mercoledì 22 aprile 2009

l’Unità 22.4.09
Ma del duce dovete dire tutto
L’immagine di Mussolini proiettata in piazza non suscita collera. Quei ricordi vanno evocati e va ricordato l’orrore del nazifascismo
di Pietro Ingrao


Caro Direttore,
consentitemi qualche considerazione sulla polemica che si è accesa intorno al fatto che nel documentario proiettato in piazza dal Comune di Roma (a cura dell’assessore Croppi, mi sembra) in occasione del 21 Aprile fosse inserita una immagine di Mussolini che annunciava l’entrata in guerra dell’Italia a fianco di Hitler.
In verità la presenza di quell’immagine non aveva suscitato in me nessuna collera. Riguardava un evento reale e per giunta un evento che poi aveva portato a quel dittatore solo sconfitta e vergogna, e infine l’aveva condotto a una morte disperata.
Se mai quell’apparizione ha suscitato in me un’altra domanda: che diceva quel volto - teso e feroce - ai tanti, ai giovani prima di tutto, che lo vedevano sullo schermo?
Io avevo timore non già che vedessero e sapessero, ma anzi che non sapessero. Non sentivo bisogno di silenzio, ma di parole.
E questo chiederei ancora adesso all’assessore Croppi e al sindaco di Roma Gianni Alemanno che avevano portato in quella straordinaria piazza romana quel volto.
Caro direttore, io non ho paura che si evochino quei nomi, ma anzi che essi siano poco evocati, se mai solo con l’esibizione di un volto. E dico: facciamole pure vedere quelle immagini, e non solo dal balcone su una piazza, ma per ciò che sono state nella storia di milioni e milioni di esseri umani
Quanto c’è da raccontare su quel volto e sui suoi amici e alleati stretti, strettissimi: Hitler per esempio! Non solo mostrare i volti, ma raccontare ciò che hanno fatto. E - attenzione - non solo raccontare la stretta vicenda bellica, l’urto degli eserciti, ma l’inaudito che l’ha accompagnato. E il racconto di quell’inaudito non è riassumibile in una immagine, e nemmeno solo affidarlo alla storia delle battaglie - che pure furono lunghe, durarono anni, e traboccarono in Asia e in Africa; potremmo dire: investirono il mondo.
Non ci furono solo morti (tanti) in battaglia. Fu inventata - dagli amici stretti di Mussolini - una strage più penetrante e «scientifica»; furono scelte sedi speciali, metodi articolati di massacro. Si chiamarono camere a gas, forni della morte, e portavano a fosse comuni: per ogni età; da vecchi a fanciulli, e sempre secondo tecniche fantasiose, mai conosciute prima.
Insomma un trattamento particolare dei corpi e delle anime: una nuova scienza: del patimento e dello scomparire dalla terra.
Ecco ciò che mi ricorda quel volto di Mussolini.
E io non chiedo, non voglio che sia nascosto. Anzi - assessore Croppi, sindaco Alemanno - raccontate davvero - e sino in fondo - chi furono, che «inventarono» quel volto, quelle figure riapparse nelle piazze romane.
Su. Andiamo insieme nelle scuole romane, e - con la dovuta delicatezza - raccontiamo le invenzioni dei massacri che hanno segnato il nostro secolo. A Roma, questa capitale con le sue sorprese incredibili: si faccia organizzatore testardo il Comune di Roma di visite spiegate alle Fosse Ardeatine, e ai tanti bizzarri sepolcri che ha conosciuto questo secolo.
Perciò io non chiedo oscuramento, o silenzio. Anzi mettiamo nomi. Facciamo vedere volti e corpi. Frughiamo nei campi della memoria.
Fra pochi giorni sarà la data del 25 aprile. E ci sarà da rievocare - a tanti che oggi non lo sanno - il senso della parola: partigiani; e quale fu non solo la sofferenza, ma l’invenzione della partigianeria, il messaggio consegnato a noi da coloro che non ci sono più.
Io provo sempre un certo stupore quando apprendo che i miei nipotini studiano le guerre persiane, la battaglia di Maratona... E non arrivano quasi mai a studiare insieme l’innovazione grandiosa nei modi dell’uccidere avvenuta nel secondo conflitto mondiale.
Eppure ci furono testimoni indimenticabili.
A Roma è stato esposto il volto di Mussolini. Io metterei una teca dove porre non un volto, ma un libro. Si intitola «Le lettere dei condannati a morte della Resistenza». Sono testi ultimi. Brevissimi: scritti a volte pochi momenti prima della morte.
Fra pochi giorni - potremmo dire fra poche ore - l’Italia ricorderà, celebrerà il 25 di aprile. Avanzo una proposta: che per quella data tutti i cosiddetti maggiorenti di questa nazione vadano in una scuola italiana a recare in classe una copia di quel libro.

Corriere della Sera 22.4.09
La scelta di Fini: è la festa di tutti senza se e senza ma
«L’idea giusta di nazione sconfisse il fascismo» E Bertinotti: vince il valore dell’uguaglianza
Il presidente della Camera scrive per il nuovo giornale di Sansonetti: ma è da condannare la scia di sangue dopo il ’45
di Gianna Fragonara


ROMA — «Il 25 aprile è di tutti gli italiani». Parola di Gianfranco Fini che in un lun­go articolo spiega come saba­to prossimo debba essere «la festa della libertà di tutti gli italiani, senza ambiguità, sen­za reticenze, senza 'se' e sen­za 'ma'». Il presidente della Camera, che già aveva parla­to dell’antifascismo come va­lore ai tempi della svolta di Fiuggi, sceglie di scrivere ora le sue considerazioni sul 25 aprile su «l’Altro», il nuovo giornale diretto da Piero San­sonetti (che ha lasciato Libe­razione dopo la scissione dei bertinottiani da Rifondazio­ne) che sarà in edicola dal pri­mo maggio, ma pubblica un numero zero speciale per le celebrazioni del 25 aprile. Una scelta che dista anni luce dalla polemica di queste setti­mane che vede coinvolti Igna­zio La Russa e Fabrizio Cic­chitto da una parte e Antonio Di Pietro, Paolo Ferrero e Pao­lo Cento dall’altra. E forse non è un caso se nella sua analisi sulla Liberazione, la Resistenza e la guerra civile 1943-45, Fini non risparmia giudizi taglienti sull’oggi, sul­lo stato della democrazia, in un momento storico in cui si nota «un certo abbassamento della tensione morale» e un «affievolimento delle passio­ni civili» che rischia di inde­bolire «gli istituti di libertà».
Ma è sul passato che Fini si sofferma: il suo articolo, che compare sotto una ban­diera della pace e a fianco di un intervento di Fausto Berti­notti (che propone come ci­fra della commemorazione il valore dell’eguaglianza), si concentra sulla stagione del­la guerra civile, «che fu tale non solo perché vide gli ita­liani combattersi su fronti op­posti, o perché fu caratteriz­zata da innumerevoli effera­tezze e crudeltà, non solo per­ché produsse lacerazioni pro­fonde nel Paese». Fu guerra civile perché fu scontro «frontale tra due diverse idee di nazione», si legge nel pas­saggio più forte del presiden­te della Camera: «L’una — ar­gomenta Fini — nutrita dal nazionalismo fascista condu­ceva all’espansionismo, al razzismo e all’annullamento dei diritti dell’uomo. L’altra, indissolubilmente legata ai valori della libertà e della de­mocrazia, portava alla costru­zione di una nuova stagione di progresso civile per l’Ita­lia. E non c’è dubbio che l’idea 'giusta' fosse la secon­da », perché «da allora non fu più possibile pensare la Pa­tria separatamente dalla de­mocrazia ». Certo Fini, prima di insiste­re sul valore di Patria nel do­poguerra, non risparmia una critica alla «scia di sangue dell’immediato dopoguerra» sulla quale proprio «la parte consistente delle forze che si sono richiamate all’antifasci­smo » non hanno voluto ri­flettere: «C’erano formazioni che videro il conflitto fasci­smo- antifascismo più come lotta di classe che come batta­glia per la libertà della nazio­ne », scrive ricordando quello che disse a Fiuggi: «Tutti i de­mocratici erano antifascisti ma non tutti gli antifascisti erano democratici». E citan­do Carlo Azeglio Ciampi, lo storico Claudio Pavone, Pie­ro Fassino e anche Vittorio Emanuele Orlando nel suo in­tervento alla Costituente, conclude: «Non ha senso og­gi strumentalizzare il 25 apri­le nella polemica politica».

l’Unità 22.4.09
Il terrore e la crisi
Con la scusa della paura: distratti da Al Qaeda derubati da Wall Street
di Loretta Napoleoni


Esperta di terrorismo internazionale

Suicidio economico. Mettere in ginocchio l’economia Usa e quella mondiale è stata la follia della guerra al terrorismo

Terrorismo ed economia: ecco i temi più dibattuti degli ultimi anni. E se tra loro esistesse una relazione che va ben oltre le prime pagine dei giornali? Se la guerra contro il terrorismo, inaugurata da George W. Bush all’indomani dell’11 settembre, avesse in qualche modo contribuito alla crisi del credito? Si tratta d’interrogativi sconcertanti, che recentemente molti si pongono.
L’amministrazione Bush riceve da Bill Clinton un piccolo surplus e Barack Obama - che sale al potere nel mezzo della peggiore recessione del dopoguerra - eredita un debito pubblico di 10mila miliardi di dollari, pari al 70 per cento del Prodotto interno lordo americano, o meglio, al 18 per cento dell’economia mondiale. Dove sono finiti tutti quei soldi? Due guerre ancora in corso e un sistema di sicurezza ambiziosissimo, quanto inconsistente, prosciugano le finanze dello Stato e proiettano l’America tra i paesi con il debito pubblico più alto al mondo.
Tutto questo non sarebbe successo fino a vent’anni fa, quando i conflitti si pagavano con l’erario pubblico anziché con la politica dei bassi tassi d’interesse. Come dimenticare la storica decisione di Lyndon Johnson, negli anni Sessanta, di aumentare la pressione fiscale per far fronte agli alti costi della guerra nel Vietnam? Manovra necessaria e al tempo stesso profondamente impopolare. A nessuno, infatti, piace finanziare di tasca propria la macchina militare, anche se l’obiettivo è distruggere un super terrorista come Osama bin Laden o sbarazzarsi dell’arcidittatore Saddam Hussein. A chi si domanda perché queste guerre in Iraq e in Afghanistan, che sembrano interminabili, non abbiano suscitato un movimento d’opposizione simile a quello che pose fine a quella del Vietnam, si può rispondere che finché la spesa militare non tocca direttamente il nostro portafoglio o intacca la nostra libertà, costringendoci ad andare al fronte, i conflitti armati restano virtuali, vissuti esclusivamente attraverso il filtro dei media.
La paura del terrorismo. Neppure gli attentati terroristici a Madrid e a Londra, ambedue legati al conflitto iracheno, ci hanno fatto sentire quest’ultimo abbastanza vicino da coinvolgerci. Persino la minaccia del terrorismo, dunque, ci tocca solo di striscio, quando le immagini di sangue e morte fanno capolino sui nostri teleschermi o quando i politici le usano per spaventarci.
Dopo l’attentato di novembre 2008 a Mumbai, il ministro degli Esteri italiano dichiara che il vero pericolo non è l’economia ma il terrorismo. Giornali e telegiornali italiani rincarano la dose ricordando che sette connazionali sono intrappolati negli alberghi occupati dai terroristi. E l’Italia è presa nella morsa della paura del fondamentalismo islamico al punto da scambiare due mitomani marocchini per super terroristi. Il motivo è altrettanto ridicolo: inculcavano nei figli di due anni il culto di Osama bin Laden e sognavano di far esplodere con ordigni inesistenti un supermercato di periferia.
La paura del terrorista è uno strumento molto efficace per distrarre l’attenzione del cittadino occidentale dal caos economico degli ultimi vent’anni e dalla crisi che sta facendo sprofondare il capitalismo in una nuova Grande depressione. Tristemente, il legame tra eversione ed economia non è circoscritto a questa manipolazione: la guerra contro il terrorismo dei neoconservatori americani ha infatti contribuito alla crisi del credito. Come? Per rispondere rivisitiamone le fasi più salienti.
Il crollo del Muro di Berlino inaugura la politica del credito facile e a buon mercato. Alan Greenspan, a capo della Federal Reserve (Fed), ne è l’artefice. La deflazione agevola il processo di globalizzazione, o meglio, la colonizzazione del mondo da parte della finanza occidentale. Lo Stato retrocede dall’arena economica e lascia al mercato finanziario il compito di gestire il grosso dell’economia. E Alan Greenspan diventa più potente del presidente Clinton. È lui che tiene le fila dell’economia mondiale, la cui crescita sembra inarrestabile. Ogni qualvolta le crisi economiche bussano alla porta del villaggio globale - da quella del rublo fino alla minirecessione americana del 2000 - Greenspan taglia i tassi. Si tratta di una strategia folle perché, lungi dal risolvere i problemi strutturali della globalizzazione, posticipa lo scoppio della crisi aumentandone la portata. (...)
Gli anni Novanta e gran parte degli anni 2000 sono caratterizzati dall’abbondanza perché vissuti all’insegna del credito facile e a buon mercato; consumi, investimenti, tutto cresce e nessuno ha voglia di criticare uno Stato che ha creato tutta questa cuccagna. L’euforia nasconde però una realtà ben diversa: uno dei cardini del contratto sociale - secondo cui lo Stato deve rispondere ai cittadini di come gestisce il loro denaro - si sta incrinando.
Due guerre e molti debiti. Dopo il 2001 la politica dei tassi d’interesse bassi fa comodo al governo americano che nel giro di due anni si trova invischiato in due guerre che l’amministrazione aveva anticipato sarebbero state lampo e quindi a basso costo. In realtà, questi conflitti pesano gravemente sulla spesa pubblica.
L’indebitamento sul mercato finanziario attraverso la vendita dei buoni del tesoro permette di evitare l’impopolare manovra fiscale del presidente Johnson, e cioè aumentare le tasse agli americani. Ma la raccolta del denaro non è facile, lo Stato deve competere con il settore privato, ecco perché l’amministrazione Bush fa preme sulla Federal Reserve per mantenere oltremisura la politica dei tassi d’interesse bassi. Questa infatti rende i buoni del tesoro americani più competitivi rispetto a quelli dell’industria privata. Cina e Giappone diventano i maggiori sottoscrittori del debito pubblico statunitense. (...)
La politica deflazionista di Greenspan, dunque, finanzia prima il benessere illusorio della globalizzazione e poi la guerra contro il terrorismo. Ecco spiegata l’origine della crisi del credito. Ma se Greenspan crea la bolla durante gli anni Novanta, il finanziamento di due guerre dopo l’11 settembre prima la gonfia e poi la fa esplodere. L’abbattimento dei tassi, subito dopo la tragedia, innesca il perverso meccanismo dei mutui subprime e inflaziona i prezzi del mercato immobiliare in America e nel resto del mondo; dà vita, insomma, alla spirale dell’indebitamento delle banche. Le statistiche mostrano che dal 2001 al 2007 i prezzi degli immobili registrano, un po’ dovunque, una crescita eccezionale.
Chi paga questa follia. Naturalmente, a fare le spese di questa follia economica è la popolazione americana che per quindici anni è tenuta all’oscuro delle crisi del mercato globale e per altri sette ignora che Pechino e Tokyo finanziano le guerre “ideologiche” dei neoconservatori, mentre Washington accumula un debito pubblico da Paese in via di sviluppo. E sono ancora i cittadini americani che si sobbarcano tutto il debito delle banche: sebbene incrinato, il contratto sociale è ancora in piedi, e chi risponde degli errori dei politici è la popolazione. Così quando la bolla esplode, nel settembre 2008, e quando la recessione è alle porte all’inizio del 2009, per salvare le banche e mantenere in piedi due guerre, Washington usa i soldi dei contribuenti, quei pochi nell’erario pubblico e quelli ancora da raccogliere, pignora insomma la ricchezza delle future generazioni. Anche il contribuente del villaggio globale paga questi errori. Gli Stati Uniti sono la locomotiva economica del mondo, così la conflagrazione a Wall Street trascina l’intero pianeta nella crisi economica.

l’Unità 22.4.09
Un convegno sulla pensatrice, una marxista eterodossa fuori dal marxismo
La tesi La filosofia come genere letterario che decifra il mondo tramite le rotture linguistiche
Gli 80 anni di Agnes Heller: «Un altro linguaggio ci salverà»
di Bruno Gravagnuolo


Compie 80 anni Agnes Heller, la filosofa ungherese allieva di Giorgy Lukàcs, esponente della scuola marxista di Budapest negli anni 50, pensatrice della «teoria dei bisogni» ed emigrata in Australia a fine anni 70, perché presa di mira dal regime comunista di allora. Per il compleanno tre dipartimenti italiani di filosofia e scienze umane (Roma-Tre, Sapienza e Università di Messina) le hanno organizzato un convegno alla Sala Igea di Palazzo Mattei in piazza Paganica di Roma. Inaugurato ieri da una sua Lectio magistralis, «La filosofia come genere letterario, principalmente esemplificata su Heidegger». Relazione già scritta, ma come concepita e recitata a braccio, ad ampie falcate. Tra le «arcate» di Platone, Aristotele, Kant, Hegel, Nietzsche, Heidegger e Foucault. E con un architrave argomentativa di fondo, come da titolo: la filosofia come genere letterario. E però un genere sui generis, argomentativo, autoriflessivo, ermeneutico. Ma sempre situata in un tempo, in un linguaggio. In un «gioco linguistico» e perciò in un’esperienza irripetibile. Aperta dal gesto dei singoli filosofi che schiudono ciascuno un mondo, deviando dal mondo degli altri filosofi. Magari lavorandovi dentro o accanto, a latere. Sempre dentro il linguaggio come casa indecisa e problematica dell’Essere. Una tesi espressa in questa relazione che è il punto d’arrivo di un lungo cammino. Partita da ragazza da ambizioni scientifiche (dopo essere scampata alla Shoah). Poi folgorata dal grande Lukacs all’università di Budapest e approdata alla filosofia. Poi marxista critica e umanista, attratta dal sogno rinascimentale che fu già del suo maestro di fondere Natura e Cultura in una sintesi sociale armoniosa. Poi ancora teorica dei «bisogni», nel solco del giovane Marx e in una prospettiva in cui i bisogni era in qualche modo prossimi ai «desideri» infiniti della soggettività che si libera e si cerca nell’altro. Fuori dalla centralità marxiana del «lavoro» e dentro la riproduzione simbolica delle forme di vita. Sicché era un marxismo eterodosso ed extramarxista, il suo. Al punto che lei stessa dirà nel 2008, in un intervista a La Stampa:« In fondo non sono mai stata davvero marxista e in Marx cercavo altre cose».
DA HABERMAS
Ma l’approdo di cui ci parla questa relazione, raggiunto tra l’Australia e New York, è lontano anche dalla penultima stazione di pensiero della Heller. Vale a dire le idee di Habermas, Apel e John Rawls. Tutte in vario modo costruite attorno alla centralità del «soggetto trascendentale kantiano». E tutte in funzione di un’etica costruttiva, contrattualistica, comunicativa o dialogante. Ora la Heller liquida integralmente il soggetto, come residuo cristallizzato della tradizione filosofica. Così come la sostanza, le categorie, l’apriori, il logos razionale. Per sposare una linea ermeneutica e «post-modernista». Contano «l’esser-ci» e la «soggettività», le interpretazioni e non i fatti. E il lavorio del linguaggio nel «teatro del mondo», da cui tirar fuori, alla Arendt, una «vita buona» e più umana.
Sta per compiere 80 anni Agnes Heller, la filosofa ungherese scampata alla Shoah, formatasi sul marxismo e Lukacs fu espulsa dal regime comunista. Un convegno a Roma aperto da una sua «Lectio magistralis».

In fuga, dalla Shoah e dal socialismo reale
Sopravvissuta all’Olocausto, Agnes Heller ha 18 anni quando nel 1947 assiste alle lezioni di G. Lukács, filosofo e dirigente del Pc ungherese. Heller diverrà poi sua assistente e collaboratrice. Nel 1956 gli ex allievi diventano la «corrente», un gruppo di sostenitori del «vero» marxismo contro ogni falsificazione e aberrazione. Nel 1959 viene espulsa dall’università e dal partito per aver sostenuto «le idee false e revisioniste» di Lukács e i suoi scritti vengono banditi. Nel 1963 entra come ricercatrice nell'Istituto di Sociologia dell'Accademia delle Scienze, da cui verrà licenziata nel ’73. Nel 1977, non condividendo le svolte reazionarie di tanti paesi dell’Est, e lascia l’Ungheria ed emigra in Australia. Lì l’università di Melbourne le affida la cattedra di sociologia. Attualmente è ritornata in Ungheria ma insegna anche alla New School for Social Research di New York.

l’Unità 22.4.09
Uccidi il Pci ancora
di Bruno Gravagnuolo


Psichiatrizzare le tesi avversarie è rozzo e distruttivo. Lo facevano gli inquisitori sovietici coi dissidenti. E anche quelli americani, con gente come Wilhelm Reich ed Ezra Pound. Ma come regolarsi dinanzi a tesi ossessive espresse con toni allucinatori e contro un nemico che non c’è più? Inevitabile allora ricorrere almeno alla categoria del disturbo psicologico. Del risentimento inelaborato da traumi che genera tic. Da scaricare contro obiettivi immaginari per mascherare altro: frustrazioni, impotenza argomentativa, etc. È il caso dell’ultima sfuriata di Galli della Loggia sul Corsera contro il ruolo nefasto del Pci nella storia d’Italia. Che prende a pretesto l’ultimo saggio di Aldo Schiavone su L’Italia contesa. Sfide politiche ed egemonia culturale (Laterza). Tesi: tutti i mali italiani nascono dal Pci. Mancata identità civile, bipolarismo selvatico, Berlusconi. E sulle spalle del Pci vengono messi l’evasione fiscale, l’antimeritocrazia, i Vaffa day e persino i premi Grinzane Cavour! Il il Pci per Della Loggia è una sorta di peste, colpevole a ritroso e in avanti. Per via del blocco della memoria, dell’antifascismo, e altro ancora: «Per carattere e storia profonda un ostacolo formidabile per lo sviluppo democratico del paese». Ovviamente è una tesi ridicola.Che non ha nulla di storiografico nella sua maniacalità giustizialista. Facilmente contestabile con una semplice domanda: «Come mai il Pci ebbe tanto consenso e importanza nel dopoguerra? Un terzo degli italiani erano idioti e manipolati?». Domanda che è inutile rivolgere a Della Loggia, stregato come è dalle sue fobie. Che lo condannano a un anticomunismo trito e fantasmatico. Al di sotto di quello di Berlusconi che almeno ha una mira di potere non fantasmatica. Spiantare la sinistra, tutta, dalla storia e dall’identità italiane. Una mira a cui il volenteroso Della Loggia dà una mano non richiesta. Salvo in altri momenti ritrarla, quando inorridisce dinanzi all’anticomunismo triviale di Berlusconi. Inorridisce per motivi di stile. A volte. Ma nell’intimo acconsente.

l’Unità 22.4.09
Malato di Sla a Napolitano: no all’alimentazione forzata
di Giuseppe Vittori


Il video-appello di Ravasin da 10 anni affetto da sclerosi laterale amiotrofica
Il suo messaggio per dire «no» al ddl sul testamento biologico: «È anticostituzionale»

Lo sguardo fisso alla telecamera e un filo di voce per ribadire la sua volontà.
Paolo Ravasin, 49 anni, da dieci affetto da sclerosi laterale amiotrofica (SLA), dal letto della clinica in provincia di Treviso dove è ricoverato, ha inviato il suo video-appello al Presidente della Repubblica e alle massime cariche di Camera e Senato per dire «no» al disegno di legge sul testamento biologico approvato il 27 marzo scorso a Palazzo Madama e ora al vaglio della Camera dei deputati.
Cosa dicono nel mondo
«L’Organizzazione mondiale della sanità - dice - ha sancito che l’alimentazione e l’idratazione artificiali sono dei trattamenti sanitari a tutti gli effetti: questa legge è anticostituzionale perché non mi consente di rifiutare tali trattamenti».
Ravasin, nato e cresciuto a Treviso, da quattro anni vive in uno stato di paralisi, nella struttura in cui era ricoverato precedentemente per ben 18 volte la macchina che gli consente di respirare si è staccata, rischiando di farlo morire. «Tutto questo non mi ha tolto la voglia di lottare - dice oggi - nonostante non mi sia stato ancora dato un comunicatore che mi consenta, usando gli occhi di parlare anche nei giorni in cui non ho voce».
Nel luglio scorso ha registrato un altro video messaggio con il quale rendeva pubblico il suo volere rispetto alle cure. «Al peggiorare della mia condizione, sospendete tutte le cure», aveva chiesto. Oggi però quella sua volontà gli appare inapplicabile. «Questa legge - spiega oggi - rende carta straccia le mie direttive anticipate ed in particolare la mia decisione di non sottopormi ad alimentazione e nutrizione artificiale quando non sarò più in grado di farlo».
Ravasin, che nel video diffuso ieri cita più volte Piergiorgio Welby morto nel dicembre del 2006 per distrofia muscolare dopo una lunga battaglia contro l’accanimento terapeutico, rivendica la sua «libertà di scelta in un «grido che non è di disperazione ma carico di speranza umana e civile» .
La malattia
La sclerosi laterale amiotrofica è una malattia degenerativa e progressiva del sistema nervoso influisce in modo predominante sui neuroni motori. Nella maggioranza dei casi, la malattia non danneggia la mente, la personalità, l’intelligenza o la memoria del paziente.
«Mi viene sottratta - conclude nel video Ravasin - l’unica libertà che mi è rimasta: quella di poter decidere sulla mia morte, ma Stato e Chiesa hanno preteso di sostituirsi a Dio».

l’Unità 22.4.09
La razzia dell’arte perduta
Trent’anni di furti e nessuno la pagherà
di Stefano Miliani


Dai primi anni 70 al 2000 circa dall’Italia è stato trafugato un milione di reperti etruschi, greci e romani. Dal vaso alla statua alta due metri. Un libro di Isman sui «Predatori dell’arte perduta» racconta un’autentica razzia.

Il museo fa l’uomo ladro? Sì quando la suddetta e rispettabile istituzione, preferibilmente nordamericana, tradisce se stessa e, con la complicità di archeologi compiacenti, foraggia copiosamente tombaroli e trafficanti d’arte senza scrupoli pur di avere a qualsiasi costo vasi, busti, statue e affreschi dall’antichità. Non è fanta-archeologia. È cronaca. Lo si capisce bene leggendo I predatori dell’arte perduta. Il saccheggio dell’archeologia in Italia scritto dall’inviato del Messaggero Fabio Isman (ed. Skira). Perché il libro, incalzante, denso di nomi, date, luoghi, testimonianze di prima mano, atti processuali, racconta con passione e dolore di un’autentica razzia che tra i primi anni 70 e il 2000 ha depredato la penisola di qualcosa come un milione di reperti etruschi, greci e romani per un valore economico smisurato, paragonabile al mercato della droga e delle armi. Una premessa: quanto viene fuori d’antico dal sottosuolo appartiene per legge allo Stato. E non è una legge sbagliata.
IL PUZZLE
Isman rimette insieme i tasselli di un puzzle sconcertante. Dove non mancano i misteri. Ad esempio: dove sarà la villa romana dalle parti di Boscoreale, in Campania, dai magnifici affreschi pompeiani con figure e quinte architettoniche scavata, fotografata con i grumi di lava dai tombaroli? Oppure: è la ‘ndrangheta che ha fatto sparire nel 1973, in Calabria, il fratello di uno dei principali trafficanti d’arte antica perché pare non volesse cedere il Vaso di Eufronio scavato nelle terre degli etruschi, capolavoro ellenico uscito di contrabbando, comparso al Metropolitan di New York e di recente restituito all’Italia? E qui torniamo all’inizio del discorso: il saccheggio sistematico dall’Etruria alla Sicilia, dalle Marche alla Puglia, ai primi anni 70 ha assunto dimensioni industriali con un'organizzazione ramificata e piramidale perché importanti musei americani, come alcuni istituti europei e finanche giapponesi, hanno sborsato cifre stratosferiche per vasellame, pezzi di statua, brani di affresco, suppellettili, scavate di notte dai tombaroli ed esportate illegalmente e infine piazzate in rispettabili collezioni: soprattutto di là dall’oceano, e bisogna citare innanzi tutto il Getty Museum di Los Angeles, ma pure di qua dall’Atlantico visto che preziosi reperti sono apparsi perfino al Louvre, al British, a Monaco di Baviera, a Copenaghen…
TOMBAROLI «ONESTI» E INTERCETTATI
Un racconto sconcertante per tante ragioni. Intanto perché dagli anni 70 si è creata un’organizzazione fatta di tombaroli, intermediari, mercanti senza scrupoli. Tombaroli che, molto all’italiana, si sentono perfino «onesti», come asserisce uno di loro. Poi tanto ben di Dio è uscito dai confini senza che quasi l’Italia combattesse la sua battaglia fino a quando non ne ha preso coscienza ed è intervenuta politicamente. Pure ci sono da tempo dei «soldati» che non si fermano praticamente mai: dal pm romano a soprattutto il comando di tutela del patrimonio artistico dei carabinieri che indaga, esplora, intercetta... A proposito: viene fuori a chiare lettere che se si restringono le intercettazioni troppe indagini sarebbero state impossibili e troppi tombaroli e trafficanti scamperanno perfino alle indagini. Infine altra constatazione amara, troppi «spacciatori» d’arte non vedranno nemmeno il cancello di una prigione o per la tarda età o per la mitezza delle pene: rubare un pollo per fame o un paio di jeans è molto più pericoloso.

Repubblica 22.4.09
Perché le donne salveranno il mondo
di Alain Touraine


Anticipiamo un brano del nuovo saggio del sociologo francese

L’opera è frutto di ricerche sul campo fatte in questi anni: la nostra società è indebolita e solo la coscienza femminile può darle forza
"Sembra un´epoca in cui le loro lotte hanno perso di visibilità. Invece io penso che siano il motore della storia"
"Solo loro sanno superare i vecchi dualismi. Il senso della vita, adesso, è sempre di più nelle loro mani"
"Sanno superare i vecchi dualismi e il senso della vita è nelle loro mani"
"Penso che le loro lotte siano diventate il motore della storia"

Nelle nostre società invecchiate, indebolite e allo stesso tempo addolcite, emerge con forza l´esigenza collettiva di combattere gli effetti negativi della modernizzazione, che ha creato forme di dominio estreme e ha distrutto la natura conquistandola. Noi cerchiamo di ricomporre un´esperienza collettiva e individuale che è stata lacerata. Si tratta di ristabilire una relazione tra i termini che le fasi anteriori della modernizzazione avevano contrapposto gli uni agli altri: il corpo e la mente, l´interesse e l´emozione, l´altro e il medesimo. È questo il grande progetto del mondo attuale, il progetto da cui dipende la nostra sopravvivenza, come ripetono i militanti dell´ecologia politica. Ma chi sono gli attori di questa ricostruzione? Chi occupa il posto centrale che nella società industriale fu degli operai, e, in un passato più lontano, dei mercanti che distrussero il sistema feudale?
La mia risposta è che sono le donne a occupare questo posto, perché sono state più di altri vittime della polarizzazione di società che hanno accumulato tutte le risorse nelle mani di un´élite dirigente costituita da uomini bianchi, adulti, padroni o proprietari di ogni specie di reddito e i soli a poter prendere le armi. Le donne sono state considerate allora come non-attori, private di soggettività, definite tramite la loro funzione più che la loro coscienza. Per verificare questa ipotesi, ho ascoltato voci di donne, un modo di procedere poco frequente poiché di solito si parla di vittime ridotte al silenzio piuttosto che desiderose di far ascoltare la propria voce. Il metodo seguito, che deve essere valutato sia per i suoi limiti che per la sua originalità, consiste nel mostrare che la nuova affermazione di sé da parte delle donne è direttamente e profondamente legata al rovesciamento culturale. Questo fa delle donne le attrici sociali più importanti, ma ha come contropartita il fatto che la loro azione non presenta le caratteristiche tipiche dell´azione dei movimenti sociali, fra i quali rientrava, in un passato ancora recente, lo stesso movimento femminista. Coscienza femminile e mutazione sociale non sono più separabili: le donne costituiscono un movimento culturale più che un movimento sociale.
Mi viene rimproverato di attribuire un´eccessiva importanza alla coscienza femminile proprio nel momento in cui le lotte femministe avrebbero ormai perso la loro radicalità e la loro visibilità. Perché scegliere le donne come figura centrale della nostra società quando le disuguaglianze crescono, la violenza si intensifica a livello internazionale ed eserciti e terrorismo si affrontano? Perché non accordare ai grandi dibattiti politici l´importanza che meritano nella misura in cui cercano di tenere insieme unità e diversità, innovazione e tradizione? In fin dei conti, coloro che, uomini e donne, rifiutano nel modo più completo il mio modello di approccio, sono proprio quelli che credono che la dimensione del genere stia a poco a poco perdendo importanza nella vita sociale.
(***)
Il rovesciamento che ci conduce da una società di conquistatori del mondo a una incentrata sulla costruzione di sé ha portato alla sostituzione della società degli uomini con una società delle donne. Non c´è ragione di pensare che la precedente riduzione delle donne in uno stato di inferiorità lasci ora il posto all´uguaglianza. Le donne, oggi, hanno, rispetto agli uomini, una capacità maggiore di comportarsi come soggetti. Sia perché sono loro a farsi carico dell´ideale storico della ricomposizione del mondo e del superamento dei vecchi dualismi, sia perché mettono più direttamente al centro il proprio corpo, il proprio ruolo di creatrici di vita e la propria sessualità. Per un lungo periodo sono stati gli uomini a determinare il corso della storia e a manifestare una forte coscienza di sé. Ma da alcuni decenni ormai, e per un tempo indeterminato (forse senza una fine prevedibile), siamo entrati in una società e viviamo vite individuali il cui "senso" è sempre più nelle mani, nella testa e nel sesso delle donne, e sempre meno nelle mani, nella testa e nel sesso degli uomini.
Riassumendo: l´importante è scegliere. La categoria delle donne, dato che non si può dare di essa una definizione interamente sociale, deve forse essere considerata più debole di una categoria che ha un significato più specificamente sociale, economico o culturale? O, al contrario, bisogna ritenere che al di sopra dei gruppi sociali reali, dei loro interessi e delle loro forme di azione collettiva è necessario collocare le donne intese come categoria e allo stesso tempo come agenti più di quanto non lo siano gli uomini, perché in grado di mettere in discussione i problemi e gli orientamenti fondamentali della cultura? La prima risposta è stata scelta da molti, in particolare dai marxisti, soprattutto, oggi, dagli uomini e dalle donne che difendono il multiculturalismo. Ovviamente io sono tra quelli che hanno scelto la seconda risposta. L´universalismo, che so essere un attributo centrale della modernità, è sinonimo di difesa dei diritti individuali e dei risultati della scienza. E l´importanza fondamentale del femminismo è che, al di là delle lotte contro la disuguaglianza e l´ingiustizia, ha formulato e difeso i diritti fondamentali di ogni donna, ovvero: il diritto di essere un individuo libero, guidato dai propri stessi orientamenti e dalle proprie capabilities, per usare la formula di Amartya Sen che Paul Ricoeur ha ben tradotto con l´espressione «poter essere».
© Librairie Arthème Fayard,2006
© Il Saggiatore, 2009 Traduzione di Monica Fiorini

Corriere della Sera 22.4.09
I medici che non vogliono denunciare i clandestini
Da Torino a Bari: distintivi sui camici e cartelli multilingue


MILANO — Medici-obiettori che per rendersi riconoscibili in corsia lo scrivono sul camice: «Io non ti denun­cio ». Associazioni di categoria che invi­ano petizioni al governo per rafforzare il proprio «no»: «Quel provvedimento va contro il nostro codice deontologi­co ». Regioni che rivendicano la pro­pria autonomia in fatto di sanità, riba­discono le norme in vigore, ne varano di nuove: «Le cure devono essere ga­rantite a tutti nel pieno rispetto della Costituzione e della privacy». La batta­glia contro il provvedimento che pre­vede la denuncia da parte dei medici dei clandestini è trasversale. Politica e di categoria. Un rincorrersi di iniziati­ve per fermare il disegno di legge. Per interrompere le denunce: tre quelle re­gistrate prima che la norma sia entrata in vigore. Ma anche per contenere il crollo di richieste di cure da parte de­gli stranieri: dei cittadini sprovvisti di permesso di soggiorno ma anche degli immigrati in regola.
Da Milano a Roma. Da Torino a Ge­nova. Pur senza nomi e cognomi le sta­tistiche parlano chiaro. «Il numero di immigrati che nei primi tre mesi del­l’anno hanno chiesto cure è calato del 10-20% rispetto al 2008», denuncia Massimo Cozza, responsabile dei me­dici della Cgil. Il crollo a febbraio: «Nel pieno del dibattito e dell’approvazione del ddl al Senato». Ora, spiega il presi­dente nazionale della Società italiana medicina d’emergenza-urgenza Anna Maria Ferrari, «gli accessi registrati nelle principali strutture di emergenza sono tornati quasi nella norma». «Ma non appena si ricomincerà a parlare di medici-spia ci sarà un nuovo calo», av­vertono gli addetti ai lavori. Del resto le denunce sono state più veloci del­l’entrata in vigore della legge: i primi di marzo, all’ospedale Fatebenefratelli di Napoli, Kante, 25 anni, ivoriana in attesa del riconoscimento di asilo poli­tico, è stata segnalata dopo aver dato alla luce un bimbo; un mese dopo, agli Spedali Riuniti di Brescia, Maccan Ba, 32 anni, senegalese, è stato raggiunto da un ordine di espulsione dopo aver richiesto cure per un mal di denti; ne­gli stessi giorni, al Santa Maria dei Bat­tuti di Conegliano (Treviso), una nige­riana di 20 anni è stata registrata al pronto soccorso come «paziente igno­ta » e dimessa con un foglio di via.
Spiega Massimo Cozza: «La paura è la fuga degli immigrati dagli ospeda­li ». Con un doppio rischio: «Per la salu­te dei cittadini stranieri, il cui diritto alle cure è sancito dalla Costituzione, e per la salute pubblica». Parole che ri­calcano storie di Carlos e Joy: lui, 20 an­ni, sudamericano trapiantato nel Pave­se, per paura di essere denunciato ha rischiato di morire di peritonite; lei, 24 anni, nigeriana, prostituta, è morta di tubercolosi avanzata. «Il 50% degli ospiti del Cara di Bari, il centro di acco­glienza dove era stata, è risultato posi­tivo alla malattia».
Al San Paolo di Milano, punto di ri­ferimento per i suoi ambulatori dedica­ti agli immigrati, i medici lavorano con la spilla «Io non ti denuncio». Qui il calo dei cosiddetti «stranieri tempo­raneamente presenti» è stato del 40%, la media dei tre mesi registra un meno 22. Richieste di intervento in discesa anche al Niguarda e al Fatebenefratelli (-10). A capo dell’assessorato regiona­le alla Sanità c’è il leghista Luciano Bre­sciani, ma già lo scorso febbraio la di­rezione generale ha inviato una circola­re per ribadire che i clandestini hanno diritto a cure gratuite. Cure che, stan­do ai primi risultati dell’indagine pilo­ta avviata dall’Asl (guidata dalla leghi­sta Cristina Cantù), ammonterebbero a 15 milioni l’anno. Anche il governa­tore Piero Marrazzo ha inviato una cir­colare ai medici del Lazio, ma per riba­dire che non devono ottemperare alla denuncia. Una norma sulla quale ha espresso preoccupazione anche il con­siglio di facoltà di Medicina del Gemel­li. Da inizio anno a metà aprile gli ac­cessi degli stranieri nei 39 principali ospedali del Lazio, dicono i dati del­l’Agenzia sanità pubblica, sono stati 4.789 rispetto ai 6.433 del 2008. Al San Camillo sono passati da 748 a 573, al Tor Vergata da 239 a 63. Al Casilino da 1.640 a 1.589. Ma qui — dove il respon­sabile del dipartimento di emergenza Adolfo Pagnanelli ha fatto firmare ai «suoi» medici una dichiarazione in cui si impegnano a non denunciare e per comunicarlo ai pazienti ha fatto affig­gere cartelli in sette lingue — è la «fu­ga » di romeni che colpisce: meno 18%. Cartelli in più lingue sono stati affis­si su richiesta dei governi regionali an­che in Emilia Romagna, Puglia, Sicilia. In Liguria il debutto è atteso a ore. In Piemonte i manifesti sono in fase di ideazione. Tutte Regioni che hanno in­viato anche circolari ad hoc per ribadi­re che l’unica norma in vigore è quella contenuta nel testo unico sull’immi­grazione che prevede il divieto di de­nunciare i pazienti. «Faremo ricorso al­la Consulta perché quella norma è in­costituzionale », annuncia l’assessore alla Sanità della Toscana Enrico Rossi. Al Careggi di Firenze gli irregolari so­no passati da 145 a 122, preoccupa la diserzione del consultorio femminile. Per la Puglia il governatore Niki Ven­dola ha annunciato una «norma spe­ciale » contro quella nazionale. Tutti obiettori i medici del Simeu. Il cartello al San Paolo di Bari: «Qui non denun­ciamo nessuno». E non sono solo i go­vernatori di centrosinistra a portare avanti la battaglia. Il presidente della Sicilia Raffaele Lombardo ha voluto che all’interno della legge di riordino del sistema sanitario fosse introdotto un emendamento: «A tutti le cure am­bulatoriali e urgenti senza che ciò im­plichi alcun tipo di segnalazione all’au­torità ». Sicilia in controtendenza, co­me la Calabria, anche in fatto di nume­ri: nei centri per immigrati dove i me­dici indossano la maglietta «non vi de­nunciamo » gli accessi sono quasi rad­doppiati.

Corriere della Sera 22.4.09
E la norma sui pazienti stranieri esce dal disegno di legge sulle ronde


ROMA — Alla fine cede anche la Lega e la norma che cancella il divieto per i medici di denunciare gli stranieri clandestini sparisce dal disegno di legge sulla sicurezza.

Mentre dai centri di identificazione si preparano ad uscire almeno 700 extracomunitari senza permesso di soggiorno, il Pdl decide di modificare ulteriormente il provvedimento all’esame della Camera e di eliminare quell’articolo che tante polemiche ha già provocato soprattutto tra i dottori che hanno minacciato l’obiezione di coscienza. L’accordo raggiunto durante una riunione tra i capigruppo prevede di approvare prima possibile l’introduzione delle ronde dei cittadini e l’allungamento dei tempi di permanenza nei Cie fino a sei mesi, ma più volte la maggioranza si è divisa su questi temi e dunque non è affatto scontato che alla fine questa intesa reggerà davvero.
Il primo appuntamento della giornata è fissato a Montecitorio dove i responsabili parlamentari del Pdl Fabrizio Cicchitto e Italo Bocchino incontrano quelli della Lega Roberto Cota e Federico Bricolo. Il Carroccio — in testa il ministro dell’Interno Roberto Maroni — non ha digerito la scelta del governo di eliminare le ronde dal decreto legge e soprattutto la bocciatura dell’articolo sui Cie, dunque la maggioranza sonda il terreno. La Lega prende tempo, la risposta ufficiale arriverà soltanto oggi. Ma l’intesa appare scontata visto che Bricolo e Cota in serata dichiarano: «Accettando i nostri documenti, governo e maggioranza si impegnano a portare avanti una linea di rigore. Il passo falso fatto alla Camera con l’approvazione dell’emendamento Franceschini che porterà al rilascio di oltre mille clandestini nei prossimi giorni sarà dunque superato».
Il realtà già domenica usciranno dai Centri di identificazione ed espulsione oltre 700 stranieri. Questa mattina il Senato trasformerà infatti in legge il decreto sicurezza, ma senza la norma per il prolungamento della permanenza nei Cie si è tornati al vecchio regime che prevede di accertare l’identità dello straniero entro 60 giorni. Al termine di questo periodo, se non è possibile garantire il rimpatrio nel Paese d’origine, a queste persone viene intimato di lasciare il territorio entro cinque giorni. È il cosiddetto «foglio di via» che raramente viene rispettato, anche se questo fa rischiare l’arresto.

Le denunce «preventive»
Prima ancora dell’entrata in vigore del ddl, si sono registrate 3 denunce di immigrati irregolari: a Napoli, a Brescia e a Conegliano (Tv) Gli accessi al Pronto soccorso Ecco i dati relativi agli stranieri registrati nei Pronto soccorso degli ospedali romani, nei primi tre mesi dell’anno, con il confronto tra 2008 e 2009. Al San Camillo, il totale è sceso da 748 a 537. Al Policlinico di Tor Vergata crollo verticale: da 239 a 63. Al Policlinico del Casilino si è passati da 1.640 a 1.589.
Nei 39 principali istituti sanitari del Lazio, la differenza è di oltre 1.500 accessi: dai 6.433 del 2008 ai 4.784 del gennaio-marzo 2009 Nelle cliniche del Centro-Nord A Milano, la diminuzione complessiva è stata dell’8-10%. Al Niguarda, dal 1˚ gennaio al 16 aprile, il numero di irregolari visitati è sceso dai 1.811 del 2008 ai 1.593 di quest’anno (i ricoveri sono passati da 345 a 313). Al San Paolo il calo è stato del 22%: da 215 a 167. Al San Carlo si è passati da 336 a 314, al Fatebenefratelli si registra un -10%. In diminuzione gli accessi a Firenze, nell’Azienda ospedaliera universitaria di Careggi: da 145 a 122.
A Torino, nell’Ospedale San Giovanni Bosco, mini-inversione di tendenza: da 44 a 49 I dati genovesi Nell’azienda ospedaliera San Martino, i dati sono suddivisi per nazionalità. Gli stranieri originari dell’Ecuador (tra le comunità più presenti sul territorio) sono scesi dai 554 di un anno fa ai 486 del 2009. I migranti dai Paesi africani sono passati da un totale di 404 alla cifra di 320. I romeni, infine, sono diminuiti in misura minore, da 171 presenze a 168

Corriere della Sera 22.4.09
A vent’anni dalla morte si riaccende il dibattito sul Premio Nobel irlandese. Mentre viene ridimensionato il ruolo dei critici letterari
E Beckett smascherò il Proust nichilista
Solo un genio può comprendere un genio
di Alessandro Piperno


All’ultima devastante serie di cazzotti con cui Mohammed Ali stende George Fore­man nella famosa notte di Kin­shasa. È a questo che penso al cospetto di un libro in cui un Peso Massimo della Letteratu­ra si occupa senza alcun sussiego di un consimi­le. Un’idea dell’arte agonistica, hemingwayana, ma non solo. Diciamo che mi ha sempre persua­so l’idea un po’ demodé secondo cui non esiste comunicazione più proficua di quella tra som­mi scrittori: Baudelaire che scrive di Poe, Mann di Cervantes, Sartre di Flaubert, e così via...
E i critici? Qual è il loro posto in questa festa dell’interpretazione? Temo si debbano accomo­dare sugli spalti. Ma come? Non sono i critici i depositari delle ultime verità? I distributori auto­matici di voti? I compilatori di canoni e classifi­che? Appunto, roba gustosa quanto inutile. Tan­to più che i pochi grandi critici sono, a loro vol­ta, superbi scrittori. E tutti gli altri mi ricordano quell’istruttore di sci della mia adolescenza che mi diceva che Alberto Tomba non aveva stile.
Ed ecco perché amo un grande narratore che mi parla di un grande narratore. Un grande poe­ta che mi parla di un grande poeta. Mi fido del­l’esperienza sul campo, le mani sporche. Restan­do in ambito sportivo (che ci posso fare? oggi va così), confesso che quando la domenica sera guardo il posticipo calcistico su Sky, tendo a fi­darmi più delle analisi tecniche di Bergomi che delle euforiche interiezioni di Caressa.
Forse sarà questa la ragione per cui, sebbene per ragioni deontologiche mi sia trovato, nel corso degli anni, a dover leggere numerose mo­nografie dedicate a Marcel Proust, continuo a ritornare al breve scritto che gli dedicò il venti­cinquenne Samuel Beckett nel lontano 1931. E forse proprio perché, a una prima occhiata, la coppia Proust-Beckett non appare tra le meglio assortite. Da un lato, il piccolo ipocrita parigino di buona famiglia, il pederasta ebreo, reso stan­ziale da disturbi psicosomatici di ogni tipo, lo snob ossessionato dalle più raffinate eleganze della vita mondana; dall’altro il ragazzo irlande­se, chiuso, secco, in un certo senso persino vio­lento. Cosa c’è di meno proustiano dello stile di Beckett? Come può lo scabro autore di Molloy o de L’innominabile capire le estenuazioni sintat­tiche della Recherche? E, tuttavia, nonostante questo, Beckett è la persona giusta per compren­dere l’essenza e lo specifico dell’opera proustia­na. Per una specie di contiguità spirituale situa­ta evidentemente in un luogo più profondo del­la coscienza di quello in cui si colloca lo stile.
E lo capisci da una lettera indirizzata all’edito­re Charles Prentice, in cui il giovane Beckett, an­cora sconosciuto, offeso dalla notizia che il suo libro su Proust non avrà un’edizione speciale per collezionisti, scrive: «No, certo, i topi di bi­blioteca non comprenderebbero un’edizione elegante, macchiata da una simile attribuzione. Ma le signore-topo da salotto non amerebbero forse esporre un attestato declamatorio piutto­sto che un pamphlet da due scellini? O è forse estinta la razza dei mascelluti proustiani lecca­culo? ». Questa lettera viene scritta da Beckett al­l’inizio degli anni Trenta. Proust è morto in glo­ria da una decina d’anni. L’ultimo volume della Recherche è fresco di stampa. La sola cosa in cui Beckett fin qui abbia saputo distinguersi è pre­stare servizio presso James Joyce, aiutandolo a scrivere il Finnegans Wake nell’appartamento di Square Robiac dove Joyce abita in quegli an­ni. Eppure, come dimostra questa lettera, Bec­kett è già dotato della spocchia dell’artista da giovane (sarà per via dello stile spocchioso con cui è scritto, se anni dopo Beckett ripudierà il suo libro su Proust).
Certo è che il suo sarcasmo contro «le signo­re- topo di salotto» e contro «i mascelluti prou­stiani leccaculo» ci fa capire come lui intuisca il rischio che corre un’opera complessa e sedutti­va come la Recherche. Evidentemente è già in atto il grande equivoco che trasformerà ben pre­sto la cattedrale proustiana in una specie di pre­zioso scrigno ad uso di signore della buona so­cietà che vogliono ritrovare i sani sapori di una volta, e commuoversi sui giorni felici dell’infan­zia. È già in voga la moda di scrivere teneri pallo­si memoir simil-proustiani letteralmente ripu­gnanti. Beckett sa che la Recherche rischia di es­sere interpretata dai pochi intrepidi che sono riusciti a terminarla come uno dei pochi capola­vori capaci di promettere un happy end di lus­so. Il Narratore alla fine ritrova il Tempo Perdu­to, e vissero felici e contenti...
E Beckett non sbaglia. C’è già in giro in quegli anni (persino tra i critici) chi confonde la Re­cherche per un libro rincuorante con un messag­gio preciso: se lavori sodo alla fine capirai il sen­so della vita e scriverai un’opera d’arte. Il compi­to dell’arte è di salvare l’individuo dalla trituran­te azione del Tempo e bla... bla... bla... Non dico che nella Recherche non trovino posto tali trion­falistiche affermazioni. Ma solo che Samuel Bec­kett è l’uomo giusto per non prenderle neppure in considerazione, concentrandosi sul vero spi­rito della Recherche: quello malvagio, nichilista, depravato. Che non offre all’uomo che sta affo­gando alcun salvagente.
Diciamo che Beckett ha le carte in regola per diffidare della vaporosa vulgata proustiana (il Proust per signorine). E lo interpreta alla sua maniera. Così facendo, coglie nel segno. È co­me se Beckett usasse Proust per conoscersi, in tal modo compiendo il percorso che Proust sprona ogni lettore a intraprendere: leggere i li­bri per leggere se stessi. Così, attraverso l’uso privato e fazioso di opera altrui, Beckett presta un mirabile servizio alla causa proustiana. Ren­dendo intimi e pregnanti alcuni temi da lui con­divisi con Proust: noia, abitudine, l’inevitabile disboscamento della vita affettiva operato dal­l’esistenza.
Beckett vede in Proust un uomo che non cre­de nella comunicazione tra gli esseri. Che si sen­te immerso in un irredimibile mare di egoismo. E che vive i rapporti umani come uno sconfor­tante nonché beffardo succedersi di fraintendi­menti. «L'amicizia, secondo Proust, è la negazio­ne di quella solitudine senza rimedio alla quale è condannato ogni essere umano» scrive Bec­kett, e subito rincara la dose: «L’amicizia è un espediente sociale, come la tappezzeria o la di­stribuzione di bidoni delle immondizie». Come si evince dal tono della scrittura, nessuno me­glio di Beckett può capire il cinismo proustia­no, e il suo disincanto estremista. «Noi siamo soli. Non possiamo conoscere e non possiamo essere conosciuti», scrive Beckett interpretan­do la famosa asserzione di Proust secondo cui: «l’uomo è l’essere vivente che non può uscire fuori da sé, che conosce gli altri solo in se stes­so ». Beckett tiene a spiegarci come queste paro­le — come ogni discorso pronunciato da Proust — non esprimano alcun punto di vista morale. Anzi, come esse siano fuori da ogni struttura eti­ca. Beckett sa che l’eroe tragico è oltre la morali­tà borghese: «Il personaggio tragico rappresen­ta l’espiazione del peccato originale, dell’origi­nale ed eterno peccato di lui, e di tutti i suoi socii malorum: il peccato di essere nato».
Insomma, è leggendo e interpretando Proust, che Beckett impara a essere Beckett. Che Beckett incontra se stesso. E, nel farlo, quasi per caso, ci mostra la vera faccia della Recherche: un’opera dantesca nella sua ambizione di distribuire orri­bili castighi ai personaggi, ma anche shakespea­riana nella capacità di mettere in scena tragedie che dicono tutto ma non insegnano nulla. Biso­gna avere fiducia nei grandi pugili.

il Riformista 22.4.09
Pd, un anno per salvarsi o estinguersi
di Stefano Cappellini


Elezioni. Parte male il test di giugno: dopo il lancio flop delle amministrative, ieri varate liste europee in saldo. Rinvio sulla collocazione europea e pura tattica sul referendum (sì al buio). Tutto è congelato in vista di ottobre, quando si riaprirà la sfida per la leadership. Ma se alle regionali del 2010 non si inverte la tendenza...

Assenze e diserzioni, sabato scorso a Cinecittà, all'iniziativa di lancio della campagna elettorale per le amministrative. Disillusione e sarcasmo, ieri, alla riunione della direzione che ha ufficialmente licenziato le liste democratiche per le europee, votate all'unanimità, sebbene l'aggettivo più gentile che a microfoni spenti i principali associano alla loro composizione sia «imbarazzanti»: nessun big candidato, pochi nomi forti e molti «pensionamenti di lusso», a dirla con le parole di Mercedes Bresso. Per essere la tornata elettorale in cui il Pd si gioca molto del suo futuro - e il segretario Dario Franceschini pure - non si può dire che l'avventura sia partita col piede giusto.
Non è ancora chiaro nemmeno su quali banchi si sistemeranno a Strasburgo gli eurodeputati democrat. Nella sua relazione Dario Franceschini ha spiegato che vanno avanti i colloqui con il Pse per la formazione di un gruppo con un nuovo nome, ma ha anche aggiunto che se la trattativa non dovesse andare a buon fine il Pd sceglierà di fare gruppo a sé in Europa. Per Piero Fassino, fautore dell'abbraccio coi socialisti, è un bene che gli abboccamenti col Pse siano «a buon punto». Per Paolo Gentiloni, che preferirebbe autonomo a Strasburgo, è un bene che il segretario abbia messo in campo l'ipotesi di andar da soli. Nel Pd odierno funziona così: ciascuno vede quel che vuol vedere. Il resto - la sostanza, le scelte di fondo, in una parola: la politica - è congelato in attesa del congresso di ottobre.
Come dimostra al massimo livello la vicenda del referendum elettorale. Il Pd ha trovato il modo di prendere posizione senza in realtà prenderla. A netta maggioranza (solo una manciata i voti contrari, tra cui quelli di Franco Bassanini e Linda Lanzillotta) ha prevalso la tesi del sì al quesito neomaggioritario di Guzzetta e Segni. I vertici del partito si sono però ben guardati dall'entrare nel merito della questione. Franceschini ha infatti chiesto con foga il ritiro di un ordine del giorno, scritto dal dalemiano e neo-candidato europeo Roberto Gualtieri, che impegnava già da ieri il Pd a spiegare per quale legge elettorale si sarebbe poi battuto in Parlamento dopo l'eventuale vittoria dei sì. Passaggio cruciale quest'ultimo, dato che tutti, Franceschini compreso, concordano nel definire «insoddisfacente» la riforma che sortirebbe dalla urne. Risultato: il Pd darà indicazione di voto per il sì senza sapere dove andare a parare a urne chiuse e senza alcuna garanzia che dall'altra parte ci sia interesse ad aprire un tavolo comune. Anche in questo caso è la tattica a prevalere su tutto il resto. Aver fissato la consultazione al 21 giugno, insieme ai ballottaggi delle amministrative, rende improbabile - sebbene non impossibile - il raggiungimento del quorum. Che è poi lo scenario in cui confidano i convertiti dell'ultim'ora al sì, come Franco Marini e Massimo D'Alema.
Gli unici spostamenti strategici sono quelli in vista delle assise autunnali. Pierluigi Bersani è in già pre-campagna. Ha preso carta e penna per rispondere su Europa a Francesco Rutelli sul valore della parola «sinistra»: «È una parola che non puoi lasciare incustodita perché esprime un significato che esiste in natura: l'idea dell'uguale libertà e dignità di tutti gli uomini». L'ex ministro dello Sviluppo è deciso a candidarsi comunque alla segreteria, nella convinzione che Franceschini non sarà in grado di difendere la sua leadership di transizione dal risultato delle elezioni di giugno e dal clima interno, tornato di nuovo a livelli di abulìa dopo lo slancio delle prime settimane post-Veltroni. Non è un mistero che potrebbe essere il risultato delle amministrative a mettere più in difficoltà Franceschini: non basterebbe avvicinarsi al 30 per cento alle europee se poi il 7 giugno il Pd perdesse la metà e più delle giunte dove governa. Il colpo sarebbe davvero micidiale, soprattutto in vista delle regionali del 2010, quando si partirà dalll'11 a 2 del 2005 e con la possibilità che quel risultato sia quasi ribaltato. Per il Pd non si tratterebbe più solo dell'ennesima sconfitta, ma di un vero e proprio pericolo estinzione.
L'unico rischio che il principale partito d'opposizione non sembra correre è quello, pur paventato da molti, di dividersi in ex Ds ed ex Margherita al momento della conta decisiva. Le carte sono ormai mischiate. Franceschini lavora a una cordata con Piero Fassino (per affidargli magari la presidenza) e Walter Veltroni (per promuovere vicesegretario un "giovane" di area). Bersani cercherà senz'altro di mettersi in ticket con un ex popolare (Letta? Bindi?) e di coinvolgere in qualche modo Romano Prodi. Ma deve già da ora stare attento a non perdere pezzi. Se Bersani ha scritto a Rutelli per disquisire di «sinistra» è anche perché sa bene che c'è chi nel partito aspetta solo la sua elezione alla leadership per denunciare la definitiva trasformazione del Pd nell'ennesima Cosa post-comunista e tuffarsi in qualche iniziativa neocentrista.

il Riformista 22.4.09
La laicità è più della polemica con la Chiesa cattolica
di Biagio Di Giovanni


L'Italia ha avuto un pensiero laico di altissimo livello europeo, spesso in posizione di avanguardia. Un pensiero che ha attraversato tutta la modernità, e che non ha mai trovato adeguata rappresentazione nella dimensione più propriamente politica

Che cos'è la laicità? È qualcosa di molto più ampio di una polemica, per quanto aspra, nei confronti della Chiesa cattolica, avverte Michele Ciliberto, curatore di un bel volume elegantemente intitolato al tema: "Biblioteca laica. Il pensiero libero dell'Italia moderna" (Laterza 2008). E il primo commento che viene spontaneo al lettore, è che l'Italia ha avuto un pensiero laico di altissimo livello europeo, spesso in posizione di avanguardia: a opera di quella intellettualità italiana cosmopolitica che dall'umanesimo in poi ha contribuito a fare l'Europa. Un pensiero, quello laico, che ha attraversato tutta la modernità, e che forse non ha mai trovato una adeguata rappresentazione nella dimensione più propriamente politica. Come se i pensieri che hanno percorso la cultura e la vita civile si inaridissero a contatto con un potere che raramente si è collocato alla loro altezza, pure per i ritardi nel farsi l'Italia nazione. Per cui i discorsi di Cavour sulla libera Chiesa in libero Stato, pronunciati in Parlamento fra il marzo e l'aprile del 1861, poco prima della morte (e riportati a conclusione del volume), restano esempio raro di una coscienza politica laica cristallina, che rapidamente declinò verso deboli compromessi istituzionali. La storia della Chiesa ha costituito un ostacolo per la storia dell'Italia nazione secondo l'idea di Machiavelli, non di un agitatore sconsiderato: ma si è perso il seme del problema. Ne ha ritardato l'unità, prima operando attraverso la separazione, sottraendo parti di legittimazione allo Stato, lasciandolo guardare come una mera macchina di potere; poi, attraverso una costante invasione di campo (rare le eccezioni: il grande Giovanni XXIII su tutti) che fa del nostro Paese qualcosa di unico nel panorama europeo su questo tema. E qui tutti hanno avuto le loro responsabilità, soprattutto quella sinistra che intese costruire un aspetto del compromesso sociale e politico con la costituzionalizzazione dei Patti lateranensi, condizione privilegiata per la Chiesa, cui non corrisponde, per essa, una uguale serie di doveri civili.
Ma torniamo al libro, che consiglio soprattutto, al giovane lettore, di tenere sul comodino, ogni sera qualche pagina da leggere. «Nella laicità - scrive Ciliberto - si è espressa una vera e propria concezione della sapienza - quella mondana, civile che appare in modo luminoso nei testi qui adunati. Se si vanno a leggere i capisaldi di tale cultura, ci imbattiamo in concetti decisivi come quelli di legge, di conflitto, di eguaglianza, di dissimulazione, di bisogno, di libertà di stampa, di opinione pubblica, fino all'argomentazione del rifiuto della tortura e della pena di morte». Laicità, dunque, come sapienza mondana, dove si affollano i temi della condizione umana finita, che si muove fra necessità, libertà e dubbio, tra virtù e fortuna, che accetta di stare nel mare della vita, sapendo che «gli uomini non comandano alle stelle», come scriveva Machiavelli, o che «gli uomini sono al buio delle cose», come diceva lo scarno Guicciardini, e che «le religioni nascono, crescono e muoiono», come insegnava Pietro Pomponazzi. Gli straordinari frammenti sulla religione di fra' Paolo Sarpi, che, liberamente religioso, paventava quei pensieri che rendevano gli avvenimenti «più soggetti alla provvidenza che alla disposizione umana». E la "libertas philosophandi" nasce in questo orizzonte, conquista combattendo la sua autonomia, per cui «chi proibisce ai Cristiani lo studio della filosofia e delle scienze proibisce loro anche di essere cristiani», come scriveva fra' Tommaso Campanella, dal carcere dell'inquisizione contro le pretese della Chiesa di allora. E Giordano Bruno, con eroico furore, scelse di morire per non abiurare alla sua convinzione.
Insomma, il senso di una sapienza assai umana, premessa di vita civile, che contribuì alla rappresentazione di una cultura non preda di un relativismo algido e agnostico, ma che pose pure le basi di quella religione civile capace di costruire istituzioni, la religione civile che va da Machiavelli a Francesco De Sanctis e a Bertrando Spaventa. Proprio questa sapienza diventa rispettosa della vita, fonte di istituzioni umane. Essa condanna, nelle pagine di Beccaria, con anticipo su tutta Europa, la pena di morte e la tortura, condanna motivata nell'autonomia della vita morale. E poi afferma la necessità della educazione pubblica, della libera stampa, del conflitto da cui nasce armonia, di una autonoma costituzione politica, di una legge che spezzi i privilegi, e di una religiosità cristiana intrinsecamente non clericale, come nelle pagine di Alessandro Manzoni dedicate al tema della responsabilità umana. Insomma, una grande Italia, di cui qualche volta ci dimentichiamo, persi nelle nostre controversie quotidiane, in alcune miserie presenti e passate, o supini rispetto a visioni che riportano indietro la nostra coscienza civile, quasi che la religione non dovesse germinare dall'interno della nostra viva umanità, ma si scandisse in un suo tempo separato come un recinto del sacro da cui promanano i custodi della verità.

il manifesto 22.4.09
Fini e Bertinotti, la "strana coppia"
di Clementina Colombo


Chi avrebbe immaginato, anche solo un paio d'anni fa, di leggere su un giornale di sinistra, in occasione del 25 aprile, un editoriale firmato da Gianfranco Fini? E chi avrebbe creduto possibile che quell'editoriale fosse a fianco di un altro articolo di fondo, per la penna di Fausto Bertinotti?
Il presidente della camera e il suo predecessore compaiono invece insieme sulla prima pagina di un quotidiano che ancora non è in edicola ma ci sarà presto, dal prossimo primo maggio: “l'Altro”, diretto da Piero Sansonetti. Il numero zero del nuovo giornale era stato distribuito, gratuitamente, il giorno della manifestazione dei metalmeccanici a Roma, 4 aprile. Questo secondo numero zero sarà a sua volta distribuito gratuitamente il 25 aprile.
Il pezzo forte, va da sé, è il lungo articolo dell'ultimo segretario del Msi. Un pezzo impegnato, in cui Fini ripete cose in parte già dette ma con una nettezza e una drasticità sinora inedite. La guerra civile del 1943-45, scrive Fini citando lo storico di sinistra Claudio Pavone, “portò allo scontro frontale tra due diverse idee di nazione. L'una, nutrita dal nazionalismo fascista, conduceva all'espansionismo, al razzismo e all'annullamento dei diritti dell'uomo. L'altra, indissolubilmente legata ai valori della libertà e della democrazia, portava alla costruzione di una nuova stagione di progresso civile per l'Italia”.
Certo, il leader di An (o di quel che ne resta) non rinuncia a segnalare la presenza di una componente non democratica nella Resistenza, ma lo fa con toni infinitamente distanti da quelli adoperati da Silvio Berlusconi. Prosegue infatti così: “Non c'è dubbio che l'idea 'giusta' di nazione fosse la seconda. Solo dopo averlo affermato senza reticenze si può poi rilevare che non tutto lo schieramento antifascista fosse ispirato da princìpi democratici. Si può rilevare che ci furono formazioni partigianeche videro il conflitto fascismo-antifascismo più come lotta di classe che come battaglia per la libertà della nazione”. E anche qui è marcata la suggestione delle tesi di Pavone, nel suo insuperato “Una guerra civile”.
Sia chiaro, la visione di Fini è distantissima da quella di Bertinotti che, al contrario, rintraccia proprio nella istanza egualitaria che animava la Resistenza il suo lascito più attuale e utile per ricostruire una sinistra distrutta. E tuttavia non c'è dubbio che tra la visione dei due inquilini di Montecitorio esista una base di valori condivisi, se non per quanto riguarda l'eguaglianza almeno sul fronte della libertà e della accettazione piena della democrazia.
Ed è altrettanto certo che, accettando l'invito di Sansonetti, Fini ha voluto prendere, nella maniera più plateale possibile, le distanze non tanto dai vari La Russa e colonneli vari quanto da Silvio Berlusconi e dalla sua ben più profonda e pericolosa ambiguità.

martedì 21 aprile 2009

Repubblica 21.4.09
Il testamento politico di Foa
La memoria e il futuro
La nuova introduzione a "Questo novecento" scritta prima della scomparsa
di Vittorio Foa


L’intellettuale "voce" della sinistra decise di fare l´ultima versione nel settembre 2008: qui ne anticipiamo un brano
Il racconto, da protagonista e testimone della politica italiana, dall´inizio del secolo fino agli anni Novanta

Con la memoria della Shoah abbiamo imparato a celebrare non soltanto chi cade in guerra ma chi è vittima innocente, il civile. Possiamo ricordarne i nomi e le età e celebrare in una memoria carica di insegnamento la morte di chi non immaginava di morire.
Con il 1945 abbiamo ricostruito il sistema dei partiti, per seguire l´esempio dei paesi vincitori e anche per riallacciarci al passato, dopo vent´anni di soppressione dei partiti. Ma successivamente i partiti hanno lasciato troppa insoddisfazione.
Mi sembra che esista un fenomeno dai tempi lunghi: una destra profonda che prende le forme più varie, a volte persino forme di sinistra. Le forme della destra profonda possono essere nazionaliste, militariste, razziste, fasciste, o puramente liberistiche. In tutti questi casi la chiusura nel proprio particolare, nella famiglia e il proiettare il rapporto con il mondo sulla propria particolarità diventano dominanti.
Le lotte politiche fra i partiti socialisti, comunisti e democristiani si susseguirono per anni, fin verso la fine del secolo, quella di cui stiamo ancora adesso vivendo gli esiti, che ha visto la fine dei partiti. Il partito socialista che aveva sperato di ereditare dai comunisti la loro base elettorale, è scomparso insieme con essi. L´Italia è l´unico paese in cui questo sia successo. Il socialismo è in declino in tutti i paesi europei e non esiste negli Stati Uniti. Cosa vuol dire, che il socialismo non ci sarà più? Questa è la mia previsione, almeno per i prossimi anni.
Negli anni Sessanta, una parte dei sindacati lasciò la dipendenza dalle confederazioni e scelse la linea dell´unità sindacale: lavorare insieme estendeva le possibilità di ricerca e inoltre portava a comprendere che il conflitto non nasce dalla miseria ma soprattutto dagli sviluppi comparativi. La linea dell´unità sindacale fu troppo presto abbandonata. Adesso abbiamo un´occasione: liberiamoci finalmente delle ideologie anche nel campo del lavoro.
Ho ricevuto la visita di una delegazione della Cisl di Padova e Lorenza Leonardi mi ha chiesto, a quanto ho capito, se ero d´accordo che nella linea dell´unità sindacale, svincolato il sindacato dai partiti, non ci fosse più solo il contratto, ma anche tutto il resto, cioè la nuova povertà. Evidentemente sono d´accordo.
Alla fine del secolo ventesimo, i partiti politici che dal 1945 avevano sorretto la politica italiana sono scomparsi sotto un´accusa che era giusta, anche se non era sincera, cioè per il fatto che dipendevano da premesse ideologiche. La più profonda anomalia della situazione italiana è, a mio giudizio, quella della permanenza dei sindacati, ognuno dei quali riferito a una realtà che non esiste più: quella dei partiti con le loro ideologie. Possiamo sperare di unificare il lavoro superando le ideologie ormai vuote di significato dei vecchi partiti? Possiamo sognare un´unità sindacale nella quale tutti i lavoratori possano confrontare le loro idee, le loro speranze, le loro sofferenze? Non so perché, ma mi sembra che l´unità sindacale alla quale io penso non unificherebbe soltanto la tecnica sindacale, ma andrebbe oltre. Nessun contratto sindacale risolve i problemi della felicità, neanche accenna a risolverli. Eppure la ricerca delle nuove povertà vuol dire la ricerca da parte del nuovo sindacato sul modo di vivere, sul modo di migliorare sul serio la nostra vita collettiva. Pensare alla fine del secolo ci costringe a sentirci più responsabili di quello che eravamo anche in passato, tutto va ripensato insieme con gli altri, bisogna pensare al futuro senza pensare soltanto a noi stessi. Dobbiamo sentirci diversi dal passato, se non riusciamo a fare questo finiremo per essere ancora poveri oltre che nei fatti anche nelle idee rispetto agli altri. Ecco perché, nel campo del lavoro e delle infinite ingiustizie che la sua realtà ci rivela, io credo all´unità dei lavoratori, alla forza che può derivare dal sentirsi uniti.
Nella seconda parte del secolo attraverso varie vicende ha prevalso la funzione centrista della politica. Voglio ricordare la figura emblematica di Togliatti, sinceramente doppia, come campione di difesa della democrazia italiana e come capo dell´Internazionale comunista. E poi quella di De Gasperi. Oggi non si parla più di politica, nessuno parla del futuro, tutto è una ricerca a sfruttare il presente. A volte ci sembra che la stessa politica sia fuori di ogni pratica possibilità, che non si possa più lavorare insieme per sé e per gli altri, per sé e per tutti.
Si potrebbe invece pensare, per quel che riguarda il futuro, in relazione all´eventuale mutamento della direzione politica americana a una diversa distribuzione delle risorse a livello mondiale e quindi a un diverso livello dei prezzi: l´apertura di una fase di interventismo sui prezzi potrebbe cambiare il quadro.
Torniamo dunque all´Italia, torniamo alle vicende di questo fine secolo che ha visto, a mio giudizio, la maggior parte delle persone ripiegarsi su se stesse: è possibile ricondurle ad un agire che abbia significato universale, a non pensare solo a se stessi e neppure solo agli altri, ma a pensare a se stessi insieme agli altri? Io credo profondamente nella possibilità per la mente umana di scegliere delle vie positive e non soltanto la via dell´egoismo.
Possiamo aiutare questo sviluppo dell´umanità? C´è chi dice che potremmo utilizzare altri parametri, per esempio quello dei diritti umani, che è indipendente dalle nazioni, dalle religioni e dai partiti. È una prospettiva seducente, da approfondire.
Vorrei fare delle osservazioni sul paradosso eleatico. Tutti sono convinti che Achille vince la corsa con la tartaruga, ma tutti sanno che nessuno è in condizione di dimostrare la vittoria di Achille. Vi sono delle ragioni numeriche, relative al calcolo dell´infinito, che nessuno è riuscito a risolvere. Ma vi può essere anche una ragione più profonda: Achille è la guerra e la guerra produce altra guerra. In ogni caso Achille, ovunque si presenta, uccide, annienta e vince. Tuttavia non c´è totalitarismo che possa coprire ogni evento storico: Achille può uccidere da tutte le parti, ma la tartaruga è sempre lì, raccolta nei suoi piccoli e lenti passi, a riflettere sulle vicende del mondo e a sognare che alla guerra assoluta si possa rispondere con la pace.
Quando io sono nato, l´Europa era sul punto di scannarsi, divisa in nazionalismi contrapposti. Ed era al centro del mondo. La guerra ha significato anche l´inizio dell´abbandono della sua posizione centrale, con l´entrata dell´America in Europa. Oggi, non ci sono più frontiere e stiamo avviandoci verso l´unità. Ma l´Europa non è più centrale. Forse è un bene.
Siccome credo profondamente nella libertà, non credo solo nella libertà di ciascuno di dire quello che pensa, ma credo anche nel fatto che le idee di ciascuno possano e debbano cambiare.

Repubblica 21.4.09
L’intervista
"Il rischio è quello del determinismo"
di Alessandra Viola


Professor Umiltà, coautore del libro "Neuro-mania", a cosa si deve la diffusione di queste nuove discipline?
«Questa specie di moda risale agli anni ‘90, quando le ricerche sul cervello attirarono ingenti finanziamenti da parte del governo Usa. Allora molte altre discipline scelsero di partecipare al banchetto, inventando neuroeconomia, neurofilosofia e così via. D´altra parte le neuroscienze cognitive non hanno mai goduto di tanta salute. Diciamo che altri sono balzati su quello che sembra il carro del vincitore».
Solo opportunismo?
«No, credo ci sia alla base anche un cambiamento culturale. Fino agli anni Settanta, pensare che un comportamento fosse legato a una causa biologica era giudicato con sospetto. Tutti i comportamenti erano visti come risultato del vivere sociale e quindi si postulava la loro modificabilità attraverso una migliore organizzazione sociale. Un atteggiamento progressista. Ora la situazione è opposta. La mania di ricercare nel cervello la ‘zona dell´innamoramento´ o la ‘zona della religione´ induce a un rigido determinismo».

l’Unità Firenze 21.4.09
In Toscana 4.443 alunni in più a fronte di 1.464 insegnanti in meno
«Si smantella la scuola pubblica»
Scuola, lanciata in Toscana la petizione del Pd contro i tagli del Governo
di Sonia Renzini


La Toscana ha già fatto i conti con la razionalizzazione. «È stata utile - dice l’assessore Simoncini - ma di fatto abbiamo già una media di alunni per classe superiore a quella nazionale: 21.2 contro 20.6».

Scuola, lanciata in Toscana ieri la petizione popolare del Pd contro i tagli del Governo. Cinque le emergenze: soddisfare le richieste delle famiglie sul tempo scuola, bloccare l’espulsione dei precari, assegnare risorse adeguate agli istituti, mettere in sicurezza gli edifici ed evitare la chiusura delle piccole scuole di montagna. La raccolta delle firme terminerà all’inizio di maggio, subito dopo verrà presentata dal Pd una mozione parlamentare sia alla Camera che al Senato.
Lo smantellamento
«Bisogna evitare la più grande operazione di smantellamento della scuola pubblica - dice il responsabile nazionale del dipartimento educazione del Pd Giuseppe Fioroni - perché, di questo passo, la scuola tornerà a essere uno strumento che opera la selezione per censo e le famiglie non sceglieranno l’educazione che vogliono, ma solo quella che possono permettersi». Qualche esempio? Il Pd annuncia che i fondi di istituto sono stati azzerati e per i corsi di recupero mancano i soldi. «Questo significa che le famiglie dovranno pagarsi anche la carta igienica e i gessi - continua Fioroni - senza contare il trionfo del ritorno alle ripetizioni private».
Poi, c’è tutta la questione relativa al maestro unico. Secondo i dati del Ministero, riportati ieri da Fioroni, risulta che l’opzione è stata tutt’altro che bene accolta: i genitori hanno scelto nel 42% dei casi il tempo pieno, l’altra gran parte le 30 ore, pochissimi le 24. Ma tant’è. Il Governo va avanti per la sua strada e mette mano alla scure.
I numeri
Numeri alla mano, in Toscana ci saranno 4.443 alunni in più a fronte di 1.464 insegnanti in meno tra scuola primaria (-363), media (-659) e superiori(-437, più 874 dipendenti in meno tra il personale amministrativo tecnico ausiliario (Ata). Senza contare che altri 1.412 docenti andranno in pensione e non verranno sostituiti. Ce n’è abbastanza per essere allarmati. Tanto più che la Toscana ha già fatto i conti negli anni con una politica di razionalizzazione. «L’abbiamo portata avanti concordandola con i territori - dice l’assessore regionale al Lavoro Gianfranco Simoncini - ed è stato utile, ci ha permesso di salvare tante piccole scuole in zone pocco raggiungibili, come in montagna. Ma resta il fatto che abbiamo già una media di alunni per classe superiore a quella nazionale: 21.2 contro quella italiana di 20.6 e di 21 per il Centro».

Corriere della Sera 21.4.09
Gli stranieri e i dati di Bruxelles
Nuove cittadinanze i numeri record di Londra e Parigi
Il quintuplo. In Gran Bretagna e Francia legalizzato un numero di immigrati 5 volte superiore rispetto all’Italia
di L. Off.


BRUXELLES — I barconi alla deriva nel mare e le folle senza passaporto sono immagini e cifre dell’emergenza, dell’esodo dei «clandestini», che più colpiscono l’opinione pubblica. Ma se si guarda poi alle statistiche delle anagrafi, cioè all’immigrazione che chiede e ottiene di essere legalizzata, i Paesi in prima fila non sono l’Italia o Malta, ma quelli del Centro e Nord Europa: la Gran Bretagna (154.015 acquisizioni di cittadinanza nel 2006, secondo gli ultimi dati Eurostat) ha accolto e legalizzato circa il quintuplo degli immigrati stranieri rispetto all’Italia (35.266 acquisizioni, in maggioranza ottenute da immigrati marocchini, romeni, e albanesi); la Francia, pure; la Germania, circa il quadruplo; la Spagna poco meno del doppio. Da sole, Francia, Gran Bretagna, e Germania hanno concesso il 60% di tutte le “cittadinanze” nazionali nella Ue.
Questi dati, sempre secondo l’Eurostat, fotografano anche il livello di integrazione favorito dai vari Paesi. Se nella Ue, in media, si registrano 1,5 acquisizioni di cittadinanza ogni 1000 abitanti, in Svezia si arriva a 5,7, in Belgio a 3, in Gran Bretagna a 2,5, in Francia a 2,3.
Poi si declina verso l’1,8 dell’Olanda, l’1,5 della Germania e della Danimarca, l’1,2 di Malta, lo 0,9 della Bulgaria, lo 0,8 della Finlandia. L’Italia sta a quota 0,6, con l’Ungheria. Chiudono la fila, a quota zero, Romania e Polonia.

Corriere della Sera 21.4.09
L’ideologo del movimento a Roma per sostenere i candidati italiani. Legambiente: giusto aprire
Cohn-Bendit ai Verdi: guardate a destra
«Siate trasversali, la sinistra non sarà al potere per 4 anni». Ma la Francescato frena


La paura. Il leader francese: qui siete indietro, non abbiate paura di essere risucchiati da Berlusconi

ROMA — È venuto a Roma a sostenere i Verdi e la (probabi­le) capogruppo tra i candidati del Nord-Ovest per Sinistra e Li­bertà, Monica Frassoni. Ma, con la consueta irruenza, Da­niel Cohn-Bendit — copresi­dente europeo dei Verdi — non rinuncia a qualche sciabolata contro i fratelli italiani: «I Verdi di qui continuano a vedere solo la sinistra. Ma si devono rende­re conto che per almeno 4 anni questa non sarà al potere. E nel frattempo? Serve trasversalità, se si vuole essere influenti biso­gna guardare a tutta la socie­tà».
A Grazia Francescato, porta­voce dei Verdi, la critica non va giù: «Ma Daniel — prova a op­porsi — tu lo sai che destra ab­biamo in Italia?». Cohn-Bendit, imperterrito: «E la sinistra ita­liana allora?». Dibattito acceso e proficuo, quello per il lancio europeo della Frassoni, elogia­tissima da Cohn Bendit. Perché resta da capire come mai i Ver­di italiani siano impantanati su percentuali infinitesimali, men­tre in Europa veleggiano oltre il dieci per cento. Cohn-Bendit sa­rà capolista nell’Ile-de-France per il nuovo partito Europe Eco­logie e i sondaggi li danno già sul 10 per cento. E l’Italia? «I Verdi qui sono indietro — spie­ga 'Dany il rosso', com’era chia­mato ai tempi delle proteste stu­dentesche — perché hanno pa­ura di essere risucchiati da Ber­lusconi. Ma bisogna rischiare, contaminarsi, non si può stare sempre e solo da una parte». Non solo: «Bisogna anche ave­re credibilità: quando nei Verdi cambia un leader via l’altro e il partito sparisce insieme a lui, è ovvio che la gente non ha più fiducia».
Anche Vittorio Cogliati Dez­za, presidente di Legambiente, è per aprire le porte: «Spesso la­voriamo molto meglio, sul terri­torio, con gli assessorati di cen­trodestra, che con la sinistra». La Francescato approva, ma fi­no a un certo punto: «Questo sa­rà anche vero. Ma se devo sce­gliere tra la sinistra e la destra di Berlusconi, Dell’Utri e Carfa­gna, non ho dubbi». Non che la sinistra sia sempre stata partico­larmente sensibile in passato: «Io ero nel Pci di Berlinguer ­ricorda la Francescato — e la si­nistra è sempre stata daltonica: il verde non lo vedeva. E consi­derava ambientalismo e femmi­nismo temi piccolo borghesi».
Ora i Verdi italiani hanno de­ciso di affidare le loro speranze a Sinistra e libertà, «la lista del­la Rivoluzione verde». Le tratta­tive con il Pd erano andate ma­le: «Ci avevano dato speranze nel caso di liste bloccate — dice la Frassoni — ma con le prefe­renze hanno chiuso le porte». Frassoni e Francescato ora lan­ciano un roosveltiano «New Green Deal»: «In Europa ci so­no 3,5 milioni di green job: pos­sono diventare 8 milioni». Sui temi energetici, dice la France­scato, «l’Italia sta andando in­dietro tutta». Cohn-Bendit è preoccupato: «Se frena l’Italia, come ha fatto sul riscaldamen­to globale, diventa piombo per tutti. Il vostro Paese è la bad bank dell’Europa».
Poco prima, incontro tra la Francescato e Romano Prodi, in via della Maddalena. Baci, ab­bracci e un’occhiata alla «New Green Deal»: «Ma quanti New Deal avete fatto?», scherza il Professore. La Francescato non se la prende, gli sottopone il dossier contro il nucleare e lo saluta nostalgica: «Torna tra noi Romano, ci manchi». Gran­d i abbracci anche con Cohn-Bendit, la promessa di un giro in bici insieme (i Verdi hanno in progetto un’enorme pista ciclabile sulla ex Cortina di Ferro), poi la constatazione: «Con Romano abbiamo concor­dato che l’Italia è un paese diffi­cile. Davvero strano».

Liberazione 18.4.09
Sono nato in Abruzzo e mi ricordo il terrore di quei terremoti
Il terremoto interiore di chi ha perso tutto e di chi ama quei luoghi
di Renzo Paris


Sono marsicano, sono nato a Celano, nella conca dell'ex lago Fucino e di terremoti in quella zona, partendo da quello del 1915 ho sempre sentito parlare da mia madre, finché, nei lunghi inverni degli anni Cinquanta, non li ho vissuti anch'io. Fino a tredici anni, per tutto il decennio della cosiddetta ricostruzione, non c'era inverno che all'improvviso la terra non si mettesse a tremare e tutti uscivamo all'addiaccio e allora i pigiami non li aveva nessuno! Fuori si sentivano gli ululati dei lupi che, attratti dalle bestie fuggite dalle stalle, volevano azzannarle. Poi ci siamo trasferiti a Roma, felici di ascoltare il ritornello che qui i terremoti sono sconosciuti per via del tufo su cui la città eterna è stata costruita.
Poi però negli anni Ottanta mi sono dovuto ricredere. Abitavo al quinto piano di un palazzo senza ascensore e le mie stanze oscillavano come una nave in tempesta. Uscimmo, ricordo, tutti fuori, riempimmo il parchetto del quartiere San Lorenzo a Roma e tornammo a sera inoltrata, quando lo spavento finì. Già, si fa presto a dimenticare le cose sgradevoli. In quel parchetto all'improvviso eravamo tutti uguali, benestanti e non, come dopo una rivoluzione.
Nei primi del Novanta prendemmo una casa per le vacanze estive a San Panfilo d'Ocre, a dieci chilometri dall'Aquila. Una vecchia casa, con un camino del Cinquecento, con la volta a botte e muri davvero spessi. Di terremoti lì ne avevano subiti tanti ma nessuno era stato così potente da far crollare alcunché. Quando il sei aprile abbiamo avvertito a Roma la scossa delle tre e mezzo di notte, ho pensato subito all'Abruzzo, a quella zona e quando ho visto nella Cnn i nomi dell'Aquila e di Paganica e subito dopo quello di Onna, ho avuto paura. Siamo stati letteralmente buttati giù dal letto. Abbiamo cercato il famoso arco centrale della casa, abbiamo dato un'occhiata al nostro tavolo, ma poi sono rimasto sveglio tutto il resto della notte a guardare la televisione, a cercare notizie su internet. Poi la scossa dell'otto, verso le sette di sera mi ha rimesso in allarme. Nel frattempo mio figlio Giovanni era tornato da San Panfilo con le foto della nostra casa lesionata e con un filmino su L'Aquila, che raccontava i soccorsi della casa dello studente crollata. L'altro mio figlio, Alessandro, si lagnava della sua infanzia finita, trascorsa in quei luoghi durante l'estate. L'Aquila, una città fantasma. Addio alle nostre passeggiate per quei vicoli, ai gelati presi a piazza Duomo, alla frequentazione delle librerie, dell'Università dove insegnava il mio amico, adesso in pensione, Walter Siti, addio alle sagre paesane! Ne ricordo una leggendaria a Onna, un'altra a Poggio Picenze. Intanto mi chiedevo come era possibile che insieme alle case vecchie fossero crollate anche le nuove, compreso l'ospedale de L'Aquila, chi fossero i responsabili. Poi le parole del presidente del consiglio, che ha fatto il suo spot pubblicitario, rassicurando tutti, come se avessero bisogno di lui, con quella proposta di fare una cittadina di prefabbricati lì vicino, una seconda città. E intanto le tende a Onna, la prima notte all'addiaccio, non sono arrivate e nemmeno i sanitari e la notte è stata fredda. Perché? Nessuno ha pensato ai cani randagi che a L'Aquila erano tanti e alle bestie domestiche che sono morte o fuggite. All'improvviso è stato come se il terremoto, visto come un bombardamento riguardasse, solo Onna. E il castello di San Panfilo? E le lesioni alla chiesa di Santa Maria ad Criptas di Fossa, dove c'è racchiuso lo splendore della pittura del Duecento? Le facce pulite degli abruzzesi, rassegnati e dignitosi nel loro riserbo, mi hanno commosso. Oh, le gite a Sant'Angelo da Santino e a Tempera dove c'era una trattoria gestita da donne in cui gli avventori maschi dovevano portare le vivande sui tavoli invece che le loro donne; tutto scomparso? Poi l'epicentro del terremoto si è spostato da Paganica a San Panfilo e ho ricominciato a tremare. Ho telefonato ad amici di Celano che mi hanno detto che vivono nella paura di crolli anche loro e che diverse chiese sono lesionate, agli amici di Avezzano e di altri paesi della conca, che evitano di dormire in casa e se lo fanno riprovano un terrore antico. Ma perché ancora oggi piangiamo tutti quei morti, come mai questo paese non si è mai occupato della sicurezza delle case in zone sismiche da sempre, che altro ci dobbiamo aspettare? La classe politica è nuda dinanzi a quei boati, a quei crolli, e con quella classe gli architetti che hanno costruito di recente quelle case per nulla antisismiche. Vorrei sottolineare il terremoto interiore che vivono quelle anime, la fine di tutto, letta nelle facce dei sopravvissuti. Un signore che aveva una casa al centro de L'Aquila, ha raccontato che tutto è stato vano nella sua vita e lo diceva con il sorriso sulle labbra di chi sconta in vita la morte delle sue cose più care. Le immagini dei telegiornali che mi hanno colpito di più sono state le tendopoli ma soprattutto gli alberelli fioriti, la primavera, che nonostante tutto risplende, i tulipani dei giardinetti di quei luoghi, gialli e rossi.
Mia madre mi raccontava che la sua famiglia si era salvata nel terremoto del 1915 perché abitava in una baracca, tutti vivi per una trave che si era messa di traverso e li aveva protetti dal crollo del tetto. Oggi che la vergogna delle baracche non c'è più, siamo sconcertati dinanzi a case costruite negli anni sessanta senza protezioni antisismiche, crollate come sotto un bombardamento, sbriciolate. Il terremoto interiore, detto tutto, durerà certo più a lungo di quello reale ed è con questo che i terremotati dovranno fare i conti, più lesivo per i sopravvissuti di quello reale.

il manifesto 19.4.09
Disposizioni urgenti in materia di libertà di stampa
di Alessandro Robecchi


A tutti gli organi di stampa - loro sedi. Indicazioni obbligatorie in materia di apparizioni di Sua Eccellenza Cavalier Silvio Berlusconi presso le popolazioni terremotate dell'Abruzzo.
Evitare pubblicazione foto inaugurazione tenda-scuola nella città dell'Aquila. Ripetiamo: evitare. Circondato dai piccoli alunni, Sua Eccellenza Cavalier Silvio Berlusconi sembra un pluriripetente troppo vivace. Privilegiare immagini Sua Eccellenza Ministro Mariastella Gelmini sottolineandone le indiscusse doti, prima tra tutte quella di aver preso a pettinarsi come Sua Eccellenza Ministro Mara Carfagna.
Pubblicare con grande rilievo immagini e plastici di new town, cittadelle dello studente, città-modello per coppie giovani, borghi in stile SanSiro-Babilonese ideate personalmente da Sua Eccellenza Cavalier Berlusconi. Sottolineare con forza che le chiavi saranno consegnate alla popolazione entro due mesi. (Evitare assolutamente di pubblicare la frase «solo le chiavi»).
Evidenziare adeguatamente la sofferenza personale di Sua Eccellenza Cavalier Berlusconi. Se necessario, intervistare la figlia mentre inaugura una mostra insieme ad altri figli di miliardari.
Mettere in giusta evidenza gli studi di tecnica delle costruzioni e ingegneria statica compiuti in gioventù alla Sorbona, episodio poco noto della biografia di Sua Eccellenza Cavalier Berlusconi.
Interrompere le notazioni (anche positive) sui golfini a girocollo di Sua Eccellenza Cavalier Berlusconi. Si rischia di far credere che possegga un golfino solo, cosa che lo sminuisce sul piano internazionale.
Se proprio avanzano due righe che non si sa come riempire, far notare ai lettori l'esistenza in vita di Sua Eccellenza Ministro Franco Frattini.
Importante! Controllare l'entusiasmo filogovernativo, sempre apprezzato, ma a volte controproducente. Evitare titoli come «Sua Eccellenza Berlusconi prigioniero sul Gran Sasso».
Allo stesso modo, non censurare totalmente critiche e attacchi faziosi, ma sottolinearne fieramente il carattere di «abuso di libertà». Fa più fine, no?

il manifesto 19.4.09
«Su la testa», per Prc e Pdci un'unica bandiera rossa
Campagna elettorale al via. Resta il nodo dei segretari candidati
di Matteo Bartocci


Un'unica «bandiera rossa». Cantata dal pubblico prima, durante e dopo ogni intervento dal palco. Un'unica falce e martello per la sinistra comunista «erede» del Pci. Rifondazione, comunisti italiani e Socialismo 2000 (l'area ex Ds guidata da Cesare Salvi) scelgono piazza Navona a Roma per iniziare la propria campagna elettorale per le europee.
«E' un progetto chiaro - spiega il segretario del Prc Paolo Ferrero prima del suo comizio - che continuerà anche dopo le europee a prescindere dal dato elettorale». A lanciare sul nastro di partenza la nuova formazione «rossissima» i leader di quasi tutta la sinistra europea che conta. Lothar Bisky della Linke tedesca; Paco Frutos, segretario del partito comunista spagnolo e Francis Wurtz, capogruppo del gruppo Gue/Ngl al parlamento europeo e storico dirigente a Strasburgo del partito comunista francese.
In piazza quasi quattromila persone, su cui campeggia nelle prime file «comunisti per sempre», lo striscione del circolo Zhukov di Poggibonsi. Scaldata dalla musica di Zulù (99 Posse), Enrico Capuano e Le tarantole, la piazza aspetta i comizi dei segretari. Ogni tanto intona «bandiera rossa», ogni tanto (meno) l'«Internazionale». E quando i tre leader salgono sul palco (davanti a una fila di ragazzi dalla maglietta bianca con la scritta «i giovani votano comunista») il coro è unanime: «Uniti, uniti, uniti». Poco importa che l'appello all'unità - maledizione e traguardo della sinistra - riguardi una lista che secondo i sondaggi più ottimisti supera di poco la soglia del 4%.
Il primo dei dirigenti a intervenire dal palco è Cesare Salvi. E all'inizio la voce non si sente: «Ho sbagliato microfono ma non ho sbagliato lista», esordisce l'ex ministro del Lavoro, fuoriuscito dalla Sinistra democratica di Fava e Mussi. «E a chi mi chiede come mi trovo con la falce e martello - spiega Salvi - rispondo benissimo, mi sembra di essere tornato ragazzo». Anche Oliviero Diliberto, dopo di lui, prova il tasto dell'entusiasmo. «Guardate quanto ce n'è in questa piazza - dice al pubblico - vi ricordate l'Arcobaleno un anno fa?». «Tante volte i nostri partiti hanno sfilato insieme - sottolinea Diliberto - ma oggi c'è un'unica bandiera rossa comune, una sola falce e martello». Ferrero concorda e nel suo comizio, subito dopo, lo spiega così: «Noi siamo gli eredi non pentiti delle lotte per la libertà, la giustizia e i diritti civili di questo paese», avverte l'ex ministro della Solidarietà indicando i simboli del movimento operaio. «Se un giornalista ci chiede se siamo vetero o abbiamo il torcicollo - qui qualcuno nelle prime file azzarda a rispondere «sì, si, sì» - noi diciamo che no - corregge subito il segretario, dedicando la giornata a Carlo Giuliani e al movimento no global - noi abbiamo la nostra storia e la nostra identità stiamo in tutte le lotte di oggi». Dalla Tav all'acqua pubblica, dall'Onda all'anti nucleare, dal pacifismo al terremoto in Abruzzo, dove il Prc si è mobilitato con proprie «brigate di solidarietà attiva». L'obiettivo, dice Ferrero, «è costruire un'opposizione di sinistra degna di questo nome». In Italia al berlusconismo e in Europa al patto popolari-socialisti-liberali che da sempre governa a Strasburgo. E mentre Diliberto si era dedicato alle nefandezze da regime del Cavaliere, Ferrero dedica due stoccate a Pd e Idv. A Franceschini dice (fischi in piazza): «E' indecente che il Pd usi il terremoto per far passare con il referendum una legge elettorale antidemocratica peggiore della legge truffa». E a Di Pietro: «Se oggi sei contro la precarietà, il nucleare e il ponte sullo Stretto perché con Prodi non hai votato contro? E perché oggi voti sì in parlamento a quel federalismo fiscale che distruggerà quel poco di stato sociale rimasto in Italia?».
Sotto le falci e martello che garriscono al vento si parla un po' anche delle liste. Resta ancora in sospeso il nodo dei segretari. «Io non mi candido - ribadisce Ferrero - fare il segretario di Rifondazione è già un compito gravoso e candidarmi per poi dimettermi sarebbe una finzione inaccettabile. Se qualcun altro vuol farlo, certo noi non metteremo veti». Le pressioni, anche dentro il Prc, perché Ferrero sciolga la riserva sono notevoli. Sarebbe l'ufficializzazione dell'unità dei comunisti anche per il futuro. Non a caso, a via del Policlinico, provano a mettere qualche paletto alla candidatura di Diliberto. Nessun veto appunto ma spinta per una presenza non in una circoscrizione «forte» come quella centrale ma nelle caselle deboli (Isole o Sud). Ipotesi che il Pdci per ora non accetta.
Segretari a parte alcuni nomi sono ormai certi: Margherita Hack, Heidi Giuliani e Lidia Menapace sono sicure. Come Salvatore Bonadonna (bertinottiano rimasto nel Prc), Massimo Villone di Socialismo 2000 e Fabio Amato, responsabile esteri di via del Policlinico. Ricandidati anche gli europarlamentari uscenti Giusto Catania e Vittorio Agnoletto, che dovrebbe essere il capolista nel Nord Ovest. Contatti infine con scrittori importanti come Massimo Carlotto, Valerio Evangelisti e Valeria Parrella. Agita appena un po' le acque la possibile candidatura di Rosario Crocetta, il sindaco antimafia a Gela passato al Pd che Franceschini pare non voler candidare. «Sono sempre inclusivo e non esclusivo», risponde a denti stretti Oliviero Diliberto a chi gli chiede se il figliol prodigo possa tornare nelle liste comuniste.

il manifesto 19.4.09
PRC
Fronda anti-Greco a «Liberazione»
di r. pol.


Stalinismo e Medio oriente, 26 redattori su 33 contro il direttore
Piero Sansonetti non c'è più ma dentro Liberazione c'è ancora maretta. Ben ventisei redattori su 33 del quotidiano di Rifondazione hanno firmato una lettera al direttore Dino Greco spiegando i motivi di un «malessere» crescente. Una missiva che il direttore non ha voluto pubblicare ma che circola su Internet. La discussione è tutta politica. E a scanso di equivoci non ricalca gli schieramenti pro-contro Sansonetti dello scorso inverno. Anche giornalisti molto critici con l'ex direttore paiono ora delusi dal nuovo corso.
La settimana scorsa le pagine del quotidiano si erano animate per un dibattito sullo stalinismo. Rubrica delle lettere piena con tanto di missive pubbliche molto critiche tra direttore, vicedirettore, recensore e vari redattori. La situazione però pare peggiorare. Le critiche sulla linea editoriale sono molto pesanti. «Liberazione appare più orientata a definire il proprio campo che ad esplorare quanto accade intorno e fuori di noi», si legge nella seconda lettera dei giornalisti non pubblicata. Si denunciano «analisi ideologiche e posizioni sul Medio Oriente e il fondamentalismo islamico che la stessa Rifondazione aveva da tempo superato» e un giornale «impermeabile all'esterno». Non più in grado, si dice, di essere uno «spazio aperto, interessato a indagare e a mettersi in discussione piuttosto che a ribadire certezze e dogmi». Senza chiarimenti, par di capire, l'aria è destinata ad appesantirsi. Soprattutto perché dalla prossima settimana inizieranno le consultazioni ufficiali in vista dell'imminente stato di crisi. Ferrero, a margine del comizio di Roma, prova sgonfiare le polemiche: «Intanto siamo comunisti in quanto antistalinisti. E poi - dice - secondo me il giornale è migliore di prima, molto più attento al sociale che con la passata direzione».

il manifesto 19.4.09
L'«utopia astratta» e il mio Stalin
di Domenico Losurdo


Polemizzando col mio ultimo libro (Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci), senza neppure riuscire a scrivere correttamente il mio cognome, Rina Gagliardi fa un'affermazione perentoria, in base alla quale io sarei «tornato a occupare il ruolo di intellettuale di riferimento di Rifondazione comunista».
In realtà, per quattro numeri consecutivi Liberazione ha preso di mira il mio libro, talvolta con critiche legittime espresse da due stimati intellettuali (Liguori e Prestipino), in altri casi con insulti a opera di alcuni membri della redazione. Dopo di che, al sottoscritto è stato negato il diritto alla replica.
L'affermazione di Gagliardi va rovesciata: non sono io «l'intellettuale di riferimento del Prc», ma sono i due intellettuali ospitati su Liberazione a costituire il punto di riferimento di Rina Gagliardi, che in effetti, nello stroncare il mio libro, riprende gli argomenti da loro utilizzati.
Se non nuovi, sono almeno validi tali argomenti? Nella lettura della storia del movimento comunista io sarei responsabile di «storicismo giustificatorio» (Liguori) ovvero di «cattivo storicismo» e di «giustificazionismo» (Gagliardi).
Per la verità, a proposito di Katyn, il mio libro parla di «crimine» e di crimine «ingiustificabile» (p. 259). Si aggiunge però che gli Sati uniti non possono ergersi a maestri di moralità per il fatto che nel corso della guerra di Corea essi si sono resi responsabili di una Katyn su scala più larga. E' lecito smascherare, in questo e in altri campi, l'ipocrisia morale che alimenta la buona coscienza e la bellicista missione imperiale dell'Occidente?
Più in generale, dopo aver sottolineato l'influenza dello stato d'eccezione nella tragedia della Russia sovietica, il mio libro osserva che «indubbio è anche il ruolo svolto dall'ideologia» e dai «ceti intellettuali e politici» espressi dal bolscevismo (pp. 104-5). Solo che l'ideologia da me presa di mira è l'«utopia astratta», e cioè l'aspirazione messianica a un mondo caratterizzato dal dileguare dello stato, della religione, della nazione, del mercato, della moneta. Liguori (e credo anche Gagliardi) difende invece l'utopia da me criticata in quanto «astratta» e prende di mira altri bersagli, ma non spiega perché il mio approccio dovrebbe essere più «giustificatorio» del suo. In ogni caso, il mio approccio mi sembra più corretto. Se riflettiamo sulla tragedia (e l'orrore) nella storia della Russia sovietica, nonostante i giganteschi processi di emancipazione da essa messi in atto a livello mondiale, siamo costretti a chiederci: l'attesa dell'estinzione dello stato ha reso più facile o più difficile la costruzione dello stato di diritto? Incontestabile è il peso funesto che la pretesa di cancellare ogni forma di mercato e di circolazione della moneta ha avuto nella Cambogia di Pol Pot.
Nel ricostruire la vicenda storica dell'Urss a sinistra si ama individuare in Stalin il capro espiatorio. Ho proceduto diversamente: prendendo le mosse dagli elementi di messianismo presenti in Marx e aggravati dall'orrore per la carneficina bellica, ho analizzato le debolezze della piattaforma teorica della dirigenza bolscevica nel suo complesso, nonché le contraddizioni e la guerra civile che infuriano al suo interno e che prolungano lo stato d'eccezione, portando all'estremo la violenza in esso insita. Se anche Stalin appare meno affetto di altri dall'«utopia astratta», a me pare che, mettendo in discussione (con modalità diverse) tutti i protagonisti di questo capitolo di storia, senza escludere neppure Marx, il mio approccio sia meno consolatorio (e meno «giustificatorio») dell'altro, che si limita a demonizzare uno solo dei protagonisti e per il resto ritiene che tutti gli altri siano innocenti, sicché i comunisti potrebbero tranquillamente riallacciarsi al 1924, all'anno fatale dell'ascesa di Stalin al potere: Heri dicebamus!
Il fatto è che contro di me viene agitata una categoria di cui non è mai chiarito il senso. Gramsci «giustifica» il giacobinismo; su il manifesto e su Liberazione è stata talvolta «giustificata» la Rivoluzione culturale, che pure oggi è spesso dipinta nei colori più foschi: darebbe prova di dogmatismo chi, senza entrare nel merito dei capitoli di storia di volta in volta discussi, attribuisse lo storicismo autentico a se stesso e lo «storicismo giustificatorio» e «cattivo» a quanti non sono d'accordo con lui!
Restano fermi gli angosciosi dilemmi morali che caratterizzano le grandi crisi storiche. Riprendendo e sottoscrivendo la previsione di Bucharin, il mio libro fa notare che la collettivizzazione dell'agricoltura imposta dall'alto e dall'esterno (e la connessa industrializzazione a tappe forzate) si risolve in una gigantesca «notte di S. Bartolomeo». Per un altro verso, però, ai giorni nostri una serie di storici eminenti ribadisce la tesi a suo tempo formulata dal grande A. Toynbee, secondo cui a rendere possibile Stalingrado e la disfatta inflitta alla barbarie nazista fu il percorso compiuto dall'Urss «dal 1928 al 1941».
I dilemmi morali non si pongono solo per l'Urss di Stalin. Vediamo in che modo un eminente filosofo, M. Walzer, giustifica (almeno nella loro fase iniziale) i bombardamenti terroristici scatenati dagli angloamericani nel corso della seconda guerra mondiale: il pericolo di trionfo del Terzo Reich determina un'«emergenza suprema», uno «stato di necessità»; ebbene, occorre prendere atto che «la necessità non conosce regole».
Certo, bombardamenti che mirano a uccidere e a terrorizzare la popolazione civile sono un crimine, e tuttavia: «Oso dire che la nostra storia verrebbe cancellata, e il nostro futuro compromesso, se non accettassi di assumermi il peso della criminalità qui e ora»; i dirigenti di un paese «possono sacrificare se stessi al fine di difendere la legge morale, ma non possono sacrificare i propri connazionali». Perché, nella loro campagna contro lo «storicismo giustificatorio» e «catttivo», i miei critici non se la prendono in primo luogo con il filosofo statunitense?

il Riformista 21.4.09
Riconversioni. Come trasformarsi da Caimano a padre della nazione (passando per il terremoto)
Così il Cavaliere cerca l'ultimo sfondamento
di Stefano Cappellini


Liberazione. Se scende in piazza, cambia la storia del Pdl, consolida il consenso e si conferma premier d'unità nazionale, togliendo all'opposizione l'ultimo collante dell'antiberlusconismo, il solo che potrebbe sommare Casini e Vendola a Franceschini. Nuova beffa per il Pd: l'anno scorso fu Grillo a rubare la piazza alla sinistra. Stavolta toccherà a Silvio?

Non è ancora chiaro se Silvio Berlusconi parteciperà davvero, per la prima volta, alle manifestazioni per il 25 aprile. Di certo non ha molto da perdere: se va in piazza e tutto fila liscio, mette l'ultimo sigillo alla sua ascesa nei consensi e alla costruzione di un nuovissimo profilo istituzionale. Fosse contestato, potrebbe rivendicare di aver fatto bene a tenersi finora lontano dai festeggiamenti. In ogni caso, dopo il primo 25 aprile berlusconiano la politica italiana non sarà più la stessa.
Per il Popolo della libertà si tratterebbe di una svolta storica, ben oltre il definitivo abbandono del postfascismo da parte degli ex missini. Per tutta la durata della Seconda Repubblica Forza Italia e An si sono tenute a distanza dal 25 aprile col cipiglio di chi conduce insieme una battaglia politica e culturale. Non c'era solo la polemica con la sinistra e sulla «festa di parte» a motivare il boicottaggio, ma anche la volontà di marcare un confine con le screditate forze del vecchio «arco costituzionale», da cui l'Msi era escluso per definizione e contro il quale Berlusconi ha fondato buona parte della mitologia della sua scesa in campo. La partecipazione dei due principali leader del Pdl - Fini, per la prima volta da presidente della Camera, celebrerà la Liberazione insieme al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano - rappresenterebbe per il neonato partito un momento fondativo non meno importante del congresso di tre settimane fa.
Ma a uscirne definitivamente rinnovata sarebbe soprattutto la figura di Berlusconi. A un anno esatto di distanza dalla vittoria alle ultime politiche il premier ha raggiunto in questi giorni - giura più di un sondaggista - picchi di popolarità mai toccati durante la sua carriera politica. Al contempo, l'opposizione non è mai stata tanto lontana dalla possibilità di costruire in tempi medi un'alternativa credibile di programma e di coalizione e le prossime elezioni europee e amministrative potrebbero dimostrarlo una volta di più. Se ne deduce che c'è un pezzo di elettorato che ha smesso di guardare a Berlusconi come a un irriducibile nemico: la faglia che ha sempre diviso l'Italia degli ultimi tre lustri - di qua gli anti-Silvio, di là i fan, in mezzo poco o niente - oggi appare un fossato sempre più ridotto e sempre più scavalcabile. Il clima di unità nazionale che il Cavaliere ha voluto inaugurare e preservare dopo il terremoto dell'Aquila ha portato allo scoperto questo stato di cose. Forse non è ancora un fenomeno definitivo, magari in futuro basterà poco - una legge controversa, una polemica o una esternazione - a riportare tutto allo statu quo ante, fatto sta che al momento il sentimento pubblico verso Berlusconi sta cambiando a vista d'occhio.
Il premier lo sa. Perché è da sempre attentissimo a numeri e tendenze. E perché mai come adesso la sua vocazione antropologica prima che politica - convincere, sedurre, piacere - può finalmente dispiegarsi anche verso il campo degli irriducibili avversari di un tempo. Non per immaginare improbabili travasi di voti sinistrorsi e "antifascisti" verso il Pdl: lo sfondamento non è elettorale, è ideologico. Il new premier
ridisegna la geopolitica nazionale e toglie all'opposizione quei pochi punti di riferimento che le sono rimasti.
Se il 25 aprile certificasse infatti l'evoluzione di un premier che da Caimano si reinventa Padre della nazione - da una parte una carezza alle bare dei terremotati abruzzesi, dall'altra una corona ai partigiani all'altare della Patria - se Berlusconi smettesse l'armatura del guerriero per indossare il saio del pacificatore, dovrebbe necessariamente cambiare anche la valutazione sulla durata e la profondità del suo nuovo ciclo di governo. E, tra le altre conseguenze, verrebbe meno quello che era, e probabilmente resta, l'unico collante di un nuovo possibile centrosinistra: l'antiberlusconismo. Casini e Vendola, ammesso e non concesso che siano interessati, si possono sommare a Franceschini solo così. Altrimenti non c'è verso. Costruire la rivincita, per il Pd, sarebbe ancora più difficile. E per il secondo anno di seguito toccherebbe al 25 aprile diventare l'appuntamento simbolo dello scacco democratico. L'anno scorso, due settimane dopo la scoppola nelle urne, fu Beppe Grillo a rubare la piazza a una frastornatissima sinistra. Un anno dopo toccherà addirittura a Berlusconi?

il Riformista 21.4.09
I miei rubli erano dollari
intervista ad Armando Cossutta di Fabrizio d'Esposito


L'ortodosso Armando Cossutta. Il racconto della drammatica notte a Botteghe Oscure dopo l'invasione sovietica di Praga. Le riunioni con Longo: «Cominciavamo alle 8.30 e lui si infastidiva se qualcuno sfogliava i giornali». La scoperta del traditore interno che poi rivelò la storia delle microspie sparate nelle finestre. La scissione di Rifondazione nel 1991 e il voto al Pd di Veltroni: «Ma ero, sono e resterò comunista».

Compagno Cossutta, i riformisti conquistano Botteghe Oscure.
Tutto poteva essere previsto ma non questo. Ho trascorso ininterrottamente 25 anni a Botteghe Oscure e non avrei mai immaginato che finisse così. Per questo provo un'invidia tremenda per voi e il vostro direttore Antonio Polito, ho una grande e profonda nostalgia per quel palazzo.
Seduto nel suo ufficio al comitato nazionale dell'Anpi, l'Associazione nazionale dei partigiani, Armando Cossutta divide il suo quarto di secolo passato alla direzione del Pci in via della Botteghe Oscure in due fasi. Una «totalmente interna», l'altra «esterna». La prima va dal 1966 al 1975 ed è quella che vede Cossutta depositario di un potere enorme: coordinatore della segreteria, sovraintendente alle finanze, capo della vigilanza (la sicurezza) e custode dei rapporti con il Pcus, il Partito Padre di Mosca. Enrico Berlinguer disse: «Il compagno Cossutta ha assommato un grande potere del quale, peraltro, non ha mai abusato». Nel 1975, Cossutta passò dal secondo piano della segreteria al terzo, per occuparsi di enti locali. Ebbe fortuna: quell'anno il Pci fece la storica avanzata alle elezioni amministrative.
Cossutta rimase al terzo piano fino al 1991, l'anno della dolorosa scissione di Rifondazione comunista. Ma il racconto dei suoi anni a Botteghe Oscure è soprattutto il racconto della notte più drammatica che Cossutta ha vissuto in questo palazzo: quella tra il 20 e il 21 agosto del 1968. Ore convulse in cui fu lui, il comunista ortodosso per antonomasia, l'uomo dello strappo da Berlinguer quando questi dichiarò esaurita la spinta propulsiva della rivoluzione d'Ottobre dopo i fatti di Polonia, fu lui, dicevamo, a comunicare all'ambasciatore sovietico in Italia il dissenso del Pci sull'invasione di Praga.
Era il 20 agosto e lei era a Botteghe Oscure.
La grande tradizione del Pci prevedeva che qualcuno rimanesse alla direzione anche nei giorni di Ferragosto. Quell'anno ero di turno io e nel pomeriggio stavo presiedendo una riunione coi cineasti comunisti sulla mostra di Venezia. Ricordo che toccava a Luciano Gruppi tirare le conclusioni. Erano le diciotto quando entrò la mia brava segretaria Carla Perozzi che mi disse: «C'è Enrico Smirnov».
Che lavorava all'ambasciata sovietica.
Esatto. Era il primo segretario dell'ambasciata sovietica in Italia. Parlava la nostra lingua perfettamente. Alla mia segretaria risposi: «Digli se può aspettare». Lei mi ribadì che era urgente. Chiesi scusa ai compagni cineasti e uscii. Smirnov mi riferì che l'ambasciatore Nikita Rijov doveva farmi una comunicazione assolutamente riservata. Smirnov non volle anticiparmi nulla e io, sinceramente, credevo che fosse una cattiva notizia sulla salute del segretario Longo, in vacanza in Unione Sovietica.
Non pensò al compagno Dubcek?
No. Anche perché negli ultimi tempi c'era stata una schiarita nei rapporti tra Mosca e Praga. Eravamo convinti che si arrivasse a un accordo. Per questo, malgrado la situazione, erano quasi tutti partiti per le ferie. Pecchioli e Pajetta anche loro in Unione Sovietica, Berlinguer in Romania, Amendola in Bulgaria.
Invece?
Andai in auto con Smirnov e continuai a insistere sulla misteriosa comunicazione. Lui era un uomo freddo, gelido ma un certo punto cominciarono a scendergli delle grosse lacrime. Non disse nulla però. In via Gaeta, dov'era la loro ambasciata, vidi tutto illuminato. Entrai e Rijov mi fece la comunicazione: «Su invito del governo e del Partito comunista della Cecoslovacchia le truppe del Patto di Varsavia sono entrate in Cecoslovacchia». E aggiunse: «Mi raccomando la riservatezza, lei è il primo a saperlo nel mondo». Lo ringraziai e gli dissi: «Lei sa che la nostra posizione è contraria». Poi andai di corsa a Botteghe Oscure, declinando l'invito di Rijov a prendere un tè.
Che ore erano?
Le sette di sera. A Botteghe Oscure convocai per le ventuno tutti i compagni della direzione che erano rimasti in Italia. Fissai la riunione alla redazione dell'Unità in via dei Taurini, allora diretta da Maurizio Caprara, per avere altre notizie. Ma conferme non ne arrivarono. Il primo titolo fu: «Intervento a Praga?». Tornai a casa, feci una doccia e a mezzanotte mi telefonarono dall'Unità: «Compagno l'intervento c'è stato».
Lei tornò a uscire?
Sì, a mezzanotte. Stavolta ci riunimmo a Botteghe Oscure. Ingrao e Napolitano furono incaricati di scrivere il commento di condanna. Era l'alba quando lo lessi per telefono a Longo, che mi disse: «Il dissenso non basta, aggiungete la riprovazione».
Una notte infinita.
Si fece mattina e io continuai a lavorare. In genere, con Longo la segreteria si riuniva tutti i giorni meno il lunedì e il sabato. Si iniziava alle otto e mezzo. Io preparavo l'ordine del giorno e Longo mi faceva sempre mettere al primo punto una questione che potesse interessare tutti.
Perché?
Per la puntualità. Erano tutti personaggi coi coglioni e Longo conosceva le loro abitudini. C'era anche la regola dei giornali, in riunione nessuno poteva sfogliarli. Longo si infastidiva, bisognava averli letti prima. Fu lui poi a introdurre per la prima volta nell'Ufficio politico il voto segreto. Accadde alla fine degli anni sessanta, bisognava decidere su uno sciopero generale per le pensioni. Lui prese il suo cappello di paglia e lo usò come urna.
Veniamo ai soldi: lei era il sovraintendente alle finanze.
Un ruolo che era stato già di Pietro Secchia e dello stesso Longo. Io trattavo ogni anno con Mosca l'entità del contributo ma i soldi erano prelevati materialmente dall'amministratore Barontini, un amico fraterno. Erano dollari che poi venivano cambiati in lire nella Città del Vaticano. Era lo stesso cambiavalute che usava la Dc coi finanziamenti americani. Ricordo che in quegli anni coi soldi sovietici aiutavamo i comunisti dell'America latina, della Spagna e soprattatutto della Grecia.
Il Pci aveva l'incubo dei colonnelli.
Longo mi disse di accumulare riserve per sopravvivere due anni. La strategia della tensione alimentò fortemente il timore di una situazione non controllabile. Consegnavo i soldi a compagni fidati. Metterli in banca non dava sicurezze in caso di golpe.
Poi venivate spiati.
Cossiga vi ha detto che i servizi italiani sparavano microspie nelle nostre finestre dal negozio di tessuti che era di fronte. Verissimo. Fui io a scoprire la spia interna che ci riferì queste cose. Era un compagno. Lo aveva fatto per soldi. Si chiamava Mario Stendardi.
Nel 1975 è salito al terzo piano, agli enti locali.
Un anno glorioso, un elenco impressionante di città conquistate.
Ci è rimasto fino al 1991, al terzo piano.
Il mio ultimo giorno è stato silenzioso. Ebbi un colloquio con Occhetto e andai via. Ero triste e depresso. La storia del Pci poteva essere diversa, il suo crollo improvviso ha bisogno ancora di riflessioni profonde. In Italia ci sono milioni di comunisti che non si sentono più rappresentati. C'è da spararsi con questa povera sinistra italiana.
Chi ha votato alle ultime elezioni?
Il Pd di Veltroni.
Cossutta non è più comunista?
Al contrario: ero, sono e resterò un comunista.

il Riformista 21.4.09
La posta in gioco con i talebani. Il corpo delle donne
di Ritanna Armeni


La legge era stata fatta per ottenere alle prossime elezioni presidenziali il voto degli sciiti ed era stata ben accolta anche dai talebani. Se vuol essere rieletto il presidente afghano non può non cedere alle loro richieste e accettare le loro violenze e le loro prevaricazioni.
La cronaca è ormai piena di donne uccise perché hanno tentato di ribellarsi al dominio maschile e familiare o perché volevano andare a scuola.
Ed è solo di ieri la notizia che i talebani hanno ammazzato in Pakistan, al confine con l'Afghanistan, un uomo e una donna colpevoli di avere una relazione fuori dal matrimonio. E poi hanno mandato il video a una televisione.
Ma non sono i singoli, seppur frequenti, episodi a destare la maggiore preoccupazione. Questi potrebbero essere i colpi di coda di forze che si stanno arrendendo alla democrazia o la reazione di piccoli gruppi che non vogliono accettare le nuove regole. Quello che davvero preoccupa è la evidente ripresa delle forze fondamentaliste e le conseguenti decisioni dei capi di Stato. Quella di Karzai, appunto, ma anche quella, recente, del presidente del Pakistan. Azif Ali Zardari, marito di Benazir Bhutto (prima donna premier di un Paese islamico) e successore di quel Musharaf accusato di aver mostrato un atteggiamento ambiguo nei confronti dei talebani pur mostrandosi amico degli Usa, ha promulgato un regolamento che reintroduce la sharia nella parte nord ovest del Pakistan. Asianews, uno dei pochi siti che informano in dettaglio sull'avvenimento, raccontava già un mese fa che la legge islamica era stata ripristinata nelle regioni che confinano con l'Afghanistan e che le corti islamiche avevano preso in mano l'amministrazione della giustizia nella Swat Valley. «Con l'entrata in vigore della sharia nel distretto di Malakand - scriveva Asianews - le donne non possono più muoversi da sole, parlare in pubblico e il velo diventa obbligatorio. Le scuole femminili, per lo più legate ai missionari, ma frequentate al 95 per cento da ragazze musulmane, rischiano la chiusura definitiva dopo gli attentati esplosivi negli ultimi mesi che, pur non causando vittime, hanno reso impossibile a circa mille studentesse di frequentare le lezioni». Il governo pakistano, insomma, ha preso atto e ha approvato una situazione che era già in mano ai fondamentalisti promulgando un regolamento che accetta lo stato di fatto. In cambio questi hanno promesso di deporre le armi. Probabilmente non sarà vero. La legge islamica invece - ha informato Asianews - c'è già. E - ricordiamolo - la legge islamica, secondo i fondamentalisti, significa che le donne saranno costrette al matrimonio anche se ancora bambine, alla pena di morte o al carcere se vengono stuprate, alla lapidazione se hanno rapporti fuori dal matrimonio.
Per due volte in pochi giorni le donne sono state oggetto di uno scambio politico. Per due volte due uomini, capi di Stato, hanno barattato voti e accordi in cambio di controllo e violenza da parte degli uomini sul corpo femminile. E questo porta a tre (amare) considerazioni.
La prima. Il corpo delle donne è la vera posta in gioco nella lotta contro i talebani, gli sciiti e il fondamentalismo. Adriano Sofri, già alcuni anni fa, aveva notato come questo, e non il petrolio, fosse il centro dello scontro fra l'islam e l'occidente. Gli islamici, gli islamici poveri e senza potere, aveva scritto, quelli che non avevano da perdere che le loro catene, potevano però - se avesse vinto l'occidente infedele - perdere le loro donne, la loro proprietà, l'unica di cui potevano disporre. E questo li rendeva particolarmente efferati e subalterni al terrorismo. Oggi proprio per rassicurarli e per combattere il terrorismo - questo l'orribile paradosso al quale stiamo assistendo con indifferenza - non si ha alcun dubbio a consegnare loro il dominio sulle donne. E a confermare che su di loro gli uomini mantengono il diritto di vita e di morte.
La seconda. I talebani, e con loro le forze tribali di quell'area del mondo che ha un rapporto conflittuale con l'occidente, hanno guadagnato terreno. Anzi stanno vincendo. La guerra in Afghanistan è stata persa sul piano militare e, prima ancora, sul piano della democrazia e dei diritti. Non se ne vuole prendere atto, ma che cosa significano le due leggi promulgate dal presidente pakistano e da quello afgano se non la presa d'atto che la guerra, la guerra delle armi è stata persa? È per questo che si accetta esattamente ciò per cui quella guerra era stata combattuta e a cui la lotta per la democrazia dovrebbe tenacemente opporsi: la schiavitù della popolazione femminile.
La terza. Di fronte all'evidente orribile scambio che avviene in quei Paesi alleati i Paesi occidentali protestano, ma in modo assai poco convinto. Naturalmente condannano la decisione di Zarcari, criticano Karzai ma in fin dei conti non ritengono di poter fare molto. Sembrano pensarla al fondo come Spencer P. Boyer, capo dello staff del presidente Clinton e oggi direttore della sezione diplomazia del Center for American progress, il pensatoio democratico americano che, in una intervista al Riformista sulla reintroduzione della sharia in Afghanistan ha risposto: «Nessun Paese è perfetto».
La condizione di totale subordinazione e schiavitù delle donne di quei Paesi è considerata da un esponente della democrazia occidentale solo "un'imperfezione", qualcosa di non perfettamente giusto, ma non di talmente insopportabile da mettere in discussione le scelte politiche e militari finora compiute. E questo certamente non aiuta le donne di quei Paesi e manda un inquietante messaggio anche alle donne dell'occidente che dice di essere democratico.

Liberazione 21.4.09
Lectio magistralis di Agnes Heller
La filosofia è un genere destinato a scomparire?
di Agnes Heller


Stralcio in anticipazione della Lectio magistralis che la filosofa terrà oggi pomeriggio a Roma in occasione dei suoi 80 anni. L'iniziativa è organizzata da Francesca Brezzi, docente di filosofia morale all'università di Roma Tre (oggi alle 15,30 e domani alle 9,30 alla Sala Igea di Palazzo Mattei, piazza dell'Enciclopedia italiana 4)

Una volta nella sua famosa Tesi 11 su Feuerbach, Marx scrisse, che fino ad ora i filosofi hanno solo interpretato il mondo, ora sta a noi cambiarlo. La prima parte della tesi descrive esattamente - a mio parere - la specificità della filosofia come genere letterario. Davvero la filosofia, almeno la filosofia tradizionale, considera l'interpretazione-mondo come sua propria missione. Per meglio dire, i filosofi hanno sempre aspirato ad interpretare il mondo. La filosofia assomiglia in un aspetto a tutti gli altri generi letterari. Una volta che esiste, che è, una volta che viene incorporata almeno in alcune opere di filosofia, tutti coloro che hanno aspirazioni filosofiche hanno bisogno di intraprendere lo stesso tipo di descrizione del mondo, anche se due filosofi non lo faranno nella stessa maniera [...].
Inoltre si potrebbe obiettare che la filosofia non interpreta il mondo ma lo spiega, dato che la specificità del genere filosofico è la dimostrazione, l'argomentazione. I filosofi analitici e non solo loro indicano l'argomentazione come differentia specifica della filosofia. Ovviamente, loro sanno anche che, non solamente i filosofi utilizzano l'argomentazione ma fanno così anche gli attori di un dramma ed anche tutti noi nella nostra vita quotidiana. Perciò essi precisano, che un argomento convincente è l'essenza della filosofia. Ma, convincente per chi? Un argomento che è convincente per un Platonista non è convincente per un Aristotelico. Definire la caratteristica di un genere filosofico facendo notare l'argomento convincente non è errato e fuorviante solo per la ragione che se un argomento è convincente o non convincente dipende dal destinatario dell'argomento, ma anche per un motivo più profondo. Vale a dire si presuppone che una filosofia possa essere falsificata tramite buoni argomenti. Si potrebbe dire, che forse ciò può accadere, ma questo effettivamente danneggia una filosofia - Ha forse danneggiato Platone che Aristotele utilizzando buoni argomenti ne abbia provato l'errore, o ha danneggiato Spinoza che Leibniz abbia provato il suo errore, o Leibniz che Kant l'abbia rifiutato o Kant che Hegel abbia dimostrato la sua infondatezza, tutti loro utilizzando buoni argomenti? [...]
Ripeto che tutte le filosofie hanno il loro proprio mondo. Con Hegel, comunque, l'organizzazione spaziale del mondo del filosofo, quello gerarchico (che sale le scale dal basso verso l'alto) dove non c'è posto per il tempo, si è fermato o è giunto al termine (Agostino era una grande eccezione, dato che fu lui che mise insieme la metafisica tradizionale con il Libro della Creazione della Bibbia). La costruzione spaziale era richiesta dall'ambizione a presentare l'Eterno come incarnato nel mondo filosofico. Quando Hegel trasformò la metafisica da costruzione spaziale in costruzione temporale, aprì completamente la strada alla distruzione della metafisica. Questo è il significato dello slogan "la fine della filosofia". Quando Marx o Kierkegaard parlavano della filosofia stavano pensando ad Hegel. La cosiddetta decomposizione della filosofia hegeliana risultò essere il primo stadio della distruzione della metafisica. Quindi l'interpretazione in prosa del mondo è la caratteristica generale delle filosofie. Ma all'interno di questa cornice generale sono possibili molte cose. Sebbene dopo Aristotele i dialoghi abbiano smesso di giocare un ruolo considerevole, da Bruno a Leibniz ci sono ancora opere filosofiche scritte in dialoghi. All'interno del genere c'è anche il sottogenere di aforisma, c'è, più che mai, la filosofia narrativa, e, ovviamente, ci sono anche lavori filosofici che si concentrano su argomenti e sulla risoluzione di un problema. I limiti del genere sono elastici, ma esistono. Per rimanere nell'ambito dello scopo dei generi letterari. Una novella non è un lavoro di filosofia, non è nemmeno un dramma. Neanche se il lettore trova in essi l'espressione delle più sagge idee filosofiche. Ed un opera di filosofia non è un poema o una novella, perché è scritta perfettamente. Ma perché no? Uno senza dubbio potrebbe dire, che anche una novella è una descrizione del mondo o un'interpretazione del mondo? Tuttavia, la filosofia, come speciale genere di descrizione del mondo, interpretazione del mondo, ha le sue proprie persone e la sua propria grammatica. Tradizionalmente, chiamiamo queste persone "categorie". Heidegger le chiamò parole base [...].
Tutte le parole base possono essere nuove. Ma ci sono due parole base di cui nessuna filosofia può sbarazzarsi tranne che con l'autoinganno. Queste due parole sono Essere e Verità. Esse non possono essere superate, rifiutate, o sostituite, anche se alcuni filosofi credono di essere riusciti (qualora questo possa venir chiamato successo) a superarle. [...]Se le domande concernenti l'Essere e la Verità scompaiono una volta per tutte, senza ombra di dubbio la filosofia giungerà al suo fine.
traduzione di Ester Monteleone