martedì 21 aprile 2009

Repubblica 21.4.09
Il testamento politico di Foa
La memoria e il futuro
La nuova introduzione a "Questo novecento" scritta prima della scomparsa
di Vittorio Foa


L’intellettuale "voce" della sinistra decise di fare l´ultima versione nel settembre 2008: qui ne anticipiamo un brano
Il racconto, da protagonista e testimone della politica italiana, dall´inizio del secolo fino agli anni Novanta

Con la memoria della Shoah abbiamo imparato a celebrare non soltanto chi cade in guerra ma chi è vittima innocente, il civile. Possiamo ricordarne i nomi e le età e celebrare in una memoria carica di insegnamento la morte di chi non immaginava di morire.
Con il 1945 abbiamo ricostruito il sistema dei partiti, per seguire l´esempio dei paesi vincitori e anche per riallacciarci al passato, dopo vent´anni di soppressione dei partiti. Ma successivamente i partiti hanno lasciato troppa insoddisfazione.
Mi sembra che esista un fenomeno dai tempi lunghi: una destra profonda che prende le forme più varie, a volte persino forme di sinistra. Le forme della destra profonda possono essere nazionaliste, militariste, razziste, fasciste, o puramente liberistiche. In tutti questi casi la chiusura nel proprio particolare, nella famiglia e il proiettare il rapporto con il mondo sulla propria particolarità diventano dominanti.
Le lotte politiche fra i partiti socialisti, comunisti e democristiani si susseguirono per anni, fin verso la fine del secolo, quella di cui stiamo ancora adesso vivendo gli esiti, che ha visto la fine dei partiti. Il partito socialista che aveva sperato di ereditare dai comunisti la loro base elettorale, è scomparso insieme con essi. L´Italia è l´unico paese in cui questo sia successo. Il socialismo è in declino in tutti i paesi europei e non esiste negli Stati Uniti. Cosa vuol dire, che il socialismo non ci sarà più? Questa è la mia previsione, almeno per i prossimi anni.
Negli anni Sessanta, una parte dei sindacati lasciò la dipendenza dalle confederazioni e scelse la linea dell´unità sindacale: lavorare insieme estendeva le possibilità di ricerca e inoltre portava a comprendere che il conflitto non nasce dalla miseria ma soprattutto dagli sviluppi comparativi. La linea dell´unità sindacale fu troppo presto abbandonata. Adesso abbiamo un´occasione: liberiamoci finalmente delle ideologie anche nel campo del lavoro.
Ho ricevuto la visita di una delegazione della Cisl di Padova e Lorenza Leonardi mi ha chiesto, a quanto ho capito, se ero d´accordo che nella linea dell´unità sindacale, svincolato il sindacato dai partiti, non ci fosse più solo il contratto, ma anche tutto il resto, cioè la nuova povertà. Evidentemente sono d´accordo.
Alla fine del secolo ventesimo, i partiti politici che dal 1945 avevano sorretto la politica italiana sono scomparsi sotto un´accusa che era giusta, anche se non era sincera, cioè per il fatto che dipendevano da premesse ideologiche. La più profonda anomalia della situazione italiana è, a mio giudizio, quella della permanenza dei sindacati, ognuno dei quali riferito a una realtà che non esiste più: quella dei partiti con le loro ideologie. Possiamo sperare di unificare il lavoro superando le ideologie ormai vuote di significato dei vecchi partiti? Possiamo sognare un´unità sindacale nella quale tutti i lavoratori possano confrontare le loro idee, le loro speranze, le loro sofferenze? Non so perché, ma mi sembra che l´unità sindacale alla quale io penso non unificherebbe soltanto la tecnica sindacale, ma andrebbe oltre. Nessun contratto sindacale risolve i problemi della felicità, neanche accenna a risolverli. Eppure la ricerca delle nuove povertà vuol dire la ricerca da parte del nuovo sindacato sul modo di vivere, sul modo di migliorare sul serio la nostra vita collettiva. Pensare alla fine del secolo ci costringe a sentirci più responsabili di quello che eravamo anche in passato, tutto va ripensato insieme con gli altri, bisogna pensare al futuro senza pensare soltanto a noi stessi. Dobbiamo sentirci diversi dal passato, se non riusciamo a fare questo finiremo per essere ancora poveri oltre che nei fatti anche nelle idee rispetto agli altri. Ecco perché, nel campo del lavoro e delle infinite ingiustizie che la sua realtà ci rivela, io credo all´unità dei lavoratori, alla forza che può derivare dal sentirsi uniti.
Nella seconda parte del secolo attraverso varie vicende ha prevalso la funzione centrista della politica. Voglio ricordare la figura emblematica di Togliatti, sinceramente doppia, come campione di difesa della democrazia italiana e come capo dell´Internazionale comunista. E poi quella di De Gasperi. Oggi non si parla più di politica, nessuno parla del futuro, tutto è una ricerca a sfruttare il presente. A volte ci sembra che la stessa politica sia fuori di ogni pratica possibilità, che non si possa più lavorare insieme per sé e per gli altri, per sé e per tutti.
Si potrebbe invece pensare, per quel che riguarda il futuro, in relazione all´eventuale mutamento della direzione politica americana a una diversa distribuzione delle risorse a livello mondiale e quindi a un diverso livello dei prezzi: l´apertura di una fase di interventismo sui prezzi potrebbe cambiare il quadro.
Torniamo dunque all´Italia, torniamo alle vicende di questo fine secolo che ha visto, a mio giudizio, la maggior parte delle persone ripiegarsi su se stesse: è possibile ricondurle ad un agire che abbia significato universale, a non pensare solo a se stessi e neppure solo agli altri, ma a pensare a se stessi insieme agli altri? Io credo profondamente nella possibilità per la mente umana di scegliere delle vie positive e non soltanto la via dell´egoismo.
Possiamo aiutare questo sviluppo dell´umanità? C´è chi dice che potremmo utilizzare altri parametri, per esempio quello dei diritti umani, che è indipendente dalle nazioni, dalle religioni e dai partiti. È una prospettiva seducente, da approfondire.
Vorrei fare delle osservazioni sul paradosso eleatico. Tutti sono convinti che Achille vince la corsa con la tartaruga, ma tutti sanno che nessuno è in condizione di dimostrare la vittoria di Achille. Vi sono delle ragioni numeriche, relative al calcolo dell´infinito, che nessuno è riuscito a risolvere. Ma vi può essere anche una ragione più profonda: Achille è la guerra e la guerra produce altra guerra. In ogni caso Achille, ovunque si presenta, uccide, annienta e vince. Tuttavia non c´è totalitarismo che possa coprire ogni evento storico: Achille può uccidere da tutte le parti, ma la tartaruga è sempre lì, raccolta nei suoi piccoli e lenti passi, a riflettere sulle vicende del mondo e a sognare che alla guerra assoluta si possa rispondere con la pace.
Quando io sono nato, l´Europa era sul punto di scannarsi, divisa in nazionalismi contrapposti. Ed era al centro del mondo. La guerra ha significato anche l´inizio dell´abbandono della sua posizione centrale, con l´entrata dell´America in Europa. Oggi, non ci sono più frontiere e stiamo avviandoci verso l´unità. Ma l´Europa non è più centrale. Forse è un bene.
Siccome credo profondamente nella libertà, non credo solo nella libertà di ciascuno di dire quello che pensa, ma credo anche nel fatto che le idee di ciascuno possano e debbano cambiare.

Repubblica 21.4.09
L’intervista
"Il rischio è quello del determinismo"
di Alessandra Viola


Professor Umiltà, coautore del libro "Neuro-mania", a cosa si deve la diffusione di queste nuove discipline?
«Questa specie di moda risale agli anni ‘90, quando le ricerche sul cervello attirarono ingenti finanziamenti da parte del governo Usa. Allora molte altre discipline scelsero di partecipare al banchetto, inventando neuroeconomia, neurofilosofia e così via. D´altra parte le neuroscienze cognitive non hanno mai goduto di tanta salute. Diciamo che altri sono balzati su quello che sembra il carro del vincitore».
Solo opportunismo?
«No, credo ci sia alla base anche un cambiamento culturale. Fino agli anni Settanta, pensare che un comportamento fosse legato a una causa biologica era giudicato con sospetto. Tutti i comportamenti erano visti come risultato del vivere sociale e quindi si postulava la loro modificabilità attraverso una migliore organizzazione sociale. Un atteggiamento progressista. Ora la situazione è opposta. La mania di ricercare nel cervello la ‘zona dell´innamoramento´ o la ‘zona della religione´ induce a un rigido determinismo».

l’Unità Firenze 21.4.09
In Toscana 4.443 alunni in più a fronte di 1.464 insegnanti in meno
«Si smantella la scuola pubblica»
Scuola, lanciata in Toscana la petizione del Pd contro i tagli del Governo
di Sonia Renzini


La Toscana ha già fatto i conti con la razionalizzazione. «È stata utile - dice l’assessore Simoncini - ma di fatto abbiamo già una media di alunni per classe superiore a quella nazionale: 21.2 contro 20.6».

Scuola, lanciata in Toscana ieri la petizione popolare del Pd contro i tagli del Governo. Cinque le emergenze: soddisfare le richieste delle famiglie sul tempo scuola, bloccare l’espulsione dei precari, assegnare risorse adeguate agli istituti, mettere in sicurezza gli edifici ed evitare la chiusura delle piccole scuole di montagna. La raccolta delle firme terminerà all’inizio di maggio, subito dopo verrà presentata dal Pd una mozione parlamentare sia alla Camera che al Senato.
Lo smantellamento
«Bisogna evitare la più grande operazione di smantellamento della scuola pubblica - dice il responsabile nazionale del dipartimento educazione del Pd Giuseppe Fioroni - perché, di questo passo, la scuola tornerà a essere uno strumento che opera la selezione per censo e le famiglie non sceglieranno l’educazione che vogliono, ma solo quella che possono permettersi». Qualche esempio? Il Pd annuncia che i fondi di istituto sono stati azzerati e per i corsi di recupero mancano i soldi. «Questo significa che le famiglie dovranno pagarsi anche la carta igienica e i gessi - continua Fioroni - senza contare il trionfo del ritorno alle ripetizioni private».
Poi, c’è tutta la questione relativa al maestro unico. Secondo i dati del Ministero, riportati ieri da Fioroni, risulta che l’opzione è stata tutt’altro che bene accolta: i genitori hanno scelto nel 42% dei casi il tempo pieno, l’altra gran parte le 30 ore, pochissimi le 24. Ma tant’è. Il Governo va avanti per la sua strada e mette mano alla scure.
I numeri
Numeri alla mano, in Toscana ci saranno 4.443 alunni in più a fronte di 1.464 insegnanti in meno tra scuola primaria (-363), media (-659) e superiori(-437, più 874 dipendenti in meno tra il personale amministrativo tecnico ausiliario (Ata). Senza contare che altri 1.412 docenti andranno in pensione e non verranno sostituiti. Ce n’è abbastanza per essere allarmati. Tanto più che la Toscana ha già fatto i conti negli anni con una politica di razionalizzazione. «L’abbiamo portata avanti concordandola con i territori - dice l’assessore regionale al Lavoro Gianfranco Simoncini - ed è stato utile, ci ha permesso di salvare tante piccole scuole in zone pocco raggiungibili, come in montagna. Ma resta il fatto che abbiamo già una media di alunni per classe superiore a quella nazionale: 21.2 contro quella italiana di 20.6 e di 21 per il Centro».

Corriere della Sera 21.4.09
Gli stranieri e i dati di Bruxelles
Nuove cittadinanze i numeri record di Londra e Parigi
Il quintuplo. In Gran Bretagna e Francia legalizzato un numero di immigrati 5 volte superiore rispetto all’Italia
di L. Off.


BRUXELLES — I barconi alla deriva nel mare e le folle senza passaporto sono immagini e cifre dell’emergenza, dell’esodo dei «clandestini», che più colpiscono l’opinione pubblica. Ma se si guarda poi alle statistiche delle anagrafi, cioè all’immigrazione che chiede e ottiene di essere legalizzata, i Paesi in prima fila non sono l’Italia o Malta, ma quelli del Centro e Nord Europa: la Gran Bretagna (154.015 acquisizioni di cittadinanza nel 2006, secondo gli ultimi dati Eurostat) ha accolto e legalizzato circa il quintuplo degli immigrati stranieri rispetto all’Italia (35.266 acquisizioni, in maggioranza ottenute da immigrati marocchini, romeni, e albanesi); la Francia, pure; la Germania, circa il quadruplo; la Spagna poco meno del doppio. Da sole, Francia, Gran Bretagna, e Germania hanno concesso il 60% di tutte le “cittadinanze” nazionali nella Ue.
Questi dati, sempre secondo l’Eurostat, fotografano anche il livello di integrazione favorito dai vari Paesi. Se nella Ue, in media, si registrano 1,5 acquisizioni di cittadinanza ogni 1000 abitanti, in Svezia si arriva a 5,7, in Belgio a 3, in Gran Bretagna a 2,5, in Francia a 2,3.
Poi si declina verso l’1,8 dell’Olanda, l’1,5 della Germania e della Danimarca, l’1,2 di Malta, lo 0,9 della Bulgaria, lo 0,8 della Finlandia. L’Italia sta a quota 0,6, con l’Ungheria. Chiudono la fila, a quota zero, Romania e Polonia.

Corriere della Sera 21.4.09
L’ideologo del movimento a Roma per sostenere i candidati italiani. Legambiente: giusto aprire
Cohn-Bendit ai Verdi: guardate a destra
«Siate trasversali, la sinistra non sarà al potere per 4 anni». Ma la Francescato frena


La paura. Il leader francese: qui siete indietro, non abbiate paura di essere risucchiati da Berlusconi

ROMA — È venuto a Roma a sostenere i Verdi e la (probabi­le) capogruppo tra i candidati del Nord-Ovest per Sinistra e Li­bertà, Monica Frassoni. Ma, con la consueta irruenza, Da­niel Cohn-Bendit — copresi­dente europeo dei Verdi — non rinuncia a qualche sciabolata contro i fratelli italiani: «I Verdi di qui continuano a vedere solo la sinistra. Ma si devono rende­re conto che per almeno 4 anni questa non sarà al potere. E nel frattempo? Serve trasversalità, se si vuole essere influenti biso­gna guardare a tutta la socie­tà».
A Grazia Francescato, porta­voce dei Verdi, la critica non va giù: «Ma Daniel — prova a op­porsi — tu lo sai che destra ab­biamo in Italia?». Cohn-Bendit, imperterrito: «E la sinistra ita­liana allora?». Dibattito acceso e proficuo, quello per il lancio europeo della Frassoni, elogia­tissima da Cohn Bendit. Perché resta da capire come mai i Ver­di italiani siano impantanati su percentuali infinitesimali, men­tre in Europa veleggiano oltre il dieci per cento. Cohn-Bendit sa­rà capolista nell’Ile-de-France per il nuovo partito Europe Eco­logie e i sondaggi li danno già sul 10 per cento. E l’Italia? «I Verdi qui sono indietro — spie­ga 'Dany il rosso', com’era chia­mato ai tempi delle proteste stu­dentesche — perché hanno pa­ura di essere risucchiati da Ber­lusconi. Ma bisogna rischiare, contaminarsi, non si può stare sempre e solo da una parte». Non solo: «Bisogna anche ave­re credibilità: quando nei Verdi cambia un leader via l’altro e il partito sparisce insieme a lui, è ovvio che la gente non ha più fiducia».
Anche Vittorio Cogliati Dez­za, presidente di Legambiente, è per aprire le porte: «Spesso la­voriamo molto meglio, sul terri­torio, con gli assessorati di cen­trodestra, che con la sinistra». La Francescato approva, ma fi­no a un certo punto: «Questo sa­rà anche vero. Ma se devo sce­gliere tra la sinistra e la destra di Berlusconi, Dell’Utri e Carfa­gna, non ho dubbi». Non che la sinistra sia sempre stata partico­larmente sensibile in passato: «Io ero nel Pci di Berlinguer ­ricorda la Francescato — e la si­nistra è sempre stata daltonica: il verde non lo vedeva. E consi­derava ambientalismo e femmi­nismo temi piccolo borghesi».
Ora i Verdi italiani hanno de­ciso di affidare le loro speranze a Sinistra e libertà, «la lista del­la Rivoluzione verde». Le tratta­tive con il Pd erano andate ma­le: «Ci avevano dato speranze nel caso di liste bloccate — dice la Frassoni — ma con le prefe­renze hanno chiuso le porte». Frassoni e Francescato ora lan­ciano un roosveltiano «New Green Deal»: «In Europa ci so­no 3,5 milioni di green job: pos­sono diventare 8 milioni». Sui temi energetici, dice la France­scato, «l’Italia sta andando in­dietro tutta». Cohn-Bendit è preoccupato: «Se frena l’Italia, come ha fatto sul riscaldamen­to globale, diventa piombo per tutti. Il vostro Paese è la bad bank dell’Europa».
Poco prima, incontro tra la Francescato e Romano Prodi, in via della Maddalena. Baci, ab­bracci e un’occhiata alla «New Green Deal»: «Ma quanti New Deal avete fatto?», scherza il Professore. La Francescato non se la prende, gli sottopone il dossier contro il nucleare e lo saluta nostalgica: «Torna tra noi Romano, ci manchi». Gran­d i abbracci anche con Cohn-Bendit, la promessa di un giro in bici insieme (i Verdi hanno in progetto un’enorme pista ciclabile sulla ex Cortina di Ferro), poi la constatazione: «Con Romano abbiamo concor­dato che l’Italia è un paese diffi­cile. Davvero strano».

Liberazione 18.4.09
Sono nato in Abruzzo e mi ricordo il terrore di quei terremoti
Il terremoto interiore di chi ha perso tutto e di chi ama quei luoghi
di Renzo Paris


Sono marsicano, sono nato a Celano, nella conca dell'ex lago Fucino e di terremoti in quella zona, partendo da quello del 1915 ho sempre sentito parlare da mia madre, finché, nei lunghi inverni degli anni Cinquanta, non li ho vissuti anch'io. Fino a tredici anni, per tutto il decennio della cosiddetta ricostruzione, non c'era inverno che all'improvviso la terra non si mettesse a tremare e tutti uscivamo all'addiaccio e allora i pigiami non li aveva nessuno! Fuori si sentivano gli ululati dei lupi che, attratti dalle bestie fuggite dalle stalle, volevano azzannarle. Poi ci siamo trasferiti a Roma, felici di ascoltare il ritornello che qui i terremoti sono sconosciuti per via del tufo su cui la città eterna è stata costruita.
Poi però negli anni Ottanta mi sono dovuto ricredere. Abitavo al quinto piano di un palazzo senza ascensore e le mie stanze oscillavano come una nave in tempesta. Uscimmo, ricordo, tutti fuori, riempimmo il parchetto del quartiere San Lorenzo a Roma e tornammo a sera inoltrata, quando lo spavento finì. Già, si fa presto a dimenticare le cose sgradevoli. In quel parchetto all'improvviso eravamo tutti uguali, benestanti e non, come dopo una rivoluzione.
Nei primi del Novanta prendemmo una casa per le vacanze estive a San Panfilo d'Ocre, a dieci chilometri dall'Aquila. Una vecchia casa, con un camino del Cinquecento, con la volta a botte e muri davvero spessi. Di terremoti lì ne avevano subiti tanti ma nessuno era stato così potente da far crollare alcunché. Quando il sei aprile abbiamo avvertito a Roma la scossa delle tre e mezzo di notte, ho pensato subito all'Abruzzo, a quella zona e quando ho visto nella Cnn i nomi dell'Aquila e di Paganica e subito dopo quello di Onna, ho avuto paura. Siamo stati letteralmente buttati giù dal letto. Abbiamo cercato il famoso arco centrale della casa, abbiamo dato un'occhiata al nostro tavolo, ma poi sono rimasto sveglio tutto il resto della notte a guardare la televisione, a cercare notizie su internet. Poi la scossa dell'otto, verso le sette di sera mi ha rimesso in allarme. Nel frattempo mio figlio Giovanni era tornato da San Panfilo con le foto della nostra casa lesionata e con un filmino su L'Aquila, che raccontava i soccorsi della casa dello studente crollata. L'altro mio figlio, Alessandro, si lagnava della sua infanzia finita, trascorsa in quei luoghi durante l'estate. L'Aquila, una città fantasma. Addio alle nostre passeggiate per quei vicoli, ai gelati presi a piazza Duomo, alla frequentazione delle librerie, dell'Università dove insegnava il mio amico, adesso in pensione, Walter Siti, addio alle sagre paesane! Ne ricordo una leggendaria a Onna, un'altra a Poggio Picenze. Intanto mi chiedevo come era possibile che insieme alle case vecchie fossero crollate anche le nuove, compreso l'ospedale de L'Aquila, chi fossero i responsabili. Poi le parole del presidente del consiglio, che ha fatto il suo spot pubblicitario, rassicurando tutti, come se avessero bisogno di lui, con quella proposta di fare una cittadina di prefabbricati lì vicino, una seconda città. E intanto le tende a Onna, la prima notte all'addiaccio, non sono arrivate e nemmeno i sanitari e la notte è stata fredda. Perché? Nessuno ha pensato ai cani randagi che a L'Aquila erano tanti e alle bestie domestiche che sono morte o fuggite. All'improvviso è stato come se il terremoto, visto come un bombardamento riguardasse, solo Onna. E il castello di San Panfilo? E le lesioni alla chiesa di Santa Maria ad Criptas di Fossa, dove c'è racchiuso lo splendore della pittura del Duecento? Le facce pulite degli abruzzesi, rassegnati e dignitosi nel loro riserbo, mi hanno commosso. Oh, le gite a Sant'Angelo da Santino e a Tempera dove c'era una trattoria gestita da donne in cui gli avventori maschi dovevano portare le vivande sui tavoli invece che le loro donne; tutto scomparso? Poi l'epicentro del terremoto si è spostato da Paganica a San Panfilo e ho ricominciato a tremare. Ho telefonato ad amici di Celano che mi hanno detto che vivono nella paura di crolli anche loro e che diverse chiese sono lesionate, agli amici di Avezzano e di altri paesi della conca, che evitano di dormire in casa e se lo fanno riprovano un terrore antico. Ma perché ancora oggi piangiamo tutti quei morti, come mai questo paese non si è mai occupato della sicurezza delle case in zone sismiche da sempre, che altro ci dobbiamo aspettare? La classe politica è nuda dinanzi a quei boati, a quei crolli, e con quella classe gli architetti che hanno costruito di recente quelle case per nulla antisismiche. Vorrei sottolineare il terremoto interiore che vivono quelle anime, la fine di tutto, letta nelle facce dei sopravvissuti. Un signore che aveva una casa al centro de L'Aquila, ha raccontato che tutto è stato vano nella sua vita e lo diceva con il sorriso sulle labbra di chi sconta in vita la morte delle sue cose più care. Le immagini dei telegiornali che mi hanno colpito di più sono state le tendopoli ma soprattutto gli alberelli fioriti, la primavera, che nonostante tutto risplende, i tulipani dei giardinetti di quei luoghi, gialli e rossi.
Mia madre mi raccontava che la sua famiglia si era salvata nel terremoto del 1915 perché abitava in una baracca, tutti vivi per una trave che si era messa di traverso e li aveva protetti dal crollo del tetto. Oggi che la vergogna delle baracche non c'è più, siamo sconcertati dinanzi a case costruite negli anni sessanta senza protezioni antisismiche, crollate come sotto un bombardamento, sbriciolate. Il terremoto interiore, detto tutto, durerà certo più a lungo di quello reale ed è con questo che i terremotati dovranno fare i conti, più lesivo per i sopravvissuti di quello reale.

il manifesto 19.4.09
Disposizioni urgenti in materia di libertà di stampa
di Alessandro Robecchi


A tutti gli organi di stampa - loro sedi. Indicazioni obbligatorie in materia di apparizioni di Sua Eccellenza Cavalier Silvio Berlusconi presso le popolazioni terremotate dell'Abruzzo.
Evitare pubblicazione foto inaugurazione tenda-scuola nella città dell'Aquila. Ripetiamo: evitare. Circondato dai piccoli alunni, Sua Eccellenza Cavalier Silvio Berlusconi sembra un pluriripetente troppo vivace. Privilegiare immagini Sua Eccellenza Ministro Mariastella Gelmini sottolineandone le indiscusse doti, prima tra tutte quella di aver preso a pettinarsi come Sua Eccellenza Ministro Mara Carfagna.
Pubblicare con grande rilievo immagini e plastici di new town, cittadelle dello studente, città-modello per coppie giovani, borghi in stile SanSiro-Babilonese ideate personalmente da Sua Eccellenza Cavalier Berlusconi. Sottolineare con forza che le chiavi saranno consegnate alla popolazione entro due mesi. (Evitare assolutamente di pubblicare la frase «solo le chiavi»).
Evidenziare adeguatamente la sofferenza personale di Sua Eccellenza Cavalier Berlusconi. Se necessario, intervistare la figlia mentre inaugura una mostra insieme ad altri figli di miliardari.
Mettere in giusta evidenza gli studi di tecnica delle costruzioni e ingegneria statica compiuti in gioventù alla Sorbona, episodio poco noto della biografia di Sua Eccellenza Cavalier Berlusconi.
Interrompere le notazioni (anche positive) sui golfini a girocollo di Sua Eccellenza Cavalier Berlusconi. Si rischia di far credere che possegga un golfino solo, cosa che lo sminuisce sul piano internazionale.
Se proprio avanzano due righe che non si sa come riempire, far notare ai lettori l'esistenza in vita di Sua Eccellenza Ministro Franco Frattini.
Importante! Controllare l'entusiasmo filogovernativo, sempre apprezzato, ma a volte controproducente. Evitare titoli come «Sua Eccellenza Berlusconi prigioniero sul Gran Sasso».
Allo stesso modo, non censurare totalmente critiche e attacchi faziosi, ma sottolinearne fieramente il carattere di «abuso di libertà». Fa più fine, no?

il manifesto 19.4.09
«Su la testa», per Prc e Pdci un'unica bandiera rossa
Campagna elettorale al via. Resta il nodo dei segretari candidati
di Matteo Bartocci


Un'unica «bandiera rossa». Cantata dal pubblico prima, durante e dopo ogni intervento dal palco. Un'unica falce e martello per la sinistra comunista «erede» del Pci. Rifondazione, comunisti italiani e Socialismo 2000 (l'area ex Ds guidata da Cesare Salvi) scelgono piazza Navona a Roma per iniziare la propria campagna elettorale per le europee.
«E' un progetto chiaro - spiega il segretario del Prc Paolo Ferrero prima del suo comizio - che continuerà anche dopo le europee a prescindere dal dato elettorale». A lanciare sul nastro di partenza la nuova formazione «rossissima» i leader di quasi tutta la sinistra europea che conta. Lothar Bisky della Linke tedesca; Paco Frutos, segretario del partito comunista spagnolo e Francis Wurtz, capogruppo del gruppo Gue/Ngl al parlamento europeo e storico dirigente a Strasburgo del partito comunista francese.
In piazza quasi quattromila persone, su cui campeggia nelle prime file «comunisti per sempre», lo striscione del circolo Zhukov di Poggibonsi. Scaldata dalla musica di Zulù (99 Posse), Enrico Capuano e Le tarantole, la piazza aspetta i comizi dei segretari. Ogni tanto intona «bandiera rossa», ogni tanto (meno) l'«Internazionale». E quando i tre leader salgono sul palco (davanti a una fila di ragazzi dalla maglietta bianca con la scritta «i giovani votano comunista») il coro è unanime: «Uniti, uniti, uniti». Poco importa che l'appello all'unità - maledizione e traguardo della sinistra - riguardi una lista che secondo i sondaggi più ottimisti supera di poco la soglia del 4%.
Il primo dei dirigenti a intervenire dal palco è Cesare Salvi. E all'inizio la voce non si sente: «Ho sbagliato microfono ma non ho sbagliato lista», esordisce l'ex ministro del Lavoro, fuoriuscito dalla Sinistra democratica di Fava e Mussi. «E a chi mi chiede come mi trovo con la falce e martello - spiega Salvi - rispondo benissimo, mi sembra di essere tornato ragazzo». Anche Oliviero Diliberto, dopo di lui, prova il tasto dell'entusiasmo. «Guardate quanto ce n'è in questa piazza - dice al pubblico - vi ricordate l'Arcobaleno un anno fa?». «Tante volte i nostri partiti hanno sfilato insieme - sottolinea Diliberto - ma oggi c'è un'unica bandiera rossa comune, una sola falce e martello». Ferrero concorda e nel suo comizio, subito dopo, lo spiega così: «Noi siamo gli eredi non pentiti delle lotte per la libertà, la giustizia e i diritti civili di questo paese», avverte l'ex ministro della Solidarietà indicando i simboli del movimento operaio. «Se un giornalista ci chiede se siamo vetero o abbiamo il torcicollo - qui qualcuno nelle prime file azzarda a rispondere «sì, si, sì» - noi diciamo che no - corregge subito il segretario, dedicando la giornata a Carlo Giuliani e al movimento no global - noi abbiamo la nostra storia e la nostra identità stiamo in tutte le lotte di oggi». Dalla Tav all'acqua pubblica, dall'Onda all'anti nucleare, dal pacifismo al terremoto in Abruzzo, dove il Prc si è mobilitato con proprie «brigate di solidarietà attiva». L'obiettivo, dice Ferrero, «è costruire un'opposizione di sinistra degna di questo nome». In Italia al berlusconismo e in Europa al patto popolari-socialisti-liberali che da sempre governa a Strasburgo. E mentre Diliberto si era dedicato alle nefandezze da regime del Cavaliere, Ferrero dedica due stoccate a Pd e Idv. A Franceschini dice (fischi in piazza): «E' indecente che il Pd usi il terremoto per far passare con il referendum una legge elettorale antidemocratica peggiore della legge truffa». E a Di Pietro: «Se oggi sei contro la precarietà, il nucleare e il ponte sullo Stretto perché con Prodi non hai votato contro? E perché oggi voti sì in parlamento a quel federalismo fiscale che distruggerà quel poco di stato sociale rimasto in Italia?».
Sotto le falci e martello che garriscono al vento si parla un po' anche delle liste. Resta ancora in sospeso il nodo dei segretari. «Io non mi candido - ribadisce Ferrero - fare il segretario di Rifondazione è già un compito gravoso e candidarmi per poi dimettermi sarebbe una finzione inaccettabile. Se qualcun altro vuol farlo, certo noi non metteremo veti». Le pressioni, anche dentro il Prc, perché Ferrero sciolga la riserva sono notevoli. Sarebbe l'ufficializzazione dell'unità dei comunisti anche per il futuro. Non a caso, a via del Policlinico, provano a mettere qualche paletto alla candidatura di Diliberto. Nessun veto appunto ma spinta per una presenza non in una circoscrizione «forte» come quella centrale ma nelle caselle deboli (Isole o Sud). Ipotesi che il Pdci per ora non accetta.
Segretari a parte alcuni nomi sono ormai certi: Margherita Hack, Heidi Giuliani e Lidia Menapace sono sicure. Come Salvatore Bonadonna (bertinottiano rimasto nel Prc), Massimo Villone di Socialismo 2000 e Fabio Amato, responsabile esteri di via del Policlinico. Ricandidati anche gli europarlamentari uscenti Giusto Catania e Vittorio Agnoletto, che dovrebbe essere il capolista nel Nord Ovest. Contatti infine con scrittori importanti come Massimo Carlotto, Valerio Evangelisti e Valeria Parrella. Agita appena un po' le acque la possibile candidatura di Rosario Crocetta, il sindaco antimafia a Gela passato al Pd che Franceschini pare non voler candidare. «Sono sempre inclusivo e non esclusivo», risponde a denti stretti Oliviero Diliberto a chi gli chiede se il figliol prodigo possa tornare nelle liste comuniste.

il manifesto 19.4.09
PRC
Fronda anti-Greco a «Liberazione»
di r. pol.


Stalinismo e Medio oriente, 26 redattori su 33 contro il direttore
Piero Sansonetti non c'è più ma dentro Liberazione c'è ancora maretta. Ben ventisei redattori su 33 del quotidiano di Rifondazione hanno firmato una lettera al direttore Dino Greco spiegando i motivi di un «malessere» crescente. Una missiva che il direttore non ha voluto pubblicare ma che circola su Internet. La discussione è tutta politica. E a scanso di equivoci non ricalca gli schieramenti pro-contro Sansonetti dello scorso inverno. Anche giornalisti molto critici con l'ex direttore paiono ora delusi dal nuovo corso.
La settimana scorsa le pagine del quotidiano si erano animate per un dibattito sullo stalinismo. Rubrica delle lettere piena con tanto di missive pubbliche molto critiche tra direttore, vicedirettore, recensore e vari redattori. La situazione però pare peggiorare. Le critiche sulla linea editoriale sono molto pesanti. «Liberazione appare più orientata a definire il proprio campo che ad esplorare quanto accade intorno e fuori di noi», si legge nella seconda lettera dei giornalisti non pubblicata. Si denunciano «analisi ideologiche e posizioni sul Medio Oriente e il fondamentalismo islamico che la stessa Rifondazione aveva da tempo superato» e un giornale «impermeabile all'esterno». Non più in grado, si dice, di essere uno «spazio aperto, interessato a indagare e a mettersi in discussione piuttosto che a ribadire certezze e dogmi». Senza chiarimenti, par di capire, l'aria è destinata ad appesantirsi. Soprattutto perché dalla prossima settimana inizieranno le consultazioni ufficiali in vista dell'imminente stato di crisi. Ferrero, a margine del comizio di Roma, prova sgonfiare le polemiche: «Intanto siamo comunisti in quanto antistalinisti. E poi - dice - secondo me il giornale è migliore di prima, molto più attento al sociale che con la passata direzione».

il manifesto 19.4.09
L'«utopia astratta» e il mio Stalin
di Domenico Losurdo


Polemizzando col mio ultimo libro (Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci), senza neppure riuscire a scrivere correttamente il mio cognome, Rina Gagliardi fa un'affermazione perentoria, in base alla quale io sarei «tornato a occupare il ruolo di intellettuale di riferimento di Rifondazione comunista».
In realtà, per quattro numeri consecutivi Liberazione ha preso di mira il mio libro, talvolta con critiche legittime espresse da due stimati intellettuali (Liguori e Prestipino), in altri casi con insulti a opera di alcuni membri della redazione. Dopo di che, al sottoscritto è stato negato il diritto alla replica.
L'affermazione di Gagliardi va rovesciata: non sono io «l'intellettuale di riferimento del Prc», ma sono i due intellettuali ospitati su Liberazione a costituire il punto di riferimento di Rina Gagliardi, che in effetti, nello stroncare il mio libro, riprende gli argomenti da loro utilizzati.
Se non nuovi, sono almeno validi tali argomenti? Nella lettura della storia del movimento comunista io sarei responsabile di «storicismo giustificatorio» (Liguori) ovvero di «cattivo storicismo» e di «giustificazionismo» (Gagliardi).
Per la verità, a proposito di Katyn, il mio libro parla di «crimine» e di crimine «ingiustificabile» (p. 259). Si aggiunge però che gli Sati uniti non possono ergersi a maestri di moralità per il fatto che nel corso della guerra di Corea essi si sono resi responsabili di una Katyn su scala più larga. E' lecito smascherare, in questo e in altri campi, l'ipocrisia morale che alimenta la buona coscienza e la bellicista missione imperiale dell'Occidente?
Più in generale, dopo aver sottolineato l'influenza dello stato d'eccezione nella tragedia della Russia sovietica, il mio libro osserva che «indubbio è anche il ruolo svolto dall'ideologia» e dai «ceti intellettuali e politici» espressi dal bolscevismo (pp. 104-5). Solo che l'ideologia da me presa di mira è l'«utopia astratta», e cioè l'aspirazione messianica a un mondo caratterizzato dal dileguare dello stato, della religione, della nazione, del mercato, della moneta. Liguori (e credo anche Gagliardi) difende invece l'utopia da me criticata in quanto «astratta» e prende di mira altri bersagli, ma non spiega perché il mio approccio dovrebbe essere più «giustificatorio» del suo. In ogni caso, il mio approccio mi sembra più corretto. Se riflettiamo sulla tragedia (e l'orrore) nella storia della Russia sovietica, nonostante i giganteschi processi di emancipazione da essa messi in atto a livello mondiale, siamo costretti a chiederci: l'attesa dell'estinzione dello stato ha reso più facile o più difficile la costruzione dello stato di diritto? Incontestabile è il peso funesto che la pretesa di cancellare ogni forma di mercato e di circolazione della moneta ha avuto nella Cambogia di Pol Pot.
Nel ricostruire la vicenda storica dell'Urss a sinistra si ama individuare in Stalin il capro espiatorio. Ho proceduto diversamente: prendendo le mosse dagli elementi di messianismo presenti in Marx e aggravati dall'orrore per la carneficina bellica, ho analizzato le debolezze della piattaforma teorica della dirigenza bolscevica nel suo complesso, nonché le contraddizioni e la guerra civile che infuriano al suo interno e che prolungano lo stato d'eccezione, portando all'estremo la violenza in esso insita. Se anche Stalin appare meno affetto di altri dall'«utopia astratta», a me pare che, mettendo in discussione (con modalità diverse) tutti i protagonisti di questo capitolo di storia, senza escludere neppure Marx, il mio approccio sia meno consolatorio (e meno «giustificatorio») dell'altro, che si limita a demonizzare uno solo dei protagonisti e per il resto ritiene che tutti gli altri siano innocenti, sicché i comunisti potrebbero tranquillamente riallacciarsi al 1924, all'anno fatale dell'ascesa di Stalin al potere: Heri dicebamus!
Il fatto è che contro di me viene agitata una categoria di cui non è mai chiarito il senso. Gramsci «giustifica» il giacobinismo; su il manifesto e su Liberazione è stata talvolta «giustificata» la Rivoluzione culturale, che pure oggi è spesso dipinta nei colori più foschi: darebbe prova di dogmatismo chi, senza entrare nel merito dei capitoli di storia di volta in volta discussi, attribuisse lo storicismo autentico a se stesso e lo «storicismo giustificatorio» e «cattivo» a quanti non sono d'accordo con lui!
Restano fermi gli angosciosi dilemmi morali che caratterizzano le grandi crisi storiche. Riprendendo e sottoscrivendo la previsione di Bucharin, il mio libro fa notare che la collettivizzazione dell'agricoltura imposta dall'alto e dall'esterno (e la connessa industrializzazione a tappe forzate) si risolve in una gigantesca «notte di S. Bartolomeo». Per un altro verso, però, ai giorni nostri una serie di storici eminenti ribadisce la tesi a suo tempo formulata dal grande A. Toynbee, secondo cui a rendere possibile Stalingrado e la disfatta inflitta alla barbarie nazista fu il percorso compiuto dall'Urss «dal 1928 al 1941».
I dilemmi morali non si pongono solo per l'Urss di Stalin. Vediamo in che modo un eminente filosofo, M. Walzer, giustifica (almeno nella loro fase iniziale) i bombardamenti terroristici scatenati dagli angloamericani nel corso della seconda guerra mondiale: il pericolo di trionfo del Terzo Reich determina un'«emergenza suprema», uno «stato di necessità»; ebbene, occorre prendere atto che «la necessità non conosce regole».
Certo, bombardamenti che mirano a uccidere e a terrorizzare la popolazione civile sono un crimine, e tuttavia: «Oso dire che la nostra storia verrebbe cancellata, e il nostro futuro compromesso, se non accettassi di assumermi il peso della criminalità qui e ora»; i dirigenti di un paese «possono sacrificare se stessi al fine di difendere la legge morale, ma non possono sacrificare i propri connazionali». Perché, nella loro campagna contro lo «storicismo giustificatorio» e «catttivo», i miei critici non se la prendono in primo luogo con il filosofo statunitense?

il Riformista 21.4.09
Riconversioni. Come trasformarsi da Caimano a padre della nazione (passando per il terremoto)
Così il Cavaliere cerca l'ultimo sfondamento
di Stefano Cappellini


Liberazione. Se scende in piazza, cambia la storia del Pdl, consolida il consenso e si conferma premier d'unità nazionale, togliendo all'opposizione l'ultimo collante dell'antiberlusconismo, il solo che potrebbe sommare Casini e Vendola a Franceschini. Nuova beffa per il Pd: l'anno scorso fu Grillo a rubare la piazza alla sinistra. Stavolta toccherà a Silvio?

Non è ancora chiaro se Silvio Berlusconi parteciperà davvero, per la prima volta, alle manifestazioni per il 25 aprile. Di certo non ha molto da perdere: se va in piazza e tutto fila liscio, mette l'ultimo sigillo alla sua ascesa nei consensi e alla costruzione di un nuovissimo profilo istituzionale. Fosse contestato, potrebbe rivendicare di aver fatto bene a tenersi finora lontano dai festeggiamenti. In ogni caso, dopo il primo 25 aprile berlusconiano la politica italiana non sarà più la stessa.
Per il Popolo della libertà si tratterebbe di una svolta storica, ben oltre il definitivo abbandono del postfascismo da parte degli ex missini. Per tutta la durata della Seconda Repubblica Forza Italia e An si sono tenute a distanza dal 25 aprile col cipiglio di chi conduce insieme una battaglia politica e culturale. Non c'era solo la polemica con la sinistra e sulla «festa di parte» a motivare il boicottaggio, ma anche la volontà di marcare un confine con le screditate forze del vecchio «arco costituzionale», da cui l'Msi era escluso per definizione e contro il quale Berlusconi ha fondato buona parte della mitologia della sua scesa in campo. La partecipazione dei due principali leader del Pdl - Fini, per la prima volta da presidente della Camera, celebrerà la Liberazione insieme al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano - rappresenterebbe per il neonato partito un momento fondativo non meno importante del congresso di tre settimane fa.
Ma a uscirne definitivamente rinnovata sarebbe soprattutto la figura di Berlusconi. A un anno esatto di distanza dalla vittoria alle ultime politiche il premier ha raggiunto in questi giorni - giura più di un sondaggista - picchi di popolarità mai toccati durante la sua carriera politica. Al contempo, l'opposizione non è mai stata tanto lontana dalla possibilità di costruire in tempi medi un'alternativa credibile di programma e di coalizione e le prossime elezioni europee e amministrative potrebbero dimostrarlo una volta di più. Se ne deduce che c'è un pezzo di elettorato che ha smesso di guardare a Berlusconi come a un irriducibile nemico: la faglia che ha sempre diviso l'Italia degli ultimi tre lustri - di qua gli anti-Silvio, di là i fan, in mezzo poco o niente - oggi appare un fossato sempre più ridotto e sempre più scavalcabile. Il clima di unità nazionale che il Cavaliere ha voluto inaugurare e preservare dopo il terremoto dell'Aquila ha portato allo scoperto questo stato di cose. Forse non è ancora un fenomeno definitivo, magari in futuro basterà poco - una legge controversa, una polemica o una esternazione - a riportare tutto allo statu quo ante, fatto sta che al momento il sentimento pubblico verso Berlusconi sta cambiando a vista d'occhio.
Il premier lo sa. Perché è da sempre attentissimo a numeri e tendenze. E perché mai come adesso la sua vocazione antropologica prima che politica - convincere, sedurre, piacere - può finalmente dispiegarsi anche verso il campo degli irriducibili avversari di un tempo. Non per immaginare improbabili travasi di voti sinistrorsi e "antifascisti" verso il Pdl: lo sfondamento non è elettorale, è ideologico. Il new premier
ridisegna la geopolitica nazionale e toglie all'opposizione quei pochi punti di riferimento che le sono rimasti.
Se il 25 aprile certificasse infatti l'evoluzione di un premier che da Caimano si reinventa Padre della nazione - da una parte una carezza alle bare dei terremotati abruzzesi, dall'altra una corona ai partigiani all'altare della Patria - se Berlusconi smettesse l'armatura del guerriero per indossare il saio del pacificatore, dovrebbe necessariamente cambiare anche la valutazione sulla durata e la profondità del suo nuovo ciclo di governo. E, tra le altre conseguenze, verrebbe meno quello che era, e probabilmente resta, l'unico collante di un nuovo possibile centrosinistra: l'antiberlusconismo. Casini e Vendola, ammesso e non concesso che siano interessati, si possono sommare a Franceschini solo così. Altrimenti non c'è verso. Costruire la rivincita, per il Pd, sarebbe ancora più difficile. E per il secondo anno di seguito toccherebbe al 25 aprile diventare l'appuntamento simbolo dello scacco democratico. L'anno scorso, due settimane dopo la scoppola nelle urne, fu Beppe Grillo a rubare la piazza a una frastornatissima sinistra. Un anno dopo toccherà addirittura a Berlusconi?

il Riformista 21.4.09
I miei rubli erano dollari
intervista ad Armando Cossutta di Fabrizio d'Esposito


L'ortodosso Armando Cossutta. Il racconto della drammatica notte a Botteghe Oscure dopo l'invasione sovietica di Praga. Le riunioni con Longo: «Cominciavamo alle 8.30 e lui si infastidiva se qualcuno sfogliava i giornali». La scoperta del traditore interno che poi rivelò la storia delle microspie sparate nelle finestre. La scissione di Rifondazione nel 1991 e il voto al Pd di Veltroni: «Ma ero, sono e resterò comunista».

Compagno Cossutta, i riformisti conquistano Botteghe Oscure.
Tutto poteva essere previsto ma non questo. Ho trascorso ininterrottamente 25 anni a Botteghe Oscure e non avrei mai immaginato che finisse così. Per questo provo un'invidia tremenda per voi e il vostro direttore Antonio Polito, ho una grande e profonda nostalgia per quel palazzo.
Seduto nel suo ufficio al comitato nazionale dell'Anpi, l'Associazione nazionale dei partigiani, Armando Cossutta divide il suo quarto di secolo passato alla direzione del Pci in via della Botteghe Oscure in due fasi. Una «totalmente interna», l'altra «esterna». La prima va dal 1966 al 1975 ed è quella che vede Cossutta depositario di un potere enorme: coordinatore della segreteria, sovraintendente alle finanze, capo della vigilanza (la sicurezza) e custode dei rapporti con il Pcus, il Partito Padre di Mosca. Enrico Berlinguer disse: «Il compagno Cossutta ha assommato un grande potere del quale, peraltro, non ha mai abusato». Nel 1975, Cossutta passò dal secondo piano della segreteria al terzo, per occuparsi di enti locali. Ebbe fortuna: quell'anno il Pci fece la storica avanzata alle elezioni amministrative.
Cossutta rimase al terzo piano fino al 1991, l'anno della dolorosa scissione di Rifondazione comunista. Ma il racconto dei suoi anni a Botteghe Oscure è soprattutto il racconto della notte più drammatica che Cossutta ha vissuto in questo palazzo: quella tra il 20 e il 21 agosto del 1968. Ore convulse in cui fu lui, il comunista ortodosso per antonomasia, l'uomo dello strappo da Berlinguer quando questi dichiarò esaurita la spinta propulsiva della rivoluzione d'Ottobre dopo i fatti di Polonia, fu lui, dicevamo, a comunicare all'ambasciatore sovietico in Italia il dissenso del Pci sull'invasione di Praga.
Era il 20 agosto e lei era a Botteghe Oscure.
La grande tradizione del Pci prevedeva che qualcuno rimanesse alla direzione anche nei giorni di Ferragosto. Quell'anno ero di turno io e nel pomeriggio stavo presiedendo una riunione coi cineasti comunisti sulla mostra di Venezia. Ricordo che toccava a Luciano Gruppi tirare le conclusioni. Erano le diciotto quando entrò la mia brava segretaria Carla Perozzi che mi disse: «C'è Enrico Smirnov».
Che lavorava all'ambasciata sovietica.
Esatto. Era il primo segretario dell'ambasciata sovietica in Italia. Parlava la nostra lingua perfettamente. Alla mia segretaria risposi: «Digli se può aspettare». Lei mi ribadì che era urgente. Chiesi scusa ai compagni cineasti e uscii. Smirnov mi riferì che l'ambasciatore Nikita Rijov doveva farmi una comunicazione assolutamente riservata. Smirnov non volle anticiparmi nulla e io, sinceramente, credevo che fosse una cattiva notizia sulla salute del segretario Longo, in vacanza in Unione Sovietica.
Non pensò al compagno Dubcek?
No. Anche perché negli ultimi tempi c'era stata una schiarita nei rapporti tra Mosca e Praga. Eravamo convinti che si arrivasse a un accordo. Per questo, malgrado la situazione, erano quasi tutti partiti per le ferie. Pecchioli e Pajetta anche loro in Unione Sovietica, Berlinguer in Romania, Amendola in Bulgaria.
Invece?
Andai in auto con Smirnov e continuai a insistere sulla misteriosa comunicazione. Lui era un uomo freddo, gelido ma un certo punto cominciarono a scendergli delle grosse lacrime. Non disse nulla però. In via Gaeta, dov'era la loro ambasciata, vidi tutto illuminato. Entrai e Rijov mi fece la comunicazione: «Su invito del governo e del Partito comunista della Cecoslovacchia le truppe del Patto di Varsavia sono entrate in Cecoslovacchia». E aggiunse: «Mi raccomando la riservatezza, lei è il primo a saperlo nel mondo». Lo ringraziai e gli dissi: «Lei sa che la nostra posizione è contraria». Poi andai di corsa a Botteghe Oscure, declinando l'invito di Rijov a prendere un tè.
Che ore erano?
Le sette di sera. A Botteghe Oscure convocai per le ventuno tutti i compagni della direzione che erano rimasti in Italia. Fissai la riunione alla redazione dell'Unità in via dei Taurini, allora diretta da Maurizio Caprara, per avere altre notizie. Ma conferme non ne arrivarono. Il primo titolo fu: «Intervento a Praga?». Tornai a casa, feci una doccia e a mezzanotte mi telefonarono dall'Unità: «Compagno l'intervento c'è stato».
Lei tornò a uscire?
Sì, a mezzanotte. Stavolta ci riunimmo a Botteghe Oscure. Ingrao e Napolitano furono incaricati di scrivere il commento di condanna. Era l'alba quando lo lessi per telefono a Longo, che mi disse: «Il dissenso non basta, aggiungete la riprovazione».
Una notte infinita.
Si fece mattina e io continuai a lavorare. In genere, con Longo la segreteria si riuniva tutti i giorni meno il lunedì e il sabato. Si iniziava alle otto e mezzo. Io preparavo l'ordine del giorno e Longo mi faceva sempre mettere al primo punto una questione che potesse interessare tutti.
Perché?
Per la puntualità. Erano tutti personaggi coi coglioni e Longo conosceva le loro abitudini. C'era anche la regola dei giornali, in riunione nessuno poteva sfogliarli. Longo si infastidiva, bisognava averli letti prima. Fu lui poi a introdurre per la prima volta nell'Ufficio politico il voto segreto. Accadde alla fine degli anni sessanta, bisognava decidere su uno sciopero generale per le pensioni. Lui prese il suo cappello di paglia e lo usò come urna.
Veniamo ai soldi: lei era il sovraintendente alle finanze.
Un ruolo che era stato già di Pietro Secchia e dello stesso Longo. Io trattavo ogni anno con Mosca l'entità del contributo ma i soldi erano prelevati materialmente dall'amministratore Barontini, un amico fraterno. Erano dollari che poi venivano cambiati in lire nella Città del Vaticano. Era lo stesso cambiavalute che usava la Dc coi finanziamenti americani. Ricordo che in quegli anni coi soldi sovietici aiutavamo i comunisti dell'America latina, della Spagna e soprattatutto della Grecia.
Il Pci aveva l'incubo dei colonnelli.
Longo mi disse di accumulare riserve per sopravvivere due anni. La strategia della tensione alimentò fortemente il timore di una situazione non controllabile. Consegnavo i soldi a compagni fidati. Metterli in banca non dava sicurezze in caso di golpe.
Poi venivate spiati.
Cossiga vi ha detto che i servizi italiani sparavano microspie nelle nostre finestre dal negozio di tessuti che era di fronte. Verissimo. Fui io a scoprire la spia interna che ci riferì queste cose. Era un compagno. Lo aveva fatto per soldi. Si chiamava Mario Stendardi.
Nel 1975 è salito al terzo piano, agli enti locali.
Un anno glorioso, un elenco impressionante di città conquistate.
Ci è rimasto fino al 1991, al terzo piano.
Il mio ultimo giorno è stato silenzioso. Ebbi un colloquio con Occhetto e andai via. Ero triste e depresso. La storia del Pci poteva essere diversa, il suo crollo improvviso ha bisogno ancora di riflessioni profonde. In Italia ci sono milioni di comunisti che non si sentono più rappresentati. C'è da spararsi con questa povera sinistra italiana.
Chi ha votato alle ultime elezioni?
Il Pd di Veltroni.
Cossutta non è più comunista?
Al contrario: ero, sono e resterò un comunista.

il Riformista 21.4.09
La posta in gioco con i talebani. Il corpo delle donne
di Ritanna Armeni


La legge era stata fatta per ottenere alle prossime elezioni presidenziali il voto degli sciiti ed era stata ben accolta anche dai talebani. Se vuol essere rieletto il presidente afghano non può non cedere alle loro richieste e accettare le loro violenze e le loro prevaricazioni.
La cronaca è ormai piena di donne uccise perché hanno tentato di ribellarsi al dominio maschile e familiare o perché volevano andare a scuola.
Ed è solo di ieri la notizia che i talebani hanno ammazzato in Pakistan, al confine con l'Afghanistan, un uomo e una donna colpevoli di avere una relazione fuori dal matrimonio. E poi hanno mandato il video a una televisione.
Ma non sono i singoli, seppur frequenti, episodi a destare la maggiore preoccupazione. Questi potrebbero essere i colpi di coda di forze che si stanno arrendendo alla democrazia o la reazione di piccoli gruppi che non vogliono accettare le nuove regole. Quello che davvero preoccupa è la evidente ripresa delle forze fondamentaliste e le conseguenti decisioni dei capi di Stato. Quella di Karzai, appunto, ma anche quella, recente, del presidente del Pakistan. Azif Ali Zardari, marito di Benazir Bhutto (prima donna premier di un Paese islamico) e successore di quel Musharaf accusato di aver mostrato un atteggiamento ambiguo nei confronti dei talebani pur mostrandosi amico degli Usa, ha promulgato un regolamento che reintroduce la sharia nella parte nord ovest del Pakistan. Asianews, uno dei pochi siti che informano in dettaglio sull'avvenimento, raccontava già un mese fa che la legge islamica era stata ripristinata nelle regioni che confinano con l'Afghanistan e che le corti islamiche avevano preso in mano l'amministrazione della giustizia nella Swat Valley. «Con l'entrata in vigore della sharia nel distretto di Malakand - scriveva Asianews - le donne non possono più muoversi da sole, parlare in pubblico e il velo diventa obbligatorio. Le scuole femminili, per lo più legate ai missionari, ma frequentate al 95 per cento da ragazze musulmane, rischiano la chiusura definitiva dopo gli attentati esplosivi negli ultimi mesi che, pur non causando vittime, hanno reso impossibile a circa mille studentesse di frequentare le lezioni». Il governo pakistano, insomma, ha preso atto e ha approvato una situazione che era già in mano ai fondamentalisti promulgando un regolamento che accetta lo stato di fatto. In cambio questi hanno promesso di deporre le armi. Probabilmente non sarà vero. La legge islamica invece - ha informato Asianews - c'è già. E - ricordiamolo - la legge islamica, secondo i fondamentalisti, significa che le donne saranno costrette al matrimonio anche se ancora bambine, alla pena di morte o al carcere se vengono stuprate, alla lapidazione se hanno rapporti fuori dal matrimonio.
Per due volte in pochi giorni le donne sono state oggetto di uno scambio politico. Per due volte due uomini, capi di Stato, hanno barattato voti e accordi in cambio di controllo e violenza da parte degli uomini sul corpo femminile. E questo porta a tre (amare) considerazioni.
La prima. Il corpo delle donne è la vera posta in gioco nella lotta contro i talebani, gli sciiti e il fondamentalismo. Adriano Sofri, già alcuni anni fa, aveva notato come questo, e non il petrolio, fosse il centro dello scontro fra l'islam e l'occidente. Gli islamici, gli islamici poveri e senza potere, aveva scritto, quelli che non avevano da perdere che le loro catene, potevano però - se avesse vinto l'occidente infedele - perdere le loro donne, la loro proprietà, l'unica di cui potevano disporre. E questo li rendeva particolarmente efferati e subalterni al terrorismo. Oggi proprio per rassicurarli e per combattere il terrorismo - questo l'orribile paradosso al quale stiamo assistendo con indifferenza - non si ha alcun dubbio a consegnare loro il dominio sulle donne. E a confermare che su di loro gli uomini mantengono il diritto di vita e di morte.
La seconda. I talebani, e con loro le forze tribali di quell'area del mondo che ha un rapporto conflittuale con l'occidente, hanno guadagnato terreno. Anzi stanno vincendo. La guerra in Afghanistan è stata persa sul piano militare e, prima ancora, sul piano della democrazia e dei diritti. Non se ne vuole prendere atto, ma che cosa significano le due leggi promulgate dal presidente pakistano e da quello afgano se non la presa d'atto che la guerra, la guerra delle armi è stata persa? È per questo che si accetta esattamente ciò per cui quella guerra era stata combattuta e a cui la lotta per la democrazia dovrebbe tenacemente opporsi: la schiavitù della popolazione femminile.
La terza. Di fronte all'evidente orribile scambio che avviene in quei Paesi alleati i Paesi occidentali protestano, ma in modo assai poco convinto. Naturalmente condannano la decisione di Zarcari, criticano Karzai ma in fin dei conti non ritengono di poter fare molto. Sembrano pensarla al fondo come Spencer P. Boyer, capo dello staff del presidente Clinton e oggi direttore della sezione diplomazia del Center for American progress, il pensatoio democratico americano che, in una intervista al Riformista sulla reintroduzione della sharia in Afghanistan ha risposto: «Nessun Paese è perfetto».
La condizione di totale subordinazione e schiavitù delle donne di quei Paesi è considerata da un esponente della democrazia occidentale solo "un'imperfezione", qualcosa di non perfettamente giusto, ma non di talmente insopportabile da mettere in discussione le scelte politiche e militari finora compiute. E questo certamente non aiuta le donne di quei Paesi e manda un inquietante messaggio anche alle donne dell'occidente che dice di essere democratico.

Liberazione 21.4.09
Lectio magistralis di Agnes Heller
La filosofia è un genere destinato a scomparire?
di Agnes Heller


Stralcio in anticipazione della Lectio magistralis che la filosofa terrà oggi pomeriggio a Roma in occasione dei suoi 80 anni. L'iniziativa è organizzata da Francesca Brezzi, docente di filosofia morale all'università di Roma Tre (oggi alle 15,30 e domani alle 9,30 alla Sala Igea di Palazzo Mattei, piazza dell'Enciclopedia italiana 4)

Una volta nella sua famosa Tesi 11 su Feuerbach, Marx scrisse, che fino ad ora i filosofi hanno solo interpretato il mondo, ora sta a noi cambiarlo. La prima parte della tesi descrive esattamente - a mio parere - la specificità della filosofia come genere letterario. Davvero la filosofia, almeno la filosofia tradizionale, considera l'interpretazione-mondo come sua propria missione. Per meglio dire, i filosofi hanno sempre aspirato ad interpretare il mondo. La filosofia assomiglia in un aspetto a tutti gli altri generi letterari. Una volta che esiste, che è, una volta che viene incorporata almeno in alcune opere di filosofia, tutti coloro che hanno aspirazioni filosofiche hanno bisogno di intraprendere lo stesso tipo di descrizione del mondo, anche se due filosofi non lo faranno nella stessa maniera [...].
Inoltre si potrebbe obiettare che la filosofia non interpreta il mondo ma lo spiega, dato che la specificità del genere filosofico è la dimostrazione, l'argomentazione. I filosofi analitici e non solo loro indicano l'argomentazione come differentia specifica della filosofia. Ovviamente, loro sanno anche che, non solamente i filosofi utilizzano l'argomentazione ma fanno così anche gli attori di un dramma ed anche tutti noi nella nostra vita quotidiana. Perciò essi precisano, che un argomento convincente è l'essenza della filosofia. Ma, convincente per chi? Un argomento che è convincente per un Platonista non è convincente per un Aristotelico. Definire la caratteristica di un genere filosofico facendo notare l'argomento convincente non è errato e fuorviante solo per la ragione che se un argomento è convincente o non convincente dipende dal destinatario dell'argomento, ma anche per un motivo più profondo. Vale a dire si presuppone che una filosofia possa essere falsificata tramite buoni argomenti. Si potrebbe dire, che forse ciò può accadere, ma questo effettivamente danneggia una filosofia - Ha forse danneggiato Platone che Aristotele utilizzando buoni argomenti ne abbia provato l'errore, o ha danneggiato Spinoza che Leibniz abbia provato il suo errore, o Leibniz che Kant l'abbia rifiutato o Kant che Hegel abbia dimostrato la sua infondatezza, tutti loro utilizzando buoni argomenti? [...]
Ripeto che tutte le filosofie hanno il loro proprio mondo. Con Hegel, comunque, l'organizzazione spaziale del mondo del filosofo, quello gerarchico (che sale le scale dal basso verso l'alto) dove non c'è posto per il tempo, si è fermato o è giunto al termine (Agostino era una grande eccezione, dato che fu lui che mise insieme la metafisica tradizionale con il Libro della Creazione della Bibbia). La costruzione spaziale era richiesta dall'ambizione a presentare l'Eterno come incarnato nel mondo filosofico. Quando Hegel trasformò la metafisica da costruzione spaziale in costruzione temporale, aprì completamente la strada alla distruzione della metafisica. Questo è il significato dello slogan "la fine della filosofia". Quando Marx o Kierkegaard parlavano della filosofia stavano pensando ad Hegel. La cosiddetta decomposizione della filosofia hegeliana risultò essere il primo stadio della distruzione della metafisica. Quindi l'interpretazione in prosa del mondo è la caratteristica generale delle filosofie. Ma all'interno di questa cornice generale sono possibili molte cose. Sebbene dopo Aristotele i dialoghi abbiano smesso di giocare un ruolo considerevole, da Bruno a Leibniz ci sono ancora opere filosofiche scritte in dialoghi. All'interno del genere c'è anche il sottogenere di aforisma, c'è, più che mai, la filosofia narrativa, e, ovviamente, ci sono anche lavori filosofici che si concentrano su argomenti e sulla risoluzione di un problema. I limiti del genere sono elastici, ma esistono. Per rimanere nell'ambito dello scopo dei generi letterari. Una novella non è un lavoro di filosofia, non è nemmeno un dramma. Neanche se il lettore trova in essi l'espressione delle più sagge idee filosofiche. Ed un opera di filosofia non è un poema o una novella, perché è scritta perfettamente. Ma perché no? Uno senza dubbio potrebbe dire, che anche una novella è una descrizione del mondo o un'interpretazione del mondo? Tuttavia, la filosofia, come speciale genere di descrizione del mondo, interpretazione del mondo, ha le sue proprie persone e la sua propria grammatica. Tradizionalmente, chiamiamo queste persone "categorie". Heidegger le chiamò parole base [...].
Tutte le parole base possono essere nuove. Ma ci sono due parole base di cui nessuna filosofia può sbarazzarsi tranne che con l'autoinganno. Queste due parole sono Essere e Verità. Esse non possono essere superate, rifiutate, o sostituite, anche se alcuni filosofi credono di essere riusciti (qualora questo possa venir chiamato successo) a superarle. [...]Se le domande concernenti l'Essere e la Verità scompaiono una volta per tutte, senza ombra di dubbio la filosofia giungerà al suo fine.
traduzione di Ester Monteleone

lunedì 20 aprile 2009

l’Unità 20.4.09
Pettino, qui le case appena costruite si sono piegate su se stesse
di Claudia Fusani


L’inchiesta entra nella fase più delicata: oggi interrogati i tecnici e i responsabili della Casa dello studente e dell’ospedale

Via Dante Alighieri, una stradina tra prati e abeti, case di edilizia popolare e palazzine raffinate, località Pettino, frazione dell’Aquila. Il civico 2, ad esempio: costruito nel 1984, il terremoto gli ha portato via di netto il piano garage, i due piani soprastanti si sono appoggiati a terra due metri e mezzo più sotto, i pilastri portanti sono spezzati di netto con i ferri che ciondolano come spaghetti stracotti. Il civico 3, stessa strada, stessa storia: questa volta però sono tre i piani appoggiati a terra schiacciando i garage come una sottiletta. Un salto a Roio, altra frazione del capoluogo, dove alla fine degli anni 80 è nata la Facoltà di ingegneria: anche qui piloni di cemento crepati, spanciati e crollati, interi piani sbriciolati come se al posto delle travi armate ci fossero stuzzicadenti.
Dopo i crolli mortali nel centro storico dell’Aquila, bisogna venire anche in queste due frazioni per capire cosa intende il Presidente della Repubblica Napolitano quando denuncia «il disprezzo delle regole» come concausa delle 295 vittime del sisma. E qui dovrebbe venire anche il premier Berlusconi durante una delle sue visite nel capoluogo per rendersi conto che crolli e cedimenti riguardano, soprattutto case di cemento armato. «La mia casa – racconta il signor Natrella, sopravvissuto con moglie e figli al collasso della palazzina in via Dante Alighieri 2 – è stata costruita nel 1984 da un costruttore che poi ha cessato l’attività. L’ho acquistata cinque anni fa, ho un mutuo di 750 euro al mese e la notte del terremoto con mia moglie e i miei due figli ci siamo salvati scendendo dal balcone. In venti secondi era crollato tutto, non c’erano più le pareti né la scale». Con le altre sei famiglie che vivevano nella palazzina, tutti miracolosamente illesi, stanno preparando l’esposto.
Pettino è la frazione dell’Aquila dove più si è costruito negli ultimi anni. Ventimila alloggi di cui molti ancora oggi invenduti. È un viaggio surreale quello lungo le stradine che hanno nomi di poeti e scrittori. «Sallustio immobiliare vende con finiture di qualità» è scritto sul cartello. La finiture di qualità sono sbriciolate a terra, interni casa esposti agli occhi di tutti, intere pareti venute giù come giocattoli, fette di palazzi crepate e spezzate dalle lesioni su pilastri che sembrano portanti. «L’Aquila urbe vendesi appartamenti di pregio di varia pezzatura» annuncia un altro cartello in via Gozzano.
Alzi gli occhi e vedi palazzi alti sei, sette piani che sembrano spaventapasseri, solo una vaga idea delle case che furono. O che dovevano essere. Il via libera per costruire qui arrivò con il piano regolatore del 1975, l’ultimo che ha avuto questa città. I geologi avvisarono che qua sotto erano in movimento ben due faglie, quella di Monte Pettino e l’altra chiamata “antitetica”, e che il terreno era inidoneo a piani di edilizia popolare. Un suggerimento rimasto su carta. Quelle perizie adesso sono state tutte acquisite dalla Procura della Repubblica.
«Basta riempire i giornali con le inchieste, pensiamo a ricostruire» ha suggerito Berlusconi. «L’inchiesta deve andare fino in fondo» scandisce bene le parole Maurizio Cora. Fosse l’ultima cosa che fa, lui quest’inchiesta la pretende. Abitava al quinto piano di via XX Settembre 79 e quella notte in un attimo, nel sonno, si è ritrovato nei garage, cinque piani più sotto. Ha perso tutto, la moglie Patrizia, le figlie Alessandra e Antonella. Ma non ha perso lucidità, in questi casi il più forte alibi per la mente. «Il mio palazzo, costruito nel 1965, non ha mai avuto problemi» racconta. «È collassato come una pera perché negli ultimi cinque anni hanno lavorato accanto e hanno scavato cinque metri di garage sotto in nostri piedi. Il nostro palazzo tremava, sembrava un terremoto, noi lo abbiamo denunciato… soprattutto mia moglie». Ci sono morte dieci persone sotto quelle macerie. «I reati sono commissivi e omissivi e c’è il concorso di colpa - attacca Cora - chi ha, per esempio, declassato L’Aquila a rischio sismico di fascia 2, non il più alto?».
Una domanda che pesa come un macigno. Nel 2003 l’allora governo Berlusconi classifica il capoluogo nella fascia 2 e affida alla Regione (giunta Pace, centrodestra) il compito di valutare. Resta tutto uguale. Con sollievo dei costruttori assai meno vincolati a norme e limiti. Lobby potente quella del mattone all’Aquila: 1.500 ditte nella sola provincia che conta 300 mila abitanti. «Il problema è che nel nostro settore chiunque può fare impresa senza averne i requisiti» attacca Ettore Barattelli, numero 2 dell’Ance e rampollo di una notissima famiglia di costruttori aquilani. «È nostro interesse che le inchieste trovino i colpevoli perché di sicuro qualche anello della filiera, dal geometra all'ingegnere, dal costruttore al direttore dei lavori, ha sbagliato e deve pagare». Oggi squadra mobile e carabinieri riprendono gli interrogatori. Con i tecnici della Casa dello studente e dell’ospedale S.Salvatore.

Repubblica 20.4.09
Malati di timidezza ecco come si guarisce dalla paura di arrossire
Si chiama eritrofobia e oggi colpisce una persona su dieci creando problemi nelle relazioni sociali. Un cardiologo francese ha appena scritto un libro di consigli: niente fondotinta, meglio l’autostima
di Anais Ginori


Anche in Italia ci sono gruppi sul Web che si scambiano suggerimenti

«Non arrossire quando ti guardo, ma ferma il tuo cuore che trema per me» cantava il giovane Giorgio Gaber negli anni Sessanta. Le gote rosa di fanciulle pudiche o di donne che, timidamente, abbassano lo sguardo sono spesso considerate un segno di bellezza durante gli incontri romantici. Una piccola fragilità emotiva che diventa più affascinante quando è ben visibile. Ma non sempre è così. Non per tutti, almeno. Quando le «vampate» cominciano a ripetersi con troppa frequenza, nella vita di tutti i giorni, in situazioni di lavoro e familiari, può diventare allora un problema. In medicina la chiamano «eritrofobia». Un nome complicato per definire chi ha paura di arrossire. «Una persona su dieci ne soffre» è la stima empirica fornita da Frédéric Saldmann, rinomato cardiologo che all´eritrofobia ha appena dedicato un libro intitolato «Petites hontes», piccole vergogne.
Un fenomeno psicofisico antico come l´umanità. Pare che in origine fosse un modo del corpo per mandare un messaggio di interesse tra uomini e donne. Ora si è trasformato in qualcosa di molto più complesso e quasi impossibile da curare. Spiega Saldmann: «E´ un disordine mentale che crea un´iperattività del sistema nervoso simpatico», la parte del cervello che controlla le nostre reazioni in situazioni di pericolo ed emergenza. I vasi sanguinei si dilatano e il sangue affluisce maggiormente sul viso e sul busto.
Spesso aumenta anche il battito cardiaco (ad essere sinceri lo dicevano già Gaber e prima di lui poeti e scrittori) e la sudorazione delle mani, mentre si ferma la salivazione. Molti «eritrofobici» smettono di andare in ufficio, restano rintanati in casa e cadono in una profonda depressione, così dice Saldmann.
Le origini di questo malessere sono abbastanza misteriose. Gli esperti, che in Francia si riuniscono ogni anno per studiare il fenomeno (la prossima conferenza sarà l´11 luglio a Parigi), sostengono che appare durante l´adolescenza, a volte come conseguenza di un trauma psicologico grave. La tendenza ad arrossire facilmente, affermano ancora gli specialisti, quasi sempre si eredita, ma può anche aggravarsi. Su internet sono in decisa crescita i gruppi, anche in Italia, che si scambiano consigli e testimonianze. Alcuni suggerimenti sfociano nel surreale. Il sito «ereutophobie. fr» propone di usare un fondotinta con pigmenti leggermente verdi per neutralizzare l´effetto rosso. È stato messo in vendita da una ditta giapponese proprio per gli «eritrofobici».
Rimedi che possono far sorridere. Ma per questa strana malattia, solo all´apparenza banale, è complicato trovare cure. Nei casi più gravi vengono prescritti farmaci anti-depressivi. Alcuni «eritrofobici», racconta Saldmann, sono anche stati operati, recidendo nervi collegati al sistema nervoso simpatico e collegati al viso. Scenari terrorizzanti, altro che il romantico Gaber. In realtà è la consapevolezza del problema che crea un meccanismo alla lunga paralizzante. Il miglior modo per guarire sarebbe quindi smettere di aver paura di questa momentanea debolezza.
«L´unica terapia è un lavoro su se stessi» conclude con saggezza il medico autore del libro. Anche prima che arrivassero i guru dell´eritrofobia, lo dicevano già le nostre nonne. Liberi quindi di arrossire ogni tanto, senza far tremare il cuore.

Repubblica 20.4.09
Muti: le mie lezioni-concerto per portare la musica a tutti
di Riccardo Muti


Diffondere la musica. Parlarne. Spiegare scelte interpretative. Far comprendere in che cosa consiste il lavoro "misterioso", e troppo spesso mitizzato, del direttore d´orchestra. Sottolineare un passaggio e "smontarlo" davanti al pubblico, mostrando gli interventi dei singoli strumenti e l´esito del loro amalgamarsi. Permettere agli spettatori di assistere alle prove di un direttore con la sua orchestra: di entrare nella "bottega" del fare musica. Coinvolgerli nella concreta preparazione di un concerto o di un´opera. Avvicinarli alle grandi composizioni musicali al di là di qualsiasi linguaggio specialistico.
Perché la musica è di tutti per tutti, vitale e necessaria: unisce, ispira, conforta, educa, armonizza. Interroga costantemente l´essere umano, facendolo viaggiare nel profondo di se stesso. Porta i giovani a costruire un´etica e un senso del gruppo. Insegna la fondamentale disciplina dello stare insieme. Guida gli individui di ogni latitudine del pianeta, e di ogni credo politico e religioso, verso l´intesa e il perdono.
Rendere la musica sempre più accessibile e familiare. Segnalare il suo valore centrale e irrinunciabile nella nostra esistenza. È questo l´obiettivo delle mie "Lezioni-Concerto" che "Repubblica" e "L´espresso" propongono da oggi in otto dvd, con accluso il cd dell´esecuzione integrale dell´opera. Si tratta di registrazioni di prove aperte realizzate con alcune orchestre e in particolare con la Giovanile Cherubini, orchestra di formazione, completamente italiana, che ho fondato nel 2004. Trovo particolarmente significativo che i dvd di queste mie prove, grazie all´editoriale "La Repubblica-L´espresso", vengano ora distribuiti in edicola, rivolgendosi a un pubblico ampio e variegato, fuori da circuiti elitari. Le "Lezioni-Concerto" sono una formula originale di "racconto" della musica che ho sperimentato e adottato a Ravenna e altrove con esiti sempre soddisfacenti, essendosi rivelata tanto istruttiva quanto coinvolgente per il pubblico, il quale ha la possibilità di confrontarsi per la prima volta col "cantiere" vivo dell´orchestra e col mestiere della musica osservandolo dall´interno. È anche un modo di trasmettere agli altri il prezioso bagaglio di incontri che ho accumulato lungo un cinquantennio di intensa attività internazionale. Mi sembra importante comunicare quanto ho appreso dalle massime orchestre del mondo, compagini di superba tradizione come i Wiener Philharmoniker, a cui mi legano 38 anni di sodalizio senza interruzioni, o come la Philadelphia Orchestra, di cui sono stato direttore musicale per tanti anni; o da figure leggendarie come il pianista Richter, il violinista Francescatti e il violoncellista Rostropovich, o come mitici cantanti quali Richard Tucker, tenore dell´"Aida" discografica di Toscanini, e il basso Cesare Siepi, famoso Don Giovanni nell´edizione di Salisburgo diretta da Furtwängler; o ancora dai maestri italiani ai quali devo la mia formazione, sommi musicisti quali Antonino Votto e Vincenzo Vitale.
Divulgare questo patrimonio è un fatto etico, oltre che sociale e di necessità musicale. Perché è essenziale adoperarsi per restituire alla musica la sua funzione di riferimento culturale e spirituale tra i più imprescindibili della nostra vita. Anche, e forse più che mai, in questi tempi di crisi durante i quali la cultura, più di altri territori, si trova a pagare lo scotto delle difficoltà.

Corriere della Sera 20.4.09
Stadi contro Balotelli Moratti: "A Torino avrei ritirato l´Inter"
di Gianni Piva


Cobolli: "Inaccettabile" Indagini della Digos
Gli insulti e i cori sono diventati un caso nazionale Sabato sera l´ultimo episodio Il presidente chiede le scuse per il giocatore e svela un retroscena
"Ho sperato nell´arbitro..." L´Olimpico rischia la squalifica o le curve chiuse

MILANO. «Una cosa terribile. Fossi stato a Torino sarei sceso in campo e avrei ritirato la squadra». Duro, incapace di trattenere lo sdegno, Massimo Moratti si ribella all´idea di una serata di calcio segnata pesantemente dal razzismo. I cori che si sono sentiti sabato notte all´Olimpico di Torino, un autentico linciaggio razzista nei confronti di Mario Balotelli, un ragazzo italiano di 18 anni colpevole di essere un avversario con la pelle nera, hanno superato ogni limite e il presidente dell´Inter lo ha detto con franchezza. Inorridito soprattutto dalla mancanza di reazioni adeguate non solo a gara finita, da parte dei protagonisti, ma anche nella telecronaca e durante i commenti televisivi alla partita. «Non è una questione di sdegno, quello a cui ho assistito è inaudito. Sono arrabbiato e sto a fianco di Mario. Era chiarissimo, i cori non partivano da un singolo settore, davanti alla televisione minuto dopo minuto mi aspettavo che l´arbitro facesse qualcosa. La cosa terribile era il coinvolgimento di tutto lo stadio, una cosa fatta con l´orgoglio di farlo, contro Mario».
Quello di Moratti è un grido di rabbia e di denuncia («E´ come se ci fossimo abituati al razzismo») che non vuole essere solo una presa di posizione personale, per manifestare solidarietà e pieno appoggio al suo giovane giocatore: «Mi pare che in quel contesto sia stato civilissimo anche se sono state sottolineate alcune sue reazioni». Il presidente si rivolge ai vertici del calcio italiano: «Mi aspetto le scuse della Federazione e della Juventus. Non all´Inter o al suo presidente, ma direttamente al ragazzo, a Balotelli. Ripeto, che nessuno abbia sentito la necessità di avvicinarlo a gara finita, chiedere scusa, mettersi al suo fianco, è inconcepibile».
Così Balotelli è diventato un caso nazionale. Né le intemperanze in campo del giovane attaccante, possono giustificare un simile atteggiamento vergognoso da parte del pubblico degli stadi: i "buuu" verso di lui sono consuetudine. Che va stroncata. Sabato sera all´Olimpico si è passati dai «negro di m...» al «non ci sono neri italiani», fino al violento «se saltelli muore Balotelli», slogan che si ritrovano in numerosi siti internet che osteggiano la sua convocazione in nazionale.
Ora tocca alle istituzioni calcistiche fare i conti con la brutta notte di Torino. Oggi la Procura federale, esaminati referti e relazioni degli ispettori, farà il suo rapporto: il ventaglio delle sanzioni possibili prevede punizioni anche pesanti partendo da multe da 20 a 50mila euro, dalla chiusura di alcuni settori, allo svolgimento di una o più gare a porte chiuse, fino alla squalifica del campo o alla sconfitta a tavolino. Non è invece previsto che l´arbitro intervenga in caso di cori e arrivi a interrompere la gara. Solo in caso di striscioni e cartelli razzisti, su richiesta dei responsabili dell´ordine pubblico al quarto uomo, può essere decisa una interruzione per rimuovere le scritte, arrivando alla sospensione della gara se quei messaggi restano visibili all´interno dello stadio.

Terra 19.4.09
Il progresso della scienza chiede politiche più moderne
Corbellini: «Mai in Italia si è assistito a un attacco di tale portata allo statuto epistemologico e morale della ricerca. Dietro c'è un pregiudizio religioso
di Simona Maggiorelli


Per dirla con un celebre lavoto di Thomas Kuhn sulle rivoluzioni scientifiche, quello che si configura in questo inizio di nuovo millennio è un vero e proprio salto di paradigma. E questo grazie alla ricerca genetica e ai nuovi orizzonti della medicina rigenerativa che in poche decine di anni potrebbero schiudere orizzonti insperati di terapia. Ma anche grazie agli importanti progressi che ha compiuto la psichiatria dagli anni 70 a oggi, permettendo una nuova e più profonda conoscenza della realtà umana.
I passi avanti che la medicina sta facendo nei più diversi ambiti impongono alla società e alla politica riflessioni nuove sulle questioni cosiddette (con imprecisa espressione) "eticamente sensibili". Di fatto questioni che riguardano il nascere e il morire, ma anche il diritto di ciascuno di noi a scegliere liberamente per la propria vita, nel rispetto di se stessi e degli altri.
In questo qaadro anche la morte ormai - come ha scritto il neurologo Carlo Alberto Defanti nel libro Soglie. Medicina e fine vita (Bollati Boringhieri) - è divenuta un fatto culturale, non solo perché perlopiù preceduta da una diagnosi e da un tentativo di cura. Ma anche perché lo sviluppo della trapiantistica e delle tecniche rianimative hanno imposto dagli anni '60 a oggi un ripensamento della morte, prima intesa rozzamente come cessazione del battito cardiaco, poi come morte cerebrale e oggi come morte corticale quando, come nel caso specifico di Eluana Englaro, una persona si trovi, dopo un grave incidente e per esiti infausti di protocolli rianimativi, in uno stato vegetativo persistente, senza più percezioni, né immagini, senza affetti e pensieri, né alcuna possibilità di relazionarsi con gli altri. Purtroppo Eluana «è morta a 21 anni in un incidente dauto»,come ha detto e ripetuto più volte il neurologo che l'ha seguita da allora. Ma, come è ben noto, ci sono voluti 17 anni di battaglie nelle aule di tribunale perché venisse riconosciuta la volontà della ragazza, espressa quando era ancora cosciente, di non essere obbligata a una vita meramerite biologica attaccata alle macchine.
E mentre coraggiosamente il padre di Eluana, Beppino Englaro, ha saputo trasformare quella tragedia in una battaglia per la conquista di diritti di tutti, qualche settimana fa una coppia portatrice di una grave malattia genetica,grazie in primis a una sentenza del Tribunale di Firenze, è riuscita a riportare davanti alla Consulta la legge 40/2004, ora dichiarata parzialmente incostituzionaIe.
Ma che Paese è, viene da chiedersi, quello in cui il cittadino debba ricorrere al giudice per veder riconosciuto il proprio diritto alla salute e il rispetto della propria dignità umana, garantiti dalla Carta? E che Stato è quello che violando il rapporto medico-paziente proibisce la fecondazione eterologa come fa la legge 40 oppure impone idratazione e alimentazione artificiale al paziente, quale che sia, come vuole il ddl Calabrò sul biotestamento? Questioni importanti, urgenti, che toccano direttamentela vita dei cittadini e alle quali un giurista come Stefano Rodotà nel suo pamphlet Perché laico (Laterza) dà risposte preoccupate e forti. «Quella che si profila in Italia è una deriva da Stato etico» chiosa Rodotà, che avverte: «È in atto un attacco strisciante alla Costituzione da parte di questo governo di centrodestra che non rispetta sentenze passate in giudicato (come nel caso di Eluana, ndr) e impone norme come quella sul biotestamento, che nega i diritti fondamentali del cittadino e quella laicità in cui una sentenza del 1989 ha riconosciuto il principio supremo della nostra Costituzione».
Di questa grave crisi politica che il Paese sta attraversando e in cui Rodotà vede anche i segni di una «forte, drammatica, regressione culturale» il professore parlerà alla Biennale democrazia (www.biennaledemocrazia.it): l'iniziativa ideata da Gustavo Zagrebelskyche dal 22 al 26 aprile riunisce a Torino la migliore intellighenzia nazionale, dal filosofo Giacomo Matramao alla studiosa di diritto Eva Cantarella, dal politologo Marco Revelli all' economista Claudia Saraceno, al sociologo Alain Touraine e molti altri. Su democrazia e laicità, in particolare, interverrà anche il filosofo Salvatore Veca, che di questo binomio ha fatto il filo rosso del suo ultimo libro Dizionario minimo.Le parole della filosofia per una convivenza democratica da poco uscito per Frassinelli. «Al di là della frastagliata geografia di partiti che connota oggi la sinistra, quello che vorrei lanciare - dice Veca - è un appello alla sinistra nel suo insieme perché torni a dire a voce alta parole forti di un lessico civile come libertà, laicità, pluralismo, democrazia». «lo sono da sempre convinto - prosegue Veca che dal dibattito pubblico nessuna voce debba essere esclusa, gerarchia cattolica compresa. Ma una volta che si siano ascoltati tutti i punti di vista il politico e il legislatore hanno il compito di fare leggi erga omnes, in cui non prevalga il principio inaccettabile di una minoranza che dice: io non lo farei, dunque anche tu non devi farlo». Come è accaduto, solo per fare un esempio, con la diagnosi pre impianto per la selezione di embrioni sani ancora oggi proibita in Italia dalla legge 40. E mentre norme antiscientifiche come quella sulla fecondazione assistita e il nuovo ddl Calabrò sul testamento biologico hanno visto un'opposizione di sinistra fiacca e (da quando Verdi e Rifondazione comunista non sono piÙ in Parlamento) addirittura afasica, cresce sui giornali e in tv la disinformazione scientifica. Dal salotto di "Porta a porta" abbiamo ascoltato di tutto su Eluana, perfino che nonostante 17 anni di stato vegetativo la donna potesse fare passeggiate in giardino, mangiare panini. Ma se la stampa e i media cattolici da tempo non perdono occasione per dipingere ì ricercatori come novelli Frankenstein e per paventare derive di eugenetica liberale (con il placet di Habermas, filosofo un tempo progressista) stupisce che anche un giornale illuminato come Repubblica pubblichi articoli palesemente antiscientifici come una recente pagina in cui si parlava di attività onirica nel feto, incuranti del fatto che a quello stadio l'apparato cerebrale è ancora immaturo e del tutte deconnesso.
«Forse mai come in questo momento in Italia si è assistito a un attacco di questa portata allo statuto epistemologico, ma anche politico morale della scienza e degli scienziati» nota Gilberto Corbellini. Nel suo nuovo libro Perché gli scienziati non sono pericolosi (Longanesi) lo storico della medicina dell'università la Sapienza tenta una interessante analisi di questo fenomeno, specifico del nostro Paese e che non trova rispondenze nell'area anglosassone. Alla base dì questa immagine alterata della scienza che si riverbera sui media italiani c'è un retrostante pregiudizio religioso. «Essendo la scienza, per definizione, un metodo di indagine della natura, in grado cioè di produrre soluzioni dimostrabili e quindi condivisibili dei problemi, dovrebbe essere interesse di tutti valorizzarne la portata educativa e culturale. Invece - scrive Corbellini - proprio la scienza si trova messa sotto accusa in quanto rappresenterebbe la maggiore minaccia alla libertà e alla dignità dell'uomo.
E questo perché alcune discipline metterebbero in discussione la natura spirituale e metafisica della cosiddetta "creatura', mentre altre diffonderebbero !'idea che l'uomo può conoscere».
Come dice il premio Nobel Rita Levi Montalcini «la scienza non ha bisogno di un'etica imposta dall'esterno», perché la ricerca scientifica ha come suo interesse specifico il progresso umano, senza trascurare che la comunità internazionale degli scienziati svolge un lavoro di monitoraggio di continuo verificando ipotesi e scoperte e mettendole alla prova dei fatti. E se in privato ognuno può avere le convinzioni che meglio crede, da ultimo torniamo a chiederci: è giusto, nella prospettiva di «un'etica condivisa» (come la chiama Enzo Bianchi nel suo libro appena uscito per Einaudi) che queste convinzioni siano imposte come valori non negoziabili nel dibattito pubblico? E più in là: è lecito che un'etica basata su fondamenti metafisici abbia l'ultima parola nell'agone della politica quando si tratti di fare leggi che riguardano tutti, credenti e non credenti?

domenica 19 aprile 2009

Terra 16.4.09
Scompare Franco Volpi raffinato maestro di filosofia
di Livia Profeti


Il filosofo italiano Franco Volpi si è spento ieri all’ospedale di Vicenza, dove era ricoverato da martedì dopo essere stato travolto da un’auto mentre era in sella alla sua amata bicicletta. La Procura ha aperto un fascicolo con l'ipotesi di omicidio colposo nei confronti dell’automobilista che lo ha investito.
Nato a Vicenza nel 1952, ordinario di storia della filosofia all'università di Padova, con la sua prematura scomparsa l’Italia perde uno dei suoi intellettuali più stimati, tra i maggiori studiosi della filosofia tedesca e di quella di Martin Heidegger in particolare, al cui archivio privato, gelosamente custodito dal figlio Hermann, era tra i pochi a poter accedere in qualità di referente per l’Italia. Apprezzato a livello internazionale, era stato Visiting professor nelle università di Quèbec in Canada e di Poitiers e Nizza in Francia, esordendo nel 1976 con una saggio sulla formazione filosofica giovanile di Heidegger, del quale sarebbe poi divenuto anche il principale traduttore italiano. Da allora le sue pubblicazioni non si contano. Tra le più diffuse, per Laterza, un volume della Storia della Filosofia nel 1991 e nel 1997 Guida a Heidegger, strumento imprescindibile per chi vuole accostarsi al pensiero e all’influsso del filosofo tedesco. Per Volpi Heidegger era stato il più grande filosofo dello scorso secolo nonostante si fosse compromesso con il nazismo. Compromissione che lo studioso giustificò sempre sostenendo che le scelte politiche atroci del pensatore tedesco non diminuissero la grandezza della sua filosofia. Tra i più importanti curatori di Adelphi, per questa casa editrice ha tradotto nel 2007 Contributi alla filosofia, l’opera intrisa un’aurea mistica ed esoterica che Heidegger scrisse tra il 1936 ed il ’38, sull’orlo di una drammatica crisi personale. Una traduzione difficilissima, che forse solo Volpi poteva affrontare, portando a termine un lavoro impeccabile denso di note e apparati.
Collaboratore del quotidiano la Repubblica, il tono calibrato dei suoi articoli non lasciava trapelare gli aspetti personali che invece emergevano nei tanti dibattiti accademici e divulgativi ai quali partecipava: l’aspetto timidamente giovanile, la simpatica intonazione della voce, l’inquieta gestualità con la quale esponeva vivacemente le sue tesi, la capacità di argomentare velocemente il pensiero. Qualità che, unite al rigore filosofico e filologico ed alle ampissime conoscenze, non potevano non suscitare ammirazione anche in chi, come chi scrive, a volte non ne condivideva le posizioni. Per triste ironia della sorte, è proprio l’ultimo dei suoi articoli uscito venerdì scorso a rappresentarlo più fedelmente degli altri, forse perché questa volta Volpi, commentando criticamente l’attacco frontale sferrato a Nietzsche da Benedetto XVI nell’omelia del giorno precedente, non affrontava il gelido filosofo dell’“essere per la morte” ma quello della “morte di Dio”: Nietzsche «il distruttore della ragione, il maestro dell´irrazionale».
In questo articolo era più facile, per chi aveva avuto l’occasione di conoscere Volpi di persona, sovrapporre l’immagine dell’uomo alle parole lette: un maggiore calore, una sottile ribellione alla “scomunica” papale in difesa di chi, come lui, aveva dedicato la vita a cose tanto impalpabili e gigantesche quanto oggi berlusconiamente bistrattate, come la cultura e la filosofia. O forse perché, come ha scritto Antonio Gnoli che con lui ha collaborato in molte occasioni, lo accumunava a Nietzsche l’insofferenza per certi ambienti universitari angusti e immobili. Un’affinità celata che, pensiamo oggi con dispiacere, forse gli sarebbe gli stato felice approfondire.

Repubblica 19.4.09
Chi canta fuori dal coro è comunista
di Eugenio Scalfari


Il controllo dei media non serve solo a procacciar voti ma soprattutto a trasformare l´antropologia di una nazione
Il tema di oggi è quello di ridurre le disuguaglianze senza mettere a rischio la libertà. Questo distingue la sinistra dalla destra

Non si può non cominciare con le nomine alla Rai. Gli altri giornali minimizzano con l´aria di dire che si è sempre fatto così: la Rai è proprietà del governo e quindi è il governo che ha il potere di decidere trasmettendo le sue indicazioni all´obbediente maggioranza del Consiglio d'amministrazione.
È vero, sostanzialmente è sempre stato così ma con qualche differenza di non poco conto. La prima differenza è questa: nessun governo, tranne quelli guidati da Silvio Berlusconi, ha mai avuto a sua disposizione le televisioni commerciali, cioè l´altra metà del cielo televisivo. Il fatto che l´attuale presidente del Consiglio abbia a sua completa mercé la propria azienda televisiva privata e l´intera azienda pubblica (salvo la riserva indiana di Raitre finché durerà) configura quindi una situazione che non ha riscontro in nessuna democrazia del mondo.
Non so se sia vero che le nomine siano state decise l´altra sera nella riunione di tre ore nell´abitazione romana del premier. È certo comunque che i nomi proposti dal direttore generale Masi saranno ratificati senza fiatare dal Cda della Rai di mercoledì prossimo e saranno tutti «famigli» di Berlusconi, provenienti dalle sue televisioni private o dai suoi giornali o pescati tra le giovani speranze già inserite nell´accogliente acquario dell´azienda pubblica, collaudati custodi del credo berlusconiano nel circuito mediatico.
Non ci sarà purtroppo una sola persona che abbia mai mostrato un barlume d´indipendenza, un soprassalto di dignità professionale, un dubbio sull´assoluta verità predicata dal Capo.
Questo è lo scandalo, questa è la vergogna, alla quale quel poco di cosiddetta indipendenza che ancora esiste nella stampa italiana si sta ormai adattando per assuefazione esprimendo tutt´al più qualche sommesso brontolio subito seguito da rimbrotti all´opposizione, colpevole di ideologismo e di conservatorismo.
Il quadro è desolante. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Il controllo dei «media» non serve soltanto a procacciar voti ma soprattutto a trasformare l´antropologia d´una nazione. Ed è questa trasformazione che ha imbarbarito la nostra società, l´ha de-costruita, de-politicizzata, frantumata, resa sensibile soltanto a precarie emozioni e insensibile alla logica e alla razionalità.
Chi non è d´accordo è comunista. E firme di intellettuali o sedicenti tali accreditano questo scempio culturale e questa menzogna.
Dedicherò dunque al predetto scempio il seguito del mio ragionamento.
* * *
Quindici anni fa partecipai alla presentazione di un libro di Achille Occhetto al circolo della stampa estera a Roma, in quell´occasione il corrispondente di un giornale tedesco mi domandò che fine avrebbero fatto i comunisti dopo che il Pci aveva buttato alle ortiche il suo nome e la sua ideologia.
Risposi che i comunisti dovevano morire e così i loro figli e nipoti fino alla settima generazione. Solo quando fossero tutti fisicamente estinti sarebbe cessata la polemica nei loro confronti. Infatti è quanto è avvenuto e sta ancora avvenendo e poiché siamo ancora lontani dalla settima generazione l´anatema contro di loro continua e continuerà per un bel pezzo. Non è soltanto il tema prediletto dal nostro premier e dai Bonaiuti di turno, è anche diventato il piatto forte di molti belli ingegni transumanti che all´ombra del revisionismo sono passati dall'anticomunismo di «Lotta continua» e di «Potere operaio» all´anticomunismo di destra. Per loro ormai i comunisti sono diventati un´ossessione, ne vedono la presenza ovunque, alimentano i loro incubi e le loro farneticazioni e ai comunisti attribuiscono tutti i mali antichi, recenti, attuali e futuri che affliggono la politica italiana.
I comunisti. Il Partito comunista italiano. La sinistra italiana. Sono ancora tra noi. Non sono affatto scomparsi. Non sono estinti. Non sono stati rinnegati. Finché questo lavacro definitivo non sarà compiuto l´Italia sarà in pericolo e con essa anche la democrazia.
Ne ha fatto le spese l´ultimo libro di Aldo Schiavone il quale ha risposto al mitragliamento di cui era bersaglio con un articolo su «Repubblica» di qualche giorno fa. Con pungente ironia Schiavone domandava ai suoi interlocutori: che cosa volete che faccia? Debbo suicidarmi? Vi contentereste invece se promovessi un salmodiante corteo di pentiti che percorrano le strade d'Italia autoflagellandosi e invocando perdono per il peccato d'essere stati nel Pci?
La risposta non è ancora arrivata ma sarà sicuramente quella da me anticipata nel 1994, all'alba della stella berlusconiana: dovete morire fino alla settima generazione. Caro Aldo Schiavone, non c'è altra espiazione che basti a cancellare il vostro peccato mortale.
* * *
Tra le persone che mi onorano della loro amicizia c'è Alfredo Reichlin. Abbiamo più o meno la stessa età, ci conosciamo e stimiamo da mezzo secolo sebbene i nostri percorsi culturali siano stati assai diversi. Lui entrò nel Pci ai tempi della Resistenza, io sono di cultura liberale e tale sono rimasto anche se dopo la morte di Ugo La Malfa ho sempre votato per il Pci, poi per i Ds e infine per il Partito democratico che è il più conforme alle mie idee liberal-democratiche.
Reichlin ha scritto qualche anno fa un libro insieme a Miriam Mafai e a Vittorio Foa, che ha avuto molto successo ed è stato portato in teatro da Luca Ronconi. La domanda che quel libro si poneva era appunto perché un democratico è potuto diventare comunista e che cosa faranno i comunisti dopo che il comunismo è scomparso dalla scena politica del mondo.
Tra le risposte ce n'è una di Reichlin che riassumo così: il Pci ha certamente commesso molti errori, ha condiviso un´ideologia sbagliata, ha perfino coperto alcuni crimini, ma non è una realtà discesa sull´Italia come un meteorite. La domanda da porsi è dunque questa: perché la società italiana ha reso possibile la nascita d'un partito come il Pci, al quale si sono iscritti o per il quale hanno votato operai e borghesi, artigiani e contadini, marxisti e liberali, atei e credenti? Che al suo culmine ha quantitativamente raggiunto i voti della Democrazia Cristiana? Che Aldo Moro ha associato negli anni di piombo al governo del paese?
Questa domanda meriterebbe un'analisi seria. Almeno altrettanto seria quanto l'altra domanda speculare: perché la società italiana attuale ha reso possibile la nascita del berlusconismo e gli ha dato uno strapotere che somiglia sempre più ad un regime?
Con una differenza tra le due domande: ragionare sul Partito comunista sta diventando col passare degli anni materia per gli storici; ragionare sul berlusconismo è un tema maledettamente attuale e riguarda la politica e non ancora la storia.
* * *
Si dice che ormai non c´è più differenza tra destra e sinistra. Si inventano nuove classificazioni, per esempio quella tra progressisti, moderati, conservatori. Discorsi inutili e abbastanza noiosi. Scolastici. Lontani dalla realtà.
Il tema di oggi è il rapporto tra i grandi ideali della modernità: libertà eguaglianza fraternità. L´ho già scritto altre volte: l´età moderna è nata da questo trittico di principi e ha dato segnali di decadenza tutte le volte che quel trittico si è indebolito nelle coscienze e nella politica.
Il tema di oggi è quello di ridurre le disuguaglianze senza mettere a rischio la libertà. Questo distingue la sinistra dalla destra.
Bisogna tradurlo in atti politici. Bisogna cambiare l´antropologia del Paese. Bisogna superare l´indifferenza e l´apatia. Bisogna resistere per costruire il futuro.

Corriere della Sera 19.4.09
Dopo l’Abruzzo
La popolarità del premier mai così alta
di Renato Mannheimer


Quasi metà dell’elettorato (48%) pensa che Silvio Berlusconi, dopo il terremoto de L’Aquila, sia riuscito a riscuotere più fiducia di prima.
La tragedia del terremo­to ha avuto inevitabil­mente anche effetti po­litici e ripercussioni sull’opi­nione pubblica.
In due direzioni principali. La prima è stata l’improvviso instaurarsi di un clima meno conflittuale tra le forze politi­che. Di fronte a una situazio­ne così drammatica, molte delle tradizionali dispute tra i partiti sono state accantonate dalla necessità di operare di comune accordo per reagire il più rapidamente e il più ef­ficacemente possibile al­l’emergenza. La seconda con­seguenza è costituita dalla forte accentuazione della dif­ferenza di popolarità tra le principali forze politiche, con un netto accrescimento del vantaggio, già consisten­te, acquisito dal presidente del Consiglio. Berlusconi ha confermato le proprie capaci­tà comunicative e la sua abili­tà nell’instaurare, spesso al di là di ogni intermediazione, un rapporto e un colloquio di­retto con la «gente».
Gli ultimi sondaggi confer­mano questo quadro. Quasi metà dell’elettorato (48%) ritie­ne che, al di là del proprio giu­dizio in merito, il Cavaliere sia riuscito oggi a riscuotere più fiducia di prima. Questa opi­nione è relativamente più pre­sente tra chi è politicamente simpatizzante per il centrode­stra: ma anche tra gli elettori del Pd la convinzione che Ber­lusconi abbia ottenuto un van­taggio è assai diffusa (36%).
Se si approfondisce l’anali­si e si interrogano i cittadini non tanto sulle loro conside­razioni di carattere generale, quanto sulla propria reazione alle iniziative del Cavaliere, l’immagine del successo di Berlusconi viene meglio deli­neata e chiarita nelle sue com­ponenti. Più di un quarto de­gli italiani (26%) dichiara di avere incrementato la pro­pria personale fiducia nel Pre­sidente del Consiglio proprio a seguito del suo comporta­mento in Abruzzo. Costoro sono naturalmente in gran parte già elettori del centro­destra e ne riproducono le ca­ratteristiche sociali (anziani, casalinghe, possessori di tito­li di studio medio-bassi). Ma anche una quota — modesta, ma significativa: poco meno del 10% — di votanti per il Pd «confessa» di provare, dopo il terremoto, più fiducia in Berlusconi.
Negli ultimi giorni, insom­ma, il Cavaliere ha visto incre­mentare ulteriormente la pro­pria popolarità, grazie special­mente alla mobilitazione del proprio elettorato già acquisi­to, ma anche attraverso la conquista delle simpatie di un piccolo segmento dei vo­tanti per l’avversario. La con­seguenza è un ulteriore allar­gamento del grado di consen­so goduto nel Paese — oggi superiore al 50% — e, ciò che forse è più importante, un au­mento della percentuale di in­tenzioni di voto per il Pdl che oltrepassano oggi il 45% e, se­condo alcuni, si avvicinano al 50%.

Corriere della Sera 19.4.09
Pd e province: lo spettro del numero 15
Se nelle amministrative di giugno gli elettori si comportassero come alle politiche, le province governate dal Pd scenderebbero da 50 a 15.
di Paolo Franchi


Per carità, non facciamone un dramma. Ma il 6 e il 7 di giu­gno non si vota solo per l’Euro­pa. Di mezzo ci sono 4200 co­muni, 219 con più di 15.000 abi­tanti e 30 capoluogo, alcuni dei quali per un motivo o per l’altro importantissimi. E 64 province.
Per carità, non facciamone un dram­ma. Ma di queste 64 province oggi più di 50 sono governate dal centrosinistra, so­lo 10 dal centrodestra. E si capisce. Le ele­zioni amministrative del 2004 per il cen­trosinistra furono un trionfo, per il cen­trodestra, ancora percorso dalle divisio­ni tra Forza Italia e la Lega, un disastro. Persino al Nord. Altri tempi. Adesso, leg­giamo sull’Unità in un documentatissi­mo articolo di Andrea Carugati, nel Pd cominciano a preoccuparsi per le elezio­ni provinciali persino di più che per le elezioni europee. Perché, ragiona il re­sponsabile per gli enti locali Paolo Fonta­nelli, se a giugno gli elettori si compor­tassero come nelle politiche (e, dal punto di vista del Pd, c’è da temere che si comportino molto peggio), sarebbe un disastro. Al Nord, ma non soltanto al Nord. Della cinquantina di amministra­zioni provinciali attuali, al Pd ne reste­rebbero 15. Quasi tutte concentrate in quelle che una volta si chiamavano Re­gioni rosse.
Per carità, non facciamone un dram­ma. Le province sono quasi universalmente considerate dei carrozzoni inutili: Ugo La Malfa ne chiedeva la soppressio­ne più di 40 anni fa, a maggior ragione i riformatori più coerenti si indignano og­gi perché non vengono abolite. Ma per­derne 35 o giù di lì in una botta sola per il Pd sarebbe un bel guaio lo stesso. Per­sino se nelle elezioni europee riuscisse a contenere i danni. E non solo perché ba­sterebbe la vista di Emilio Fede che in tv, quasi a simboleggiare un passaggio d’epoca, appone sulla carta d’Italia 35 bandierine del Pdl su province sin qui amministrate dal centrosinistra a gettare nella costernazione più nera militanti ed elettori.
Per carità, non facciamone un dram­ma. Però, fossimo nei dirigenti del Pd, alle preoccupazioni di Fontanelli darem­mo molto ascolto. In politica i simboli e, come si dice adesso, l’immagine contano, eccome. Ma qui non si tratta solo di simboli e di immagine. Ci sarà pure un motivo se quelli della Lega, che sono dei politici eminentemente pratici, al solo sentir parlare di superamento delle pro­vince reagiscono con lo stesso, efficacis­simo fuoco di sbarramento con cui han­no replicato alla proposta di accorpare il referendum sulla legge elettorale alle ele­zioni del 7 giugno. Potranno anche esse­re inutili, o peggio, le province. Ma in ter­mini di consenso e di potere sono impor­tanti. E perderne una trentina, specie per un partito che voglia essere radicato nel territorio, e che si affidi in larga misu­ra a dei professionisti della politica (tra­dizionali o di tipo nuovo in questo caso non conta), vuol dire lasciare senz’arte né parte un esercito di assessori, di elet­ti, di presidenti e di consiglieri di enti pubblici e semipubblici, di consulenti e via di questo passo, con tutte le conse­guenze del caso. Se i partiti fossero delle associazioni culturali, e gli elettori votas­sero solo per motivi d’opinione, il proble­ma non sarebbe poi così terribile. Ma le cose sono un tantino più complicate: e sarebbe il caso di ricordarselo.
Per carità, non facciamone un dram­ma. I dirigenti del Pd interpellati dal­l’Unità dichiarano di fare comunque affi­damento, oltre che sulle nuove candida­ture (auguri), sulla buona qualità degli amministratori uscenti. L’argomento è storicamente fondato, perché è grazie al­la buona amministrazione che, molto spesso, il centrosinistra nelle elezioni lo­cali è riuscito a sfangarla anche quando, sul piano politico, gli soffiava addosso un forte vento contrario. Stavolta, però, il vento contrario non è forte: è fortissi­mo. E difficilmente il Pd può pensare di potergli resistere da solo, o quasi, in no­me di una vocazione maggioritaria che, se non è più conclamata come nel recen­te passato, non è stata neanche realistica­mente archiviata. Solo nella metà delle province (e dei comuni) in cui si vota il Pd si presenta nella coalizione del 2004 e del 2006. Spesso manca all’appello Rifon­dazione comunista, talvolta l’Italia dei Valori, più raramente Sinistra e Libertà; e, quanto all’Udc, sempre dall’Unità ap­prendiamo che «al Nazareno ci si conso­la constatando che Casini correrà da so­lo in moltissime realtà, dal Piemonte al Veneto alla Puglia, togliendo voti prezio­si alla destra». Certo il Pd non poteva ve­nire a capo in poche settimane di una questione chiave per la sua identità e il suo futuro come quella delle alleanze. Ma la scelta di non scegliere gli complica terribilmente la vita. Anche nelle provin­ce. Utili o inutili che siano.

Repubblica 19.4.09
Ferrero e Diliberto aprono la campagna elettorale
"La Lista comunista supererà il 4 per cento"
Alla manifestazione a piazza Navona circa tremila militanti e molti attacchi a Franceschini e a Di Pietro


ROMA - Bandiere rosse con falce e martello ieri a Piazza Navona per la presentazione della Lista comunista e anticapitalista. La formazione che nasce per superare lo sbarramento del 4 per cento alle Europee mette insieme, dopo anni di separazione, Rifondazione comunista e il Partito dei comunisti italiani. Con l´aggiunta di Socialismo 2000 di Cesare Salvi e i Consumatori uniti. Alla manifestazione hanno partecipato circa 3 mila militanti che hanno appunto rispolverato il simbolo classico del comunismo italiano: bandiere rosse con falce e martello.
I leader della nuova formazione sono molto fiduciosi rispetto all´ostacolo dello sbarramento. «Il problema del 4 per cento non me lo pongo. - dice il segretario del Pdci Oliviero Diliberto - Noi e il Prc nel 2006 sfioravamo il 10 per cento e ora dobbiamo recuperare quei voti. Cerchiamo i voti a 360 gradi: ci sono operai che hanno votato Lega e proletari delle periferie romane che hanno votato per An. Noi vogliamo parlare a tutti. E´ così che si diventa grandi». Anche Ferrero è sicuro di superare l´asticella, recuperando anche voti «nel "non voto" e fra i delusi del moderatismo». E i sondaggi sembrerebbero confermare l´ottimismo dei vertici: la lista è accreditata di un minimo del 3,8 per cento e di un massimo del 5,9 per cento.
«Il nostro vero antagonista è Silvio Berlusconi, ma il problema è che il Pd cerca unicamente di uccidere la sinistra», ha spiegato il leader di Rifondazione Paolo Ferrero. Che ha attaccato però anche Antonio Di Pietro e Dario Franceschini. «Sono esterrefatto - ha detto Ferrero - che Franceschini voglia usare il terremoto per promuovere un referendum che se passasse consegnerebbe il paese a Berlusconi per i prossimi 50 anni». Non sono mancate polemiche con un altro pezzo della sinistra che ha deciso di correre da sola: Sinistra e libertà di Nichi Vendola. Diliberto ha invitato i militanti a non votarla. Pronta la replica di Claudio Fava: «grazie dello spot»

Repubblica 19.4.09
Belpaese
Giglio e martello
di Alessandra Longo


A Firenze ci sono i comunisti di Ferrero e Diliberto che appoggiano la lista di Valdo Spini. Poi ci sono «i comunisti fiorentini», quelli col giglio, che stanno pagando con l´espulsione dal Pdci la loro scelta di schierarsi con il candidato sindaco Matteo Renzi e il candidato presidente della Provincia Andrea Barducci. Poi c´è il Pcl, partito comunista dei lavoratori, che ha la sua candidata, Cristina Lascialfari, sponsor del controllo dei lavoratori sulle nazionalizzazioni delle banche. Nessuno scherza. L´ufficio politico del Pdci si è riunito ieri e ha deciso che i compagni che sbagliano, cioè quelli che appoggiano Renzi, sono da considerarsi «fuori».
Il rutelliano Renzi accoglie gli scissionisti a braccia aperte: «La loro adesione sarà sicuramente fonte di arricchimento».

Repubblica 19.4.09
La tirannia della bontà
di Ilvo Diamanti


Il bene comune, dopo una lunga eclissi, è riemerso. Tracimato, in modo prorompente. Se ne erano perdute le tracce, da qualche tempo, in Italia.La tragedia del terremoto in Abruzzo l´ha fatto uscire dagli anfratti del non-detto, dove era nascosto da molti anni. Da quando - in economia, in politica, nello spettacolo, ma anche nei rapporti con gli altri - per avere successo, per apparire credibili in pubblico era divenuto conveniente apparire "cattivi". E quindi inflessibili, intolleranti. Nonché discretamente egoisti. Attenti anzitutto al proprio interesse. Sicuramente diffidenti verso qualsiasi "bene in comune", soprattutto se "pubblico". In nome del trionfo del mercato, del privato, della competizione. Impossibili dirsi "buoni" senza essere tacciati di "buonismo". Malattia senile della solidarietà. Marchio di un´epoca passata. Da rimuovere. Così gli italiani si sono trovati a vivere la loro "bontà" e il loro "altruismo" in modo quasi clandestino. Nonostante il loro spirito solidale e comunitario, coltivato da identità radicate, come quella cattolica e socialista. Bollate, a loro volta, nel segno - spregiativo - del catto-comunismo. Per cui oltre metà degli italiani hanno continuato a dedicare tempo, denaro e soprattutto impegno personale agli "altri", in modo continuo e regolare. Ma in silenzio. Come un vizio inconfessabile. Comunque da non dichiarare in pubblico. Per farsi apprezzare dai cittadini, l´uomo pubblico doveva apparire uno sceriffo, un vigilante, una ronda a tempo pieno. Perché la bontà e la solidarietà apparivano vizi privati. Che non facevano notizia, audience. Spettacolo. E sono stati, per questo, a lungo emarginati dai media. Ridotti in spazi minimi e dedicati. Come le rubriche per camionisti o i programmi sugli stranieri. Lo spazio del bene comune. Trasmesso alle 6 di mattina alla domenica e in replica alle 4 di notte.
Il terremoto, la tragedia immensa che ha colpito la popolazione dell´Abruzzo due settimane fa, ha sconvolto - insieme alla vita di migliaia di persone - anche la "gerarchia dei valori" e dei sentimenti. Il "male comune" ha risvegliato il "bene comune". O meglio: gli ha restituito dignità pubblica, visto che nel privato non aveva mai smesso di essere frequentato, dagli italiani. Abbiamo, anzi, assistito e stiamo assistendo, in questi giorni, a un significativo rovesciamento di prospettiva. Che ha posto - e anzi: imposto - il bene comune come cifra di lettura di ogni manifestazione, di ogni comportamento. Nulla di sorprendente, sia chiaro. Le difficoltà comuni sollecitano risposte comuni. Le emergenze stimolano convergenze. La disperazione sollecita la cooperazione. E insieme: la solidarietà e la pietà. Comunità, pietà, solidarietà, cooperazione; e ancora; carità, altruismo, soccorso. Parole quasi indicibili fino a ieri: sono tornate di moda. Sulla bocca di tutti. Pronunciate ad alta voce e non piano piano, per timore che qualcuno ci senta. Evocano il repentino passaggio del bene comune dalla clandestinità alla scena pubblica. Accanto alla desolazione e alla disperazione, sui luoghi del terremoto, sui media passano le immagini del soccorso. Non solo "professionale" ma soprattutto "volontario". Lo spettacolo del dolore si mischia a quello della solidarietà. Senza soluzione di continuità. Sottoscrizioni dovunque. E partite di calcio, tennis, basket, pallavolo; concerti, recital, pièces teatrali. L´incasso totalmente devoluto alle popolazioni colpite dal sisma. Perfino i talk show più futili si riconvertono all´impegno.
Il bene comune e il bene pubblico diventano virtù accettate e condivise. E definiscono nuove regole di comportamento e di linguaggio. La "cattiveria" diventa improponibile. Anche come linguaggio e come sguardo. Come chiave di lettura della realtà. Dei comportamenti pubblici. Cresce l´insofferenza verso la satira e l´ironia, perché dissacrano la pietà. Così la critica e le polemiche: suscitano fastidio. Sospettate di corrodere il principio della comunità solidale. Guai a sottolineare le gaffe del premier. Guai a contestare il governo. La processione dei ministri, sui luoghi del disastro. Per non minare l´unità del paese, riunito intorno al dolore e al bene comune. Anche se in Italia - paese storicamente diviso - lo Stato è considerato proprietà di chi governa e la fiducia nelle istituzioni cambia segno a seconda di chi vince le elezioni. Con la conseguenza che la spinta verso il "bene comune" tende a premiare soprattutto - anzi "solo" - il governo e il suo leader. Con l´opposizione a recitare la parte del coro muto. (Non abbiamo ancora dati al proposito, ma scommetteremmo che i prossimi sondaggi confermeranno questa ipotesi). Così, leader e forze politiche che hanno fondato la loro immagine (e il loro successo) sul sorriso permanente e la comunicazione opulenta, su valori individualisti e aggressivi, sulla critica allo Stato: acquistano un volto sofferente e mite; identificano il bene pubblico. Non è nostra intenzione "mettere a tacere la voce della compassione", per usare una formula di Adriano Sofri qualche giorno fa. Tuttavia, questo trionfo del "bene comune", esibito dovunque come bandiera. Regola di comportamento e stile di comunicazione. Questo clima di bontà coatta. Mi fa quasi rimpiangere i giorni cattivi del tempo recente. Perché sfidare i "ministri della paura" è difficile. Ma non quanto opporsi alla "tirannia della bontà" e ai nuovi custodi del bene comune.

Repubblica 19.4.09
Un sistema che funziona quando se ne può parlare male
Democrazia in cantiere
Intervista a Gustavo Zagrebelsky di Pier Paolo Luciano


Aspettando il 150esimo anniversario dell´unità d´Italia che si celebra nel 2011, Torino dedica cinque giorni alla cultura democratica. Con incontri, lezioni, mostre e spettacoli dal vivo. Dal 22 aprile
"È un ideale che bisogna perseguire, non si può mai pensare di averlo raggiunto per sempre"
Un laboratorio per discutere sui principi che racchiudono l´essenza della convivenza civile. Sono 120 gli appuntamenti con intellettuali ed esperti dall´Italia e dall´estero

Professor Zagrebelsky, perché questa cinque giorni dedicata alla democrazia?
«Perché, più di ogni altra forma di governo, la democrazia è sempre imperfetta rispetto ai suoi ideali ed è sempre esposta all´involuzione oligarchica, al rovesciamento demagogico delle parti e alla copertura di altre "-crazie"».
Dunque vede più che mai attuali le parole di Bobbio sulle "promesse non mantenute" della democrazia?
«Sì perché anche quando le istituzioni della democrazia si sono affermate e i diritti democratici diffusi, resiste una forma di insicurezza che la configurano non come un compito svolto una volta per tutte, ma sempre da rifare. L´autogoverno consapevole dei cittadini è un ideale da perseguire ma che nessuno mai potrà immaginare di avere raggiunto per sempre».
Che cosa occorre per garantire un futuro alla democrazia?
«Se immaginiamo la democrazia come un contenitore, questo va riempito di contenuti conformi, altrimenti diventa un simulacro e può rendersi persino odioso, specie se accompagnato all´idea delle grandi potenze che dominano il mondo».
Quale contributo può dare Biennale democrazia per riempire questo contenitore?
«Può essere e vuole essere soprattutto uno strumento per la formazione e la diffusione di una cultura della democrazia che si traduca in pratica democratica, all´altezza dei problemi del momento presente. Perché spesso si invoca "più democrazia" e non anche "una migliore democrazia", cioè una partecipazione ai problemi comuni più larga, più consapevole, informata e responsabile soprattutto in momenti come questo contrassegnati dal multiculturalismo e dalla forza della tecnologia».
Un tema quello della democrazia che offre molti spunti sul piano politico ma che non vedrà alcun politico dibatterne. Perché?
«È stata la pre-condizione che ci siamo dati sin da quando Pietro Marcenaro, sull´onda del successo delle "Lezioni su Bobbio" organizzate nel 2004, ha lanciato l´idea di questa Biennale. Si voleva, si vuole evitare strumentalizzazioni e preservare il carattere scientifico dell´iniziativa. Dunque, nessuna passerella per i politici».
Quali altri ostacoli vi proponete di abbattere?
«Vogliamo uscire dagli steccati del dibattito accademico, del confronto tra addetti ai lavori, per rivolgerci direttamente ai cittadini, a cominciare dai più giovani. Così come una teoria e una pratica democratiche richiedono».
Perché Torino?
«Perché Torino, artefice della prima unificazione d´Italia, ha titoli e responsabilità particolari, anche in considerazione della propria tradizione intellettuale e civile, in questa seconda unificazione nazionale. Un´unificazione che, a differenza della prima, si è fatta largo solo a poco a poco, in mezzo a conflitti sociali d´ogni genere».

il Riformista 19.4.09
Direzione, prego, non Bottegone
di Giuliano Ferrara


Istantanee. L'afa dolorante dell'agosto 1964, quando morì Togliatti. L'aria da basilichetta cattolico-romana, ben altra cosa era il palazzo della Sed, il partito comunista della DDR. La confidenza da dodicenne con i padri del partito, per me erano tutti amici di papà e mamma. L'insofferenza di Occhetto per i pisani. Il bell'ufficio di Amendola. Il 9 maggio 1978 e la Renault rossa.

Nel 1964, d'agosto, a Yalta si ammalò Togliatti e poi morì. Apprendemmo la notizia del grave malore al telefono pubblico del Bar Centrale di Porto Ercole. Il figlio del proprietario si chiama Palmiro. Mia madre Marcella, collaboratrice da tanti anni del capo comunista, pianse; e riprendemmo la strada per Roma, lungo la vecchia Aurelia. Finimmo dritti a Botteghe Oscure, nell'afa dolorante, nell'accorrere generale, nello smarrimento freddo a ogni piano, partendo dai compagni della vigilanza, la squadra occhiuta e di massima fiducia del partito, che sorvegliava la Direzione e all'occasione, a parte compiti più impegnativi, schiaffeggiava un petulante Pannella; e questo intanto ricorda Giuliano, il dodicenne di allora.
La Direzione però. Non il Bottegone. Il Bottegone è una semplificazione o volgarizzazione di successo, credo schizzata da Pansa in qualche serie di articoli sul Pci dei Settanta, una semplificazione nordista, monferrina, il Bottegôn, una roba paraleghista. Mai detto il Bottegone, ch'io ricordi, mai neanche sognato di pensare a un Bottegôn, almeno tra comunisti perbene, tra affiliati consapevoli della più duratura associazione per delinquere del Novecento (Berlinguer e D'Alema la chiamano «ideali della mia gioventù»). Si andava in sezione, in Federazione, al giornale (L'Unità, tipografia GATE, via dei Frentani) oppure in Direzione. «Questa cosa si decide in Direzione». «Facciamo un salto da Chiaromonte, in Direzione». «Pajetta al giornale ci sta poco, o è in Federazione o è in Direzione. Ma come si fa a dirigere il giornale stando tutto il tempo in Direzione?».
Anticomunista ormai da qualche tempo, visitai nel 1989 la sede svuotata della Sed, il partito comunista della Germania Orientale, della Repubblica democratica tedesca o DDR, e feci i dovuti raffronti tra l'elemento spettrale di una cattedrale atea in via di abbattimento e il bonario declino della nostra basilichetta incredula ma cattolico-romana a due passi da Piazza del Gesù. La sede berlinese di Honecker era il contenitore immenso delle vite degli altri, puro Orwell, la Direzione del Pci era una specie di vita di noialtri, più familiare, borghese, meno astrale, meno irrigidita gerarchicamente; ma non svaccata, intendiamoci, insomma qualcosa di comune c'era, e sicuramente una segretezza amministrativa da alta cucina politica, da organizzazione ben sorvegliata. Non potevo dimenticare il fatto che su quella stessa terrazza della Direzione che aveva ospitato una sessione fotografica in cui Antonello Trombadori ritraeva le bellezze da vacanze romane di Marcella e Giuliana, le sorelle De Francesco, compagne di vita di Maurizio Ferrara e di Franco Ferri, su quella stessa terrazza per un certo periodo, si favoleggiava, fu ricoverata per nasconderla alla vista di chiunque una mitragliatrice issata sa di un'automobile blindata che era stata fatta pervenire ai compagni della Direzione da Stalin dopo l'attentato a Togliatti del '48, insieme con un formale e pubblico rabbuffo per non aver saputo proteggere la sicurezza del dirigente internazionalista.
Il giorno dei funerali, con la marcia funebre di Chopin e tutto a posto, niente applausi, saltabeccavo da un ufficio all'altro con il "passi", un santino con la faccia del defunto listata a lutto che ancora devo avere da qualche parte, chissà, e fungevo da giovane mascotte della Direzione. Il bonario e baffuto Amerigo Terenzi, l'editore comunista di successo che pubblicava quotidiani e settimanali e inventava l'editoria popolare collaterale alle tribune di partito e trovava i soldi e amava le gite ai Castelli e le salsicce, una specie di immenso Primo Greganti del dopoguerra, versione romanesca, mi beccò al piano nobile, il piano della segreteria, e la folla era già radunata e si stava per chiudere la camera ardente e a momenti partiva il corteo funebre fino a Piazza San Giovanni; e mi disse di rimediare per favore il telefono del settimanale Vie Nuove, una specie di Epoca del proletariato progressivo edito dal partito, e io ebbi la sfacciataggine di chiedere il numero a Luigi Longo, padre del partito resistenziale e successore di Togliatti, ma ai miei occhi anche ex direttore di Vie Nuove, che mi sorrise e mi domandò se fosse stato Terenzi a mandarmi per la bisogna, quel pigrone, quel romano trascurato e arruffone agli occhi di Longo, piemontese. Capii che avevo pestato una cacchina, dando fastidio a Longo affacciato al balcone sulla folla riunita per il più grande atto simbolico della storia del Pci, il funerale di Togliatti, ma per me erano tutti amici di papà e mamma, niente di grave.
L'ufficio spoglio di Occhetto, quando fu un po' trombato e messo a dirigere la commissione scuola. Voleva che il giovane funzionario che io ero, da Torino dove dirigevo operai e polizia di partito, venisse a Roma a dargli una mano. Mi disse, a proposito di Mussi e di D'Alema, che non ne poteva più di tutti questi pisani. Aveva intuito, invano, la profondità di certe inimicizie politiche.
A me piaceva il terzo piano, dove alloggiava in un bell'ufficio il vecchio Amendola che si rimirava nel suo formidabile ritratto di regime a firma di Guttuso e nei successi letterari dell'ultima parte della sua vita, con la sua bella memoria che Pajetta sfotteva («Ma come fa a ricordarsi se era sciapa o no la minestra che mangiò nel '44 in una casa di amici milanesi?»). Lo avevo incontrato alla galleria d'arte La Nuova Pesa con l'intellettuale geniale e disordinato Saverio Vertone, di cui bruscamente Giorgione disse: «È un trotzkista». Lo avevo visitato con i miei nella sua casa di Velletri, con la deliziosa e invadente moglie Germaine che gli diceva, con quella indimenticabile pronuncia alla commissaire Clouzot: «Giorg, Giorg, il partit è ferm!». Ma l'immagine più austera e parlante che ho di lui, sarà stato il 1971, era nella sua tana in Direzione, un po' defilato dal piano operativo, il secondo, in cui aveva rinnovato e modernizzato da padrone autoritario il partito, ma in senso - diciamo così - democratico, alla fine degli anni Cinquanta. Parlava male di tutti coloro che erano troppo ideologici o troppo agitati, era reduce dal lancio di una lotta su due fronti, contro i socialdemocratici e contro gli estremisti del '68, ma era anche insofferente delle lentezze dei rinnovatori, e negava di aver voluto tirare la volata a quel «vaselina» di Giorgino Napolitano. Che bel tipo di politico e di intellettuale italiano, paternalistico, autorevole, colto, vibrante, con un tratto sofferente ma non lagnoso. Il terzo piano, se non ricordo male, era il suo piano e anche quello delle riunioni della direzione e del comitato centrale, ma posso sbagliare.
Il sesto piano era in un certo senso anche il mio piano. Ci lavorai per alcuni mesi, prima di partire per Torino, inizio anni Settanta, e starci una decina d'anni. Era la sezione stampa e propaganda. Giornalini, aiuti alle Federazioni, quaderni per la formazione, edizioni speciali per ricorrenze, ma soprattutto manifesti fantastici, che parlavano dai muri e convincevano gli elettori (nel 1976 il Pci sfiorò il primato elettorale con un manifesto cinicissimo a scritta bianca su sfondo rosso: "Metti le cose a posto. Vota comunista"). Il sesto piano era mitico per via dell'appartamento di Togliatti e della Iotti agli albori del loro fidanzamento adulterino, quella tana rivoluzionaria del libero amore ricavata in tempi lontani in un anfratto della Direzione per sicurezza e per non dar scandalo. (Allora tutto procedette nella massima segretezza, i giornali non si impicciavano delle ragazze dei capi.) Ci lavorai con Giuliana Ferri, Paolo Bragaglia e Aldo Daniele - tutti funzionari, tutti intellettuali atipici. La sezione stampa e propaganda era un solare laboratorio di bugia politica, modernizzante, con i grafici e la vecchia tradizione di buongusto del Politecnico e di Albe Steiner che aleggiava.
Nell'ufficio di Gerardo Chiaromonte, al piano della segreteria di cui era il coordinatore, passai un paio d'ore la mattina del 1977 in cui Lama fu cacciato dalla Sapienza con atto squadristico. Accennammo a quella visita all'Università del focoso capo sindacale, e Chiaromonte scuoteva prudentemente la testa a manifestare un forte scetticismo per l'iniziativa. Finita la riunione andai alla Sapienza a prenderle anch'io. Nella frustrazione, pensai alla differenza di temperamento tra il capo che va e quello che scuote il capo. Chiaromonte aveva ragione, ma io sono sempre stato dalla parte dei Lama.
Non ricordo che tipo di impegno avevo il 9 maggio 1978, in Direzione. Forse ero solo passato al quarto piano (o quinto?), quello dell'amministrazione, per un rimborso del viaggio da Torino, per una delle solite riunioni dedicate alla caccia ai terroristi (l'amministrazione sembrava un ufficio postale privato, con la consegna dell'onestà, dell'austerità e del segreto che trasudava dai muri). Presto al mattino, per non perdere l'aereo per Torino, me la sbrigai e mi avviai a piedi verso piazza Argentina, lungo via delle Botteghe Oscure. Intanto certi amici di scuola del 1968 stavano piazzando il cadavere di Moro in una traversa di quella strada larga, davanti al palazzo dei nobili Caetani. Chissà che non abbia incrociato la Renault rossa.

il Riformista 19.4.09
Il vero arsenale del Pci, l'archivio sotterraneo
di Maria Luisa Righi


Da Mosca a Roma. Si è favoleggiato di un deposito d'armi. Eccole: migliaia di fascicoli, cinquecento metri di ripiani a "cartelle sospese", migliaia di ore di registrazione su nastro, nelle quali erano conservate le discussioni nel gruppo dirigente, le direttive alla periferia del partito, la corrispondenza, i rapporti riservati e la documentazione pubblica, conservate e ordinate perché a ciascuno si potessero attribuire le proprie responsabilità nelle scelte compiute, e perché quello era un partito che «veniva da lontano e andava lontano».

Si è favoleggiato spesso di un arsenale nascosto in quei sotterranei, di un deposito di armi pronte per qualsiasi evenienza. Ma chi lo avesse cercato sarebbe rimasto deluso: le uniche armi che si sarebbero trovate erano quelle approntate per la lotta politica: migliaia di fascicoli, cinquecento metri di ripiani a "cartelle sospese", migliaia di ore di registrazione su nastro, nelle quali erano conservate le discussioni nel gruppo dirigente, le direttive alla periferia del partito, la corrispondenza, i rapporti riservati e la documentazione pubblica, conservate e ordinate perché a ciascuno si potessero attribuire le proprie responsabilità nelle scelte compiute, e perché quello era un partito che «veniva da lontano e andava lontano».
L'archivio del Partito comunista italiano, la più importante raccolta documentaria di un partito politico, non fu sempre nei sotterranei del Bottegone.
Quando nell'estate del 1946, la direzione del Pci si trasferì al Botteghe Oscure, non esisteva neppure un vero e proprio archivio: le carte prodotte prima della liberazione erano al sicuro presso gli archivi del Comintern, a Mosca, o disperse nei nascondigli che le avevano protette dai sequestri della polizia e dei nazifascisti. Ogni sezione di lavoro gestiva le proprie carte organizzandole come meglio credeva. La segreteria sistemò le proprie, affidandone la cura, a un funzionario triestino, temprato da anni di confino e di carcere: Carlo Kodré.
Dopo l'attentato a Palmiro Togliatti, però, ci si poteva aspettare di tutto e dalla fine del 1950, i documenti più importanti erano spediti a Mosca. Ciò fino all'estate del 1958, a testimoniare che alla sicurezza si intrecciava il problema dei rapporti politici con il Pcus.
Nel 1963 si pose il problema di costituire un vero archivio: «Il metodo attuale degli archivi per ogni sezione e anche per singoli uffici è irrazionale e antiquato […] In ogni piano dell'apparato esistono almeno dieci armadi per questi fantomatici archivi». si legge in una nota per l'ufficio di segreteria.
Dopo la morte di Togliatti, nel 1964, con Luigi Longo segretario, fu affidato l'archivio a Bruna Conti, alla quale succedette, nel 1968, Giovanni Aglietto.
Collaboratore di Longo, classe 1913, ragioniere di Savona, arrestato nel 1934, condannato dal Tribunale speciale, e, durante la Resistenza, ispettore del partito in Lombardia, Aglietto risistemò tutto il materiale in grandi serie archivistiche che si ripetevano per ogni anno e propose di microfilmare, a scopo cautelare, la documentazione, nonché di registrare sistematicamente le riunioni degli organismi dirigenti, cosa che prima avveniva solo in occasione di qualche comitato centrale di particolare rilievo come era accaduto nel novembre 1961 per la discussione sul XXII Congresso del Pcus (registrazione riprodotta ora in un Cd allegato a "Il Pci e lo stalinismo", Editori Riuniti, 2007).
Nella primavera del 1969, la segreteria accolse la proposta e, dato che era stato ristrutturato da poco i locali sotterranei (rifatte fognature, centrale elettrica, e impianti di condizionamento), si decise di sistemarvi i nuovi laboratori per fare i microfilm e sistemare le registrazioni, affidati a un giovane compagno, appassionato di fotografia, Ivano Sabadini. Il responsabile dell'archivio continuava a stare al "piano nobile", quello della segreteria. Alla fine del 1969, nel sotterraneo trovarono posto l'archivio, il centro copie e il laboratorio di manutenzione degli apparati elettrici. Qui, qualche anno dopo si sviluppò un principio di incendio, e ciò convinse la segreteria a destinare l'intero sotterraneo all'archivio, che occupò due nuove stanze attrezzate con armadi su rotaia per ottimizzare gli spazi.
Nel 1972, e per tutti i dodici anni della sua segreteria, Enrico Berlinguer confermò responsabile dell'archivio Aglietto.
Oltre a ordinare il materiale corrente, che cresceva pressoché proporzionalmente ai consensi del partito, l'archivio elaborò strumenti di corredo come cronologie, elenchi di organismi dirigenti eccetera; si preoccupò di raccogliere gli archivi personali dei dirigenti scomparsi, e di recuperare i documenti mandati in passato in Urss: nei primi anni Settanta, Aglietto, accompagnato da Cesare Colombo, dell'Istituto Gramsci, si recò a Mosca per iniziare a microfilmare quelle carte. (Gli originali, 182 buste, rientrarono in Italia solo con Mikhail Gorbaciov alla fine degli anni Ottanta).
Oggi, l'intero patrimonio cartaceo è consultabile presso la Fondazione Istituto Gramsci per la felicità degli storici.

il Riformista 19.4.09
Quelle oscure Botteghe tra passione e misteri
di Stefano Cappellini


FILO ROSSO. Dall'oro di Dongo alla R4 di Moro, dai festeggiamenti con Berlinguer al balcone alla valigetta con miliardo di Gardini, dagli assalti fascisti all'odio del Movimento. Cinquant'anni di storia nazionale, con la maiuscola e senza, sono transitati da qui.

Una cosa è certa: al Partito comunista italiano il palazzo al civico 5 di via delle Botteghe oscure non costò praticamente nulla. In compenso, le versioni su come nell'autunno del 1946 il Pci entrò in possesso dell'edificio che sarebbe diventato sinonimo stesso del comunismo tricolore sono molteplici.
Fu un regalo dei Marchini - racconta la versione ufficiale - la famiglia dei costruttori rossi e partigiani cui Palmiro Togliatti aveva chiesto già nel 1944 di trovare una sede nel centro di Roma degna delle ambizioni del partito. Ambizioni che - secondo un'altra, ben diversa, versione dei fatti, peraltro confermata nelle memorie di Massimo Caprara, ex segretario personale di Togliatti - il Migliore potè permettersi di realizzare grazie all'oro di Dongo, e cioè al bottino che la Brigata Garibaldi aveva sottratto a Benito Mussolini e agli altri gerarchi fascisti in fuga e che in parte finì a disposizione di Alfredo Bonelli, di fatto il primo tesoriere del Pci, poi caduto in disgrazia e cancellato dalla memoria ufficiale anche a causa dei misteri e delle polemiche sui fatti di Dongo. A metà strada tra la storia del regalo e quella dell'oro restano negli archivi del San Paolo di Torino le cifre dei mutui accesi per il palazzo a condizioni più che favorevoli - il primo nel 1947, al 5 per cento, per la somma di 35 milioni rimborsabili in 50 anni - e comunque abbondantemente coperti dalle ipoteche e dalla svalutazione della lira. Alla fine, una versione non esclude l'altra ma l'effetto è uno solo: Botteghe oscure venne via gratis. D'altra parte, quando cinquant'anni dopo, sommerso dai debiti, il Pds nato dalle ceneri del Pci fu costretto a disfarsene, il prezzo pagato sarà molto superiore a quello incassato.
Perché da via delle Botteghe oscure è passata tutta la storia di quel pezzo di sinistra italiana, il più grande, quella maiuscola come quella minuscola o privata. Nella mansarda al sesto piano si consumò l'inconfessabile convivenza more uxorio tra Togliatti e Leonilde Iotti, la giovane e bella deputata reggiana che era al suo fianco quando nel 1947 il siciliano Pallante sparò al leader appena fuori da Montecitorio e ai comunisti arrivarono in un colpo solo due notizie: che il Migliore rischiava la vita e che aveva un'amante. La convivenza era per giunta due volte scandalosa, perché Togliatti era sposato con Rita Montaganana, militante del partito, che di divorzio non voleva sentir parlare. Fu invece ai piani bassi, anzi di più, nel garage, che all'indomani della morte di Enrico Berlinguer si strinse il patto con cui Achille Occhetto e Massimo D'Alema si spartirono la leadership a venire: segreteria di transizione ad Alessandro Natta, successione designata per Occhetto e terzo turno per D'Alema. In un certo senso la catena funzionò, ma non come i contraenti avevano immaginato: Natta fu brutalmente estromesso al primo malanno fisico e Akel si fece da parte, tra rancori ancora oggi vivi, dopo il tracollo della «gioiosa macchina da guerra» dei Progressisti da lui capeggiati alle elezioni del 1994, le prime con Silvio Berlusconi in campo.
A Botteghe Oscure il popolo comunista si è sempre ritrovato a celebrare le grandi vittorie elettorali, come dopo la vittoria dei no al referendum sul divorzio, una consultazione che il Pci aveva più subito che voluto, e non fosse stato per la rivolta del terzo piano di Botteghe oscure, dove aveva sede la Commissione femminile, forse non avrebbe nemmeno appoggiato. Sempre lì fu celebrato il trionfo alle amministrative del 1975, quando ai militanti pareva che il sorpasso sulla Democrazia cristiana fosse ormai maturo ed Enrico Berlinguer si affacciò dal balcone sulla facciata principale, al primo piano, per sventolare un drappo rosso. E di gente ce n'era ancora di più l'anno dopo, alle politiche di giugno, insieme a inviati dei network di tutto il mondo: il sorpasso non ci fu, la Dc rimase primo partito, ma il Pci toccò il suo massimo storico di consensi e dalla sala stampa ricavata in via dei Polacchi - il Bottegone, nel frattempo, si era allargato - uscivano verso la strada cifre e percentuali che rendevano possibile il sogno di molti e l'incubo di altrettanti: il Pci al governo, con tanto di ministri. Non lo sapeva nessuno, ma quel successo fu l'ultimo. Sotto lo stesso balcone, il 12 giugno 1984, la gente accorsa alla notizia della morte di Berlinguer assistette in silenzio all'esposizione di una bandiera rossa listata a lutto, poi intonò l'Internazionale.
Tanto era amato quanto odiato, quel palazzo dietro piazza Venezia e alle pendici del Campidoglio. Nel marzo del 1955 una squadra fascista andò all'assalto della libreria Rinascita al pianterreno. I danni furono notevoli. Il clamore suscitato dal gesto ancora di più. Fu Sandro Pertini alla Camera a prendere la parola per proncunciare, insieme alla condanna dell'assalto, una furente orazione antifascista: «Con amarezza dobbiamo constatare - disse il futuro presidente della Repubblica - che nel decennale della Resistenza i rifiuti del fascismo tentano di ripetere le gesta criminose di un tempo». Una fotografia immortalò Vittorio Sbardella, allora giovane missino, poi ras della corrente andreottiana a Roma col nome d'arte lo «Squalo», mentre incedeva verso Rinascita con in mano una tanica di benzina. Per una curiosa nemesi storica, Sbardella pagò pegno trentasette anni dopo. Quando il Sabato, settimanale vicino a Comunione e liberazione, di cui Sbardella era azionista politico, si trovò in difficoltà i vertici di Cl chiesero di rilevare ad Alfio Marchini, nipote dell'Alfio che - secondo la vulgata ufficilae - aveva regalato botteghe oscure al Pci. E Marchini pose come condizione per mettere i soldi il siluramento di Sbardella, che era ancora il presidente del consiglio di amministrazione del settimanale.
Non c'erano però solo nemici da destra. Nel lungo decennio della contestazione Botteghe oscure divenne agli occhi dei giovani dell'ultrasinistra il vero cuore della controrivoluzione. «In galera si va così/ con l' accordo Dc-Pci», cantavano, sull' aria della "Spagnola", quelli del 77, meglio se passando in corteo non troppo lontano dalla sede comunista. Sono anni, quelli di piombo, in cui Botteghe oscure è la sede del ministero ombra dell'Interno, che a differenza di quello vero al Viminale, dove si alternano continuamente i democristiani, ha un titolare fisso: Ugo Pecchioli, che nelle scritte murali del Movimento figurava con due K, per metterlo a pari di Kossiga.
Si trattava a tutti gli effetti, in quel periodo, di un palazzo di governo. Per questo il 9 maggio del 1978 una Renault 4 rossa attraversò mezza Roma per parcheggiarsi in via Caetani, due traverse più in là del Bottegone, e lasciare nel bagagliaio dell'auto il corpo senza vita di Aldo Moro. La R4 venne lasciata a mezza via tra la sede del Pci e quella della Dc a piazza del Gesù: era la lapide sul compromesso storico. Ma il messaggio delle Br era rivolto soprattutto ai "berlingueriani", i veri intransigenti custodi della linea della fermezza, ostile a qualsiasi trattativa coi brigatisti.
Da una macchina a una valigetta. Dopo il declino degli anni Ottanta e la svolta della Bolognina, è un altro mistero a tenere banco. Entrò o non entrò a Botteghe oscure la valigetta con la tangente Enimont da un miliardo di lire portata da Raul Gardini ai vertici dell'ex Pci? «Entrò, ne sono certo», ha ribadito ancora una volta Antonio Di Pietro nel suo ultimo libro-intervista, che però si rammarica di non essere mai riuscito a dimostrare che fine fece e in che mani arrivò. Chissà, magari è ancora dentro da qualche parte.
Il resto è storia di debiti. Il trasloco nel 1996, gli addii, i libri di memorie, l'insediamento dei consulenti di Ernst&Young. Puro capitalismo. Una profanazione fino a un certo punto. I magheggi delle società del Pci non avevano molto da invidiare alle più complicate alchimie di quella che oggi chiamiamo finanziarizzazione. E poi una vocazione mercantile il palazzo l'ha sempre conservata, anche grazie alla libreria Rinascita. «I locali a pian terreno sono stati in parte affittati per usi commerciali», spiegava il servizio dell'Europeo del 1946 sull'inaugurazione di Botteghe Oscure. In un certo senso, si ricomincia da capo.

il Riformista 19.4.09
Le microspie del Sid nelle finestre aperte
intervista a Francesco Cossiga di Fabrizio d'Esposito


Spionaggio. Francesco Cossiga ricorda le preoccupazioni di Pecchioli per l'attività di ascolto del KGB. I nostri servizi invece avevano comprato il negozio di stoffe di fronte alla sede del Pci. Gli affari andavano bene, producevano reddito e informazioni.

La sede del Pci a Botteghe Oscure, per Francesco Cossiga, non è stata solo un palazzo "vicino" a Piazza del Gesù, dov'erano acquartierati i democristiani. Ma anche un palazzo "cugino", per più di un decennio. Cugino di secondo grado, per la precisione. I nonni materni di Enrico Berlinguer e del presidente emerito della Repubblica erano fratelli, è storia nota.
Presidente, la sua prima volta a Botteghe Oscure?
Fu nel 1972, andai a trovare mio cugino Enrico Berlinguer nel giorno in cui fu eletto segretario. Gli feci gli auguri. Era un breve periodo della mia carriera politica in cui non ero niente, non occupavo cioè alcuna carica istituzionale.
L'inizio di una storia particolare, fatta di amore e odio tra lei e il Pci.
Da parte mia mai odio. E anche da parte loro. Solo Occhetto ha provato odio verso di me.
La richiesta di impeachment ai tempi delle picconate dal Quirinale.
Su cui tanti non erano d'accordo. Giorgio Napolitano, per esempio. Gliene devo dare atto con onore. Lo ha scritto nei suoi diari. Anzi, adesso lo chiamiamo.
Cossiga, seduto nello studio della sua abitazione romana, alza la cornetta del telefono e compone il numero sulla tastiera. Poi si blocca: «Dimenticavo che è in vacanza. Ma è così, glielo assicuro».
Altri amici comunisti non cugini?
Ugo Pecchioli, il loro "ministro" dell'Interno. Quando io andai al Viminale venne da me. Era preoccupato.
Perché?
Aveva il dubbio che Botteghe Oscure fosse spiata dalla stazione italiana del Kgb.
Altra pausa del presidente. Stavolta per esplodere in una risata: «Il dubbio, ha capito? Io avevo la certezza che era così. Altro che dubbio».
E poi?
Lui mi disse: «Tu potresti darci una mano». Gli risposi che non era possibile e che non conveniva al Pci: «Così si scopre che tu hai fatto un accordo con il ministero dell'Interno in funzione anti-sovietica». Però gli diedi alcuni consigli.
Quali?
Di fare attenzione alle donne delle pulizie che raccoglievano i cestini della carta. E di bruciare i documenti più delicati in un posacenere, buttare poi la cenere nel water e infine tirare bene lo sciacquone.
Pure lo sciacquone.
Sì. Nell'allora Germania dell'Ovest avevo scoperto che i servizi segreti tedeschi ricostruivano i documenti dalla cenere.
Botteghe Oscure non era spiata solo dal Kbg, ovviamente.
Certo. Sempre quando ero al Viminale, scoprii che il controspionaggio politico del Sid aveva acquistato un negozio di stoffe di fronte al loro palazzo. Gli affari andavano anche bene, vendevano molto.
Nel negozio che cosa accadeva?
Gli agenti aspettavano che quelli del Pci aprissero le finestre per sparare dentro le microspie. Questa storia durò per un po' di tempo.
Lei andò all'Interno nel 1976, i tempi della solidarietà nazionale.
Fu allora che salii un'altra volta al secondo piano di Botteghe Oscure, dov'era la stanza del segretario. Da mio cugino Enrico mi mandarono Aldo Moro e Benigno Zaccagnini. Era una fase in cui bisognava preparare l'astensione del Pci. In questo caso, la mia missione era di salvare Luigi Gui, inguaiato dallo scandalo Lockeed. Ma Enrico non ne volle sapere. E all'Interno andai io.
Confermato da Andreotti, lei rimase fino al tragico ritrovamento del corpo di Moro.
Nonostante varie rivelazioni degli ultimi tempi, sono sicuro che le Br parcheggiarono in via Caetani la Renault rossa perché a metà strada tra Botteghe Oscure e Piazza del Gesù.
Lei prima ha ricordato l'impeachment chiesto da Occhetto, ma anche suo cugino fece la stessa cosa con il caso Donat-Cattin. Nel 1980 lei era presidente del Consiglio e avvertì l'allora vicesegretario della Dc che il figlio Marco era un terrorista di Prima Linea.
Nella direzione del Pci in cui Enrico mi accusò mi difesero Chiaromonte, Bufalini, Pajetta. Me lo disse il mio grandissimo amico Natta, che mi riferì anche le parole di Pajetta: «Non so cosa abbia detto Cossiga a Donat-Cattin ma so che ha detto a Donat-Cattin niente di più di quello che avrebbe detto a ciascuno di noi qui dentro se avessimo un figlio nelle stesse condizioni».
Ha nostalgia di Botteghe Oscure?
Io provo nostalgia per la Prima Repubblica. Un giorno ero a Milano ed entrai in un famoso ristorante sotto la galleria. C'erano Macaluso e Cervetti. Li vidi e gridai: «Viva la Prima Repubblica». Loro si alzarono e mi salutarono col pugno chiuso scandendo: «Evviva il glorioso partito della Democrazia cristiana, evviva il glorioso Partito comunista, evviva la gloriosa Prima Repubblica». Però sono felice che avete trovato il coraggio di tornare a Botteghe Oscure come giornale. È la riaffermazione di una forte identità riformista.
Troppa grazia, presidente.
È vero, è così. Anzi, dica al direttore Polito che ho un'idea: facciamo un convegno per inaugurare la redazione con D'Alema e Franceschini. Io e Massimo ci mettiamo in mezzo Franceschini e facciamo un bel sandwich. Del resto è l'unico moderato fra noi tre. Io sono un marxista democristiano, D'Alema un marxista comunista.
Povero Franceschini.
È un imbroglione che viene dal movimento giovanile della Dc. Quando per esempio ha detto che i tempi non sono maturi per l'ingresso del Pd nel Pse, significa che in realtà ha già deciso di aderirvi. L'ho capito subito, sa?

Repubblica 19.4.09
Sostituito Barragan, l’anti Englaro e Ratzinger avvia il ricambio in Vaticano
Rinnovamento in vista allo Ior, anche Fazio tra i candidati
di Orazio La Rocca


Il nuovo "ministro" della salute è il polacco Zimowski, ex collaboratore di Benedetto XVI

CITTÀ DEL VATICANO - Grande festa in Vaticano per l´odierno quarto anniversario dell´elezione di Benedetto XVI; ma anche grande apprensione tra i cardinali-ministri del governo papalino, 9 dei quali hanno tagliato - o stanno per farlo - il fatidico traguardo dei 75 anni, per cui a norma di Diritto Canonico devono dimettersi in attesa della sostituzione. Come è avvenuto proprio ieri, col pensionamento del cardinale messicano Javier Lozano Barragan, 75 anni compiuti lo scorso anno, salito più volte agli onori delle cronache per le severe prese di posizioni assunte in materia di morale sessuale, aborto e contraccezione. Tra i suoi più clamorosi recenti richiami, l´accusa di «assassinio» per chi decise di interrompere l´alimentazione di Eluana Englaro, suscitando la ferma reazione del papà Beppino: «E´ una accusa che non si cancellerà mai, ma anche la Chiesa capì che il cardinale esagerava».
Polemiche a parte, il Papa al posto di Barragan ha nominato il vescovo polacco Zygmunt Zimowski, un monsignore che era stato tra i suoi più stretti collaboratori quando era prefetto dell´ex Sant´Uffizio. La scelta di Zimowski è in linea con la tendenza di Ratzinger a circondarsi di uomini di sua fiducia, chiamandoli a sostituire, via via, i prelati di nomina wojtyliana. Come sta succedendo anche allo Ior (Istituto per le opere di religione), la banca vaticana, dove da mesi si sta giocando una partita non meno importante per la successione del presidente Angelo Caloia, il finanziere chiamato 20 anni fa da papa Wojtyla dopo lo scandalo-Marcinkus. Il suo mandato scadrà il prossimo ottobre. Per la sua sostituzione si parla dell´economista vicino all´Opus Dei e collaboratore dell´Osservatore Romano, Ettore Gotti Tedeschi; di Luigi Profiti, direttore dell´ospedale Bambino Gesù, sponsorizzato da Bertone; e Antonio Fazio, ex governatore della Banca d´Italia, sostenuto dal cardinale Giovanni Battista Re.
La prima nomina di Ratzinger fu quella del cardinale Tarcisio Bertone alla segreteria di Stato, suo fido segretario all´ex Sant´Uffizio, che il 2 dicembre prossimo compirà 75 anni, ma è da escludere che il Papa accetterà le sue dimissioni. La stessa cosa, però, non avverrà per altri presuli in età pensionabile. Come, ad esempio, si vocifera per il cardinal Re (75 anni compiuti il 30 gennaio scorso), prefetto dei vescovi, per il quale il sostituto potrebbe arrivare a fine anno. In dirittura d´arrivo anche il cardinale Claudio Hummes (75 anni ad agosto), prefetto del Clero, al posto del quale potrebbe andare il vescovo Mauro Piacenza, genovese, sponsorizzato da Bertone. Altro importante porporato in scadenza, Franc Rodè (75 anni a settembre), prefetto della Vita Consacrata. Chi è invece in prorogatio da ben 2 anni è il cardinale Renato Raffaele Martino, 77 anni ben portati come il collega James Francis Stafford, Penitenziere Maggiore. Martino, ministro di Giustizia e Pace, ed Immigrazione, è il prelato che sta attivamente affiancando il Papa nella stesura della prossima enciclica sociale. Sarà probabilmente sostituito all´indomani della pubblicazione dell´atteso documento, forse a maggio al ritorno di Ratzinger dalla Terra Santa. Tra le candidature più forti per la sostituzione di Martino, l´arcivescovo di Dublino Martin Diarmuid, già segretario di Giustizia e Pace. In partenza anche il cardinale tedesco Walter Kasper, 76 anni, capo del Pontificio consiglio per l´Unione dei cristiani, al posto del quale sono in ballottaggio i cardinali George Pell, australiano, e Appiah Turkson Peter Kodawo, ghanese. Niente sorprese, infine, per altri 2 cardinali pensionabili, Raffaele Farina, Archivista e Bibliotecario, e Paul Josef Cordes, presidente di Cor Unum, il dicastero della carità del Papa, per i quali si parla di possibili proroghe.

Repubblica 19.4.09
Le lezioni di Muti "Vi svelo il mistero della grande musica"
Il maestro contagia l´ascoltatore con la sua meraviglia per l´ "infinito che c´è dietro le note"
di Leonetta Bentivoglio


Da lunedì in edicola con Repubblica o l'Espresso

Vivere la musica: come? Decifrandone gli elementi costitutivi? Analizzandone le strutture? Rintracciando radici e parentele dei brani? O lasciandosi "semplicemente" rapire dall´emozione dell´ascolto? Domande a cui Riccardo Muti offre la sua risposta nelle sue godibilissime lezioni-concerto. Direttore d´orchestra tra i più celebrati e amati del nostro tempo, il maestro esplora, insieme ai suoi giovani musicisti, alcune delle partiture che gli stanno più a cuore. Lo fa in modo colloquiale, discorsivo. Non teorizza: dimostra. Non pontifica: comunica. Evita disquisizioni cattedratiche. E di volta in volta ci guida con generosità e concretezza nel "laboratorio" dell´orchestra e dentro il mondo di un compositore, che si tratti di Mozart e Verdi, molto eseguiti fin dagli inizi della sua straordinaria carriera internazionale, o dell´inventivo e tormentato Berlioz.
Nelle lezioni-concerto che "Repubblica" e "L'espresso" presentano a partire dal 20 aprile (otto dvd al prezzo di 9, 90 euro l´uno, in edicola per otto settimane consecutive, e a ciascuno s´accompagnerà un cd con l´esecuzione integrale dell´opera), Muti, più che un "maestro", è un amico che ci fa accedere alle sue prove per trasmetterci l´irrinunciabile bellezza della musica, messaggera di sentimenti, pensieri e dimensioni "altre", e portatrice di rigore e disciplina nel suo esprimersi tramite quel modello di armoniosa convivenza sociale che è un´orchestra.
Si comincia lunedì con la "Fantastica" di Berlioz, sinfonia «viscerale e imprevedibile», la definisce Muti. Per avventurarsi nella catturante fantasmagoria di questo pezzo il direttore unisce due giovani orchestre: la Cherubini, ensemble di formazione fondato da Muti nel 2004, e la Giovanile di Fiesole. Al genio stravagante di Berlioz è dedicato anche il secondo dvd, col melologo per soli, coro e orchestra "Lélio ou Le retour à la vie", dov´è in scena come voce recitante un attore monumentale (in tutti i sensi) come Gérard Depardieu. Seguono "Le quattro stagioni" da "I Vespri Siciliani" di Verdi e la "Sinfonia n. 8 in Si minore - Incompiuta" di Schubert, mentre la quinta tappa del viaggio propone l´opera "Il ritorno di Don Calandrino" di Cimarosa, che come "Il matrimonio inaspettato" di Paisiello, settimo tassello della collana, figura tra i capolavori "sommersi" del Settecento napoletano, epoca fertilissima per la cultura musicale e determinante per lo sviluppo del teatro mozartiano. Giungono a dimostrarlo proprio queste due opere, da Muti riportate alla luce e presentate con successo a Salisburgo e a Ravenna.
Completano il ciclo il Mozart della "Jupiter" (Sinfonia in Do maggiore K 551), sesto dvd, e la Sinfonia n. 5 in Fa maggiore Opera 76 di Antonín Dvorák, ottava e conclusiva uscita della serie. Ogni volta il direttore commenta, racconta, divaga, ironizza. Svela segreti artigianali. Segnala i diversi colori strumentali e come l´amalgama del suono di due strumenti generi una terza tinta. Narra intenzioni e obiettivi del compositore. Lo colloca nel suo tempo. Contagia l´ascoltatore con la sua perenne meraviglia per l´ «infinito che c´è dietro le note», ovvero l´ultima, ineffabile verità di quel prodigio che è l´universo sonoro. Perché la musica, sostiene Muti, nasconde sempre il suo mistero più profondo: «Non riusciremo mai a catturarlo del tutto».

Corriere della Sera 19.4.09
I rimpianti di Steiner: non ho capito il femminismo
di Nuccio Ordine


Giovedì 23 aprile il grande critico letterario George Steiner compirà 80 anni. E racconta al Corriere idee, passioni e rimpianti: «Mi rimprovero di non aver capito subito l’importanza del movimento femminista, il grande ruolo delle donne nella politica e nella società».
Rimpianti e passioni di un grande critico. «Compresi tardi il ruolo politico e sociale delle donne»
L’autore delle «Antigoni» compie 80 anni. «Leggete D’Arrigo, un gigante»

«Non avrei mai pensato di arrivare al traguardo degli ottant’anni. E solo adesso godo della sorpren­dente gioia di vedere che i miei libri, nel corso dei decenni, mi hanno regalato l’oc­casione di stringere amicizie, affetti, dialoghi inat­tesi... ». George Steiner festeggerà una tappa im­portante giovedì 23 aprile. E mentre una serie di convegni in suo onore e di sue conferenze si an­nunciano in varie università europee — in Inghil­terra, a Nantes, a Firenze e a Roma tra fine aprile e maggio — il grande comparatista ci riceve nella sua casa di Cambridge, dove sul tavolo dello stu­dio campeggiano le prime copie del nuovo libro: una raccolta di articoli apparsi sul New Yorker tra il 1967 e il 1997. «Questo volume — osserva com­piaciuto, alludendo al suo amore per l’Italia — è già in cantiere da Garzanti. Si tratta di una storia, a ritroso, che documenta trent’anni della mia attivi­tà di critico. Non potrò mai dimenticare che un giorno mi telefonò un redattore del Times Lite­rary per chiedermi se Paul Celan fosse uno pseudo­nimo: il mio articolo fu uno dei primi in inglese su uno dei più grandi poeti del Novecento, allora completamente sconosciuto».
L’episodio di Celan apre lentamente la strada, come una proustiana madeleine, a una serie di ri­cordi in cui assieme alle grandi soddisfazioni con­vivono nostalgie e rimpianti. «Proprio in questi ul­timi anni — aggiunge Steiner — mi capita sempre più di riflettere su alcune cose che avrei voluto fa­re e non ho fatto. Avrei voluto, per esempio, intra­prendere una carriera scientifica, bloccata sin dal­l’inizio dalla difficoltà a superare i primi esami di matematica. Avrei voluto continuare a studiare l’ebraico, che abbandonai da ragazzo per imparare greco e latino. E, adesso, alla fine del mio percor­so, questa lingua mi manca, perché la cultura ebraica ha segnato tutta la mia esistenza». «E so­prattutto — sottolinea con una smorfia l’autore delle Antigoni — mi rimprovero di non aver capi­to subito l’importanza del movimento femmini­sta. Ho letto Simone de Beauvoir, ma non ho com­preso il grande ruolo che le donne avrebbero avu­to nella politica e nella società. Né ho saputo preve­dere il peso che la rivoluzione elettronica avrebbe avuto nel linguaggio e nella comunicazione, fino al punto da mettere in crisi il libro e la lettura...».
Ma quando si tracciano bilanci è inevitabile il confronto con scelte ed errori che hanno condizio­nato il corso di una vita. «Partendo dal presuppo­sto che è sempre difficile distinguere con chiarez­za se abbiamo scelto o se siamo stati scelti — ri­prende Steiner, accarezzando affettuosamente il suo cane Benn — mi sono spesso interrogato su decisioni che hanno tormentato un po’ tutta la mia vita. Avrei dovuto accettare di ritornare in America, dove vivono i miei figli e i miei nipoti? Sono stato tentato più volte di farlo. Ma due ragio­ni mi hanno spinto a restare in Europa. La prima riguarda l’amore per le lingue che io pratico. La seconda, molto più profonda e decisiva, è legata alle mie origini ebraiche: andare in una grande università americana, mi diceva mio padre, avreb­be significato far vincere quei nazisti che avevano giurato che nessun piccolo Steiner avrebbe inse­gnato in una università europea. Però talvolta, di fronte al declino morale e politico di questo no­stro vecchio continente dove la speranza sembra spegnersi, mi assale il dubbio di aver commesso un errore».
George Steiner, la cui voce da decenni è al cen­tro del dibattito sulla letteratura e sul destino della critica, non ha nessuna difficoltà a ricordare an­che le sconfitte assieme alle battaglie vinte. «Spes­so mi rimprovero di non essere riuscito a far com­prendere la grandezza di un gigante come Stefano D’Arrigo. Se si legge Joyce non si può non leggere Horcynus Orca. Purtroppo, nonostante i miei sfor­zi, anche in Italia solo in pochi hanno letto questo capolavoro. In altre occasioni, invece, il tempo mi ha dato ragione. Quando mostrai il mio entusia­smo per Il quartetto di Alessandria di Lawrence Durrell mi presero in giro: adesso però, quasi al­l’improvviso, è scoppiato il successo e le sue opere occupano un posto di rilievo nelle librerie. Un di­scorso a parte merita Walter Benjamin. Oggi è un mostro sacro. Ma io ho lottato per lui, verso la fine degli anni Quaranta, in un momento in cui i suoi testi non circolavano. Per caso, da un antiquario, trovai la sua tesi sulla tragedia: capii subito che si trattava di un genio...».
Adesso, tra i libri non scritti, Steiner aggiunge­rebbe al suo penultimo lavoro (I libri che non ho scritto, edito lo scorso anno da Garzanti) un nuo­vo capitolo dedicato al premio Nobel. «Ho sempre desiderato riprendere e sviluppare un mio vecchio articolo, apparso negli anni Cinquanta sul New York Times, con un titolo sarcastico: 'Nobel obli­ge'. Ho sempre avuto profondi dubbi sulla sezione dedicata alla letteratura. La lista dei giganti esclusi lascia senza parole — Joyce, Musil, Kakfa (l’aggetti­vo kafkiano viene usato in più di cento lingue!)— mentre hanno ricevuto il premio anche scrittori di terzo e quarto ordine. Credo che in questo campo contino molto le pressioni politiche e gli intrighi. Un discorso a parte meritano i Nobel assegnati nel campo scientifico. Molti miei colleghi titolati di Cambridge mi dicono che, su quattrocento Nobel, si possono avere dubbi in tre o quattro casi. Nelle scienze è più facile misurare il valore delle scoper­te».
Un posto particolare nei ricordi di Steiner occu­pano i seminari del giovedì, tenuti per diversi de­cenni all’Università di Ginevra. «Mi manca tantissi­mo l’insegnamento. Ricordo con commozione quella scena: io, un gruppo di fedelissimi e un clas­sico sul tavolo. Ancora oggi ho un calendario pie­no di conferenze e di conve­gni. Ma non è la stessa cosa. Manca l’elemento dialettico della lettura assieme. E una delle più grandi ricompense per me è stato vedere alcuni di questi allievi diventare illu­stri professori in prestigiose università».
Adesso la conversazione scivola velocemente sugli in­contri con alcuni grandi pro­tagonisti del Novecento che hanno condizionato la storia del pensiero. «Confesso che talvolta, per una pau­ra interiore, ho evitato di incontrare studiosi che mi affascinavano. Non volevo che mi deludessero. Più volte avrei avuto la possibilità di incontrare Heidegger, ma non ne ho avuto il coraggio. In al­tre situazioni, invece, le conversazioni con Lévi-Strauss o con Scholem, solo per citare qual­che nome, hanno lasciato un segno indelebile...». Ma George Steiner è abituato a smentire se stes­so. E, nonostante i suoi ottant’anni, non ha nessu­na intenzione di rinunciare a scrivere. «Adesso sa­rebbe troppo arduo — dice sulla soglia di casa, un momento prima del saluto — concepire un proget­to organico. Ma sto riflettendo sulla poetica del pensiero astratto. Sogno di pubblicare un libro con un’epigrafe tratta da una frase di Wittgen­stein: 'Tutto questo avrebbe dovuto essere detto in versi"».

Corriere della Sera 19.4.09
Inediti. L’ossessione per la bellezza e la gioventù in una lettera-racconto del 1935
Costringerò i fiumi a scorrere in salita
Henry Miller e il grande romanzo americano «Un’anima senza muscoli, serve un’alluvione»
di Henry Miller


La donna americana ha solo un’espressione, è come un juke-box dove metti una moneta

Scendendo a piedi per Broadway ho notato quanto la strada fosse infestata di puttane. Non le vecchie peripatetiche del 1908 e ’10, dico le giovani senza calze, magre, linde, vi­vaci, con boa in pelliccia di scimmia o puzzola che gli pendono dal collo. Balzano fuori dai vicoli laterali con la sigaretta fra le labbra e si fer­mano un attimo a guardare perplesse la via Appia. Ti guardano come se non ci fos­si, mica voluttuose e provo­canti e sessuali e sensuali, ma con quell’occhio annoiato che ti ipnotizza come la fiac­cola di acetilene sui binari del tram di notte.
La donna americana ha so­lo un’espressione, che sia una puttana o una duchessa. Le donne europee hanno mi­gliaia di espressioni diverse. La ragazza americana ne ha una sola. E cioè il fascio di lu­ce di un proiettore, che ti prende alla spina dorsale ma non emette calore. Sa di denaro contante e velocità e condi­zioni igieniche. Ubriaca o so­bria, è la medesima cosa. Non è sesso, è la luce di un potente dispositivo nascosto nel lobo posteriore del cervel­lo, appena sopra il midollo al­lungato. È come un juke-box, che ci metti una moneta, co­me un distributore di gom­me da masticare, come uno di quei contatori del gas che hanno a Londra. Metti la mo­neta, trema tutto, fa prrrr e si scuote, e dopo un ronzio si ac­cende la luce, rimane accesa quel tanto che basta per leg­gere cosa c’è scritto, e subito si spegne. E non credere che ti vengano ad adescare. Ah no! Se ne stanno lì nella te­traggine delle uscite degli ar­tisti, e all’improvviso, appena ti scorgono, con un balzo ti si affiancano, sempre più vici­ne, sempre in parallelo, fian­co a fianco, finché le vostre braccia non si toccano, e poi si toccano i fianchi, e quando vi siete strusciati ben benino, come un paio di vecchi gattac­ci randagi, ti lasciano aprire bocca per fare un’offerta, e ancora camminano, sempre con noncuranza, blasé, indif­ferenti, fredde come cemen­to, camminano su tacchi di gomma col rigido passo degli americani come se un giorno dovessero arrivare da qual­che parte, e allora perché non arrivare qui dietro l’ango­lo mi compri un drink no be’ allora tanti saluti e vai all’in­ferno.
Dall’ultima volta che sono stato a New York, ogni cosa è ringiovanita, puttane compre­se. Conta solo la giovinezza. Le vecchie puttane le portano al mattatoio e le trasformano in corregge e finimenti e im­pugnature di cuoio. Broad­way è in mano ai giovani, per ciò che concerne l’elemento femminile. I maschi possono essere di mezza età, pelati, grassi, amorfi, strabici, scolio­tici, biliosi, incimurriti, asma­tici, artritici — ma le donne devono essere giovani! Devo­no essere giovani e fresche e sode e fatte per durare, come i nuovi palazzi, i nuovi ascen­sori, le nuove automobili, i coltelli e le forchette in accia­io inox che non si rovinano mai e sono appuntiti ed effi­caci come lame Gorham in ar­gento. Broadway è piena di avvocati e politici mascelloni e occhi di lince, tutti vestiti al­la perfezione, colletti bianchi inamidati, cravatta abbinata, taschino all’ultimo grido. Hanno tutti i pantaloni con la piega e scarpe lucidatissime.
Crisi o non crisi, nessuno porterebbe un cappello del­l’anno scorso. Nessuno è sprovvisto di fazzoletto puli­to, lavato con cura e avvolto in un portafazzoletto sigilla­to. Quando ti fai spazzolare i capelli dal barbiere, dopo lui manda la spazzola a fumigare e poi la reincarta nel cellopha­ne. Il panno che ti mette attor­no al collo viene spedito dirit­to in lavanderia — grazie a condotti pneumatici che glie­lo riconsegnano il mattino se­guente. Per tutto c’è il servi­zio in giornata, che ciò sia ne­cessario o meno. Le cose ti ri­tornano indietro così presto che non hai il tempo di gua­dagnare il denaro con cui pa­gare il servizio di cui non hai bisogno. Se piove puoi lo stes­so farti lucidare le scarpe — perché il lucido protegge con­tro le macchie da pioggia. Ovunque vai ti danno una spuntata ai capelli. Sei nella macchina fabbricasalsicce e non c’è modo di uscirne... a meno che non ti imbarchi e vai altrove. E anche allora non ne hai la certezza perché il mondo sta diventando ame­ricano al cento per cento. È una malattia.
Tutto ciò mi porta a parla­re del grande romanzo ameri­cano - Il fiume e il tempo - attualmente pubblicizzato su­gli autobus della Quinta Ave­nue. Trattasi di uno di quei grandi romanzi americani che vengono sempre annun­ciati come il grande romanzo americano per poi finire di­menticati nel giro di un mese perché le travi dell’impalcatu­ra sono marce e cadono a pez­zi. Come tutti gli altri grandi romanzi americani anche questo è un riempitivo. Il tem­po e il fiume sono persi nello spazio. Ci sono tre dimensio­ni, manca la quarta. È una Comédie humaine che ha Hannibal, nel Missouri, come centro vitale. Prolifera come prolifera un cancro. Non bru­cia, né rutta, né sfrigola, non produce vapore né fuoco né fumo. Come tutti i grandi ro­manzi americani, comincia dall’alluce — e procede verso l’alto. Mentre viaggi lungo la tibia, già ti perdi. Ti perdi nei follicoli di quei peli superflui che le donne americane non fanno che rimuovere dalle gambe e dalle braccia. Un li­bro davvero grande comincia dalla cintola e da lì si espan­de. Comincia vitale e finisce vitale. È vitale in ogni mo­mento. Ha un’architettura non perché desidera riempi­re lo spazio ma perché la fa­me e la fede richiedono qual­cosa di monumentale, una te­stimonianza, un simbolo con­creto e un luogo dove riposa­re. Forse non rendo giustizia a questo grande romanziere americano: ammetto di aver letto solo una quarantina di pagine. Ma in quaranta pagi­ne un uomo, o la sua anima — ammesso che ne abbia una — deve essersi già scalda­to i muscoli. È vero, qualche picco emotivo c’era; ma era­no come affreschi sovrabbon­danti da guardare con la coda dell’occhio durante una mara­tona. Tutto troppo orrenda­mente genealogico per piace­re a me! Detesto ogni libro che va in ordine cronologico, che comincia dalla culla e fi­nisce nella tomba. Nemmeno la vita funziona a quel modo, checché ne pensi la gente. La vita comincia veramente solo nell’ora della nascita spiritua­le — che può avvenire a di­ciotto anni come a quaranta­sette. E la morte non è mai l’obiettivo — ma la vita! anco­ra vita! Qualcuno deve lancia­re un forcone in questo fiu­me dello spazio-tempo che hanno creato gli americani; bisogna costringere i fiumi a scorrere in salita, controcor­rente. Come il fiume St. Jo­nes! Qui, non appena vengo­no creati nuovi fiumi, si co­struiscono nuovi argini per contenerli — per farli lavora­re, perché rendano. Abbiamo bisogno di un’alluvione, e so­lo allora avremo limo ricco su cui lavorare. Non ci servo­no romanzi genealogici, o la storia del continente america­no visto con gli occhi della fa­miglia del Robinson svizzero. Qualcuno deve lanciare una chiave inglese nel meccani­smo. E sento di essere io, Jo­ey, la persona che farà scorre­re i fiumi in salita. Lo devo al bufalo americano e al pelle­rossa, alla memoria di Mon­tezuma e Quetzalcoatl. E per raggiungere lo scopo mi so­no già mozzato la testa.
Camminerò nella pubblica strada, preferibilmente Broadway, con la testa in ma­no e le pompe di benzina che ruttano il loro dolciastro feto­re. Camminerò per la strada con la testa in mano e guarde­rò le cose da una prospettiva astrologica. Già mi sento più leggero, più elastico, più alle­gro. Forse lascerò la mia testa a Villa Seurat e me ne andrò in giro per Broadway col re­sto del corpo. Porterò con me il libro, un grosso libro di fer­ro agganciato alla cintura. Ci annoterò le cose strane. Sarò l’altissimo prelato del grande romanzo americano che cor­re in salita per la prima volta dagli albori della creazione... e spedite dei buoni prosciutti di Westfalia a Gerusalemme, per favore!
(Traduzione di Francesco Pacifico) © The Estate of Henry Miller

In libreria per Minimum Fax
Viaggi, ribellioni e una missione: indicare la strada per l’eternità
Irriverente, provocatorio, anarchico. Sprezzante, insolente, arrogante. Henry Miller attraversa gli anni 30 con la forza e l’energia di un uomo profondamente innamorato della vita. E quando non si muove scrive, scrive, scrive. Così fra Tropico del Cancro e Tropico del Capricorno, spostandosi dalla Francia all’America (e ritorno) scrive questa deliziosa lettera-racconto al suo caro amico Alfred Perlès. Il testo (datato 1935), fino ad oggi inedito in Italia, viene ora tradotto da Minimum fax con la cura impeccabile di Francesco Pacifico (Parigi-New York andata e ritorno, introduzione George Wickes, pp. 152, e12). Il brano che qui anticipiamo è un esempio luminoso dell’arte di Miller, acuto osservatore della società americana, capace di cogliere prima di altri crisi e cambiamenti. Su tutto si avverte un antico ottimismo: «Camminerò per la strada... Già mi sento più leggero, più elastico, più allegro». E la consapevolezza di una missione. Parole che richiamano l’anima del grande bardo americano, Walt Whitman.


il Riformista 19.4.09
Disobbedire e combattere
Il manuale del partigiano
di Stefano Ciavatta


RESISTENZE. In libreria il "Libretto rosso dei partigiani", ristampa di una raccolta clandestina del 1943 che istruiva a sabotare la macchina bellica hitleriana. Un efficace elenco di graffianti parole d'ordine per «far sentire la nostalgia ai tedeschi». Affinché, con sano pragmatismo, si vincesse «al più presto».

«Non c'è un campo dove si possa sabotar meglio lo sforzo di guerra tedesco che quello ferroviario. I ferrovieri sono gente attaccata al dovere, e il dovere in tempo di guerra, della guerra di Hitler contro i civili, i ferrovieri sanno bene in che cosa consista. Meglio essi lo sanno, meglio potranno compiere il loro lavoro, in modo che i tedescacci siano i soli a soffrirne, e non i nostri compatrioti, e perché la Gestapo si disperi invano a scoprire gli autori dei sabotaggi. Uno dei mezzi migliori per frenare lo sforzo di guerra tedesco consiste nell'applica alla lettera i regolamenti».
Nel 1943 in Italia i treni non dovevano più arrivare così in orario come recitava l'orgoglio mussoliniano. E allora poteva capitare che qualcuno tornasse a sfogliare con ansia e nostalgia l'orario generale delle Ferrovie dello Stato, per ritrovare un ordine di collegamenti e di cause effetto in un paese diviso in due dall'armistizio che aveva riconosciuto «l'impossibilità di continuare l'impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria» e che «nell'intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione» era stato offerto al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. Un libretto inutile allora? Non per tutti. Infatti sul finire dello stesso anno, diffuso in maniera ovviamente clandestina, iniziò a circolare un libretto con la copertina presa in prestito proprio dall'orario generale delle Ferrovie dello Stato. Si trattava di un manuale di resistenza, sabotaggio e guerriglia antifascista.
È il Libretto rosso dei partigiani che Purple Press ripubblica in questi giorni (a cura di Cristiano Armati, introduzione di Ferruccio Parri, 128 p., euro 9,90). Non è il resoconto personale di un partigiano scritto a posteriori, né un testo di propaganda di partito, non è un romanzo, non è una raccolta di lettere dal carcere: è un manuale di sabotaggio alla macchina industriale bellica tedesca.
Sulla quarta di copertina di questa edizione campeggia una frase del Presidente partigiano, Sandro Pertini: «Ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire». Un diktat che rende l'idea della forza di volontà di chi intende resistere e che però usa un termine teatrale come dilemma, e un verbo arcaico, perire. C'è qualcosa di ufficiale, di retorico. Di filtrato. Sembra una frase già nata come citazione, che debba durare in eterno, come una scrittura su una lapide. Non se ne vuole fare una colpa al presidente delle sei condanne e due evasioni, ma il libretto rosso usa un altro linguaggio e rompe con tutta la tradizione della nostra memorialistica. Non esibisce nulla alla luce del sole, a mo' di sfida. E non avrebbe potuto, perché non poteva essere letto in pubblico o con compiacimento moralistico. Ma solo con la dovuta attenzione privata che si riserva a un libretto delle istruzioni.
Sul dorso del manuale del 1943 erano riprodotte le pubblicità di varie aziende: motori a scoppio, diesel e marini della ditta Bombardini di Reggio Emilia, i motori, i ventilatori, e le pompe funebri per nazisti di Pellizzari di Arzignano (Vicenza), le scrematrici per latte e i separatori per olio della Frau di Thiene, le macchine per conserve di Mancini Tito e figli di Parma, le macchine per scrivere della Olivetti. Non è un caso. È proprio ai lavoratori di queste aziende, dagli operai ai tecnici, agli ingegneri, perfino ai dirigenti, che il manuale deve servire. «Scarpe rotte eppur bisogna andar?» No, a nessuno viene chiesto di salire in collina e di darsi alla macchia. È la loro quotidianità di lavoratori che può servire alla causa. Una causa che in novanta pagine raramente attinge al dizionario retorico, ma si mantiene legata sempre al presente. Nessuna paura, né speranza aleatoria di vincere «che questo ormai è ben certo» ma la certezza che così resistendo si potrà «vincere più presto», con sano pragmatismo.
Non si va a cercare la bella morte con questo manuale di sabotaggio. Non c'è sacrificio: «i pericoli e gli incidenti sono minimi». E tali devono rimanere. Perché non si tratta di arrivare a maneggiare armi che sono illegali, preziose perché costano sul mercato nero, difficili da custodire e naturalmente insolite da maneggiare. Le armi sono quelle dell'intelligenza, non è necessaria l'uniforme per sabotare: «Tutti i motori elettrici sono sensibilissimi all'acido cloridrico o al solforico, l'acido nitrico o l'acqua regia. Un battesimo con uno di questi acidi permette in realtà a un motore elettrico di riposarsi tranquillamente fino alla fine dei suoi giorni».
Il manuale, dai titoli rapidi e sintetici, è un elenco argomentato di parole d'ordine: manomettere danneggiare, interrompere, mescolare, togliere, aggiungere, levare, inserire, distruggere, omettere, dimenticare, mollare, accelerare, consumare. Ogni granello di sabbia è utile per inceppare il meccanismo bellico tedesco, soprattutto a portata di mano, sotto gli occhi di tutti. Dai sostenitori della fortezza della razza ariana bisogna pretendere analogo trattamento: «Per fare un buon lavoro occorre buon nutrimento: questa deve essere la più imperiosa delle esigenze degli operai italiani che lavorano coi tedeschi. Non avranno niente da rispondervi. Ci saranno una ventina di manuali di medicina scritti dai più illustri medici tedeschi che hanno sviluppato queste teorie».
L'invito del manuale non è solo un fatto etico che scavalca subito il come fare privilegiando il perché fare. Un passo verso un'Italia migliore? Forse, ma l'importante è che adesso questa Italia sia pignola. Se non tedesca almeno svizzera: ogni imperfezione della macchina industriale deve essere alimentata dagli operai, ogni imperfezione della macchina industriale deve essere segnalata dei dirigenti. L'intelligenza che acquista la forza inerziale dell'ottusità ricorda l'atteggiamento del villaggio gallo di Asterix: «Bisogna cogliere la minima occasione per fare lunghe discussioni sui particolari degli ordini. Quanto alla puntualità e alla rapidità delle consegne sarà bene non precipitarsi; e lavorare di fantasia per le scuse: ce ne possono essere a centinaia». L'appello implicito nel manuale deve smuovere le coscienze? Scosse lo sono già, e un'Italia semplicemente occupata basta e avanza. Quindi i tedeschi, «gli Unni della maledetta guerra hitleriana», e «quel sottotedesco che si chiama fascista» sono da cacciare come un cattivo inquilino in affitto. Con ogni mezzo necessario, compresa la nostalgia. Devono avvertire «l'Effetto deprimente di un'atmosfera ostile» come recita il primo capitolo (un titolo alla Harold Pinter): «Bisogna far sentire loro la nostalgia. Prima di tutto faremo commettere ai tedeschi che hanno la responsabilità dell'amministrazione della nostra patria una serie di errori che non si produrrebbero se i bravi nazisti fossero di buon umore e conservassero il sangue freddo. I dipendenti e i subordinati tedeschi di ogni grado, maldestramente comandati, avranno ben presto uno stato d'animo ostile verso i loro superiori. Ciò significa demoralizzazione in alto ed in basso». E l'ipotesi che a demoralizzarsi potessero essere gli italiani? Il manuale la dribbla scarta con efficace garbo: «Ci vuole un po' di coraggio, è vero. Ma anche per sostenere un'incursione aerea massacrante ci vuole una forte dose di coraggio. Non vi sembra?».

il Riformista 19.4.09
Un amore di Edda Ciano sull'isola di Lipari nel 1946
di Marco Ferrante


Trama. A guerra finita, ventuno mesi dopo la morte del marito e cinque dopo la morte del padre, la figlia di Benito Mussolini arriva nel capoluogo dell'arcipelago eoliano, al confino, nello stesso posto dove erano stati tenuti gli avversari del fascismo. Qui incontra un leader comunista locale. Nasce una grande passione, che Marcello Sorgi racconta in un libro appena uscito per Rizzoli.

Il grande amore ha bisogno - quasi sempre - di compimento simbolico. In questo libro di Marcello Sorgi, Edda Ciano e il comunista (Rizzoli, pag. 143, euro 18,00) si racconta di un grande amore e del gesto commemorativo che ne seguì, abbastanza straordinario e imprevedibile.
Nel 1971, Leonida Bongiorno, consigliere comunale a Lipari, la più grande delle isole Eolie, convinse il consiglio a concedere l'autorizzazione per costruire in mezzo al paese un muro su cui fissare una lapide. La lapide reca l'incisione di 14 versi dell'Odissea. Dodicesimo canto, la maga Circe indica a Ulisse la rotta per Itaca e descrive le rupi erranti, i Faraglioni di Lipari. Quando l'ultimo verso finisce, ecco una dedica: «A Ellenica - L.B. gennaio 1971». È una dedica d'amore. L.B., Leonida Bongiorno, è un leader comunista liparota. Sottotenente degli alpini durante la seconda guerra mondiale, ed ex partigiano. È il figlio di Edoardo, fascinoso ed eccentrico personaggio locale: musicista, socialista, antifascista (ma protetto a suo tempo - si dice - da una remota amicizia con Benito Mussolini), ha aiutato Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Fausto Nitti a fuggire dal confino di Lipari, con un motoscafo che li porterà in Francia, dove otto anni dopo Rosselli con suo fratello Nello morirà ucciso dai sicari fascisti. Dal padre, Leonida eredita - tra l'altro - la passione politica.
Ellenica è un nome amoroso, è uno psedudonimo da schermaglia seduttiva, un alter ego sentimentale, una maschera di protezione, un artificio. Dietro la maschera c'è Edda Ciano, figlia di Benito Mussolini. Arriva a Lipari, nel settembre del 1945. È appena uscita da un manicomio svizzero, la Svizzera la espelle perché non desiderata. Suo marito Galeazzo, già ministro degli esteri, già congiurato del 25 luglio, è stato fucilato meno di due anni prima; suo padre da pochi mesi, cinque. I tre figli, Fabrizio, Raimonda e Marzio, sono rimasti in Svizzera. Lei è stata portata al confino, lo stesso luogo degli avversari del regime, a Lipari. Ha trentacinque anni, pesa quarantadue chili, non mangiava e beveva poca acqua. All'inizio del soggiorno isolano vive sotto la protezione della signorina Maria Giuffrè. Una sera di ottobre, all'uscita della messa, assiste a una prova oratoria di Leonida. Scrisse Leonida in un diario: «Conobbi Ellenica una sera. Al termine di una violenta dimostrazione per le vie del paese, in cui avevo potuto calmare gli animi con poche e semplici parole d'occasione. Ellenica chiese gentilemente di me alla signorina Maria Giuffrè, che l'accompagnava. Fui chiamato. Le fui presentato». Lei ha bisogno di un appoggio. Da parte di lui, si sviluppa prima una forma di protezione morale, cavalleresca, complessa, al tempo stesso risarcitoria e ammirata, timida (non solo socialmente), ma mascolina. Leonida la sistema in una casa sua di proprietà, al Timparozzo, che lei ribattezzerà la Petite Malmaison. Lì nasce l'amore. E' un grande amore che durerà per un anno e mezzo, e si protrarrà in uno strascico psicologico di raffinata emotività.
Questa è la storia molto bella, sorprendente e intensa, che Sorgi ha riportato alla luce del sole eoliano, nell'estate dell'anno scorso. Come accade qualche volta, la storia di una scoperta è un romanzo nel romanzo, e viene raccontata nel prologo. Sorgi, appassionato del mare delle Eolie, nell'agosto del 2007 era andato al centro studi eoliani di Lipari per incontrare uno dei responsabili. Aveva in mente un lavoro sugli antifascisti al confino. Gli fu suggerito un altro soggetto, «una vicenda che nessuno è mai riuscito a esplorare e che farebbe molto riflettere». Fu messo sulle tracce del figlio di Leonida, Edoardo (come il nonno), detto Edoardino, appassionato di antiquariato locale, titolare dell'Hotel Oriente, un albergo a trecento metri dal porto con un piccolo giardino di bouganville e ibiscus e pieno zeppo di citazioni ornamentali dell'etnografia locale. Dopo un impercettibile e siciliano corteggiamento - Sorgi è palermitano - Edoardino che in un primo momento era sembrato restìo, concede al giornalista importante e di fama - che è stato direttore del Tg1, del Gr e della Stampa - il cuore della storia: il permesso di visionare il carteggio tra Edda Mussolini e Leonida suo padre. Le lettere sono custodite in un incartamento, avvolte in vari strati di cellophane e carta. L'amore che le aveva generate si risveglia con loro. E la narrazione prende forma, romanzesca, ma anche nitida, precisa, controllata con uno stile e una tecnica che va molto oltre il mestiere giornalistico.
Come tutte le storie costruite sui carteggi, la sua forza sta anche nell'energia autonoma dei personaggi (come dimostra, per esempio, un altro libro sorprendente uscito l'altr'anno, Una parentesi luminosa di Marella Caracciolo Chia sul carteggio amoroso tra Umberto Boccioni e Vittoria colonna). Edda Ciano è stata - insieme a Virginia Agnelli e a Maria José di Savoia - il personaggio femminile italiano più drammatico dell'altro secolo. In lei, simbolo di un'epoca, interprete di un'energia popolare che si fa potere, classe dirigente, stile mondano, femminilità consapevole, si ritrovano tutti gli archetipi della tragedia: il potere caduco e la sconfitta, l'impero, la tirannia, l'amore per un uomo e l'amore per il padre, la lacerazione, il tradimento, il marito traditore che muore per ordine del padre amato, e il padre ucciso e poi straziato dallo stesso popolo che lo aveva adorato (Edda avrebbe detto in seguito che poiché «si odia particolarmente ciò che si è molto amato, io sostengo che lo scempio di piazzale Loreto fosse ancora un gesto d'amore»). In questo libro, Edda appare nella sua stagione più drammatica:dieci mesi di terribile solitudine, in cui i fantasmi del marito e del padre, convivono oscuri - in lunghe giornate di alcool e di sigarette incessanti - con un sentimento ascendente, luminoso e salutare per un uomo vitale, allegro, fisico, protettivo e anche capace di giocare la commedia energetica dell'amore. E' un comunista, dunque un avversario nella finzione della battaglia amorosa, ma è anche uno strano tipo di uomo, nato in una piccola isola che ha imparato in viaggio il francese e l'inglese, e in francese e in inglese si scrivono.
Nelle ultime pagine del libro, l'interruzione dell'amore e l'analisi dell'epilogo costruito su un acuto psicologismo sono un piccolo saggio dell'amore impossibile, della «malinconia durata tutta una vita». Su un'altra isola, Capri, Edda vivrà un altro amore con il gioielliere Pietro Capuano, il proprietario di Chanteclair, la cui vetrina è uno dei superstiti della vecchia Capri sulla via Vittorio Emanuele.
A Lipari, invece, da cui Edda se ne va nel giugno del 1946, come nei romanzi amati, la bellezza delle circostanze è più forte della mancanza di lieto fine: «Mai scampò nave d'uomini che qui capitasse, ma tutto insieme, carcasse di navi e corpi d'uomini l'onda del mare che furia d'un fuoco mortale travolsero». A Ellenica - L.B. gennaio 1971.

il Riformista 19.4.09
Sahara, arte a rischio tra vandali e incuria
di Savino di Lernia


ALLARME. Alcune antichissime pitture nel Tadrart Acacus sono state imbrattate da ignoti. Un danno inestimabile contro una "cappella sistina" dell'antichità, patrimonio dell'Unesco. La Missione archeologica della Sapienza a Tripoli fa il possibile. Ma i turisti sono sempre di più. E i siti sempre meno protetti.

La prima e-mail arriva tre giorni fa: una collega, amante del deserto e conoscitrice di ogni piega dell'Acacus, nel cuore del Sahara libico, mi accenna ad un episodio di vandalismo contro alcuni dipinti di età preistorica. Poi una serie concitata di telefonate, messaggi sms, e la casella di posta del sito web della missione intasata di lettere dei (tanti) turisti che visitano le pitture rupestri del Sahara, da oltre venti anni Patrimonio Unesco dell'Umanità. Se all'inizio pensavo fosse un tamtam non del tutto fondato - come spesso accade per le cose africane, e libiche in particolare - la telefonata concitata del Presidente del Dipartimento delle Antichità di Libia, Giuma Anag, ha spazzato via ogni dubbio. Alcune siti nella zona di Wadi Awiss nel Tadrart Acacus, con pregevolissime pitture di età neolitica, sono stati imbrattati, non si sa ancora bene se con vernice spray, o con l'olio esausto di uno dei tanti fuoristrada che ogni giorno trasportano centinaia di turisti a visitare le testimonianze di civiltà antichissime: per usare una metafora abusata, una delle straordinarie "cappelle sistina" dell'umanità più antica.
Non sappiamo ancora molto - a parte che l'entità del danno è ingente, diversi metri di roccia dipinta completamente devastata -, certo è che quel che è avvenuto alcuni giorni fa potrebbe ripetersi, danneggiando in modo irreparabile altri contesti. Le pitture e i graffiti sono accessibili a chiunque, basta un semplice desert pass che costa pochi euro, e i controlli sono affidati a poche pattuglie di polizia turistica che devono coprire un territorio enorme, oltre 6mila kmq. Il Dipartimento di Archeologia di Tripoli sta organizzando una spedizione per verificare l'entità del danno: alcuni restauratori, al seguito della Missione Archeologica Italo-Libica della Sapienza, valuteranno le possibilità di ripristino, che appaiono per ora assai remote.
Le montagne dell'Acacus, al confine tra Libia e Algeria, nel cuore del Sahara, sono un luogo di formidabile bellezza, pinnacoli di arenaria rossastra incisi da ampie vallate sabbiose. Qui, lungo i tracciati di fiumi estinti, si snodano quasi senza soluzione di continuità decine di grotte e ripari decorati con pitture e graffiti di età neolitica, risalenti cioè ad un periodo tra 10000 e 3000 anni fa. Queste pitture, aldilà della notevolissima raffinatezza e maturità artistica, rivelano tratti scomparsi di civiltà sahariane con ricchezza di particolari e minutezza di dettagli, invisibili alla normale ricerca archeologica.
Da oltre cinquant'anni, la Missione Archeologica Italo-Libica della Sapienza lavora in strettissima collaborazione con il Dipartimento delle Antichità Libiche in queste regioni, mappando e documentando un patrimonio di livello straordinario. Graffiti e pitture rappresentano un antico universo completamente scomparso: animali di savana, popolazioni di etnie diverse, attività di allevamento di bovini istoriano con una densità senza pari le vallate di queste montagne sahariane. Le pitture, eseguite con pennelli finissimi adoperando ocre di varie tonalità, dal rosso al verde, sono certamente il cuore dell'arte sahariana, e i dipinti deturpati dell'Awiss non fanno eccezione: figure umane, personaggi armati, giraffe, oramai invisibili sotto uno spesso strato nerastro.
Le ricerche archeologiche italiane - lente, complesse e delicate - hanno rivelato alla comunità scientifica internazionale un luogo di importanza speciale per comprendere e meglio posizionare le dinamiche del popolamento umano in Africa settentrionale. Si è realizzato, in questo lembo di Sahara, uno di quei miracoli tipicamente italici, dove l'intreccio quasi casuale di capacità, competenze e coraggio ha di fatto prodotto - come mi diceva tempo fa Claudio Pacifico, allora Ambasciatore a Tripoli, e oggi al Cairo - una delle eccellenze culturali in campo internazionale. In oltre mezzo secolo, la Missione ha lavorato continuativamente ed efficacemente, indipendentemente dalla temperatura, spesso bollente in superficie, a dalle relazioni politiche bilaterali.
Da alcuni anni, e in particolare dopo l'abolizione dell'embargo, la Libia è tornata prepotentemente alla ribalta internazionale e il turismo, come naturale conseguenza, è cresciuto in modo formidabile: sono oltre 120mila le persone che ogni anno, da settembre a maggio, passano in queste regioni per ammirare la bellezza di un'arte antichissima e drammaticamente fragile. Esposta ai danni del clima desertico, alle terribili escursioni termoclastiche, alla violenza del vento, oggi l'arte rupestre dell'Acacus deve subire un ulteriore sfregio, fatto di vandalismi stupidi e violenti. Come quest'ultimo di pochi giorni fa.
Dal 2000, la Missione ha intensificato gli sforzi a ogni livello per ottenere un risultato: rendere queste regioni un luogo protetto, un Parco Nazionale, con personale formato e competente, capace di assistere e guidare i visitatori. Nel 2006, a seguito di una richiesta del Dipartimento delle Antichità libiche, sono stati suggeriti alcuni provvedimenti di minima, come recintare in modo simbolico - una semplice barriera di foglie di palma, alta poco più di un metro - i ripari con le pitture più significative, al fine di abolire, come suggerisce l'Unesco, quella sensazione classica di terra incognita che i viaggiatori hanno nell'attraversare luoghi deserti, ritenuti a torto spazi di nessuno e senza tempo. Ma ci sono anche risvolti politici e culturali che non possono essere ignorati. La Libia ospita una incredibile serie di siti archeologici: basti pensare alle splendide città di età greca e romana della costa (Sabratha, Leptis Magna, Cirene, solo per citarne alcune), alle straordinarie evidenze medievali di Ghadames, fino alla medina di Tripoli. È complicato operare scelte, spesso dolorose, dedicando risorse e sforzi ad alcuni luoghi e tralasciandone altri. Un possibile spiraglio potrebbe essere offerto dal recente "Trattato di Amicizia" tra Italia e Libia, firmato a Bengasi il 30 agosto 2008 e ratificato da poche settimane dal Parlamento Italiano, che prevede tra i vari punti un rinnovato impulso alla collaborazione nel settore archeologico.
Paradossalmente, gli sfregi vandalici delle antiche pitture rupestri ci offrono l'opportunità per intervenire immediatamente, non solo per il restauro dei dipinti imbrattati, ma specialmente per realizzare con prontezza quelle iniziative che necessitano al momento uno sforzo politico e culturale: la Missione della Sapienza e il Dipartimento delle Antichità di Tripoli non possono sostenere da soli quanto oramai sta accadendo. La lunga consuetudine, che segna in modo indelebile la Missione nell'Acacus, potrebbe però essere una chiave di volta, e funzionare da volano virtuoso e operativo per avviare un processo di protezione e tutela non più rimandabile.
Nel 1996, oramai quasi quindici anni fa, Amgahr Hammadani, l'anziano capo Tuareg dell'Acacus, ci diceva sconsolato di portare via le attrezzature di scavo che ogni anno lasciavamo in un riparo sotto roccia: «troppa gente, troppe macchine: non è più sicuro qui». Il destino dell'Acacus, come di altre zone desertiche, immense e desolate, passa attraverso le parole di un vecchio Tuareg. La sicurezza di questo patrimonio, per le future generazioni, libiche e non solo, dovrà basarsi su una nuova consapevolezza, e su un modo diverso di affrontare questo formidabile deserto dipinto.

Corriere della Sera Salute 19.4.09
In ospedale. Esperienze pilota affiancano, a medici e psicologi, una figura professionale che sembra nuova ma torna dal passato
Che cosa ci fa un filosofo in corsia?
«Consulenze» e «dialogo dialettico» per aiutare i pazienti in difficoltà
di Daniela Natali


In un’epoca in cui si moltiplicano le psicoterapie, torna di moda la «consolazione della filosofia».

Non sono psicoterapeuti, an­zi non sono nemmeno dei tera­peuti, guai a dire che si occupa­no di 'problem solving', se proprio debbono definirsi, si definiscono 'filosofi consulen­ti'. Si propongono di riportare la filosofia dal cielo alla terra. Anche se in Italia sono ancora piuttosto pochi, si possono tro­vare in qualche istituzione e nelle scuole (con sportelli di ascolto), in aziende (per rimoti­vare i dipendenti, collaborare alla riorganizzazione del lavo­ro) e anche (si tratta di espe­rienze pilota) in ospedali e ho­spice. Ma davvero c'è ancora bisogno della 'consolazione della filosofia'?
«Noi, a differenza degli psi­coterapeuti, non cerchiamo di guarire e non lavoriamo sull'in­conscio. Su un piano di assolu­ta parità, senza atteggiarci a professori nè fare citazioni, aiu­tiamo chi si rivolge a noi a chia­rire la sua visione del mondo. Non facciamo appello ai senti­menti ma alla ragione». Chi parla è Neri Pollastri, per anni presidente di 'Phronesis', un nome che dice già tutto: Phro­nesis, per Aristotele, è l'altra faccia della Sofia, del sapere, è la capacità di mettere in prati­ca i principi universali «ed è proprio questo che fanno i con­sulenti filosofici» chiarisce Pol­lastri. Il Comune di Firenze ci ha creduto e dal 2003 al 2004 è stato aperto uno 'sportello filo­sofico di quartiere'.«Venivano persone con problemi affettivi e relazionali, lavorativi e di rea­lizzazione di se stessi».
E poi... «Nonostante il suc­cesso, l'esperimento è finito in mezzo alle polemiche: c'era chi diceva si sprecasse denaro pub­blico, peccato» commenta filo­soficamente Pollastri.
Più 'psicologica' la consu­lenza che si può trovare rivol­gendosi a Sicof (Società italia­na di counseling filosofico). Spiega il suo presidente, Lodo­vico Berra (medico psichiatra, convertito alla filosofia): «Sia­mo convinti che sia utile unire al metodo filosofico, fondato su dialogo e dialettica, un ap­proccio psicologico. Noi dia­mo peso al fatto che chi chiede di noi, lo fa perché ha bisogno di aiuto, non solo di parlare». E aiuto concreto è quello che dà Lidia Arreghini che lavora con i pazienti neoplastici dell' Istituto San Raffaele di Milano. «È un’esperienza iniziata nel settembre 2007 — racconta —. Come counselor filosofico affianco il medico fin dal mo­mento della diagnosi. Il sup­porto standard prevede quat­tro sedute, ma se è necessario si può proseguire con ulteriori colloqui. Ho iniziato con il se­guire persone operate alla pro­stata e, successivamente, an­che con altre patologie urologi­che. Medici e infermieri mi se­gnalano però spesso anche al­tri pazienti ricoverati che han­no bisogno di aiuto e non sono inclusi in questa percorso orga­nizzato ». E perché non rivolgersi a uno psicologo? «A parte il fatto che da noi continuano a lavora­re psicologi — chiarisce Vitto­ria Gnocato, responsabile del progetto di 'Assistenza globale al paziente oncologico' entro cui si inscrive il lavoro di Lidia Arreghini - siamo partiti dalla constatazione di un fatto: su 100 uomini operati alla prosta­ta solo uno si rivolgeva ai no­stri psicologi, evidentemente c'era bisogno anche di altro. Il paziente in ospedale vive una situazione di subalternità: ri­spetto alla struttura, ai medici (per altro impreparati a gestire gli aspetti emotivi della malat­tia) e può non aver voglia di sentirsi nuovamente valutato, in questo caso per la sua ansia o la sua depressione. Il consu­lente filosofico è come uno specchio attraverso il quale l'al­tro può vedere quello che ha in se stesso, ma è anche un 'fa­cilitatore' della comunicazio­ne tra paziente e medico Anche Anna Ficco, legata al­la più 'filosofica' Phronesis, la­vora in un ospedale: è dipen­dente dell'Ospedale Le Molinet­te di Torino. «Dal 2002 alle Mo­linette è aperto uno 'sportello filosofico' per i dipendenti. Chi si rivolge a me, infermieri e medici, sente il bisogno di trovare nuove motivazioni al proprio lavoro, di un arricchi­mento interiore, di una rifles­sione condivisa, ma se ha an­che bisogno d'altro io funzio­no da 'filtro' e posso indiriz­zarlo al nostro sportello psico­logico. Non dimentichiamo pe­rò che qui tutti i giorni si ha a che fare con la vita e con la morte e, come diceva Heideg­ger, che cosa c'è di più 'filosofi­co' che discutere di questo? La nostra società tende a rimuove­re la morte, se la spettacolariz­za è per renderla meno rea­le... ».
«I consulenti filosofici non hanno strutture interpretative rigide della realtà, come i reli­giosi, gli psichiatri o gli psico­logi — conclude Elisabetta In­vernici, consulente filosofico di Phronesis — quello che of­friamo è la possibilità di dialo­gare sul modello socratico. Chi viene da noi non esce con ri­sposte ma con più domande, domande che aprono nuove prospettive. Ed è proprio que­sto il ruolo fecondante della fi­losofia ».

Corriere della Sera Salute 19.4.09
Se Platone è meglio del Prozac


Di consulenti filosofici si è iniziato a parlare anche da noi nel 2001, quando è stato pubblicato, in italiano, un libro dal titolo accattivante 'Platone è meglio del Prozac' di Lou Marinoff. Il testo, tradotto in ben 16 lingue, è stato un successo anche se non sono mancate le critiche, innanzitutto quella di di fare un mix Oriente e Occidente, di Confucio e Nietzsche, che sa troppo di New Age. In realtà, la consulenza filosofica è nata molto prima del 2001, nel maggio 1981 quando Gerard Achenbach aprì, in Germania, il primo studio al mondo di 'filosofo professionista'. La consulenza filosofica si è poi estesa in Olanda, Austria, Norvegia, Svizzera, Francia, Israele e, dagli anni '90, anche in America. Lo scopo del filosofo professionista non è aiutare chi gli si presenta a trovare risposte risolutive, bensì portarlo a ricercare nuovi e più complessi modi per pensare il mondo. I filosofi di riferimento possono essere Husserl, Heidegger, Sartre, Jaspers In Italia il pensiero corre a Umberto Galimberti, che nel suo 'Il corpo' scrive: «o sguardo medico non incontra la persona malata ma la malattia, e nel corpo non legge una biografia ma una patologia..... consulente filosofico il compito di riportare l'attenzione «alla soggettività del singolo che scompare dietro l'obiettività dei sintomi».

Corriere della Sera Salute 19.4.09
La scuola tedesca
«Come Socrate parliamo con la gente»
di D.N.


Wilhelm Schmid, filosofo, ha lavorato per dieci anni in un ospedale svizzero

È tedesco come i maestri del counselig filosofico, ma è sempre in giro per il mondo a tenere conferenze. Wilhelm Schmid, classe 1953, docente di filosofia a Erfurt, ha lavorato per dieci anni, a periodi alterni e fino al 2007, in un ospedale svizzero, ma non ama il termine consulente. «Sono un filosofo che parla con le persone come faceva Socrate» chiarisce subito.
«Non sono uno psicologo, perché non parlo solo di malattie o disfunzioni e non sono un religioso perché non parlo di Dio».
Di che parla, allora? «Della vita».
Perché ha deciso di lavorare in un ospedale e con quali malati? «Mi hanno invitato i medici, dopo aver letto il mio libro La vita è bella, quanto a pazienti, ho dialogato con persone che avevano ogni tipo di malattia».
In pratica, che cosa faceva? «Letture per medici e pazienti, discussioni individuali e al centro l’idea che le persone siano oggi così ossessionate dall’idea di dover raggiungere la felicità da non riflettere quasi mai su che cosa significhi questa parola».
Può significare fortuna, scrive Schmid nel suo recentissimo libro: Felicità (Fazi editore), ma allora è casuale; può coincidere con l’appagamento e come tale è momentanea; ancora, può essere intesa come eliminazione del dolore, ma il dolore è utile; oppure come completezza ma anche questa è fugace.
E allora? «Nel mio libro — risponde Schmid — ho provato a spiegare che quello che dovremmo cercare non è la felicità, ma il senso profondo della vita. Che potremo trovare solo dopo aver ricostruito tutta quella rete di relazioni sociali e familiari che oggi tendiamo a trascurare».

Repubblica 16.4.09
Anna Bravo, storica delle donne

Una scelta di libertà che non rinnega il suo istinto vitale
"Scelta estrema di libertà"

«Il modo scelto per morire non rinnega certo la sua vitalità», dice Anna Bravo, storica delle donne e voce originale del femminismo. «Questo memoriale lasciato agli amici non è servito soltanto ad accompagnare Roberta durante i suoi ultimi giorni, ma è soprattutto un regalo fatto agli altri. Ci sta dicendo che nella vita c´è anche la morte, e che lei l´ha vissuta in questo modo».
In quale modo?
«Come scelta estrema di libertà. Roberta era tra gli spiriti più liberi che abbia mai conosciuto, sempre fedele a se stessa, capace di uno sguardo singolare sulle cose del mondo. In fondo l´aveva anche detto: in caso di difficoltà del vivere, sul comodino ci sono sempre le pasticche. Quelle pasticche le ha prese, e ha voluto condividere con noi questo suo gesto».

Repubblica 16.4.09
Letizia Paolozzi, saggista
Ci ha lasciato la riflessione sul suo gesto
"Nessuno ha capito la sua disperazione"

«Ci ha lasciato qualcosa di molto importante, la riflessione sul suo gesto. Ognuno di noi dovrà interrogarsi su quel che ha voluto dirci. Mi rimane il rammarico di non aver saputo intercettare la sua disperazione». Così Letizia Paolozzi, legata da antica amicizia a Roberta Tatafiore e animatrice del sito DeA, Donne e Altri.
Come spiega questa costruzione meticolosa del suicidio?
«Roberta era una donna appassionata e molto precisa. Ha compiuto il suo gesto con la stessa cura maniacale con cui scriveva e con cui viveva. Era molto presa dal tema della morte. Anche lei avevo mandato un nostro testo su Il coraggio di finire, che s´interroga su "tenere in vita o non tenere in vita". Non pensavo certo che valesse come profezia».


Il Sole 24 Ore Domenica 19.4.09
L’inedito di Franco Volpi censurato dal figliastro
E alla fine dico: «Good-bye Heidegger»
di Franco Volpi


Riportiamo qui di seguito parte di una lettera di Franco Volpi, morto prematuramente martedì scorso, ad Armando Massarenti - nel quadro di uno scambio in occasione della pubblicazione del volume di scritti heideggeriani che Massarenti aveva curato per il Sole 24 Ore - in cui lamentava la censura degli eredi sulla introduzione ai Beiträge di Heidegger (Contributi alla filosofia, traduzione di Franco Volpi e Alessandro Iadicicco, Adelphi 2007):
«Caro Massarenti, (...) Al mio ritorno [da Santiago del Cile] ho parecchie cose da raccontarti: la mia introduzione ai Beiträge (che stanno uscendo da Adelphi) è stata considerata troppo critica dal figliastro di Heidegger e censurata. È ancora in corso una trattativa per tentare di salvare capra e cavoli (dunque ti pregherei di mantenere ancora assoluto riserbo sulla questione), ma davvero mi viene voglia di seguire l'esempio di Maurizio Ferraris e scrivere un libello: Good-bye Heidegger. A Santiago del Cile, dove vado per una conferenza di chiusura al congresso di fenomenologia ed ermeneutica, volevo parlare di Heidegger e Wittgenstein, ma ho deciso cambiare tema e ho dato come nuovo titolo proprio questo: "Good-bye Heidegger. La mia introduzione censurata ai Beiträge"».
Era l’11 ottobre 2007. Qualche tempo più tardi, il 18 novembre, dopo ulteriori scambi, Franco Volpi spedì a Massarenti il brano più significativo che era stato censurato, rimasto finora inedito. Lo proponiamo qui per la prima volta. È un paragrafo dell’introduzione ai Contributi alla filosofia intitolato «Naufrago nel mare dell'Essere».

I «Contributi alla filosofìa»? «Il diario di un naufragio. Avventurandosi troppo in là nei mari dell'Essere, il suo pensiero va a fondo»
L’esperienza di Nietzsche vuota le metafore di Heidegger, tarpa i suoi slanci, mina alle fondamenta la costruzione dei Contributi alla filosofia. È forse un caso che Heidegger ponga in esergo ai due volumi dedicati a Nietzsche (1961) una epigrafe tratta dall'Anticristo che corrisponde esattamente alla conclusione dei Contributi? Questi terminano con una "fuga" che tratta dell'ultimo Dio, il primo capitolo del Nietzsche si apre con la citazione: «Quasi due millenni e non un solo nuovo dio!».
Forse Heidegger non è più riuscito a risollevarsi filosoficamente dal de profundis di Nietzsche. Nella triste luce dell'esaurimento, l'Essere - quest'ospite solitamente fugace dei nostri pensieri - rimane per il grande Heidegger l'ultima chimera che valga la pena di sognare. Tutti i suoi sforzi mirano a quest'unica meta, l'Essere, ma i sentieri si sono interrotti. La sua intermittente sperimentazione filosofica e il suo "procedere tentoni" in questo sogno hanno prestato il fianco a critiche da far tremare i polsi. Heidegger rifiuta la razionalità moderna con lo stesso gesto sottomesso con cui ne riconosce il dominio, richiama la scienza che "non pensa" ai suoi limiti, demonizza la tecnica fingendo di accettarla come destino, fabbrica una visione del mondo catastrofìsta, azzarda tesi geopolitiche quanto meno avventurose - l'Europa stretta nella morsa tra americanismo e bolscevismo - soffiando sul mito greco-germanico dell'originario da riconquistare. Anche le sue geniali sperimentazioni linguistiche implodono, e assumono sempre più l'aspetto di funambolismi, anzi, di vaniloqui. Il suo uso dell'etimologia si rivela un abuso (...). La convinzione che la vera filosofia possa parlare soltanto in greco antico e tedesco (e il latino?), una iperbole. La sua celebrazione del ruolo del poeta, una sopravvalutazione. Le speranze da lui riposte nel pensiero poetante, una pia illusione. La sua antropologia della Lichtung, in cui l'uomo funge da pastore dell'Essere, una proposta irricevibile e impraticabile. Enigmatico non è tanto il pensiero dell'ultimo Heidegger, bensì l'ammirazione supina e spesso priva di spirito critica che gli è stata tributata e che ha prodotto tanta scolastica.
Certo, i comuni mortali spesso deridono le soluzioni del filosofo solo perché non capiscono i suoi problemi. Dunque non è affatto detto che queste critiche colgano nel segno. Ma se fosse così, allora i Contributi alla filosofia sarebbero allora davvero il diario di bordo di un naufragio. Per avventurarsi troppo in là nel mare dell'Essere, il pensiero di Heidegger va a fondo. Ma come quando a inabissarsi è un grande bastimento, lo spettacolo che si offre alla vista è sublime.

Il Sole 24 Ore Domenica 19.4.09
Duellanti in cerca di futuro
La sua opera di traduzione e di esegesi è diventata quasi una «decostruzione». La generazione degli anni 50 ha saputo superare la deferenza verso i grandi pensatori del passato
di Maurizio Ferraris


La volta che ho conosciuto bene Franco Volpi sono stati i giorni del luglio 1992 che abbiamo trascorso assieme a Cerisy-la-Salle, in Normandia, nel corso di un convegno sul pensiero di Derrida. Derrida mi aveva chiesto di segnalargli qualche giovane filosofo italiano che potesse partecipare all'incontro e non avevo avuto dubbi: era Volpi la persona adatta, perché era un ottimo conoscitore di Heidegger (autore così importante per Derrida), ma al tempo stesso era estraneo al gergo e al manierismo. Ci avevano messi in un appartamento in una torre del castello, il tutto aveva l'aria di un film di Resnais, e - in quei tramonti estivi che non finivano mai - abbiamo avuto tutto il tempo per parlare dei nostri lavori e dei nostri progetti. In particolare, gli ho detto della riedizione della Volontà di potenza che stavo preparando per Bompiani insieme a Pietro Kobau, e di quella che per me era stata una scoperta: non era vera la favola che mi avevano raccontato da studente, ossia che il testo era infarcito di aggiunte e falsificazioni della sorella. No, era tutta farina del sacco di Nietzsche, e la sorella era diventata il parafulmine delle affermazioni più dure del fratello. A novembre, dopo l'uscita dell'edizione, ci furono polemiche, a cui prese parte anche Volpi. Per un po' siamo stati come I duellanti nel film di Ridley Scott, ma con il tempo le cose sono cambiate. Adesso capisco quanto il percorso di Volpi sia stato esemplare della nostra generazione di filosofi nati negli anni Cinquanta, che poco alla volta ha scoperto di non potersi più riconoscere nell'atteggiamento deferente e un po' superstizioso che molti tra i nostri maestri e fratelli maggiori avevano nei confronti della tradizione fìlosofica, e in particolare dei mostri sacri tedeschi, che mettevano paura solo a nominarli: Kant, Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger. Con il tempo, l'opera di traduzione e di esegesi svolta da Volpi è diventata quasi una decostruzione: ad esempio, di Schopenhauer propose una serie di volumetti che ne valorizzavano il versante satirico, una specie di Swift, altro che il pessimista semi-iettatorio che avevamo conosciuto a scuola. E su Heidegger venne progressivamente maturando convinzioni che gli provocarono le difficoltà di cui si può trovare traccia nella corrispondenza con Massarenti.
Negli ultimi anni, un po' come Nietzsche che stufo di Wagner si era appassionato a Bizet, Volpi aveva fatto conoscere in Italia il filosofo colombiano Nicolàs Gómez Dàvila (1913-1994), e si era interessato ad aspetti eterodossi della cultura tedesca (per esempio, nel libro-intervista ad Albert Hoffmann, lo scopritore dell'Lsd, scritto, come molti altri, con Antonio Gnoli), che mostravano come tra gli autori della beat generation che avevamo letto sotto il banco al liceo e i classici moderni e postmoderni che tenevamo sul banco i punti di contatto fossero più numerosi di quanto non pensassimo allora. L'ultima volta che l'ho visto era nell'autunno scorso, a Napoli, all'Istituto italiano per le scienze umane, i tramonti erano brevi e ci incontravamo di corsa visto che i nostri seminari si tenevano uno dopo l'altro. Volpi mi ha consigliato il libro di Farias sull'eredità di Heidegger nel neonazismo e nel fondamentalismo islamico. Era come se un cardinale mi avesse suggerito un vangelo apocrifo, ma gli ho dato retta e ho imparato molte cose. Avrei voluto scrivergli per ringraziarlo, ho rimandato come spesso succede, e ho sbagliato.