venerdì 24 aprile 2009

l'Unità 24.4.09
Bellocchio: «La mia eroina antipatica e testarda»
Il regista italiano parla di «Vincere» film in corsa per la Palma
È la storia di Ida Dalser, prima moglie del Mussolini socialista
di Ga.G.

Avere l’unico film italiano in concorso al Festival di Cannes non mi toglierà il sonno. A novembre compirò 70 anni e credo proprio che resterò me stesso e non sarò preso dall’ansia». Comprensibile per Marco Bellocchio, uno dei grandi nomi del cinema europeo che sulla Croisette è passato sette volte, anche nei panni di giurato. L’ultima nel 2006 con L’ora di religione, anche allora unico italiano del concorso. Vincere, il suo film, con Giovanna Mezzogiorno e Filippo Timi, ricostruisce la storia tragica di Ida Dalser, presunta prima moglie di Benito Mussolini, all’epoca socialista e anticlericale direttore dell’Avanti! e del figlio Benito Albino Mussolini. Entrambi furono fatti internare anni dopo dal Duce in vari nosocomi per cancellare la loro memoria. Parlandone il regista non manca di appassionarsi: «Sono rimasto coinvolto e sconvolto dalla tragedia di Ida Dalser - racconta - sia perché è una tragedia italiana, sia perché ha come protagonista un’eroina antipatica suo malgrado, una vera rompiscatole che cerca in tutti i modi di far valere i suoi diritti. Si può parlare di una doppia tragedia che coinvolge sia lei che il figlio Albino che approdano entrambi in manicomio per essere cancellati, una cosa non proprio italiana quest’ultima».
RITMI FUTURISTI
Il film - prodotto da Offside e RaiCinema e distribuito da 01 il giorno stesso della sua programmazione a Cannes, ancora da definire - è per Bellocchio «pieno di ritmo e velocità, quasi futurista». Ma non è affatto ispirato né può ricordare la figura dell’attuale presidente del Consiglio Berlusconi, spiega, cercando di tagliare corto, per evitare le polemiche. «Non ho minimamente pensato all’attuale regime - dice -, saranno i telespettatori a dover giudicare». Ma poi, accorgendosi freudianamente di aver usato il termine «regime», rettifica: «Credo solo che questa italiana sia una democrazia particolare, ma è anche vero che alcuni commentatori ne parlano un po’ come di un regime. Ma - conclude - posso tranquillamente affermare che non ho affatto pensato a Berlusconi mentre giravo il film».
GLI INTERPRETI
Vincere, conclude il regista dei Pugni in tasca, «racconta anche trent’anni di storia italiana, un triangolo composto appunto da Mussolini, Ida e Albino e ancora la vicenda di una donna che a un certo punto riuscirà a vedere il padre di suo figlio solo al cinema, nei filmati di propaganda». Di Filippo Timi, spiega Bellocchio, «mi ha impressionato la straordinaria somiglianza con il giovane Mussolini. E poi ha nel suo stesso essere una naturale autorevolezza come anche quella disperazione propria al personaggio di Albino». La Mezzogiorno? «Non è stata solo questione di somiglianza - spiega Bellocchio - ma casomai della caparbietà propria al suo carattere e perfetta per il personaggio di Ida Dalser».

La ricostruzione di Alfredo Pieroni
La tragica storia di Ida Dalser e di suo figlio Benito Albino Dalser Mussolini l’avevamo raccontata ai lettori nel gennaio del 2005, in un lungo articolo firmato da Alfredo Pieroni, che dopo un’accurata inchiesta si convinse che Ida e il figlio fossero fatti morire in manicomio e che il responsabile fosse Mussolini. L’articolo è disponibile su «l’Unità» on line.

Repubblica 24.4.09
Bellocchio: "Vi mostro la donna che Mussolini chiuse in manicomio"

ROMA «Quando ho fatto Vincere non ho pensato affatto a Berlusconi né ho fatto similitudini tra Mussolini e l´attuale premier. Non penso che nasceranno polemiche, comunque saranno gli spettatori a decidere». Lo ha detto Marco Bellocchio, unico regista italiano a partecipare al concorso del Festival di Cannes con il suo nuovo lavoro Vincere che racconta la storia di Ida Dalser, madre di un figlio di Mussolini, Benito Albino. Ida Dalser morì in manicomio dove il Duce l´aveva fatta rinchiudere. La interpreta Giovanna Mezzogiorno, mentre Filippo Timi è sia Mussolini che suo figlio Benito Albino.
«Ida Dalser» spiega Bellocchio «è stata un´eroina piuttosto antipatica, una rompiscatole che voleva affermare a ogni costo la verità e i suoi diritti. Per questo l´ho amata e per questo ho voluto la Mezzogiorno, un´attrice che ha in sé quel carattere, quella determinazione». Vincere, prodotto da RaiCinema insieme ai francesi, «è incalzante, scandito su trent´anni di storia e segue questa donna dai 21 ai 50 anni. Racconto il manicomio, dove è rinchiusa, non in modo veristico ma come una prigione».
(ro.rom.)

Repubblica 24.4.09
Populismo selettivo
di Stefano Rodotà

La democrazia italiana sta correndo il rischio d´essere schiacciata tra il "presidenzialismo assoluto" e il populismo elettronico. È un rischio grave, di cui si dovrebbe essere consapevoli nel momento in cui si parla di aprire addirittura una stagione costituente.
Ed è un rischio reale, come dimostrano in modo eloquente alcuni fatti significativi delle ultime settimane, tra i quali spicca l´alto e severo monito del presidente della Repubblica. Berlusconi non si limita a chiedere una maggiore efficienza dell´azione di governo. Pretende una radicale ridefinizione del ruolo del presidente del Consiglio, con una concentrazione di potere nelle sue mani senza precedenti e senza controlli, alterando, e non riformando, la forma di governo disegnata dalla Costituzione.
Consapevoli o no, Berlusconi e i suoi continuano a muoversi secondo un modello messo a punto negli Stati Uniti nel 1994 da un parlamentare repubblicano, Newt Gingrich, che proponeva un "Contratto con l´America" e il passaggio a un "Congresso virtuale" (collegati elettronicamente, i cittadini avrebbero votato le leggi al posto dei parlamentari). Sappiamo che Berlusconi fece proprio il primo suggerimento, firmando in diretta televisiva il non dimenticato "Contratto con gli italiani". Ora si indica una strada per delegittimare il Parlamento, già minacciato d´una riduzione ad una sorta di riunione di famiglia di cinque persone, quanti sono i presidenti dei gruppi parlamentari, che voterebbero al posto dei singoli senatori o deputati. Fallito negli Stati Uniti, il modello Gingrich troverà in Italia la sua terra d´elezione?
Cogliamo così il populismo nella sua versione più radicale, che ispira l´azione quotidiana del presidente del Consiglio, che si è da tempo manifestato nell´accorta e totalitaria gestione del sistema della comunicazione e che ora attende il suo compimento finale, con l´accentramento dei poteri nelle mani del primo ministro e un incontro fatale con le tecnologie elettroniche. Di questo modo d´intendere la politica e lo Stato Berlusconi ha dato pubblica testimonianza quando, in apertura del congresso costituente del Popolo della Libertà, ha descritto l´intero costituzionalismo moderno appunto nella chiave, abusiva e inquietante, di una sua radice populista. E l´insofferenza per ogni forma di controllo e per le stesse regole dello Stato di diritto, caratteri tipici del populismo di destra, ritornano ossessivamente nelle più impegnative vicende recenti. Quando Napolitano ha rifiutato di firmare il decreto legge sul caso Englaro, Berlusconi ha minacciato un ricorso al popolo, costituzionalmente improponibile, perché il potere di decretazione fosse attribuito al governo fuori d´ogni controllo.
Viviamo, però, in un clima di populismo "selettivo". Quando esalta la voce del popolo, Berlusconi dimentica del tutto che questa voce si levò nel giugno 2006, quando proprio un referendum popolare bocciò la sua proposta di riforma costituzionale. Quel voto, infatti, viene svalutato imputandolo non ai cittadini, ma alla "sinistra", ai "comunisti". Questo perché si vuole cancellarne l´indubbio significato politico nel momento in cui si cerca di imboccare una strada preoccupante come quella allora bloccata. Dopo il referendum, infatti, si sottolineò che, evitato lo stravolgimento, la Costituzione aveva bisogno di una "buona manutenzione": esattamente l´opposto di quel che oggi propone Berlusconi, chiedendo in primo luogo d´essere libero da ogni controllo nell´emanazione dei decreti legge e di spostare sul presidente del Consiglio il potere di sciogliere le Camere. In questo modo, però, non si va verso una forma di governo parlamentare razionalizzata, ma verso un primato assoluto dell´esecutivo, anzi di chi lo presiede, che contrasta con il sistema costituzionale vigente. Dopo aver trasferito la sede del governo a casa propria, ora Berlusconi vuole portare a compimento il suo progetto di privatizzazione delle funzioni di governo trasferendo nello Stato il modello già realizzato per il suo nuovo partito, descritto senza reticenze nell´articolo 15 dello statuto sui poteri del presidente del Pdl: "Ha la rappresentanza politica del partito, e lo rappresenta in tutte le sedi politiche e istituzionali, ne dirige l´ordinato funzionamento e la definizione delle linee politiche e programmatiche, convoca e presiede l´ufficio di presidenza, la direzione e il consiglio nazionale e ne stabilisce l´ordine del giorno. Procede alle nomine degli organi di partito e, d´intesa con l´ufficio di presidenza, decide secondo le modalità previste dallo statuto". Non si poteva trovare una più sincera dichiarazione di autocrazia.
Conosco già alcune risposte. Non si vuole alterare la Costituzione, ma soltanto rendere più efficiente l´azione di governo e più fluidi i regolamenti parlamentari. Non lasciamoci ingannare da queste giravolte. Si dice che, reso più rapido l´iter parlamentare delle proposte del governo, verrà ridotto il ricorso ai decreti legge. Che non è una buona risposta, perché si accetta comunque la pretesa del governo di non sottoporre a controlli adeguati le sue iniziative. E perché ai guasti del presidenzialismo strisciante non si risponde con una sua rassegnata accettazione, ma ripensando gli equilibri istituzionali, partendo da una seria rivalutazione della funzione parlamentare che non può essere affidata alle logore acrobazie di uno "statuto" concesso alle opposizioni (si rifletta sugli effetti della recente riforma costituzionale francese, che ha determinato l´assoluta opacità della legislazione chiusa nelle commissioni parlamentari e il sistematico azzeramento degli spazi di iniziativa legislativa "garantiti" all´opposizione). È tempo di contrappesi forti.
Si torna così al tema della comunicazione. L´ipotesi del sondaggio permanente dei cittadini dà l´illusione della sovranità e la sostanza della democrazia plebiscitaria. È una ipotesi insieme pericolosa e vecchia, se appena si rivolge lo sguardo ai diversi tentativi di far sì che i cittadini, consultati anche elettronicamente, non siano ridotti a "carne da sondaggio", ma possano essere soggetti attivi e consapevoli. Il ben diverso uso delle tecnologie e delle reti sociali da parte di Obama, e non da lui soltanto, dovrebbe indurre a riflessioni meno rozze. Ma delle impervie vie della democrazia elettronica, fuori dal populismo, converrà parlare più distesamente.

Repubblica 24.4.09
Berlino. Se la capitale laica si divide sull’ora di religione
di Andrea Tarquini

I gruppi "Pro Reli" e quelli "Pro Ethik" domenica si sfidano sull´ingresso delle confessioni a scuola Uno scontro culturale e politico che via referendum rischia di ricreare il muro tra Ovest e Est

Da una parte, con la Cdu-Csu, gruppi cattolici, protestanti, ebrei e musulmani
Dall´altra i sostenitori della lezione di etica: "Una materia che unisce tutti"

Una guerra sulla religione a scuola, un Kulturkampf, spacca Berlino e la Germania, e domenica gli elettori della capitale diranno chi vincerà. Sembra un paradosso, ma proprio la capitale, che è la più laica e atea tra le grandi città tedesche, è chiamata a decidere quali devono essere il posto e di fatto il rapporto di forze tra etica non confessionale e religioni nell´insegnamento e nella società. Lo scontro mobilita partiti, associazioni civiche, media e vip. E soprattutto polarizza più che mai, divide destra e sinistra democratiche, a volte con toni da guerra fredda. Il suo esito sarà rilevante anche in vista delle elezioni politiche di dicembre.
Due milioni e quattrocentomila persone, tanti sono i berlinesi aventi diritto di voto, sono chiamati a esprimersi al referendum che "Pro Reli", cioè "Per la religione", un´associazione di base di cattolici, protestanti, ebrei, musulmani moderati, sostenuta dalla CduCsu della Cancelliera, ha ottenuto con una raccolta di firme. Sfida il sindaco-governatore socialdemocratico (Spd) Klaus Wowereit, il quale del 2006 ha fatto di Berlino un´eccezione nel paese sul tema difficile dell´ora di religione. Nella maggior parte dei 16 Stati (Bundeslaender) tedeschi, infatti, religione (cristiana, ebraica, musulmana o qualsiasi altra) o etica universale sono materie facoltative alternative, a pari dignità. Wowereit, che governa la città insieme ai postcomunisti della Linke, ha invece introdotto l´etica quale materia obbligatoria per tutti, mentre la religione è facoltativa. L´associazione di base "Pro Ethik" ("Per l´etica") fa campagna per lui. La vecchia opinione di Juergen Habermas, uno dei massimi pensatori laici tedeschi, secondo cui nella società, senza i valori religiosi, perdono punti di riferimento anche i non credenti, non sembra convincere l´ultralaico Wowereit.
"Votate sì alla pari dignità tra etica e religione, perché è una questione di libertà", dicono i vip schierati con "Pro Reli". Personaggi non sospetti di foga clericale, anzi noti per posizioni liberal e aperte, come Guenter Jauck, uno dei più noti conduttori tv tedeschi, o la moderatrice Tita von Hardenberg: «Lo Stato non può arrogarsi su questo tema una posizione di monopolio». Tutto sbagliato, ribattono i portavoce del no, come il giovane scrittore di sinistra Arne Seidel: «Io voglio la lezione di etica insieme, per tutti gli scolari e studenti, quale che sia la loro confessione e origine». Sono due posizioni entrambe rispettabili, ma lontanissime. L´etica obbligatoria per tutti, afferma l´ex sindaco Spd Walter Momper, è importante anche in nome dell´integrazione tra diverse comunità, qui a Berlino dove 40 bambini su 100 nascono figli di stranieri o di cittadini d´origine straniera. «Se ognuno studia la sua religione separato, danneggeremo l´integrazione che deve cominciare dalla scuola». Sul fronte opposto, pareri opposti. Da voci insospettabili di volontà discriminatorie: come Stephan Kramer, un leader della comunità ebraica. «Se voglio rispettare un´altra concezione del mondo devo prima sapere chi sono, quali sono le mie radici», afferma. Fin qui i toni civili del dibattito. Ma la propaganda dei due fronti poi si è fatta pesante. Un manifesto di "Pro Reli" mostrava una cesta con dentro indumenti solo di colore rosso, come a dire che chi chiede di votare no è automaticamente comunista. Neanche quelli di "Pro Ethik" vanno per il sottile: nei loro poster raffigurano la famosa stampa di Albrecht Duerer, le mani in preghiera, sullo sfondo di un tappeto di fiori bruni, il colore che in Germania indica i nazisti. Oppure affiancano un prete cristiano e un Taliban ritratti entrambi a far lezione.
Chi vincerà? Gli ultimi sondaggi danno al "sì" un lieve vantaggio, il 51%, nonostante si calcola che i berlinesi non credenti siano 6 su 10. Ma se domenica sera il numero di partecipanti al voto si rivelerà insufficiente, il risultato del referendum sarà nullo. Comunque finisca, il Kulturkampf sull´ora di religione sta ricreando un Muro nelle anime tra le due Berlino: all´Ovest i paladini della pari dignità tra religione ed etica a scuola sono in decisa maggioranza, mentre nell´Est "rosso" il "no" si prepara a stravincere.

Repubblica 24.4.09
L’intervento alla "Biennale Democrazia" di Torino
La falsa libertà degli ateniesi
di Luciano Canfora

Pubblichiamo parte dell´intervento intitolato "Le forme della democrazia" che terrà oggi alle 10,30 al Teatro Carignano di Torino nell´ambito della Biennale Democrazia

La più dura requisitoria contro il modello antico - greco in particolare - di libertà è certamente il sempre celebrato discorso di Benjamin Constant Sulla libertà degli antichi comparata con quella dei moderni, tenuto all´Athénée Royale di Parigi nel 1819. Qui Constant si scaglia contro quei politici dottrinari che «hanno cercato di imporre alla Francia un modello che essa non gradiva (qu´elle n´en voulait pas)». Il suo bersaglio sono, ovviamente, i governanti dell´anno II, ammiratori di Sparta e delle antiche repubbliche.
Constant riflette comparativamente sui due modelli di «libertà» dopo un venticinquennio tormentoso: dopo il turbine della Rivoluzione e del periodo napoleonico (1789 - 1815). Il punto d´avvio è appunto la distinzione, che puntigliosamente Constant vuole affermare, tra le due forme di libertà, quella praticata nel mondo classico e quella «moderna». Insiste soprattutto sulla necessità di respingere la confusione tra queste due, antitetiche, «libertà». Averle confuse, aver creduto di poter imporre ai moderni la libertà degli antichi, è stato - egli dice - motivo di sofferenze, di disastri inauditi, che alla nostra Francia hanno voluto imporre dei politici idolatri appunto della «liberté des Anciens».
Sarà invece merito di un altro irregolare, e cioè del maggiore analista del fenomeno democratico nella prima metà dell´Ottocento, Aléxis de Tocqueville, aver riportato al centro della discussione sugli antichi, grazie a una sua autonoma riflessione, lo stesso, ineludibile, sovvertimento di prospettiva suggerito da Volney. Lo fa in un contesto a prima vista imprevedibile: nel secondo volume della Démocratie en Amerique (1840) e in un capitolo in cui si pone il problema dei possibili «correttivi» capaci di mitigare le conseguenza negative della (moderna) democrazia sul piano intellettuale e formativo. E ravvisa un antidoto appunto nello studio del mondo classico proprio perché - osserva - quella degli antichi non era effettivamente una democrazia. Ecco come Tocqueville argomenta la sua diagnosi, la cui importanza è accresciuta dal fatto di essere scaturita dalla sua esperienza americana, cioè dalla visione di una moderna democrazia schiavista - gli Usa - nella quale di lì a poco - nel fuoco della guerra di secessione - gli ideologi sudisti addurranno, a difesa della schiavitù delle piantagioni, appunto il modello ateniese!
Quello che si chiamava popolo nelle repubbliche più democratiche dell´antichità non rassomigliava affatto a quello che noi chiamiamo popolo. In Atene tutti i cittadini prendevano parte agli affari pubblici, ma non vi erano che ventimila cittadini su più di trecentocinquantamila abitanti, tutti gli altri erano schiavi, e compivano la maggior parte delle funzioni che spettano oggi al popolo e anche alle classi medie.
Atene col suo suffragio universale, non era dunque dopo tutto che una repubblica aristocratica in cui tutti i nobili avevano ugual diritto al governo.
E´ solo con le Dichiarazioni dei diritti premesse alle varie Costituzioni di fine Settecento, sotto la spinta della Rivoluzione francese ben più che di quella americana inficiata dal perdurare lì della schiavitù, è solo con lo sforzo di bilanciare le libertà di alcuni con la libertà di tutti attraverso la nozione di giustizia che la libertà cessa di rappresentare un privilegio di casta.

il Riformista 24.4.09
Pamphlet. Legrenzi e Umiltà firmano un saggio che va controtendenza
Contro le manie della neuroscienza
«Non spiega tutto»
di Andrea Valdambrini

PROVOCAZIONE. Gli autori criticano la riduzione della mente al cervello, la psicologia alla biologia. Un atteggiamento falsamente moderno e fuorviante quando viene divulgato con travisamenti e salti logici. Ma non bisogna dimenticare gli eccessi di quando la spiegazione di tutto, anche della malattia mentale, era l'ambiente sociale.

Ricordate quando Leporello, all'inizio del Don Giovanni, mette in guardia sulla "passion predominante" del padrone? Se il personaggio mozartiano potesse mai essere l'assistente di un neuroscienziato anziché il servitore di un libertino, oggi rimarcherebbe forse un cambio di prospettiva. La passione che predomina sembra essere quella della la neuro-mania
Sempre più spesso, sui siti e sui giornali leggiamo notizie come: individuato il neurone dell'amore, piuttosto che il centro cerebrale dell'invidia. Oppure troviamo titoli sensazionali come: fotografata per la prima volta l'area del cervello in funzione quando ascoltiamo il discorso di un politico che ci sta antipatico. Non sempre la divulgazione fa bene alla scienza, e anzi spesso l'ansia di dare in pasto al grande pubblico scoperte altrimenti ostiche, finisce per travisare il vero significato della ricerca.
Rispetto a questo rischio vogliono mettere in guardia Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà, rispettivamente professori di psicologia cognitiva a Venezia e di neuropsicologia a Padova, che firmano insieme Neuro-mania. Il cervello non spiega chi siamo (Il Mulino 2009, pp. 125, euro 9). Il loro è un saggio sintetico e tagliente, che dividerà nettamente le opinioni di chi lo legge tra favorevoli e contrari ma che farà sicuramente parlare di sé. Il pamphlet porta infatti un attacco frontale ad una delle convinzioni principali della scienza degli ultimi trenta anni, quella secondo cui la mente (ovvero il comportamento, il linguaggio, l'agire sociale e molto altro) si spiega soprattutto se non principalmente attraverso il cervello. Nell'alternativa tra "salvare" la mente dalla sua dipendenza verso il corpo come faceva Cartesio, cioè dividendo le due e rendendo autonoma l'anima, o al contrario pensare l'uomo come un essere esclusivamente materiale, come suggeriva Julien de La Mettrie nel suo settecentesco L'uomo come macchina, pare che siamo tutti ben disposti ad abbracciare la proposta del secondo. Cosa sono i pensieri in fondo? Aria sì, ma comunque prodotti delle cellule, dei neuroni, delle sinapsi. O almeno così ci piace credere.
A partire dalla tacita condivisione della nostra natura come uomini-macchina si installa l'attuale riscossa del corpo (inteso come cervello) sulla mente (intesa come cultura). E tutto sembra prendere, nella scienza, una base più solida e convincente. Senonché quando vediamo sulle pagine di una rivista scientifica o su quelle di un quotidiano, le zone del cervello colorate a rimarcare l'attivarsi dei neuroni in presenza di un dato stimolo, non sappiamo di trovarci in realtà di fronte a un artificio grafico e probabilmente anche ad una forzatura. Le cellule grigie colorate indicano il maggior afflusso di sangue, a sua volta segno della loro attivazione. Che poi l'attivazione porti al sorgere di un pensiero, questa è materia controversa. Non solo perché si può riscontrare come più aree, non una sola, possono attivarsi nel cervello quando proviamo disgusto o pensiamo che è ora di pranzo. Ma soprattutto - e qui entriamo nel campo dell'errore logico - perché la relazione tra due cose non significa che una è la causa dell'altra. C' è sicuramente un nesso tra l'amigdala e il senso di disgusto, ma questo non significa, secondo gli autori, che proprio lì ha sede la causa di quell'emozione.
La neuro-mania è dunque la tendenza a ridurre tutti i nostri pensieri al cervello, e a spiegare con le cellule grigie una serie di fenomeni socio-culturali. Questo trend scientifico ha fatto sorgere, negli ultimi anni, una serie imprecisata di nuove branche del sapere, tutte accompagnate da un unico prefisso: neuro-economia, neuro-marketing, neuro-estetica, neuro-etica e perfino neuro-teologia e neuro-politica. Tutte a ben vedere riproposizioni della scienza dell'era del positivismo, che da Broca, lo scienziato francese che dà il nome all'area preposta alla produzione linguistica, al bresciano Golgi, nobel per gli studi sulla struttura del cervello, abbracciavano l'idea che i neuroni possono spiegare quello che pensiamo e che facciamo. Ai nostri giorni si chiama neuroimaging, la tecnica tanto in voga di fotografare il nostro cranio e sezionarne le funzioni (questi sono i neuroni dell'amore, appunto). Ma in fondo cosa altro faceva il fisiologo Angelo Mosso, quando misurava l'afflusso sanguigno che aumentava nel momento in cui un povero contadino ascoltava suonare le campane della chiesa a mezzogiorno? Cosa cercava allora il medico nella testa del suo paziente se non quello che il neuroscienziato cerca oggi con tecniche giusto un po' più sofisticate? Un'area di neuroni provoca un determinato pensiero. Tanto facile, dicono Legrenzi e Umiltà, da essere sbagliato.
Se insomma «il futuro ha un cuore antico», frase che gli autori prendono in prestito da Carlo Levi, la modernità scolora in qualcosa che sembra molto meno moderno. Se poi la correlazione cervello-pensiero non è così prodigiosamente lineare come sembra, questa moderna antichità sembra anche molto meno scientifica di quanto pretende di essere. Il prefisso neuro affascina, piace e fa vendere libri e consulenze. Le immagini del cervello attraggono l'attenzione e la curiosità di tutti come i vecchi mirabilia o le wunderkammer dentro cui si vedeva quanto mai mostrato prima. Ma sempre di un bluff si tratta.
È probabile che sia tempo ormai di riflettere sugli eccessi della neuro-mania. C'è una domanda, tuttavia, che non trova risposta nelle pagine di Legrenzi e Umiltà, ed è la seguente. Abbiamo forse dimenticato che per molti anni l'opinione pubblica adesso avida di spiegazioni neuroscientifiche ha avallato l'idea che tutto, dal rubare in una casa fino alla malattia mentale, dipendeva dall'ambiente sociale in cui le persone si trovavano? La passione predominante, all'epoca, era una psicologia che con la materia, il corpo, il cervello non voleva avere niente a che fare. Forse ora abbiamo toccato l'estremo opposto. Ma diversamente dagli autori di Neuro-mania, noi continuiamo a pensare che La Mettrie, preso con le dovute cautele, sia meno dannoso di Cartesio. Al libertino Don Giovanni, tra l'altro, sarebbe stato certamente più simpatico.

giovedì 23 aprile 2009

l’Unità 23.4.09
5 risposte da Massimo Rendina
Presidente dell’Anpi di Roma
intervista di Mariagrazia Gerina


1. Il 25 aprile
Questo non è un 25 aprile come gli altri. C’è un governo che vuole cambiare la Costituzione, una democrazia che si sta già deteriorando al suo interno e un rischio di autoritarismo.
2.La parola libertà
Dico ai giovani, impadronitevi del vocabolario, stanno falsificando anche quello. Vedi la parola «libertà»: la ritrovi persino in bocca alla mafia. Ma poi hai un premier che nomina i suoi parlamentari e sussulti di libertà solo con il voto segreto.
3. Il fascismo culturale
Ci sono state aggressioni, episodi gravi. Ma il peggio è la mentalità fascista che serpeggia in talune zone politiche: celebrare il 25 Aprile è una presa di posizione culturale.
4. Certi valori
Vogliamo che le istituzioni vi partecipino, anche quelle che non sono con noi: noi le rispettiamo, abbiamo dato la democrazia a questo paese. Ma certi valori devono essere di tutti. Quella di La Russa è una visione folclorica.
5. I saluti romani
Abbiamo invitato il sindaco Alemanno a Porta San Paolo. Per ora non ha risposto. Quando lo hanno eletto, non sarà colpa sua, ma i fascisti si sono radunati in Campidoglio per i saluti romani. Vedremo cosa dirà. Sarebbe bello che firmasse contro la legge che equipara partigiani e repubblichini.

l’Unità 23.4.09
Napolitano: la Costituzione non è un residuato bellico
di Marcella Ciarnelli


Indicazioni precise: forzature in nome della governabilità portano a soluzioni autoritarie
E poi la sottolineatura sul 25 Aprile: non è la Festa di una parte sola

Nove convinti applausi hanno sottolineato i punti salienti della lezione che il presidente della Repubblica ha tenuto a Torino, inaugurando la prima edizione di “Biennale Democrazia” voluta dal professor Gustavo Zagrebelsky che, introducendo l’oratore, ha parlato di un tempo, come quello che stiamo vivendo “in cui la politica e la cultura sono divise” mentre il binomio è vitale”. Il primo applauso è scattato quando il Capo dello Stato ha affermato che “il 25 aprile non è festa di una parte sola” tant’è che proprio nella Costituzione “furono tradotti principi e diritti condivisibili anche da quanti fossero rimasti estranei all’antifascismo e alla Resistenza”.
I giovani e il presidente
Alla platea gremita del Teatro Regio, politici, esponenti delle istituzioni e della cultura, ma anche tanti giovani, Napolitano ha espresso il suo pensiero sul dibattito, a volte strumentale che vorrebbe portare ad una revisione forzata della Costituzione che, il presidente l’ha ribadito con forza, “non è un residuato bellico come da qualche parte si vorrebbe talvolta fare intendere” vista anche “la leggerezza con cui si assumono oggi atteggiamenti dissacranti verso di essa”. Invece i limiti che impone “non possono essere ignorati nemmeno in forza dell'investitura popolare, diretta o indiretta, di chi governa". Così come “rispettare la Costituzione significa anche riconoscere l’autorità delle istituzioni di garanzia che non dovrebbero mai essere oggetto di attacchi politici e giudizi sprezzanti”. Il destinatario appare, tra tutti, essere Silvio Berlusconi che spesso si è lamentato di avere scarsi o nulli poteri.
Può essere cambiata la Carta nella sua seconda parte, adeguata, e lo si è d’altronde già fatto. Questo Napolitano lo ha ripetuto. Ed ha indicato anche la via da percorrere che non è certo quella dei colpi di mano. Alle forze presenti in Parlamento, perché “è al Parlamento che spetta pronunciarsi” è così giunto l’invito “e questa è mia responsabilità, ad uno sforzo di realismo e di saggezza su essenziali proposte di riforma sulle quali sia possibile giungere alla più ampia condivisione. Non c’è da ripartire da zero, non c’è da arrendersi a resistenze conservatrici né, all’opposto, a tendere a conflittualità rischiose e improduttive”. Bisogna avviare “una nuova stagione costituente”.
Si superi il bicameralismo perfetto
Che superi “l’anacronistico bicameralismo perfetto” e il discorso sul federalismo è già avviato, che tenga in considerazione la richiesta di maggiori poteri a chi governa ma sulla base di motivazioni “trasparenti e convincenti” senza cadere “in enfasi polemiche infondate”, tanto più che “con il crescente ricorso alla decretazione d’urgenza e all’istituto del voto di fiducia e al rafforzarsi del vincolo tra governo e maggioranza parlamentare” le cose sono già cambiate tanto che Giuliano Amato ha potuto definire “obsoleta la tradizionale constatazione della debolezza del governo nel rapporto con il Parlamento”. Si può pensare a novità in questo campo ma senza dimenticare il monito di Norberto Bobbio che “la denuncia della ingovernabilità tende a suggerire soluzioni autoritarie. Non lo dimentichiamo mai”. In nome del dovere di governare non “si può ricorrere a semplificazioni di sistema e a restrizioni di diritti”.
Sull’altare della governabilità Napolitano, d’accordo ancora una volta con Bobbio, non è disposto a sacrificare la divisione dei poteri, la garanzia dei diritti di libertà, la pluralità dei partiti, la tutela delle minoranze politiche, la rappresentatività del Parlamento, l’indipendenza della magistratura, il principio di legalità e il riconoscimento del Capo dello Stato come “potere neutro”. E sulla legge elettorale Napolitano parla del rischio di non rappresentatività l’andare al voto “in assenza di valide procedure di formazione delle candidature e di meccanismi atti ad ancorare gli eletti al rapporto con gli elettori e il territorio”. L’invito è al confronto. A superare le contrapposizioni con uno scatto come quello che il nostro Paese ha saputo avere nella vicenda tragica del terremoto.
«Riscrivere la norma sui manager»
Il presidente della Repubblica questa mattina incontrerà una delegazione dei familiari delle vittime della Thyssen con altri operai delle fabbriche torinesi. Ma ieri il Capo dello Stato, mentre visitava quella meraviglia che è la restaurata reggia di Venaria, ha fatto capire senza mezzi termini come la pensa a proposito della norma salva manager anche se il ministro Sacconi ne ha smentito la finalità..''Siamo in attesa di vederne la riscrittura. Conosco la questione e l'ho seguita. Anche prima c'era la preoccupazione per quella norma, l'avevamo espressa subito. In ogni caso, prendo atto che il ministro Sacconi si è dichiarato pronto a riscriverla per evitare interpretazioni che non sono state volute e che sarebbero pesanti anche agli effetti del processo Thyssen''.
Il presidente della Repubblica ieri ha sottolineato fortemente il valore della Costituzione. Ha chiesto rispetto. E ognuno dei suoi concetti sembrava rivolto al presidente del Consiglio. A partire dal 25 Aprile.

Repubblica 23.4.09
L’intervento
La Carta non è un residuato bellico
di Giorgio Napolitano


Avevo appena compiuto diciott´anni quando il 25 luglio del 1943 fui, come tutti gli italiani, raggiunto via radio a tarda sera dalla fulminante, imprevedibile notizia della caduta di Mussolini... Al fondo vi era naturalmente una crisi profonda via via maturata nel rapporto tra il Paese e il fascismo, a cominciare dal suo capo, per effetto dell´andamento disastroso della guerra da lui irresponsabilmente voluta, e del peso sempre più insopportabile delle sofferenze inflitte alla popolazione...
Fu dunque da una realtà disperante che si dové partire per rifondare la democrazia in Italia... L´acquisizione degli ideali e dei principi democratici non fu né immediata né incontrastata... Ma non c´è dubbio che si mise in moto un processo irresistibile, dall´alto e dal basso, di riedificazione democratica. Coronamento di tale processo fu l´elaborazione – in un clima di straordinario fervore intellettuale e politico, attraverso il confronto e l´avvicinamento tra le diverse forze politiche e correnti culturali accomunate dall´antifascismo – della Costituzione repubblicana...
La Costituzione repubblicana non è una specie di residuato bellico, come da qualche parte si vorrebbe talvolta far intendere... Essa seppe dare fondamenta solide e prospettive di lunga durata al nuovo edificio dell´Italia democratica. Quelle fondamenta poggiavano sui valori maturati nell´opposizione al fascismo, nella Resistenza, in nuove elaborazioni di pensiero e programmatiche... I valori dell´antifascismo e della Resistenza non restarono mai chiusi in una semplice logica di rifiuto e di contrasto, sprigionarono sempre impulsi positivi e propositivi, e poterono perciò tradursi, con la Costituzione, in principi e in diritti condivisibili anche da quanti fossero rimasti estranei all´antifascismo e alla Resistenza. Perciò il 25 aprile non è festa di una parte sola...
La Costituzione non è una semplice carta dei valori... Non solo non fu mai intesa come manifesto ideologico o politico di parte... E´ legge fondamentale, è legge suprema, la Costituzione, anche e innanzitutto nel segnare i limiti entro cui può svolgersi ogni potere costituito... Si rifletta, a questo proposito, sul primo articolo della nostra Carta Costituzionale, là dove recita: "La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione". Una volta cioè che il potere costituente espresso dal popolo sovrano con l´elezione di una assemblea investita di quel mandato si sia compiuto, ogni ulteriore espressione della sovranità popolare, ogni potere delle istituzioni rappresentative, il potere legislativo ordinario come il potere esecutivo, riconosce la supremazia della Costituzione, rispetta i limiti che essa gli pone... Limiti che non possono essere ignorati nemmeno in forza dell´investitura popolare, diretta o indiretta, di chi governa.
Rispettare la Costituzione è dunque espressione altamente impegnativa... Rispettarla significa anche riconoscere il ruolo fondamentale del controllo di costituzionalità e dunque l´autorità delle istituzioni di garanzia. Queste non dovrebbero mai formare oggetto di attacchi politici e giudizi sprezzanti, al di là dell´espressione di responsabili riserve su loro specifiche decisioni. Tutte le istituzioni di controllo e di garanzia non possono essere viste come elementi frenanti del processo decisionale, ma come presidio legittimo di quella dialettica istituzionale che in definitiva assicura trasparenza, correttezza, tutela dei diritti dei cittadini.
Questo richiamo ad essenziali caratteristiche della democrazia costituzionale non ha nulla a che vedere con una visione statica della nostra Carta, con una sua celebrazione fine a se stessa o con l´affermazione della sua intoccabilità... Spetta ancora una volta al Parlamento pronunciarsi sulla possibilità di procedere in questa direzione, sugli obbiettivi da perseguire, sul grado di consenso a cui tendere. Pur non potendo esprimere indicazioni di merito, ritengo che sia mia responsabilità esortare le forze presenti in Parlamento a uno sforzo di realismo e di saggezza per avviare il confronto su essenziali proposte di riforma della seconda parte della Costituzione, sulle quali sia possibile giungere alla più ampia condivisione. Lo spirito dovrebbe essere quello, come si è di recente autorevolmente detto, di una rinnovata "stagione costituente"...
Da decenni ormai si è aperto il dibattito generale sulla governabilità delle società democratiche... Nell´affrontare a suo tempo questo tema cruciale, Norberto Bobbio osservò che mentre all´inizio della contesa sul rapporto tra liberalismo e democrazia "il bersaglio principale era stato la tirannia della maggioranza", esso stava finendo per assumere un segno opposto, "non l´eccesso ma il difetto di potere". E Bobbio aggiunse, pur senza eludere il problema: "la denuncia della ingovernabilità tende a suggerire soluzioni autoritarie". Un monito, quest´ultimo, che non si dovrebbe dimenticare mai. E dal quale va ricavata l´esigenza di tenere sempre ben ferma la validità e irrinunciabilità delle "principali istituzioni del liberalismo" – concepite in antitesi a ogni dispotismo – tra le quali –, nella classica definizione dello stesso Bobbio, "la garanzia di diritti di libertà (in primis libertà di pensiero e di stampa), la divisione dei poteri, la pluralità dei partiti, la tutela delle minoranze politiche". E sempre Bobbio metteva egualmente l´accento sulla rappresentatività del Parlamento, sull´indipendenza della magistratura, sul principio di legalità.
Tutto ciò non costituisce un bagaglio obsoleto, sacrificabile – esplicitamente o di fatto – sull´altare della governabilità, in funzione di "decisioni rapide, perentorie e definitive" da parte dei poteri pubblici. Ho evocato – ed è di certo tra gli istituti non sacrificabili – la distinzione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario); e mi sarà permesso di richiamare anche il riconoscimento del Capo dello Stato come "potere neutro"...
Ho egualmente menzionato come essenziale la rappresentatività del Parlamento: a proposito della quale penso si possa dire che essa non viene fatalmente incrinata da regole vigenti in diversi paesi democratici, finalizzate ad evitare un´eccessiva frammentazione politica, ma rischia di risultare seriamente indebolita in assenza di valide procedure di formazione delle candidature e di meccanismi atti ad ancorare gli eletti al rapporto col territorio e con gli elettori.
In definitiva, non si può ricorrere a semplificazioni di sistema e a restrizioni di diritti in nome del dovere di governare... Non c´è, sul piano democratico, alternativa al confrontarsi, al combinare ascolto, mediazione e decisioni, al giungere alla sintesi con la necessaria tempestività ma senza sacrificare i diritti e l´apporto della rappresentanza...
Sappiamo quali orizzonti nuovi la Costituzione abbia aperto per il nostro paese: orizzonti di libertà e di eguaglianza, di modernizzazione e di solidarietà. La condizione per coltivare queste potenzialità, in termini rispondenti ai bisogni e alle istanze che maturano nel corpo sociale, nella comunità nazionale – la condizione per rafforzare così le basi della democrazia e il consenso da cui essa può trarre sicurezza e slancio – è in un impegno che attraversi la società, che si faccia sentire e pesi in quanto espressione della consapevolezza e della volontà di molti, uomini e donne di ogni generazione e di ogni ceto.
(Il testo è tratto dal discorso del Presidente della Repubblica alla "Biennale democrazia" di Torino)

Corriere della Sera 23.4.09
La strategia
Una mossa preventiva
di Massimo Franco


La scelta del Quirinale. Il timore di un’offensiva
La mossa preventiva che rompe la tregua

La tesi dello scarto improvviso regge solo a una lettura superficiale. Nel discorso fatto ieri da Giorgio Napolitano alla «Biennale della democrazia» a Torino, si avverte l’eco di un disagio istituzionale covato a lungo; di tensioni ora represse, ora emerse fra Quirinale e Palazzo Chigi: con lo scontro del febbraio scorso sulla sorte di Eluana Englaro, in coma da anni, come apice polemico subito diplomatizzato.
L’ultimo indizio di una cicatrice mai rimarginata del tutto è stata la lettera in­viata dal presidente della Repubblica a Silvio Berlusconi nei giorni del terremo­to. Lo avvertiva che non poteva accetta­re provvedimenti d’urgenza destinati a svuotare i poteri del capo dello Stato.
Su questo sfondo l’altolà, inusuale nei toni, che Napolitano invia al pre­mier suona come una mossa preventiva e insieme difensiva. L’impressione è che il Quirinale abbia messo in fila quanto è accaduto negli ultimi mesi; e che sia giunto alla conclusione che sen­za una reazione immediata, d’anticipo, assisterebbe ad un logoramento pro­gressivo dei princìpi di cui si ritiene cu­stode. Può essere considerato un gesto di forza oppure di debolezza. Rompe co­munque la tregua realizzatasi col sisma in Abruzzo; e costituisce un gesto pub­blico potenzialmente dirompente fra presidente della Repubblica e del Consi­glio.
Sostenere, come Napolitano ha fatto ieri a Torino, che «la denuncia dell’ingo­vernabilità tende a suggerire soluzioni autoritarie», non può non essere letto come un richiamo duro a Berlusconi. E certo è destinato almeno ad una parte della maggioranza l’irritazione per certi «atteggiamenti dissacranti» nei con­fronti della Costituzione. Confutare la tesi secondo la quale la Carta fondamen­tale sarebbe «una specie di residuato bellico» è, di nuovo, una reazione ad al­cune frasi recenti del premier. Idem la contestazione delle «polemiche infon­date » con le quali palazzo Chigi chiede più potere nei rapporti col Parlamento. Ma c’è da chiedersi come mai un uo­mo prudente come Napolitano abbia de­ciso una mossa che può esporlo alla rea­zione della maggioranza; e perfino se­gnalare un conflitto istituzionale. Oltre tutto, il discorso di Torino cade in un momento in cui la popolarità di Berlu­sconi risulta alle stelle, dopo il terremo­to. E, almeno in apparenza, non ci sono stati gravi motivi di contrasto: al punto che le parole presidenziali rischiano di apparire sorprendenti. La spiegazione più verosimile è che il capo dello Stato abbia rotto gli indugi non solo per quan­to è successo, ma in vista di quello che teme possa verificarsi.
L’ombra lunga del caso Englaro, risol­to con una tregua improvvisa, appare tuttora incombente. Ha lasciato una pa­tina di diffidenza fra Napolitano e palaz­zo Chigi; ed il timore di un’offensiva contro il Quirinale che potrebbe prende­re corpo in qualunque momento. Quasi ad esorcizzare questi fantasmi, il capo dello Stato propone la «sua» Italia, con­trapposta al modello del Pdl: un siste­ma ritenuto pericolosamente incline a privilegiare il governo. Rimane da capi­re se l’esternazione bloccherà quella che il capo dello Stato vede come una deriva allarmante; o se per paradosso l’accelererà. Ma esiste una terza ipotesi: che il discorso venga applaudito dall’op­posizione ed ignorato da una maggio­ranza convinta, o illusa, che l’altolà al governo sia solo un segno di nervosi­smo. Un comportamento destinato a compromettere il profilo sopra le parti conquistato da Napolitano, magari a be­neficio di Berlusconi. È un calcolo al li­mite dell’azzardo. Conferma tuttavia la pericolosità dello scontro in incubazio­ne ai vertici dello Stato.

Repubblica 23.4.09
Le parole della democrazia
di Gustavo Zagrebelsky


Nei luoghi del potere il tradimento si consuma più che altrove. A cominciare dall´espressione "politica"
Il dispotismo usa la paura per camuffare i significati E così l´ignoranza diventa forza, la libertà schiavitù
"È solo la lingua che fa eguali", diceva don Milani "Che sia ricco o povero non importa"
Sono dittature ideologiche i regimi che disprezzano i fatti o li travisano

Ogni forma di governo usa gli "argomenti" adeguati ai propri fini. Il dispotismo, ad esempio, usa la paura e il bastone per far valere il comando dell´autocrate. La democrazia è il regime della circolazione delle opinioni e delle convinzioni, nel rispetto reciproco. Lo strumento di questa circolazione sono le parole. Si comprende come, in nessun altro sistema di reggimento delle società, le parole siano tanto importanti quanto lo sono in democrazia. Si comprende quindi che la parola, per ogni spirito democratico, richieda una cura particolare: cura particolare in un duplice senso, quantitativo e qualitativo.
Anticipiamo parte della lezione che Gustavo Zagrebelsky legge questa mattina a Torino, nell´ambito di «Biennale Democrazia»
Il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia e dell´uguaglianza delle possibilità. Poche parole e poche idee, poche possibilità e poca democrazia; più sono le parole che si conoscono, più ricca è la discussione politica e, con essa, la vita democratica. Quando il nostro linguaggio si fosse rattrappito al punto di poter pronunciare solo sì e no, saremo pronti per i plebisciti; e quando conoscessimo solo più i sì, saremmo nella condizione del gregge che può solo obbedire al padrone. Il numero delle parole conosciute, inoltre, assegna i posti entro le procedure della democrazia. Ricordiamo ancora la scuola di Barbiana e la sua cura della parola, l´esigenza di impadronirsi della lingua? Comanda chi conosce più parole. «È solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l´espressione altrui. Che sia ricco o povero importa di meno». Ecco anche perché una scuola ugualitaria è condizione necessaria, necessarissima, della democrazia.
Con il numero, la qualità delle parole. Le parole non devono essere ingannatrici, affinché il confronto delle posizioni sia onesto. Parole precise, specifiche, dirette; basso tenore emotivo, poche metafore; lasciar parlar le cose attraverso le parole, non far crescere parole con e su altre parole. Uno dei pericoli maggiori delle parole per la democrazia è il linguaggio ipnotico che seduce le folle, ne scatena la violenza e le muove verso obbiettivi che apparirebbero facilmente irrazionali, se solo i demagoghi non li avvolgessero in parole grondanti di retorica.
Le parole, poi, devono rispettare il concetto, non lo devono corrompere. Altrimenti, il dialogo diventa un inganno, un modo di trascinare gli altri dalla tua parte con mezzi fraudolenti. Impariamo da Socrate: «Sappi che il parlare impreciso non è soltanto sconveniente in se stesso, ma nuoce anche allo spirito»; «il concetto vuole appropriarsi del suo nome per tutti i tempi», il che significa innanzitutto saper riconoscere e poi saper combattere ogni fenomeno di neolingua, nel senso spiegato da George Orwell, la lingua che, attraverso propaganda e bombardamento dei cervelli, fa sì che la guerra diventi pace, la libertà schiavitù, l´ignoranza forza. Il tradimento della parola deve essere stata una pratica di sempre, se già il profeta Isaia, nelle sue "maledizioni" (Is 5, 20), ammoniva: «Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l´amaro in dolce e il dolce in amaro».
I luoghi del potere sono per l´appunto quelli in cui questo tradimento si consuma più che altrove, a incominciare proprio dalla parola "politica". Politica viene da polis e politéia, due concetti che indicano il vivere insieme, il convivio. È l´arte, la scienza o l´attività dedicate alla convivenza. Ma oggi parliamo normalmente di politica della guerra, di segregazione razziale, di politica espansionista degli stati, di politica coloniale, ecc. «Questa è un´epoca politica», ancora parole di Orwell. «La guerra, il fascismo, i campi di concentramento, i manganelli, le bombe atomiche sono quello a cui pensare». La celebre definizione di Carl Schmitt, ripetuta alla nausea, della politica come rapporto amico-nemico, un rapporto di sopraffazione, di inconciliabilità assoluta tra parti avverse è forse l´esempio più rappresentativo di questo abuso delle parole. Qui avremmo, se mai, la definizione essenziale non del "politico" ma, propriamente, del "bellico", cioè del suo contrario. Ancora: la libertà, nei tempi nostri avente il significato di protezione dei diritti degli inermi contro gli arbitri dei potenti, è diventata lo scudo sacro dietro il quale proprio costoro nascondono la loro pre-potenza e i loro privilegi. La giustizia, da invocazione di chi si ribella alle ingiustizie del mondo, si è trasformata in parola d´ordine di cui qualunque uomo di potere si appropria per giustificare qualunque propria azione. Quanto alla parola democrazia, anch´essa è sottoposta a "rovesciamenti" di senso, quando se ne parla non come governo del popolo, ma per o attraverso il popolo: due significati dell´autocrazia.
Da questi esempi si mostra la regola generale cui questa perversione delle parole della politica: il passaggio da un campo all´altro, il passaggio è dal mondo di coloro che al potere sono sottoposti a quello di coloro che del potere dispongono e viceversa. Un uso ambiguo, dunque, di fronte al quale a chi pronuncia queste parole dovrebbe sempre porsi la domanda: da che parte stai ? Degli inermi o dei potenti?
* * *
Affinché sia preservata l´integrità del ragionare e la possibilità d´intendersi onestamente, le parole devono inoltre, oltre che rispettare il concetto, rispettare la verità dei fatti. Sono dittature ideologiche i regimi che disprezzano i fatti, li travisano o addirittura li creano o li ricreano ad hoc. Sono l´estrema violenza nei confronti degli esclusi dal potere che, almeno, potrebbero invocare i fatti, se anche questi non venissero loro sottratti. Non c´è manifestazione d´arbitrio maggiore che la storia scritta e riscritta dal potere. La storia la scrivono i vincitori – è vero - ma la democrazia vorrebbe che non ci siano vincitori e vinti e che quindi, la storia sia scritta fuori delle stanze del potere. Sono regimi corruttori delle coscienze fino al midollo, quelli che trattano i fatti come opinioni e instaurano un relativismo nichilistico applicato non alle opinioni ma ai fatti, quelli in cui la verità è messa sullo stesso piano della menzogna, il giusto su quello dell´ingiusto, il bene su quello del male; quelli in cui la realtà non è più l´insieme di fatti duri e inevitabili, ma una massa di eventi e parole in costante mutamento, nella quale ciò che oggi vero, domani è già falso, secondo l´interesse al momento prevalente. Onde è che la menzogna intenzionale, cioè la frode – strumento che vediamo ordinariamente presente nella vita pubblica – dovrebbe trattarsi come crimine maggiore contro la democrazia, maggiore anche dell´altro mezzo del dispotismo, la violenza, che almeno è manifesta. I mentitori dovrebbero considerarsi non già come abili, e quindi perfino ammirevoli e forse anche simpaticamente spregiudicati uomini politici ma come corruttori della politica.
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La cura delle parole in tutti i suoi aspetti è ciò che Socrate definisce filologia. Vi sono persone, i misologi, che «passano il tempo nel disputare il pro e il contro, e finiscono per credersi divenuti i più sapienti di tutti per aver compreso essi soli che, sia nelle cose sia nei ragionamenti, non c´è nulla di sano o di saldo, ma tutto […] va su e giù, senza rimanere fermo in nessun punto neppure un istante». Questo sospetto che nel ragionare non vi sia nulla di integro c´è un grande pericolo, che ci espone a ogni genere d´inganno. Le nostre parole e le cose non devono "andare su e giù". Occorre un terreno comune oggettivo su cui le nostre idee, per quanto diverse siano, possano poggiare per potersi confrontare. Ogni affermazione di dati di fatto deve essere verificabile e ogni parola deve essere intesa nello stesso significato da chi la pronuncia e da chi l´ascolta. Chi mente sui fatti dovrebbe essere escluso dalla discussione. Solo così può non prendersi in odio il ragionare e può esercitarsi la virtù di chi ama la discussione.

Repubblica 23.4.09
Il fondatore di "Repubblica" all’Università di Roma
Scalfari: così si salva l’informazione
di Simonetta Fiori


Il declino etico di un’Italia schiacciata sul presente

Giornalismo, fisiologia di un mestiere difficile, si intitolava un saggio scritto da Alberto Asor Rosa diversi anni fa. Giornalismo, fisiologia di un mestiere a rischio, potrebbe intitolarsi la lezione tenuta ieri mattina da Eugenio Scalfari davanti a un´affollata platea di studenti iscritti al master su editoria e management culturale, presso la facoltà di Scienze Umanistiche della Sapienza. Dall´elaborazione intellettuale del partito dei philosophes – primi rappresentanti nobili del giornalismo moderno – alle pulsioni emotive dell´attuale informazione televisiva, il fondatore di Repubblica delinea una storia dell´opinione pubblica che, dopo oltre due secoli, rischia di essere polverizzata da messaggi fuorvianti. Nel diluvio impazzito di notizie, «in un paesaggio antropologico negli ultimi decenni profondamente modificato, ai giornali spetta fungere da "arche di Noè", depositi di valori che navigano contro le mitografie create dalle televisioni commerciali». Solo così si può fronteggiare una crisi che non investe soltanto l´informazione, ma chiama in causa il declino etico e culturale di un paese segnato dal "presentismo", lo schiacciamento sul presente di marchio berlusconiano. Storia politica e storia intellettuale si mescolano nella lectio magistralis alla memoria autobiografica, particolarmente preziosa – ha detto Asor Rosa nell´introdurre il corso - per il singolare profilo assunto in oltre tre decenni da Scalfari, direttore ed editore di Espresso e Repubblica.
Chi fa oggi concorrenza a Gutenberg? La crisi dei giornali, spiega Scalfari, non è solo legata alla più generale crisi economica, con il calo del 28 per cento di pubblicità, ma è cominciata ancor prima, con il dominio di Tv e soprattutto Internet. «Attualmente i quotidiani nazionali vendono un terzo in meno rispetto a cinque/dieci anni fa. Perdiamo copie ma, se consideriamo i frequentatori del web che leggono il giornale sul sito, i lettori complessivamente aumentano». Un fenomeno destinato a crescere con la messa a punto di tecnologie che permetteranno di scaricare dal computer l´intero giornale («Allora sarà necessario fissare un piccolo prezzo di abbonamento»). Al quotidiano di carta spetta un ruolo da protagonista. «È questo che garantisce il presidio di qualità per l´informazione fatta online». Grandi inchieste, reportage, approfondimenti: tutto ciò che la tv e gli altri media non possono offrire è bene che si rafforzino nelle pagine cartacee.
Ma il problema più vasto con cui si misura il giornalismo contemporaneo è la "diserzione dalla lettura" mostrata dai più giovani (non solo), a vantaggio del mondo delle immagini e dei suoni. «Le conseguenze di questa diserzione riguardano i tempi: passato, futuro e presente. La mia generazione, nutrita di molte letture, ha un sentimento del tempo che comincia nel passato, in chiave di memoria propria». Soltanto scegliendo di salire "sulle spalle dei giganti", si può avere uno sguardo più lungo. «Se invece io decido di vivere esclusivamente nel presente – cifra attuale dello spirito pubblico – rischio di rimanerne schiacciato, proprio perché non ho memoria del passato. Questa è la condizione in cui versa la nostra classe dirigente, che vive di continue emergenze – alcune vere, altre conclamate per immediati ritorni politici – e dunque incapace di progettare il futuro delle generazioni successive». Alla carta stampata spetta la funzione di recuperare il sentimento del tempo, «una memoria del passato che sola permette di dare una visione prospettica del futuro». Solo così si può difendere il processo attraverso cui si forma l´opinione pubblica. Tornare a Diderot forse è difficile, conoscerne la lezione indispensabile.

Repubblica 23.4.09
La libertà di stampa nei sistemi populisti
Se la maggioranza è tiranna
di Nadia Urbinati


Le democrazie si reggono sul consenso. La formazione del giudizio politico dal quale si sviluppa il consenso è per questo una parte essenziale della legittimità democratica, la quale non è circoscritta alle regole attraverso le quali si prendono decisioni. C´è un´altra parte che compone la legittimità, che è informale, non direttamente traducibile in legge e che, per questa ragione, è stata chiamata soft power: l´opinione. La democrazia vive di una tensione sana e necessaria tra il potere costituito o istituzionale (regole e procedure) e il potere in formazione o extra-istituzionale che è la politica in senso lato o il giudizio pubblico. Non è irragionevole pensare alla democrazia come a un ordine politico che si regge su un disaccordo permanente tra legittimità istituzionale e fiducia dei cittadini. Il grado di disaccordo tra questi due livelli varia ma non si dà mai, né può darsi mai, una coincidenza tra la volontà di chi fa le leggi e prende le decisioni e chi giudica. Provare a risolvere il disaccordo o cercare di stabilire omogeneità è una tentazione pericolosa anche se mai completamente domata. Le tirannie, i fascismi, i populismi sono stati e sono il segno che questa tentazione è stata perseguita e ha avuto successo. Il potere non ama essere criticato e nemmeno controllato: identifica l´informazione come un´intrusione e addirittura una critica. Le democrazie costituzionali sono parte di questa storia, anche se sono dotate di norme che in teoria dovrebbero renderle più immuni a quegli esiti funesti.
Alcune costituzioni sono più attrezzate di altre. L´articolo 5 della Costituzione tedesca dichiara che «ognuno ha diritto di esprimere e diffondere liberamente le sue opinioni e di informarsi senza impedimento da fonti accessibili a tutti». La nostra Costituzione non è altrettanto esplicita, ma l´evoluzione della nostra giurisprudenza è andata nella direzione dell´affermazione della libertà di informazione, sia come libertà di esprimere opinioni che come diritto a essere informati (una libertà che leggi improvvide hanno vanificato permettendo la formazione di fatto di un sistema di monopolio privato dell´informazione).
Quella dell´opinione è una libertà complessa perché mette in campo non soltanto la libertà di raccogliere e divulgare informazioni, ma anche quella di criticare comportamenti, fatti e idee. La garanzia della libertà di espressione è naturalmente importante quando si tratta di idee che possono non piacere alla maggioranza. I diritti sono baluardi protettivi per chi non ha dalla sua il potere: che la maggioranza rivendichi il diritto di parola è semplicemente un assurdo, un rovesciamento delle parti.
L´informazione mette in atto due forme di libertà: quella civile o dell´individuo e quella politica o del cittadino. E sta insieme a controllo e a formazione dell´opinione: abbiamo bisogno di sapere per poterci formare un´opinione e decidere; e abbiamo bisogno di sapere per controllare chi decide. L´informazione è un bene pubblico dunque come la libertà e il diritto (e come libertà e diritto non è a discrezione della maggioranza). È soprattutto un bene che ci consente di avere altri beni: per esempio, un governo che faccia buone leggi o che non sia corrotto (l´informazione rivela l´errore e smaschera la disonestà). L´informazione fa parte perciò dell´onorata tradizione dei poteri negativi o di controllo, anche se la sua è un´influenza solo indiretta e informale. Senza questo controllo le democrazie non vivono. Le regole del gioco non sono tutta l´opera della democrazia. Giornali, televisioni, sistemi informativi elettronici: tutto questo fa parte del modo con il quale il gioco democratico è giuocato.
Scriveva Alexis de Tocqueville che senza contropoteri istituzionali e extraistituzionali la società rischia fatalmente di identificarsi con l´opinione della maggioranza, di parlare con una voce sola, di essere omogenea nei gusti e nei valori; di essere in una parola una nuova forma di dispotismo. Ma il dispotismo democratico del quale parlava Tocqueville cresceva come per un´innata forza delle cose, non per la volontà di qualcuno. Era la logica stessa dell´opinione pubblica a generare omogeneità di vedute e docilità. L´Italia non sembra rientrare in questo caso perché da noi la manipolazione dell´informazione è un fatto scientemente perpetrato e voluto; è l´esito della responsabilità di qualcuno. La nostra assomiglia per questo a una democrazia populista (e la proposta di riforma costituzionale in senso presidenzialista va in questa direzione). Ma con questa importante novità: poiché usa il sistema mediatico e non quello della propaganda di partito o della repressione, l´esito che favorisce non è alla fine diverso da quello descritto da Tocqueville. Se avrà successo, per esercitare un dominio incontrastato , la maggioranza non avrà bisogno di sospendere i diritti politici. L´opinione parlerà con una voce sola e le poche voci di dissenso saranno come voci nel deserto.

Corriere della Sera 23.4.09
Esce oggi da Feltrinelli il nuovo libro di Eva Cantarella. Viaggio in una concezione dell’eros basata sul culto della virilità
L’amore nell’antica Roma quando i gladiatori erano come i calciatori
Le donne conquistate dal loro fascino. Lo dicevano anche i poeti
di Eva Cantarella


«Dammi mille baci» a Milano e Napoli. Anticipiamo un brano tratto dal libro di Eva Cantarella Dammi mille baci. Veri uomini e vere donne nell’antica Roma, in uscita oggi da Feltrinelli (pp. 190, e15). L’autrice incontra i lettori oggi a Milano con Giulia Cogoli (Feltrinelli di piazza Piemonte 2, ore 18,30), domani con Giuseppe Cacciatore e Marco Lombardi a Napoli (ore 18, Feltrinelli, piazza dei Martiri 1).

Che l’eman­cipazione femmini­le non fos­se un fatto di élite, ma avesse toccato anche le donne del­le classi meno alte, è chiaramente mostrato dai reperti, e più in partico­lare dai graffiti pompeiani.
Per cominciare: le donne di Pom­pei, oltre a frequentare i teatri, assi­stevano ai giochi gladiatori, ai quali pare si appassionassero non tanto per i giochi in sé quanto per i gladia­tori; i quali, se sopravvivevano alle lo­ro non facili esibizioni, diventavano le star dell’epoca — un po’ come i cal­ciatori di oggi, o come i cantanti rock, ammirati e amati dalle donne di ogni ceto sociale. A dimostrarlo, ecco le iscrizioni che a Pompei, più o meno scherzosamente, alludono al loro fascino irresistibile.
Il trace Celado, ad esempio — leg­giamo nella caserma dei gladiatori — fa sospirare le ragazze. Chi lo ha scritto, una donna o un uomo? Poco importa, in ogni caso dal graffito vie­ne una conferma del fatto che le ra­gazze di Pompei non erano insensibi­li al fascino dei muscoli e della cele­brità.
Sullo stesso edificio, un altro graf­fito ci informa che Crescente, il rezia­rio (uno dei gladiatori specializzati nel combattere con una rete, con cui dovevano difendersi dagli attacchi av­versari), era «il medico notturno del­le ragazze». Piacevano a tutte, questi gladiatori. Oltre che alle ragazze di modeste condizioni sociali, anche al­le matrone, che a quanto pare, più es­si uscivano malconci dalle lotte, più li amavano. Quanto meno, così vuol farci credere il solito Giovenale, che nella sua satira sulle donne racconta di una certa Eppia, che aveva abban­donato casa e famiglia per seguire un gladiatore, tal Sergetto, che attende­va, ormai, / con quel braccio spezza­to il suo congedo; / e molti sfregi avea nel volto, e il ciuffo / diradato dall’el­mo, e in mezzo al naso / un grossissi­mo porro; e un male acuto / gli facea sempre gocciolare un occhio. / Ma un gladiatore egli era!
Per lui, dice Giovenale, anche se era stata abituata da bambina a ogni lusso, e anche se faceva grandissime difficoltà se il marito tentava di farla salire su una nave, Eppia aveva sfida­to le onde, seguendolo fino in Egitto: quel Sergetto non doveva essere ri­buttante come Giovenale lo descrive. La patologica misoginia del poeta emerge anche in questi versi, e si con­ferma quando, generalizzando il comportamento di Eppia, scrive che quelle che a un amante / van dietro, hanno stomaco di bronzo, / quella vo­mita addosso al suo marito, / questa tra i marinai mangia e passeggia / su e giù per la nave e si compiace / nel maneggiare i ruvidi cordami.
Non le amava affatto le donne, Gio­venale. Ma, al di là delle sue esagera­zioni, possiamo cogliere una verità: anche le signore delle classi alte era­no sensibili al fascino dei gladiatori. Come del resto parrebbe confermare un altro ritrovamento pompeiano.
Nell’alloggio dove dormivano i gla­diatori, infatti, sono stati trovati i re­sti di una persona di sesso femmini­le, e dei gioielli, che presumibilmen­te le appartenevano. Cosa ci faceva, in quel posto, una signora ingioiella­ta? Esercitando un po’ la fantasia, si è diffusa l’idea che quella sera la signo­ra fosse andata, presumibilmente di nascosto, a trovare il suo bel gladiato­re. Chissà se il cataclisma la sorprese appena arrivata, o mentre si accinge­va a tornare a casa. Come che sia, mo­rì in un momento felice.
Erano molto preoccupati, i roma­ni. Nonostante l’impegno che aveva­no messo, e che continuavano a met­tere, nell’opera di educare le donne alla virtù, erano stati costretti a ren­dersi conto che qualcosa dovevano aver sbagliato.
A cavallo tra il I secolo avanti e il I secolo dopo Cristo, vedevano la città popolata da donne i cui costumi avrebbero fatto inorridire i loro ante­nati. Delle libertà (alcune delle quali concesse da loro stessi, massima del­le beffe) le donne non si limitavano a fare un uso discreto, capace di non sconvolgere le antiche abitudini: ne abusavano, ne approfittavano in mo­do indecente. Questo pensavano i ro­mani. A loro non piacevano proprio le donne emancipate. Per loro, l’emancipazione era un pericolo so­ciale. Diceva Cicerone, parafrasando Platone, che là dove donne e schiavi non obbedivano era l’anarchia. Ma le accuse più pesanti alla presunta dis­solutezza delle donne vengono dai poeti: in particolare, i poeti satirici.
Giovenale, per cominciare. In lui, la descrizione della nequizia femmi­nile raggiunge livelli paradossali. Al di là di ogni considerazione sulla en­fatizzazione e caricaturizzazione del­la realtà tipica del genere letterario, i versi di Giovenale rivelano una miso­ginia quasi patologica: «La lussuria è vizio di tutte, schiave e padrone», scrive nella sesta satira, «da quella che va scalza per le strade della città, a quella che si fa portare in lettiga da schiavi siriani, le donne, tutte, senza scampo, sono dissolute».
Certo. Lo sappiamo: la satira porta la realtà alle estreme conseguenze, ri­dicolizzandola, non di rado per esor­cizzare nel riso il disagio e, spesso, una vera e propria paura. Ma perché avevano paura delle donne, i romani? Cosa temevano?
In primo luogo, che volessero co­mandarli (come, secondo i poeti sati­rici, ormai facevano senza un mini­mo di ritegno). Soprattutto se erano ricche. Un timore diffuso, che Marzia­le dichiara apertamente: Donna ricca sposare? No. Perché, / mi domanda­te. Perché voglio / sposare, non esse­re sposato. / La moglie, Prisco, sia soggetta al marito: / è la sola egua­glianza possibile tra i due.
Più chiaro di così. Comandano, pretendono. Ormai, sono convinte che avere un amante sia un loro dirit­to. Alcune arrivano a pensare che li­mitarsi a uno solo sia quasi una con­cessione al marito.

mercoledì 22 aprile 2009

l’Unità 22.4.09
Ma del duce dovete dire tutto
L’immagine di Mussolini proiettata in piazza non suscita collera. Quei ricordi vanno evocati e va ricordato l’orrore del nazifascismo
di Pietro Ingrao


Caro Direttore,
consentitemi qualche considerazione sulla polemica che si è accesa intorno al fatto che nel documentario proiettato in piazza dal Comune di Roma (a cura dell’assessore Croppi, mi sembra) in occasione del 21 Aprile fosse inserita una immagine di Mussolini che annunciava l’entrata in guerra dell’Italia a fianco di Hitler.
In verità la presenza di quell’immagine non aveva suscitato in me nessuna collera. Riguardava un evento reale e per giunta un evento che poi aveva portato a quel dittatore solo sconfitta e vergogna, e infine l’aveva condotto a una morte disperata.
Se mai quell’apparizione ha suscitato in me un’altra domanda: che diceva quel volto - teso e feroce - ai tanti, ai giovani prima di tutto, che lo vedevano sullo schermo?
Io avevo timore non già che vedessero e sapessero, ma anzi che non sapessero. Non sentivo bisogno di silenzio, ma di parole.
E questo chiederei ancora adesso all’assessore Croppi e al sindaco di Roma Gianni Alemanno che avevano portato in quella straordinaria piazza romana quel volto.
Caro direttore, io non ho paura che si evochino quei nomi, ma anzi che essi siano poco evocati, se mai solo con l’esibizione di un volto. E dico: facciamole pure vedere quelle immagini, e non solo dal balcone su una piazza, ma per ciò che sono state nella storia di milioni e milioni di esseri umani
Quanto c’è da raccontare su quel volto e sui suoi amici e alleati stretti, strettissimi: Hitler per esempio! Non solo mostrare i volti, ma raccontare ciò che hanno fatto. E - attenzione - non solo raccontare la stretta vicenda bellica, l’urto degli eserciti, ma l’inaudito che l’ha accompagnato. E il racconto di quell’inaudito non è riassumibile in una immagine, e nemmeno solo affidarlo alla storia delle battaglie - che pure furono lunghe, durarono anni, e traboccarono in Asia e in Africa; potremmo dire: investirono il mondo.
Non ci furono solo morti (tanti) in battaglia. Fu inventata - dagli amici stretti di Mussolini - una strage più penetrante e «scientifica»; furono scelte sedi speciali, metodi articolati di massacro. Si chiamarono camere a gas, forni della morte, e portavano a fosse comuni: per ogni età; da vecchi a fanciulli, e sempre secondo tecniche fantasiose, mai conosciute prima.
Insomma un trattamento particolare dei corpi e delle anime: una nuova scienza: del patimento e dello scomparire dalla terra.
Ecco ciò che mi ricorda quel volto di Mussolini.
E io non chiedo, non voglio che sia nascosto. Anzi - assessore Croppi, sindaco Alemanno - raccontate davvero - e sino in fondo - chi furono, che «inventarono» quel volto, quelle figure riapparse nelle piazze romane.
Su. Andiamo insieme nelle scuole romane, e - con la dovuta delicatezza - raccontiamo le invenzioni dei massacri che hanno segnato il nostro secolo. A Roma, questa capitale con le sue sorprese incredibili: si faccia organizzatore testardo il Comune di Roma di visite spiegate alle Fosse Ardeatine, e ai tanti bizzarri sepolcri che ha conosciuto questo secolo.
Perciò io non chiedo oscuramento, o silenzio. Anzi mettiamo nomi. Facciamo vedere volti e corpi. Frughiamo nei campi della memoria.
Fra pochi giorni sarà la data del 25 aprile. E ci sarà da rievocare - a tanti che oggi non lo sanno - il senso della parola: partigiani; e quale fu non solo la sofferenza, ma l’invenzione della partigianeria, il messaggio consegnato a noi da coloro che non ci sono più.
Io provo sempre un certo stupore quando apprendo che i miei nipotini studiano le guerre persiane, la battaglia di Maratona... E non arrivano quasi mai a studiare insieme l’innovazione grandiosa nei modi dell’uccidere avvenuta nel secondo conflitto mondiale.
Eppure ci furono testimoni indimenticabili.
A Roma è stato esposto il volto di Mussolini. Io metterei una teca dove porre non un volto, ma un libro. Si intitola «Le lettere dei condannati a morte della Resistenza». Sono testi ultimi. Brevissimi: scritti a volte pochi momenti prima della morte.
Fra pochi giorni - potremmo dire fra poche ore - l’Italia ricorderà, celebrerà il 25 di aprile. Avanzo una proposta: che per quella data tutti i cosiddetti maggiorenti di questa nazione vadano in una scuola italiana a recare in classe una copia di quel libro.

Corriere della Sera 22.4.09
La scelta di Fini: è la festa di tutti senza se e senza ma
«L’idea giusta di nazione sconfisse il fascismo» E Bertinotti: vince il valore dell’uguaglianza
Il presidente della Camera scrive per il nuovo giornale di Sansonetti: ma è da condannare la scia di sangue dopo il ’45
di Gianna Fragonara


ROMA — «Il 25 aprile è di tutti gli italiani». Parola di Gianfranco Fini che in un lun­go articolo spiega come saba­to prossimo debba essere «la festa della libertà di tutti gli italiani, senza ambiguità, sen­za reticenze, senza 'se' e sen­za 'ma'». Il presidente della Camera, che già aveva parla­to dell’antifascismo come va­lore ai tempi della svolta di Fiuggi, sceglie di scrivere ora le sue considerazioni sul 25 aprile su «l’Altro», il nuovo giornale diretto da Piero San­sonetti (che ha lasciato Libe­razione dopo la scissione dei bertinottiani da Rifondazio­ne) che sarà in edicola dal pri­mo maggio, ma pubblica un numero zero speciale per le celebrazioni del 25 aprile. Una scelta che dista anni luce dalla polemica di queste setti­mane che vede coinvolti Igna­zio La Russa e Fabrizio Cic­chitto da una parte e Antonio Di Pietro, Paolo Ferrero e Pao­lo Cento dall’altra. E forse non è un caso se nella sua analisi sulla Liberazione, la Resistenza e la guerra civile 1943-45, Fini non risparmia giudizi taglienti sull’oggi, sul­lo stato della democrazia, in un momento storico in cui si nota «un certo abbassamento della tensione morale» e un «affievolimento delle passio­ni civili» che rischia di inde­bolire «gli istituti di libertà».
Ma è sul passato che Fini si sofferma: il suo articolo, che compare sotto una ban­diera della pace e a fianco di un intervento di Fausto Berti­notti (che propone come ci­fra della commemorazione il valore dell’eguaglianza), si concentra sulla stagione del­la guerra civile, «che fu tale non solo perché vide gli ita­liani combattersi su fronti op­posti, o perché fu caratteriz­zata da innumerevoli effera­tezze e crudeltà, non solo per­ché produsse lacerazioni pro­fonde nel Paese». Fu guerra civile perché fu scontro «frontale tra due diverse idee di nazione», si legge nel pas­saggio più forte del presiden­te della Camera: «L’una — ar­gomenta Fini — nutrita dal nazionalismo fascista condu­ceva all’espansionismo, al razzismo e all’annullamento dei diritti dell’uomo. L’altra, indissolubilmente legata ai valori della libertà e della de­mocrazia, portava alla costru­zione di una nuova stagione di progresso civile per l’Ita­lia. E non c’è dubbio che l’idea 'giusta' fosse la secon­da », perché «da allora non fu più possibile pensare la Pa­tria separatamente dalla de­mocrazia ». Certo Fini, prima di insiste­re sul valore di Patria nel do­poguerra, non risparmia una critica alla «scia di sangue dell’immediato dopoguerra» sulla quale proprio «la parte consistente delle forze che si sono richiamate all’antifasci­smo » non hanno voluto ri­flettere: «C’erano formazioni che videro il conflitto fasci­smo- antifascismo più come lotta di classe che come batta­glia per la libertà della nazio­ne », scrive ricordando quello che disse a Fiuggi: «Tutti i de­mocratici erano antifascisti ma non tutti gli antifascisti erano democratici». E citan­do Carlo Azeglio Ciampi, lo storico Claudio Pavone, Pie­ro Fassino e anche Vittorio Emanuele Orlando nel suo in­tervento alla Costituente, conclude: «Non ha senso og­gi strumentalizzare il 25 apri­le nella polemica politica».

l’Unità 22.4.09
Il terrore e la crisi
Con la scusa della paura: distratti da Al Qaeda derubati da Wall Street
di Loretta Napoleoni


Esperta di terrorismo internazionale

Suicidio economico. Mettere in ginocchio l’economia Usa e quella mondiale è stata la follia della guerra al terrorismo

Terrorismo ed economia: ecco i temi più dibattuti degli ultimi anni. E se tra loro esistesse una relazione che va ben oltre le prime pagine dei giornali? Se la guerra contro il terrorismo, inaugurata da George W. Bush all’indomani dell’11 settembre, avesse in qualche modo contribuito alla crisi del credito? Si tratta d’interrogativi sconcertanti, che recentemente molti si pongono.
L’amministrazione Bush riceve da Bill Clinton un piccolo surplus e Barack Obama - che sale al potere nel mezzo della peggiore recessione del dopoguerra - eredita un debito pubblico di 10mila miliardi di dollari, pari al 70 per cento del Prodotto interno lordo americano, o meglio, al 18 per cento dell’economia mondiale. Dove sono finiti tutti quei soldi? Due guerre ancora in corso e un sistema di sicurezza ambiziosissimo, quanto inconsistente, prosciugano le finanze dello Stato e proiettano l’America tra i paesi con il debito pubblico più alto al mondo.
Tutto questo non sarebbe successo fino a vent’anni fa, quando i conflitti si pagavano con l’erario pubblico anziché con la politica dei bassi tassi d’interesse. Come dimenticare la storica decisione di Lyndon Johnson, negli anni Sessanta, di aumentare la pressione fiscale per far fronte agli alti costi della guerra nel Vietnam? Manovra necessaria e al tempo stesso profondamente impopolare. A nessuno, infatti, piace finanziare di tasca propria la macchina militare, anche se l’obiettivo è distruggere un super terrorista come Osama bin Laden o sbarazzarsi dell’arcidittatore Saddam Hussein. A chi si domanda perché queste guerre in Iraq e in Afghanistan, che sembrano interminabili, non abbiano suscitato un movimento d’opposizione simile a quello che pose fine a quella del Vietnam, si può rispondere che finché la spesa militare non tocca direttamente il nostro portafoglio o intacca la nostra libertà, costringendoci ad andare al fronte, i conflitti armati restano virtuali, vissuti esclusivamente attraverso il filtro dei media.
La paura del terrorismo. Neppure gli attentati terroristici a Madrid e a Londra, ambedue legati al conflitto iracheno, ci hanno fatto sentire quest’ultimo abbastanza vicino da coinvolgerci. Persino la minaccia del terrorismo, dunque, ci tocca solo di striscio, quando le immagini di sangue e morte fanno capolino sui nostri teleschermi o quando i politici le usano per spaventarci.
Dopo l’attentato di novembre 2008 a Mumbai, il ministro degli Esteri italiano dichiara che il vero pericolo non è l’economia ma il terrorismo. Giornali e telegiornali italiani rincarano la dose ricordando che sette connazionali sono intrappolati negli alberghi occupati dai terroristi. E l’Italia è presa nella morsa della paura del fondamentalismo islamico al punto da scambiare due mitomani marocchini per super terroristi. Il motivo è altrettanto ridicolo: inculcavano nei figli di due anni il culto di Osama bin Laden e sognavano di far esplodere con ordigni inesistenti un supermercato di periferia.
La paura del terrorista è uno strumento molto efficace per distrarre l’attenzione del cittadino occidentale dal caos economico degli ultimi vent’anni e dalla crisi che sta facendo sprofondare il capitalismo in una nuova Grande depressione. Tristemente, il legame tra eversione ed economia non è circoscritto a questa manipolazione: la guerra contro il terrorismo dei neoconservatori americani ha infatti contribuito alla crisi del credito. Come? Per rispondere rivisitiamone le fasi più salienti.
Il crollo del Muro di Berlino inaugura la politica del credito facile e a buon mercato. Alan Greenspan, a capo della Federal Reserve (Fed), ne è l’artefice. La deflazione agevola il processo di globalizzazione, o meglio, la colonizzazione del mondo da parte della finanza occidentale. Lo Stato retrocede dall’arena economica e lascia al mercato finanziario il compito di gestire il grosso dell’economia. E Alan Greenspan diventa più potente del presidente Clinton. È lui che tiene le fila dell’economia mondiale, la cui crescita sembra inarrestabile. Ogni qualvolta le crisi economiche bussano alla porta del villaggio globale - da quella del rublo fino alla minirecessione americana del 2000 - Greenspan taglia i tassi. Si tratta di una strategia folle perché, lungi dal risolvere i problemi strutturali della globalizzazione, posticipa lo scoppio della crisi aumentandone la portata. (...)
Gli anni Novanta e gran parte degli anni 2000 sono caratterizzati dall’abbondanza perché vissuti all’insegna del credito facile e a buon mercato; consumi, investimenti, tutto cresce e nessuno ha voglia di criticare uno Stato che ha creato tutta questa cuccagna. L’euforia nasconde però una realtà ben diversa: uno dei cardini del contratto sociale - secondo cui lo Stato deve rispondere ai cittadini di come gestisce il loro denaro - si sta incrinando.
Due guerre e molti debiti. Dopo il 2001 la politica dei tassi d’interesse bassi fa comodo al governo americano che nel giro di due anni si trova invischiato in due guerre che l’amministrazione aveva anticipato sarebbero state lampo e quindi a basso costo. In realtà, questi conflitti pesano gravemente sulla spesa pubblica.
L’indebitamento sul mercato finanziario attraverso la vendita dei buoni del tesoro permette di evitare l’impopolare manovra fiscale del presidente Johnson, e cioè aumentare le tasse agli americani. Ma la raccolta del denaro non è facile, lo Stato deve competere con il settore privato, ecco perché l’amministrazione Bush fa preme sulla Federal Reserve per mantenere oltremisura la politica dei tassi d’interesse bassi. Questa infatti rende i buoni del tesoro americani più competitivi rispetto a quelli dell’industria privata. Cina e Giappone diventano i maggiori sottoscrittori del debito pubblico statunitense. (...)
La politica deflazionista di Greenspan, dunque, finanzia prima il benessere illusorio della globalizzazione e poi la guerra contro il terrorismo. Ecco spiegata l’origine della crisi del credito. Ma se Greenspan crea la bolla durante gli anni Novanta, il finanziamento di due guerre dopo l’11 settembre prima la gonfia e poi la fa esplodere. L’abbattimento dei tassi, subito dopo la tragedia, innesca il perverso meccanismo dei mutui subprime e inflaziona i prezzi del mercato immobiliare in America e nel resto del mondo; dà vita, insomma, alla spirale dell’indebitamento delle banche. Le statistiche mostrano che dal 2001 al 2007 i prezzi degli immobili registrano, un po’ dovunque, una crescita eccezionale.
Chi paga questa follia. Naturalmente, a fare le spese di questa follia economica è la popolazione americana che per quindici anni è tenuta all’oscuro delle crisi del mercato globale e per altri sette ignora che Pechino e Tokyo finanziano le guerre “ideologiche” dei neoconservatori, mentre Washington accumula un debito pubblico da Paese in via di sviluppo. E sono ancora i cittadini americani che si sobbarcano tutto il debito delle banche: sebbene incrinato, il contratto sociale è ancora in piedi, e chi risponde degli errori dei politici è la popolazione. Così quando la bolla esplode, nel settembre 2008, e quando la recessione è alle porte all’inizio del 2009, per salvare le banche e mantenere in piedi due guerre, Washington usa i soldi dei contribuenti, quei pochi nell’erario pubblico e quelli ancora da raccogliere, pignora insomma la ricchezza delle future generazioni. Anche il contribuente del villaggio globale paga questi errori. Gli Stati Uniti sono la locomotiva economica del mondo, così la conflagrazione a Wall Street trascina l’intero pianeta nella crisi economica.

l’Unità 22.4.09
Un convegno sulla pensatrice, una marxista eterodossa fuori dal marxismo
La tesi La filosofia come genere letterario che decifra il mondo tramite le rotture linguistiche
Gli 80 anni di Agnes Heller: «Un altro linguaggio ci salverà»
di Bruno Gravagnuolo


Compie 80 anni Agnes Heller, la filosofa ungherese allieva di Giorgy Lukàcs, esponente della scuola marxista di Budapest negli anni 50, pensatrice della «teoria dei bisogni» ed emigrata in Australia a fine anni 70, perché presa di mira dal regime comunista di allora. Per il compleanno tre dipartimenti italiani di filosofia e scienze umane (Roma-Tre, Sapienza e Università di Messina) le hanno organizzato un convegno alla Sala Igea di Palazzo Mattei in piazza Paganica di Roma. Inaugurato ieri da una sua Lectio magistralis, «La filosofia come genere letterario, principalmente esemplificata su Heidegger». Relazione già scritta, ma come concepita e recitata a braccio, ad ampie falcate. Tra le «arcate» di Platone, Aristotele, Kant, Hegel, Nietzsche, Heidegger e Foucault. E con un architrave argomentativa di fondo, come da titolo: la filosofia come genere letterario. E però un genere sui generis, argomentativo, autoriflessivo, ermeneutico. Ma sempre situata in un tempo, in un linguaggio. In un «gioco linguistico» e perciò in un’esperienza irripetibile. Aperta dal gesto dei singoli filosofi che schiudono ciascuno un mondo, deviando dal mondo degli altri filosofi. Magari lavorandovi dentro o accanto, a latere. Sempre dentro il linguaggio come casa indecisa e problematica dell’Essere. Una tesi espressa in questa relazione che è il punto d’arrivo di un lungo cammino. Partita da ragazza da ambizioni scientifiche (dopo essere scampata alla Shoah). Poi folgorata dal grande Lukacs all’università di Budapest e approdata alla filosofia. Poi marxista critica e umanista, attratta dal sogno rinascimentale che fu già del suo maestro di fondere Natura e Cultura in una sintesi sociale armoniosa. Poi ancora teorica dei «bisogni», nel solco del giovane Marx e in una prospettiva in cui i bisogni era in qualche modo prossimi ai «desideri» infiniti della soggettività che si libera e si cerca nell’altro. Fuori dalla centralità marxiana del «lavoro» e dentro la riproduzione simbolica delle forme di vita. Sicché era un marxismo eterodosso ed extramarxista, il suo. Al punto che lei stessa dirà nel 2008, in un intervista a La Stampa:« In fondo non sono mai stata davvero marxista e in Marx cercavo altre cose».
DA HABERMAS
Ma l’approdo di cui ci parla questa relazione, raggiunto tra l’Australia e New York, è lontano anche dalla penultima stazione di pensiero della Heller. Vale a dire le idee di Habermas, Apel e John Rawls. Tutte in vario modo costruite attorno alla centralità del «soggetto trascendentale kantiano». E tutte in funzione di un’etica costruttiva, contrattualistica, comunicativa o dialogante. Ora la Heller liquida integralmente il soggetto, come residuo cristallizzato della tradizione filosofica. Così come la sostanza, le categorie, l’apriori, il logos razionale. Per sposare una linea ermeneutica e «post-modernista». Contano «l’esser-ci» e la «soggettività», le interpretazioni e non i fatti. E il lavorio del linguaggio nel «teatro del mondo», da cui tirar fuori, alla Arendt, una «vita buona» e più umana.
Sta per compiere 80 anni Agnes Heller, la filosofa ungherese scampata alla Shoah, formatasi sul marxismo e Lukacs fu espulsa dal regime comunista. Un convegno a Roma aperto da una sua «Lectio magistralis».

In fuga, dalla Shoah e dal socialismo reale
Sopravvissuta all’Olocausto, Agnes Heller ha 18 anni quando nel 1947 assiste alle lezioni di G. Lukács, filosofo e dirigente del Pc ungherese. Heller diverrà poi sua assistente e collaboratrice. Nel 1956 gli ex allievi diventano la «corrente», un gruppo di sostenitori del «vero» marxismo contro ogni falsificazione e aberrazione. Nel 1959 viene espulsa dall’università e dal partito per aver sostenuto «le idee false e revisioniste» di Lukács e i suoi scritti vengono banditi. Nel 1963 entra come ricercatrice nell'Istituto di Sociologia dell'Accademia delle Scienze, da cui verrà licenziata nel ’73. Nel 1977, non condividendo le svolte reazionarie di tanti paesi dell’Est, e lascia l’Ungheria ed emigra in Australia. Lì l’università di Melbourne le affida la cattedra di sociologia. Attualmente è ritornata in Ungheria ma insegna anche alla New School for Social Research di New York.

l’Unità 22.4.09
Uccidi il Pci ancora
di Bruno Gravagnuolo


Psichiatrizzare le tesi avversarie è rozzo e distruttivo. Lo facevano gli inquisitori sovietici coi dissidenti. E anche quelli americani, con gente come Wilhelm Reich ed Ezra Pound. Ma come regolarsi dinanzi a tesi ossessive espresse con toni allucinatori e contro un nemico che non c’è più? Inevitabile allora ricorrere almeno alla categoria del disturbo psicologico. Del risentimento inelaborato da traumi che genera tic. Da scaricare contro obiettivi immaginari per mascherare altro: frustrazioni, impotenza argomentativa, etc. È il caso dell’ultima sfuriata di Galli della Loggia sul Corsera contro il ruolo nefasto del Pci nella storia d’Italia. Che prende a pretesto l’ultimo saggio di Aldo Schiavone su L’Italia contesa. Sfide politiche ed egemonia culturale (Laterza). Tesi: tutti i mali italiani nascono dal Pci. Mancata identità civile, bipolarismo selvatico, Berlusconi. E sulle spalle del Pci vengono messi l’evasione fiscale, l’antimeritocrazia, i Vaffa day e persino i premi Grinzane Cavour! Il il Pci per Della Loggia è una sorta di peste, colpevole a ritroso e in avanti. Per via del blocco della memoria, dell’antifascismo, e altro ancora: «Per carattere e storia profonda un ostacolo formidabile per lo sviluppo democratico del paese». Ovviamente è una tesi ridicola.Che non ha nulla di storiografico nella sua maniacalità giustizialista. Facilmente contestabile con una semplice domanda: «Come mai il Pci ebbe tanto consenso e importanza nel dopoguerra? Un terzo degli italiani erano idioti e manipolati?». Domanda che è inutile rivolgere a Della Loggia, stregato come è dalle sue fobie. Che lo condannano a un anticomunismo trito e fantasmatico. Al di sotto di quello di Berlusconi che almeno ha una mira di potere non fantasmatica. Spiantare la sinistra, tutta, dalla storia e dall’identità italiane. Una mira a cui il volenteroso Della Loggia dà una mano non richiesta. Salvo in altri momenti ritrarla, quando inorridisce dinanzi all’anticomunismo triviale di Berlusconi. Inorridisce per motivi di stile. A volte. Ma nell’intimo acconsente.

l’Unità 22.4.09
Malato di Sla a Napolitano: no all’alimentazione forzata
di Giuseppe Vittori


Il video-appello di Ravasin da 10 anni affetto da sclerosi laterale amiotrofica
Il suo messaggio per dire «no» al ddl sul testamento biologico: «È anticostituzionale»

Lo sguardo fisso alla telecamera e un filo di voce per ribadire la sua volontà.
Paolo Ravasin, 49 anni, da dieci affetto da sclerosi laterale amiotrofica (SLA), dal letto della clinica in provincia di Treviso dove è ricoverato, ha inviato il suo video-appello al Presidente della Repubblica e alle massime cariche di Camera e Senato per dire «no» al disegno di legge sul testamento biologico approvato il 27 marzo scorso a Palazzo Madama e ora al vaglio della Camera dei deputati.
Cosa dicono nel mondo
«L’Organizzazione mondiale della sanità - dice - ha sancito che l’alimentazione e l’idratazione artificiali sono dei trattamenti sanitari a tutti gli effetti: questa legge è anticostituzionale perché non mi consente di rifiutare tali trattamenti».
Ravasin, nato e cresciuto a Treviso, da quattro anni vive in uno stato di paralisi, nella struttura in cui era ricoverato precedentemente per ben 18 volte la macchina che gli consente di respirare si è staccata, rischiando di farlo morire. «Tutto questo non mi ha tolto la voglia di lottare - dice oggi - nonostante non mi sia stato ancora dato un comunicatore che mi consenta, usando gli occhi di parlare anche nei giorni in cui non ho voce».
Nel luglio scorso ha registrato un altro video messaggio con il quale rendeva pubblico il suo volere rispetto alle cure. «Al peggiorare della mia condizione, sospendete tutte le cure», aveva chiesto. Oggi però quella sua volontà gli appare inapplicabile. «Questa legge - spiega oggi - rende carta straccia le mie direttive anticipate ed in particolare la mia decisione di non sottopormi ad alimentazione e nutrizione artificiale quando non sarò più in grado di farlo».
Ravasin, che nel video diffuso ieri cita più volte Piergiorgio Welby morto nel dicembre del 2006 per distrofia muscolare dopo una lunga battaglia contro l’accanimento terapeutico, rivendica la sua «libertà di scelta in un «grido che non è di disperazione ma carico di speranza umana e civile» .
La malattia
La sclerosi laterale amiotrofica è una malattia degenerativa e progressiva del sistema nervoso influisce in modo predominante sui neuroni motori. Nella maggioranza dei casi, la malattia non danneggia la mente, la personalità, l’intelligenza o la memoria del paziente.
«Mi viene sottratta - conclude nel video Ravasin - l’unica libertà che mi è rimasta: quella di poter decidere sulla mia morte, ma Stato e Chiesa hanno preteso di sostituirsi a Dio».

l’Unità 22.4.09
La razzia dell’arte perduta
Trent’anni di furti e nessuno la pagherà
di Stefano Miliani


Dai primi anni 70 al 2000 circa dall’Italia è stato trafugato un milione di reperti etruschi, greci e romani. Dal vaso alla statua alta due metri. Un libro di Isman sui «Predatori dell’arte perduta» racconta un’autentica razzia.

Il museo fa l’uomo ladro? Sì quando la suddetta e rispettabile istituzione, preferibilmente nordamericana, tradisce se stessa e, con la complicità di archeologi compiacenti, foraggia copiosamente tombaroli e trafficanti d’arte senza scrupoli pur di avere a qualsiasi costo vasi, busti, statue e affreschi dall’antichità. Non è fanta-archeologia. È cronaca. Lo si capisce bene leggendo I predatori dell’arte perduta. Il saccheggio dell’archeologia in Italia scritto dall’inviato del Messaggero Fabio Isman (ed. Skira). Perché il libro, incalzante, denso di nomi, date, luoghi, testimonianze di prima mano, atti processuali, racconta con passione e dolore di un’autentica razzia che tra i primi anni 70 e il 2000 ha depredato la penisola di qualcosa come un milione di reperti etruschi, greci e romani per un valore economico smisurato, paragonabile al mercato della droga e delle armi. Una premessa: quanto viene fuori d’antico dal sottosuolo appartiene per legge allo Stato. E non è una legge sbagliata.
IL PUZZLE
Isman rimette insieme i tasselli di un puzzle sconcertante. Dove non mancano i misteri. Ad esempio: dove sarà la villa romana dalle parti di Boscoreale, in Campania, dai magnifici affreschi pompeiani con figure e quinte architettoniche scavata, fotografata con i grumi di lava dai tombaroli? Oppure: è la ‘ndrangheta che ha fatto sparire nel 1973, in Calabria, il fratello di uno dei principali trafficanti d’arte antica perché pare non volesse cedere il Vaso di Eufronio scavato nelle terre degli etruschi, capolavoro ellenico uscito di contrabbando, comparso al Metropolitan di New York e di recente restituito all’Italia? E qui torniamo all’inizio del discorso: il saccheggio sistematico dall’Etruria alla Sicilia, dalle Marche alla Puglia, ai primi anni 70 ha assunto dimensioni industriali con un'organizzazione ramificata e piramidale perché importanti musei americani, come alcuni istituti europei e finanche giapponesi, hanno sborsato cifre stratosferiche per vasellame, pezzi di statua, brani di affresco, suppellettili, scavate di notte dai tombaroli ed esportate illegalmente e infine piazzate in rispettabili collezioni: soprattutto di là dall’oceano, e bisogna citare innanzi tutto il Getty Museum di Los Angeles, ma pure di qua dall’Atlantico visto che preziosi reperti sono apparsi perfino al Louvre, al British, a Monaco di Baviera, a Copenaghen…
TOMBAROLI «ONESTI» E INTERCETTATI
Un racconto sconcertante per tante ragioni. Intanto perché dagli anni 70 si è creata un’organizzazione fatta di tombaroli, intermediari, mercanti senza scrupoli. Tombaroli che, molto all’italiana, si sentono perfino «onesti», come asserisce uno di loro. Poi tanto ben di Dio è uscito dai confini senza che quasi l’Italia combattesse la sua battaglia fino a quando non ne ha preso coscienza ed è intervenuta politicamente. Pure ci sono da tempo dei «soldati» che non si fermano praticamente mai: dal pm romano a soprattutto il comando di tutela del patrimonio artistico dei carabinieri che indaga, esplora, intercetta... A proposito: viene fuori a chiare lettere che se si restringono le intercettazioni troppe indagini sarebbero state impossibili e troppi tombaroli e trafficanti scamperanno perfino alle indagini. Infine altra constatazione amara, troppi «spacciatori» d’arte non vedranno nemmeno il cancello di una prigione o per la tarda età o per la mitezza delle pene: rubare un pollo per fame o un paio di jeans è molto più pericoloso.

Repubblica 22.4.09
Perché le donne salveranno il mondo
di Alain Touraine


Anticipiamo un brano del nuovo saggio del sociologo francese

L’opera è frutto di ricerche sul campo fatte in questi anni: la nostra società è indebolita e solo la coscienza femminile può darle forza
"Sembra un´epoca in cui le loro lotte hanno perso di visibilità. Invece io penso che siano il motore della storia"
"Solo loro sanno superare i vecchi dualismi. Il senso della vita, adesso, è sempre di più nelle loro mani"
"Sanno superare i vecchi dualismi e il senso della vita è nelle loro mani"
"Penso che le loro lotte siano diventate il motore della storia"

Nelle nostre società invecchiate, indebolite e allo stesso tempo addolcite, emerge con forza l´esigenza collettiva di combattere gli effetti negativi della modernizzazione, che ha creato forme di dominio estreme e ha distrutto la natura conquistandola. Noi cerchiamo di ricomporre un´esperienza collettiva e individuale che è stata lacerata. Si tratta di ristabilire una relazione tra i termini che le fasi anteriori della modernizzazione avevano contrapposto gli uni agli altri: il corpo e la mente, l´interesse e l´emozione, l´altro e il medesimo. È questo il grande progetto del mondo attuale, il progetto da cui dipende la nostra sopravvivenza, come ripetono i militanti dell´ecologia politica. Ma chi sono gli attori di questa ricostruzione? Chi occupa il posto centrale che nella società industriale fu degli operai, e, in un passato più lontano, dei mercanti che distrussero il sistema feudale?
La mia risposta è che sono le donne a occupare questo posto, perché sono state più di altri vittime della polarizzazione di società che hanno accumulato tutte le risorse nelle mani di un´élite dirigente costituita da uomini bianchi, adulti, padroni o proprietari di ogni specie di reddito e i soli a poter prendere le armi. Le donne sono state considerate allora come non-attori, private di soggettività, definite tramite la loro funzione più che la loro coscienza. Per verificare questa ipotesi, ho ascoltato voci di donne, un modo di procedere poco frequente poiché di solito si parla di vittime ridotte al silenzio piuttosto che desiderose di far ascoltare la propria voce. Il metodo seguito, che deve essere valutato sia per i suoi limiti che per la sua originalità, consiste nel mostrare che la nuova affermazione di sé da parte delle donne è direttamente e profondamente legata al rovesciamento culturale. Questo fa delle donne le attrici sociali più importanti, ma ha come contropartita il fatto che la loro azione non presenta le caratteristiche tipiche dell´azione dei movimenti sociali, fra i quali rientrava, in un passato ancora recente, lo stesso movimento femminista. Coscienza femminile e mutazione sociale non sono più separabili: le donne costituiscono un movimento culturale più che un movimento sociale.
Mi viene rimproverato di attribuire un´eccessiva importanza alla coscienza femminile proprio nel momento in cui le lotte femministe avrebbero ormai perso la loro radicalità e la loro visibilità. Perché scegliere le donne come figura centrale della nostra società quando le disuguaglianze crescono, la violenza si intensifica a livello internazionale ed eserciti e terrorismo si affrontano? Perché non accordare ai grandi dibattiti politici l´importanza che meritano nella misura in cui cercano di tenere insieme unità e diversità, innovazione e tradizione? In fin dei conti, coloro che, uomini e donne, rifiutano nel modo più completo il mio modello di approccio, sono proprio quelli che credono che la dimensione del genere stia a poco a poco perdendo importanza nella vita sociale.
(***)
Il rovesciamento che ci conduce da una società di conquistatori del mondo a una incentrata sulla costruzione di sé ha portato alla sostituzione della società degli uomini con una società delle donne. Non c´è ragione di pensare che la precedente riduzione delle donne in uno stato di inferiorità lasci ora il posto all´uguaglianza. Le donne, oggi, hanno, rispetto agli uomini, una capacità maggiore di comportarsi come soggetti. Sia perché sono loro a farsi carico dell´ideale storico della ricomposizione del mondo e del superamento dei vecchi dualismi, sia perché mettono più direttamente al centro il proprio corpo, il proprio ruolo di creatrici di vita e la propria sessualità. Per un lungo periodo sono stati gli uomini a determinare il corso della storia e a manifestare una forte coscienza di sé. Ma da alcuni decenni ormai, e per un tempo indeterminato (forse senza una fine prevedibile), siamo entrati in una società e viviamo vite individuali il cui "senso" è sempre più nelle mani, nella testa e nel sesso delle donne, e sempre meno nelle mani, nella testa e nel sesso degli uomini.
Riassumendo: l´importante è scegliere. La categoria delle donne, dato che non si può dare di essa una definizione interamente sociale, deve forse essere considerata più debole di una categoria che ha un significato più specificamente sociale, economico o culturale? O, al contrario, bisogna ritenere che al di sopra dei gruppi sociali reali, dei loro interessi e delle loro forme di azione collettiva è necessario collocare le donne intese come categoria e allo stesso tempo come agenti più di quanto non lo siano gli uomini, perché in grado di mettere in discussione i problemi e gli orientamenti fondamentali della cultura? La prima risposta è stata scelta da molti, in particolare dai marxisti, soprattutto, oggi, dagli uomini e dalle donne che difendono il multiculturalismo. Ovviamente io sono tra quelli che hanno scelto la seconda risposta. L´universalismo, che so essere un attributo centrale della modernità, è sinonimo di difesa dei diritti individuali e dei risultati della scienza. E l´importanza fondamentale del femminismo è che, al di là delle lotte contro la disuguaglianza e l´ingiustizia, ha formulato e difeso i diritti fondamentali di ogni donna, ovvero: il diritto di essere un individuo libero, guidato dai propri stessi orientamenti e dalle proprie capabilities, per usare la formula di Amartya Sen che Paul Ricoeur ha ben tradotto con l´espressione «poter essere».
© Librairie Arthème Fayard,2006
© Il Saggiatore, 2009 Traduzione di Monica Fiorini

Corriere della Sera 22.4.09
I medici che non vogliono denunciare i clandestini
Da Torino a Bari: distintivi sui camici e cartelli multilingue


MILANO — Medici-obiettori che per rendersi riconoscibili in corsia lo scrivono sul camice: «Io non ti denun­cio ». Associazioni di categoria che invi­ano petizioni al governo per rafforzare il proprio «no»: «Quel provvedimento va contro il nostro codice deontologi­co ». Regioni che rivendicano la pro­pria autonomia in fatto di sanità, riba­discono le norme in vigore, ne varano di nuove: «Le cure devono essere ga­rantite a tutti nel pieno rispetto della Costituzione e della privacy». La batta­glia contro il provvedimento che pre­vede la denuncia da parte dei medici dei clandestini è trasversale. Politica e di categoria. Un rincorrersi di iniziati­ve per fermare il disegno di legge. Per interrompere le denunce: tre quelle re­gistrate prima che la norma sia entrata in vigore. Ma anche per contenere il crollo di richieste di cure da parte de­gli stranieri: dei cittadini sprovvisti di permesso di soggiorno ma anche degli immigrati in regola.
Da Milano a Roma. Da Torino a Ge­nova. Pur senza nomi e cognomi le sta­tistiche parlano chiaro. «Il numero di immigrati che nei primi tre mesi del­l’anno hanno chiesto cure è calato del 10-20% rispetto al 2008», denuncia Massimo Cozza, responsabile dei me­dici della Cgil. Il crollo a febbraio: «Nel pieno del dibattito e dell’approvazione del ddl al Senato». Ora, spiega il presi­dente nazionale della Società italiana medicina d’emergenza-urgenza Anna Maria Ferrari, «gli accessi registrati nelle principali strutture di emergenza sono tornati quasi nella norma». «Ma non appena si ricomincerà a parlare di medici-spia ci sarà un nuovo calo», av­vertono gli addetti ai lavori. Del resto le denunce sono state più veloci del­l’entrata in vigore della legge: i primi di marzo, all’ospedale Fatebenefratelli di Napoli, Kante, 25 anni, ivoriana in attesa del riconoscimento di asilo poli­tico, è stata segnalata dopo aver dato alla luce un bimbo; un mese dopo, agli Spedali Riuniti di Brescia, Maccan Ba, 32 anni, senegalese, è stato raggiunto da un ordine di espulsione dopo aver richiesto cure per un mal di denti; ne­gli stessi giorni, al Santa Maria dei Bat­tuti di Conegliano (Treviso), una nige­riana di 20 anni è stata registrata al pronto soccorso come «paziente igno­ta » e dimessa con un foglio di via.
Spiega Massimo Cozza: «La paura è la fuga degli immigrati dagli ospeda­li ». Con un doppio rischio: «Per la salu­te dei cittadini stranieri, il cui diritto alle cure è sancito dalla Costituzione, e per la salute pubblica». Parole che ri­calcano storie di Carlos e Joy: lui, 20 an­ni, sudamericano trapiantato nel Pave­se, per paura di essere denunciato ha rischiato di morire di peritonite; lei, 24 anni, nigeriana, prostituta, è morta di tubercolosi avanzata. «Il 50% degli ospiti del Cara di Bari, il centro di acco­glienza dove era stata, è risultato posi­tivo alla malattia».
Al San Paolo di Milano, punto di ri­ferimento per i suoi ambulatori dedica­ti agli immigrati, i medici lavorano con la spilla «Io non ti denuncio». Qui il calo dei cosiddetti «stranieri tempo­raneamente presenti» è stato del 40%, la media dei tre mesi registra un meno 22. Richieste di intervento in discesa anche al Niguarda e al Fatebenefratelli (-10). A capo dell’assessorato regiona­le alla Sanità c’è il leghista Luciano Bre­sciani, ma già lo scorso febbraio la di­rezione generale ha inviato una circola­re per ribadire che i clandestini hanno diritto a cure gratuite. Cure che, stan­do ai primi risultati dell’indagine pilo­ta avviata dall’Asl (guidata dalla leghi­sta Cristina Cantù), ammonterebbero a 15 milioni l’anno. Anche il governa­tore Piero Marrazzo ha inviato una cir­colare ai medici del Lazio, ma per riba­dire che non devono ottemperare alla denuncia. Una norma sulla quale ha espresso preoccupazione anche il con­siglio di facoltà di Medicina del Gemel­li. Da inizio anno a metà aprile gli ac­cessi degli stranieri nei 39 principali ospedali del Lazio, dicono i dati del­l’Agenzia sanità pubblica, sono stati 4.789 rispetto ai 6.433 del 2008. Al San Camillo sono passati da 748 a 573, al Tor Vergata da 239 a 63. Al Casilino da 1.640 a 1.589. Ma qui — dove il respon­sabile del dipartimento di emergenza Adolfo Pagnanelli ha fatto firmare ai «suoi» medici una dichiarazione in cui si impegnano a non denunciare e per comunicarlo ai pazienti ha fatto affig­gere cartelli in sette lingue — è la «fu­ga » di romeni che colpisce: meno 18%. Cartelli in più lingue sono stati affis­si su richiesta dei governi regionali an­che in Emilia Romagna, Puglia, Sicilia. In Liguria il debutto è atteso a ore. In Piemonte i manifesti sono in fase di ideazione. Tutte Regioni che hanno in­viato anche circolari ad hoc per ribadi­re che l’unica norma in vigore è quella contenuta nel testo unico sull’immi­grazione che prevede il divieto di de­nunciare i pazienti. «Faremo ricorso al­la Consulta perché quella norma è in­costituzionale », annuncia l’assessore alla Sanità della Toscana Enrico Rossi. Al Careggi di Firenze gli irregolari so­no passati da 145 a 122, preoccupa la diserzione del consultorio femminile. Per la Puglia il governatore Niki Ven­dola ha annunciato una «norma spe­ciale » contro quella nazionale. Tutti obiettori i medici del Simeu. Il cartello al San Paolo di Bari: «Qui non denun­ciamo nessuno». E non sono solo i go­vernatori di centrosinistra a portare avanti la battaglia. Il presidente della Sicilia Raffaele Lombardo ha voluto che all’interno della legge di riordino del sistema sanitario fosse introdotto un emendamento: «A tutti le cure am­bulatoriali e urgenti senza che ciò im­plichi alcun tipo di segnalazione all’au­torità ». Sicilia in controtendenza, co­me la Calabria, anche in fatto di nume­ri: nei centri per immigrati dove i me­dici indossano la maglietta «non vi de­nunciamo » gli accessi sono quasi rad­doppiati.

Corriere della Sera 22.4.09
E la norma sui pazienti stranieri esce dal disegno di legge sulle ronde


ROMA — Alla fine cede anche la Lega e la norma che cancella il divieto per i medici di denunciare gli stranieri clandestini sparisce dal disegno di legge sulla sicurezza.

Mentre dai centri di identificazione si preparano ad uscire almeno 700 extracomunitari senza permesso di soggiorno, il Pdl decide di modificare ulteriormente il provvedimento all’esame della Camera e di eliminare quell’articolo che tante polemiche ha già provocato soprattutto tra i dottori che hanno minacciato l’obiezione di coscienza. L’accordo raggiunto durante una riunione tra i capigruppo prevede di approvare prima possibile l’introduzione delle ronde dei cittadini e l’allungamento dei tempi di permanenza nei Cie fino a sei mesi, ma più volte la maggioranza si è divisa su questi temi e dunque non è affatto scontato che alla fine questa intesa reggerà davvero.
Il primo appuntamento della giornata è fissato a Montecitorio dove i responsabili parlamentari del Pdl Fabrizio Cicchitto e Italo Bocchino incontrano quelli della Lega Roberto Cota e Federico Bricolo. Il Carroccio — in testa il ministro dell’Interno Roberto Maroni — non ha digerito la scelta del governo di eliminare le ronde dal decreto legge e soprattutto la bocciatura dell’articolo sui Cie, dunque la maggioranza sonda il terreno. La Lega prende tempo, la risposta ufficiale arriverà soltanto oggi. Ma l’intesa appare scontata visto che Bricolo e Cota in serata dichiarano: «Accettando i nostri documenti, governo e maggioranza si impegnano a portare avanti una linea di rigore. Il passo falso fatto alla Camera con l’approvazione dell’emendamento Franceschini che porterà al rilascio di oltre mille clandestini nei prossimi giorni sarà dunque superato».
Il realtà già domenica usciranno dai Centri di identificazione ed espulsione oltre 700 stranieri. Questa mattina il Senato trasformerà infatti in legge il decreto sicurezza, ma senza la norma per il prolungamento della permanenza nei Cie si è tornati al vecchio regime che prevede di accertare l’identità dello straniero entro 60 giorni. Al termine di questo periodo, se non è possibile garantire il rimpatrio nel Paese d’origine, a queste persone viene intimato di lasciare il territorio entro cinque giorni. È il cosiddetto «foglio di via» che raramente viene rispettato, anche se questo fa rischiare l’arresto.

Le denunce «preventive»
Prima ancora dell’entrata in vigore del ddl, si sono registrate 3 denunce di immigrati irregolari: a Napoli, a Brescia e a Conegliano (Tv) Gli accessi al Pronto soccorso Ecco i dati relativi agli stranieri registrati nei Pronto soccorso degli ospedali romani, nei primi tre mesi dell’anno, con il confronto tra 2008 e 2009. Al San Camillo, il totale è sceso da 748 a 537. Al Policlinico di Tor Vergata crollo verticale: da 239 a 63. Al Policlinico del Casilino si è passati da 1.640 a 1.589.
Nei 39 principali istituti sanitari del Lazio, la differenza è di oltre 1.500 accessi: dai 6.433 del 2008 ai 4.784 del gennaio-marzo 2009 Nelle cliniche del Centro-Nord A Milano, la diminuzione complessiva è stata dell’8-10%. Al Niguarda, dal 1˚ gennaio al 16 aprile, il numero di irregolari visitati è sceso dai 1.811 del 2008 ai 1.593 di quest’anno (i ricoveri sono passati da 345 a 313). Al San Paolo il calo è stato del 22%: da 215 a 167. Al San Carlo si è passati da 336 a 314, al Fatebenefratelli si registra un -10%. In diminuzione gli accessi a Firenze, nell’Azienda ospedaliera universitaria di Careggi: da 145 a 122.
A Torino, nell’Ospedale San Giovanni Bosco, mini-inversione di tendenza: da 44 a 49 I dati genovesi Nell’azienda ospedaliera San Martino, i dati sono suddivisi per nazionalità. Gli stranieri originari dell’Ecuador (tra le comunità più presenti sul territorio) sono scesi dai 554 di un anno fa ai 486 del 2009. I migranti dai Paesi africani sono passati da un totale di 404 alla cifra di 320. I romeni, infine, sono diminuiti in misura minore, da 171 presenze a 168

Corriere della Sera 22.4.09
A vent’anni dalla morte si riaccende il dibattito sul Premio Nobel irlandese. Mentre viene ridimensionato il ruolo dei critici letterari
E Beckett smascherò il Proust nichilista
Solo un genio può comprendere un genio
di Alessandro Piperno


All’ultima devastante serie di cazzotti con cui Mohammed Ali stende George Fore­man nella famosa notte di Kin­shasa. È a questo che penso al cospetto di un libro in cui un Peso Massimo della Letteratu­ra si occupa senza alcun sussiego di un consimi­le. Un’idea dell’arte agonistica, hemingwayana, ma non solo. Diciamo che mi ha sempre persua­so l’idea un po’ demodé secondo cui non esiste comunicazione più proficua di quella tra som­mi scrittori: Baudelaire che scrive di Poe, Mann di Cervantes, Sartre di Flaubert, e così via...
E i critici? Qual è il loro posto in questa festa dell’interpretazione? Temo si debbano accomo­dare sugli spalti. Ma come? Non sono i critici i depositari delle ultime verità? I distributori auto­matici di voti? I compilatori di canoni e classifi­che? Appunto, roba gustosa quanto inutile. Tan­to più che i pochi grandi critici sono, a loro vol­ta, superbi scrittori. E tutti gli altri mi ricordano quell’istruttore di sci della mia adolescenza che mi diceva che Alberto Tomba non aveva stile.
Ed ecco perché amo un grande narratore che mi parla di un grande narratore. Un grande poe­ta che mi parla di un grande poeta. Mi fido del­l’esperienza sul campo, le mani sporche. Restan­do in ambito sportivo (che ci posso fare? oggi va così), confesso che quando la domenica sera guardo il posticipo calcistico su Sky, tendo a fi­darmi più delle analisi tecniche di Bergomi che delle euforiche interiezioni di Caressa.
Forse sarà questa la ragione per cui, sebbene per ragioni deontologiche mi sia trovato, nel corso degli anni, a dover leggere numerose mo­nografie dedicate a Marcel Proust, continuo a ritornare al breve scritto che gli dedicò il venti­cinquenne Samuel Beckett nel lontano 1931. E forse proprio perché, a una prima occhiata, la coppia Proust-Beckett non appare tra le meglio assortite. Da un lato, il piccolo ipocrita parigino di buona famiglia, il pederasta ebreo, reso stan­ziale da disturbi psicosomatici di ogni tipo, lo snob ossessionato dalle più raffinate eleganze della vita mondana; dall’altro il ragazzo irlande­se, chiuso, secco, in un certo senso persino vio­lento. Cosa c’è di meno proustiano dello stile di Beckett? Come può lo scabro autore di Molloy o de L’innominabile capire le estenuazioni sintat­tiche della Recherche? E, tuttavia, nonostante questo, Beckett è la persona giusta per compren­dere l’essenza e lo specifico dell’opera proustia­na. Per una specie di contiguità spirituale situa­ta evidentemente in un luogo più profondo del­la coscienza di quello in cui si colloca lo stile.
E lo capisci da una lettera indirizzata all’edito­re Charles Prentice, in cui il giovane Beckett, an­cora sconosciuto, offeso dalla notizia che il suo libro su Proust non avrà un’edizione speciale per collezionisti, scrive: «No, certo, i topi di bi­blioteca non comprenderebbero un’edizione elegante, macchiata da una simile attribuzione. Ma le signore-topo da salotto non amerebbero forse esporre un attestato declamatorio piutto­sto che un pamphlet da due scellini? O è forse estinta la razza dei mascelluti proustiani lecca­culo? ». Questa lettera viene scritta da Beckett al­l’inizio degli anni Trenta. Proust è morto in glo­ria da una decina d’anni. L’ultimo volume della Recherche è fresco di stampa. La sola cosa in cui Beckett fin qui abbia saputo distinguersi è pre­stare servizio presso James Joyce, aiutandolo a scrivere il Finnegans Wake nell’appartamento di Square Robiac dove Joyce abita in quegli an­ni. Eppure, come dimostra questa lettera, Bec­kett è già dotato della spocchia dell’artista da giovane (sarà per via dello stile spocchioso con cui è scritto, se anni dopo Beckett ripudierà il suo libro su Proust).
Certo è che il suo sarcasmo contro «le signo­re- topo di salotto» e contro «i mascelluti prou­stiani leccaculo» ci fa capire come lui intuisca il rischio che corre un’opera complessa e sedutti­va come la Recherche. Evidentemente è già in atto il grande equivoco che trasformerà ben pre­sto la cattedrale proustiana in una specie di pre­zioso scrigno ad uso di signore della buona so­cietà che vogliono ritrovare i sani sapori di una volta, e commuoversi sui giorni felici dell’infan­zia. È già in voga la moda di scrivere teneri pallo­si memoir simil-proustiani letteralmente ripu­gnanti. Beckett sa che la Recherche rischia di es­sere interpretata dai pochi intrepidi che sono riusciti a terminarla come uno dei pochi capola­vori capaci di promettere un happy end di lus­so. Il Narratore alla fine ritrova il Tempo Perdu­to, e vissero felici e contenti...
E Beckett non sbaglia. C’è già in giro in quegli anni (persino tra i critici) chi confonde la Re­cherche per un libro rincuorante con un messag­gio preciso: se lavori sodo alla fine capirai il sen­so della vita e scriverai un’opera d’arte. Il compi­to dell’arte è di salvare l’individuo dalla trituran­te azione del Tempo e bla... bla... bla... Non dico che nella Recherche non trovino posto tali trion­falistiche affermazioni. Ma solo che Samuel Bec­kett è l’uomo giusto per non prenderle neppure in considerazione, concentrandosi sul vero spi­rito della Recherche: quello malvagio, nichilista, depravato. Che non offre all’uomo che sta affo­gando alcun salvagente.
Diciamo che Beckett ha le carte in regola per diffidare della vaporosa vulgata proustiana (il Proust per signorine). E lo interpreta alla sua maniera. Così facendo, coglie nel segno. È co­me se Beckett usasse Proust per conoscersi, in tal modo compiendo il percorso che Proust sprona ogni lettore a intraprendere: leggere i li­bri per leggere se stessi. Così, attraverso l’uso privato e fazioso di opera altrui, Beckett presta un mirabile servizio alla causa proustiana. Ren­dendo intimi e pregnanti alcuni temi da lui con­divisi con Proust: noia, abitudine, l’inevitabile disboscamento della vita affettiva operato dal­l’esistenza.
Beckett vede in Proust un uomo che non cre­de nella comunicazione tra gli esseri. Che si sen­te immerso in un irredimibile mare di egoismo. E che vive i rapporti umani come uno sconfor­tante nonché beffardo succedersi di fraintendi­menti. «L'amicizia, secondo Proust, è la negazio­ne di quella solitudine senza rimedio alla quale è condannato ogni essere umano» scrive Bec­kett, e subito rincara la dose: «L’amicizia è un espediente sociale, come la tappezzeria o la di­stribuzione di bidoni delle immondizie». Come si evince dal tono della scrittura, nessuno me­glio di Beckett può capire il cinismo proustia­no, e il suo disincanto estremista. «Noi siamo soli. Non possiamo conoscere e non possiamo essere conosciuti», scrive Beckett interpretan­do la famosa asserzione di Proust secondo cui: «l’uomo è l’essere vivente che non può uscire fuori da sé, che conosce gli altri solo in se stes­so ». Beckett tiene a spiegarci come queste paro­le — come ogni discorso pronunciato da Proust — non esprimano alcun punto di vista morale. Anzi, come esse siano fuori da ogni struttura eti­ca. Beckett sa che l’eroe tragico è oltre la morali­tà borghese: «Il personaggio tragico rappresen­ta l’espiazione del peccato originale, dell’origi­nale ed eterno peccato di lui, e di tutti i suoi socii malorum: il peccato di essere nato».
Insomma, è leggendo e interpretando Proust, che Beckett impara a essere Beckett. Che Beckett incontra se stesso. E, nel farlo, quasi per caso, ci mostra la vera faccia della Recherche: un’opera dantesca nella sua ambizione di distribuire orri­bili castighi ai personaggi, ma anche shakespea­riana nella capacità di mettere in scena tragedie che dicono tutto ma non insegnano nulla. Biso­gna avere fiducia nei grandi pugili.

il Riformista 22.4.09
Pd, un anno per salvarsi o estinguersi
di Stefano Cappellini


Elezioni. Parte male il test di giugno: dopo il lancio flop delle amministrative, ieri varate liste europee in saldo. Rinvio sulla collocazione europea e pura tattica sul referendum (sì al buio). Tutto è congelato in vista di ottobre, quando si riaprirà la sfida per la leadership. Ma se alle regionali del 2010 non si inverte la tendenza...

Assenze e diserzioni, sabato scorso a Cinecittà, all'iniziativa di lancio della campagna elettorale per le amministrative. Disillusione e sarcasmo, ieri, alla riunione della direzione che ha ufficialmente licenziato le liste democratiche per le europee, votate all'unanimità, sebbene l'aggettivo più gentile che a microfoni spenti i principali associano alla loro composizione sia «imbarazzanti»: nessun big candidato, pochi nomi forti e molti «pensionamenti di lusso», a dirla con le parole di Mercedes Bresso. Per essere la tornata elettorale in cui il Pd si gioca molto del suo futuro - e il segretario Dario Franceschini pure - non si può dire che l'avventura sia partita col piede giusto.
Non è ancora chiaro nemmeno su quali banchi si sistemeranno a Strasburgo gli eurodeputati democrat. Nella sua relazione Dario Franceschini ha spiegato che vanno avanti i colloqui con il Pse per la formazione di un gruppo con un nuovo nome, ma ha anche aggiunto che se la trattativa non dovesse andare a buon fine il Pd sceglierà di fare gruppo a sé in Europa. Per Piero Fassino, fautore dell'abbraccio coi socialisti, è un bene che gli abboccamenti col Pse siano «a buon punto». Per Paolo Gentiloni, che preferirebbe autonomo a Strasburgo, è un bene che il segretario abbia messo in campo l'ipotesi di andar da soli. Nel Pd odierno funziona così: ciascuno vede quel che vuol vedere. Il resto - la sostanza, le scelte di fondo, in una parola: la politica - è congelato in attesa del congresso di ottobre.
Come dimostra al massimo livello la vicenda del referendum elettorale. Il Pd ha trovato il modo di prendere posizione senza in realtà prenderla. A netta maggioranza (solo una manciata i voti contrari, tra cui quelli di Franco Bassanini e Linda Lanzillotta) ha prevalso la tesi del sì al quesito neomaggioritario di Guzzetta e Segni. I vertici del partito si sono però ben guardati dall'entrare nel merito della questione. Franceschini ha infatti chiesto con foga il ritiro di un ordine del giorno, scritto dal dalemiano e neo-candidato europeo Roberto Gualtieri, che impegnava già da ieri il Pd a spiegare per quale legge elettorale si sarebbe poi battuto in Parlamento dopo l'eventuale vittoria dei sì. Passaggio cruciale quest'ultimo, dato che tutti, Franceschini compreso, concordano nel definire «insoddisfacente» la riforma che sortirebbe dalla urne. Risultato: il Pd darà indicazione di voto per il sì senza sapere dove andare a parare a urne chiuse e senza alcuna garanzia che dall'altra parte ci sia interesse ad aprire un tavolo comune. Anche in questo caso è la tattica a prevalere su tutto il resto. Aver fissato la consultazione al 21 giugno, insieme ai ballottaggi delle amministrative, rende improbabile - sebbene non impossibile - il raggiungimento del quorum. Che è poi lo scenario in cui confidano i convertiti dell'ultim'ora al sì, come Franco Marini e Massimo D'Alema.
Gli unici spostamenti strategici sono quelli in vista delle assise autunnali. Pierluigi Bersani è in già pre-campagna. Ha preso carta e penna per rispondere su Europa a Francesco Rutelli sul valore della parola «sinistra»: «È una parola che non puoi lasciare incustodita perché esprime un significato che esiste in natura: l'idea dell'uguale libertà e dignità di tutti gli uomini». L'ex ministro dello Sviluppo è deciso a candidarsi comunque alla segreteria, nella convinzione che Franceschini non sarà in grado di difendere la sua leadership di transizione dal risultato delle elezioni di giugno e dal clima interno, tornato di nuovo a livelli di abulìa dopo lo slancio delle prime settimane post-Veltroni. Non è un mistero che potrebbe essere il risultato delle amministrative a mettere più in difficoltà Franceschini: non basterebbe avvicinarsi al 30 per cento alle europee se poi il 7 giugno il Pd perdesse la metà e più delle giunte dove governa. Il colpo sarebbe davvero micidiale, soprattutto in vista delle regionali del 2010, quando si partirà dalll'11 a 2 del 2005 e con la possibilità che quel risultato sia quasi ribaltato. Per il Pd non si tratterebbe più solo dell'ennesima sconfitta, ma di un vero e proprio pericolo estinzione.
L'unico rischio che il principale partito d'opposizione non sembra correre è quello, pur paventato da molti, di dividersi in ex Ds ed ex Margherita al momento della conta decisiva. Le carte sono ormai mischiate. Franceschini lavora a una cordata con Piero Fassino (per affidargli magari la presidenza) e Walter Veltroni (per promuovere vicesegretario un "giovane" di area). Bersani cercherà senz'altro di mettersi in ticket con un ex popolare (Letta? Bindi?) e di coinvolgere in qualche modo Romano Prodi. Ma deve già da ora stare attento a non perdere pezzi. Se Bersani ha scritto a Rutelli per disquisire di «sinistra» è anche perché sa bene che c'è chi nel partito aspetta solo la sua elezione alla leadership per denunciare la definitiva trasformazione del Pd nell'ennesima Cosa post-comunista e tuffarsi in qualche iniziativa neocentrista.

il Riformista 22.4.09
La laicità è più della polemica con la Chiesa cattolica
di Biagio Di Giovanni


L'Italia ha avuto un pensiero laico di altissimo livello europeo, spesso in posizione di avanguardia. Un pensiero che ha attraversato tutta la modernità, e che non ha mai trovato adeguata rappresentazione nella dimensione più propriamente politica

Che cos'è la laicità? È qualcosa di molto più ampio di una polemica, per quanto aspra, nei confronti della Chiesa cattolica, avverte Michele Ciliberto, curatore di un bel volume elegantemente intitolato al tema: "Biblioteca laica. Il pensiero libero dell'Italia moderna" (Laterza 2008). E il primo commento che viene spontaneo al lettore, è che l'Italia ha avuto un pensiero laico di altissimo livello europeo, spesso in posizione di avanguardia: a opera di quella intellettualità italiana cosmopolitica che dall'umanesimo in poi ha contribuito a fare l'Europa. Un pensiero, quello laico, che ha attraversato tutta la modernità, e che forse non ha mai trovato una adeguata rappresentazione nella dimensione più propriamente politica. Come se i pensieri che hanno percorso la cultura e la vita civile si inaridissero a contatto con un potere che raramente si è collocato alla loro altezza, pure per i ritardi nel farsi l'Italia nazione. Per cui i discorsi di Cavour sulla libera Chiesa in libero Stato, pronunciati in Parlamento fra il marzo e l'aprile del 1861, poco prima della morte (e riportati a conclusione del volume), restano esempio raro di una coscienza politica laica cristallina, che rapidamente declinò verso deboli compromessi istituzionali. La storia della Chiesa ha costituito un ostacolo per la storia dell'Italia nazione secondo l'idea di Machiavelli, non di un agitatore sconsiderato: ma si è perso il seme del problema. Ne ha ritardato l'unità, prima operando attraverso la separazione, sottraendo parti di legittimazione allo Stato, lasciandolo guardare come una mera macchina di potere; poi, attraverso una costante invasione di campo (rare le eccezioni: il grande Giovanni XXIII su tutti) che fa del nostro Paese qualcosa di unico nel panorama europeo su questo tema. E qui tutti hanno avuto le loro responsabilità, soprattutto quella sinistra che intese costruire un aspetto del compromesso sociale e politico con la costituzionalizzazione dei Patti lateranensi, condizione privilegiata per la Chiesa, cui non corrisponde, per essa, una uguale serie di doveri civili.
Ma torniamo al libro, che consiglio soprattutto, al giovane lettore, di tenere sul comodino, ogni sera qualche pagina da leggere. «Nella laicità - scrive Ciliberto - si è espressa una vera e propria concezione della sapienza - quella mondana, civile che appare in modo luminoso nei testi qui adunati. Se si vanno a leggere i capisaldi di tale cultura, ci imbattiamo in concetti decisivi come quelli di legge, di conflitto, di eguaglianza, di dissimulazione, di bisogno, di libertà di stampa, di opinione pubblica, fino all'argomentazione del rifiuto della tortura e della pena di morte». Laicità, dunque, come sapienza mondana, dove si affollano i temi della condizione umana finita, che si muove fra necessità, libertà e dubbio, tra virtù e fortuna, che accetta di stare nel mare della vita, sapendo che «gli uomini non comandano alle stelle», come scriveva Machiavelli, o che «gli uomini sono al buio delle cose», come diceva lo scarno Guicciardini, e che «le religioni nascono, crescono e muoiono», come insegnava Pietro Pomponazzi. Gli straordinari frammenti sulla religione di fra' Paolo Sarpi, che, liberamente religioso, paventava quei pensieri che rendevano gli avvenimenti «più soggetti alla provvidenza che alla disposizione umana». E la "libertas philosophandi" nasce in questo orizzonte, conquista combattendo la sua autonomia, per cui «chi proibisce ai Cristiani lo studio della filosofia e delle scienze proibisce loro anche di essere cristiani», come scriveva fra' Tommaso Campanella, dal carcere dell'inquisizione contro le pretese della Chiesa di allora. E Giordano Bruno, con eroico furore, scelse di morire per non abiurare alla sua convinzione.
Insomma, il senso di una sapienza assai umana, premessa di vita civile, che contribuì alla rappresentazione di una cultura non preda di un relativismo algido e agnostico, ma che pose pure le basi di quella religione civile capace di costruire istituzioni, la religione civile che va da Machiavelli a Francesco De Sanctis e a Bertrando Spaventa. Proprio questa sapienza diventa rispettosa della vita, fonte di istituzioni umane. Essa condanna, nelle pagine di Beccaria, con anticipo su tutta Europa, la pena di morte e la tortura, condanna motivata nell'autonomia della vita morale. E poi afferma la necessità della educazione pubblica, della libera stampa, del conflitto da cui nasce armonia, di una autonoma costituzione politica, di una legge che spezzi i privilegi, e di una religiosità cristiana intrinsecamente non clericale, come nelle pagine di Alessandro Manzoni dedicate al tema della responsabilità umana. Insomma, una grande Italia, di cui qualche volta ci dimentichiamo, persi nelle nostre controversie quotidiane, in alcune miserie presenti e passate, o supini rispetto a visioni che riportano indietro la nostra coscienza civile, quasi che la religione non dovesse germinare dall'interno della nostra viva umanità, ma si scandisse in un suo tempo separato come un recinto del sacro da cui promanano i custodi della verità.

il manifesto 22.4.09
Fini e Bertinotti, la "strana coppia"
di Clementina Colombo


Chi avrebbe immaginato, anche solo un paio d'anni fa, di leggere su un giornale di sinistra, in occasione del 25 aprile, un editoriale firmato da Gianfranco Fini? E chi avrebbe creduto possibile che quell'editoriale fosse a fianco di un altro articolo di fondo, per la penna di Fausto Bertinotti?
Il presidente della camera e il suo predecessore compaiono invece insieme sulla prima pagina di un quotidiano che ancora non è in edicola ma ci sarà presto, dal prossimo primo maggio: “l'Altro”, diretto da Piero Sansonetti. Il numero zero del nuovo giornale era stato distribuito, gratuitamente, il giorno della manifestazione dei metalmeccanici a Roma, 4 aprile. Questo secondo numero zero sarà a sua volta distribuito gratuitamente il 25 aprile.
Il pezzo forte, va da sé, è il lungo articolo dell'ultimo segretario del Msi. Un pezzo impegnato, in cui Fini ripete cose in parte già dette ma con una nettezza e una drasticità sinora inedite. La guerra civile del 1943-45, scrive Fini citando lo storico di sinistra Claudio Pavone, “portò allo scontro frontale tra due diverse idee di nazione. L'una, nutrita dal nazionalismo fascista, conduceva all'espansionismo, al razzismo e all'annullamento dei diritti dell'uomo. L'altra, indissolubilmente legata ai valori della libertà e della democrazia, portava alla costruzione di una nuova stagione di progresso civile per l'Italia”.
Certo, il leader di An (o di quel che ne resta) non rinuncia a segnalare la presenza di una componente non democratica nella Resistenza, ma lo fa con toni infinitamente distanti da quelli adoperati da Silvio Berlusconi. Prosegue infatti così: “Non c'è dubbio che l'idea 'giusta' di nazione fosse la seconda. Solo dopo averlo affermato senza reticenze si può poi rilevare che non tutto lo schieramento antifascista fosse ispirato da princìpi democratici. Si può rilevare che ci furono formazioni partigianeche videro il conflitto fascismo-antifascismo più come lotta di classe che come battaglia per la libertà della nazione”. E anche qui è marcata la suggestione delle tesi di Pavone, nel suo insuperato “Una guerra civile”.
Sia chiaro, la visione di Fini è distantissima da quella di Bertinotti che, al contrario, rintraccia proprio nella istanza egualitaria che animava la Resistenza il suo lascito più attuale e utile per ricostruire una sinistra distrutta. E tuttavia non c'è dubbio che tra la visione dei due inquilini di Montecitorio esista una base di valori condivisi, se non per quanto riguarda l'eguaglianza almeno sul fronte della libertà e della accettazione piena della democrazia.
Ed è altrettanto certo che, accettando l'invito di Sansonetti, Fini ha voluto prendere, nella maniera più plateale possibile, le distanze non tanto dai vari La Russa e colonneli vari quanto da Silvio Berlusconi e dalla sua ben più profonda e pericolosa ambiguità.