5 risposte da Massimo Rendina
Presidente dell’Anpi di Roma
intervista di Mariagrazia Gerina
1. Il 25 aprile
Questo non è un 25 aprile come gli altri. C’è un governo che vuole cambiare la Costituzione, una democrazia che si sta già deteriorando al suo interno e un rischio di autoritarismo.
2.La parola libertà
Dico ai giovani, impadronitevi del vocabolario, stanno falsificando anche quello. Vedi la parola «libertà»: la ritrovi persino in bocca alla mafia. Ma poi hai un premier che nomina i suoi parlamentari e sussulti di libertà solo con il voto segreto.
3. Il fascismo culturale
Ci sono state aggressioni, episodi gravi. Ma il peggio è la mentalità fascista che serpeggia in talune zone politiche: celebrare il 25 Aprile è una presa di posizione culturale.
4. Certi valori
Vogliamo che le istituzioni vi partecipino, anche quelle che non sono con noi: noi le rispettiamo, abbiamo dato la democrazia a questo paese. Ma certi valori devono essere di tutti. Quella di La Russa è una visione folclorica.
5. I saluti romani
Abbiamo invitato il sindaco Alemanno a Porta San Paolo. Per ora non ha risposto. Quando lo hanno eletto, non sarà colpa sua, ma i fascisti si sono radunati in Campidoglio per i saluti romani. Vedremo cosa dirà. Sarebbe bello che firmasse contro la legge che equipara partigiani e repubblichini.
l’Unità 23.4.09
Napolitano: la Costituzione non è un residuato bellico
di Marcella Ciarnelli
Indicazioni precise: forzature in nome della governabilità portano a soluzioni autoritarie
E poi la sottolineatura sul 25 Aprile: non è la Festa di una parte sola
Nove convinti applausi hanno sottolineato i punti salienti della lezione che il presidente della Repubblica ha tenuto a Torino, inaugurando la prima edizione di “Biennale Democrazia” voluta dal professor Gustavo Zagrebelsky che, introducendo l’oratore, ha parlato di un tempo, come quello che stiamo vivendo “in cui la politica e la cultura sono divise” mentre il binomio è vitale”. Il primo applauso è scattato quando il Capo dello Stato ha affermato che “il 25 aprile non è festa di una parte sola” tant’è che proprio nella Costituzione “furono tradotti principi e diritti condivisibili anche da quanti fossero rimasti estranei all’antifascismo e alla Resistenza”.
I giovani e il presidente
Alla platea gremita del Teatro Regio, politici, esponenti delle istituzioni e della cultura, ma anche tanti giovani, Napolitano ha espresso il suo pensiero sul dibattito, a volte strumentale che vorrebbe portare ad una revisione forzata della Costituzione che, il presidente l’ha ribadito con forza, “non è un residuato bellico come da qualche parte si vorrebbe talvolta fare intendere” vista anche “la leggerezza con cui si assumono oggi atteggiamenti dissacranti verso di essa”. Invece i limiti che impone “non possono essere ignorati nemmeno in forza dell'investitura popolare, diretta o indiretta, di chi governa". Così come “rispettare la Costituzione significa anche riconoscere l’autorità delle istituzioni di garanzia che non dovrebbero mai essere oggetto di attacchi politici e giudizi sprezzanti”. Il destinatario appare, tra tutti, essere Silvio Berlusconi che spesso si è lamentato di avere scarsi o nulli poteri.
Può essere cambiata la Carta nella sua seconda parte, adeguata, e lo si è d’altronde già fatto. Questo Napolitano lo ha ripetuto. Ed ha indicato anche la via da percorrere che non è certo quella dei colpi di mano. Alle forze presenti in Parlamento, perché “è al Parlamento che spetta pronunciarsi” è così giunto l’invito “e questa è mia responsabilità, ad uno sforzo di realismo e di saggezza su essenziali proposte di riforma sulle quali sia possibile giungere alla più ampia condivisione. Non c’è da ripartire da zero, non c’è da arrendersi a resistenze conservatrici né, all’opposto, a tendere a conflittualità rischiose e improduttive”. Bisogna avviare “una nuova stagione costituente”.
Si superi il bicameralismo perfetto
Che superi “l’anacronistico bicameralismo perfetto” e il discorso sul federalismo è già avviato, che tenga in considerazione la richiesta di maggiori poteri a chi governa ma sulla base di motivazioni “trasparenti e convincenti” senza cadere “in enfasi polemiche infondate”, tanto più che “con il crescente ricorso alla decretazione d’urgenza e all’istituto del voto di fiducia e al rafforzarsi del vincolo tra governo e maggioranza parlamentare” le cose sono già cambiate tanto che Giuliano Amato ha potuto definire “obsoleta la tradizionale constatazione della debolezza del governo nel rapporto con il Parlamento”. Si può pensare a novità in questo campo ma senza dimenticare il monito di Norberto Bobbio che “la denuncia della ingovernabilità tende a suggerire soluzioni autoritarie. Non lo dimentichiamo mai”. In nome del dovere di governare non “si può ricorrere a semplificazioni di sistema e a restrizioni di diritti”.
Sull’altare della governabilità Napolitano, d’accordo ancora una volta con Bobbio, non è disposto a sacrificare la divisione dei poteri, la garanzia dei diritti di libertà, la pluralità dei partiti, la tutela delle minoranze politiche, la rappresentatività del Parlamento, l’indipendenza della magistratura, il principio di legalità e il riconoscimento del Capo dello Stato come “potere neutro”. E sulla legge elettorale Napolitano parla del rischio di non rappresentatività l’andare al voto “in assenza di valide procedure di formazione delle candidature e di meccanismi atti ad ancorare gli eletti al rapporto con gli elettori e il territorio”. L’invito è al confronto. A superare le contrapposizioni con uno scatto come quello che il nostro Paese ha saputo avere nella vicenda tragica del terremoto.
«Riscrivere la norma sui manager»
Il presidente della Repubblica questa mattina incontrerà una delegazione dei familiari delle vittime della Thyssen con altri operai delle fabbriche torinesi. Ma ieri il Capo dello Stato, mentre visitava quella meraviglia che è la restaurata reggia di Venaria, ha fatto capire senza mezzi termini come la pensa a proposito della norma salva manager anche se il ministro Sacconi ne ha smentito la finalità..''Siamo in attesa di vederne la riscrittura. Conosco la questione e l'ho seguita. Anche prima c'era la preoccupazione per quella norma, l'avevamo espressa subito. In ogni caso, prendo atto che il ministro Sacconi si è dichiarato pronto a riscriverla per evitare interpretazioni che non sono state volute e che sarebbero pesanti anche agli effetti del processo Thyssen''.
Il presidente della Repubblica ieri ha sottolineato fortemente il valore della Costituzione. Ha chiesto rispetto. E ognuno dei suoi concetti sembrava rivolto al presidente del Consiglio. A partire dal 25 Aprile.
Repubblica 23.4.09
L’intervento
La Carta non è un residuato bellico
di Giorgio Napolitano
Avevo appena compiuto diciott´anni quando il 25 luglio del 1943 fui, come tutti gli italiani, raggiunto via radio a tarda sera dalla fulminante, imprevedibile notizia della caduta di Mussolini... Al fondo vi era naturalmente una crisi profonda via via maturata nel rapporto tra il Paese e il fascismo, a cominciare dal suo capo, per effetto dell´andamento disastroso della guerra da lui irresponsabilmente voluta, e del peso sempre più insopportabile delle sofferenze inflitte alla popolazione...
Fu dunque da una realtà disperante che si dové partire per rifondare la democrazia in Italia... L´acquisizione degli ideali e dei principi democratici non fu né immediata né incontrastata... Ma non c´è dubbio che si mise in moto un processo irresistibile, dall´alto e dal basso, di riedificazione democratica. Coronamento di tale processo fu l´elaborazione – in un clima di straordinario fervore intellettuale e politico, attraverso il confronto e l´avvicinamento tra le diverse forze politiche e correnti culturali accomunate dall´antifascismo – della Costituzione repubblicana...
La Costituzione repubblicana non è una specie di residuato bellico, come da qualche parte si vorrebbe talvolta far intendere... Essa seppe dare fondamenta solide e prospettive di lunga durata al nuovo edificio dell´Italia democratica. Quelle fondamenta poggiavano sui valori maturati nell´opposizione al fascismo, nella Resistenza, in nuove elaborazioni di pensiero e programmatiche... I valori dell´antifascismo e della Resistenza non restarono mai chiusi in una semplice logica di rifiuto e di contrasto, sprigionarono sempre impulsi positivi e propositivi, e poterono perciò tradursi, con la Costituzione, in principi e in diritti condivisibili anche da quanti fossero rimasti estranei all´antifascismo e alla Resistenza. Perciò il 25 aprile non è festa di una parte sola...
La Costituzione non è una semplice carta dei valori... Non solo non fu mai intesa come manifesto ideologico o politico di parte... E´ legge fondamentale, è legge suprema, la Costituzione, anche e innanzitutto nel segnare i limiti entro cui può svolgersi ogni potere costituito... Si rifletta, a questo proposito, sul primo articolo della nostra Carta Costituzionale, là dove recita: "La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione". Una volta cioè che il potere costituente espresso dal popolo sovrano con l´elezione di una assemblea investita di quel mandato si sia compiuto, ogni ulteriore espressione della sovranità popolare, ogni potere delle istituzioni rappresentative, il potere legislativo ordinario come il potere esecutivo, riconosce la supremazia della Costituzione, rispetta i limiti che essa gli pone... Limiti che non possono essere ignorati nemmeno in forza dell´investitura popolare, diretta o indiretta, di chi governa.
Rispettare la Costituzione è dunque espressione altamente impegnativa... Rispettarla significa anche riconoscere il ruolo fondamentale del controllo di costituzionalità e dunque l´autorità delle istituzioni di garanzia. Queste non dovrebbero mai formare oggetto di attacchi politici e giudizi sprezzanti, al di là dell´espressione di responsabili riserve su loro specifiche decisioni. Tutte le istituzioni di controllo e di garanzia non possono essere viste come elementi frenanti del processo decisionale, ma come presidio legittimo di quella dialettica istituzionale che in definitiva assicura trasparenza, correttezza, tutela dei diritti dei cittadini.
Questo richiamo ad essenziali caratteristiche della democrazia costituzionale non ha nulla a che vedere con una visione statica della nostra Carta, con una sua celebrazione fine a se stessa o con l´affermazione della sua intoccabilità... Spetta ancora una volta al Parlamento pronunciarsi sulla possibilità di procedere in questa direzione, sugli obbiettivi da perseguire, sul grado di consenso a cui tendere. Pur non potendo esprimere indicazioni di merito, ritengo che sia mia responsabilità esortare le forze presenti in Parlamento a uno sforzo di realismo e di saggezza per avviare il confronto su essenziali proposte di riforma della seconda parte della Costituzione, sulle quali sia possibile giungere alla più ampia condivisione. Lo spirito dovrebbe essere quello, come si è di recente autorevolmente detto, di una rinnovata "stagione costituente"...
Da decenni ormai si è aperto il dibattito generale sulla governabilità delle società democratiche... Nell´affrontare a suo tempo questo tema cruciale, Norberto Bobbio osservò che mentre all´inizio della contesa sul rapporto tra liberalismo e democrazia "il bersaglio principale era stato la tirannia della maggioranza", esso stava finendo per assumere un segno opposto, "non l´eccesso ma il difetto di potere". E Bobbio aggiunse, pur senza eludere il problema: "la denuncia della ingovernabilità tende a suggerire soluzioni autoritarie". Un monito, quest´ultimo, che non si dovrebbe dimenticare mai. E dal quale va ricavata l´esigenza di tenere sempre ben ferma la validità e irrinunciabilità delle "principali istituzioni del liberalismo" – concepite in antitesi a ogni dispotismo – tra le quali –, nella classica definizione dello stesso Bobbio, "la garanzia di diritti di libertà (in primis libertà di pensiero e di stampa), la divisione dei poteri, la pluralità dei partiti, la tutela delle minoranze politiche". E sempre Bobbio metteva egualmente l´accento sulla rappresentatività del Parlamento, sull´indipendenza della magistratura, sul principio di legalità.
Tutto ciò non costituisce un bagaglio obsoleto, sacrificabile – esplicitamente o di fatto – sull´altare della governabilità, in funzione di "decisioni rapide, perentorie e definitive" da parte dei poteri pubblici. Ho evocato – ed è di certo tra gli istituti non sacrificabili – la distinzione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario); e mi sarà permesso di richiamare anche il riconoscimento del Capo dello Stato come "potere neutro"...
Ho egualmente menzionato come essenziale la rappresentatività del Parlamento: a proposito della quale penso si possa dire che essa non viene fatalmente incrinata da regole vigenti in diversi paesi democratici, finalizzate ad evitare un´eccessiva frammentazione politica, ma rischia di risultare seriamente indebolita in assenza di valide procedure di formazione delle candidature e di meccanismi atti ad ancorare gli eletti al rapporto col territorio e con gli elettori.
In definitiva, non si può ricorrere a semplificazioni di sistema e a restrizioni di diritti in nome del dovere di governare... Non c´è, sul piano democratico, alternativa al confrontarsi, al combinare ascolto, mediazione e decisioni, al giungere alla sintesi con la necessaria tempestività ma senza sacrificare i diritti e l´apporto della rappresentanza...
Sappiamo quali orizzonti nuovi la Costituzione abbia aperto per il nostro paese: orizzonti di libertà e di eguaglianza, di modernizzazione e di solidarietà. La condizione per coltivare queste potenzialità, in termini rispondenti ai bisogni e alle istanze che maturano nel corpo sociale, nella comunità nazionale – la condizione per rafforzare così le basi della democrazia e il consenso da cui essa può trarre sicurezza e slancio – è in un impegno che attraversi la società, che si faccia sentire e pesi in quanto espressione della consapevolezza e della volontà di molti, uomini e donne di ogni generazione e di ogni ceto.
(Il testo è tratto dal discorso del Presidente della Repubblica alla "Biennale democrazia" di Torino)
Corriere della Sera 23.4.09
La strategia
Una mossa preventiva
di Massimo Franco
La scelta del Quirinale. Il timore di un’offensiva
La mossa preventiva che rompe la tregua
La tesi dello scarto improvviso regge solo a una lettura superficiale. Nel discorso fatto ieri da Giorgio Napolitano alla «Biennale della democrazia» a Torino, si avverte l’eco di un disagio istituzionale covato a lungo; di tensioni ora represse, ora emerse fra Quirinale e Palazzo Chigi: con lo scontro del febbraio scorso sulla sorte di Eluana Englaro, in coma da anni, come apice polemico subito diplomatizzato.
L’ultimo indizio di una cicatrice mai rimarginata del tutto è stata la lettera inviata dal presidente della Repubblica a Silvio Berlusconi nei giorni del terremoto. Lo avvertiva che non poteva accettare provvedimenti d’urgenza destinati a svuotare i poteri del capo dello Stato.
Su questo sfondo l’altolà, inusuale nei toni, che Napolitano invia al premier suona come una mossa preventiva e insieme difensiva. L’impressione è che il Quirinale abbia messo in fila quanto è accaduto negli ultimi mesi; e che sia giunto alla conclusione che senza una reazione immediata, d’anticipo, assisterebbe ad un logoramento progressivo dei princìpi di cui si ritiene custode. Può essere considerato un gesto di forza oppure di debolezza. Rompe comunque la tregua realizzatasi col sisma in Abruzzo; e costituisce un gesto pubblico potenzialmente dirompente fra presidente della Repubblica e del Consiglio.
Sostenere, come Napolitano ha fatto ieri a Torino, che «la denuncia dell’ingovernabilità tende a suggerire soluzioni autoritarie», non può non essere letto come un richiamo duro a Berlusconi. E certo è destinato almeno ad una parte della maggioranza l’irritazione per certi «atteggiamenti dissacranti» nei confronti della Costituzione. Confutare la tesi secondo la quale la Carta fondamentale sarebbe «una specie di residuato bellico» è, di nuovo, una reazione ad alcune frasi recenti del premier. Idem la contestazione delle «polemiche infondate » con le quali palazzo Chigi chiede più potere nei rapporti col Parlamento. Ma c’è da chiedersi come mai un uomo prudente come Napolitano abbia deciso una mossa che può esporlo alla reazione della maggioranza; e perfino segnalare un conflitto istituzionale. Oltre tutto, il discorso di Torino cade in un momento in cui la popolarità di Berlusconi risulta alle stelle, dopo il terremoto. E, almeno in apparenza, non ci sono stati gravi motivi di contrasto: al punto che le parole presidenziali rischiano di apparire sorprendenti. La spiegazione più verosimile è che il capo dello Stato abbia rotto gli indugi non solo per quanto è successo, ma in vista di quello che teme possa verificarsi.
L’ombra lunga del caso Englaro, risolto con una tregua improvvisa, appare tuttora incombente. Ha lasciato una patina di diffidenza fra Napolitano e palazzo Chigi; ed il timore di un’offensiva contro il Quirinale che potrebbe prendere corpo in qualunque momento. Quasi ad esorcizzare questi fantasmi, il capo dello Stato propone la «sua» Italia, contrapposta al modello del Pdl: un sistema ritenuto pericolosamente incline a privilegiare il governo. Rimane da capire se l’esternazione bloccherà quella che il capo dello Stato vede come una deriva allarmante; o se per paradosso l’accelererà. Ma esiste una terza ipotesi: che il discorso venga applaudito dall’opposizione ed ignorato da una maggioranza convinta, o illusa, che l’altolà al governo sia solo un segno di nervosismo. Un comportamento destinato a compromettere il profilo sopra le parti conquistato da Napolitano, magari a beneficio di Berlusconi. È un calcolo al limite dell’azzardo. Conferma tuttavia la pericolosità dello scontro in incubazione ai vertici dello Stato.
Repubblica 23.4.09
Le parole della democrazia
di Gustavo Zagrebelsky
Nei luoghi del potere il tradimento si consuma più che altrove. A cominciare dall´espressione "politica"
Il dispotismo usa la paura per camuffare i significati E così l´ignoranza diventa forza, la libertà schiavitù
"È solo la lingua che fa eguali", diceva don Milani "Che sia ricco o povero non importa"
Sono dittature ideologiche i regimi che disprezzano i fatti o li travisano
Ogni forma di governo usa gli "argomenti" adeguati ai propri fini. Il dispotismo, ad esempio, usa la paura e il bastone per far valere il comando dell´autocrate. La democrazia è il regime della circolazione delle opinioni e delle convinzioni, nel rispetto reciproco. Lo strumento di questa circolazione sono le parole. Si comprende come, in nessun altro sistema di reggimento delle società, le parole siano tanto importanti quanto lo sono in democrazia. Si comprende quindi che la parola, per ogni spirito democratico, richieda una cura particolare: cura particolare in un duplice senso, quantitativo e qualitativo.
Anticipiamo parte della lezione che Gustavo Zagrebelsky legge questa mattina a Torino, nell´ambito di «Biennale Democrazia»
Il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia e dell´uguaglianza delle possibilità. Poche parole e poche idee, poche possibilità e poca democrazia; più sono le parole che si conoscono, più ricca è la discussione politica e, con essa, la vita democratica. Quando il nostro linguaggio si fosse rattrappito al punto di poter pronunciare solo sì e no, saremo pronti per i plebisciti; e quando conoscessimo solo più i sì, saremmo nella condizione del gregge che può solo obbedire al padrone. Il numero delle parole conosciute, inoltre, assegna i posti entro le procedure della democrazia. Ricordiamo ancora la scuola di Barbiana e la sua cura della parola, l´esigenza di impadronirsi della lingua? Comanda chi conosce più parole. «È solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l´espressione altrui. Che sia ricco o povero importa di meno». Ecco anche perché una scuola ugualitaria è condizione necessaria, necessarissima, della democrazia.
Con il numero, la qualità delle parole. Le parole non devono essere ingannatrici, affinché il confronto delle posizioni sia onesto. Parole precise, specifiche, dirette; basso tenore emotivo, poche metafore; lasciar parlar le cose attraverso le parole, non far crescere parole con e su altre parole. Uno dei pericoli maggiori delle parole per la democrazia è il linguaggio ipnotico che seduce le folle, ne scatena la violenza e le muove verso obbiettivi che apparirebbero facilmente irrazionali, se solo i demagoghi non li avvolgessero in parole grondanti di retorica.
Le parole, poi, devono rispettare il concetto, non lo devono corrompere. Altrimenti, il dialogo diventa un inganno, un modo di trascinare gli altri dalla tua parte con mezzi fraudolenti. Impariamo da Socrate: «Sappi che il parlare impreciso non è soltanto sconveniente in se stesso, ma nuoce anche allo spirito»; «il concetto vuole appropriarsi del suo nome per tutti i tempi», il che significa innanzitutto saper riconoscere e poi saper combattere ogni fenomeno di neolingua, nel senso spiegato da George Orwell, la lingua che, attraverso propaganda e bombardamento dei cervelli, fa sì che la guerra diventi pace, la libertà schiavitù, l´ignoranza forza. Il tradimento della parola deve essere stata una pratica di sempre, se già il profeta Isaia, nelle sue "maledizioni" (Is 5, 20), ammoniva: «Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l´amaro in dolce e il dolce in amaro».
I luoghi del potere sono per l´appunto quelli in cui questo tradimento si consuma più che altrove, a incominciare proprio dalla parola "politica". Politica viene da polis e politéia, due concetti che indicano il vivere insieme, il convivio. È l´arte, la scienza o l´attività dedicate alla convivenza. Ma oggi parliamo normalmente di politica della guerra, di segregazione razziale, di politica espansionista degli stati, di politica coloniale, ecc. «Questa è un´epoca politica», ancora parole di Orwell. «La guerra, il fascismo, i campi di concentramento, i manganelli, le bombe atomiche sono quello a cui pensare». La celebre definizione di Carl Schmitt, ripetuta alla nausea, della politica come rapporto amico-nemico, un rapporto di sopraffazione, di inconciliabilità assoluta tra parti avverse è forse l´esempio più rappresentativo di questo abuso delle parole. Qui avremmo, se mai, la definizione essenziale non del "politico" ma, propriamente, del "bellico", cioè del suo contrario. Ancora: la libertà, nei tempi nostri avente il significato di protezione dei diritti degli inermi contro gli arbitri dei potenti, è diventata lo scudo sacro dietro il quale proprio costoro nascondono la loro pre-potenza e i loro privilegi. La giustizia, da invocazione di chi si ribella alle ingiustizie del mondo, si è trasformata in parola d´ordine di cui qualunque uomo di potere si appropria per giustificare qualunque propria azione. Quanto alla parola democrazia, anch´essa è sottoposta a "rovesciamenti" di senso, quando se ne parla non come governo del popolo, ma per o attraverso il popolo: due significati dell´autocrazia.
Da questi esempi si mostra la regola generale cui questa perversione delle parole della politica: il passaggio da un campo all´altro, il passaggio è dal mondo di coloro che al potere sono sottoposti a quello di coloro che del potere dispongono e viceversa. Un uso ambiguo, dunque, di fronte al quale a chi pronuncia queste parole dovrebbe sempre porsi la domanda: da che parte stai ? Degli inermi o dei potenti?
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Affinché sia preservata l´integrità del ragionare e la possibilità d´intendersi onestamente, le parole devono inoltre, oltre che rispettare il concetto, rispettare la verità dei fatti. Sono dittature ideologiche i regimi che disprezzano i fatti, li travisano o addirittura li creano o li ricreano ad hoc. Sono l´estrema violenza nei confronti degli esclusi dal potere che, almeno, potrebbero invocare i fatti, se anche questi non venissero loro sottratti. Non c´è manifestazione d´arbitrio maggiore che la storia scritta e riscritta dal potere. La storia la scrivono i vincitori – è vero - ma la democrazia vorrebbe che non ci siano vincitori e vinti e che quindi, la storia sia scritta fuori delle stanze del potere. Sono regimi corruttori delle coscienze fino al midollo, quelli che trattano i fatti come opinioni e instaurano un relativismo nichilistico applicato non alle opinioni ma ai fatti, quelli in cui la verità è messa sullo stesso piano della menzogna, il giusto su quello dell´ingiusto, il bene su quello del male; quelli in cui la realtà non è più l´insieme di fatti duri e inevitabili, ma una massa di eventi e parole in costante mutamento, nella quale ciò che oggi vero, domani è già falso, secondo l´interesse al momento prevalente. Onde è che la menzogna intenzionale, cioè la frode – strumento che vediamo ordinariamente presente nella vita pubblica – dovrebbe trattarsi come crimine maggiore contro la democrazia, maggiore anche dell´altro mezzo del dispotismo, la violenza, che almeno è manifesta. I mentitori dovrebbero considerarsi non già come abili, e quindi perfino ammirevoli e forse anche simpaticamente spregiudicati uomini politici ma come corruttori della politica.* * *
La cura delle parole in tutti i suoi aspetti è ciò che Socrate definisce filologia. Vi sono persone, i misologi, che «passano il tempo nel disputare il pro e il contro, e finiscono per credersi divenuti i più sapienti di tutti per aver compreso essi soli che, sia nelle cose sia nei ragionamenti, non c´è nulla di sano o di saldo, ma tutto […] va su e giù, senza rimanere fermo in nessun punto neppure un istante». Questo sospetto che nel ragionare non vi sia nulla di integro c´è un grande pericolo, che ci espone a ogni genere d´inganno. Le nostre parole e le cose non devono "andare su e giù". Occorre un terreno comune oggettivo su cui le nostre idee, per quanto diverse siano, possano poggiare per potersi confrontare. Ogni affermazione di dati di fatto deve essere verificabile e ogni parola deve essere intesa nello stesso significato da chi la pronuncia e da chi l´ascolta. Chi mente sui fatti dovrebbe essere escluso dalla discussione. Solo così può non prendersi in odio il ragionare e può esercitarsi la virtù di chi ama la discussione.Repubblica 23.4.09
Il fondatore di "Repubblica" all’Università di Roma
Scalfari: così si salva l’informazione
di Simonetta Fiori
Il declino etico di un’Italia schiacciata sul presente
Giornalismo, fisiologia di un mestiere difficile, si intitolava un saggio scritto da Alberto Asor Rosa diversi anni fa. Giornalismo, fisiologia di un mestiere a rischio, potrebbe intitolarsi la lezione tenuta ieri mattina da Eugenio Scalfari davanti a un´affollata platea di studenti iscritti al master su editoria e management culturale, presso la facoltà di Scienze Umanistiche della Sapienza. Dall´elaborazione intellettuale del partito dei philosophes – primi rappresentanti nobili del giornalismo moderno – alle pulsioni emotive dell´attuale informazione televisiva, il fondatore di Repubblica delinea una storia dell´opinione pubblica che, dopo oltre due secoli, rischia di essere polverizzata da messaggi fuorvianti. Nel diluvio impazzito di notizie, «in un paesaggio antropologico negli ultimi decenni profondamente modificato, ai giornali spetta fungere da "arche di Noè", depositi di valori che navigano contro le mitografie create dalle televisioni commerciali». Solo così si può fronteggiare una crisi che non investe soltanto l´informazione, ma chiama in causa il declino etico e culturale di un paese segnato dal "presentismo", lo schiacciamento sul presente di marchio berlusconiano. Storia politica e storia intellettuale si mescolano nella lectio magistralis alla memoria autobiografica, particolarmente preziosa – ha detto Asor Rosa nell´introdurre il corso - per il singolare profilo assunto in oltre tre decenni da Scalfari, direttore ed editore di Espresso e Repubblica.
Chi fa oggi concorrenza a Gutenberg? La crisi dei giornali, spiega Scalfari, non è solo legata alla più generale crisi economica, con il calo del 28 per cento di pubblicità, ma è cominciata ancor prima, con il dominio di Tv e soprattutto Internet. «Attualmente i quotidiani nazionali vendono un terzo in meno rispetto a cinque/dieci anni fa. Perdiamo copie ma, se consideriamo i frequentatori del web che leggono il giornale sul sito, i lettori complessivamente aumentano». Un fenomeno destinato a crescere con la messa a punto di tecnologie che permetteranno di scaricare dal computer l´intero giornale («Allora sarà necessario fissare un piccolo prezzo di abbonamento»). Al quotidiano di carta spetta un ruolo da protagonista. «È questo che garantisce il presidio di qualità per l´informazione fatta online». Grandi inchieste, reportage, approfondimenti: tutto ciò che la tv e gli altri media non possono offrire è bene che si rafforzino nelle pagine cartacee.
Ma il problema più vasto con cui si misura il giornalismo contemporaneo è la "diserzione dalla lettura" mostrata dai più giovani (non solo), a vantaggio del mondo delle immagini e dei suoni. «Le conseguenze di questa diserzione riguardano i tempi: passato, futuro e presente. La mia generazione, nutrita di molte letture, ha un sentimento del tempo che comincia nel passato, in chiave di memoria propria». Soltanto scegliendo di salire "sulle spalle dei giganti", si può avere uno sguardo più lungo. «Se invece io decido di vivere esclusivamente nel presente – cifra attuale dello spirito pubblico – rischio di rimanerne schiacciato, proprio perché non ho memoria del passato. Questa è la condizione in cui versa la nostra classe dirigente, che vive di continue emergenze – alcune vere, altre conclamate per immediati ritorni politici – e dunque incapace di progettare il futuro delle generazioni successive». Alla carta stampata spetta la funzione di recuperare il sentimento del tempo, «una memoria del passato che sola permette di dare una visione prospettica del futuro». Solo così si può difendere il processo attraverso cui si forma l´opinione pubblica. Tornare a Diderot forse è difficile, conoscerne la lezione indispensabile.
Repubblica 23.4.09
La libertà di stampa nei sistemi populisti
Se la maggioranza è tiranna
di Nadia Urbinati
Le democrazie si reggono sul consenso. La formazione del giudizio politico dal quale si sviluppa il consenso è per questo una parte essenziale della legittimità democratica, la quale non è circoscritta alle regole attraverso le quali si prendono decisioni. C´è un´altra parte che compone la legittimità, che è informale, non direttamente traducibile in legge e che, per questa ragione, è stata chiamata soft power: l´opinione. La democrazia vive di una tensione sana e necessaria tra il potere costituito o istituzionale (regole e procedure) e il potere in formazione o extra-istituzionale che è la politica in senso lato o il giudizio pubblico. Non è irragionevole pensare alla democrazia come a un ordine politico che si regge su un disaccordo permanente tra legittimità istituzionale e fiducia dei cittadini. Il grado di disaccordo tra questi due livelli varia ma non si dà mai, né può darsi mai, una coincidenza tra la volontà di chi fa le leggi e prende le decisioni e chi giudica. Provare a risolvere il disaccordo o cercare di stabilire omogeneità è una tentazione pericolosa anche se mai completamente domata. Le tirannie, i fascismi, i populismi sono stati e sono il segno che questa tentazione è stata perseguita e ha avuto successo. Il potere non ama essere criticato e nemmeno controllato: identifica l´informazione come un´intrusione e addirittura una critica. Le democrazie costituzionali sono parte di questa storia, anche se sono dotate di norme che in teoria dovrebbero renderle più immuni a quegli esiti funesti.
Alcune costituzioni sono più attrezzate di altre. L´articolo 5 della Costituzione tedesca dichiara che «ognuno ha diritto di esprimere e diffondere liberamente le sue opinioni e di informarsi senza impedimento da fonti accessibili a tutti». La nostra Costituzione non è altrettanto esplicita, ma l´evoluzione della nostra giurisprudenza è andata nella direzione dell´affermazione della libertà di informazione, sia come libertà di esprimere opinioni che come diritto a essere informati (una libertà che leggi improvvide hanno vanificato permettendo la formazione di fatto di un sistema di monopolio privato dell´informazione).
Quella dell´opinione è una libertà complessa perché mette in campo non soltanto la libertà di raccogliere e divulgare informazioni, ma anche quella di criticare comportamenti, fatti e idee. La garanzia della libertà di espressione è naturalmente importante quando si tratta di idee che possono non piacere alla maggioranza. I diritti sono baluardi protettivi per chi non ha dalla sua il potere: che la maggioranza rivendichi il diritto di parola è semplicemente un assurdo, un rovesciamento delle parti.
L´informazione mette in atto due forme di libertà: quella civile o dell´individuo e quella politica o del cittadino. E sta insieme a controllo e a formazione dell´opinione: abbiamo bisogno di sapere per poterci formare un´opinione e decidere; e abbiamo bisogno di sapere per controllare chi decide. L´informazione è un bene pubblico dunque come la libertà e il diritto (e come libertà e diritto non è a discrezione della maggioranza). È soprattutto un bene che ci consente di avere altri beni: per esempio, un governo che faccia buone leggi o che non sia corrotto (l´informazione rivela l´errore e smaschera la disonestà). L´informazione fa parte perciò dell´onorata tradizione dei poteri negativi o di controllo, anche se la sua è un´influenza solo indiretta e informale. Senza questo controllo le democrazie non vivono. Le regole del gioco non sono tutta l´opera della democrazia. Giornali, televisioni, sistemi informativi elettronici: tutto questo fa parte del modo con il quale il gioco democratico è giuocato.
Scriveva Alexis de Tocqueville che senza contropoteri istituzionali e extraistituzionali la società rischia fatalmente di identificarsi con l´opinione della maggioranza, di parlare con una voce sola, di essere omogenea nei gusti e nei valori; di essere in una parola una nuova forma di dispotismo. Ma il dispotismo democratico del quale parlava Tocqueville cresceva come per un´innata forza delle cose, non per la volontà di qualcuno. Era la logica stessa dell´opinione pubblica a generare omogeneità di vedute e docilità. L´Italia non sembra rientrare in questo caso perché da noi la manipolazione dell´informazione è un fatto scientemente perpetrato e voluto; è l´esito della responsabilità di qualcuno. La nostra assomiglia per questo a una democrazia populista (e la proposta di riforma costituzionale in senso presidenzialista va in questa direzione). Ma con questa importante novità: poiché usa il sistema mediatico e non quello della propaganda di partito o della repressione, l´esito che favorisce non è alla fine diverso da quello descritto da Tocqueville. Se avrà successo, per esercitare un dominio incontrastato , la maggioranza non avrà bisogno di sospendere i diritti politici. L´opinione parlerà con una voce sola e le poche voci di dissenso saranno come voci nel deserto.
Corriere della Sera 23.4.09
Esce oggi da Feltrinelli il nuovo libro di Eva Cantarella. Viaggio in una concezione dell’eros basata sul culto della virilità
L’amore nell’antica Roma quando i gladiatori erano come i calciatori
Le donne conquistate dal loro fascino. Lo dicevano anche i poeti
di Eva Cantarella
«Dammi mille baci» a Milano e Napoli. Anticipiamo un brano tratto dal libro di Eva Cantarella Dammi mille baci. Veri uomini e vere donne nell’antica Roma, in uscita oggi da Feltrinelli (pp. 190, e15). L’autrice incontra i lettori oggi a Milano con Giulia Cogoli (Feltrinelli di piazza Piemonte 2, ore 18,30), domani con Giuseppe Cacciatore e Marco Lombardi a Napoli (ore 18, Feltrinelli, piazza dei Martiri 1).
Che l’emancipazione femminile non fosse un fatto di élite, ma avesse toccato anche le donne delle classi meno alte, è chiaramente mostrato dai reperti, e più in particolare dai graffiti pompeiani.
Per cominciare: le donne di Pompei, oltre a frequentare i teatri, assistevano ai giochi gladiatori, ai quali pare si appassionassero non tanto per i giochi in sé quanto per i gladiatori; i quali, se sopravvivevano alle loro non facili esibizioni, diventavano le star dell’epoca — un po’ come i calciatori di oggi, o come i cantanti rock, ammirati e amati dalle donne di ogni ceto sociale. A dimostrarlo, ecco le iscrizioni che a Pompei, più o meno scherzosamente, alludono al loro fascino irresistibile.
Il trace Celado, ad esempio — leggiamo nella caserma dei gladiatori — fa sospirare le ragazze. Chi lo ha scritto, una donna o un uomo? Poco importa, in ogni caso dal graffito viene una conferma del fatto che le ragazze di Pompei non erano insensibili al fascino dei muscoli e della celebrità.
Sullo stesso edificio, un altro graffito ci informa che Crescente, il reziario (uno dei gladiatori specializzati nel combattere con una rete, con cui dovevano difendersi dagli attacchi avversari), era «il medico notturno delle ragazze». Piacevano a tutte, questi gladiatori. Oltre che alle ragazze di modeste condizioni sociali, anche alle matrone, che a quanto pare, più essi uscivano malconci dalle lotte, più li amavano. Quanto meno, così vuol farci credere il solito Giovenale, che nella sua satira sulle donne racconta di una certa Eppia, che aveva abbandonato casa e famiglia per seguire un gladiatore, tal Sergetto, che attendeva, ormai, / con quel braccio spezzato il suo congedo; / e molti sfregi avea nel volto, e il ciuffo / diradato dall’elmo, e in mezzo al naso / un grossissimo porro; e un male acuto / gli facea sempre gocciolare un occhio. / Ma un gladiatore egli era!
Per lui, dice Giovenale, anche se era stata abituata da bambina a ogni lusso, e anche se faceva grandissime difficoltà se il marito tentava di farla salire su una nave, Eppia aveva sfidato le onde, seguendolo fino in Egitto: quel Sergetto non doveva essere ributtante come Giovenale lo descrive. La patologica misoginia del poeta emerge anche in questi versi, e si conferma quando, generalizzando il comportamento di Eppia, scrive che quelle che a un amante / van dietro, hanno stomaco di bronzo, / quella vomita addosso al suo marito, / questa tra i marinai mangia e passeggia / su e giù per la nave e si compiace / nel maneggiare i ruvidi cordami.
Non le amava affatto le donne, Giovenale. Ma, al di là delle sue esagerazioni, possiamo cogliere una verità: anche le signore delle classi alte erano sensibili al fascino dei gladiatori. Come del resto parrebbe confermare un altro ritrovamento pompeiano.
Nell’alloggio dove dormivano i gladiatori, infatti, sono stati trovati i resti di una persona di sesso femminile, e dei gioielli, che presumibilmente le appartenevano. Cosa ci faceva, in quel posto, una signora ingioiellata? Esercitando un po’ la fantasia, si è diffusa l’idea che quella sera la signora fosse andata, presumibilmente di nascosto, a trovare il suo bel gladiatore. Chissà se il cataclisma la sorprese appena arrivata, o mentre si accingeva a tornare a casa. Come che sia, morì in un momento felice.
Erano molto preoccupati, i romani. Nonostante l’impegno che avevano messo, e che continuavano a mettere, nell’opera di educare le donne alla virtù, erano stati costretti a rendersi conto che qualcosa dovevano aver sbagliato.
A cavallo tra il I secolo avanti e il I secolo dopo Cristo, vedevano la città popolata da donne i cui costumi avrebbero fatto inorridire i loro antenati. Delle libertà (alcune delle quali concesse da loro stessi, massima delle beffe) le donne non si limitavano a fare un uso discreto, capace di non sconvolgere le antiche abitudini: ne abusavano, ne approfittavano in modo indecente. Questo pensavano i romani. A loro non piacevano proprio le donne emancipate. Per loro, l’emancipazione era un pericolo sociale. Diceva Cicerone, parafrasando Platone, che là dove donne e schiavi non obbedivano era l’anarchia. Ma le accuse più pesanti alla presunta dissolutezza delle donne vengono dai poeti: in particolare, i poeti satirici.
Giovenale, per cominciare. In lui, la descrizione della nequizia femminile raggiunge livelli paradossali. Al di là di ogni considerazione sulla enfatizzazione e caricaturizzazione della realtà tipica del genere letterario, i versi di Giovenale rivelano una misoginia quasi patologica: «La lussuria è vizio di tutte, schiave e padrone», scrive nella sesta satira, «da quella che va scalza per le strade della città, a quella che si fa portare in lettiga da schiavi siriani, le donne, tutte, senza scampo, sono dissolute».
Certo. Lo sappiamo: la satira porta la realtà alle estreme conseguenze, ridicolizzandola, non di rado per esorcizzare nel riso il disagio e, spesso, una vera e propria paura. Ma perché avevano paura delle donne, i romani? Cosa temevano?
In primo luogo, che volessero comandarli (come, secondo i poeti satirici, ormai facevano senza un minimo di ritegno). Soprattutto se erano ricche. Un timore diffuso, che Marziale dichiara apertamente: Donna ricca sposare? No. Perché, / mi domandate. Perché voglio / sposare, non essere sposato. / La moglie, Prisco, sia soggetta al marito: / è la sola eguaglianza possibile tra i due.
Più chiaro di così. Comandano, pretendono. Ormai, sono convinte che avere un amante sia un loro diritto. Alcune arrivano a pensare che limitarsi a uno solo sia quasi una concessione al marito.