Lo psicologo sotto la tenda
Paure, incubi, depressione. Sono migliaia gli sfollati che chiedono aiuto. Perché la ricostruzione più difficile è quella dell’anima
di Michele Smargiassi
L´AQUILA. Le viene fuori di getto: «Ma io, dottoressa, posso ancora sgridare le mie tre figlie?». Anche S. s´è presentata al centro d´ascolto, come tanti, apparentemente a chiedere solo qualcosa per dormire. «Non chiudo occhio da giorni, mi aiuti»: lo psicologo da campo se lo sente ripetere decine di volte. Invece S. d´un tratto ha deciso di liberarsi dal suo tormento più segreto: «Non riesco più a fare la mamma. Non so più cos´è giusto e cos´è sbagliato. Mi spieghi dottoressa: le regole di prima valgono ancora? Anche dopo? Anche qui?».
Un terremoto non fa crollare solo i soffitti di calce. Incrina i muri portanti di un´identità. Scuote le fondamenta dell´Io. Spacca in due lo schema mentale che dà ordine a ogni vita: prima e dopo, là e qui. In mezzo: una faglia, un crepaccio di cui è difficile intravedere il fondo. La desolazione di S., sfollata dal suo ruolo materno, potremmo accontentarci di spiegarla con il senso di impotenza e anche di colpa (immotivato ma fortissimo) per non aver saputo proteggere le bambine dalla perdita di ogni sicurezza. Ma gli psicologi delle catastrofi sanno di dover cercare più a fondo. Nei sedimenti ancestrali della psiche umana. Emanuela Torbidoni, che ha lasciato il suo studio a Teramo per farsi volontaria dell´ascolto, suggerisce un indizio: «La terra è un simbolo materno». Se la Grande Madre impazzisce e si ribella ai suoi figli, come potranno le piccole madri resistere salde nel loro ruolo?
"Posso ancora sgridare le mie tre figlie?". La donna che non sa più fare la mamma è una delle migliaia di persone affette da ansia e senso d´impotenza, dopo il sisma in Abruzzo. La ricostruzione più difficile, quella dello spirito di una popolazione traumatizzata, è affidata a sessanta psicologi dell´emergenza. Raccolgono le confessioni degli sfollati e offrono loro assistenza. "Un disastro naturale è peggio della guerra. Non c´è un nemico da incolpare"
Tutti parlano all´imperfetto. "Io ero un´impiegata" Si sentono parte di una massa ferita L´identità è rimasta sotto le macerie
Le famiglie si stringono: nessuno riesce a lasciare da soli i propri cari I divorziati si riavvicinano, ma non durerà a lungo
Si piange senza vergogna. Anzi, le lacrime sono liberatorie. E chi racconta non bada più al rispetto della privacy
Nella piccola "città di tela" di Poggio di Roio nessuno ha ancora visto il paese distrutto "Sarebbe uno shock troppo forte"
La psicologia dell´emergenza è giovane ma ha una storia e una letteratura ormai consolidate. Però forse è qui, nelle tendopoli d´Abruzzo, che per la prima volta si è fatta esperimento di massa. Una sessantina gli psicologi costantemente sul campo, organizzati da associazioni professionali specializzate: sono abbastanza per coprire quasi tutti i cento campi degli sfollati. In quello più grande, piazza d´Armi all´Aquila, le tende del pronto soccorso dell´anima sono addirittura tre: una per gli incontri di gruppo, una per i colloqui individuali e una per lo scarico di tensione dei volontari, perché anche tirar fuori cadaveri dalle macerie lascia cicatrici interiori. Le sottili pareti di tela verde non fanno gran schermo alla privacy, filtrano brandelli di confessioni, «non so cosa mi succede, ero così energico», «non riesco a consolare mia madre». Non importa, tanto tutti, nel cuore, hanno le stesse cose. Il pudore e la riservatezza sono cose del prima. Nei debriefing collettivi, per dirla con Federica, psicologa di Novara, «si apre il rubinetto» davanti agli sconosciuti, si racconta ancora una volta quella notte. Un cieco parla del boato. Un vedente preferirebbe non aver visto. Un uomo descrive per dieci minuti buoni una sola cosa, una lampada, statuetta di porcellana e sfera di cristallo, dono di matrimonio, «fragile, bellissima» finita in briciole. «Una vita condensata in un oggetto», traduce Oriana Broccolini di Pea, associazione abruzzese di psicologi d´emergenza. Si piange senza vergogna, a torrenti. Lacrime liberatorie, benvenute, perché i volti che appaiono sulla soglia delle tende spesso sono come le facciate delle case abbandonate: mostrano poche crepe, ma dietro magari è crollato tutto. A sorpresa, giungono risate dalla tenda 56: vere, gioiose, cristalline. Ne sbuca un medico-clown, Professor Pastrocchio, naso rosso a pallina e scarpone smisurate, è uno psicologo anche lui, a suo modo: «La signora mi ha detto: di notte bene o male dormi, ma i giorni non finiscono mai».
Ansia, crisi di panico sono solo la superficie del nulla che incombe. «Come ti senti?», è la domanda d´approccio. «Vuoto», è la risposta standard. Nel vuoto, gli echi più brutti della tua vita risuonano più forte. «Mi sento come quando divorziai da mio marito»: questa è una signora matura, storia vecchia di vent´anni, eppure rieccola qui come una scossa del quinto grado. «Non faccio altro che pensare a mio padre»: questo invece è un ragazzo ormai grande, allevato da una ragazza-madre, papà non l´ha mai conosciuto, ma ecco che gli appare dalle crepe del muro. «Sono la passività forzata e la vita sospesa che resuscitano fantasmi del passato», spiega Antonio Mancinella che per la Società italiana di psicologia dell´emergenza accudisce gli sfollati degli alberghi al mare, situazione logisticamente felice e interiormente rischiosissima. Nella saletta dell´hotel Don Juan di Giulianova riceve ogni pomeriggio persone che parlano di sé all´imperfetto: «Io ero un ingegnere», «io ero un´impiegata», perché ora si sentono rifuse in massa nell´indifferenziata categoria dei terremotati. «Ci hanno anche dato la maglietta della Protezione civile�». L´identità di un tempo è sotto le macerie. Quella futura, chissà. Nel presente, nulla. Dieci giorni dopo la grande paura, anche l´euforia degli abbracci è esaurita. I teorici conoscono bene la progressione delle fasi post-cataclisma: l´eroismo sovrumano delle prime ore, l´esplosione affettiva del subito-dopo, poi la delusione del tempo sospeso. L´evaporazione dello stress da lavoro lascia campo libero all´esplosione degli affetti. Le famiglie si stringono nelle tende. «Il mio ufficio ha riaperto ma non posso andare a lavorare, ho paura a lasciarli qui»: un padre. Contatto visivo obbligatorio. A vedere i muri della casa vecchia si va in processione familiare. Raccontano di coppie divorziate che hanno chiesto una tenda insieme. Ma anche questo finirà. Un terremoto non ricuce mai. La psicologa Lucrezia: «Ricominciano le liti. Il padre preferisce l´albergo, la madre restare vicino alla casa. I figli grandi vogliono cambiare città, ricominciare da zero, i genitori li rimproverano soffrendo: allora tutto quello che abbiamo costruito per voi?».
Chi non ha un passato da perdere o da ritrovare, invece, soffre di più. I bambini. Due giorni fa, chiamata d´urgenza da un hotel di Roseto: «È scoppiato il panico fra i ragazzini», pianti, ansie, una crisi collettiva. Il terremoto replicato con grida, rumori, tremori, da chi non sa tradurlo in parole. Il vuoto è contagioso. Per quelli appena più grandicelli è anche un vuoto cibernetico: i computer per Messenger e Facebook sono sotto i mattoni, e il mondo s´è di colpo rimpicciolito. «Ho perso tutti gli amici», ragazzina in lacrime, lo psicologo Antonio le ha trovato un Internet point. Ma fosse sempre così facile. «È lo stress da campo ora il nemico più insidioso», spiega Fabio Sbattella, presidente di Psicologi dei Popoli: in quello affidato alle loro cure, Monticchio, il primo impegno è stato ridare nome ai luoghi e misura al tempo. Orologi e calendari appesi nei locali collettivi. Cartelli con i nomi dei camminamenti fra le tende, «Piazza Speranza», «Via Ricostruzione». Claudia e Marco ci passeggiano con le loro casacche gialle e la scritta "psicologo" sul petto, sicuri che qualcuno li fermerà, infatti succede a ogni passo: c´è la biondina che domani torna a lavorare alle Poste e anche questo le dà ansia, «mi sembra di essere tornata bambina, ho paura di non saper più fare nulla». C´è la madre di famiglia che tiene insieme a fatica i pezzi del clan, la sorella è appena «scappata via, io invece resto qui», ma ci sta male. C´è l´operaio robusto che si rode per il rimorso di aver stuzzicato il destino: «Stavamo a giocà col terremoto, ci scherzavamo�». C´è l´infermiera pensionata già in sindrome da abbandono: «Come faremo quando ve ne andrete?».
«Qualcuno dovrà continuare, faremo i turni», immagina Marilena Esposito, veterana della psicologia d´emergenza: ha fatto il Pakistan, l´Iraq, lo Tsunami e ora è alle prese col microcosmo di Roio Poggio, forse la più piccola delle cittadelle blu senza nome che punteggiano la valle, issata dopo decine di tornanti fuori dal clamore delle telecamere. «Il terremoto è peggio della guerra. Non c´è un nemico a cui dare la colpa. Non c´è un senso». Il paese distrutto è lì sotto, basterebbe affacciarsi oltre quel bordo, ma un altro del team, Maurizio Agnesi, ha fatto sbarrare il sentiero: «Nessuno ha ancora visto cos´è rimasto, lo shock può essere troppo». Ma nella Roio di tela e brande nessuno ha il coraggio di fare quei due tornanti. Solo una settantenne, solo lei ha voluto farsi accompagnare a vedere. Ha vacillato. Ha resistito. Poi ha deciso cosa fare del suo passato. «Tenga questo», ha allungato a Marilena un ciondolino a forma di animaletto, «è l´unica cosa che mi è rimasta di quel che avevo. Gliela regalo», ed è tornata nel limbo della sua irreale, nuova casa blu.
Repubblica 17.4.09
Antonio Picano, dell´Associazione Strade 360
"Serve una task force contro la depressione"
Una task force di psichiatri per curare la depressione post-terremoto, una struttura specifica di professionisti specializzati nella cura dei traumi provocati da catastrofi. È la proposta di Antonio Picano, psichiatra, presidente dell´Associazione Strade 360, che si occupa da anni di organizzare strutture pubbliche per il trattamento della depressione.
Professore, di che si tratta?
«È un progetto che verrà presentato alla Protezione civile, da trasformare in un comitato permanente che gestisce eventi di questo genere. Il trattamento della depressione dopo un terremoto va affrontato in modo scientifico, non può essere una cosa affidata al volontariato, ci vogliono professionisti».
Quante persone dovranno essere seguite?
«Possiamo ipotizzare che ci saranno circa 10 mila persone da trattare e dobbiamo prevedere un periodo di lavoro di almeno tre anni. La depressione dopo una catastrofe è una branchia della psichiatria, investire sulla sua cura è una cosa strategica per lo Stato, è fondamentale per il recupero di queste persone e quindi per il recupero di tutta l´area colpita».
La depressione ha un costo sociale.
«Sì, e bisogna evitare che la situazione si degradi, il terremoto ha colpito un capoluogo, tutta la classe dirigente è segnata, bisogna agire in modo professionale non basta la buona volontà».
Dopo le perdite, i lutti, quale pericolo rischiano ora i sopravvissuti?
«L´improduttività, l´isolamento, la noia della vita nelle tendopoli possono destabilizzare ulteriormente. Dopo un evento di questo genere c´è anche il rischio di suicidio. Alcuni tentativi, nelle aree terremotate d´Abruzzo, ci sono già stati».
(m. c.)
Repubblica 17.4.09
Parigi, tutte le case del Vaticano anche Kouchner tra gli inquilini
Affitti bassi per molti politici. E scoppia la polemica
Imbarazzo per il ministro degli Esteri. Che replica: "Contratto vecchio di 35 anni"
di Anais Ginori
PARIGI - In un lussuoso appartamento di rue Guynemer, nel cuore di Parigi, abitano Bernard Kouchner e sua moglie, la giornalista Christine Ockrent. Il palazzo ottocentesco ha una splendida vista sui giardini del Luxembourg. «Non vedo dove sia il problema» ha commentato ieri il ministro degli Esteri.
L´indirizzo del titolare della diplomazia non avrebbe in sé nessun interesse se non fosse per il padrone di casa che ogni mese riscuote l´affitto. Kouchner è infatti uno dei tanti inquilini eccellenti del Vaticano. Certo è in buona compagnia. Un tempo, nello stesso immobile di Kouchner, viveva François Mitterrand. E a pochi passi, in un altro palazzo della Santa Sede, in boulevard Montparnasse, ha abitato l´attuale ministro della Cultura, Christine Albanel.
"Le ricchezze nascoste della Chiesa", titolava ieri in prima pagina Le Parisien con una documentata inchiesta. Nella capitale francese, ha rivelato il giornale, il Vaticano gestisce una decina di immobili di grande valore attraverso una sua controllata, la Sopridex. Albanel ha confermato la notizia, precisando però che ha lasciato l´appartamento nel 2006: 85 metri quadrati a 1.700 euro al mese. «Un prezzo di mercato» ha commentato il ministro della Cultura. Kouchner non ha voluto invece rivelare dettagli sulla casa né dire quanto paga. Il suo portavoce ha fatto sapere che il contratto è vecchio di 35 anni, quando era solo un «french doctor», semplice militante di organizzazioni umanitarie. Il nuovo incarico di governo rischia però di creare qualche imbarazzo. Il Quai d´Orsay è interlocutore costante della Santa Sede. Negli ultimi tempi non sono mancati i punti di disaccordo: Kouchner ha duramente criticato le frasi di Papa Benedetto XVI sui preservativi.
Ci sarebbero, secondo Le Parisien, altri politici e personalità importanti che abitano in case del Vaticano. Ma il quotidiano non è stato in grado di fornirne i nomi. Ancora più ricco sarebbe il patrimonio immobiliare della Chiesa francese. Secondo Jean-Michel Coulot, vice segretario generale alla Conferenza episcopale, gli affitti a Parigi equivalgono a un reddito variabile fra i 10 e i 20 milioni di euro. «Smettiamola con queste polemiche - ha replicato Coulot - La Chiesa è povera, abbiamo più spese che entrate». I redditi immobiliari, ha spiegato ancora il responsabile, sono infatti destinati alla manutenzione di scuole e chiese, che secondo la legge del 1905 sono beni dello Stato. Eppure la Chiesa francese ha comprato due anni fa, nell´elegante settimo arrondissement, altri 5.000 metri quadri sulla avenue de Breteuil, per 36 milioni di euro. Le «Piccole suore dei poveri» hanno invece venduto il loro ospizio e i terreni adiacenti in boulevard Murat, nel sedicesimo arrondissement, alla società Cogedim. Prezzo della transazione: 37 milioni di euro. Qui sorgeranno 180 appartamenti, 80 alloggi popolari, una casa di riposo e un giardino pubblico. Sarà il più grande cantiere immobiliare dentro Parigi dei prossimi anni. Con il ricavato, hanno detto le suore, finanzieranno le loro missioni nel mondo.
Repubblica 17.4.09
Centro psichiatrico degli orrori, arrestato direttore
di Benedetta Pintus
Parma, secondo l´accusa i ragazzi ospitati nella struttura venivano maltrattati e sedati con la forza a scopo punitivo
PARMA - Maltrattamenti e somministrazione forzata di medicinali ad adolescenti con disturbi psichiatrici, anche a scopo punitivo. È questa l´accusa con cui da due giorni è agli arresti domiciliari Ron Shmueli, direttore della comunità terapeutica Cavanà di Pellegrino Parmense, in provincia di Parma, dove sono ospitati ragazzi dai 14 ai 19 anni. Sette dei suoi collaboratori sono stati iscritti nel registro degli indagati.
Gli accertamenti dei Nas sono iniziati la scorsa estate dopo che un ex educatore del centro, Lorenzo Vecchi, aveva denunciato sul sito di Repubblica Parma la sedazione forzata dei ragazzi. «All´interno del Cavanà - si legge nell´esposto poi presentato in Procura - si ricorre alla fiala contro il consenso dell´utente in maniera coercitiva, anche quando il ragazzo si rifiuta di obbedire agli ordini impartiti o si permette di contestarli». La "fiala" è un mix di psicofarmaci iniettati per endovena che «nello spazio di pochi minuti causa una profonda debolezza e sonnolenza». In seguito a queste accuse Shmueli si era affrettato a screditare la figura di Lorenzo Vecchi, definendo le sue dichiarazioni «pura fantasia morbosa».
A gennaio il Cavanà è tornato a far parlare di sé dopo la fuga di uno dei suoi ospiti, un giovane appena diventato maggiorenne: «Mi hanno dato dei farmaci contro la mia volontà». I carabinieri hanno accertato che in certe circostanze, anche in assenza del medico responsabile, venivano eseguite delle terapie contro la volontà degli ospiti. «Sono tranquillo», ha commentato il direttore dopo la notizia dell´arresto. «Non sapevo di essere indagato e nemmeno ho ricevuto un avviso di garanzia. Di certo questo provvedimento cautelare mi appare esagerato ed eclatante».
l’Unità 17.4.09
Consiglio d’Europa: l’Italia criminalizza gli immigrati
di Maristella Iervasi
Il rapporto del commissario per i diritti umani Thomas Hammarberg: «Rivedere le leggi»
Critiche alle politiche per i Rom, ddl sicurezza ed espulsioni. «Condannare le intolleranze»
Laura Boldrini (Unhcr): I 300 morti in mare meritavano la stessa
solidarietà dell’Abruzzo
In Italia «c’è una tendenza al razzismo e alla xenofobia». Dal Consiglio europeo un richiamo alle politiche migratorie del governo, che rimanda al mittente le critiche. Maroni a Tunisi ma gli sbarchi non cessano.
Diritti umani ignorati, leggi ingiuste e draconiane, che criminalizzano l’immigrazione irregolare. L’Italia è di nuovo sotto accusa per le politiche sui i Rom, le misure legislative contenute nel ddl sicurezza (la contestatissima norma sui medici che possono denunciare i clandestini che si rivolgono al sistema sanitario) e le espulsioni facili degli stranieri in paesi dove «è accertato che ricorrono alla tortura». Un richiamo pesante per il governo Berlusconi, che arriva dal Consiglio d’europa - l’organismo internazionale che non fa parte dell’Ue e che ha tra i suoi compiti la tutela dei diritti dell’uomo - proprio nel giorno in cui il ministro dell’Interno Roberto Maroni è in Tunisia per accelerare i rimpatri dei migranti sbarcati sulle coste siciliane. Sbarchi che sono senza fine: solo ieri 3 imbarcazioni a Lampedusa per un totale di 300 persone.
Tendenza al razzismo
«Le autorità italiane dovrebbero condannare con più fermezza tutte le manifestazioni di razzismo o di intolleranza, ed assicurare un’efficace attuazione della legislazione anti-discriminazione», ha scritto nero su bianco Thomas Hammarberg, commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, nel rapporto sul Belpaese dopo una visita nel gennaio scorso. «Nonostante siano stati compiuti degli sforzi - precisa Hammarberg - siamo preoccupati per la tendenza al razzismo e all’xenofobia in Italia che sfocia in atti estremamente violenti, rivolti principalmente contro immigrati, Rom e Sinti o cittadini italiani con origini straniere, anche in ambito sportivo».
La replica
Il governo rimanda al mittente la richieste di cambiare le misure legate alla politica migratoria: «sono essenziali - riporta l’agenzia Ansa - per una efficacia dei flussi migratori». Secondo l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali, organismo del ministero delle Pari opportunità, inoltre, sono stati elaborati piani di azione che prevedono interventi strutturali a favore delle comunità Rom e Sinti. Secondo Hammarberg, invece, l’Italia dovrebbe «condannare con maggiore forza» ogni forma di razzismo applicando «pene più severe» per i reati legati a questo fenomeno, procedere a una revisione di alcune misure riguardanti l’immigrazione e aumentare la rappresentanza di gruppi etnici nella polizia.
Rom e Sinti
«Vi è un persistente clima di intolleranza contro di loro - scrive Hammarberg - e le loro condizioni di vita sono ancora inaccettabili in numerosi insediamenti da me visitati. Esistono esempi di buone pratiche che dovrebbero essere estese». Preoccupazione anche anche per il censimento nei campi nomadi.
Ddl sicurezza
«Criminalizzare i migranti è una misura sproporzionata che rischia di provocare ulteriori tendenze discriminatorie e xenofobia nel paese»: il riferimento è alla norma introdotta al Senato nel provvedimento sulla sicurezza che consente al personale medico di denunciare i migranti irregolari.
Espulsioni e terrorismo
Sul caso dei ritorni forzati in Tunisia imposti per motivi di sicurezza, Hammarber lamenta: «L’Italia non ha provveduto ad applicare le misure provvisorie e le vincolanti richieste della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo volte a fermare le espulsioni, compromettendo l’efficacia del sistema europeo».
Le reazioni
Livia Turco, Pd: «Aumento di clandestini e città insicure. Maroni dovrebbe dimettersi». Filippo Miraglia, Arci: «Il rapporto è una bocciatura per l’Italia, il giudizio europeo è condivisibile».
l’Unità 17.4.09
L’India vota
La leader degli Intoccabili sogna l’exploit
di Gabriel Bertinetto
Da un anno Mayawati governa l’Uttar Pradesh, il più popoloso Stato dell’Unione indiana. Fra un mese potrebbe dirigere l’intero Paese. L’India ha già avuto una donna premier. Mai però sinora un’«intoccabile».
La rivincita. Mayawati Kumari potrebbe diventare l’ago della bilancia per il nuovo governo
La maratona elettorale. Si svolgerà in quattro tornate e passerà un mese per avere i risultati
Tutelati dalle leggi dello Stato. Disprezzati dal comune pregiudizio. Vittime di discriminazioni sociali e di violenze, tollerate nei fatti quanto estranee ai valori fondanti della democrazia indiana. Sono i dalit, gli «intoccabili», i fuoricasta. Il mahatma Gandhi voleva sollevarli dal fango della loro atavica esclusione. Li chiamava «harijan» (paria), cioè «figli di Dio». Una bella parola, cui tuttora corrisponde spesso purtroppo una condizione abominevole. Sono loro i mestieri più sporchi: pulire le latrine, rimuovere le carcasse, maneggiare i concimi più luridi. Esseri impuri, da tenere a distanza, ai quali vietare l’accesso ai templi come ai ristoranti. Intoccabili, appunto.
Per 170 milioni di indiani, il 16% rispetto alla popolazione complessiva, ma quasi un quarto sul totale dei cittadini di fede indù, è vicino forse il momento della rivincita. Una di loro potrebbe ricevere talmente tanti voti da diventare l’ago della bilancia, quando, fra un mese circa, si tireranno le fila della maratona elettorale iniziata ieri e destinata a proseguire attraverso quattro successive tappe sino al 16 maggio prossimo. Si chiama Mayawati Kumari, 53 anni, e dirige il «Bahujan Samaj» («Partito della maggioranza», Bsp).
Poco più di un anno fa Maywati stravinse le elezioni nello Stato dell’Uttar Pradesh, diventandone primo ministro. Ed ora, confortata dalle previsioni di analisti e sondaggi, spera di replicare il successo su scala nazionale. Impensabile che possa scavalcare i due partiti maggiori, di governo e di opposizione, rispettivamente il «Congresso» ed il «Bharatiya Janata» (Bjp). Ma la probabile crescita nei consensi popolari, accompagnata al pronosticato calo dei due colossi, darebbe a Mayawati una tale forza contrattuale, da permetterle persino, si dice, di barattare il sostegno all’uno o all’altro con la poltrona di premier.
Un gran passo in avanti per l’intoccabile Mayawati. Da bambina andava a scuola scalza come tanti coetanei poveri della poverissima India. Abitava a Delhi con otto tra fratelli e sorelle che Ram Rati, la mamma, aveva avuto da Prabhu Das, un impiegato della compagnia telefonica statale. La democrazia indiana promuove il riscatto degli umili e cerca di contrastare il peso di tradizioni strumentalizzate per usi socialmente nefasti. Quote di impieghi pubblici ed iscrizioni scolastiche ed universitarie sono riservate ai fuoricasta ed ai membri delle caste più basse. Beneficiando di quei meccanismi di tutela, il padre aveva trovato un lavoro da colletto bianco, e grazie a quegli stessi meccanismi Mayawati conseguì un diploma in legge. Nel 1977 l’incontro con Kanshi Ram, fondatore del Bahujan Samaj, segnò una svolta nella sua vita proiettandola in politica.
INSOLITA ALLEANZA
Diversamente dal Congresso, che si è sempre rivolto ai connazionali con un messaggio interclassista intersecato con l’appello alla collaborazione fra le caste, il Bsp di Kanshi Ram si ispirava ad un’ideologia che mette al primo posto l’avanzamento delle caste inferiori, e soprattutto di coloro che sono addirittura considerati fuori dalla ripartizione in caste, i paria, così come di quel quasi venti per cento di cittadini che non si riconoscono nella religione di Brama Shiva e Vishnu: buddhisti, cristiani, musulmani. Eppure per ottenere nelle urne il trionfo che le consente di governare da oltre un anno in Uttar Pradesh, Mayawati ha dovuto varare un’inedita alleanza fra gli infimi scalini della scala sociale, naturale bacino elettorale del Bsp, e la casta superiore, quella dei bramini. L’esercito dei senzaterra delle campagne ha trovato nei gruppi dirigenti delle città sostegno nella lotta contro i proprietari terrieri delle caste intermedie.
L’Uttar Pradesh è il più popoloso Stato dell’Unione ma anche uno dei più poveri. Fra il 1999 ed il 2008 il prodotto lordo è cresciuto qui a ritmi inferiori al 5%, un’inezia rispetto alla media nazionale. Quasi metà del reddito proviene dall’agricoltura, e nei lavori dei campi sono impegnati tre quarti degli abitanti. Mayawati ed il Bahujan Samaj hanno trovato seguito nella sconfinata massa di braccianti e contadini senza terra. Hanno dato voce agli intoccabili indù, ai buddhisti emarginati, alle caste più basse. Che nelle zone rurali, assai più che nelle città, subiscono le conseguenze dell’emarginazione perpetrata dietro il paravento delle consuetudini e dei valori religiosi.
STIMATA SORELLA
L’Uttar Pradesh contribuisce massicciamente a rimpolpare le statistiche sugli atti di violenza commessi contro i dalit in India. Ogni anno vengono ufficialmente registrati nel Paese 110mila casi di omicidi, stupri, aggressioni ai danni dei fuoricasta. L’opinione comune è che la cifra sia in realtà molto più alta, perché tanti episodi non sono denunciati. Mayawati ha alzato la voce contro intolleranza ed abusi. Ha promosso iniziative legali contro funzionari disonesti e poliziotti infedeli. Non è uscita indenne a sua volta da pesanti accuse di corruzione e autoritarismo. Ha lanciato grandi opere pubbliche, ma non è riuscita per ora a ridurre in maniera evidente la disoccupazione. Il bilancio della sua azione di governo nell’Uttar Pradesh non è tutto positivo. Ma per molti intoccabili oggi è un raggio di luce nel buio. La chiamano «Behenji» (Stimata sorella). Ieri molti hanno probabilmente votato per lei e altri lo faranno nelle prossime tornate.
l’Unità 17.4.09
L’anno nero dell’editoria
Nel 2008 perdite più 100%
di Oscar De Biasi
Conti in rosso per il calo (talvolta crollo) della pubblicità e dei lettori
Anche per i giornalisi potrà sperare qualcosa a partire dal 2010
Situazione d’allarme per i giornali italiani: lettori in calo, pubblicità in calo, bilanci in rosso. Il presidente degli editori chiede interventi rapidi e la convocazione degli Stati generali dell’editoria. D’accordo la Fnsi.
Che la salute dei giornali fosse malferma lo si sapeva e lo dicevano i bilanci non certo brillanti di alcune delle testate più prestigiose e più ricche (di pubblicità) a cominciare da quelle del gruppo Corriere della Sera. La conferma, che peggiora le sensazioni, arriva dalla Fieg, Federazione italiana degli editori, che presenta il suo rapporto annuale, denunciando calo della pubblicità, diminuzione dei lettori e costi che gravano e la cui riduzione non è stata sufficiente a raggiungere la parità dei bilanci. Il biennio 2009-2010 sarà decisivo. Perciò «bisogna muoversi con urgenza e delineare un disegno coerente di intervento per restituire slancio al settore». La raccomandazione con il sapore dell’avvertenza intimidatoria, è degli editori, che hanno proposto rimedi urgenti: credito agevolato per accelerare il meccanismo produttivo; credito d'imposta su carta e investimenti per stimolare innovazioni di processo e prodotto; promozione della lettura in scuole e famiglie.
Anno orribile
Per il complesso delle società editrici di quotidiani nel 2008, quando la crisi ancora non aveva dispiegato i suoi terribili effetti, come ha spiegato il presidente Fieg Carlo Malinconico, si è rilevato un aumento delle perdite del 100% ed una contrazione degli utili del 30%. I numeri peggioreranno nel 2009, considerando che gli investimenti pubblicitari nei primi due mesi dell’anno sono diminuiti in media del 25%, con punte anche del 60% in giornali locali.
In media, ha spiegato ancora il presidente Fieg, il fatturato editoriale del 2008 ha fatto registrare un calo del 3,3% rispetto al 2007. La componente dei ricavi che ha mostrato segnali di maggiore debolezza è stata la pubblicità, calata nell'anno del 3,8%, con un trend che si è andato aggravando. Quanto ai ricavi da diffusione delle copie, la flessione media annua è stata del 2,8%.
Il primo commento alla relazione di Malinconico è stato di Franco Siddi, segretario della Federazione nazionale della stampa, che ha rivendicato il valore del nuovo contratto giornalistico:, «un perno per il sistema dell'editoria». Alle aziende Siddi ha chiesto più coraggio, condividendo l’appello per Stati Generali dell'editoria, occasione per definire un quadro organico di sistema che accompagni le trasformazioni e valorizzi la specificità dell'impresa editoriale e del lavoro giornalistico. Il sottosegretario Bonaiuti e il ministro Sacconi si sono detti disponbili.
l’Unità 17.4.09
Testamento biologico
Medici, pazienti e quell’ambigua alleanza
di Sergio Bartolommei
A proposito del Disegno di legge sul testamento biologico approvato in Senato si è mancato di rilevare un aspetto preliminare che svela il carattere ideologico dell’intero impianto. Riguarda il titolo stesso del DL: «Disposizioni in materia di alleanza terapeutica ecc. ecc». Forse non tutti sanno che l’“alleanza” di cui si parla è quella tra medico e paziente. La formula è accattivante, e a nessuno verrebbe in mente di contestarla: sarebbe come boicottare l’intesa, che si presume ovvia e naturale, tra due amici. Il ragionamento è tuttavia errato, e non solo perché tra amici “si bisticcia” e le intese si esauriscono.
In un certo senso si può dire che la bioetica contemporanea è nata dalla trasformazione radicale della relazione medico-paziente. Perno di questo cambiamento è stata la “rivoluzione” del “consenso informato”. Dalla lunga stagione ippocratica, contrassegnata dall’idea che il medico conosce più e meglio del paziente quale sia il vero bene di quest’ultimo, si è passati a vedere nella libertà di scelta del cittadino in fatto di salute e malattia il criterio di liceità degli atti medici. Il rifiuto delle cure, anche delle cure salvavita, è divenuta l’espressione più avanzata del “consenso” e dell’autonomia del paziente.
Ciò significa che la nozione di “alleanza terapeutica” non può essere usata come una nozione descrittiva. È una categoria morale frutto di una visione del rapporto medico-paziente secondo cui il secondo non può che affidarsi al primo e entrambi non possono che convergere su “soluzioni condivise”. Eppure oggi nelle relazioni sanitarie troviamo sì pazienti che continuano ad affidarsi ciecamente ai medici, ma anche altri che, sul piano morale, si affidano solo a se stessi e alle proprie idee, preferendo per esempio alla proposta di nuove terapie nessuna terapia, fino al sacrificio della vita. Ciò che il paziente vuole o non vuole per sé può anche non coincidere con l’orientamento del medico perché medico e paziente non formano una simbiosi con interessi logicamente convergenti.
“Alleanza terapeutica” è dunque il nuovo nome per ridare smalto al “vecchio” paternalismo medico. Intitolare ad essa una legge dello Stato rivela l’ispirazione illiberale del Disegno: volendo rendere indisponibile la vita agli individui, la si consegna alla tecnica e alla discrezionalità dei medici. Correggere questa impostazione avrebbe un doppio vantaggio. Non solo libera il paziente da uno stato di minorità nei confronti del medico. Libera anche i medici da una responsabilità tirannica, quella che il DL intenderebbe attribuire loro imponendogli l’obbligo di nutrire e idratare anche i pazienti che rifiutano questi trattamenti.
Docente di Bioetica, Università di Pisa, Membro della Consulta di Bioetica
Corriere della Sera 17.4.09
Funerali di Stato e laicità. I riti del lutto collettivo
Risponde Sergio Romano
Ricordo che l’articolo 3 della Costituzione della Repubblica italiana dice testualmente: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Le chiedo quindi: a chi spettava la decisione di far celebrare i funerali di Stato delle vittime del sisma dell’Aquila al cardinale Tarcisio Bertone? La decisione viola palesemente l’articolo 3, impedendo che tutti i cittadini possano sentirsi parimenti rappresentati come si conviene a uno Stato effettivamente laico. La scelta, al contrario, ne privilegia alcuni e ne discrimina molti altri. I funerali di Stato devono essere laici e, a seguito di questi, ogni famiglia può decidere se e come celebrare un rito che soddisfi la propria fede, religiosa o laica che sia. Dato il ripetersi gravissimo di queste imposizioni tutt’altro che democratiche, sarebbe il caso che si avesse il coraggio di modificare davvero quella Costituzione partendo proprio dall’articolo 3 e accettando la realtà che vede il nostro come uno Stato confessionale che non considera affatto i cittadini tutti uguali, perché alcuni sono più uguali di altri.
Enrico Bonfatti
Caro Bonfatti,
Potrei risponderle che l’Italia è stata laica soltanto per qualche decennio fra l’Unità e il 1929, vale a dire negli anni in cui gli uomini pubblici sfidavano la scomunica pur di restare fedeli all’indipendenza dello Stato che stavano costruendo. Non è più laica dal momento in cui, nel 1929, firmò con la Santa Sede un trattato (il Concordato) che garantisce alla Chiesa un ruolo privilegiato nella società nazionale e le affida alcune funzioni ufficiali. Da allora, il problema italiano non è la separazione fra Stato e Chiesa, ormai impossibile, ma il rapporto di forze tra i due firmatari del Trattato. Vi è stato un periodo, durante il fascismo, quando lo Stato poté usare la Chiesa, entro certi limiti, per rafforzare se stesso e conquistare maggiore consenso. Vi è stato un secondo periodo, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, quando la Chiesa di Pio XII cercò di fare dello Stato, nelle questioni etiche, l’esecutore della sua volontà.
Vi è stato un terzo periodo, fra gli anni Sessanta e Ottanta, quando la società strappò ai governi alcuni diritti che la Chiesa considerava contrari ai suoi insegnamenti. E stiamo attraversando una fase, infine, in cui la politica, chiunque governi, è troppo debole per resistere alle offensive della Chiesa nelle questioni a cui questa attribuisce grande importanza.
Detto questo, caro Bonfatti, è difficile immaginare che l’Italia, anche senza i vincoli del Concordato, possa essere laica nel senso che lei sembra attribuire alla parola. Il cristianesimo romano, per noi, non è soltanto una religione. È la forma concretamente assunta, nel corso dei secoli, dalla spiritualità italiana. È il titolare dei riti e delle liturgie con cui scandiamo la nostra vita quotidiana e celebriamo i momenti fondamentali dell’esistenza. Vi è una parte della società italiana che ha cercato di elaborare liturgie alternative a cui ciascuno di noi può liberamente ricorrere. Ma temo che un grande funerale laico nella piazza d’Armi dell’Aquila per le vittime del terremoto sarebbe stato una ridicola scopiazzatura e non avrebbe soddisfatto nemmeno i molti agnostici che hanno partecipato alla messa del cardinale Bertone. È possibile essere laici e liberali senza ignorare i sentimenti e le tradizioni della maggior parte della società in cui viviamo. La Francia, ad esempio, è probabilmente lo Stato più laico d’Europa. Ma la prima cerimonia a cui il generale de Gaulle prese parte dopo la liberazione di Parigi nel 1944 fu un solenne Te Deum nella cattedrale di Notre Dame. E a nessuno venne in mente che la Francia stesse rinunciando al principio della separazione tra lo Stato e la Chiesa.
Corriere della Sera 17.4.09
La Biennale di studi su Giordano Bruno: astrofisica e filosofia alla ricerca dei modi di penetrare i segreti dell’universo
Elogio dell’incertezza: è l’insoddisfazione che muove la scienza
Ogni teoria è provvisoria e passibile di smentita perciò è vitale che le tesi eretiche si facciano avanti
di Giulio Giorello
Studi bruniani e libero pensiero
Continua a Nola fino al 19 aprile Elogio dell’incertezza, prima Biennale di studi bruniani. L’intervento di Giulio Giorello anticipato in questa pagina è previsto per oggi alle 18 nell’Aula Magna del Seminario arcivescovile, dove, sul tema «Liberi di scegliere. Lo Stato tra ragione e religione», interverrà anche Edoardo Boncinelli. I relatori saranno introdotti da Nuccio Ordine, presidente della fondazione Giordano Bruno. Per informazioni: www.fondazionegiordanobruno.org.
È uscito il secondo tomo di Opere mnemotecniche di Giordano Bruno (Adelphi, pp. LXXVI-992, e 80), edizione diretta da Michele Ciliberto e curata da Marco Matteoli, Rita Sturlese, Nicoletta Tirinnanzi.
«Vorrei proprio sapere quale sia la legge o il compito di queste stelle e di questi globi», dotati di «moto incessante» come delle «palle erranti», le quali «emettono e ricevono l’una nei confronti dell’altra raggi di luce e influenze benefiche». Verso il 1617 così scriveva il copernicano Mark Ridley. Pochi anni dopo, nel Saggiatore (1623) Galileo Galilei, di fronte al proliferare di «sistemi» che pretendevano tutti di spiegare «come vanno i cieli » (Tolomeo, Copernico, Tycho Brahe, ecc.) rivendica il diritto a «desiderare la vera costituzione dell’universo», con un tono che assomiglia al linguaggio dell’eros. L’amore per la conoscenza doveva portarlo davanti al Sant’Uffizio, che l’avrebbe costretto all’abiura (1633). Più di trent’anni prima, con maggiore coerenza filosofica, Giordano Bruno aveva affrontato il rogo (1600). Era stato proprio lui a smantellare la distinzione aristotelica tra fisica terrestre e celeste, a teorizzare la relatività del movimento, a sostenere, prima di Galileo, la rotazione del sole attorno al proprio asse.
Certo, anche se esortava a fondare «il principio della scienza sulla considerazione dei rapporti intercorrenti tra gli oggetti e sulla concordante testimonianza dei sensi», il Nolano non era uno scienziato nell’accezione moderna del termine e neanche un filosofo della natura come Galileo: niente apparati sperimentali, niente strumenti tecnologici come il telescopio e la sua matematica (diversamente da quella galileiana) era piuttosto una «matemagica » (per dirla... con Paperino). Il Dio di Bruno, «infinito nell’infinito», è «dovunque in tutte le cose». Ecco perché il desiderio è insieme mancanza e tensione: come si legge in una pagina del De immenso (1591), «l’indagine e la ricerca non si appagano nel conseguimento di una verità limitata e di un bene definito». Non c’è essere umano che non voglia abbracciare la totalità: ma come Narciso rischia di affogare nell’acqua cercando invano di afferrare la propria immagine. I dogmatici di tutte le risme si accontentano della parte per il tutto e troppo spesso si compiacciono della ristrettezza delle loro idee. I veri filosofi, invece, sanno che ogni conquista è provvisoria. Questa perpetua insoddisfazione è il nucleo della loro libertà, per la quale possono anche rinunciare alla vita.
Karl Popper, teorico del carattere sempre rivedibile della conoscenza scientifica e dell’apertura al nuovo per qualsiasi società libera, ha dichiarato una volta che la filosofia è in fondo cosmologia. Il filosofo novecentesco non aveva in mente solo la lezione della scienza galileiana, ma anche le scoperte che, nel XX secolo, avevano indicato come il cosmo abbia una storia. Ha scritto l’astrofisico Martin Rees in Prima dell’inizio (Raffaello Cortina, pp. 382, e 25): «Possiamo risalire nell’evoluzione dell’universo fino al suo primo secondo di vita... io, personalmente, sarei disposto a scommettere dieci contro uno che ogni cosa che osserviamo ha avuto il suo inizio in una palla di fuoco estremamente compressa, assai più calda del sole». Questa teoria, detta del Big Bang, era eresia nella prima metà del secolo scorso e oggi costituisce invece l’ortodossia scientifica; anche se, come aggiunge Rees, «c’è ancora una minoranza che non sarebbe tanto d’accordo».
Intervistando Popper, nell’estate 1986 (il testo è stato poi pubblicato sul numero 15 della rivista Panta, 1987) gli chiesi cosa pensasse di tutta quanta la vicenda. Negli anni Venti del Novecento non pochi astronomi si erano dedicati all’analisi della luce proveniente dalle galassie. Attraverso un prisma, questa poteva venire scomposta in uno spettro di vari colori e l’americano Edwin Hubble constatò che le lunghezze d’onda erano più lunghe, cioè spostate verso il rosso, a paragone di quelle misurate in laboratorio o in spettri di stelle della nostra galassia (la Via Lattea).
Congetturò pure che tale spostamento verso il rosso (o redshift) dovesse essere proporzionale alla distanza delle galassie e formulò infine l’ipotesi che esse dovessero allontanarsi da noi (e ciascuna da ogni altra) con velocità proporzionale alla distanza. E qui stava, per Popper, il nocciolo della questione. «Come sappiamo che tali galassie sono tanto distanti? Lo sappiamo attraverso lo spostamento verso il rosso. Come calcoliamo la velocità di espansione dell’universo? La ricaviamo calcolando la distanza e vedendo poi quale sia la relazione tra la distanza e lo spostamento verso il rosso... Hubble aveva introdotto metodi di misurazione della distanza di galassie non molto lontane che erano indipendenti da tale redshift. Ma se si estende il metodo di calcolo da queste galassie alle altre si cade in un ragionamento circolare». Se l’ortodossia versa in queste condizioni, perché non ridare voce all’eresia? Per Popper chi era convinto della teoria del Big Bang doveva continuare a utilizzarla; ma era importante che altri cosmologi si facessero avanti con teorie alternative.
Halton Arp, astronomo americano, che a suo tempo è stato discepolo di Hubble e ora è «esule» in Europa, ha fatto sua, per così dire, l’esortazione del Don Giovanni di Mozart e Da Ponte: «È aperto a tutti quanti. Viva la libertà». Popper approvava. La comunità degli «esperti» no. Arp ha davvero «visto rosso», come recita il titolo della sua ultima fatica ( Seeing red, ora edito in Italia da Jaca Book, pp. 387, e 40,80). Lungi dal mostrare che l’universo si espande, gli spostamenti verso il rosso per Arp rifletterebbero invece l’età degli oggetti cosmici, come le galassie che hanno ormai preso nel dibattito il posto delle palle erranti di Ridley. Riprendendo idee alternative al Big Bang, Arp sostiene che i mattoni dell’Universo, le particelle elementari, variano nel tempo. In breve, redshift elevato vuol dire semplicemente giovinezza dell’oggetto cosmico pertinente.
Non entro in merito alla validità delle tesi di Arp. Ovviamente, nessuno ha mai visto un atomo crescere o un elettrone acquistare massa nel tempo! Penso però che la provocazione di Arp sfidi quell’abitudine intellettuale per cui «la nostra minuscola porzione di spazio e di tempo sarebbe rappresentativa del tutto». Ma non è questa la radice del narcisismo di cui parlava Bruno quattro secoli fa? Nel presentare il volume di Arp al pubblico italiano, Enrico Biava invoca uno «spirito di tolleranza per chi nutre opinioni diverse». Di mio, aggiungo che ciò deve valere anche e soprattutto se l’opinione «emarginata» ci sembra erronea e le ragioni militano a favore dell’ortodossia! È solo così che possiamo riconoscere nel conflitto delle opinioni un’occasione per andar oltre il vecchio pessimismo biblico: «Nulla di nuovo sotto il sole». Come hanno mostrato l’astronomia dei tempi di Bruno e di Galileo o il dibattito cosmologico dopo Hubble, molte novità sono comparse, per così dire, sia sopra che sotto la nostra stella.
Corriere della Sera 17.4.09
Per Galli della Loggia, Berlusconi ha dato al Paese una connotazione ideologica analoga a quella della prima Repubblica. Risponde Virginio Rognoni
L’anticomunismo come l’antifascismo: un’equazione che svaluta la Costituzione
«Conciliare le due Italie non vuol dire omologarle: si tradirebbe la Carta»
di Virginio Rognoni
La Legge fondamentale suggerisce ancora positive lealtà anche a chi le era storicamente estraneo
Caro direttore, qualche settimana fa, sulle colonne di questo giornale (vedi Corriere del 29 marzo), Ernesto Galli della Loggia ha sostenuto che Silvio Berlusconi, col suo discorso inaugurale del primo congresso del «Popolo della Libertà», in una sede formale e altamente simbolica, ha collocato il suo partito nella prospettiva di un anticomunismo inteso «come reale ideologia fondativa dell’ordine politico e motivo di autoidentificazione legittimante»; un partito, dunque, che nasce «contro la sinistra » (perché la sinistra «è il comunismo ») e, così identificandosi, si presta a proporre la sua ideologia alla base dell’ordine politico del Paese.
Affermando la centralità dell’anticomunismo e dandogli questa finalità, Berlusconi — sostiene sempre Galli della Loggia — «compie la stessa operazione che la prima Repubblica compì con l’antifascismo».
Io non so se l’anticomunismo del partito di Berlusconi abbia la funzione o la finalità descritta da Galli della Loggia; se l’avesse sarebbe assai pericoloso perché, presto o tardi, potrebbe affacciarsi, sul pretesto anche di chiudere la lunga «transizione» italiana (ma la politica non è sempre transizione?) una inquietante fase costituente per il nostro Paese; l’anticomunismo di Berlusconi mi pare, più banalmente, un’arma, fino a che punto duratura non lo so, di forte propaganda, una operazione fruttuosa di ricerca del consenso.
Ma non è qui il mio interesse. È la simmetria che Galli della Loggia prospetta fra l’uso dell’anticomunismo di Berlusconi e l’uso dell’antifascismo della prima Repubblica, l’uno e l’altro a sostegno dell’ordine politico del Paese, che mi suggerisce qualche riflessione.
L’antifascismo dei gruppi dirigenti della prima Repubblica non era una ideologia dei partiti che ne costituivano il nerbo e l’ossatura; essi erano antifascisti perché democristiani, comunisti, socialisti, liberali, repubblicani e così via. Il loro antifascismo, affermato con maggiore o minore forza a seconda della storia di ciascuno (di più il Pci, giusto per la sua storia, in particolare per il ruolo che aveva giocato, anche sul piano organizzativo, nella lotta partigiana, e non solo, come è stato detto, per legittimarsi come partito nazionale, quasi a compenso del legame con l’Unione Sovietica), era il riferimento costante alle ragioni di una lunga opposizione a un regime autoritario e illiberale che aveva, via via, portato il Paese alla rovina, coinvolgendolo, alla fine, nella folle guerra nazista. Di più, era il riferimento costante al risultato politico straordinario di quel processo di libertà e di liberazione che, con la fine del regime fascista, il crollo della monarchia e l’avvento della Repubblica aveva portato alla Costituzione, cambiando e segnando profondamente la vita istituzionale del Paese.
Tutta questa complessa realtà storico- civile può essere intesa, se si vuole, per usare ancora parole di Galli della Loggia, anche «come ideologia fondante dell’ordine politico», del nuovo ordine costituzionale. Una realtà e, insieme, una lealtà che hanno permesso di incanalare negli spazi costituzionali, previsti dalla Carta del ’48, tutta la tumultuosa vicenda politica del Paese, senza quelle rotture, di volta in volta sempre annunciate o anche tentate (basta pensare ai cosiddetti «anni di piombo»). Lo stesso passaggio dalla prima alla seconda Repubblica non è stato una rottura costituzionale, ma il crollo improvviso di importanti formazioni politiche, con la sanzione, che ne è conseguita, dell’esaurimento di un assetto politico da tempo esistente. Ma l’architettura costituzionale ha retto bene e ha resistito al formidabile urto. Tutte queste mie osservazioni sono cose molto ovvie che ho fin il pudore di ricordarle a Galli della Loggia, ma la simmetria da lui costruita, e di cui ho parlato all’inizio, non mi piace affatto, la ritengo sbagliata.
Del resto, l’analisi che egli fa parte da una pregiudiziale a mio giudizio sbagliata e inaccettabile. Parte dalla svalutazione della Costituzione e del suo valore di fondo come patto di cittadinanza nella Repubblica. Galli della Loggia lo dice apertamente e anche in via indiretta quando mette la Carta del lavoro fascista (ma come si fa?!) sullo stesso piano della Carta del ’48 e dello stesso Statuto albertino per accomunarle nel giudizio negativo di «scarso valore ideal-simbolico».
È una svalutazione che, a sua volta, parte dalla considerazione di quel lontano 8 settembre non come il giorno da cui inizia il riscatto della Patria, ma come il giorno della morte della Patria. Da qui, e fino alla fine della guerra, un Paese, dunque, attraversato da eserciti stranieri, con gli italiani alla finestra o a far la guerra fra loro sul fronte fascismo-antifascismo. Una guerra civile che, avulsa dal grande conflitto mondiale, cancella d’un colpo la Resistenza in sé e come premessa dei processi istituzionali che vengono dopo, a partire dalla Repubblica e dalla sua Costituzione.
Questa argomentazione l’ho sempre ritenuta pericolosa sul piano politico- istituzionale perché, se fosse vero, e non lo è, che la lotta partigiana è stata niente più che un cruento regolamento di conti fra due Italie ideologicamente opposte, allora, a distanza di tempo, le due Italie non solo si possono e si debbono conciliare, come è giusto, ma si omologano, l’una è uguale all’altra. Ma così salta la Carta del ’48, ormai priva della sua storia e, come pure è stato adombrato, può iniziare una fase costituente per il Paese, libera finalmente dall’antifascismo e dall’anticomunismo, «ombre del passato».
Sarebbe questa una deriva avventurosa; ancora di più se poi fosse esatta la prospettiva che Galli della Loggia vede coltivata da Berlusconi e dal suo «popolo», di cui si è parlato all’inizio; il Paese sarebbe sottoposto a una fortissima e inutile tensione.
Per fortuna non è così o, quantomeno, mi pare che non sia così: la Carta del ’48, proprio per il suo valore di fondo, che non ha creato in passato nè crea oggi vuoti pericolosi nella vita del Paese (mi riferisco naturalmente ai suoi principi fondamentali), non solo è riconosciuta, ma suggerisce positive lealtà proprio in chi le era stato storicamente più estraneo. Basta pensare alla posizione del leader di questa parte politica, Gianfranco Fini, e le sue dichiarazioni di riconoscimento dell’antifascismo, prima e alle spalle della Costituzione.
L’unità degli italiani che si ritrova e si rinnova quando sofferenze e tragedie ne colpiscono il vissuto, può essere stabilmente quella che si riconosce nella Carta del ’48 e nella storia che l’ha preparata; il 25 aprile (è prossima la ricorrenza) insieme al 2 giugno ne sono certamente un forte simbolo riassuntivo e ideale.
il Riformista 17.4.09
Resoconti di Bottegone
di Fabrizio d'Esposito
Giornalisti al Comitato centrale. Parla il decano dell'Unità e della stampa parlamentare, Giorgio Frasca Polara: «Eravamo gli unici giornalisti ammessi al Cc. Poi i testi venivano vistati dall'oratore e dalla segreteria e passati all'ufficio stampa che li recapitava ai quotidiani borghesi». L'esame con Togliatti e la morte di Petroselli, sindaco di Roma: «Ma per noi il momento più difficile fu la radiazione di Natoli, Pintor e Rossanda».
Quando la politica era una cosa seria e grave, grave sia nel senso di importanza sia in quello di pesantezza, nei quotidiani di partito c'erano i resocontisti. All'Unità comunista i resocontisti erano amanuensi laici che davano conto fedelmente ai militanti lettori degli interventi sgranati come un rosario rosso nella liturgia del comitato centrale, organo santificato nella mitica sigla Cc. Il Cc si teneva con cadenza regolare ogni mese e mezzo e spesso era abbinato alle riunioni della Ccc, Commissione centrale di controllo. A Botteghe Oscure il salone dove prendevano posto i componenti del Cc, massimo settanta, era al quinto piano. I resocontisti lavoravano in una stanzetta attigua, insieme con i tecnici addetti alla registrazione.
Decano di questo "ordine" ormai estinto del giornalismo italiano è Giorgio Frasca Polara. Esponente storico della stampa parlamentare, Frasca Polara è stato quarantatré anni all'Unità, che comprendono anche i tredici trascorsi a Montecitorio da portavoce di Nilde Iotti, la prima donna a essere eletta presidente della Camera. GFP, come veniva chiamato dai suo redattori, era il capo dei resocontisti. Prima di accedere nel 1962 al santuario di Botteghe Oscure, Frasca Polara fece il suo vero esame da giornalista con Palmiro Togliatti. Era la fine degli anni cinquanta e il Compagno Segretario era a Palermo per un comizio serale.
Come andò?
Io allora abitavo a Palermo perché i miei si erano trasferiti in Sicilia da Roma. Ero l'ultimo arrivato alla redazione locale dell'Unità, un ragazzino. Il resocontista abituale di Togliatti era Luca Pavolini, ma quel giorno era malato e io ero da solo in redazione. Mi dissero: «Vai tu». Mi venne una strizza tremenda: il comizio era alle nove di sera quando il giornale era già in stampa.
Cosa accadde?
Andai da Togliatti in albergo e lui mi consegnò gli appunti del comizio che avrebbe fatto, ovviamente scritti con l'inchiostro verde. Tornai poco dopo con l'articolo già pronto. Togliatti lo prese e lo passò a Nilde Iotti, accanto a lui sul divano: «Nilde, vedi un po' cosa ha fatto il nostro giovane compagno». Lei si alzò e si mise seduta a un tavolo: cambiò un aggettivo e tolse una frase. Ce l'avevo fatta.
E poi?
In seguito divenni capo della redazione siciliana. Quand'era direttore Mario Alicata chiesi di fare un'esperienza a Roma. Mi risposero di sì e dopo un passaggio alla redazione culturale mi chiamarono a far parte della squadra dei resocontisti del comitato centrale.
Come funzionava?
Noi eravamo chiusi in una stanzetta attaccata al salone delle riunioni, al quinto piano. Dentro, a fianco dell'oratore, c'era un tavolino dove a turno ci alternavamo. I giornalisti dei quotidiani "borghesi" erano parcheggiati giù. I nostri testi erano rivisti dall'oratore e nei casi più delicati anche da un membro della segreteria. Poi passavano all'ufficio stampa che li fotocopiava e li dava ai cronisti "borghesi". I resocontisti sono esistiti fino al 1991.
Quanti eravate?
Sette, al massimo otto. In occasione dei congressi la squadra si allargava. Umberto Terracini, per esempio, era roba mia. Lo seguivo sempre io. Aveva un intercalare, «nevero», che mi dispiaceva non inserire nei testi. Ognuno aveva i "suoi" esponenti. Ugo Baduel era il resocontista di Berlinguer ma quando si ammalò per un anno toccò a me, che ero anche portavoce di Iotti e capo dei servizi parlamentari dell'Unità. I compiti venivano distribuiti per consonanze regionali e simpatie personali. Non c'era calcolo politico.
Lo spazio sul giornale variava?
Sì. In genere il relatore che introduceva il Cc aveva l'intervento quasi integrale. Le regole erano poche e poco elastiche. Per i dirigenti periferici era prevista una cartella e mezza, per i big almeno tre.
Il più pignolo?
Giorgio Napolitano, una volta mi disse: «Qua ricordo di aver messo una virgola, dov'è?». Anche Alfredo Reichlin era preciso. Ma c'era un allenamento tale che non avevamo grossi problemi. L'unico momento difficile fu con la radiazione di Aldo Natoli, Luigi Pintor e Rossana Rossanda nel 1969. Io ero già capo dei resocontisti.
Il caso del manifesto.
Sì. Il clima era pesante ma sempre civile. Si sapeva come sarebbe andata a finire: la Ccc avrebbe optato per la radiazione e non l'espulsione. Una misura più cauta che prevedeva un giorno la possibilità di rientrare. Andai quindi a parlare con Natta, che era il relatore.
Per quale motivo?
Gli dissi: «I loro interventi faranno notizia, ci conviene darli ampiamente, altrimenti i giornali "borghesi" cercheranno di servirsi di altre fonti». Natta, di cui avevo una profondissima stima, riconobbe il valore dell'osservazione e approvò. Scrivemmo senza pensare al numero delle cartelle. Ma il ricordo personale più scioccante è un altro.
Quale?
La morte di Luigi Petroselli, sindaco di Roma, in pieno comitato centrale. Si sentì male e di lì a poco morì. Un'emozione fortissima.
Un ricordo bello?
Quando mi affacciai con Berlinguer al famoso balcone e c'era il nostro popolo sotto che festeggiava la storica vittoria alle amministrative del '75. Enrico era felice come una Pasqua e sorrideva. Ebbi la percezione netta che eravamo una grande forza.
Lei ha seguito per un anno Berlinguer.
Era una persona deliziosa, terribilmente timida. Quando non era impacciato era capace persino di fare battute spiritose. Ricordo soprattutto le nostre diatribe musicali. Io sono un verdian-belliniano. Lui era un wagneriano.
Wagneriano?
Sì. E si tormentava per questo. Mi chiedeva: «Amo Wagner: sono passibile di sospetto nazismo?».
Che giornalista era il resocontista?
Siamo sempre stati considerati una sottospecie di cronisti. All'Unità c'erano gli "scrittori", tipo Enzo Roggi e Bruno Miserendino, e i resocontisti. Sono stato a capo di fior di giornalisti: Vincenzo Vasile, Stefano Di Michele, Peppino Mennella, Bruno Enriotti, Bianca Mazzoni, Onide Donati, Renzo Cassigoli, Sergio Sergi, Matilde Passa. Qualcuno c'era, però, che non voleva riconoscersi in questa sottospecie.
Chi era?
Antonio Caprarica. Oggi ci sono giornalisti della Rai che nelle loro biografie omettono di essere stati all'Unità. Caprarica diceva: «Io non voglio andare nella squadra di GFP, fatemi scrivere di politica». Io, invece, sono sempre stato fiero di essere un bracciante della tastiera.
Del resto lavorare a Botteghe Oscure era un privilegio.
Vero, era un privilegio. Quante storie e quanti amori clandestini. E poi si scendeva tutti alla libreria Rinascita. L'unico che si autoescludeva da questo rito era Togliatti.
Perché?
Quando l'Unità era a via IV Novembre lui iniziò a frequentare la libreria Tombolini e non cambiò mai.
Nostalgia per il Bottegone?
Non tanto per il palazzo quanto per lo stile cui ci aveva educato il Partito. Avevamo un'identità. Per questo motivo non ho aderito al Pd e mi sono iscritto al Pse.
l’Unità Lettere 17.4.09
Il nuovo Vajont
Abbiamo conferito deleghe in bianco a una classe politica miope e avida, zelante solo quando si tratta di legiferare sull’embrione, sul sondino o sulla prescrizione dei reati, interessata più alla stabilità del bipartitismo che alla stabilità degli edifici, affidata esclusivamente alle benedizioni dei vescovi. L’Aquila è il nuovo Vajont
Roberto Martina
RISPOSTA. I palazzi crollati, lì, c’erano tutti. Il censimento di vulnerabilità degli edifici pubblici, strategici e speciali in Abruzzo, Basilicata, Campania, Molise, Puglia e Sicilia redatto nel 1999 da Vincenzo Petrini direttore dell’istituto di Ricerca sul rischio sismico su richiesta di Franco Barberi sottosegretario del governo Prodi segnalava il deficit strutturale della Regione Abruzzo, dove 171 palazzi destinati all’istruzione erano in fascia alta di vulnerabilità ed altri 314 in quella medio-alta. A l’Aquila erano censiti come ad alto rischio l’Università e l’Ospedale, la Prefettura e il Catasto. Su questi documenti sta lavorando oggi la Procura. Sul modo in cui la politica è riuscita ad ignorare gli avvertimenti dei tecnici siamo chiamati a riflettere tutti. Quello cui ci troviamo di fronte, infatti, è un sistema politico sempre più chiuso di fronte al progredire delle conoscenze scientifiche. Autoreferenziale. Paralizzato dalla mancanza di competenze professionali dei tuttologi che pensano (sognano) di essere stati chiamati (da Dio, dal popolo?) a svolgere attività di governo.
Luigi Cancrini
Repubblica Lettere 17.4.09
Franco Volpi in bicicletta travolto come Barthes
di Flore Murard-Yovanovitch
Scrivono che Franco Volpi è morto in un incidente stradale. Precisione: è morto in bicicletta, travolto da un'auto. Bicyclette, mi ricorda la canzone di Montand. Forse andava più lentamente, con la lentezza che scegliamo, noi che scegliamo la bici come mezzo di mobilità eco sostenibile e non violenta. Forse lo studioso di Heidegger, contemplava un dettaglio del paesaggio, un frammento di cielo, un suo pensiero da fare nascere. In bicicletta. Una macchina lo travolge. Come Roland Barthes (le statistiche dimostrano il folle incremento: più 82% rispetto al 2007 gli atti di pirateria, persino sulle strisce). Un traffico "disumano" che ti ammazza per non fare tardi, per arrivare prima. Dove? Resta solo piangere.