sabato 25 aprile 2009

l’Unità 25.4.09
Con Charcot al gran teatro dell’isteria
Uno studio di Georges Didi-Huberman sulle foto scattate al Salpêtrière alle donne che «studiò» il giovane Freud
di Raffaella D’Elia

Quell’inferno femminile, quella «città dolorosa» confinata in piena belle époque nell’ospedale psichiatrico della Salpêtrière, a Parigi, nell’ultimo trentennio del XIX secolo, diviene per Jean Martin Charcot il luogo ideale per dare forma e sostanza alla sua attitudine di medico e di artista. Quando nel 1862 diventa direttore dell’istituto che rinchiudeva dalle quattromila alle cinquemila folli, la sua ossessione, che incrocerà quella di Freud, disegna una parabola che dai corpi drammatici di queste donne, votati a rappresentare la visibilità di un sintomo, giunge a sfiorare i territori dell’arte, attraverso la contaminazione mai così promiscua di scientificità e irrazionalità, rigore e suggestione. Il suo tentativo di dare forma a quel tipo di follia tutta femminile chiamata «isteria» passò attraverso una certa modalità dello sguardo, che assieme a metodologie cliniche fortemente sperimentali, rese quel «museo patologico vivente» uno straordinario quanto spietato affresco non solo di una delle patologie psichiche più complesse, ma restituì il corpus emotivo di un luogo abitato e intimamente attraversato dalla follia e dai tentativi di governarla e curarla. Questo «spettacolo del dolore» poté inaugurarsi quasi come una forma d’arte, prossima al teatro e alla pittura, anche in virtù del rapporto ambiguo e irriducibile che andava delineandosi tra i corpi delle isteriche (che teatralmente accentuavano, anche attraverso l’ipnosi, gli attacchi, e pur nella menzogna ognuna inverando se stessa) e i medici, sempre insaziabili di immagini dell’«Isteria». E il mezzo scelto da Charcot per osservare la malattia e restituirne quella capacità infettiva in grado di plasmare vicendevolmente gli specialisti e le pazienti, fra i quali si sviluppò un’inevitabile gioco di seduzione dominato dalla ricerca di una ripetuta fascinazione, fu la fotografia: «Era la convinzione di potersene impadronire come un’arma, all’interno della lotta quotidiana contro il segreto di quei corpi femminili che i loro fasci di nervi sembravano voler custodire senza fine».
Dalla serie di immagini della Salpêtrière emergono tutte le diverse posture del delirio: dalle grida, alle pose, alle immagini d’estasi, ai celebri «atteggiamenti passionali», ora visibili nel lavoro di Georges Didi-Huberman, che all’esperienza di Charcot e dei suoi allievi ha dedicato il suo ultimo, straordinario libro, L’invenzione dell’isteria. Charcot e l’iconografia fotografica della Salpêtrière (a cura di Riccardo Panattoni e Gianluca Solla, Marietti 1820, euro 42).
LA SCENA E I GIRONI
Si apprende così come le celeberrime lezioni del martedì si trasformassero in vere e proprie rappresentazioni teatrali in cui il regista, lo stesso Charcot, davanti ad un pubblico sempre numeroso, provocava alle pazienti (elevate alla categoria psichiatrica da lui febbrilmente esaminata) veri attacchi d’isteria, con tutto il corollario dei segnali fisici che ciò comportava: le contratture, le afasie, le paralisi, gli accessi d’ira, gli scatti in preda all’agitazione e al delirio tipici della malattia che si credeva originata da un mal funzionamento dell’utero. E fu Augustine, una ragazza entrata in ospedale a quindici anni, il caso simbolo della Salpêtrière, la paziente preferita di Charcot, e attorno alla quale ruotano gli esperimenti più arditi e di cui rimangono le immagini più esplicative dell’impasto di ricerca e sperimentazione, fascino e crudeltà, che scelse i corpi intrattabili e ossessionati di queste donne come paradigma per una nuova decodificazione dell’immaginario, per la prima volta non solo clinico, ma affettivo, emotivo, umano, e non solo dell’isteria; e di cui Freud, di questa vera e propria «udienza» a porte chiuse, fu il testimone chiave.

Repubblica 25.4.09
Il 25 aprile di un liberatore, Riccardo Lombardi
Corrado Augias risponde a Carlo Partignani

Caro Augias, vorrei ricordare per il 25 aprile, il primo Prefetto di Milano liberata: Riccardo Lombardi, ingegnere socialista ritenuto dalla polizia fascista "di statura gigantesca, scaltro e preparato, persona pericolosissima" anche se "di malferma salute". Nel 1930 una squadraccia, a colpi di sacchi di sabbia, gli aveva lesionato un polmone. Dirigente del Cnlai, alla vigilia della Liberazione, alla presenza del cardinale Schuster mediatore della resa, aveva strappato la "resa senza condizioni" a Benito Mussolini. In un articolo sulla Rsi per 'Il Ponte' nel 1946 raccontò: «Mussolini è tutto in questo ultimo folle tentativo di rivolgere contro il popolo le armi, di ricreare una chance per il fascismo mettendolo al servizio dei reazionari occidentali, dopo averlo messo al servizio dei reazionari del Centro-Europa». Il 24 aprile 1974 invitato ad una Tribuna Politica sul referendum per il divorzio, rifiuta il 'faccia a faccia', con il leader dell'Msi-Dn, Giorgio Almirante. Spiegò: «Noi siamo disposti al dibattito, anzi lo sollecitiamo, con tutti gli avversari più risoluti, anche con coloro che sono stati fascisti, ma non con coloro che agiscono da fascisti oggi servendosi della libertà conquistata il 25 aprile, per distruggerla». Spiegò anche il suo 'No' all'abrogazione della legge sul divorzio: «L'indissolubilità del matrimonio è un fatto di coscienza individuale che non può esser imposto o demandato da nessuna autorità civile». È morto 25 anni fa.
Carlo Patrignani carlo.patrignani@agi.it

In autunno, quando ricorrerà l'anniversario esatto della morte (18 settembre 1984) bisognerà ricordarlo davvero questo siciliano di ferro (come La Malfa), figlio di un capitano dei carabinieri caduto in servizio quando aveva 3 anni, allevato dai gesuiti, entrato in politica con i 'popolari' di don Sturzo, poi socialista. Anzi leader della corrente di sinistra del partito socialista insieme a Giolitti e a Giorgio Ruffolo. Proprio a Ruffolo, che ha lavorato a lungo con lui e lo ha conosciuto bene, ho chiesto di descriverlo brevemente con qualche parola che ne fissasse almeno un tratto fondamentale del temperamento, della visione politica. Ha risposto così: "Vorrei proprio vedere come va a finire. Peccato che devo andarmene". Così mi disse non molti giorni prima della morte. Si riferiva a una delle tante vicende che lo appassionavano. Gli capitava spesso. Era curioso: di leggere, di conoscere, di scoprire. Viveva il presente come storia. E aveva contribuito a scriverla. Ma di questo non parlava. Del passato parlava poco. Era il futuro che lo interessava. E non recriminava. Non dava giudizi sprezzanti su questo nostro paese, Nemmeno sui fascisti che gli avevano rotto le ossa. C'erano uomini così una volta nei partiti della sinistra.

Repubblica 25.4.09
Il nuovo volto del duce a Salò
Alle radici della Repubblica Sociale
"Non fu ostaggio ma complice di Hitler"
di Simonetta Fiori

Nei documenti tedeschi un profilo diverso dall´uomo spaurito che si sacrifica cedendo al Führer
Un saggio indaga le gravi responsabilità della Rsi, mentre una recente proposta di legge la riabilita
Fin da principio Mussolini era determinato nel servire il Terzo Reich
Vassallo scontento protesta su tutto tranne che sulla persecuzione degli ebrei

Nella memorialistica ma anche nella storiografia più seria ha attecchito per anni la leggenda del gesto sacrificale di Mussolini nel dare vita alla Repubblica di Salò, il 23 settembre del 1943. Lo si ritrae smarrito e fisicamente depresso, mentre al cospetto di un Führer inferocito cede al crudele ricatto tedesco - "o accetti di formare un governo fascista o sarà spietata la nostra vendetta". Tesi resa più enfatica e celebrativa nelle testimonianze littorie, ma in parte accolta da storici rigorosi e non certo indulgenti nei confronti della Repubblica di Salò come Pierre Milza e Renzo De Felice. Se alle fonti di parte italiana si affiancano le testimonianze tedesche, finora inedite o poco conosciute, la figura di Mussolini acquista forza e risolutezza nel costruire un regime dal volto ferrigno e vendicativo, da cui pensava velleitariamente di trarre molti vantaggi. Non più ostaggio di Hitler o spaesato condottiero di Salò: gli archivi di Berlino, Coblenza, Friburgo e Monaco disegnano un politico combattivo, collaborativo fin dal primo istante, consapevole di essere soltanto uno strumento al servizio della grande macchina tedesca, ma non per questo più cauto nell´azione. Non dunque "scudo" per il suo paese - approfondisce una nuova e interessante ricerca di Monica Fioravanzo - ma al contrario mero paravento istituzionale della volontà nazista (Mussolini e Hitler, La Repubblica sociale sotto il Terzo Reich, Donzelli, pagg. 216, euro 16, in libreria il 30 aprile).
La "saggina" di Donzelli affronta un nodo irrisolto d´un paese che ancora fatica a fare i conti con l´esperienza della Rsi. Nonostante i libri fondamentali di Enzo Collotti e Frederick William Deakin, nonostante la preziosa bibliografia di Giorgio Bocca e nell´ultimo ventennio di Luigi Ganapini, Lutz Klinkhammer, Michele Sarfatti e molti altri, la memoria di Salò è come avvolta in una nebbia che ne confonde i tratti essenziali, celebrata dai suoi eredi nostalgici - è accaduto ieri a Roma con i manifesti inneggianti alle sue formazioni - e anche inopinatamente rivalutata nel discorso pubblico grazie a importanti cariche , quali il ministro della Difesa Ignazio La Russa. "Regime languente e ferito", lo definisce una recente proposta di legge promossa da parlamentari del Partito della Libertà, che chiede l´istituzione di un´onorificenza sia per i partigiani che per i combattenti di Mussolini, con motivazioni a ricalco della propaganda di Salò. Proposta di legge che raccoglie i favori anche del sindaco Gianni Alemanno e dalla sua parte politica nel consiglio comunale romano.
Che cosa abbia rappresentato quel "regime languente e ferito" nella storia italiana viene ricordato ora dal saggio della Fioravanzo, che indaga il nodo fondamentale delle origini della Rsi, rovesciando la tesi del presunto sacrificio di Mussolini. Alla dolente testimonianza raccolta da Carlo Silvestri del duce "implorante e umiliato" al cospetto del Führer - principale fonte di cui si nutre la "tesi sacrificale", documento dimostrato nella sua sostanziale infondatezza - la studiosa contrappone alcune carte tedesche, finora sconosciute nella versione integrale, che raccontano nel dettaglio quel primo incontro a Rastenburg, il 14 settembre del 1943, tra il capo del Terzo Reich e il duce italiano appena liberato dal Gran Sasso. Il telegramma scritto dallo staff personale di Heinrich Himmler e la Relazione sul trasferimento del duce al quartier generale del Führer accreditano un Mussolini lucido e fattivo, che si mette subito al lavoro, "in una condizione fisica e spirituale eccellente", come annota Goebbels nel suo diario. La ricostruzione suggerita da Fioravanzo ritrae un politico determinato, che caparbiamente sceglie di "tornare al combattimento", persuaso dell´invincibilità della Germania. Una scelta velleitaria e irresponsabile che avrà il solo effetto di fortificare l´occupazione di Hitler in Italia.
Fin dagli esordi, quella che dal primo dicembre 1943 avrebbe assunto ufficialmente il nome di "Repubblica Sociale Italiana" mostrò una sovranità limitata e un potere del tutto fittizio. "L´alleato occupato", è la felice sintesi suggerita da Lutz Klinkhammer. I documenti tedeschi raccolti in Mussolini e Hitler mostrano il lucido disegno del Füher di usare il suo vassallo al fine di sfruttarne le risorse, amministrative e industriali. Tra i documenti meno noti, figura una missiva riservata spedita dal ministro Albert Speer a Hitler nel settembre del 1944, dalla quale si ricava che tra le poche "aree produttive" per il Reich restano in Italia "la zona a Sud delle Alpi" e "le terre ad Est di Trieste". Di questa "rapina" Mussolini e il suo entourage sono perfettamente consapevoli. Ma sarebbe sbagliato - insiste il saggio - ricavarne l´immagine di un duce vittima inerme di una Führung nazista prepotente e prevaricatrice. «Il gioco era chiaro fin dall´inizio, e Mussolini accettò di svolgere una parte in una pièce di cui conosceva bene i ruoli». Fino alla fine fedele al camerata tedesco.
Vassalli irrequieti e talvolta riottosi, dinanzi all´ingerenza tedesca i gerarchi di Salò non rinunciano a un sommesso borbottio. In tutti i campi, tranne che in uno: la persecuzione degli ebrei. Significativo - sottolinea Fioravanzo - il silenzio di Mussolini e del suo governo sugli arresti e la deportazione degli ebrei verso i campi di sterminio. Anzi, dalla metà di novembre, nel 1943, superata una prima fase di assestamento, il governo di Salò partecipa attivamente alla Soluzione Finale, approntando misure legislative che accolgono l´apprezzamento tedesco e mobilitando le proprie forze di polizia in una campagna di deportazione scientificamente studiata insieme all´alleato nazista. «La politica antisemita della Rsi», sostiene Fioravanzo, «fu di fatto l´unica che vide sorgere una fattiva collaborazione tra tedeschi e fascisti, scevra da motivi seri di tensione». In altre parole, nella caccia agli ebrei si dispiegò l´unico potere incontrastato di Mussolini. Altro che "scudo" a protezione dell´Italia. E altro che "regime ferito e languente", che parte del Parlamento Italiano vorrebbe oggi celebrare.

Corriere della Sera 25.4.09
L’ex dirigente cinese silurato dal regime: «I fatti dell’89 restano un tabù»
Il comunista che voleva evitare la strage di piazza Tienanmen
Bao Tong, dal carcere all’isolamento: «Sono una non persona»
di Marco Del Corona

PECHINO — Una piazza e una data abitano la mente di Bao Tong. «Non credevo che avrebbero impiegato le armi. Pensavo a forme d’intimidazio­ne. Mettere paura agli studen­ti, farli tornare nei campus. Mai avrei pensato che Deng Xiaoping avrebbe scelto i carri armati. Uccidere e poi afferma­re ufficialmente che l’uso della forza era giusto: intollerabile. Provo quanto provavo allora. Lo stesso sentimento».
Tienanmen, 4 giugno 1989. Vent’anni fa Bao Tong era assi­stente di Zhao Ziyang, il segre­tario del Partito comunista. E Bao Tong il 28 maggio — con Zhao già esautorato da Deng — fu arrestato, il più alto della gerarchia comunista a finire in carcere per i fatti di quella pri­mavera. Per giorni niente gior­nali, seppe del sangue una set­timana dopo. E vennero 7 anni di galera.
Il condominio non è lonta­no dal ponte di Muxidi, dove tra il 3 e il 4 giugno fu battaglia ad armi impari. In casa c’è il si­lenzio che serve a un uomo di 76 anni, un pianoforte, un ta­pis roulant. Incongruamente, un cuscino di Winnie the Po­oh. La foto sorridente del «mio grande amico» Zhao Ziyang, morto nel 2005. Qui Tienan­men non è un tabù: «Certo, in Cina il 4 giugno lo è. Partito, governo, tv e giornali, lo san­no che è stato un errore, una tragedia e un crimine. Per que­sto viene tenuto nascosto. Si governa accettando la menzo­gna come voce ufficiale. Caso mai si parla di 'eventi sfortuna­ti' ».
La Cina si prepara al ventesi­mo anniversario della Tienan­men nel segno di un’indifferen­za apparente che piace alle au­torità. Sotto, resistono scheg­ge di memoria: «Per il popolo sono fatti che suscitano gran­de paura. 'Loro' non fanno che indicare il 4 giugno come un momento a cui è seguito un periodo di grande stabilità. Beh, se si ritiene che questo sia il modo più efficace per risolve­re le instabilità... C’è la crisi? E perché non esportare il nostro modo per risolverla? Il biso­gno di prosperità e di stabilità è dal popolo stesso che arriva, il governo è venuto dopo. È la gente ad aver annullato la men­talità da comune popolare ma­oista ».
Oggi non c’è la Cina che vo­leva Zhao Ziyang, prima dello scontro fatale con Deng Xiao­ping e con il premier Li Peng. Per Bao Tong la vera innovazio­ne «venne da Zhao, dalle sue ri­forme in Sichuan dal ’78 all’80, Deng si è limitato a un control­lo politico sull’economia». Ma esiste nella leadership qualcu­no che, senza dirlo, porta con sé valori e aspirazioni dell’89? Bao Tong, decano dei dissiden­ti, forse lo pensa ma non lo di­ce, «come sotto Mussolini e Hi­tler qui si vive una dicotomia fra l’essere e il poter ammette­re », però sorride, e forse qual­cuno c’è. E se nei mesi scorsi alcuni scritti di Bao sono circo­lati su Internet, accessibili in inglese, quasi che qualcuno di potente l’avesse tutelato, lui scuote il capo: «Io non ho ami­ci, sono una non persona».
Inaccessibile per i media ci­nesi, le autorità ritengono Bao Tong abbastanza inoffensivo da consentirgli di parlare con gli stranieri, salvo chiusure im­provvise, e lui lo sa: «Sono un oggetto in vetrina. Il governo crede così di dare prova di apertura all’Occidente. Con i ci­nesi invece si ostina a negare posizioni diverse da quelle uffi­ciali. Charta 08, per esempio (una lettera sulla democrazia, firmata da migliaia di intellet­tuali e cittadini, ndr): è un’in­terpretazione allargata dell’arti­colo 2 della Costituzione. Ma al­lora, se Charta 08 è stata consi­derata illegale, come mai non si mette al bando anche la Co­stituzione?». Un agente in bor­ghese in portineria, telefono controllato, libertà vigilata: «La mia speranza è anche la mia libertà, ed è sapere che se il maoismo sarà definitivamen­te sovvertito arriveranno de­mocrazia e libertà per tutti i ci­nesi. Abbiamo cambiato il per­corso economico e riusciremo a cambiare anche quello politi­co. Ci vorrà un giorno, vent’an­ni, chissà, ma la Cina cambie­rà. E io sono libero di sperare».

Corriere della Sera 25.4.09
Stili di vita Ricerca dell’Istituto nazionale demografico di Parigi. Il 46% si vede in sovrappeso
Rapporto sul corpo delle donne: ossessione francese per la magrezza
Le italiane subito dopo le transalpine. Inglesi «tonde» e soddisfatte
di Alessandra Mangiarotti

MILANO — È come se si guardassero in uno specchio de­formante: le francesi sono le donne più magre d’Europa ep­pure si vedono più grasse di quello che sono. Le inglesi, al contrario, in compagnia di por­toghesi e spagnole, si considera­no in forma anche quando sfog­giano qualche chilo in più del dovuto.
La bilancia è sempre più nel­la testa di chi la legge. E la sua taratura è sempre di più legata alle mode, alle politiche sociali e agli stili di vita dei singoli Pae­si. A dirlo è un’indagine del­­l’Istituto nazionale di studi de­mografici (Ined) francese. Una ricerca che ha messo sotto la lente l’indice di massa corporea di donne e uomini dell’Europa dei Quindici (16.300 in tutto): francesi, italiani (al secondo po­sto) e austriaci sono i più ma­gri; inglesi, olandesi e greci i più corpulenti. E ha incrociato il peso reale con quello ideale, o quantomeno con quello per­cepito.
Le differenze tra Paese e Pae­se sono tante. E significative. Ma l’insoddisfazione pare esse­re trasversale: quasi un euro­peo su due (il 45% per l’esattez­za) si dichiara non contento del suo peso. Ci sono quelli che si vedono (e giudicano) con qual­che chilo di troppo. La maggior parte: il 40 per cento. E quelli che si considerano invece sotto­peso. Pochi: solo il 5 per cento.
Ca va sans dire: «Le più insod­disfatte sono proprio le donne» sentenzia lo studio firmato dal francese Thibaut de Saint Pol. Sono il 51 per cento rispetto al 39 di uomini scontenti. «Ben­ché gli uomini siano più in so­vrappeso o addirittura obesi ri­spetto ai parametri di riferimen­to indicati dall’Organizzazione mondiale della Sanità». E ag­giunge: «Più l’indice di massa corporale aumenta, più il nume­ro di persone che trovano il lo­ro peso troppo basso diminui­sce e al contrario quello delle persone che lo trova troppo ele­vato cresce».
Anche il motivo dell’insoddi­sfazione non è lo stesso. Gli uo­mini vorrebbero essere più massicci: «Una corpulenza im­portante è considerata un se­gno di forza». Le donne più ma­gre: «In Europa le donne che considerano il loro peso eccessi­vo sono il 46 per cento». Un’in­soddisfazione, sottolinea la ri­cerca, che spesso dura una vita. Dall’adolescenza alla piena ma­turità. E a storcere il naso da­vanti alla bilancia sono soprat­tutto le donne che hanno un pe­so ideale.
Il primato, come detto, va al­le francesi. «Il loro ideale di pe­so è il più basso d’Europa, se­gno forse di una pressione più forte esercitata sul corpo nel lo­ro Paese», si legge nella ricerca. In Europa, l’indice di massa cor­porea (Imc) è in media 24,5 per le donne e 25,5 per gli uomini. Sotto il 18,5 scatta la luce rossa: sottopeso. Le donne francesi, il cui Imc medio è di 23,2, pesano meno delle altre donne euro­pee e non si sentono sottopeso quando il loro Imc è inferiore al­la soglia minima di 18,5. Su die­ci donne sottopeso, solo cinque si considerano tali, le altre si ri­tengono nella norma. La situa­zione è simile per quanto ri­guarda gli uomini francesi: an­ch’essi hanno un’ideale di peso inferiore rispetto ai loro vicini europei. L’Imc ideale per i fran­cesi è 22 contro 22,6 della me­dia europea. «In Francia — af­ferma Thibaut de Saint Pol — le donne che si considerano sotto­peso sono due volte meno nu­merose di quelle che effettiva­mente lo sono». In Portogallo, Spagna e Regno Unito succede l’inverso: «In questi Paesi sono più numerose le donne che si giudicano sottopeso senza es­serlo effettivamente. Visto che la percentuale di signore sotto­peso è più di tre volte inferiore a quella francese». Il segno, con­clude l’indagine, che in Francia la donna sottopeso «è partico­larmente apprezzata».

Corriere della Sera 25.4.09
Civiltà Conciliare diritto e morale: un viaggio nella storia delle idee.
Etica o Ragion di Stato? Alle origini della democrazia
Da Cicerone a Marx il conflitto tra coscienza e legalità
di Claudio Magris

La democrazia è — certo non soltanto, ma comunque anche — la regola che si basa sul criterio di contare le teste, sistema probabilmente scadente ma, come diceva Einaudi, il meno peggio, visto che l’unica alternativa è quella di spaccare le teste. Ma talvolta può essere vero quello che grida il dottor Stockmann nel Nemico del popolo di Ibsen: «La maggioranza ha la forza, ma non la ragione!». E allora bisogna obbedire alle «non scritte leggi degli dei» anche contro leggi emanate da uno Stato democratico, da rappresentanti di una maggioranza regolarmente eletta.
Anche Hitler è arrivato in certo modo legal­mente al potere. A questo punto sorge un interro­gativo terribile, a sua volta tragico: come si fa a sapere che quelle leggi non scritte sono veramen­te degli dei, cioè principi universali? Siamo giusta­mente convinti che l’amore cristiano del prossi­mo, i postulati dell’etica kantiana che ammonisce a considerare un individuo sempre come un fine e mai come un mezzo, i valori illuministi e demo­cratici di libertà e tolleranza, gli ideali di giustizia sociale, l’uguaglianza dei diritti di tutti gli uomini in tutti i luoghi della terra, siano fondamenti uni­versali che nessuno Stato può violare.
Ma sappiamo pure che spesso le civiltà — an­che la nostra — hanno imposto con violenza ad altre civiltà dei valori che esse ritenevano univer­sali- umani e che erano invece il prodotto secola­re della loro cultura, della loro storia, della loro tradizione, che era semplicemente più forte. E se la maggioranza non ha ragione, come grida Stock­mann, è facile cadere nella tentazione di imporre con la forza un’altra ragio­ne, che a sua volta ha solo la forza. La disobbedienza a Creonte comporta spesso tragedie non solo per chi di­sobbedisce, ma anche per altri inno­centi, travolti dalle conseguenze.
La coscienza, soprattutto per ribel­larsi con fondamento, deve appellar­si a principi che trascendono la con­tingenza e la relatività di quel mo­mento storico e dell’assetto politi­co- sociale in cui vive l’individuo che si ribella in nome della coscienza.
Esponendo la dottrina stoica del dirit­to naturale, Cicerone, nel De Republi­ca, parla di una «vera legge, confor­me a natura, universale, costante ed eterna... legge alla quale l’uomo non può disobbedire senza fuggire sé stes­so e senza rinnegare la natura uma­na ». Questo diritto di natura, che sen­te l’umanità come comunità universa­le, passa al Cristianesimo e col Cor­pus Iuris Civilis «felicemente ordina le cose divine e umane e pone fine al­l’iniquità », secondo le parole attribui­te allo stesso Giustiniano. Col Cristia­nesimo il diritto naturale si identifica con quello contenuto nel Vangelo e acquista una dimensio­ne ontologica, immedesimandosi con l’ordine della natura creato da Dio, che nessuna legge po­sitiva può violare senza perdere la sua legittimi­tà. Le leggi positive ingiuste, scrive San Tomma­so, non sono propriamente leggi e ad esse non è dovuta alcuna obbedienza; anzi, l’uomo onesto ha il diritto e il dovere di ribellarsi contro di esse. In un itinerario complesso e contraddittorio, come sottolineano Alessandro Passerin d’En­trèves e Norberto Bobbio, e in un processo di progressiva laicizzazione, il diritto di natura — attraverso Grozio, Pufendorf e altri — si collega idealmente, pur senza identificarsi con essi, con i diritti civili della modernità liberale e democra­tica. Per Locke, il filosofo della tolleranza e dei diritti civili, uno Stato autoritario nega la natura stessa dell’uomo. La Dichiarazione americana del 1776 proclama che tutti gli uomini sono crea­ti uguali e dotati dal loro creatore di alcuni dirit­ti inalienabili, tra i quali la vita, la libertà e il per­seguimento della felicità; anche quella francese del 1789 parla di diritti inalienabili e sacri dell’uo­mo. Due dichiarazioni rivoluzionarie, che si ac­compagnano infatti a due rivoluzioni e teorizza­no, come fa esplicitamente l’americana, il diritto alla rivoluzione, proclamando esplicitamente che quando qualsiasi forma di governo calpesti quei principi, è diritto del popolo cambiare o ab­battere quella forma di governo. Thoreau teoriz­zerà la Civil Disobedience, il «diritto alla rivolu­zione », come egli dice espressamente, e il prima­to dell’individuo sullo Stato. Questa libertà etica e politica diviene un modo di essere, una moda­lità esistenziale e poetica; la libera vita nei bo­schi di Walden, il fraterno incontro con tutti gli esseri viventi.
Ma contro il diritto di natura si levano molte altre voci, le quali contestano la stessa idea di una «natura costante, universale ed eterna». Hu­me dice che «la parola naturale è comunemente presa in un sì gran numero di significati, ed è di un senso così incerto, che sembra vano il disputa­re se la giustizia sia o no naturale». Per Hobbes, lo stato di natura non è un idillio arcadico, bensì un bellum omnium contra omnes che deve esse­re corretto e dunque contrastato dalle leggi. Hob­bes scrive invece che «quando non vi erano anco­ra leggi, non vi era nemmeno ingiustizia; perciò le leggi sono per natura loro anteriori sia alla giu­stizia sia all’ingiustizia». Anche Leopardi conte­sta radicalmente il diritto «che si crede natura­le » e che invece a suo avviso è «pura convenzio­ne », frutto di «opinione» e di contingenze stori­che o errori logici.
In questa prospettiva, il nesso fra diritto e mo­rale viene infranto; il diritto naturale viene re­spinto quale arbitrario dover essere in nome del­l’essere, delle cose così come sono e del modo oggettivo di gestirle. Nessuno come Hegel ha di­sprezzato l’antagonismo «tra ciò che dovrebbe essere e ciò che è» e dunque il diritto naturale, che egli considera una idealità astratta, inferiore a quella superiore moralità che è l’esistenza con­creta dello Stato. E lo Stato, nel suo esercizio del­la forza e della violenza, può essere giudicato so­lo dalla Storia, perché solo la Storia universale è il tribunale e anzi il giudizio universale.
Questa concezione del diritto s’incontra pure con la letteratura; nella tragedia Agnes Bernauer di Hebbel (1855), pervasa di pathos hegeliano e storicista, la purissima e innocente protagonista e il suo amore vengono brutalmente sacrificati alla Ragion di Stato; i suoi carnefici, come il suo­cero Ernesto duca di Baviera, venerano la sua dolcissima umanità e soffrono di doverla stron­care, ma ritengono che tale azione e tale colpa siano necessarie e dunque giuste nel quadro di una prospettiva storica che trascende il singolo individuo. «La ruota grande le è passata sopra — dice il duca Ernesto — ora ella è presso Colui che la gira».
È interessante notare come il conflitto fra leg­ge, intesa quale istanza superiore e necessaria della Ragion di Stato, e principi etici assoluti, sia affrontata in modo antitetico, per restare nel campo degli esempi letterari, in un dramma di Grillparzer che, nonostante l’anticlericalismo dell’autore, è pervaso dalla tradizione cattolica del diritto naturale: nell’Ebrea di Toledo (1850-51) i nobili spagnoli — che per la Ragion di Stato hanno ucciso la bellissima amante che rendeva ignavo il re, mettendo così in pericolo il Paese — non si pentono di aver commesso quel delitto che essi ritengono necessario, però a lo­ro avviso la sua necessità non lo giustifica ed es­si si sentono e dichiarano colpevoli, peccatori e pronti ad espiare: hanno agito — dicono — vo­lendo il bene, ma non il diritto, non ciò che è giusto. Le «non scritte leggi degli dei» ovvero gli inalienabili diritti umani vengono accusati di astrattezza ideologica e moralistica, cui viene contrapposta la realtà della storia e la concreta storicità di ogni condizione umana, inevitabil­mente diversa. John C. Calhoun, eminente poli­tologo e uomo politico statunitense della prima metà dell’Ottocento studiato in un notevolissi­mo libro di Massimo L. Salvadori, attacca l’ideo­logia egalitaria della Dichiarazione americana del 1776 e in particolare il suo principio secondo il quale tutti gli uomini nascono liberi ed eguali. L’eguaglianza, osserva Salvadori, è per lui «con­tro natura», una falsificazione che inquina la na­tura; egli dice dunque anche significativamente che non nascono uomini, bensì bambini, che per lui non hanno ancora diritti.
Analogamente, nella Germania settecentesca Justus Möser, il patriarca di Osnabrück, difende­va contro gli illuministi la servitù della gleba e le istituzioni tramandate dai secoli, che stabilivano disuguaglianze d’ogni genere, così come Burke opponeva all’uguaglianza illuminista e rivoluzio­naria la diversità dell’uomo storicamente e con­cretamente determinato. Non a caso Möser di­fendeva non solo la servitù della gleba, ma an­che l’individualità letteraria contro i principi di una Ragione universale pericolosamente ugua­gliatrice pure del gusto e della fantasia.
Ma questi storici conservatori, nemici del­l’uguaglianza e talora acuti difensori della diver­sità, scambiano un dato di fatto per un diritto, come se patire una menomazione o un’ingiusti­zia non solo non potessero, come talora accade, ma nemmeno dovessero essere corrette, nean­che nei limiti del possibile. Anch’essi cadono nell’errore da essi rinfacciato ai giusnaturalisti, perché, respingendo ogni astratto dover essere, fanno di ciò che è, dell’essere, non una constata­zione, bensì un precetto, un «dover essere». Calhoun, che considera «contro natura» la libe­razione degli schiavi, diventa così una specie di San Tommaso o Thoreau alla rovescia.
È forse Marx a unire paradossalmente la criti­ca, anche sprezzante, al giusnaturalismo e un irri­ducibile «schietto naturalismo», come diceva an­ni fa Carlo Antoni. Per Marx è la storia, non la natura che deve portare la liberazione. E tuttavia rimane, nel pensiero di Marx, l’ideale di una per­sonalità umana realizzata nella sua pienezza. An­che per lui, come per Calhoun, gli uomini non nascono liberi e soprattutto non nascono uguali. Ma questo fatto non è per lui automaticamente un diritto o meglio la negazione di un diritto, del diritto alla libertà e all’uguaglianza. La crescente negazione del diritto in natura in nome della real­tà storica condurrà progressivamente, a partire dal secondo Ottocento, in genere nella cultura europea e in particolare forse in quella tedesca, alla negazione dell’umanità e di ogni universa­le- umano, come ha visto Ernst Troeltsch.

venerdì 24 aprile 2009

l'Unità 24.4.09
Bellocchio: «La mia eroina antipatica e testarda»
Il regista italiano parla di «Vincere» film in corsa per la Palma
È la storia di Ida Dalser, prima moglie del Mussolini socialista
di Ga.G.

Avere l’unico film italiano in concorso al Festival di Cannes non mi toglierà il sonno. A novembre compirò 70 anni e credo proprio che resterò me stesso e non sarò preso dall’ansia». Comprensibile per Marco Bellocchio, uno dei grandi nomi del cinema europeo che sulla Croisette è passato sette volte, anche nei panni di giurato. L’ultima nel 2006 con L’ora di religione, anche allora unico italiano del concorso. Vincere, il suo film, con Giovanna Mezzogiorno e Filippo Timi, ricostruisce la storia tragica di Ida Dalser, presunta prima moglie di Benito Mussolini, all’epoca socialista e anticlericale direttore dell’Avanti! e del figlio Benito Albino Mussolini. Entrambi furono fatti internare anni dopo dal Duce in vari nosocomi per cancellare la loro memoria. Parlandone il regista non manca di appassionarsi: «Sono rimasto coinvolto e sconvolto dalla tragedia di Ida Dalser - racconta - sia perché è una tragedia italiana, sia perché ha come protagonista un’eroina antipatica suo malgrado, una vera rompiscatole che cerca in tutti i modi di far valere i suoi diritti. Si può parlare di una doppia tragedia che coinvolge sia lei che il figlio Albino che approdano entrambi in manicomio per essere cancellati, una cosa non proprio italiana quest’ultima».
RITMI FUTURISTI
Il film - prodotto da Offside e RaiCinema e distribuito da 01 il giorno stesso della sua programmazione a Cannes, ancora da definire - è per Bellocchio «pieno di ritmo e velocità, quasi futurista». Ma non è affatto ispirato né può ricordare la figura dell’attuale presidente del Consiglio Berlusconi, spiega, cercando di tagliare corto, per evitare le polemiche. «Non ho minimamente pensato all’attuale regime - dice -, saranno i telespettatori a dover giudicare». Ma poi, accorgendosi freudianamente di aver usato il termine «regime», rettifica: «Credo solo che questa italiana sia una democrazia particolare, ma è anche vero che alcuni commentatori ne parlano un po’ come di un regime. Ma - conclude - posso tranquillamente affermare che non ho affatto pensato a Berlusconi mentre giravo il film».
GLI INTERPRETI
Vincere, conclude il regista dei Pugni in tasca, «racconta anche trent’anni di storia italiana, un triangolo composto appunto da Mussolini, Ida e Albino e ancora la vicenda di una donna che a un certo punto riuscirà a vedere il padre di suo figlio solo al cinema, nei filmati di propaganda». Di Filippo Timi, spiega Bellocchio, «mi ha impressionato la straordinaria somiglianza con il giovane Mussolini. E poi ha nel suo stesso essere una naturale autorevolezza come anche quella disperazione propria al personaggio di Albino». La Mezzogiorno? «Non è stata solo questione di somiglianza - spiega Bellocchio - ma casomai della caparbietà propria al suo carattere e perfetta per il personaggio di Ida Dalser».

La ricostruzione di Alfredo Pieroni
La tragica storia di Ida Dalser e di suo figlio Benito Albino Dalser Mussolini l’avevamo raccontata ai lettori nel gennaio del 2005, in un lungo articolo firmato da Alfredo Pieroni, che dopo un’accurata inchiesta si convinse che Ida e il figlio fossero fatti morire in manicomio e che il responsabile fosse Mussolini. L’articolo è disponibile su «l’Unità» on line.

Repubblica 24.4.09
Bellocchio: "Vi mostro la donna che Mussolini chiuse in manicomio"

ROMA «Quando ho fatto Vincere non ho pensato affatto a Berlusconi né ho fatto similitudini tra Mussolini e l´attuale premier. Non penso che nasceranno polemiche, comunque saranno gli spettatori a decidere». Lo ha detto Marco Bellocchio, unico regista italiano a partecipare al concorso del Festival di Cannes con il suo nuovo lavoro Vincere che racconta la storia di Ida Dalser, madre di un figlio di Mussolini, Benito Albino. Ida Dalser morì in manicomio dove il Duce l´aveva fatta rinchiudere. La interpreta Giovanna Mezzogiorno, mentre Filippo Timi è sia Mussolini che suo figlio Benito Albino.
«Ida Dalser» spiega Bellocchio «è stata un´eroina piuttosto antipatica, una rompiscatole che voleva affermare a ogni costo la verità e i suoi diritti. Per questo l´ho amata e per questo ho voluto la Mezzogiorno, un´attrice che ha in sé quel carattere, quella determinazione». Vincere, prodotto da RaiCinema insieme ai francesi, «è incalzante, scandito su trent´anni di storia e segue questa donna dai 21 ai 50 anni. Racconto il manicomio, dove è rinchiusa, non in modo veristico ma come una prigione».
(ro.rom.)

Repubblica 24.4.09
Populismo selettivo
di Stefano Rodotà

La democrazia italiana sta correndo il rischio d´essere schiacciata tra il "presidenzialismo assoluto" e il populismo elettronico. È un rischio grave, di cui si dovrebbe essere consapevoli nel momento in cui si parla di aprire addirittura una stagione costituente.
Ed è un rischio reale, come dimostrano in modo eloquente alcuni fatti significativi delle ultime settimane, tra i quali spicca l´alto e severo monito del presidente della Repubblica. Berlusconi non si limita a chiedere una maggiore efficienza dell´azione di governo. Pretende una radicale ridefinizione del ruolo del presidente del Consiglio, con una concentrazione di potere nelle sue mani senza precedenti e senza controlli, alterando, e non riformando, la forma di governo disegnata dalla Costituzione.
Consapevoli o no, Berlusconi e i suoi continuano a muoversi secondo un modello messo a punto negli Stati Uniti nel 1994 da un parlamentare repubblicano, Newt Gingrich, che proponeva un "Contratto con l´America" e il passaggio a un "Congresso virtuale" (collegati elettronicamente, i cittadini avrebbero votato le leggi al posto dei parlamentari). Sappiamo che Berlusconi fece proprio il primo suggerimento, firmando in diretta televisiva il non dimenticato "Contratto con gli italiani". Ora si indica una strada per delegittimare il Parlamento, già minacciato d´una riduzione ad una sorta di riunione di famiglia di cinque persone, quanti sono i presidenti dei gruppi parlamentari, che voterebbero al posto dei singoli senatori o deputati. Fallito negli Stati Uniti, il modello Gingrich troverà in Italia la sua terra d´elezione?
Cogliamo così il populismo nella sua versione più radicale, che ispira l´azione quotidiana del presidente del Consiglio, che si è da tempo manifestato nell´accorta e totalitaria gestione del sistema della comunicazione e che ora attende il suo compimento finale, con l´accentramento dei poteri nelle mani del primo ministro e un incontro fatale con le tecnologie elettroniche. Di questo modo d´intendere la politica e lo Stato Berlusconi ha dato pubblica testimonianza quando, in apertura del congresso costituente del Popolo della Libertà, ha descritto l´intero costituzionalismo moderno appunto nella chiave, abusiva e inquietante, di una sua radice populista. E l´insofferenza per ogni forma di controllo e per le stesse regole dello Stato di diritto, caratteri tipici del populismo di destra, ritornano ossessivamente nelle più impegnative vicende recenti. Quando Napolitano ha rifiutato di firmare il decreto legge sul caso Englaro, Berlusconi ha minacciato un ricorso al popolo, costituzionalmente improponibile, perché il potere di decretazione fosse attribuito al governo fuori d´ogni controllo.
Viviamo, però, in un clima di populismo "selettivo". Quando esalta la voce del popolo, Berlusconi dimentica del tutto che questa voce si levò nel giugno 2006, quando proprio un referendum popolare bocciò la sua proposta di riforma costituzionale. Quel voto, infatti, viene svalutato imputandolo non ai cittadini, ma alla "sinistra", ai "comunisti". Questo perché si vuole cancellarne l´indubbio significato politico nel momento in cui si cerca di imboccare una strada preoccupante come quella allora bloccata. Dopo il referendum, infatti, si sottolineò che, evitato lo stravolgimento, la Costituzione aveva bisogno di una "buona manutenzione": esattamente l´opposto di quel che oggi propone Berlusconi, chiedendo in primo luogo d´essere libero da ogni controllo nell´emanazione dei decreti legge e di spostare sul presidente del Consiglio il potere di sciogliere le Camere. In questo modo, però, non si va verso una forma di governo parlamentare razionalizzata, ma verso un primato assoluto dell´esecutivo, anzi di chi lo presiede, che contrasta con il sistema costituzionale vigente. Dopo aver trasferito la sede del governo a casa propria, ora Berlusconi vuole portare a compimento il suo progetto di privatizzazione delle funzioni di governo trasferendo nello Stato il modello già realizzato per il suo nuovo partito, descritto senza reticenze nell´articolo 15 dello statuto sui poteri del presidente del Pdl: "Ha la rappresentanza politica del partito, e lo rappresenta in tutte le sedi politiche e istituzionali, ne dirige l´ordinato funzionamento e la definizione delle linee politiche e programmatiche, convoca e presiede l´ufficio di presidenza, la direzione e il consiglio nazionale e ne stabilisce l´ordine del giorno. Procede alle nomine degli organi di partito e, d´intesa con l´ufficio di presidenza, decide secondo le modalità previste dallo statuto". Non si poteva trovare una più sincera dichiarazione di autocrazia.
Conosco già alcune risposte. Non si vuole alterare la Costituzione, ma soltanto rendere più efficiente l´azione di governo e più fluidi i regolamenti parlamentari. Non lasciamoci ingannare da queste giravolte. Si dice che, reso più rapido l´iter parlamentare delle proposte del governo, verrà ridotto il ricorso ai decreti legge. Che non è una buona risposta, perché si accetta comunque la pretesa del governo di non sottoporre a controlli adeguati le sue iniziative. E perché ai guasti del presidenzialismo strisciante non si risponde con una sua rassegnata accettazione, ma ripensando gli equilibri istituzionali, partendo da una seria rivalutazione della funzione parlamentare che non può essere affidata alle logore acrobazie di uno "statuto" concesso alle opposizioni (si rifletta sugli effetti della recente riforma costituzionale francese, che ha determinato l´assoluta opacità della legislazione chiusa nelle commissioni parlamentari e il sistematico azzeramento degli spazi di iniziativa legislativa "garantiti" all´opposizione). È tempo di contrappesi forti.
Si torna così al tema della comunicazione. L´ipotesi del sondaggio permanente dei cittadini dà l´illusione della sovranità e la sostanza della democrazia plebiscitaria. È una ipotesi insieme pericolosa e vecchia, se appena si rivolge lo sguardo ai diversi tentativi di far sì che i cittadini, consultati anche elettronicamente, non siano ridotti a "carne da sondaggio", ma possano essere soggetti attivi e consapevoli. Il ben diverso uso delle tecnologie e delle reti sociali da parte di Obama, e non da lui soltanto, dovrebbe indurre a riflessioni meno rozze. Ma delle impervie vie della democrazia elettronica, fuori dal populismo, converrà parlare più distesamente.

Repubblica 24.4.09
Berlino. Se la capitale laica si divide sull’ora di religione
di Andrea Tarquini

I gruppi "Pro Reli" e quelli "Pro Ethik" domenica si sfidano sull´ingresso delle confessioni a scuola Uno scontro culturale e politico che via referendum rischia di ricreare il muro tra Ovest e Est

Da una parte, con la Cdu-Csu, gruppi cattolici, protestanti, ebrei e musulmani
Dall´altra i sostenitori della lezione di etica: "Una materia che unisce tutti"

Una guerra sulla religione a scuola, un Kulturkampf, spacca Berlino e la Germania, e domenica gli elettori della capitale diranno chi vincerà. Sembra un paradosso, ma proprio la capitale, che è la più laica e atea tra le grandi città tedesche, è chiamata a decidere quali devono essere il posto e di fatto il rapporto di forze tra etica non confessionale e religioni nell´insegnamento e nella società. Lo scontro mobilita partiti, associazioni civiche, media e vip. E soprattutto polarizza più che mai, divide destra e sinistra democratiche, a volte con toni da guerra fredda. Il suo esito sarà rilevante anche in vista delle elezioni politiche di dicembre.
Due milioni e quattrocentomila persone, tanti sono i berlinesi aventi diritto di voto, sono chiamati a esprimersi al referendum che "Pro Reli", cioè "Per la religione", un´associazione di base di cattolici, protestanti, ebrei, musulmani moderati, sostenuta dalla CduCsu della Cancelliera, ha ottenuto con una raccolta di firme. Sfida il sindaco-governatore socialdemocratico (Spd) Klaus Wowereit, il quale del 2006 ha fatto di Berlino un´eccezione nel paese sul tema difficile dell´ora di religione. Nella maggior parte dei 16 Stati (Bundeslaender) tedeschi, infatti, religione (cristiana, ebraica, musulmana o qualsiasi altra) o etica universale sono materie facoltative alternative, a pari dignità. Wowereit, che governa la città insieme ai postcomunisti della Linke, ha invece introdotto l´etica quale materia obbligatoria per tutti, mentre la religione è facoltativa. L´associazione di base "Pro Ethik" ("Per l´etica") fa campagna per lui. La vecchia opinione di Juergen Habermas, uno dei massimi pensatori laici tedeschi, secondo cui nella società, senza i valori religiosi, perdono punti di riferimento anche i non credenti, non sembra convincere l´ultralaico Wowereit.
"Votate sì alla pari dignità tra etica e religione, perché è una questione di libertà", dicono i vip schierati con "Pro Reli". Personaggi non sospetti di foga clericale, anzi noti per posizioni liberal e aperte, come Guenter Jauck, uno dei più noti conduttori tv tedeschi, o la moderatrice Tita von Hardenberg: «Lo Stato non può arrogarsi su questo tema una posizione di monopolio». Tutto sbagliato, ribattono i portavoce del no, come il giovane scrittore di sinistra Arne Seidel: «Io voglio la lezione di etica insieme, per tutti gli scolari e studenti, quale che sia la loro confessione e origine». Sono due posizioni entrambe rispettabili, ma lontanissime. L´etica obbligatoria per tutti, afferma l´ex sindaco Spd Walter Momper, è importante anche in nome dell´integrazione tra diverse comunità, qui a Berlino dove 40 bambini su 100 nascono figli di stranieri o di cittadini d´origine straniera. «Se ognuno studia la sua religione separato, danneggeremo l´integrazione che deve cominciare dalla scuola». Sul fronte opposto, pareri opposti. Da voci insospettabili di volontà discriminatorie: come Stephan Kramer, un leader della comunità ebraica. «Se voglio rispettare un´altra concezione del mondo devo prima sapere chi sono, quali sono le mie radici», afferma. Fin qui i toni civili del dibattito. Ma la propaganda dei due fronti poi si è fatta pesante. Un manifesto di "Pro Reli" mostrava una cesta con dentro indumenti solo di colore rosso, come a dire che chi chiede di votare no è automaticamente comunista. Neanche quelli di "Pro Ethik" vanno per il sottile: nei loro poster raffigurano la famosa stampa di Albrecht Duerer, le mani in preghiera, sullo sfondo di un tappeto di fiori bruni, il colore che in Germania indica i nazisti. Oppure affiancano un prete cristiano e un Taliban ritratti entrambi a far lezione.
Chi vincerà? Gli ultimi sondaggi danno al "sì" un lieve vantaggio, il 51%, nonostante si calcola che i berlinesi non credenti siano 6 su 10. Ma se domenica sera il numero di partecipanti al voto si rivelerà insufficiente, il risultato del referendum sarà nullo. Comunque finisca, il Kulturkampf sull´ora di religione sta ricreando un Muro nelle anime tra le due Berlino: all´Ovest i paladini della pari dignità tra religione ed etica a scuola sono in decisa maggioranza, mentre nell´Est "rosso" il "no" si prepara a stravincere.

Repubblica 24.4.09
L’intervento alla "Biennale Democrazia" di Torino
La falsa libertà degli ateniesi
di Luciano Canfora

Pubblichiamo parte dell´intervento intitolato "Le forme della democrazia" che terrà oggi alle 10,30 al Teatro Carignano di Torino nell´ambito della Biennale Democrazia

La più dura requisitoria contro il modello antico - greco in particolare - di libertà è certamente il sempre celebrato discorso di Benjamin Constant Sulla libertà degli antichi comparata con quella dei moderni, tenuto all´Athénée Royale di Parigi nel 1819. Qui Constant si scaglia contro quei politici dottrinari che «hanno cercato di imporre alla Francia un modello che essa non gradiva (qu´elle n´en voulait pas)». Il suo bersaglio sono, ovviamente, i governanti dell´anno II, ammiratori di Sparta e delle antiche repubbliche.
Constant riflette comparativamente sui due modelli di «libertà» dopo un venticinquennio tormentoso: dopo il turbine della Rivoluzione e del periodo napoleonico (1789 - 1815). Il punto d´avvio è appunto la distinzione, che puntigliosamente Constant vuole affermare, tra le due forme di libertà, quella praticata nel mondo classico e quella «moderna». Insiste soprattutto sulla necessità di respingere la confusione tra queste due, antitetiche, «libertà». Averle confuse, aver creduto di poter imporre ai moderni la libertà degli antichi, è stato - egli dice - motivo di sofferenze, di disastri inauditi, che alla nostra Francia hanno voluto imporre dei politici idolatri appunto della «liberté des Anciens».
Sarà invece merito di un altro irregolare, e cioè del maggiore analista del fenomeno democratico nella prima metà dell´Ottocento, Aléxis de Tocqueville, aver riportato al centro della discussione sugli antichi, grazie a una sua autonoma riflessione, lo stesso, ineludibile, sovvertimento di prospettiva suggerito da Volney. Lo fa in un contesto a prima vista imprevedibile: nel secondo volume della Démocratie en Amerique (1840) e in un capitolo in cui si pone il problema dei possibili «correttivi» capaci di mitigare le conseguenza negative della (moderna) democrazia sul piano intellettuale e formativo. E ravvisa un antidoto appunto nello studio del mondo classico proprio perché - osserva - quella degli antichi non era effettivamente una democrazia. Ecco come Tocqueville argomenta la sua diagnosi, la cui importanza è accresciuta dal fatto di essere scaturita dalla sua esperienza americana, cioè dalla visione di una moderna democrazia schiavista - gli Usa - nella quale di lì a poco - nel fuoco della guerra di secessione - gli ideologi sudisti addurranno, a difesa della schiavitù delle piantagioni, appunto il modello ateniese!
Quello che si chiamava popolo nelle repubbliche più democratiche dell´antichità non rassomigliava affatto a quello che noi chiamiamo popolo. In Atene tutti i cittadini prendevano parte agli affari pubblici, ma non vi erano che ventimila cittadini su più di trecentocinquantamila abitanti, tutti gli altri erano schiavi, e compivano la maggior parte delle funzioni che spettano oggi al popolo e anche alle classi medie.
Atene col suo suffragio universale, non era dunque dopo tutto che una repubblica aristocratica in cui tutti i nobili avevano ugual diritto al governo.
E´ solo con le Dichiarazioni dei diritti premesse alle varie Costituzioni di fine Settecento, sotto la spinta della Rivoluzione francese ben più che di quella americana inficiata dal perdurare lì della schiavitù, è solo con lo sforzo di bilanciare le libertà di alcuni con la libertà di tutti attraverso la nozione di giustizia che la libertà cessa di rappresentare un privilegio di casta.

il Riformista 24.4.09
Pamphlet. Legrenzi e Umiltà firmano un saggio che va controtendenza
Contro le manie della neuroscienza
«Non spiega tutto»
di Andrea Valdambrini

PROVOCAZIONE. Gli autori criticano la riduzione della mente al cervello, la psicologia alla biologia. Un atteggiamento falsamente moderno e fuorviante quando viene divulgato con travisamenti e salti logici. Ma non bisogna dimenticare gli eccessi di quando la spiegazione di tutto, anche della malattia mentale, era l'ambiente sociale.

Ricordate quando Leporello, all'inizio del Don Giovanni, mette in guardia sulla "passion predominante" del padrone? Se il personaggio mozartiano potesse mai essere l'assistente di un neuroscienziato anziché il servitore di un libertino, oggi rimarcherebbe forse un cambio di prospettiva. La passione che predomina sembra essere quella della la neuro-mania
Sempre più spesso, sui siti e sui giornali leggiamo notizie come: individuato il neurone dell'amore, piuttosto che il centro cerebrale dell'invidia. Oppure troviamo titoli sensazionali come: fotografata per la prima volta l'area del cervello in funzione quando ascoltiamo il discorso di un politico che ci sta antipatico. Non sempre la divulgazione fa bene alla scienza, e anzi spesso l'ansia di dare in pasto al grande pubblico scoperte altrimenti ostiche, finisce per travisare il vero significato della ricerca.
Rispetto a questo rischio vogliono mettere in guardia Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà, rispettivamente professori di psicologia cognitiva a Venezia e di neuropsicologia a Padova, che firmano insieme Neuro-mania. Il cervello non spiega chi siamo (Il Mulino 2009, pp. 125, euro 9). Il loro è un saggio sintetico e tagliente, che dividerà nettamente le opinioni di chi lo legge tra favorevoli e contrari ma che farà sicuramente parlare di sé. Il pamphlet porta infatti un attacco frontale ad una delle convinzioni principali della scienza degli ultimi trenta anni, quella secondo cui la mente (ovvero il comportamento, il linguaggio, l'agire sociale e molto altro) si spiega soprattutto se non principalmente attraverso il cervello. Nell'alternativa tra "salvare" la mente dalla sua dipendenza verso il corpo come faceva Cartesio, cioè dividendo le due e rendendo autonoma l'anima, o al contrario pensare l'uomo come un essere esclusivamente materiale, come suggeriva Julien de La Mettrie nel suo settecentesco L'uomo come macchina, pare che siamo tutti ben disposti ad abbracciare la proposta del secondo. Cosa sono i pensieri in fondo? Aria sì, ma comunque prodotti delle cellule, dei neuroni, delle sinapsi. O almeno così ci piace credere.
A partire dalla tacita condivisione della nostra natura come uomini-macchina si installa l'attuale riscossa del corpo (inteso come cervello) sulla mente (intesa come cultura). E tutto sembra prendere, nella scienza, una base più solida e convincente. Senonché quando vediamo sulle pagine di una rivista scientifica o su quelle di un quotidiano, le zone del cervello colorate a rimarcare l'attivarsi dei neuroni in presenza di un dato stimolo, non sappiamo di trovarci in realtà di fronte a un artificio grafico e probabilmente anche ad una forzatura. Le cellule grigie colorate indicano il maggior afflusso di sangue, a sua volta segno della loro attivazione. Che poi l'attivazione porti al sorgere di un pensiero, questa è materia controversa. Non solo perché si può riscontrare come più aree, non una sola, possono attivarsi nel cervello quando proviamo disgusto o pensiamo che è ora di pranzo. Ma soprattutto - e qui entriamo nel campo dell'errore logico - perché la relazione tra due cose non significa che una è la causa dell'altra. C' è sicuramente un nesso tra l'amigdala e il senso di disgusto, ma questo non significa, secondo gli autori, che proprio lì ha sede la causa di quell'emozione.
La neuro-mania è dunque la tendenza a ridurre tutti i nostri pensieri al cervello, e a spiegare con le cellule grigie una serie di fenomeni socio-culturali. Questo trend scientifico ha fatto sorgere, negli ultimi anni, una serie imprecisata di nuove branche del sapere, tutte accompagnate da un unico prefisso: neuro-economia, neuro-marketing, neuro-estetica, neuro-etica e perfino neuro-teologia e neuro-politica. Tutte a ben vedere riproposizioni della scienza dell'era del positivismo, che da Broca, lo scienziato francese che dà il nome all'area preposta alla produzione linguistica, al bresciano Golgi, nobel per gli studi sulla struttura del cervello, abbracciavano l'idea che i neuroni possono spiegare quello che pensiamo e che facciamo. Ai nostri giorni si chiama neuroimaging, la tecnica tanto in voga di fotografare il nostro cranio e sezionarne le funzioni (questi sono i neuroni dell'amore, appunto). Ma in fondo cosa altro faceva il fisiologo Angelo Mosso, quando misurava l'afflusso sanguigno che aumentava nel momento in cui un povero contadino ascoltava suonare le campane della chiesa a mezzogiorno? Cosa cercava allora il medico nella testa del suo paziente se non quello che il neuroscienziato cerca oggi con tecniche giusto un po' più sofisticate? Un'area di neuroni provoca un determinato pensiero. Tanto facile, dicono Legrenzi e Umiltà, da essere sbagliato.
Se insomma «il futuro ha un cuore antico», frase che gli autori prendono in prestito da Carlo Levi, la modernità scolora in qualcosa che sembra molto meno moderno. Se poi la correlazione cervello-pensiero non è così prodigiosamente lineare come sembra, questa moderna antichità sembra anche molto meno scientifica di quanto pretende di essere. Il prefisso neuro affascina, piace e fa vendere libri e consulenze. Le immagini del cervello attraggono l'attenzione e la curiosità di tutti come i vecchi mirabilia o le wunderkammer dentro cui si vedeva quanto mai mostrato prima. Ma sempre di un bluff si tratta.
È probabile che sia tempo ormai di riflettere sugli eccessi della neuro-mania. C'è una domanda, tuttavia, che non trova risposta nelle pagine di Legrenzi e Umiltà, ed è la seguente. Abbiamo forse dimenticato che per molti anni l'opinione pubblica adesso avida di spiegazioni neuroscientifiche ha avallato l'idea che tutto, dal rubare in una casa fino alla malattia mentale, dipendeva dall'ambiente sociale in cui le persone si trovavano? La passione predominante, all'epoca, era una psicologia che con la materia, il corpo, il cervello non voleva avere niente a che fare. Forse ora abbiamo toccato l'estremo opposto. Ma diversamente dagli autori di Neuro-mania, noi continuiamo a pensare che La Mettrie, preso con le dovute cautele, sia meno dannoso di Cartesio. Al libertino Don Giovanni, tra l'altro, sarebbe stato certamente più simpatico.

giovedì 23 aprile 2009

l’Unità 23.4.09
5 risposte da Massimo Rendina
Presidente dell’Anpi di Roma
intervista di Mariagrazia Gerina


1. Il 25 aprile
Questo non è un 25 aprile come gli altri. C’è un governo che vuole cambiare la Costituzione, una democrazia che si sta già deteriorando al suo interno e un rischio di autoritarismo.
2.La parola libertà
Dico ai giovani, impadronitevi del vocabolario, stanno falsificando anche quello. Vedi la parola «libertà»: la ritrovi persino in bocca alla mafia. Ma poi hai un premier che nomina i suoi parlamentari e sussulti di libertà solo con il voto segreto.
3. Il fascismo culturale
Ci sono state aggressioni, episodi gravi. Ma il peggio è la mentalità fascista che serpeggia in talune zone politiche: celebrare il 25 Aprile è una presa di posizione culturale.
4. Certi valori
Vogliamo che le istituzioni vi partecipino, anche quelle che non sono con noi: noi le rispettiamo, abbiamo dato la democrazia a questo paese. Ma certi valori devono essere di tutti. Quella di La Russa è una visione folclorica.
5. I saluti romani
Abbiamo invitato il sindaco Alemanno a Porta San Paolo. Per ora non ha risposto. Quando lo hanno eletto, non sarà colpa sua, ma i fascisti si sono radunati in Campidoglio per i saluti romani. Vedremo cosa dirà. Sarebbe bello che firmasse contro la legge che equipara partigiani e repubblichini.

l’Unità 23.4.09
Napolitano: la Costituzione non è un residuato bellico
di Marcella Ciarnelli


Indicazioni precise: forzature in nome della governabilità portano a soluzioni autoritarie
E poi la sottolineatura sul 25 Aprile: non è la Festa di una parte sola

Nove convinti applausi hanno sottolineato i punti salienti della lezione che il presidente della Repubblica ha tenuto a Torino, inaugurando la prima edizione di “Biennale Democrazia” voluta dal professor Gustavo Zagrebelsky che, introducendo l’oratore, ha parlato di un tempo, come quello che stiamo vivendo “in cui la politica e la cultura sono divise” mentre il binomio è vitale”. Il primo applauso è scattato quando il Capo dello Stato ha affermato che “il 25 aprile non è festa di una parte sola” tant’è che proprio nella Costituzione “furono tradotti principi e diritti condivisibili anche da quanti fossero rimasti estranei all’antifascismo e alla Resistenza”.
I giovani e il presidente
Alla platea gremita del Teatro Regio, politici, esponenti delle istituzioni e della cultura, ma anche tanti giovani, Napolitano ha espresso il suo pensiero sul dibattito, a volte strumentale che vorrebbe portare ad una revisione forzata della Costituzione che, il presidente l’ha ribadito con forza, “non è un residuato bellico come da qualche parte si vorrebbe talvolta fare intendere” vista anche “la leggerezza con cui si assumono oggi atteggiamenti dissacranti verso di essa”. Invece i limiti che impone “non possono essere ignorati nemmeno in forza dell'investitura popolare, diretta o indiretta, di chi governa". Così come “rispettare la Costituzione significa anche riconoscere l’autorità delle istituzioni di garanzia che non dovrebbero mai essere oggetto di attacchi politici e giudizi sprezzanti”. Il destinatario appare, tra tutti, essere Silvio Berlusconi che spesso si è lamentato di avere scarsi o nulli poteri.
Può essere cambiata la Carta nella sua seconda parte, adeguata, e lo si è d’altronde già fatto. Questo Napolitano lo ha ripetuto. Ed ha indicato anche la via da percorrere che non è certo quella dei colpi di mano. Alle forze presenti in Parlamento, perché “è al Parlamento che spetta pronunciarsi” è così giunto l’invito “e questa è mia responsabilità, ad uno sforzo di realismo e di saggezza su essenziali proposte di riforma sulle quali sia possibile giungere alla più ampia condivisione. Non c’è da ripartire da zero, non c’è da arrendersi a resistenze conservatrici né, all’opposto, a tendere a conflittualità rischiose e improduttive”. Bisogna avviare “una nuova stagione costituente”.
Si superi il bicameralismo perfetto
Che superi “l’anacronistico bicameralismo perfetto” e il discorso sul federalismo è già avviato, che tenga in considerazione la richiesta di maggiori poteri a chi governa ma sulla base di motivazioni “trasparenti e convincenti” senza cadere “in enfasi polemiche infondate”, tanto più che “con il crescente ricorso alla decretazione d’urgenza e all’istituto del voto di fiducia e al rafforzarsi del vincolo tra governo e maggioranza parlamentare” le cose sono già cambiate tanto che Giuliano Amato ha potuto definire “obsoleta la tradizionale constatazione della debolezza del governo nel rapporto con il Parlamento”. Si può pensare a novità in questo campo ma senza dimenticare il monito di Norberto Bobbio che “la denuncia della ingovernabilità tende a suggerire soluzioni autoritarie. Non lo dimentichiamo mai”. In nome del dovere di governare non “si può ricorrere a semplificazioni di sistema e a restrizioni di diritti”.
Sull’altare della governabilità Napolitano, d’accordo ancora una volta con Bobbio, non è disposto a sacrificare la divisione dei poteri, la garanzia dei diritti di libertà, la pluralità dei partiti, la tutela delle minoranze politiche, la rappresentatività del Parlamento, l’indipendenza della magistratura, il principio di legalità e il riconoscimento del Capo dello Stato come “potere neutro”. E sulla legge elettorale Napolitano parla del rischio di non rappresentatività l’andare al voto “in assenza di valide procedure di formazione delle candidature e di meccanismi atti ad ancorare gli eletti al rapporto con gli elettori e il territorio”. L’invito è al confronto. A superare le contrapposizioni con uno scatto come quello che il nostro Paese ha saputo avere nella vicenda tragica del terremoto.
«Riscrivere la norma sui manager»
Il presidente della Repubblica questa mattina incontrerà una delegazione dei familiari delle vittime della Thyssen con altri operai delle fabbriche torinesi. Ma ieri il Capo dello Stato, mentre visitava quella meraviglia che è la restaurata reggia di Venaria, ha fatto capire senza mezzi termini come la pensa a proposito della norma salva manager anche se il ministro Sacconi ne ha smentito la finalità..''Siamo in attesa di vederne la riscrittura. Conosco la questione e l'ho seguita. Anche prima c'era la preoccupazione per quella norma, l'avevamo espressa subito. In ogni caso, prendo atto che il ministro Sacconi si è dichiarato pronto a riscriverla per evitare interpretazioni che non sono state volute e che sarebbero pesanti anche agli effetti del processo Thyssen''.
Il presidente della Repubblica ieri ha sottolineato fortemente il valore della Costituzione. Ha chiesto rispetto. E ognuno dei suoi concetti sembrava rivolto al presidente del Consiglio. A partire dal 25 Aprile.

Repubblica 23.4.09
L’intervento
La Carta non è un residuato bellico
di Giorgio Napolitano


Avevo appena compiuto diciott´anni quando il 25 luglio del 1943 fui, come tutti gli italiani, raggiunto via radio a tarda sera dalla fulminante, imprevedibile notizia della caduta di Mussolini... Al fondo vi era naturalmente una crisi profonda via via maturata nel rapporto tra il Paese e il fascismo, a cominciare dal suo capo, per effetto dell´andamento disastroso della guerra da lui irresponsabilmente voluta, e del peso sempre più insopportabile delle sofferenze inflitte alla popolazione...
Fu dunque da una realtà disperante che si dové partire per rifondare la democrazia in Italia... L´acquisizione degli ideali e dei principi democratici non fu né immediata né incontrastata... Ma non c´è dubbio che si mise in moto un processo irresistibile, dall´alto e dal basso, di riedificazione democratica. Coronamento di tale processo fu l´elaborazione – in un clima di straordinario fervore intellettuale e politico, attraverso il confronto e l´avvicinamento tra le diverse forze politiche e correnti culturali accomunate dall´antifascismo – della Costituzione repubblicana...
La Costituzione repubblicana non è una specie di residuato bellico, come da qualche parte si vorrebbe talvolta far intendere... Essa seppe dare fondamenta solide e prospettive di lunga durata al nuovo edificio dell´Italia democratica. Quelle fondamenta poggiavano sui valori maturati nell´opposizione al fascismo, nella Resistenza, in nuove elaborazioni di pensiero e programmatiche... I valori dell´antifascismo e della Resistenza non restarono mai chiusi in una semplice logica di rifiuto e di contrasto, sprigionarono sempre impulsi positivi e propositivi, e poterono perciò tradursi, con la Costituzione, in principi e in diritti condivisibili anche da quanti fossero rimasti estranei all´antifascismo e alla Resistenza. Perciò il 25 aprile non è festa di una parte sola...
La Costituzione non è una semplice carta dei valori... Non solo non fu mai intesa come manifesto ideologico o politico di parte... E´ legge fondamentale, è legge suprema, la Costituzione, anche e innanzitutto nel segnare i limiti entro cui può svolgersi ogni potere costituito... Si rifletta, a questo proposito, sul primo articolo della nostra Carta Costituzionale, là dove recita: "La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione". Una volta cioè che il potere costituente espresso dal popolo sovrano con l´elezione di una assemblea investita di quel mandato si sia compiuto, ogni ulteriore espressione della sovranità popolare, ogni potere delle istituzioni rappresentative, il potere legislativo ordinario come il potere esecutivo, riconosce la supremazia della Costituzione, rispetta i limiti che essa gli pone... Limiti che non possono essere ignorati nemmeno in forza dell´investitura popolare, diretta o indiretta, di chi governa.
Rispettare la Costituzione è dunque espressione altamente impegnativa... Rispettarla significa anche riconoscere il ruolo fondamentale del controllo di costituzionalità e dunque l´autorità delle istituzioni di garanzia. Queste non dovrebbero mai formare oggetto di attacchi politici e giudizi sprezzanti, al di là dell´espressione di responsabili riserve su loro specifiche decisioni. Tutte le istituzioni di controllo e di garanzia non possono essere viste come elementi frenanti del processo decisionale, ma come presidio legittimo di quella dialettica istituzionale che in definitiva assicura trasparenza, correttezza, tutela dei diritti dei cittadini.
Questo richiamo ad essenziali caratteristiche della democrazia costituzionale non ha nulla a che vedere con una visione statica della nostra Carta, con una sua celebrazione fine a se stessa o con l´affermazione della sua intoccabilità... Spetta ancora una volta al Parlamento pronunciarsi sulla possibilità di procedere in questa direzione, sugli obbiettivi da perseguire, sul grado di consenso a cui tendere. Pur non potendo esprimere indicazioni di merito, ritengo che sia mia responsabilità esortare le forze presenti in Parlamento a uno sforzo di realismo e di saggezza per avviare il confronto su essenziali proposte di riforma della seconda parte della Costituzione, sulle quali sia possibile giungere alla più ampia condivisione. Lo spirito dovrebbe essere quello, come si è di recente autorevolmente detto, di una rinnovata "stagione costituente"...
Da decenni ormai si è aperto il dibattito generale sulla governabilità delle società democratiche... Nell´affrontare a suo tempo questo tema cruciale, Norberto Bobbio osservò che mentre all´inizio della contesa sul rapporto tra liberalismo e democrazia "il bersaglio principale era stato la tirannia della maggioranza", esso stava finendo per assumere un segno opposto, "non l´eccesso ma il difetto di potere". E Bobbio aggiunse, pur senza eludere il problema: "la denuncia della ingovernabilità tende a suggerire soluzioni autoritarie". Un monito, quest´ultimo, che non si dovrebbe dimenticare mai. E dal quale va ricavata l´esigenza di tenere sempre ben ferma la validità e irrinunciabilità delle "principali istituzioni del liberalismo" – concepite in antitesi a ogni dispotismo – tra le quali –, nella classica definizione dello stesso Bobbio, "la garanzia di diritti di libertà (in primis libertà di pensiero e di stampa), la divisione dei poteri, la pluralità dei partiti, la tutela delle minoranze politiche". E sempre Bobbio metteva egualmente l´accento sulla rappresentatività del Parlamento, sull´indipendenza della magistratura, sul principio di legalità.
Tutto ciò non costituisce un bagaglio obsoleto, sacrificabile – esplicitamente o di fatto – sull´altare della governabilità, in funzione di "decisioni rapide, perentorie e definitive" da parte dei poteri pubblici. Ho evocato – ed è di certo tra gli istituti non sacrificabili – la distinzione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario); e mi sarà permesso di richiamare anche il riconoscimento del Capo dello Stato come "potere neutro"...
Ho egualmente menzionato come essenziale la rappresentatività del Parlamento: a proposito della quale penso si possa dire che essa non viene fatalmente incrinata da regole vigenti in diversi paesi democratici, finalizzate ad evitare un´eccessiva frammentazione politica, ma rischia di risultare seriamente indebolita in assenza di valide procedure di formazione delle candidature e di meccanismi atti ad ancorare gli eletti al rapporto col territorio e con gli elettori.
In definitiva, non si può ricorrere a semplificazioni di sistema e a restrizioni di diritti in nome del dovere di governare... Non c´è, sul piano democratico, alternativa al confrontarsi, al combinare ascolto, mediazione e decisioni, al giungere alla sintesi con la necessaria tempestività ma senza sacrificare i diritti e l´apporto della rappresentanza...
Sappiamo quali orizzonti nuovi la Costituzione abbia aperto per il nostro paese: orizzonti di libertà e di eguaglianza, di modernizzazione e di solidarietà. La condizione per coltivare queste potenzialità, in termini rispondenti ai bisogni e alle istanze che maturano nel corpo sociale, nella comunità nazionale – la condizione per rafforzare così le basi della democrazia e il consenso da cui essa può trarre sicurezza e slancio – è in un impegno che attraversi la società, che si faccia sentire e pesi in quanto espressione della consapevolezza e della volontà di molti, uomini e donne di ogni generazione e di ogni ceto.
(Il testo è tratto dal discorso del Presidente della Repubblica alla "Biennale democrazia" di Torino)

Corriere della Sera 23.4.09
La strategia
Una mossa preventiva
di Massimo Franco


La scelta del Quirinale. Il timore di un’offensiva
La mossa preventiva che rompe la tregua

La tesi dello scarto improvviso regge solo a una lettura superficiale. Nel discorso fatto ieri da Giorgio Napolitano alla «Biennale della democrazia» a Torino, si avverte l’eco di un disagio istituzionale covato a lungo; di tensioni ora represse, ora emerse fra Quirinale e Palazzo Chigi: con lo scontro del febbraio scorso sulla sorte di Eluana Englaro, in coma da anni, come apice polemico subito diplomatizzato.
L’ultimo indizio di una cicatrice mai rimarginata del tutto è stata la lettera in­viata dal presidente della Repubblica a Silvio Berlusconi nei giorni del terremo­to. Lo avvertiva che non poteva accetta­re provvedimenti d’urgenza destinati a svuotare i poteri del capo dello Stato.
Su questo sfondo l’altolà, inusuale nei toni, che Napolitano invia al pre­mier suona come una mossa preventiva e insieme difensiva. L’impressione è che il Quirinale abbia messo in fila quanto è accaduto negli ultimi mesi; e che sia giunto alla conclusione che sen­za una reazione immediata, d’anticipo, assisterebbe ad un logoramento pro­gressivo dei princìpi di cui si ritiene cu­stode. Può essere considerato un gesto di forza oppure di debolezza. Rompe co­munque la tregua realizzatasi col sisma in Abruzzo; e costituisce un gesto pub­blico potenzialmente dirompente fra presidente della Repubblica e del Consi­glio.
Sostenere, come Napolitano ha fatto ieri a Torino, che «la denuncia dell’ingo­vernabilità tende a suggerire soluzioni autoritarie», non può non essere letto come un richiamo duro a Berlusconi. E certo è destinato almeno ad una parte della maggioranza l’irritazione per certi «atteggiamenti dissacranti» nei con­fronti della Costituzione. Confutare la tesi secondo la quale la Carta fondamen­tale sarebbe «una specie di residuato bellico» è, di nuovo, una reazione ad al­cune frasi recenti del premier. Idem la contestazione delle «polemiche infon­date » con le quali palazzo Chigi chiede più potere nei rapporti col Parlamento. Ma c’è da chiedersi come mai un uo­mo prudente come Napolitano abbia de­ciso una mossa che può esporlo alla rea­zione della maggioranza; e perfino se­gnalare un conflitto istituzionale. Oltre tutto, il discorso di Torino cade in un momento in cui la popolarità di Berlu­sconi risulta alle stelle, dopo il terremo­to. E, almeno in apparenza, non ci sono stati gravi motivi di contrasto: al punto che le parole presidenziali rischiano di apparire sorprendenti. La spiegazione più verosimile è che il capo dello Stato abbia rotto gli indugi non solo per quan­to è successo, ma in vista di quello che teme possa verificarsi.
L’ombra lunga del caso Englaro, risol­to con una tregua improvvisa, appare tuttora incombente. Ha lasciato una pa­tina di diffidenza fra Napolitano e palaz­zo Chigi; ed il timore di un’offensiva contro il Quirinale che potrebbe prende­re corpo in qualunque momento. Quasi ad esorcizzare questi fantasmi, il capo dello Stato propone la «sua» Italia, con­trapposta al modello del Pdl: un siste­ma ritenuto pericolosamente incline a privilegiare il governo. Rimane da capi­re se l’esternazione bloccherà quella che il capo dello Stato vede come una deriva allarmante; o se per paradosso l’accelererà. Ma esiste una terza ipotesi: che il discorso venga applaudito dall’op­posizione ed ignorato da una maggio­ranza convinta, o illusa, che l’altolà al governo sia solo un segno di nervosi­smo. Un comportamento destinato a compromettere il profilo sopra le parti conquistato da Napolitano, magari a be­neficio di Berlusconi. È un calcolo al li­mite dell’azzardo. Conferma tuttavia la pericolosità dello scontro in incubazio­ne ai vertici dello Stato.

Repubblica 23.4.09
Le parole della democrazia
di Gustavo Zagrebelsky


Nei luoghi del potere il tradimento si consuma più che altrove. A cominciare dall´espressione "politica"
Il dispotismo usa la paura per camuffare i significati E così l´ignoranza diventa forza, la libertà schiavitù
"È solo la lingua che fa eguali", diceva don Milani "Che sia ricco o povero non importa"
Sono dittature ideologiche i regimi che disprezzano i fatti o li travisano

Ogni forma di governo usa gli "argomenti" adeguati ai propri fini. Il dispotismo, ad esempio, usa la paura e il bastone per far valere il comando dell´autocrate. La democrazia è il regime della circolazione delle opinioni e delle convinzioni, nel rispetto reciproco. Lo strumento di questa circolazione sono le parole. Si comprende come, in nessun altro sistema di reggimento delle società, le parole siano tanto importanti quanto lo sono in democrazia. Si comprende quindi che la parola, per ogni spirito democratico, richieda una cura particolare: cura particolare in un duplice senso, quantitativo e qualitativo.
Anticipiamo parte della lezione che Gustavo Zagrebelsky legge questa mattina a Torino, nell´ambito di «Biennale Democrazia»
Il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia e dell´uguaglianza delle possibilità. Poche parole e poche idee, poche possibilità e poca democrazia; più sono le parole che si conoscono, più ricca è la discussione politica e, con essa, la vita democratica. Quando il nostro linguaggio si fosse rattrappito al punto di poter pronunciare solo sì e no, saremo pronti per i plebisciti; e quando conoscessimo solo più i sì, saremmo nella condizione del gregge che può solo obbedire al padrone. Il numero delle parole conosciute, inoltre, assegna i posti entro le procedure della democrazia. Ricordiamo ancora la scuola di Barbiana e la sua cura della parola, l´esigenza di impadronirsi della lingua? Comanda chi conosce più parole. «È solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l´espressione altrui. Che sia ricco o povero importa di meno». Ecco anche perché una scuola ugualitaria è condizione necessaria, necessarissima, della democrazia.
Con il numero, la qualità delle parole. Le parole non devono essere ingannatrici, affinché il confronto delle posizioni sia onesto. Parole precise, specifiche, dirette; basso tenore emotivo, poche metafore; lasciar parlar le cose attraverso le parole, non far crescere parole con e su altre parole. Uno dei pericoli maggiori delle parole per la democrazia è il linguaggio ipnotico che seduce le folle, ne scatena la violenza e le muove verso obbiettivi che apparirebbero facilmente irrazionali, se solo i demagoghi non li avvolgessero in parole grondanti di retorica.
Le parole, poi, devono rispettare il concetto, non lo devono corrompere. Altrimenti, il dialogo diventa un inganno, un modo di trascinare gli altri dalla tua parte con mezzi fraudolenti. Impariamo da Socrate: «Sappi che il parlare impreciso non è soltanto sconveniente in se stesso, ma nuoce anche allo spirito»; «il concetto vuole appropriarsi del suo nome per tutti i tempi», il che significa innanzitutto saper riconoscere e poi saper combattere ogni fenomeno di neolingua, nel senso spiegato da George Orwell, la lingua che, attraverso propaganda e bombardamento dei cervelli, fa sì che la guerra diventi pace, la libertà schiavitù, l´ignoranza forza. Il tradimento della parola deve essere stata una pratica di sempre, se già il profeta Isaia, nelle sue "maledizioni" (Is 5, 20), ammoniva: «Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l´amaro in dolce e il dolce in amaro».
I luoghi del potere sono per l´appunto quelli in cui questo tradimento si consuma più che altrove, a incominciare proprio dalla parola "politica". Politica viene da polis e politéia, due concetti che indicano il vivere insieme, il convivio. È l´arte, la scienza o l´attività dedicate alla convivenza. Ma oggi parliamo normalmente di politica della guerra, di segregazione razziale, di politica espansionista degli stati, di politica coloniale, ecc. «Questa è un´epoca politica», ancora parole di Orwell. «La guerra, il fascismo, i campi di concentramento, i manganelli, le bombe atomiche sono quello a cui pensare». La celebre definizione di Carl Schmitt, ripetuta alla nausea, della politica come rapporto amico-nemico, un rapporto di sopraffazione, di inconciliabilità assoluta tra parti avverse è forse l´esempio più rappresentativo di questo abuso delle parole. Qui avremmo, se mai, la definizione essenziale non del "politico" ma, propriamente, del "bellico", cioè del suo contrario. Ancora: la libertà, nei tempi nostri avente il significato di protezione dei diritti degli inermi contro gli arbitri dei potenti, è diventata lo scudo sacro dietro il quale proprio costoro nascondono la loro pre-potenza e i loro privilegi. La giustizia, da invocazione di chi si ribella alle ingiustizie del mondo, si è trasformata in parola d´ordine di cui qualunque uomo di potere si appropria per giustificare qualunque propria azione. Quanto alla parola democrazia, anch´essa è sottoposta a "rovesciamenti" di senso, quando se ne parla non come governo del popolo, ma per o attraverso il popolo: due significati dell´autocrazia.
Da questi esempi si mostra la regola generale cui questa perversione delle parole della politica: il passaggio da un campo all´altro, il passaggio è dal mondo di coloro che al potere sono sottoposti a quello di coloro che del potere dispongono e viceversa. Un uso ambiguo, dunque, di fronte al quale a chi pronuncia queste parole dovrebbe sempre porsi la domanda: da che parte stai ? Degli inermi o dei potenti?
* * *
Affinché sia preservata l´integrità del ragionare e la possibilità d´intendersi onestamente, le parole devono inoltre, oltre che rispettare il concetto, rispettare la verità dei fatti. Sono dittature ideologiche i regimi che disprezzano i fatti, li travisano o addirittura li creano o li ricreano ad hoc. Sono l´estrema violenza nei confronti degli esclusi dal potere che, almeno, potrebbero invocare i fatti, se anche questi non venissero loro sottratti. Non c´è manifestazione d´arbitrio maggiore che la storia scritta e riscritta dal potere. La storia la scrivono i vincitori – è vero - ma la democrazia vorrebbe che non ci siano vincitori e vinti e che quindi, la storia sia scritta fuori delle stanze del potere. Sono regimi corruttori delle coscienze fino al midollo, quelli che trattano i fatti come opinioni e instaurano un relativismo nichilistico applicato non alle opinioni ma ai fatti, quelli in cui la verità è messa sullo stesso piano della menzogna, il giusto su quello dell´ingiusto, il bene su quello del male; quelli in cui la realtà non è più l´insieme di fatti duri e inevitabili, ma una massa di eventi e parole in costante mutamento, nella quale ciò che oggi vero, domani è già falso, secondo l´interesse al momento prevalente. Onde è che la menzogna intenzionale, cioè la frode – strumento che vediamo ordinariamente presente nella vita pubblica – dovrebbe trattarsi come crimine maggiore contro la democrazia, maggiore anche dell´altro mezzo del dispotismo, la violenza, che almeno è manifesta. I mentitori dovrebbero considerarsi non già come abili, e quindi perfino ammirevoli e forse anche simpaticamente spregiudicati uomini politici ma come corruttori della politica.
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La cura delle parole in tutti i suoi aspetti è ciò che Socrate definisce filologia. Vi sono persone, i misologi, che «passano il tempo nel disputare il pro e il contro, e finiscono per credersi divenuti i più sapienti di tutti per aver compreso essi soli che, sia nelle cose sia nei ragionamenti, non c´è nulla di sano o di saldo, ma tutto […] va su e giù, senza rimanere fermo in nessun punto neppure un istante». Questo sospetto che nel ragionare non vi sia nulla di integro c´è un grande pericolo, che ci espone a ogni genere d´inganno. Le nostre parole e le cose non devono "andare su e giù". Occorre un terreno comune oggettivo su cui le nostre idee, per quanto diverse siano, possano poggiare per potersi confrontare. Ogni affermazione di dati di fatto deve essere verificabile e ogni parola deve essere intesa nello stesso significato da chi la pronuncia e da chi l´ascolta. Chi mente sui fatti dovrebbe essere escluso dalla discussione. Solo così può non prendersi in odio il ragionare e può esercitarsi la virtù di chi ama la discussione.

Repubblica 23.4.09
Il fondatore di "Repubblica" all’Università di Roma
Scalfari: così si salva l’informazione
di Simonetta Fiori


Il declino etico di un’Italia schiacciata sul presente

Giornalismo, fisiologia di un mestiere difficile, si intitolava un saggio scritto da Alberto Asor Rosa diversi anni fa. Giornalismo, fisiologia di un mestiere a rischio, potrebbe intitolarsi la lezione tenuta ieri mattina da Eugenio Scalfari davanti a un´affollata platea di studenti iscritti al master su editoria e management culturale, presso la facoltà di Scienze Umanistiche della Sapienza. Dall´elaborazione intellettuale del partito dei philosophes – primi rappresentanti nobili del giornalismo moderno – alle pulsioni emotive dell´attuale informazione televisiva, il fondatore di Repubblica delinea una storia dell´opinione pubblica che, dopo oltre due secoli, rischia di essere polverizzata da messaggi fuorvianti. Nel diluvio impazzito di notizie, «in un paesaggio antropologico negli ultimi decenni profondamente modificato, ai giornali spetta fungere da "arche di Noè", depositi di valori che navigano contro le mitografie create dalle televisioni commerciali». Solo così si può fronteggiare una crisi che non investe soltanto l´informazione, ma chiama in causa il declino etico e culturale di un paese segnato dal "presentismo", lo schiacciamento sul presente di marchio berlusconiano. Storia politica e storia intellettuale si mescolano nella lectio magistralis alla memoria autobiografica, particolarmente preziosa – ha detto Asor Rosa nell´introdurre il corso - per il singolare profilo assunto in oltre tre decenni da Scalfari, direttore ed editore di Espresso e Repubblica.
Chi fa oggi concorrenza a Gutenberg? La crisi dei giornali, spiega Scalfari, non è solo legata alla più generale crisi economica, con il calo del 28 per cento di pubblicità, ma è cominciata ancor prima, con il dominio di Tv e soprattutto Internet. «Attualmente i quotidiani nazionali vendono un terzo in meno rispetto a cinque/dieci anni fa. Perdiamo copie ma, se consideriamo i frequentatori del web che leggono il giornale sul sito, i lettori complessivamente aumentano». Un fenomeno destinato a crescere con la messa a punto di tecnologie che permetteranno di scaricare dal computer l´intero giornale («Allora sarà necessario fissare un piccolo prezzo di abbonamento»). Al quotidiano di carta spetta un ruolo da protagonista. «È questo che garantisce il presidio di qualità per l´informazione fatta online». Grandi inchieste, reportage, approfondimenti: tutto ciò che la tv e gli altri media non possono offrire è bene che si rafforzino nelle pagine cartacee.
Ma il problema più vasto con cui si misura il giornalismo contemporaneo è la "diserzione dalla lettura" mostrata dai più giovani (non solo), a vantaggio del mondo delle immagini e dei suoni. «Le conseguenze di questa diserzione riguardano i tempi: passato, futuro e presente. La mia generazione, nutrita di molte letture, ha un sentimento del tempo che comincia nel passato, in chiave di memoria propria». Soltanto scegliendo di salire "sulle spalle dei giganti", si può avere uno sguardo più lungo. «Se invece io decido di vivere esclusivamente nel presente – cifra attuale dello spirito pubblico – rischio di rimanerne schiacciato, proprio perché non ho memoria del passato. Questa è la condizione in cui versa la nostra classe dirigente, che vive di continue emergenze – alcune vere, altre conclamate per immediati ritorni politici – e dunque incapace di progettare il futuro delle generazioni successive». Alla carta stampata spetta la funzione di recuperare il sentimento del tempo, «una memoria del passato che sola permette di dare una visione prospettica del futuro». Solo così si può difendere il processo attraverso cui si forma l´opinione pubblica. Tornare a Diderot forse è difficile, conoscerne la lezione indispensabile.

Repubblica 23.4.09
La libertà di stampa nei sistemi populisti
Se la maggioranza è tiranna
di Nadia Urbinati


Le democrazie si reggono sul consenso. La formazione del giudizio politico dal quale si sviluppa il consenso è per questo una parte essenziale della legittimità democratica, la quale non è circoscritta alle regole attraverso le quali si prendono decisioni. C´è un´altra parte che compone la legittimità, che è informale, non direttamente traducibile in legge e che, per questa ragione, è stata chiamata soft power: l´opinione. La democrazia vive di una tensione sana e necessaria tra il potere costituito o istituzionale (regole e procedure) e il potere in formazione o extra-istituzionale che è la politica in senso lato o il giudizio pubblico. Non è irragionevole pensare alla democrazia come a un ordine politico che si regge su un disaccordo permanente tra legittimità istituzionale e fiducia dei cittadini. Il grado di disaccordo tra questi due livelli varia ma non si dà mai, né può darsi mai, una coincidenza tra la volontà di chi fa le leggi e prende le decisioni e chi giudica. Provare a risolvere il disaccordo o cercare di stabilire omogeneità è una tentazione pericolosa anche se mai completamente domata. Le tirannie, i fascismi, i populismi sono stati e sono il segno che questa tentazione è stata perseguita e ha avuto successo. Il potere non ama essere criticato e nemmeno controllato: identifica l´informazione come un´intrusione e addirittura una critica. Le democrazie costituzionali sono parte di questa storia, anche se sono dotate di norme che in teoria dovrebbero renderle più immuni a quegli esiti funesti.
Alcune costituzioni sono più attrezzate di altre. L´articolo 5 della Costituzione tedesca dichiara che «ognuno ha diritto di esprimere e diffondere liberamente le sue opinioni e di informarsi senza impedimento da fonti accessibili a tutti». La nostra Costituzione non è altrettanto esplicita, ma l´evoluzione della nostra giurisprudenza è andata nella direzione dell´affermazione della libertà di informazione, sia come libertà di esprimere opinioni che come diritto a essere informati (una libertà che leggi improvvide hanno vanificato permettendo la formazione di fatto di un sistema di monopolio privato dell´informazione).
Quella dell´opinione è una libertà complessa perché mette in campo non soltanto la libertà di raccogliere e divulgare informazioni, ma anche quella di criticare comportamenti, fatti e idee. La garanzia della libertà di espressione è naturalmente importante quando si tratta di idee che possono non piacere alla maggioranza. I diritti sono baluardi protettivi per chi non ha dalla sua il potere: che la maggioranza rivendichi il diritto di parola è semplicemente un assurdo, un rovesciamento delle parti.
L´informazione mette in atto due forme di libertà: quella civile o dell´individuo e quella politica o del cittadino. E sta insieme a controllo e a formazione dell´opinione: abbiamo bisogno di sapere per poterci formare un´opinione e decidere; e abbiamo bisogno di sapere per controllare chi decide. L´informazione è un bene pubblico dunque come la libertà e il diritto (e come libertà e diritto non è a discrezione della maggioranza). È soprattutto un bene che ci consente di avere altri beni: per esempio, un governo che faccia buone leggi o che non sia corrotto (l´informazione rivela l´errore e smaschera la disonestà). L´informazione fa parte perciò dell´onorata tradizione dei poteri negativi o di controllo, anche se la sua è un´influenza solo indiretta e informale. Senza questo controllo le democrazie non vivono. Le regole del gioco non sono tutta l´opera della democrazia. Giornali, televisioni, sistemi informativi elettronici: tutto questo fa parte del modo con il quale il gioco democratico è giuocato.
Scriveva Alexis de Tocqueville che senza contropoteri istituzionali e extraistituzionali la società rischia fatalmente di identificarsi con l´opinione della maggioranza, di parlare con una voce sola, di essere omogenea nei gusti e nei valori; di essere in una parola una nuova forma di dispotismo. Ma il dispotismo democratico del quale parlava Tocqueville cresceva come per un´innata forza delle cose, non per la volontà di qualcuno. Era la logica stessa dell´opinione pubblica a generare omogeneità di vedute e docilità. L´Italia non sembra rientrare in questo caso perché da noi la manipolazione dell´informazione è un fatto scientemente perpetrato e voluto; è l´esito della responsabilità di qualcuno. La nostra assomiglia per questo a una democrazia populista (e la proposta di riforma costituzionale in senso presidenzialista va in questa direzione). Ma con questa importante novità: poiché usa il sistema mediatico e non quello della propaganda di partito o della repressione, l´esito che favorisce non è alla fine diverso da quello descritto da Tocqueville. Se avrà successo, per esercitare un dominio incontrastato , la maggioranza non avrà bisogno di sospendere i diritti politici. L´opinione parlerà con una voce sola e le poche voci di dissenso saranno come voci nel deserto.

Corriere della Sera 23.4.09
Esce oggi da Feltrinelli il nuovo libro di Eva Cantarella. Viaggio in una concezione dell’eros basata sul culto della virilità
L’amore nell’antica Roma quando i gladiatori erano come i calciatori
Le donne conquistate dal loro fascino. Lo dicevano anche i poeti
di Eva Cantarella


«Dammi mille baci» a Milano e Napoli. Anticipiamo un brano tratto dal libro di Eva Cantarella Dammi mille baci. Veri uomini e vere donne nell’antica Roma, in uscita oggi da Feltrinelli (pp. 190, e15). L’autrice incontra i lettori oggi a Milano con Giulia Cogoli (Feltrinelli di piazza Piemonte 2, ore 18,30), domani con Giuseppe Cacciatore e Marco Lombardi a Napoli (ore 18, Feltrinelli, piazza dei Martiri 1).

Che l’eman­cipazione femmini­le non fos­se un fatto di élite, ma avesse toccato anche le donne del­le classi meno alte, è chiaramente mostrato dai reperti, e più in partico­lare dai graffiti pompeiani.
Per cominciare: le donne di Pom­pei, oltre a frequentare i teatri, assi­stevano ai giochi gladiatori, ai quali pare si appassionassero non tanto per i giochi in sé quanto per i gladia­tori; i quali, se sopravvivevano alle lo­ro non facili esibizioni, diventavano le star dell’epoca — un po’ come i cal­ciatori di oggi, o come i cantanti rock, ammirati e amati dalle donne di ogni ceto sociale. A dimostrarlo, ecco le iscrizioni che a Pompei, più o meno scherzosamente, alludono al loro fascino irresistibile.
Il trace Celado, ad esempio — leg­giamo nella caserma dei gladiatori — fa sospirare le ragazze. Chi lo ha scritto, una donna o un uomo? Poco importa, in ogni caso dal graffito vie­ne una conferma del fatto che le ra­gazze di Pompei non erano insensibi­li al fascino dei muscoli e della cele­brità.
Sullo stesso edificio, un altro graf­fito ci informa che Crescente, il rezia­rio (uno dei gladiatori specializzati nel combattere con una rete, con cui dovevano difendersi dagli attacchi av­versari), era «il medico notturno del­le ragazze». Piacevano a tutte, questi gladiatori. Oltre che alle ragazze di modeste condizioni sociali, anche al­le matrone, che a quanto pare, più es­si uscivano malconci dalle lotte, più li amavano. Quanto meno, così vuol farci credere il solito Giovenale, che nella sua satira sulle donne racconta di una certa Eppia, che aveva abban­donato casa e famiglia per seguire un gladiatore, tal Sergetto, che attende­va, ormai, / con quel braccio spezza­to il suo congedo; / e molti sfregi avea nel volto, e il ciuffo / diradato dall’el­mo, e in mezzo al naso / un grossissi­mo porro; e un male acuto / gli facea sempre gocciolare un occhio. / Ma un gladiatore egli era!
Per lui, dice Giovenale, anche se era stata abituata da bambina a ogni lusso, e anche se faceva grandissime difficoltà se il marito tentava di farla salire su una nave, Eppia aveva sfida­to le onde, seguendolo fino in Egitto: quel Sergetto non doveva essere ri­buttante come Giovenale lo descrive. La patologica misoginia del poeta emerge anche in questi versi, e si con­ferma quando, generalizzando il comportamento di Eppia, scrive che quelle che a un amante / van dietro, hanno stomaco di bronzo, / quella vo­mita addosso al suo marito, / questa tra i marinai mangia e passeggia / su e giù per la nave e si compiace / nel maneggiare i ruvidi cordami.
Non le amava affatto le donne, Gio­venale. Ma, al di là delle sue esagera­zioni, possiamo cogliere una verità: anche le signore delle classi alte era­no sensibili al fascino dei gladiatori. Come del resto parrebbe confermare un altro ritrovamento pompeiano.
Nell’alloggio dove dormivano i gla­diatori, infatti, sono stati trovati i re­sti di una persona di sesso femmini­le, e dei gioielli, che presumibilmen­te le appartenevano. Cosa ci faceva, in quel posto, una signora ingioiella­ta? Esercitando un po’ la fantasia, si è diffusa l’idea che quella sera la signo­ra fosse andata, presumibilmente di nascosto, a trovare il suo bel gladiato­re. Chissà se il cataclisma la sorprese appena arrivata, o mentre si accinge­va a tornare a casa. Come che sia, mo­rì in un momento felice.
Erano molto preoccupati, i roma­ni. Nonostante l’impegno che aveva­no messo, e che continuavano a met­tere, nell’opera di educare le donne alla virtù, erano stati costretti a ren­dersi conto che qualcosa dovevano aver sbagliato.
A cavallo tra il I secolo avanti e il I secolo dopo Cristo, vedevano la città popolata da donne i cui costumi avrebbero fatto inorridire i loro ante­nati. Delle libertà (alcune delle quali concesse da loro stessi, massima del­le beffe) le donne non si limitavano a fare un uso discreto, capace di non sconvolgere le antiche abitudini: ne abusavano, ne approfittavano in mo­do indecente. Questo pensavano i ro­mani. A loro non piacevano proprio le donne emancipate. Per loro, l’emancipazione era un pericolo so­ciale. Diceva Cicerone, parafrasando Platone, che là dove donne e schiavi non obbedivano era l’anarchia. Ma le accuse più pesanti alla presunta dis­solutezza delle donne vengono dai poeti: in particolare, i poeti satirici.
Giovenale, per cominciare. In lui, la descrizione della nequizia femmi­nile raggiunge livelli paradossali. Al di là di ogni considerazione sulla en­fatizzazione e caricaturizzazione del­la realtà tipica del genere letterario, i versi di Giovenale rivelano una miso­ginia quasi patologica: «La lussuria è vizio di tutte, schiave e padrone», scrive nella sesta satira, «da quella che va scalza per le strade della città, a quella che si fa portare in lettiga da schiavi siriani, le donne, tutte, senza scampo, sono dissolute».
Certo. Lo sappiamo: la satira porta la realtà alle estreme conseguenze, ri­dicolizzandola, non di rado per esor­cizzare nel riso il disagio e, spesso, una vera e propria paura. Ma perché avevano paura delle donne, i romani? Cosa temevano?
In primo luogo, che volessero co­mandarli (come, secondo i poeti sati­rici, ormai facevano senza un mini­mo di ritegno). Soprattutto se erano ricche. Un timore diffuso, che Marzia­le dichiara apertamente: Donna ricca sposare? No. Perché, / mi domanda­te. Perché voglio / sposare, non esse­re sposato. / La moglie, Prisco, sia soggetta al marito: / è la sola egua­glianza possibile tra i due.
Più chiaro di così. Comandano, pretendono. Ormai, sono convinte che avere un amante sia un loro dirit­to. Alcune arrivano a pensare che li­mitarsi a uno solo sia quasi una con­cessione al marito.