica, ci ha regalato splendidi libri insoliti. Eccone alcuni. L’ultimo sciamano, conversazioni su Heidegger (Bompiani), Il dio degli acidi (Bompiani, con l’inventore dell’Lsd Hofmann). E una celebre intervista Adelphi con Juenger del 1997: I prossimi titani. Ben più che briciole, ma vere gemmme a riprova del suo invincibile stupore per la meraviglia delle idee e della vita.

Repubblica 16.4.09
Marco Bellocchio un italiano a Cannes col film su Mussolini
La famiglia segreta del Duce
di Paolo D’Agostini


ROMA. Secondo un´indiscrezione del periodico francese Première sarebbe Marco Bellocchio con il suo film Vincere l´unica presenza italiana al prossimo festival di Cannes, per lo meno nella vetrina principale del concorso. Cadrebbero dunque le ipotesi di Michele Placido e di Giuseppe Tornatore, fino ad ora le più accreditate. Ma magari solo perché le loro opere, rispettivamente Il grande sogno e Baarìa, non sono ancora completate e disponibili.
Ecco che cosa dichiarava Bellocchio, intervistato da noi nel febbraio dell´anno passato per inaugurare - proprio lui, campionissimo con Bernardo Bertolucci (sarebbe stato un altro degli intervistati) del cinema ribelle degli anni 60 - una serie di rivisitazioni del Sessantotto in occasione del quarantennale. Già da tempo impegnato nella nuova avventura di Vincere, dedicata a un risvolto oscuro nella vita privata di Benito Mussolini, cioè l´esistenza di una compagna e di un figlio segreti, portata alla luce da un documentario (di Fabrizio Laurenti e Gianfranco Norelli) e da due libri (di Marco Zeni), così rispondeva alla domanda cosa c´entra con Bellocchio un film su Mussolini?: «A me interessa la donna, Ida Dalser. Ha conosciuto Benito nel ´14 quando è ancora socialista, si dà tutta, vende le sue proprietà per lui, rimane incinta e un mese dopo Benito sposa Rachele. Da quel momento tenterà, ossessiva e instancabile, di affermare le proprie ragioni, scrivendo lettere, ma lo vedrà soltanto nei cinegiornali. Diventando molto scomoda soprattutto nel momento in cui Mussolini si avvicina al Concordato con la Chiesa».
Ma ecco ciò che forma il nucleo vero del suo interesse, lo stimolo a rievocare e fare propria questa storia: «Io la vedo come una ribelle irriducibile, che si è sempre mantenuta lucida e integra e non ha mai accettato la sorte che le fu imposta da Benito, un uomo che scansa tutto ciò che intralcia la corsa al potere e in Rachele - brava ragazza del suo stesso paese, semianalfabeta ma ubbidiente - trova la moglie che gli va bene. Donna molto più evoluta, Ida acquista nel resistere un´intelligenza che alla fine la rende tragicamente vittoriosa, mentre il Duce finirà nella polvere. Lei non cederà mai».
E infine, la sintesi: «Nel momento del massimo consenso intorno a Mussolini lei, che non ha più nulla, che è stata rinchiusa in manicomio senza essere pazza - stesso destino toccato al figlio segreto Albino, ndr - per morire nel ´37, continua a difendere la propria identità nonostante l´abbiano fatta in briciole. Unica tra tutte le amanti del Duce, Ida non accetterà mai il minimo compromesso, compensazioni o regali. Il mio film ne farà un simbolo di opposizione».
Ma era già dall´estate del 2007 che il regista aveva iniziato a rilasciare dichiarazioni sul progetto. E in quell´occasione coniò la seguente, provocatoria ma suggestiva immagine: «Come Berlusconi e Garibaldi, Mussolini è una delle nostre star nazionali che suscitano più interesse». Il compito di incarnare Benito sullo schermo spetta a Filippo Timi. Mentre Ida è Giovanna Mezzogiorno.

Repubblica 16.4.09
La condanna della sinistra
L’accanimento ideologico e i fantasmi del passato
di Aldo Schiavone


Polemiche / Aldo Schiavone replica a un articolo di Ernesto Galli della Loggia sull´Italia "schiava" della memoria
Non è più solo la presa d´atto di una sconfitta che si richiede, ma un suicidio purificatore
Secondo alcuni bisognerebbe sopprimere la sua stessa esistenza

La sinistra italiana ha una colpa, grave e irrimediabile: quella di esistere, e di voler continuare a farlo. Chi vi si riconosce non ha scampo: la sua "appartenenza" - come un implacabile marcatore genetico - lo condanna a non capire, a "figurarsi" una realtà su misura, e peggio ancora a danneggiare il suo Paese, rendendolo prigioniero di un passato che non si riesce mai davvero a "superare".
Non sto esagerando. Questa tesi estrema (posso usare l´aggettivo?), esposta con acuminata lucidità, rappresenta il cuore della lunga recensione che Ernesto Galli della Loggia ha dedicato, sul Corriere di ieri, a un mio piccolo saggio appena uscito da Laterza. Non mi piace replicare a chi critica le cose che scrivo. I libri sanno difendersi da soli, e non hanno bisogno di proteggersi dietro la voce del loro autore. Ma qui si tocca una questione ben più importante delle mie pagine, delle quali ci si serve con eleganza per formulare un enunciato che le oltrepassa di molto, e riguarda direttamente tutti noi, fino a toccare l´immagine stessa che noi ci formiamo della storia d´Italia.
La dannazione della nostra sinistra si trova interamente, per Galli della Loggia, nella genealogia comunista che l´ha segnata. Niente basta a porre rimedio, per lui, a quell´origine: non le revisioni concettuali, di cui pure dà atto; non la memoria di solitarie battaglie (perdute) ancora dentro il Pci, che pure ricorda con onestà. Nulla è sufficiente. Se vogliamo che il l´Italia si rimetta in cammino, che la sua eterna "transizione" si concluda, non c´è che una cosa da fare: riconoscere che la sinistra continua a dirsi tale soltanto "suo malgrado", e che quindi non c´è niente da suggerire, se non di cancellare il suo punto di vista, sopprimere la sua stessa esistenza, e farla diventare qualcosa di inimmaginabile, ridurla a una prospettiva aliena che non si riesce nemmeno a nominare.
Non è la presa d´atto di una sconfitta, che si richiede - dio sa se non l´abbiamo ammessa - ma qualcosa di ben più radicale: un suicidio purificatore, una specie di sterminio ideale, senza nessuna speranza di resurrezione. E gli altri, e tutto il resto della scena politica di questo Paese? L´insostenibile unilateralità della tesi appare nuda nella stringente ovvietà della domanda che rende inevitabile. Ebbene, restino pure al loro posto, con i loro pensieri: Galli della Loggia non vi dedica una parola. Certo, anch´essi hanno la loro parte nel "grigio" che ci circonda, ma almeno non hanno mai avuto nulla a che fare con il comunismo.
Vi è molto metodo in questo freddo e implacabile furore - uno sguardo che non si accontenta delle superfici, e sa dove posarsi, per andare a fondo. Ma - Galli della Loggia mi perdonerà - c´è anche molto di stantio, di consunto, di veleni scaduti che non fanno più male. Nell´orizzonte della sinistra italiana il comunismo è scomparso da tempo - anche se scomparso malamente, e non come avremmo voluto. La sua presenza ha smesso definitivamente di pesare. E´ solo l´accanimento ideologico degli avversari, che ne agita il fantasma: Berlusconi sa bene di cosa stiamo parlando. Il problema è che ancora non vediamo come sostituirlo, anche se cominciamo a farcene qualche idea - e la crisi ci aiuterà a capire più velocemente, perché queste catastrofi agiscono come impareggiabili lenti sociali, e hanno sempre uno straordinario effetto di moltiplicazione della conoscenza.
Due in particolare sono le critiche che Galli della Loggia mi muove, tra loro strettamente legate: sul ruolo del Pci nella Prima repubblica, di cui avrei taciuto limiti e responsabilità, e sul carattere della società italiana conquistata dal "berlusconismo", rispetto alle cui degenerazioni, di nuovo, non sarei capace di valutare i coinvolgimenti della sinistra.
Ebbene, in entrambi i casi a me pare che la questione storica e politica non sia quella di "giudicare" queste "colpe" (vi è una singolare deriva "giudiziaria" nelle interpretazioni messe qui in campo da Galli della Loggia; egli assolve o condanna, piuttosto che interpretare: un atteggiamento singolare per chi sa benissimo - da par suo - che non è questo l´ufficio dello storico. Sono solo le trappole dell´incattivimento ideologico). E´ evidente che queste connessioni vi sono state, e spesso non di poco conto. Come è evidente che non è stato il "berlusconismo" a trasformare la società italiana, già cambiata sotto la pressione di ben altre forze, e che all´inizio degli anni Novanta era già pronta ad accogliere il suo nuovo leader.
Ma non è questo il punto. Si tratta piuttosto di capire perché la prima Repubblica non sia riuscita a produrre che un sistema politico bloccato - causa di molti nostri disastri - che ha avuto bisogno di una spinta esterna di inaudita potenza (il crollo dell´impero sovietico) per rimettersi in movimento, e perché il cambiamento che si stava finalmente producendo abbia assunto subito i tratti di una autentica "crisi di regime", in cui si sommavano transizione politica postdemocristiana e mutamento sociale postindustriale, e come tutto questo abbia creato un enorme spazio vuoto, nel quale si è precipitato Silvio Berlusconi, con tutti gli apparati mediatici di cui disponeva. Il Pci non è stato figlio della nostra cattiva cultura politica. Esso è nato - come la Dc, e come tutto il vecchio sistema dei partiti - dal centro fratturato della terribile prima parte del Novecento italiano: dalle sue lacerazioni e dai suoi conflitti irrisolti. Berlusconi stesso è ancora figlio di quella storia, di quello che ho chiamato "l´eccezionalismo" del ventesimo secolo. Ma è una vicenda che si sta chiudendo: e non c´è terremoto che possa riaprirla. Si volta pagina: e chi ha più filo tesserà (come si diceva una volta, dalle mie parti).

Corriere della Sera 16.4.09
Quell’Italia ancora schiava del Passato
Il peso del passato e l’identità incerta della sinistra d’oggi
di Ernesto Galli della Loggia


Discussioni Un saggio di Aldo Schiavone sull’interminabile transizione rivela anche un’incapacità culturale e politica di fare autocritica

Responsabilità negate
Anche i progressisti hanno contribuito al clientelismo e alla lottizzazione, al dilagante permissivismo scolastico e all’evasione fiscale generalizzata

Uno sguardo verso il futuro
S’intitola L’Italia contesa. Sfide politiche ed egemonia culturale il nuovo saggio di Aldo Schiavone (Laterza, pagine 100, e 14): il suo scopo è cercare di comprendere come si assesterà il sistema politico italiano dopo il periodo dominato dalla presenza di Silvio Berlusconi, una fase che l’autore giudica ormai in via di esaurimento.
Studioso di diritto romano, Schiavone dirige attualmente l’Istituto di scienze umane (Sum). Ai temi della rivoluzione biotecnologica ha dedicato nel 2007 il saggio Storia e destino (Einaudi).

Perché tanto il Pdl che il Pd appaiono organismi tuttora fragili e dall’incerto destino?
Perché la transizione italiana ancora non accenna a finire? Perché non siamo ancora riusciti a dar vita a culture e forze politiche che appaiano realmente nuove e vitali?
Vorrei provare a dare una risposta diversa da quelle che si danno di solito, una risposta che guarda al passato. La mia ipotesi è che non riusciamo a fondare nulla di nuovo perché non riusciamo a superare il passato.
E non riusciamo a superarlo, vi siamo incon­sapevolmente inchiodati, perché non siamo d’accordo su come sono andate le cose. La se­conda Repubblica non può nascere perché an­cora siamo divisi sia su che cosa è stata e per­ché è finita la prima, sia su che cosa è l’Italia che essa ci ha lasciato.
Questo disaccordo di fondo l’ho sentito in tutta la sua forza leggendo l’ultimo libro di Al­do Schiavone. Il libro cioè di uno storico di va­glia che come pochi contribuisce da anni in modo originale al discorso pubblico del Paese, e che con questa sua ultima fatica — L’Italia contesa (Laterza editore) — procede ad una ri­cognizione del presente italiano e dei suoi tra­scorsi. Ma lo fa — e questo è il punto decisivo — sforzandosi di essere comunque fedele ad un’appartenenza, intenzionato a non troncar­ne il filo che corre attraverso gli anni. E dun­que non riuscendo a vedere le cose da una di­stanza sufficiente a pensarle con la necessaria dose di spregiudicata esattezza.
È, questa, una condizione che oggi riguarda in particolare tanti italiani che sono stati comu­nisti durante la prima Repubblica. Che lo sono stati molto spesso in modo intelligente e per nulla dogmatico — com’è appunto il caso di Schiavone, estromesso a suo tempo dalla dire­zione dell’Istituto Gramsci; che si sono allonta­nati del tutto da quel panorama ideologico, ma che, soprattutto a causa dell’avvento di una destra come quella incarnata da Berlusconi, si sentono nonostante tutto obbligati a dirsi, e a pensarsi, ancora «di sinistra». Quasi per forza d’inerzia, ma comunque abbastanza da essere spinti a figurarsi la realtà italiana presente e passata in modo da non disturbare troppo il loro precario accomodamento di oggi, anziché per ciò che essa è stata ed è realmente. Si tratta di un fenomeno importante ai fini del supera­mento del passato dal momento che finché le energie intellettuali e morali rappresentate da questa sinistra che fu, da questa sorta di pen­siero prigioniero di se stesso, non si sblocche­ranno, non avranno il coraggio di liberarsi per intero dei vincoli della loro vecchia apparte­nenza, fino ad allora la chiusura dei conti con il passato italiano non si potrà fare, il discorso politico non potrà ripartire, e dunque restere­mo quello che siamo: un Paese fermo.
Il libro di Schiavone consente di vedere in modo nettissimo i due principali travisamenti storici (tali secondo chi scrive, beninteso) su cui è rimasto incagliato il punto di vista della sinistra che fu e che oggi mi pare piuttosto una «sinistra suo malgrado». Travisamenti che hanno una duplice funzione: da un lato quella di sollevare la sinistra (o per meglio dire il Partito comunista) dalla piena responsabilità della patologia politico-sociale che finì per di­struggere la prima Repubblica; dall’altro servo­no a dipingere un panorama dell’Italia attuale tutto sommato ottimistico perché diviso sì tra «buoni» e «cattivi», ma con questi ultimi e il loro capo, Silvio Berlusconi, che sarebbero or­mai vicini alla fine del loro predominio.
Innanzitutto il ruolo del Pci, dunque. Schia­vone non vede, a mio giudizio, fino a che pun­to il «congelamento politico» del Paese dal ’48 in poi, la sua «sovranità limitata», la mancanza di alternanza, la memoria antifascista come unica matrice possibile dell’identità democrati­ca, fino a che punto ognuno di questi caratteri negativi, che egli per primo richiama con for­za, sia da ricondurre direttamente e per intero a null’altro che alla presenza nel sistema politi­co italiano del Partito comunista. A proposito del quale egli non esita ad adoperare ancora l’indulgente categoria del «ritardo», categoria tipica dell’armamentario concettuale del dibat­tito comunista dell’epoca. Ma altro che di «ri­tardo » si è trattato! Ormai dovrebbe essere evi­dente che fu la stessa natura più intima, il ca­rattere e la storia profonda di quell’organismo politico, che ne fecero un ostacolo formidabile per lo sviluppo democratico del Paese: non qualche casuale arresto, qualche fortuito in­ciampo (e che poi anche in quel partito ci fos­se qualcosa o magari parecchio di buono, è ov­vio: nella storia la negatività assoluta è rarissi­ma). Fu la presenza del Pci, e dunque l’assenza di un’opposizione costituzionale e il clima di divisività ideologica che ne derivarono, l’ele­mento decisivo che fece dell’Italia una demo­crazia diversa (nel male) da tutte le altre del­l’Occidente. Quando avvenne il crollo della coa­lizione di governo nel 1992-93 in seguito alle inchieste di «Mani pulite» fu per l’appunto questa anomalia assoluta del nostro sistema politico che impedì l’altrimenti ovvio passag­gio di mano all’opposizione, determinando in­vece il collasso di tutto il sistema e il suo pas­saggio alla fragile novità in cui viviamo. Come si fa ancora oggi a non porre tale questione al centro dell’analisi?
L’altro punto di disaccordo riguarda l’Italia post-Mani pulite, che Schiavone considera con­quistata all’egemonia populista di Berlusconi, egemonia che ora però sarebbe ormai giunta al capolinea grazie alla crisi economica mon­diale.
Colpisce come solo a questo esaurimento, per così dire nei fatti, siano affidate in sostanza le possibilità di riscossa della sinistra, circa la cui futura azione politica e le relative risorse necessarie il libro non riesce a darci però la minima indicazione concreta.
La realtà è che in queste pagine il berlusconi­smo appare molto spesso un alibi per non ve­dere che cosa è oggi (ma non da oggi) la socie­tà italiana. La quale, forse, più che farsi «berlu­sconizzare » dalle magiche arti del premier, è stata lei, io credo, a scegliere Berlusconi per es­sere ciò che voleva essere. Ciò che voleva conti­nuare ad essere dopo la grande trasformazio­ne antropologico-culturale degli anni Settanta e Ottanta. Ma ancora una volta, per evitare che la sinistra possa incorrere in una ulteriore, sgradevole, chiamata in correità e perdere così anche la sua presunta natura alternativa alla de­stra, Schiavone non vuol vedere — e infatti non cita neppure una volta — la parte attiva anche da essa avuta (o meglio avuta dai suoi immediati antenati, il Pci e la Dc dei «cattolici democratici») nel produrre la non entusia­smante realtà sociale italiana di oggi. Così co­me neppure un cenno viene fatto agli effetti deleteri che pure sul popolo di sinistra hanno avuto, dagli anni Settanta in poi, mutandone radicalmente il profilo morale e culturale, le politiche di conquista del consenso sia a livel­lo locale che nazionale, la sindacalizzazione dell’impiego pubblico, la degenerazione della giustizia, il permissivismo scolastico, l’evasio­ne fiscale assolutamente generalizzata, la lottiz­zazione e l’antimeritocrazia dappertutto, il mo­ralismo dipietrista, la divulgazione di tutte le più idiote mitologie modernistico-massmedia­tiche, le «notti bianche», i premi Grinzane-Ca­vour, i «vaffa day» e così via, così via. Ma in questo modo svanisce di fatto l’Italia vera e pro­fonda. Un’Italia che oggi può essere definita «contesa» solo guardandone la superficie, dal momento che in essa, in realtà, destra e sini­stra appaiono avvinte (non da oggi!) l’una all’al­tra: un grigio Paese che una spenta politica, sia di destra che di sinistra, non ha la minima idea di come fare uscire dal vicolo cieco in cui si è cacciato.

il Riformista 16.4.09
Il referendum arebbe l'eutanasia della sinistra
di Stefano Passigli


Caro direttore, rinviato di un anno a causa delle elezioni anticipate, il referendum Segni-Guzzetta torna di attualità risvegliando nella maggioranza tensioni che si credevano sopite. I referendari chiedono di andare al voto il 7 giugno unitamente alle elezioni europee e al primo turno delle amministrative.
Scopo dichiarato è quello di risparmiare una cifra che i referendari indicano in 400 milioni e il ministro Maroni in 173. Scopo reale quello di avvalersi della concomitanza delle elezioni per raggiungere il quorum della metà più uno degli elettori prescritto dalla legge per la validità dei referendum. Quanto i referendari tacciono, e molti dei commentatori non dicono, è che - proprio per assicurare che la partecipazione sia spontanea e non indotta artificiosamente - il referendum non deve tenersi in coincidenza con altre consultazioni elettorali. Poiché la legge prescrive che i referendum si tengano in una domenica tra il 15 aprile e il 15 giugno, la sola data di giugno che soddisfi ogni precedente e ogni requisito di legge è il 14. Ogni altra data richiederebbe una modifica normativa che, in ragione dei tempi, imporrebbe un ricorso alla decretazione di urgenza. Ma l'obbligo di fissare una data essendo noto da oltre un anno, è indubbio che non ricorrano le condizioni di "necessità e urgenza" prescritte dalla Costituzione. L'adozione di un decreto legge in materia elettorale potrebbe così giustificarsi solo in presenza di un generale consenso tra le forze politiche che garantendone una pronta ratifica sanasse l'avvenuta forzatura della legittimità costituzionale, consenso - che stando agli ultimi annunci - è forse possibile sulla data del 21 ma non certo su quella del 7 giugno.
Si aggiunga che l'abbinamento del referendum con le elezioni non è un fatto tecnico di scarso rilievo, ma un intervento politico di grande portata che, favorendo il successo del referendum, modificherebbe profondamente la natura del nostro sistema politico. Il referendum non porta risposta ad uno dei principali difetti dell'attuale legge elettorale: contrariamente a quanto affermano i referendari, mantenendo le liste bloccate, la vittoria del "si" non ridarebbe ai cittadini il diritto di scegliere i propri rappresentanti, conservando alle segreterie dei partiti il potere di nominarli a proprio piacimento. Ma a questa mancata modifica, il referendum aggiungerebbe un'innovazione ancor più nefasta: la nascita di "partiti-coalizione" profondamente disomogenei, ove i precedenti partiti sopravviverebbero sotto forma di correnti organizzate. Anziché avere una frammentazione limitata dal ricorso a soglie di sbarramento, avremmo una proliferazione incontrollata di gruppi vecchi e nuovi, uniti al solo scopo di conseguire il premio di maggioranza, ma privi di una comune identità. Le difficoltà che già oggi si avvertono nel Pd e nel PdL ne uscirebbero ingigantite. Né questo sarebbe il solo male: al posto dell'attuale "multipartitismo moderato" , caratterizzato da 5 partiti al di sopra del 4%, pienamente compatibile con quella "competizione bipolare" che è la vera essenza del bipolarismo, avremmo un bipartitismo indotto forzosamente che paradossalmente finirebbe col negare proprio l'alternarsi al governo di centro-destra e centro-sinistra. L'incipiente e ancor timida democrazia dell'alternanza cui abbiamo assistito negli ultimi anni è stata infatti resa possibile dall'autonomia rispetto al PdL di UdC e Lega, e nel centro-sinistra dalla capacità dell'IdV di intercettare elettori altrimenti orientati verso l'astensione o un voto di protesta radicale. Senza Lega, UdC, e IdV non avremmo una competizione bipolare ma un netto e stabile predominio del centro-destra sul centro-sinistra. Non un sistema competitivo, con un frequente alternarsi di governo e opposizione, ma il progressivo affermarsi di un sistema a partito dominante. Non l'annunciato salvifico bipartitismo, ma una nuova forma di "bipartitismo imperfetto". Ogni qualvolta si è assistito in Italia ad una riduzione della competizione ad un confronto diretto tra destra e sinistra senza la possibile mediazione di forze di centro, la sfida ha infatti premiato la destra. Costretti a scegliere tra destra e sinistra gli elettori del centro moderato hanno sempre scelto a destra: nel 1924, nel 1948, e nuovamente oggi con Berlusconi. In altre parole, una sinistra riformista può vincere e governare in Italia solo rinunciando ad ogni pretesa di autosufficienza e solo se sostenuta da autonome forze di centro. Adottare con il referendum un sistema elettorale che, distruggendo il centro e ogni spazio di autonomia per i partiti non allineati, favorisse strutturalmente la destra sarebbe per il centro-sinistra e per i suoi elettori una vera e propria forma di eutanasia politica. A ciò si aggiunga che attribuendo il 55% dei seggi alla lista più votata il referendum può porre alla portata del partito dominante persino la modifica della Costituzione con 2/3 dei voti e senza possibilità di referendum confermativo. Una ragione in più per evitare l'election day, e non ricorrere ad un decreto che oltre a porre seri problemi di legittimità costituzionale rappresenterebbe un grave rischio per la democrazia dell'alternanza.

il Riformista 16.4.09
Bottegone, altro che Loft
intervista a Emanuele Macaluso di Fabrizio d'Esposito


Una sinistra sobria e operosa. Emanuele Macaluso ricorda trent'anni di lavoro nel palazzo del Pci. La prima riunione nel 1947, con Di Vittorio. Poi l'arrivo nel 1962 all'organizzazione con Berlinguer: «Pensavano che avessi dei tempi siciliani, invece andavo in ufficio alle otto di mattina». E per pranzo un panino dal pizzicagnolo: «Avevamo tre regole: rigore, serietà e riservatezza». La commozione del 4 aprile scorso con una compagna di Savona.

Dopo il trasloco, quando ci passo provo angoscia perché rappresenta la crisi di una sinistra che non ha più una casa: la nuova non è mai stata costruita.

In trent'anni, Emanuele Macaluso ha girato quattro piani del palazzone rosso di Botteghe Oscure, al civico cinque. Era il 1962 e Macaluso aveva 38 anni. Arrivò a Roma dalla Sicilia per lavorare con Enrico Berlinguer all'organizzazione del Pci, la potente macchina del Partito. L'organizzazione era al quarto piano. Nel 1966, poi, Macaluso passò alla propaganda, sesto piano. Infine ci furono il terzo, alla commissione agraria, e il secondo, il piano del Compagno Segretario. Una vita a Botteghe Oscure. Da migliorista un po' eretico. Macaluso, parlamentare fino al 1992, è stato anche direttore dell'Unità. Oggi è al timone delle Ragioni del Socialismo, rivista che ha fondato nel 1996, scrive per la Stampa e il Mattino e non ha aderito al Pd. La conversazione inizia con un paio di minuti di ritardo: Macaluso, a mano, sta completando un articolo nel suo ufficio. Niente computer e tanti quotidiani sparsi sulla scrivania.
Nostalgia per il Bottegone?
Quando ci passo, ancora oggi, provo un forte senso di angoscia, più che di nostalgia. Angoscia perché simboleggia la crisi della sinistra dopo il trasloco del Partito a via Nazionale. Il giorno della manifestazione della Cgil, il 4 aprile scorso, però mi sono commosso.
Perché?
Ero proprio lì sotto, che camminavo, quando mi sono sentito chiamare: «Macaluso, Macaluso». Era una compagna di Savona con le figlie. Mi ha salutato e io le ho chiesto: «Che cosa ci fai qui?». Lei mi ha risposto: «Siamo qui per rivedere la nostra casa». Perciò mi sono commosso. Botteghe Oscure ha rappresentato qualcosa di sacrale per tantissimi militanti e quella compagna ancora oggi sentiva il bisogno di renderle omaggio. Quando io arrivai all'organizzazione avevamo un milione e 600mila iscritti.
Era il 1962, il suo battesimo a Botteghe Oscure.
In realtà, la prima volta che ci misi piede fu nel 1947 per una riunione in preparazione del congresso nazionale della Cgil. C'erano Giuseppe Di Vittorio, Luigi Longo, Giuseppe Rossi. Io all'epoca ero al sindacato, in Sicilia.
L'inizio di una lunga marcia di avvicinamento.
Vede, nel Pci c'era la cooptazione, è vero, ma si veniva scelti non in base a una simpatia, una corrente, una fedeltà. I dirigenti subivano un esame severo da parte dei vari organi. Il mio curriculum per entrare in direzione e andare all'organizzazione era questo: avevo guidato la Lega e la Camera del lavoro a Caltanissetta, poi la Cgil siciliana. Infine segretario regionale del Partito. Il nostro lavoro veniva verificato sui risultati ottenuti nell'attività di base.
Una sinistra sobria e operosa.
Quando fui nominato all'organizzazione qualcuno era scettico. Pensava che da siciliano avessi tempi meridionali. Io invece entravo in ufficio tutte le mattine alle otto e mezzo e all'ora di pranzo facevo solo una breve pausa. Andavo dal pizzicagnolo giù, mangiavo un panino e poi il caffè al bar di Vezio. E quando si riprendeva, la sera non c'erano orari, dipendeva dalle riunioni.
Un ritmo estenuante.
Il centralismo democratico ha garantito sempre una forte dialettica interna. La direzione si riuniva al secondo piano ed era composta da ventuno persone. Si iniziava la mattina e si finiva a notte inoltrata, con un breve intermezzo. I comitati centrali duravano due, tre giorni. C'erano settanta interventi e i resoconti venivano pubblicati dall'Unità. La discussione era reale, vera e quando ci si divideva valevano tre regole: rigore, serietà e riservatezza.
Un esempio?
Ricordo che Togliatti era morto da poco e l'ufficio politico doveva decidere chi votare tra Saragat e Fanfani per la presidenza della Repubblica. Non eravamo più nove, ma otto e spaccati a metà: quattro per Saragat e quattro per Fanfani. Poi si decise per Saragat, ma tutto avvenne con un stile austero, senza parlare con nessuno all'esterno. Oggi, invece, tutti rincorrono i media, le guerre interne sono tutte pubbliche.
Il Pd non le piace proprio, eh?
Io ho sostenuto la svolta di Occhetto ma da allora il Partito, prima Pds, poi Ds infine Pd è sempre rimasto nel limbo. C'è un vuoto che si cerca di coprire con l'alibi della fine delle ideologie e così, ormai, siamo all'ideologia dell'anti-ideologia. Al Pci, però, ricordo che per statuto si aderiva sulla base del programma e non dell'ideologia.
Una difesa riformista del Pci?
Io ho sempre sostenuto il cambiamento ma la verità è che il Pci aveva un intreccio di valori e di idee che ancora non è stato sostituito. Il nuovo non è mai stato elaborato, provocando questo continuo slabbramento della sinistra. Il Pci non è mai stato sostituito da una cosa che sia una. Ed è per tutto questo, come dicevo prima, che provo angoscia quando passo per Botteghe Oscure.
Fino a quando ci è rimasto?
Ho avuto una stanzetta fino al 1992, al secondo piano. L'ho sempre conservata, anche da direttore dell'Unità. E quando lasciai il giornale, nel 1986, tornai con Natta segretario a fare il portavoce del Partito.
E dopo l'arrivo nel 1962?
Nel 1963 presi il posto di Berlinguer, chiamato a coordinare la segreteria, alla guida dell'organizzazione. Poi nel 1966 andai alla commissione propaganda, al sesto piano.
Dove un tempo avevano abitato Togliatti e Nilde Iotti.
Questa è una storia che dimostra l'arretratezza del Partito. C'era una parte consistente dei dirigenti che non voleva che Togliatti si separasse dalla moglie Rita Montagnana. Erano convinti che le masse non avrebbero capito. Togliatti giunse a dire: «Fate una commissione per decidere cosa devo fare».
Quanto rimase alla propaganda, al sesto piano?
Poco, un anno. Nel 1967 tornai in Sicilia a guidare il partito al posto di Pio La Torre. Pensi, che si era dimesso perché aveva perso due punti percentuali alle elezioni regionali. A Roma, però, tornavo tutti i mercoledì e nel 1972 rientrai definitivamente. Stavolta al terzo piano, alla commissione agraria. E lì rimasi quando feci il responsabile del Mezzogiorno. Ho passato una vita dentro Botteghe Oscure.
E oggi prova angoscia quando ci passa.
È un simbolo che parecchi ancora rimpiangono. Mica è il Loft.

Repubblica 16.4.09
Il percorso di "Liberazione"
di Alessandra Longo


I giornalisti di Liberazione tornano alla carica. Dopo la polemica con il direttore Dino Greco sull´opportunità di pubblicare la recensione di un libro su Stalin, ritenuta un tentativo di «riabilitazione», le acque non si sono calmate. La risposta seccata di Greco scatena adesso un´altra lettera. «Una lettera che non leggerete mai su Liberazione», scrivono su Internet 26 redattori «profondamente a disagio».
Non sono piaciute la pagina su Stalin ma anche l´ «incertezza» del giornale nel denunciare «i crimini cinesi in Tibet», l´approccio alla questione mediorientale, la «riproposizione di analisi "ideologiche" sulle politiche della destra di governo e sull´evoluzione della coalizione berlusconiana». Dicono i ribelli: «Abbiamo fatto un difficile percorso, non possiamo accettare regressioni politiche e culturali». Attesa controreplica di Greco.

Repubblica 16.4.09
John Stuart Mill e la proprietà dei nostri corpi
risponde Corrado Augias


Caro Augias, una sommessa protesta per la fretta, forse eccessiva, con cui ha riportato alcune mie parole estrapolandole, dunque dandogli un significato più radicale che nella versione originale. Vorrei esprimere anche qualche dubbio sulla frase di Stuart Mill con cui lei ha creduto di mettermi a tacere. Il modo in cui lei cita il grande pensatore inglese - "ipse dixit! come si permette di contraddirlo?" somiglia molto al modo (giustamente ridicolizzato dal nostro Manzoni) di citare Aristotele, fuori dal suo contesto. Mill si riferiva a quelle che erano le libertà in discussione al suo tempo: libertà di pensiero e di vita, libertà politiche e civili, in particolare la libertà che bisognava garantire ad ogni essere umano purtroppo non garantita neppure oggi nel mondo. L'esistenza di un supposto diritto ad avere l'assenso dello Stato al coinvolgimento di un'altra persona nella propria morte è un'idea recente, essenzialmente motivata dal timore che le scoperte tecnoscientifiche, che tanto sono servite a prolungare l'età media, in alcuni casi possano essere impiegate anche per prolungare una lenta, troppo dolorosa agonia. Problema vero, che però non si può risolvere con un semplicistico: ma sì, ognuno faccia come vuole! E neppure ricorrendo all'autorità di un filosofo dell'800, vissuto in una situazione sociale così diversa dalla nostra.
Lucetta Scaraffia lucerne@iol.it

Su La Stampa del 2 aprile è apparsa tra virgolette questa frase della prof Scaraffia: «La verità è che nessuno è libero, e la vita non è proprietà di cui si può disporre. Ognuno è in una rete di condizionamenti fatta da parenti, amici, stati d'animo, situazione economica, ed è dunque utopia, quella sì ideologia, credere che possiamo essere noi a disporre di noi stessi». In forma più concisa lo stesso concetto appariva in un'intervista su 'Panorama' del gennaio scorso in risposta alla domanda 'Come giudica il testamento biologico?' «Non lo chiamerei testamento perché la vita non è una proprietà di cui l'individuo possa disporre a suo piacimento». Del resto è lo stesso concetto base che informa il ddl Calabrò approvato di recente al Senato. La mia opinione è che negare ad un individuo la disponibilità piena della propria esistenza è delittuoso e assurdo. Di che altro dovremmo essere considerati proprietari se nemmeno della nostra carcassa possiamo disporre? Quanto a Mill, ogni pensatore elabora certo attraverso il filtro del suo tempo e della sua vita. Scrivendo però che: «per l'aspetto che riguarda soltanto lui, la sua indipendenza è, di diritto, assoluta. Su se stesso, sulla sua mente e sul suo corpo, l'individuo è sovrano», il filosofo fondava uno dei canoni del liberalismo progressivamente affermatisi nel mondo civile. Infatti oggi contestati solo in questa povera Italia.

Corriere della Sera 16.4.09
«Ma tra noi distanze siderali»
Il laico Manconi pro Binetti: il Pd non può farne a meno
di Francesca Basso


MILANO — «Mi batto perché la Binetti possa esprimere il proprio pensiero, che nel Pd è di assoluta minoranza. Non perché lei rimanga se la sua volontà è di andare altrove, persino in un partito di profonda ispirazione pagana come il Pdl». Chiarito l’arcano. Il laico Luigi Manconi ha dedicato un capitolo del suo ultimo libro Un’anima per il Pd. La sinistra e le passioni tristi — che oggi presenta a Roma con Dario Franceschini — alla collega teodem, spiegando che non può «vivere senza Paola Binetti e che il Pd non può vivere senza Paola Binetti», benché su tutte le questioni di bioetica abbiano «posizioni sideralmente lontane». Nessuna difesa a oltranza o tattica politica, solo la rivendicazione del «diritto delle minoranze». Perché per l’ex sottosegretario alla Giustizia nel Prodi II, docente di Sociologia dei fenomeni politici, il punto sta tutto lì: «Non si deve fare l’errore di ritenere che le posizioni della Binetti siano quelle dei cattolici italiani. All’interno della Chiesa cattolica i pensatori più acuti e autorevoli, da Possenti a Reale, da Vito Mancuso a Roberta De Monticelli, hanno offerto i contributi più illuminanti sulla questione dell’autodeterminazione e della libertà individuale». «Per questo — continua Manconi — è un errore identificarsi con la posizione della Binetti. Resta chiaro che anche sulle questioni di bioetica si vota e si decide a maggioranza». E chi ha deciso di lasciare il partito, come il poeta Valerio Magrelli, sbaglia perché se «le delusioni sono motivatissime, nel Pd c’è ancora l’opportunità di condurre battaglie».

Corriere della Sera 16.4.09
Bioetica Il gruppo di Milano e il dibattito sul testamento biologico
I dubbi dei medici cattolici: il sondino non sia un obbligo
«Decidere caso per caso sui pazienti in stato vegetativo»
di Simona Ravizza


Il presidente milanese dell’Amci : a volte interventi gravosi per i pazienti. Il vice: prevalga la dignità del malato

MILANO — Medici cattoli­ci, ma fuori dal coro sull’obbli­go di nutrire e idratare artifi­cialmente — sempre e comun­que — i pazienti in stato vege­tativo: «Questi interventi, a volte, non ottengono il fine per cui sono instaurati o sono troppo gravosi per il pazien­te ». Il sondino, insomma, non deve essere un obbligo. È la presa di posizione dell’Asso­ciazione medici cattolici di Mi­lano (Amci), che l’ha messa nero su bianco in un docu­mento presentato ieri all’ospe­dale Policlinico alla presenza del teologo don Antonio Lat­tuada, uomo di fiducia del car­dinale Dionigi Tettamanzi.
Una voce controcorrente, soprattutto nella Lombardia del diktat del governatore Ro­berto Formigoni sul caso di Eluana Englaro: «Il personale che procedesse alla sospensio­ne dell’alimentazione e idrata­zione artificiale verrebbe me­no ai propri obblighi profes­sionali », aveva avvisato lo scorso settembre il direttore generale della Sanità, Carlo Lucchina, quando il padre del­la donna in stato vegetativo da 17 anni cercava un luogo per staccare la spina.
Mentre è al vaglio del Parla­mento il pluricontestato dise­gno di legge Calabrò sul testa­mento biologico (con il divie­to di sospensione della nutri­zione assistita), l’invito dei Medici cattolici di Milano è di non perdere mai di vista le condizioni psico-fisiche dei malati: «Bisogna valutare ca­so per caso», dice il presiden­te Giorgio Lambertenghi Deli­liers. Carlo Vergani, geriatra conosciuto a livello internazio­nale e vicepresidente dell’asso­ciazione milanese, riassume: «Cibo e acqua somministrati artificialmente possono diven­tare accanimento terapeutico. Il prolungamento della vita non deve essere un principio assoluto. Al di sopra di esso prevale la dignità del malato». L’Amci di Milano, tra le più importanti d’Italia, non è nuo­va a tesi destinate a fare discu­tere. Già due anni fa Lamber­tenghi si era espresso a favore del testamento biologico: «È giusto affermare il diritto del paziente a respingere le tera­pie che prolungano la vita arti­ficiale — aveva detto —. La li­bertà di scegliere il proprio de­stino in condizioni terminali non è in contrasto con la dife­sa della sacralità della vita». Di ieri il richiamo alla necessi­tà di «cure proporzionate» al­l’interno di un’alleanza tra me­dico e assistito: «Perché il pa­ziente possa continuare a vive­re con dignità o con dignità sia accompagnato nel proces­so del morire — si legge nel documento che sarà presenta­to anche alla Cei —. Il tutto fuggendo ogni idea di eutana­sia ». A Milano anche Alfredo Anzani, vicepresidente della Federazione europea delle As­sociazioni medici cattolici, che cita un passaggio della Congregazione per la dottrina della Fede dell’agosto 2007: «L’obbligo di somministrare cibo e acqua per vie artificiali c’è nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiun­gere la sua finalità propria».
Sul fronte opposto Medici­na e Persona, l’associazione vi­cina a Comunione e Liberazio­ne: «L’idratazione e l’alimenta­zione fanno parte del prender­si cura del paziente — sostie­ne il neopresidente Marco Bre­gni —. Di qui la necessità di proseguirle. Soprattutto in ca­so di pazienti in stato vegetati­vo ».

Nutrizione artificiale
Consiste nella somministrazione di proteine, carboidrati, lipidi, vitamine e oligoelementi per coprire in parte o del tutto i fabbisogni nutrizionali del paziente Accanimento terapeutico Viene definito, in assenza del consenso informato, dall’impiego di macchinari e farmaci per sostenere artificialmente le funzioni vitali di pazienti affetti da patologie inguaribili. Senza, il malato morirebbe
Eutanasia
È la morte provocata con un un mix di medicinali per porre fine alle sofferenze di un malato inguaribile. In Italia è vietata, in Europa è permessa in Belgio, Olanda e Lussemburgo

Repubblica 16.4.09
Il Salone del Libro di Torino e il boicottaggio per la presenza dell´Egitto
La Fiera si difende e attacca Vattimo


Tra gli ospiti Rushdie e David Grossman invitati insieme a Tariq Ramadan

TORINO Se non è bella la vita dei consoli onorari, come la letteratura insegna, figuriamoci quella dei diplomatici di carriera. Ieri mattina, alla presentazione della prossima edizione della Fiera del Libro di Torino (andrà in scena dal 14 al 18 maggio), già minacciata a un mese dall´apertura dalle contestazioni politiche, è toccato proprio a un console il difficile tentativo di difendere il suo paese. In questo caso si tratta dell´Egitto, finito nel mirino di alcuni gruppi filopalestinesi e della sinistra radicale in quanto ritenuto dittatoriale, negatore della libertà di espressione e complice dell´assedio di Gaza. Si è assunta il compito una signora sorridente, dall´aspetto mite. É Sherine Maher, rappresentante generale a Milano dell´Egitto, che ha detto brevemente in inglese, un po´ imbarazzata: «Non credo che da noi ci sia questo problema. La libertà di parola è garantita ovunque, a tutti».
Non poteva che rispondere in questo modo, visto il suo ruolo ufficiale. E non altrimenti potevano fare Rolando Picchioni ed Ernesto Ferrero, timonieri da dieci anni della kermesse. Hanno difeso la «pluralità della fiera, che non invita i Paesi e le loro politiche interne ed estere, ma le loro culture». E Picchioni, in particolare, se l´è presa con il filosofo Gianni Vattimo, che ha dato semplicemente la sua adesione alla campagna di boicottaggio antiegiziana promossa dall´International Solidarity Movement e dal Forum Palestina. «Non vorremmo - ha sottolineato con forza il presidente della Fondazione per il libro, la musica e la cultura - che tutto ciò fosse un pretesto per attaccare la Fiera del Libro in quanto tale. Perché, in questo caso, anche i futuri Paesi ospiti d´onore (saranno verosimilmente Sudafrica e Argentina, ndr) dovranno passare al vaglio della "personale democrazia" del filosofo e dei suoi accoliti».
Polemiche e «accoliti» a parte, il salone del Lingotto, giunto alla ventiduesima edizione e declinato stavolta nel filo conduttore di «Io, gli altri», si annuncia con un programma ricco e con un gran numero di nomi importanti della cultura, della letteratura, del giornalismo, della scienza. Un elenco di assoluto rispetto che annovera, tra gli altri, da Orhan Pamuk a Salman Rushdie, da David Grossman allo scrittore cinese Yu Hua, da Eugenio Scalfari (che terrà anche una lezione magistrale) a Donald Sassoon, impegnati in un certame che li vedrà dare voce rispettivamente a Nietzsche e a Marx. Mentre Umberto Eco, Jean-Claude Carrière e a Marco Belpoliti, in dialogo tra loro la mattina di giovedì 14 maggio, battezzeranno l´inizio di Librolandia.
Nell´oceano di incontri, dibattiti e personalità, ci sarà posto per tutto e per il contrario di tutto. Se la fiera ospiterà Salman Rushdie, perseguitato dai fanatici musulmani, dedicherà un ampio spazio agli scrittori palestinesi, ricompensati in qualche modo dalla presenza israeliana del 2008. L´invito è stato esteso pure a Tariq Ramadan. Islamista discusso e discutibile, l´anno scorso si era schierato con chi aveva osteggiato la passerella di Israele ospite d´onore al salone di Torino. Nei giorni scorsi Ramadan è stato accusato di «omofobia», a causa di alcune dichiarazioni rilasciate ai giornali olandesi. Ma il nipote del fondatore dei Fratelli Musulmani, che è consulente del comune di Rotterdam, ha saputo smussare i toni, sostenendo che quelle frasi erano state utilizzate «fuori dal loro contesto».

Corriere della Sera 16.4.09
Scuola, escono 42 mila docenti
di Annachiara Sacchi


Mariastella Gelmini: «La riorganizzazione della spesa ci permetterà di avere più risorse per i laboratori, per le strutture, per aumentare il tempo pieno»

La riduzione di personale farà risparmiare allo Stato 1.600 milioni. In pensione 32 mila insegnanti
Nel 2009-2010 il numero degli iscritti aumenterà soprattutto al Nord. Calo di alunni al Sud

I tagli regione per regione: Campania in testa Più richieste di tempo pieno. Il ministero: accolte

I genitori di Retescuole: ricorreremo al Tar. I prof delle medie: «Si riducono anche le ore di italiano». La Cgil: restano a casa trentamila supplenti annuali

Maestro unico, cinque in condotta, antici­po alle elementari, inglese potenziato alle me­die, educazione alla cittadi­nanza, 350 istituti accorpati. Scuola, si cambia. E si taglia. O, se si preferisce, si raziona­lizza. Con una riduzione di 42 mila docenti che farà rispar­miare allo Stato 1.600 milioni di euro nel 2009-2010, 3.200 milioni nel prossimo trien­nio. Meno prof e più studenti (aumentano di circa diecimi­la unità). Ma il ministro Ma­riastella Gelmini assicura: «La riorganizzazione della spesa per la scuola ci consen­tirà di avere più risorse per i laboratori, per le strutture, per aumentare il tempo pie­no ». Presa di posizione. Che non convince i sindacati: «È tutto da vedere».

Le regole
Nessuno lo ha nascosto. «Saranno lacrime e sangue», è stato detto fin dalla firma della legge 133, la Finanziaria varata nell’agosto 2008. E co­sì è stato. Anche per il mon­do della scuola. La circolare ministeriale dello scorso 2 aprile non lascia dubbi: 6 mi­la e cento prof in meno in Campania, 4 mila in Puglia, oltre 5 mila in Sicilia, 2.700 in Calabria, 4.800 in Lombardia. In totale, 37 mila posti ridotti in organico di diritto (e cioè quello definito sulla previsio­ne degli iscritti) e altri 5 mila stipendi rosicchiati in organi­co di fatto (quello «corretto» ogni anno a settembre). E tut­to sommato è andata meglio del previsto: grazie allo slitta­mento della riforma delle su­periori — posticipata al 2010 — il ministero dell’Istruzione ha potuto sottrarre alla scure della legge 133 altri cinquemi­la posti di lavoro. In più, i 32 mila docenti che a settembre andranno in pensione do­vrebbero ridurre gli effetti dei tagli sui supplenti annua­li.
Risparmi, si parte. Del re­sto il ministro Gelmini lo ha sempre detto: «Il 97 per cento della spesa della scuola è de­stinata agli stipendi dei do­centi. Per investire nella quali­tà non ci resta che il 3 per cen­to, laddove altri Paesi Ocse hanno a disposizione il 20. Ebbene, liberando queste ri­sorse noi potremo spendere meglio». La macchina è parti­ta. Il più penalizzato, il Mezzo­giorno. La colpa è da attribui­re al calo delle nascite: «Pur­troppo — dicono i presidi campani — a differenza delle Regioni del Nord, non possia­mo contare sulle iscrizioni dei giovani extracomunitari. Perdendo alunni, perdiamo anche insegnanti».
I due moschettieri
Ammettere che sì, i tagli ci sono. E confermare che però non cambia niente, che l’of­ferta formativa resta intatta e che i genitori devono stare tranquilli. La missione — non semplice — è stata affida­ta a due superesperti del mini­stero, i direttori generali Lu­ciano Chiappetta e Giuseppe Cosentino. I due stanno giran­do l’Italia per incontrare sin­dacati, direttori regionali, ad­detti ai lavori. Armati di pa­zienza, tabelle e quadri orari, riepilogano numeri e proget­ti. Primo: «Le riduzioni di or­ganico non toccano il tempo scuola ma vanno a drenare le ore che i docenti hanno sem­pre impiegato in supplenze e compresenze». Secondo: «Non sono tagli indiscrimina­ti, abbiamo tenuto conto de­gli indici di industrializzazio­ne delle città, delle aree debo­li, di quelle montane, delle piccole isole, delle zone a for­te processo migratorio o con elevati tassi di dispersione».
Il nodo del tempo pieno
Triplo salto mortale. Che di­venta quadruplo quando si tratta di tempo pieno, il nodo di quest’anno. Sparite le com­presenze — «e quindi le fon­damenta del modello didatti­co che il resto d’Europa ci ha sempre invidiato», protesta­no i comitati anti-Gelmini— le direttive ministeriali dico­no così: «Nulla è innovato per quanto riguarda il tempo pieno. Restano pertanto con­fermati l’orario di 40 ore per classe comprensivo del tem­po dedicato alla mensa e l’as­segnazione di due docenti per classe».
Garanzie. E un’offerta varie­gata: quest’anno, per l’iscri­zione alla prima elementare si potevano richiedere 24 ore settimanali, 27, 30 e 40. Venta­glio ampio, scelta univoca: so­lo il 3,8 per cento delle fami­glie ha preferito un orario in­feriore alle trenta ore. Succes­so del tempo pieno. Che a Mi­lano è passato da 91,19 per cento delle richieste al 91,94 per cento. Ma anche nelle Re­gioni del Sud c’è stato un boom (a Palermo si passa dal 2 al 3 per cento). E allora? Co­me si concilia il picco di gradi­mento per l’orario lungo con i tagli? Risposta: eliminate le quattro ore di compresenza (in cui i due insegnanti della classe partecipavano insieme alla didattica), sfruttati «tutti i residui possibili», grattata via la concomitanza tra mae­stro della classe e insegnante di religione o specialista di in­glese, conteggiato solo il «net­to » del lavoro dei docenti, au­mentato il numero di alunni per classe, «i conti tornano». «Al punto che — aggiunge Chiappetta — siamo riusciti a incrementare il numero di sezioni a 40 ore». Per la precisio­ne, spiegano da Roma, le clas­si a tempo pieno saranno 2.500 in più rispetto allo scor­so settembre per un totale di circa 36 mila. Un aumento del 20 per cento. Non succedeva da nove anni.
Curiosità: Milano, capitale del tempo pieno, è anche la provincia che ha la maggior richiesta delle 24 ore. Il moti­vo lo spiegano i dirigenti sco­lastici: «Le famiglie con teno­re di vita elevato preferisco­no organizzare il pomeriggio dei figli con attività a paga­mento ».
Comitati e genitori
Non si fermano le polemi­che sui tagli. I genitori di Rete­scuole minacciano un ricorso al Tar, a Padova e provincia, denunciano i sindacati, salta­no 356 classi a tempo pieno, si moltiplicano mozioni e pe­tizioni, i professori delle me­die («le più penalizzate dalla mannaia, si riducono perfino le ore di italiano») si stanno organizzando in comitati. «Sarà una scuola più pove­ra », denuncia Mimmo Panta­leo, segretario generale della Flc lavoratori della conoscen­za Cgil. «Il Mezzogiorno, che subisce il 40 per cento di ta­gli, è in ginocchio, aumenta il rapporto tra prof e alunni e così il numero di studenti per classe». Ancora: «Ai 42 mila insegnanti tagliati si aggiun­gono 15 mila tecnici. Trenta­mila supplenti annuali saran­no sbattuti fuori dalla scuo­la ». Le richieste della Cgil: am­mortizzatori sociali e l’immis­sione in ruolo di tutto il per­sonale precario. «L’unico filo logico di questo governo è la riduzione dei costi. Non ab­biamo visto nessuna rifor­ma ».
È più ottimista Bruno Iada­resta, responsabile scuola del Moige, il Movimento Italiano Genitori: «Accogliamo positi­vamente le novità introdotte dalla riforma Gelmini. L’op­portunità di scegliere diversi modelli orari è un importan­te aspetto di partecipazione attiva delle famiglie. Bene an­che il maestro unico». Conclu­sione: «Siamo d’accordo con la riduzione degli orari del tempo ordinario, ma sottoli­neiamo la necessità che a que­sta novità venga affiancato un allargamento delle classi a 40 ore, offerta necessaria per rispondere alle esigenze so­ciali delle famiglie d’oggi e al­lo stesso tempo possibile so­luzione di assorbimento de­gli insegnanti che si sono vi­sti tagliare il proprio posto di lavoro».

Repubblica 16.4.09
Alle urne la democrazia più grande della terra tra tensioni economiche e conflitti religiosi
La svolta dell’India con le elezioni
di Federico Rampini


Il maxiscrutinio durerà tre settimane, più altri sette giorni per lo spoglio
Un´occasione per misurare l´opinione pubblica dopo l´inizio della recessione globale

Oltre 700 milioni di elettori, più di due volte l´intera popolazione degli Stati Uniti: da oggi si celebra il rito di massa del voto nella democrazia più grande del mondo. È iniziata la 15esima elezione legislativa generale in India dall´indipendenza del 1947. Come sempre, questo maxi-scrutinio durerà tre settimane, più un´altra settimana per lo spoglio delle schede. I tempi lunghissimi sono comprensibili, per un´operazione le cui dimensioni non hanno eguali al mondo.
Da quando è iniziata la recessione globale, il test indiano è la prima occasione per misurare lo stato dell´opinione pubblica in una superpotenza emergente. Anche il miracolo economico indiano è messo a dura prova. L´anno scorso le prime tensioni sociali furono provocate dall´iperinflazione alimentare. Ora i prezzi sono tornati sotto controllo, ma si è arenato il flusso di investimenti esteri dalle multinazionali che delocalizzavano i call center e la consulenza informatica.
Il verdetto degli elettori è prima di tutto un giudizio sulla maggioranza di governo uscente, guidata dal partito del Congresso che affronta il rinnovamento generazionale: l´anziano premier Manmohan Singh vuole ritirarsi. La leader del partito Sonia Gandhi sta "allenando" il figlio Rahul, di 38 anni, perché assuma il ruolo storico di erede della dinastia familiare che ha guidato il Paese per tre generazioni. Accettando l´investitura del figlio, Sonia ha dovuto superare la paura della "maledizione dinastica": sia la suocera Indira che il marito Rajiv furono assassinati. Per il Congresso lo sfidante più temuto è il partito nazionalista indù Bjp, che ha già governato fino a quattro anni fa, e che cavalca il fondamentalismo religioso alimentato dalla paura del terrorismo islamico. L´avanzata dell´integralismo induista ha fatto breccia perfino all´interno della famiglia Nehru-Gandhi: il 29enne Feroze Varun Gandhi, nipote di Indira e quindi cugino di primo grado di Rahul, è un virulento e imbarazzante candidato nelle liste del Bjp. C´è infine un composito fronte delle sinistre, che include due partiti comunisti e alcune formazioni regionali spesso ben radicate nelle caste inferiori. Né il Congresso né il Bjp sembrano in grado di raggiungere la maggioranza assoluta nel Parlamento federale, quindi dovranno poi manovrare per conquistarsi alleati in una coalizione multipartitica.
La prima preoccupazione durante queste tre settimane di voto è la sicurezza. Fra agenti di polizia e militari, due milioni di uomini armati sono schierati a vigilare sui seggi. È ancora fresco il terribile ricordo dell´"assedio di Mumbai", quando la città-simbolo della modernizzazione e del cosmopolitismo indiano fu tenuta sotto scacco da un commando di terroristi sbarcati dal mare. Ma le zone a rischio non sono solo i potenziali bersagli del terrorismo islamico foraggiato dai servizi segreti del Pakistan o del Bangladesh. Il primo attacco contro un seggio elettorale è già avvenuto nel Bihar, ed è stato rivendicato dai guerriglieri naxaliti di ispirazione maoista, un altro focolaio endemico della lotta armata che non dà tregua al Paese. È prevedibile purtroppo che gli episodi di violenza si ripetano, tuttavia nel passato non hanno mai perturbato seriamente lo svolgimento regolare delle elezioni. Pur con i suoi immensi problemi - le diseguaglianze estreme, la sopravvivenza delle caste, l´oppressione delle donne nelle campagne povere, le tensioni etnico-religiose - l´India resta un modello per la flessibilità della sua democrazia rappresentativa che ha più volte promosso l´alternanza.
Il rallentamento della crescita economica oggi è in cima alle preoccupazioni dell´opinione pubblica. Il vigoroso aumento del Pil, che toccò il record del 9% nel 2007, non è più ripetibile nelle circostanze attuali. Anche il settore di punta del miracolo indiano, l´informatica, ha avuto il suo crac: la bancarotta della Satyam di Bangalore, indagata per falso in bilancio. E tuttavia c´è meno pessimismo a New Delhi che in America o in Europa. L´India ha un vantaggio anche rispetto all´altro gigante asiatico: a differenza della Cina, infatti, non ha costruito un modello di sviluppo trainato prevalentemente dalle esportazioni. La crescita indiana è stata meno dirompente ma più equilibrata, con un ruolo importante dei consumi interni. E oggi si assiste a una sorta di "staffetta" tra i motori della crescita. Proprio mentre perde colpi la Silicon Valley indiana di Bangalore e Hyderabad, legata strettamente alle commesse delle multinazionali estere, sta reggendo meglio la domanda di consumo dell´India rurale. Nei villaggi di campagna, che continuano a ospitare 700 milioni di abitanti, l´impatto della recessione globale arriva attutito, mentre si è innescata una dinamica autonoma di sviluppo. Un ruolo lo ha anche lo Stato, che in India non si è mai veramente ritirato dall´economia. Il modello di "assistenzialismo burocratico" che risale alle idee socialiste di Nehru (padre di Indira e artefice dell´indipendenza) non è mai stato completamente ripudiato, e questa crisi porta a rivalutarlo.

Corriere della Sera 16.4.09
Il cambiamento possibile. Il Paese che più ha beneficiato della globalizzazione potrebbe rispondere in modo sorprendente alla crisi
L’India, il gigante al voto e la tentazione della sinistra
di Bill Emmott


Elezioni al via: spunta un terzo «polo» tra il partito del Congresso e il Bjp

Negli ultimi tempi, si sente spesso dire che la crisi economica rischia di innescare la mar­cia indietro della globalizzazione, riportare in vigore l’interventismo statale, persino segnare una svolta politica a sinistra. Eppure, è difficile trovare esempi di paesi dove ciò stia realmente accadendo. Se Barack Obama viene considera­to di sinistra, allora forse anche l’America lo è. E nel resto del mondo? Non la Gran Bretagna, né la Francia o la Germania, e certamente non l’Italia. Oggi, però, un altro Paese si reca alle urne e il risultato elettorale potrebbe decretare una virata a sinistra, malgrado tutti i benefici sinora ricevuti dalla globalizzazione e dal capi­talismo liberale — per lo meno, in base alle no­stre valutazioni europee. Parliamo della più grande democrazia del pianeta, l’India.
Tutto ciò che attiene alle elezioni politiche indiane è impressionante. Le operazioni di vo­to sono lunghissime — si svolgono nell’arco di circa cinque settimane — e riguardano 543 cir­coscrizioni, 714 milioni di elettori, oltre 800.000 seggi elettorali, protetti da sei milioni di addetti, tra funzionari e forze dell’ordine. Le percentuali dei votanti non sono alte, in con­fronto all’Italia, ma anche un 60 per cento all’in­circa rappresenta un risultato considerevole, se teniamo conto del fatto che oltre un terzo degli adulti indiani è analfabeta. Sono cifre rag­guardevoli, ma la cosa più sorprendente della politica e delle elezioni in questo Paese è un’al­tra: l’incredibile frammentazione politica del­l’India.
Oltre 40 partiti politici avevano seggi nel Par­lamento uscente. La coalizione di governo, gui­data dall’Indian National Congress, uno dei due soli partiti politici su scala nazionale, rac­coglieva dieci partiti, ma contava sul sostegno informale di altri quattro. La precedente coali­zione, che ha governato il paese dal 1998 al 2004, è stata guidata dall’altro partito naziona­le, il Bharatiya Janata Party (Bjp) — partito na­zionalista indù — e combinava anch’esso le for­ze di dieci partiti, ma in diversi momenti era stato appoggiato da un’altra dozzina di schiera­menti.
In confronto a quella indiana, la politica ita­liana — persino sotto la Prima Repubblica — appare banale. Ma gli stessi risultati elettorali, in India, sono tutt’altro che semplici: non si tratta soltanto del numero dei voti e dei seggi conquistati, ma anche delle potenziali alleanze tra i vari partiti.
È qui che entra in gioco la possibilità di una svolta a sinistra, ma per motivi legati alla fram­mentazione, anziché al dibattito politico. L’In­dia, sotto il governo guidato dal Partito del Congresso, ha assistito al periodo di massima crescita economica della sua storia: fino al 2009, il tasso annuale di crescita del Pil ha fatto registrare oltre l’8 per cento. Quest’anno, la cre­scita ha subito un forte rallentamento, per il collasso degli scambi internazionali e la crisi dei mercati finanziari. Gli economisti prevedo­no per l’anno in corso una crescita del 4-5 per cento.
Il governo in carica non sarà considerato re­sponsabile di questa contrazione, perché tutti sanno che ha avuto cause globali. Ma non si è nemmeno guadagnato molta stima per gli ec­cellenti risultati economici finora raggiunti, e il motivo è duplice. Innanzitutto, i contadini in­diani hanno tratto ben pochi vantaggi dal suc­cesso economico del paese, e questo conta mol­to sotto il profilo politico, visto che il 70 per cento della popolazione vive ancora nei villag­gi. Secondo, negli ultimi anni l’inflazione ha danneggiato i poveri, a causa degli aumenti dei prezzi dei carburanti e delle derrate alimentari. La fiammata inflazionistica oggi si è attenuata, ma il ricordo non è stato cancellato.
Nelle ultime elezioni politiche, nel 2004, il governo guidato dal Bjp era dato per vincente, grazie ai buoni risultati economici. Ma la natu­ra frammentaria della politica indiana, associa­ta al malcontento della popolazione rurale, ne ha decretato la sconfitta. Nel 2009, molti anali­sti politici in India prevedono che il Partito del Congresso si assicurerà un numero sufficiente di seggi per formare un nuovo governo, con l’aiuto di Rahul, figlio di Sonia Gandhi, che ha in mano, di fatto, le redini del partito. I fedelis­simi della famiglia Gandhi sperano che Rahul possa occupare la pol­trona di primo mini­stro tra un anno o due, pur avendo anco­ra 38 anni in un Paese dove i premier hanno in genere tra i 70 e gli 80 anni.
Ma gli analisti po­trebbero sbagliarsi di nuovo. Il Bjp potreb­be rivelarsi forte abba­stanza da formare la propria coalizione di governo. In quel caso, i cambiamenti sarebbero assai pochi, dato che il Bjp e il Partito del Congresso concordano fon­damentalmente su politica estera ed economi­ca. Già si annuncia peraltro una terza possibili­tà. I partiti che contano sul sostegno delle ca­ste inferiori della società indiana, vale a dire dei ceti più poveri, negli ultimi tempi si sono rafforzati politicamente. Il maggiore tra questi partiti, basato in uno degli stati più grandi, l’Ut­tar Pradesh, è guidato da una donna, Mayawa­ti. Se i partiti come il suo raccoglieranno un buon numero di voti in queste elezioni, per via dell’insoddisfazione rurale e il brutto ricordo dell’inflazione, potrebbe anche darsi che Ma­yawati riesca a formare una coalizione di gover­no, alleandosi con ogni probabilità con i partiti comunisti indiani.
Al momento, i sondaggi di opinione non puntano affatto in questa direzione, ma nell’In­dia rurale, diffusamente analfabeta e divisa po­liticamente, i sondaggi di opinione si rivelano spesso ingannevoli. Se sarà Mayawati a forma­re il nuovo governo, allora l’India, uno dei gi­ganti emergenti della globalizzazione, potreb­be virare bruscamente a sinistra, rivedendo le riforme economiche e persino ripristinando le barriere commerciali. Questo sì che sarebbe un risultato sorprendente.
(Traduzione di Rita Baldassarre)

Corriere della Sera 16.4.09
Il sultano democratico
Come si corrodono le garanzie costituzionali
di Giovanni Sartori


Esce da Laterza una raccolta di scritti sulle trasformazioni del potere e sul rischio di svuotamento delle istituzioni dall’interno

Dopo le elezioni idilliache volute e pe­santemente perdute da Veltroni, l’idillio è presto finito e la sinistra torna ad accusare Berlusconi di in­tenzioni dittatoriali e anche di essere già un dit­tatore in pectore. Ma «dittatura» non deve esse­re usato a vanvera.
Per lungo tempo il termine è stato inteso nel suo antico significato romano, un significato del quale ci dobbiamo dimenticare. Perché og­gi «dittatura» denota una fattispecie che si è af­fermata tra le due guerre mondiali, che in que­gli anni ha largamente travolto le democrazie parlamentari, che a sua volta è stata travolta dal­la sconfitta bellica del nazi-fascismo e che pur­tuttavia resta viva e vegeta, sotto mentite spo­glie, in giro per il mondo. Visto che molti non lo sanno, importa ricordare che le democrazie dell’Ottocento sono già cadute una prima volta. Agli inizi degli anni Venti il regime sovietico era già dittatoriale e tutti gli Stati comunisti so­no stati tali finché sono durati. Il camuffamen­to fu solo di dichiararli «dittature del proletaria­to »; dizione che Marx usò di rado e a casaccio, per poi essere reclamizzata dal marxismo-leni­nismo. Ma era, ed è, una nozione assurda. Una dittatura collettiva di una intera classe, o anche di un demos nel suo insieme, non ha alcun sen­so. E se qualcuno ricorda, a questo proposito, che i costituenti americani, e poi Tocqueville e John Stuart Mill, usarono la dizione «dittatura della maggioranza», quel qualcuno ricorda ma­le: quei signori non dissero mai dittatura ma ti­rannide, «tirannide della maggioranza».
La precisazione è, allora, che le dittature de­gli anni ’20-40 si gloriavano di essere tali. Abbat­tevano, a loro dire, una democrazia spregevole, una plutocrazia corrotta e un governo imbelle, incapace di assicurare l’ordine e di contrastare il caos rivoluzionario dei «rossi». In quegli anni l’Inghilterra resse e anche la Francia; ma Italia, Germania, Spagna, Portogallo e quasi tutta l’Eu­ropa dell’Est (salvo la Cecoslovacchia) passaro­no sotto il tallone di dittatori o di monarchi-dit­tatori. Il punto è che in quegli anni le dittature si consideravano regimi legittimi che «supera­vano » le democrazie. Oggi le nostre democra­zie sono di nuovo in perdita di credibilità. Ma reggono anche perché il principio indiscusso di legittimità del nostro tempo è (teocrazie a parte) che il potere viene dal basso, che si deve fondare sul consenso e sulla libera espressione della volontà popolare. Il che rende le dittature regimi «cattivi», regimi illegittimi. E questa è la grossa differenza che al giorno d’oggi non con­sente più alle dittature di esibirsi come tali e di presentarsi come superamenti delle democra­zie. Oggi le dittature sono endemiche in Africa e abbondano in gran parte del mondo. Ma sono dittature camuffate, che smentiscono di essere tali e fingono di essere democrazie o quantome­no regimi in corso di democratizzazione. Que­sta è una importante differenza rispetto alle dit­tature fasciste, naziste e comuniste di settanta anni fa. E anche una differenza che ci impone più che mai di stabilire cosa sia una dittatura anche se e quando si camuffa.
In prima approssimazione la dittatura è pote­re concentrato in una sola persona. Per così di­re, la dittatura è del dittatore, un signore (an­che donna, s’intende) legibus solutus che non è sottoposto a leggi e che usa le leggi per sotto­porre i sudditi al suo volere.
Al che viene opposto che sono anche esistite «dittature collegiali» e cioè gestite da una pic­colissima oligarchia. Sì, tale è stata dopo la mor­te di Stalin la formula adottata nell’Unione So­vietica. Ma fu soprattutto una formula salva vita (che non salvò la vita di Beria, ma che consentì a tutti gli altri membri del politburo moscovita di morire nel proprio letto). Comunque sia, la dittatura collegiale, che oggi vige soprattutto in Cina, resta una anomalia di alcuni regimi comu­nisti.
Una anomalia spesso più apparente che reale e che comunque non basta a inficiare la caratterizzazione «personalistica» delle dittatu­re. Che passo a definire così: un regime di pote­re assoluto e concentrato in una sola persona, nel quale il diritto è sottomesso alla forza.
La sostanza delle dittature è e resta questa. Ma la strategia della loro creazione è cambiata. Prima il dittatore abrogava senza infingimenti la Costituzione preesistente. Senza arrivare al caso limite di Hitler che dichiarava «la Costitu­zione sono io», il dittatore del secolo scorso eli­minava platealmente le camere elettive e istitui­va scopertamente strutture di comando a suo uso e consumo. Oggi, invece, il dittatore si infil­tra gradualmente e senza troppo parere nelle istituzioni democratiche preesistenti e le svuo­ta dall’interno. Una prima incarnazione di que­sta strategia furono le «democrazie popolari» inventate nel secondo dopoguerra dal Cremli­no per i Paesi dell’Europa dell’Est restati nella zona di influenza sovietica. Ma in quel caso il camuffamento fu soltanto nella denominazio­ne, nel nome. L’accettazione, nella cosiddetta democrazia popolare, di partitini satelliti era soltanto una cortina fumogena dietro la quale il bastone di comando restava interamente in mano del partito comunista di ogni Paese.
Ma oggi la strategia di conquista dittatoriale delle democrazie è graduale e molto più raffina­ta. È una strategia che sviluppa «Costituzioni in­costituzionali » e cioè che ne elimina senza dare nell’occhio le strutture garantistiche. Il costitu­zionalismo è tale nella misura in cui istituisce poteri controbilancianti che si limitano e con­trollano a vicenda. Quando è così i cittadini so­no garantiti dall’abuso di potere e sono comun­que in condizione di difendere e di affermare la loro libertà. Quando non è più così, le Costitu­zioni diventano semplicemente qualsiasi for­ma, qualsiasi struttura, che ogni Stato si dà. Con tanti saluti, in tal caso, alle libertà del citta­dino.
Riassumo così: oggi le dittature sono Stati ca­ratterizzati, dicevo, da Costituzioni incostituzio­nali, Stati la cui forma (Costituzione) consente e autorizza un esercizio concentrato e incontrol­lato del potere politico. Nessuno si dichiara più dittatore. Tutti fanno finta di non esserlo. Ma lo sono.
Arrivo a Silvio Berlusconi. È un dittatore? No: non viola la Costituzione. Lo può diventare? Sì, le riforme costituzionali che caldeggia sono tut­te intese a depotenziare e fagocitare i contropo­teri che lo intralciano. Ma vuole davvero diven­tare un dittatore? Qui dobbiamo rispondere a naso, a fiuto. A mio fiuto, a Berlusconi interes­sa semplicemente fare quello che vuole. Si ritie­ne bravissimo ed è a questo titolo che pretende a mano libera, che mal sopporta chi lo frena. Però è vero che la sua megalomania sta crescen­do, che esibisce un complesso di persecuzione addirittura nei confronti dei media (tutta la tele­visione che gli spara contro! Figurarsi). Il che depone male. Eppure a tutt’oggi il personaggio resta, a mio vedere, soprattutto quello di un pa­drone autoritario.
Congetture a parte, nei suoi due precedenti periodi di governo Berlusconi si è impegnato a salvare se stesso dalla magistratura e a corazza­re un impero tutto intriso di conflitti e di abusi di interesse. Questa volta su questo fronte è ora­mai tranquillo. E si è così dato a costruire, all’in­terno di Palazzo Chigi, e della sua personale sfe­ra di potere, un sultanato. Mi sono divertito a battezzarlo così perché il termine (islamico) è evocativo, insieme, di fasto e di potere dispoti­co. Il fatto è che Berlusconi concede a Bossi quel che Bossi vuole (federalismo e due mini­steri chiave) e concede qualche contentino an­che a Fini (promosso a presidente della Camera per meglio rimuoverlo da An). Dopodiché il Ca­valiere sultaneggia su un partito cartaceo davve­ro prostrato ai suoi piedi. Nomina ministri e mi­nistre chi vuole. Caccia chi vuole, come se fosse personale di servizio. Nessuno fiata. I ministri del partito di sua proprietà sono tali per grazia ricevuta. E tornano a casa senza nemmeno un gemito se così decide il padrone. Non manca, nel suo governo, nemmeno un gradevole ha­rem di belle donne. Il sultanato era un po’ così.

Corriere della Sera 16.4.09
La follia secondo Tobino
di Giorgio De Rienzo


Curato da Monica Marti, con un’introduzione di Michele Zappella e una nota storica di Primo De Vecchis torna, negli Oscar Mondadori, Gli ultimi giorni di Magliano di Mario
Tobino (pp. CVI+259, e 9) che uscì fra molte polemiche nel 1982. È la risposta dura alla legge Basaglia che decretava la chiusura dei manicomi, a cui lo scrittore, ma soprattutto lo psichiatra Tobino, si oppone con fermezza. Al testo segue un’appendice inedita dai Diari. Un solo amarissimo pensiero: «Giunge voce, si viene a sapere che diversi malati, dimessi dai manicomi, spinti fuori nel mondo, nella società, per guarire, come proclamano i novatori, per inserirsi sono già in galera, in prigione, arrestati per atti che hanno commesso. Nessuno più li proteggeva, li consigliava, gli impediva. Nessuno li manteneva con amorevolezza e fermezza, li conduceva per mano lungo la loro possibile strada. Ed ora precipitano, si apre per loro il manicomio criminale. La follia non c’è, non esiste, deriva dalla società. Evviva!».

Corriere della Sera 16.4.09
Quando i clandestini erano italiani: il passato rimosso come una colpa
L’emigrazione del dopoguerra verso l’Europa: gli irregolari erano il 90 per cento
di Gian Antonio Stella


Un reportage storico di Sandro Rinauro. Famiglie decimate dagli «scafisti delle Alpi»
Abbiamo dimenticato tutto, rimosso tutto. Anche quelle copertine della Domenica che raccontavano le tragedie di chi non ce l’aveva fatta.
Come una donna che «sorpresa dalla tempesta di neve vide il suo bambino spi­rarle tra le braccia, proseguì per qualche tratto e infine cadde esausta con l’altro figlio: i tre corpi furono trovati due gior­ni dopo».

Quando gli emigranti eravamo noi, non tanto tempo fa, il co­mune di Giaglione, in Val di Su­sa, arrivò a chiedere aiuto alla prefettura di Torino «non avendo più ri­sorse per dare sepoltura ai clandestini che morivano nell’impresa disperata di valicare le Alpi». Ogni notte, scriveva il «Bollettino quindicinale dell’emigrazio­ne » nel 1948, passavano da lì in Francia, illegalmente, «molto più di cento emi­granti ».
Erano in tanti, a lasciarci la pelle. «Due o tre al mese, almeno» dice il rap­porto di un agente del Sim, soltanto su quelle montagne dalle quali si scendeva verso Modane. Al punto che il sindaco di Bardonecchia, Mauro Amprimo, fu co­stretto ad affiggere un manifesto per invi­tare le guide alpine (gli «scafisti» della montagna) a essere meno ciniche: «An­che se compiono azione contraria alla legge, sappiano almeno compierla obbe­dendo a una legge del cuore (...) sceglien­do altresì condizioni di clima che non sia­no proibitive e non abbandonando i di­sgraziati emigranti a metà percorso».
È uscito un libro, su quella nostra di­sperata epopea. Si intitola Il cammino della speranza (come il film di Pietro Ger­mi ispirato alla copertina della Domenica che illustra la pagina), l’ha scritto Sandro Rinauro (Einaudi, pagine 442, e 35) e par­la dell’«emigrazione clandestina degli ita­liani nel secondo dopoguerra».
Come andasse «prima» un po’ si sape­va. Basta ricordare uno studio di Adriana Lotto secondo cui nel 1905 su quattro ita­liani al lavoro nell’Impero tedesco solo uno era registrato e gli altri tre erano «clandestini in senso stretto». O la rela­zione di Stefano Jacini jr alla Camera nel 1922: «Alla frontiera del colle di Tenda ogni notte decine e decine di lavoratori, per non dire centinaia, passano clandesti­namente la frontiera». Il libro di Rinauro toglie il fiato. E spaz­za via definitivamente (sventagliando 258 note bibliografiche per il solo capito­lo terzo) uno dei luoghi comuni intorno alla differenza «fra noi e loro». Ha detto Carlo Sgorlon: «Gli immigrati italiani, e quelli friulani in particolare, non erano mai clandestini. In genere erano grandi lavoratori, rispettavano le leggi locali, ra­ramente protestavano, non si ribellavano mai. Subivano quarantene, vaccinazioni, controlli di ogni genere». Non è così. Me­glio: era «anche» così, ma non solo. Ac­canto a quella «assistita» che «prevedeva il reclutamento degli emigranti da parte degli Stati d’esodo e di destinazione me­diante accordo bilaterale» e radunava quanti volevano andarsene (aspirazione che per un sondaggio Doxa del 1952 ani­mava perfino il 56% dei giovani lombar­di) nei centri di smistamento dove c’era «la selezione medica e professionale», c’era infatti l’«altra» emigrazione: illega­le. Ed erano soprattutto lombardi, vene­ti, piemontesi, friulani.
Certo, ci sono un mucchio di differen­ze tra l’emigrazione di allora e di oggi. Il mondo intero era diverso. Al punto che Charles de Gaulle, che amava come nes­sun altro la Francia ma sapeva quanto avessero contato nella storia patria il ligu­re Léon Gambetta, il piemontese Paul Cé­zanne (Paolo Cesana) o il veneto Emile Zola, si spinse a incoraggiare l’immigra­zione «al fine di mettere al mondo i 12 milioni di bei bambini di cui necessita la Francia in 10 anni».
Chiudeva un occhio, Parigi, in certi an­ni, sui clandestini. Come lo chiudevano i governi tedeschi, belgi... Perché, certo, le ripetute sanatorie urtavano l’Italia che cercava, attraverso gli accordi, di argina­re lo sfruttamento dei suoi emigranti. Ma l’economia reale badava al sodo e, spiega Rinauro, l’immigrazione illegale era «il meccanismo di elasticità che per­metteva alla rigida politica ufficiale del­l’immigrazione di adeguarsi a qualunque congiuntura». Pochi esempi? In Germa­nia «nel 1959 entrarono mediante la sele­zione ufficiale 24.000 lavoratori italiani a fronte di 25.000 emigranti 'spontanei'». In Lussemburgo si inserirono illegalmen­te oltre un quarto degli immigrati tricolo­ri del 1958. Il Belgio era pieno di italiani clandestini espatriati «per il 50%» dalla Francia. E perfino la Svizzera, stando a un rapporto del ministero del Lavoro del 1954, era così permeabile che i «recluta­menti irregolari da parte delle ditte elveti­che » erano «il più alto contingente del movimento migratorio italiano per la Svizzera». Ma come: più irregolari che re­golari? Sì. «Considerando che tra il ’46 e il ’61 la media delle entrate annue degli italiani ufficialmente registrate si aggira­va sulle 75.000 — scrive Rinauro — si può avere un’idea sia pure imprecisa del­la grande entità dell’afflusso illegale».
Ma a gelare il sangue sono i dati fran­cesi: «Del campione de­gli italiani giunti dal ’45 nella regione parigi­na intervistati nel 1951-52 dalla famosa in­chiesta dell’Institut na­tional d’études démo­graphiques sull’immi­grazione italiana e po­lacca in Francia, ben l’80% era entrato senza contratto di lavoro, cioè clandestinamente o da 'turista'». Per non dire di chi lavora­va nell’agricoltura. «Secondo il direttore della Manodopera straniera del ministe­ro del Lavoro, Alfred Rosier, alla fine del 1948 dei 15.000 italiani presenti nel dipar­timento agricolo del Gers, ben il 95% era irregolare o clandestino». Quanto ai fami­liari, «emigrò illegalmente» addirittura «il 90%». Solcando le Alpi, ad esempio, al di là della Val d’Isère fino a Bourg-Sa­int- Maurice dove nel settembre 1946 «ne arrivavano mediamente 300 al giorno, ma toccarono addirittura le 526 unità in una sola giornata».

l’Unità 16.4.09
Intervista a Michel Onfray
«Impariamo a maneggiare il nostro corpo la nostra libertà»
di Silvio Bernelli


Il filosofo francese presenta in Italia il suo nuovo libro, «La potenza di esistere», sintesi di tutti i suoi interessi: etica, bioetica ed estetica

«La potenza di esistere. Manifesto edonista» di Michel Onfray è edito dalla casa editrice Ponte alle Grazie, collana «Saggi» (pagine 203, euro 15,00)

Francese, cinquantenne, Michel Onfray è un personaggio a tutto tondo, capace di accendere entusiasmi e attirarsi le critiche più feroci. Autore di una trentina di libri, tra i quali il celebre Trattato di ateologia pubblicato in Italia da Fazi, interviene spesso nel dibattito sulla laicità dello stato, la libertà dei comportamenti sessuali e la politica della sinistra europea. Incontriamo Michel Onfray in un albergo del centro di Torino, poco prima della presentazione al Circolo dei Lettori del suo La potenza di esistere, appena pubblicato in Italia da Ponte alla Grazie. Capelli bianchi scompigliati, camicia di lino chiara, pantaloni neri, modi di fare più che informali: Onfray assomiglia assai più a un giovane ribelle che a un pensatore serioso.
In molte sue opere, «Teoria del corpo amoroso» ad esempio, (edito in Italia da Fazi, n.d.a.), lei si occupa del corpo. Da dove nasce questo interesse?
«Con la fine del marxismo e il declino della religione cristiana, da quando i grandi temi stanno scomparendo insomma, l’argomento più allettante rimasto è il corpo. Da qui nascono gli interrogativi che oggi sono sulla bocca di tutti. Che cos’è il corpo? Cosa si può fare con il proprio corpo? Ho scritto molto su temi bioetici, quali l’eutanasia, ma anche la procreazione assistita, il problema dei trapianti e dell’eugenetica. Sono sempre stato favorevole a un uomo capace di riappropriarsi del proprio corpo, un uomo post-cristiano».
Pare che le istituzioni, ma anche la società nel suo insieme, non siano ancora state capaci di produrre un’idea di famiglia che vada d’accordo con la nuova idea di libertà del corpo. Come risolvere questa contraddizione?
«In questo caso, sono d’accordo con quanto dice Benedetto XVI...»
Se lo dice lei, che è una specie di campione dell’ateismo, questa è una notizia...
«Volevo darle un titolo per il giornale (Onfray si lascia andare a una risata, n.d.a.)… A parte gli scherzi, sono contrario a una sessualità nichilista, al sesso per il sesso. Bisogna dare sempre un senso al corpo e a ciò che ne facciamo. Ogni persona deve essere libera di stipulare un contratto con il proprio partner, dove in cambio dell’esclusività sessuale si riceve la possibilità di costruire qualcosa».
È d’accordo con Benedetto XVI anche per quanto riguarda la dichiarazione sui profilattici che non servirebbero a combattere l’Aids?
«È un’affermazione che non mi sorprende, in linea con la dottrina cattolica. Mi sembra comunque che rispetto a Giovanni Paolo II, molto sensibile alle dinamiche dei mass media, Benedetto XVI lo sia molto meno. Detto ciò, è un uomo molto colto, un filosofo che ha sempre il merito di sapere cosa dice».
Lei è un pensatore individualista e libertario, fa parte di una corrente di pensiero che il comunismo europeo, in particolare quello italiano, e credo anche quello francese, ha sempre detestato. Pensa che l’attuale incapacità della sinistra di comprendere la società nasca proprio da questa frattura?
«Il marxismo è passato come un rullo compressore sulla nostra società, e non a caso oggi la sinistra deve essere post-marxista. Dopo le terribili tragedie del XX secolo, è necessario ripensare la resistenza al capitalismo non in termini di rivoluzione. Bisogna imparare a maneggiare la propria libertà e cercare di costruire una società anti-dogmatica, federata, basata su tanti micro-sistemi collegati in un network».
Una sinistra vista così non sembra un partito. Quale forma potrebbe avere?
«La sinistra deve essere anche un partito. Se ci fosse una sinistra unita, forte, anti-liberista potrebbe costituire una forza capace di raggiungere una massa critica tale da condizionare la società».
Con quali parole presenta ai nostri lettori il suo libro «La potenza di esistere»?
«Ogni libro appartiene alle persone che lo leggono, ciascuno ci trova il filo che gli è più congeniale. La potenza di esistere comincia con un parte autobiografica in cui racconto i quattro anni vissuti da bambino in un orfanotrofio salesiano. Non è stata comunque questa esperienza a fare di me un ateo: è che non ho mai avuto il senso della trascendenza. Da piccolo, quando mi sentivo raccontare la storia di Gesù, l’ascoltavo come fosse quella di Zorro, come un’avventura. Per il resto, La potenza di esistere è un po’ la sintesi di tutti i miei interessi: l’etica, la bio-etica, l’estetica».
Il sottotitolo di «La potenza di esistere» è «Manifesto edonista». Questo aggettivo viene per lo più percepito con un significato molto vicino a egoista. È un segno di come certe parole abbiano ormai perso il loro significato originario, siano state consumate dal tempo?
«Questo della perdita di senso delle parole è un vero problema. È un fenomeno di consunzione molto forte anche nel campo della filosofia. Pensiamo al significato del termine “materialista”, che oggi non ha più niente a che fare con Democrito, che non parlava affatto di attaccamento al denaro; oppure al termine “stoicismo”, che non significa accettare con rassegnazione di prendersi un pugno in faccia, come sembra voglia dire oggi. Questa svalutazione dei termini porta, per forza di cose, a un mondo triviale, dominato da parole senza valore, che faremmo bene a combattere».