lunedì 27 aprile 2009

Repubblica 27.4.09
Se scompare la liberazione
di Adriano Prosperi

E così scomparirà forse dal vocabolario delle feste nazionali la parola "Liberazione". A partire dal 25 aprile 2009, da quella che sarà stata (forse) l´ultima Festa della Liberazione, la sostituirà un´altra parola, solo in apparenza simile: "Libertà". Un mutamento che sembra del tutto naturale, di fatto già avvenuto, come bere un bicchier d´acqua, come trovare la definizione adatta per riempire le caselle di un gioco di parole incrociate. Una piccolissima modifica, una roba da niente. Tanto piccola e innocua che questo mutamento di fatto è come se fosse già avvenuto. Del resto, l´accoglienza è stata benevola, perfino un po´ distratta. Una parola, nient´altro. I pochi, prevedibili dissensi sanno più di blando rimpianto per la dipartita di un vecchio amico di famiglia che di lotta per difendere valori non negoziabili. Nel consenso si avverte un respiro di sollievo, come quello a cui dà voce un editoriale sul Corriere della Sera di ieri. È – vi si legge – «una ferita che si chiude».
C´era dunque una ferita: la parola "Liberazione" la teneva aperta, la parola "Libertà" la chiude. Caso singolare, degno di attenzione. Una parola divideva, di più: feriva e faceva sanguinare, l´altra – pur della stessa famiglia – magicamente risana la ferita, ricompone la società, fa scomparire l´ultimo riflesso delle passioni da cui era nata. E certo quelle passioni se le portava dietro fin da quando era nata: perché erano quelle passioni che l´avevano generata nella mente di una minoranza di italiani. Quegli uomini parlavano anche di libertà ma intanto vedevano l´urgenza di un´azione da compiere, un´azione liberatoria, «questa cruenta lotta di liberazione» – come scriveva il 25 settembre del 1945 il partigiano Didimo Ferrari al commissario della Divisione Lunense, l´azionista e futuro storico Roberto Battaglia. Ma se libertà e liberazione erano così solidali nella lingua di allora, che cosa le ha fatte diventare nemiche nella lingua di oggi? «Il concetto di libertà – ha scritto Marc Bloch – è uno di quelli che ogni epoca rimaneggia a suo piacere». Più difficile rimaneggiare "Liberazione" – quella specifica e precisa lotta di liberazione che si svolse in un determinato momento della storia italiana. Quanti liberatori attivi ebbe l´Italia tra il 1940 e il 1945? C´era allora il "Consolidated B-24 Liberator": un bombardiere quadrimotore. Lo vedevamo dal basso quando veniva a bombardare un´Italia già alleata della Germania e poi occupata dai tedeschi, dove popolazioni inermi tradite dai rappresentanti dello Stato aspettavano che qualcuno li liberasse dalla condizione schiavile in cui erano precipitati. Se qualcuno non si fosse ribellato e non avesse dato vita all´organizzazione di Comitati di Liberazione Nazionale, gli italiani avrebbero avuto una liberazione tutta americana, insieme alle "AM-Lire" stampate dagli alleati.
Non sarebbe stata la prima volta. Nella storia d´Italia altre svolte rivoluzionarie del mondo moderno sono state vissute in modo passivo. Per una di loro, quella della Grande Rivoluzione francese esportata dalle armate napoleoniche in tutta Europa, lo storico napoletano Vincenzo Cuoco coniò il termine di "rivoluzione passiva", che rimase buono anche per altri usi. Ma almeno in un caso l´Italia è stata attiva e creativa: nell´invenzione del regime fascista, guidato da un capo che si presentò agli inizi come rivoluzionario. Lo storico che sottolineò questo aspetto, Renzo De Felice, fu anche colui che coniò una espressione poi entrata nel linguaggio comune delle narrazioni della storia italiana del ´900: "gli anni del consenso". Significava quella espressione che l´adesione degli italiani al regime fascista era stata un fenomeno di massa. E questo è servito spesso nella polemica ideologica a sminuire ancora di più la piccolezza del fenomeno della Resistenza come guerra di liberazione condotta da italiani. Poteva mai nascere dal paese del consenso di massa al fascismo, un altro e opposto paese capace di lottare per riscattare la propria dignità? Nella stanchezza di un´Italia lontanissima da quei tempi oggi sembra giunto il tempo per cancellare anche nel linguaggio l´ultima traccia verbale di una stagione lontana. Ma nella parola "Liberazione" e solo in quella è iscritto il ricordo di un fatto storico che ha segnato la discontinuità tra due Italie. Questo termine sta a ricordare che c´è stata una lotta di una parte del paese contro un´altra, che quella parte pur minoritaria seppe allora raccogliere l´esito della fine del consenso al regime e conquistarsi nel paese un altro e diverso consenso di massa: quel consenso che, attraverso libere elezioni e nella dialettica di ideali diversi ma capaci di dialogare e di incontrarsi sulla sostanza, dette vita e forma alla Costituzione repubblicana. Lo si cancelli, se si vuole, se si può. Vediamo bene che c´è un patteggiamento intorno a questo e che non mancano offerte di pagamento in buona moneta: tale è il ritiro della legge che equipara gli italiani di Salò e quelli dei Comitati di Liberazione, tale è la possibilità di una revisione della Costituzione non a colpi di maggioranza. E il prezzo che si chiede è solo una piccola operazione di "lifting" verbale. Tuttavia una cosa deve essere tenuta presente: il banco di prova più delicato del potere si trova proprio qui, nella capacità di iscriversi nel linguaggio, di mutare le denominazioni delle feste come momento simbolico della vita collettiva. E non è solo nell´universo dantesco che per una "paroletta" ci si danna o ci si salva.

l’Unità 27.4.09
No all’ora di religione
Berlino boccia il referendum dei cattolici
di Gherardo Ugolini

Contro l’insegnamento dell’etica voluto dalla coalizione Spd-Linke, erano scesi in campo i gruppi cattolici. Anche la cancelliera Merkel si era schierata per l’abrogazione. Ma i berlinesi hanno detto no.

Il referendum non ha raggiunto il quorum ed è fallito. E chi ha votato ha detto no. E così la «battaglia sull’ora di religione», combattuta ieri a Berlino, si è conclusa con una chiara e netta vittoria del fronte laico. Se c’era bisogno di un’ulteriore conferma del fatto che i cittadini di questa metropoli sono orgogliosi del loro spirito tollerante e alieno da integralismi e fondamentalismi, questa è arrivata in modo clamoroso con l’affossamento dell’iniziativa Pro Reli, che mirava a modificare l’attuale sistema d’insegnamento della religione a scuola introducendo l’obbligo di scelta tra ora di religione o di etica.
Flop alle urne
Solo il 29% degli aventi diritto si è recata ieri alle urne e tra i votanti solo coloro che hanno detto «sì» alla proposta di cambiamento sono stati molto meno dei 612mila necessari per far scattare il quorum. Di conseguenza nelle scuole di Berlino si continuerà come prima: tutti gli scolari dovranno frequentare obbligatoriamente le lezioni di etica (intesa come educazione civica e trasmissione dei valori costituzionali), mentre solo chi lo vorrà potrà facoltativamente seguire l’ora di religione. Attualmente ben il 70% dei berlinesi in età scolare sceglie di non avvalersi dell’insegnamento di religione.
Fino a ieri la città era invasa di manifesti e volantini invitanti a mobilitarsi «per la libertà di fede», contro «il materialismo imposto dalle sinistre».
Toni da crociata
Evidentemente questi toni da guerra fredda, questi slogan da crociata, non piacciono in una città che come nessun’altra ha vissuto sulla sua pelle il dramma novecentesco della contrapposizione ideologica. La sconfitta è cocente per Christoph Lehmann, il quarantaseienne avvocato di successo che un anno fa ha fondato l’iniziativa Pro Reli e l’ha guidata fino a ieri. Se ce l’avesse fatta avrebbe con ogni probabilità utilizzato la vittoria per catapultarsi alla guida della Cdu locale, travolta da scandali finanziari, relegata all’opposizione e in perenne attesa di un serio rilancio. Ha perso il vescovo della chiesa evangelica Wolfgang Huber. Hanno perso la Cdu e i liberali della Fdp. E ha perso Angela Merkel che alla vigilia del voto ha lanciato un appello a votare in massa per Pro Reli rompendo una tradizione che vuole il cancelliere neutrale in faccende di politica locale. Vero vincitore dalla consultazione referendaria è senz’altro il borgomastro Klaus Wowereit, il personaggio che meglio interpreta il sentimento di forte laicismo in cui si riconosce la stragrande maggioranza dei berlinesi. Era stato lui, governatore socialdemocratico alla guida di una maggioranza in cui Spd e Linke cooperano pragmaticamente e con discreti risultati, a volere che fosse introdotta etica come materia obbligatoria per tutti i ragazzi.

Corriere della Sera 27.4.09
Il cardinale. Il tedesco Walter Kasper
«Città profana e secolarizzata Così si nega una libertà»
di Gian Guido Vecchi

Poche illusioni. Ho sperato che il referendum passasse, ma senza farmi illusioni: conosco la capitale tedesca ed ero realista... Non è la Germania del Sud, la mia Svevia, la Baviera...
Dibattito. Una cosa positiva c’è: per settimane la città ha discusso in pubblico e sui giornali di religione, un tema di solito ignorato.

CITTÀ DEL VATICANO — «È tri­ste, lo dobbiamo accettare ma mi sento molto triste: non si voleva imporre nulla, la possibilità di scelta è un segno di libertà ed è questa che alla fine hanno nega­to ». Il cardinale Walter Kasper, presidente del pontificio Consi­glio per la promozione dell’unità dei cristiani, è un teologo di fama che si è formato a Tubinga e a Mo­naco. La voce, comunque, è sere­na. Triste sì, ma non particolar­mente stupito: «Ho sperato che il referendum passasse, ma senza farmi illusioni: conosco Berlino e sono rimasto realista...».
Certo che è una situazione strana, eminenza: il suo è un Pa­ese da sempre all’avanguardia negli studi biblici e teologici, il dottorato in Germania è l’eccel­lenza in materia, e ora nella capi­tale si boccia la possibilità di ave­re l’ora di religione a scuola...
«Vede, Berlino rappresenta un caso straordinario, non è la Ger­mania. E certo non è la Germania del Sud, la mia Svevia, la Bavie­ra... In Germania è un po’ come in Italia, c’è differenza tra Nord e Sud. Ma Berlino, in particolare, è una città profana e secolarizzata, nella quale i cristiani sono sem­pre stati una minoranza, fin da prima della guerra, dagli anni del nazismo al comunismo. È la capi­tale dell’ateismo!».
Ma in fondo qui si trattava di poter scegliere la religione anzi­ché l’ora di etica. Come si spiega il rifiuto?
«L’argomento, dall’altra parte, era che nella città vivono tanti im­migrati, in particolare musulma­ni, e c’è bisogno di un’etica che coinvolga e unisca tutti. Ora, a parte che un’etica senza Dio è as­sai debole e che per la maggioran­za dei ragazzi è anche noiosa per­ché non ha fondamento nella vi­ta, il problema è questo pregiudi­zio: si pensa che la religione sia un fattore di divisione. Tra l’altro, c’è una cosa interessante...».
Cosa?
«Ho saputo che gli ebrei e an­che i musulmani erano favorevoli al referendum, alcuni lo hanno so­stenuto. Loro stessi, del resto, so­no interessati al tema e vorrebbe­ro che fosse dato un insegnamen­to della loro religione».
Il caso Berlino è un problema anche per il resto d’Europa?
«Beh, certo, la secolarizzazione purtroppo è diffusa anche altro­ve. Pensi solo al Belgio, dove il Parlamento è arrivato a votare contro il Papa».
Benedetto XVI non sarà contento, per il voto di Berli­no...
«Ah, questo è sicu­ro. E non posso esse­re contento nean­ch’io. Nessuno lo è. Però una cosa positi­va, in tutto questo, c’è».
E quale, eminenza?
«Per settimane a Berlino si è di­scusso in pubblico e sui giornali di religione, un tema di solito ignorato. Evviva! Vista la situazio­ne, già questo è un passo in avan­ti. La cosa peggiore è quando non se ne parla proprio».
Ma ora non teme che la cam­pagna per il referendum si ritor­ca contro chi l’ha promossa, il classico effetto boomerang?
«Questo no, non lo credo asso­lutamente. I cristiani, cattolici e protestanti, si sono risvegliati. Hanno mostrato di voler lottare per la loro fede».

Corriere della Sera 27.4.09
Sinistra. «Gigante» malato
La via Emilia ai tempi del Pd. Addio alle case del popolo e i sindaci diventano «bianchi»
di Francesco Alberti

I democratici guidano 232 dei 275 Comuni al voto ma i dirigenti sono sotto accusa: «Come l’orchestra sul Titanic». Anche il Prc è in crisi: nel paese del busto di Lenin correrà senza falce e martello
Bolognina deserta. Ai circoli si va per la ginnastica rilassante

BOLOGNA — Nessuno porta fiori sulla tomba del Pci. Civico 4 di piazza dell’Unità. Cortile interno. Piano terra, in un’anonima palazzina. È la sezione della Bolognina Centro. Qui, il 12 novembre dell’89, Achille Occhetto annunciò la fine del più grande partito comunista d’Occidente. La saracinesca si al­za solo il giovedì e la domenica, una manciata di ore. L’interno è lindo, moderno. Una scala porta in uno scantinato che ospita un’associazione di pittori amatoriali. Non c’è traccia di quel 12 novembre che cambiò un pezzo d’Italia. Una foto di Enrico Berlin­guer. Una di Nilde Iotti. Occhetto fa capolino in una firma autografa su una bandiera del Pds. Altrove, forse, ci avrebbero fatto un museo. Scrive Lanfran­co Turci sulle Ragioni del Socialismo di Emanuele Macaluso: «È una rimozione silenziosa: l’abbando­no di un’autonarrazione, che, per quanto ideologi­ca, rappresenta pur sempre un deposito di valori».
Lenin e l’ultima trincea — Mirko Tutino, 26 anni, è segretario del Pd di Cavriago (55% di voti su 9.000 anime) e ogni volta che esce di casa sbatte gli occhi sul busto di Lenin, 1922, «dono dell’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche alla popolazione di Cavriago». Marmo citatissimo da giornali e tv ai tempi del crollo del Muro. «Ora — dice — è un souvenir per nostalgici a zonzo per trattorie». Il custode, Bruno Ferrari, detto «Pravda», è morto e non l’hanno sostituito. Anche i teppistelli di paese hanno perso il gusto d’imbrattarlo. Rifondazione, qui, si presenta alle elezioni senza falce e martello. Tutino non crede in Lenin. Crede nel Pd. In un Pd ancora tutto da fare. Lo ha scritto ai capi della Federazione di Reggio Emilia. Dieci paginette. Il docu­mento «è al vaglio». Ci sono passaggi morettiani: «L’attuale classe dirigente è come l’orchestra del Ti­tanic. Sembra quasi che il lutto per la scomparsa del Pci abbia tolto speranza alla generazione del ’68. Bi­sogna ripartire da modelli di vita alternativi: solida­rietà, sacrificio, investimento». Tutino cita Debora Serracchiani. Ma si scalda di più per Alessio Mam­mi, 29 anni, che nessuno conosce, ma a Scandiano ha vinto le primarie da sindaco: «Ci vuole una gene­razione di salmoni, che risalgano la corrente: i missi­ni l’hanno fatto».
L’Emilia Romagna non è rossa né bianca. Il suo Pd è un ponte sospeso tra presente e futuro e, come scri­ve Turci, «sembra vivere in quel non luogo politico in cui vive il partito nazionale». Diciamo allora che la via Emilia è semplicemente l’ultima trincea del Pd prima del nulla: se qui crolla alle Amministrative di giugno, vanno a casa anche a Roma. Lo sciame sismi­co c’è e si sente: proliferazione di liste civiche, cresci­ta dipietrista, artigliate leghiste (con candidati sinda­ci a Reggio, Modena e Ferrara), liti intestine, lo spet­tro del disimpegno. «Abbiamo avuto tanto e ora ab­biamo molto da perdere» riconosce Giorgio Sangri­ni, responsabile organizzazione. Eppure la macchina è ancora da guerra, anche se non ha nulla di occhet­tianamente gioioso: 45,7% alle Politiche 2008, 75 mila iscritti.
Il Pd è al governo in 232 Co­muni dei 275 chiamati al vo­to. Burocrazia ramificata.
Bologna, Modena, Reggio, Ravenna, Ferrara spesso ai vertici delle classifiche sulla qualità della vita. Il gigante cooperativo a far da sponda, anche se l’afflato sociale è sta­to risucchiato nel gorgo del business e ciò che resta del collateralismo è nelle parole del presidente della Lega Coop, Gianpiero Calzolari: «Non è scon­tato il voto al Pd».
Frattocchie e ballottaggi — Marino Montanari ha 90 anni, frequentava la casona a Gatta­tico dei fratelli Cervi. Ha lasciato un polmone e un rene nella guerra partigiana, consegnando ordini nei boschi della Val d’Enza, ai confini del Parmense. Il Pci lo curò e lo spedì alle Frattocchie, a Roma, lui che aveva solo la licenza elementare: «Il mio mae­stro era Paolo Robotti, cognato di Togliatti, bravissi­mo, durissimo. A volte mi sentivo scoppiare il cer­vello, e lui mi diceva: 'Vai a dormire...'». Montanari ha allevato più di una generazione di assessori nel Reggiano: «Insegnavo economia politica applica­ta... ». Applicata a cosa? «Alla pancia della gente, ai bisogni veri». Il Pd? «Io sono un culindietro, sono uscito così da mia madre. Quelli come me, racconta­no qui, hanno bisogno di un sogno, anche se sba­gliato. Beh, non lo vedo».
Se è per questo, scarseggiano anche le certezze. Perfino a Reggio Emilia, dove le elezioni non sono mai state un thrilling dai tempi in cui Togliatti (con il discorso Ceto medio e Emilia rossa del ’46) co­strinse l’anima bolscevica del Pci a stringersi negli abiti del riformismo socialista. Il sindaco uscente Graziano Del Rio (ex margheritino), pur partendo da un oceanico 63,2% del 2004, rischia seriamente il ballottaggio a causa del «fuoco amico» di Antonella Spaggiari, che viene dal Pci-Pds, è detta «la zarina», è stata sindaco per 13 anni, poi presidente della fon­dazione bancaria Manodori, e ora guida una lista ci­vica sostenuta dall’Udc. Stessa sorte rischiano Fla­vio Delbono a Bologna e Giorgio Pighi a Modena. Il primo, nonostante l’appoggio prodiano, la scelta di far risorgere il modello Unione e il sostegno critico di alcuni intellettuali tra i quali Filippo Andreatta, è insidiato dalla lista del politologo Pasquino, dalla si­nistra creativa di Franco Berardi «Bifo» e dalle incur­sioni guazzalochiane. Il secondo rischia di pagare ca­ra la rottura con dipietristi e Rifondazione.
Il ritorno dei dc — Senza il mastice del Partito, si moltiplicano liste civiche e comitati di protesta: 33 candidati solo nell’ex Triangolo rosso (Bologna, Modena, Reggio), roba mai vista. Ci sguazzano i padani di Bossi: «Il Pd perde pezzi, c’è speranza per tutti» dice il deputato Angelo Alessan­dri, candidato a Reggio.
Nulla è scontato. La cosiddetta «fusione a freddo» tra ex diessini ed ex margheritini, ad esempio. Sarà anche fredda, ma solo per i nipotini di Togliatti. Quelli di De Gasperi, viaggiano come treni alle pri­marie. A Bologna Delbono. A Ferrara Tagliani (ex cri­stiano sociali). A Reggio Del Rio. A Forlì, il laico e mazziniano Roberto Balzani ha battuto per 44 voti il sindaco uscente pd: «Il segreto? Fare campagna fuo­ri dal partito» dice con disarmante candore, non na­scondendo «di avere problemi con la nomenklatura del partito». Il politologo Paolo Pombeni l’ha rias­sunta così all’Assemblea costituente: «Gli eredi del Pci non sono più capaci di esprimere una classe diri­gente, c’è una crisi di presentabilità». E troppa disin­voltura. Come a Travo, nel Piacentino: neanche 2000 votanti e tre liste di pd o ex pd che fanno a cazzotti. Anche le Case del Popolo soffrono una crisi di presentabilità. Non se ne trova una. All’Arci Benas­si, alle porte di Bologna (2.800 iscritti, sezione stori­ca, un mare di teste bianche), fanno di tutto: burra­co, ginnastica rilassante, calcetto, carte, pesca. Me­no che politica: «Siamo apolitici...».

Corriere della Sera 27.4.09
Spagna, aborto libero a 16 anni
di Elisabetta Rosaspina

Il raddoppio. In dieci anni il numero degli aborti nelle cliniche spagnole è raddoppiato E sono aumentate le gravidanze delle ragazzine: oltre 10 mila in un anno

Previsto nella nuova legge preparata da un gruppo di esperti Nelle prime 14 settimane interruzione senza alcun limite
Oggi. Secondo le norme in vigore dal 1985 la gravidanza si può interrompere fino al nono mese, ma solo in tre casi specifici
Domani. La riforma che il governo Zapatero vuole varare prevede, tra l’altro, il limite della ventiduesima settimana

MADRID — Sedici candeline, in Spagna, non per­mettono ancora a una ragazza di guidare l’auto o di comprarsi un pacchetto di sigarette, ma l’autorizza­no a rifarsi il seno, senza il permesso di mamma e papà, e a opporsi a qualunque trattamento sanita­rio, dall’apparecchio per raddrizzare i denti a un tra­pianto, eccetto l’aborto, la fecondazione assistita e le analisi cliniche. Prima dell’estate, però, l’emanci­pazione adolescenziale farà probabilmente un altro passo avanti e una minorenne spagnola potrà inter­rompere un’eventuale gravidanza senza neppure in­formarne i genitori e senza l'avvallo di un giudice tutelare, come avviene, nei casi estremi, in Italia.
La riforma della legge sull’aborto, al vaglio del governo socialista di José Luis Rodriguez Zapatero, sta riaprendo nel Paese un dibattito analogo, per argomenti e veemenza, a quello che accompagnò nel 1985 la prima depenalizzazione dell’aborto in tre casi specifici: la malformazione del feto, la gravi­danza frutto di violenza e il pericolo per la salute fisica o psichica della donna, ampio ombrello (sen­za limiti legati ai tempi di gravidanza) sotto al qua­le trova spazio il 97% dei 120 mila aborti praticati ogni anno. Se la nuova normativa accoglierà i sug­gerimenti della commissione di nove esperti, gine­cologi e giuristi, istituita al principio di settembre dal ministero dell’Uguaglianza, l’aborto in Spagna diventerà libero fino alla 14esima settimana di ge­stazione e sarà condizionato, fino alla 22esima, dal grave rischio per la vita e la salute della madre o dal riscontro di serie anomalie nel feto.
«Porremo limiti dove finora, di fatto, non ce n’erano», difende le linee della riforma Bibiana Ai­do, ministra dell’Uguaglianza, di fronte all’ondata di anatemi lanciati dalla chiesa, dal Partito Popola­re, dal 2004 all’opposizione, e dai ranghi conserva­tori che includono una larga fetta della classe scien­tifica.
Ma anche tra i progressisti serpeggia qualche perplessità sulla facoltà legale concessa a una mino­renne di interrompere una gravidanza accidentale all’insaputa della famiglia: «Non è altro che un am­pliamento della legge sull’autonomia del paziente, approvata nel 2002 proprio dal governo del Partito Popolare, secondo la quale dai 16 anni in poi si pos­sono prendere decisioni autonome riguardo a qual­siasi intervento medico — contrattacca Bibiana Ai­do —. Con quella legge un adolescente può sceglie­re liberamente se sottoporsi, o no, a un’operazione a cuore aperto o alla chirurgia estetica. Includendo l’aborto, tuteliamo anche la minorenne che voglia tenere il suo bambino contro il parere dei genitori. Comunque, la modifica è stata raccomandata dal comitato di esperti, ma sarà il parlamento, infine, a decidere».
Il dibattito e le conclusioni del congresso sono previsti prima della pausa estiva, e intanto la batta­glia infuria: «È più protetta la lince iberica di un bambino» gioca sul paradosso e sull’accostamento delle foto delle due diverse specie di cuccioli, la campagna lanciata dalla Conferenza episcopale spa­gnola attraverso migliaia di manifesti.
«Per la ministra Aido l’aborto diventerà un’alter­nativa al preservativo» va giù, ancora più duro, il presidente onorario dei popolari, Manuel Fraga. E alla solenne apertura dell’assemblea generale dei vescovi, il presidente della Conferenza episcopale, cardinale Antonio Maria Rouco Varela, ha chiama­to i fedeli a raccolta contro il «crimine dell’aborto» che «oscura la democrazia». Provocando la reazio­ne della ministra dell’Uguaglianza: «Alla Chiesa compete dire semmai che l’aborto è peccato, non che è un delitto. E al governo spetta elaborare leggi che riguardano tutti i cittadini, nel rispetto di tutte le posizioni».
In un’intervista al quotidiano El Pais, la nuova ministra alla Sanità, Trinidad Jimenez, assicura di non temere l’ostilità delle ge­rarchie ecclesiastiche: «Il di­battito sociale pro o contro l’aborto è ormai superato da moltissimi anni. Ora si sta di­scutendo di come offrire mag­gior sicurezza e privacy alle donne e agli operatori sanita­ri ». E di come canalizzare ne­gli ospedali pubblici un inter­vento appaltato, quasi nel 98% dei casi, alle cliniche pri­vate.
Anche le statistiche sembrano adattarsi, come un elastico, alle differenti interpretazioni: se gli opi­nionisti conservatori fanno notare che in 10 anni il numero degli aborti all’anno è raddoppiato, passan­do dai 53.847 (6 ogni mille donne tra i 15 e i 44 anni) del 1998 ai 112.138 del 2007 (11,49 per mil­­le), i progressisti replicano che l’impennata è lega­ta all’immigrazione, poiché il 50% delle interruzio­ni di gravidanza è richiesto da straniere. Di qualun­que nazionalità siano, sono sempre più giovani: nel 2007 hanno abortito in Spagna 6.273 minoren­ni (500 avevano meno di 15 anni) e altre 4.400 han­no portato a termine la gestazione. Significa che ne sono rimaste incinte poco meno di undicimila. Ne­gli ultimi 10 anni sono raddoppiate le gravidanze sotto ai 17 anni e gli aborti sotto ai 19 (passando dal 5,71% al 13,79% del totale). Un’inchiesta condot­ta tra duemila spagnole dall’Equipo Daphne, una squadra di sette ginecologi di prestigio in attività dal 1996, conclude che il 21% non ricorre ad alcun metodo anticoncezionale. Per estensione, si calcola che due milioni e centomila donne siano esposte al rischio di un «incidente di percorso».
«Nei sondaggi l'80% dei giovani assicura di pren­dere precauzioni — commenta Esther de la Viuda, presidente della Società spagnola per la contracce­zione —, ma poi il 39% ammette di proteggersi in maniera inconsistente e occasionale». Approva che una sedicenne possa poi rimediare al «guaio» sen­za farsi accompagnare dai genitori? «C’è una pole­mica esagerata su questo aspetto — risponde —. Forse il testo di legge stabilirà che debba essere ac­compagnata da un maggiorenne. Ma dal punto di vista della maturità non credo ci sia ormai molta differenza tra una ragazza di 16 e una di 18». Due candeline, la patente e un pacchetto di sigarette.

l’Unità 27.4.09
L’Homo floresiensis sapeva modellare pietre. Prima di noi
Il luogo I ritrovamenti dei paleontologi sull’isola di Flores, in Indonesia
Un piccoletto insegnò al Sapiens a lavorare la pietra
di Pietro Greco

L’Homo sapiens imparò a lavorare la pietra dall’Homo florensiesis, una sorta di ominide alto un metro e dal cervello grande come una pera? Dei ritrovamenti nell’isola di Flores, Indonesia, suggeriscono di sì.
E se il piccolo hobbit, l’ultimo degli erectus, avesse insegnato direttamente al grande ed encefalizzato Homo sapiens come si lavora la pietra, nell’isola di Flores almeno ventimila anni fa? L’ipotesi - avanzata di recente da Mark Moore della University of New England, in Australia - è tutta da confermare. Ma racchiude in sé due novità per molti versi sorprendenti.
Si fonda su quattro fatti. Il primo è che nel sito di Liang Bua sull’isola di Flores, in Indonesia, frequentato per circa 80.000 anni - da 100.000 fino a 17.000 anni fa - da Homo floresiensis, un omino alto non più di un metro e col cervello grande come una pera, Mark Moore ha trovato pietre di origine vulcanica sapientemente lavorate. Il secondo fatto è che nello stesso sito il paleontologo australiano ha rinvenuto pietre lavorate molto più di recente, ma con la medesima tecnica. L’archeologo le ha studiate tutte, le più antiche e le più recenti. Ne ha prelevate 11.667 in cinque diversi livelli dello scavo. Osservandole a fondo, con le più moderne tecniche, una per una, per verificare come sono state lavorate. Il terzo fatto è che Liang Bua è stata frequentata, a partire almeno da 11.000 anni fa, da gruppi di Homo sapiens. Il quarto fatto è che i sapiens sono giunti in Indonesia 45.000 anni fa.
TECNICHE ELABORATE
Mark Moore ha provato a dare un’interpretazione coerente a questi quattro fatti. Le pietre ben lavorate non possono essere state realizzate tutte dai sapiens. Le più antiche, almeno, sono state lavorate certamente da Homo floresiensis, perché risalgono a un periodo in cui i sapiens in tutta l’Indonesia e persino in Asia non erano ancora arrivati. Di qui il primo rovello: come faceva quell’omino dal fisico e soprattutto dal cervello così piccolo ad aver sviluppato una cultura litica così avanzata? Domanda davvero intrigante. Cui Moore risponde chiedendo aiuto a Nicholas Toth e a Kathy Shick, due antropologi americani della Indiana University, che hanno insegnato ai bonobo (i piccoli scimpanzé che sono stati gli ultimi primati ad aver avuto un antenato comune con l’uomo) a lavorare la pietra in maniera abbastanza sofisticata.
La seconda domanda non è meno intrigante. Le pietre più recenti e quelle più antiche sembrano essere state lavorate se non dalla stessa mano, certo allo stesso modo: perché i sapiens hanno lavorato la pietra con la stessa tecnica dei floresiensis? E qui Moore avanza la sua ipotesi innovativa: semplice, perché l’hanno appresa direttamente dagli «hobbit», con cui hanno evidentemente convissuto occupando la medesima area. Non è l’unica risposta possibile: potrebbe trattarsi di semplice convergenza evolutiva (nel medesimo ambiente, con la medesima materia, entrambe le specie umane hanno trovato il modo migliore per intagliare). Per saperne di più Moore sta per pubblicare il suo report sul prossimo numero del Journal of Human Evolution.

Repubblica 27.4.09
Date un obolo a Rita e ai poveri marziani
di Mario Pirani

Nell´affettuoso saluto in onore di Rita Levi Montalcini, in occasione del suo centesimo genetliaco, il Presidente della Repubblica ha aggiunto nel finale una piccola frase, di cui a molti sarà sfuggita l´importanza.
Giorgio Napolitano ha detto testualmente: «Cara amica, le auguriamo di tutto cuore successo per il suo progetto di ricerca, successo per le sue creature, la Fondazione Levi Montalcini e l´Ebri, un istituto al quale sono certo che i poteri pubblici, se necessario lo stesso Parlamento, non faranno mancare le risorse indispensabili per conseguire risultati importanti».
È opportuno spiegare il retroscena dell´autorevole intervento. Esso si riferisce al fatto che l´Ebri, l´European Brain Reserche Institute, il centro di ricerche messo in piedi nel 2004, tra generali plausi e confortanti promesse, dalla Levi Montalcini è stato lasciato totalmente privo di mezzi per funzionare e rischia ogni giorno la chiusura. Eppure le premesse e i primi passi furono attraenti: alla base vi era l´idea di creare un piccolo fulcro di eccellenza di tipo europeo per gli studi sul cervello con tecniche biomolecolari e elettrofisiologiche e per portare avanti la scoperta del fattore Ngf. Venne pubblicato un bando sulle grandi riviste scientifiche internazionali, con offerte di remunerazioni di livello europeo, fatto senza precedenti in Italia. Vennero assunti i primi ricercatori (il pieno organico ne contempla 20, più il personale tecnico e amministrativo). Per la sede un istituto privato di Roma, il S. Anna, concesse in comodato uno spazio di 2300 mq nella sua area di ricerca, chiedendo però una partecipazione alle spese di condominio pari a 700.000 euro l´anno. Una spesa alta ma affrontabile se il piano, che prevedeva in partenza un finanziamento di 20 milioni, e le promesse ministeriali avessero trovato riscontro nella realtà. Invece trascorsi cinque anni sono entrati poco più di 3 milioni. Un milione stanziato in una vecchia Finanziaria è andato, invece, come si dice in gergo amministrativo, in perenzione, in base alla recente norma secondo la quale le somme destinate ad un progetto, se questo non è portato a termine in tre anni, rientrano nelle disponibilità del Tesoro. Ma quale ricerca scientifica è sicuramente completabile in tre anni? Insomma tra impegni dismessi, clausole capestro, sordità politica l´Ebri è rimasto praticamente a secco. Le attività scientifiche sono state quasi esclusivamente finanziate grazie alle sovvenzioni (grant) individuali ottenute dai giovani ricercatori. Ora siamo agli sgoccioli e non c´è quasi più un euro per andare avanti. Al minimo occorrerebbe un finanziamento di 5 milioni per ripartire.
Chi farà la carità ad uno dei più illustri rappresentanti della scienza italiana? Tanto per fare un paragone cinque milioni è all´incirca lo stipendio annuo di un calciatore di media bravura.
Questa è la condizione della ricerca scientifica in Italia. Me lo conferma un´altra sconsolata segnalazione: uno dei pochi successi internazionali raggiunti negli ultimi tempi da parte dell´Agenzia Spaziale Italiana e dai ricercatori della Facoltà di Ingegneria della Sapienza consiste nella partecipazione ai lanci di due satelliti, uno europeo, l´altro con la Nasa, per la ricerca dell´acqua su Marte. All´Italia era stata assegnata la realizzazione, ad opera di Thales-Alenia, dei due radar, il Marsis e lo Sharad, operanti sotto e sopra la superficie del pianeta rosso. Il lancio è riuscito, i radar stanno scaricando una messe abbondantissima di dati. Negli altri Paesi li stanno interpretando e studiando. Da noi alcuni meritevoli giovani studiosi, grazie a borse singole di studio da Finmeccanica e dalla Sapienza, fanno qual che possono, ma la gran mole di lavoro che occorrerebbe e giustificherebbe gli investimenti iniziali resta inevasa. Non ci sono più soldi e non importa a nessuno. La ricerca non fa audience.

Repubblica 27.4.09
Un raffronto tra il signore di tebe e il biblico Giuseppe
I crimini di Edipo Re
Quanto dista il mito dalla bibbia
di René Girard

Due "eroi" simili: ma il sovrano incestuoso è colpevole e basta mentre il figlio di Giacobbe smonta ogni inganno
L´antico testamento si oppone sempre in modo consapevole alle religioni mitologiche
Prendiamo "Caino e Abele" e "Romolo e Remo": il fratricidio è visto in modo quasi opposto

La città di Tebe è devastata dalla peste. Un oracolo religioso annuncia che il responsabile del disastro è un unico individuo che vive in città: egli ha offeso gli dei uccidendo suo padre e sposando sua madre. Si cerca il colpevole e un colpevole si trova: nientedimeno che il nuovo re. Egli non sapeva di aver commesso gli orrendi crimini che pure aveva commesso. Da bambino era stato abbandonato dai suoi genitori a causa di un oracolo, ancora, lo stesso che aveva previsto quello che più tardi sarebbe avvenuto, che cioè il bambino avrebbe un giorno ucciso suo padre e sposato sua madre. Diventato adulto, egli torna a Tebe da perfetto sconosciuto, e il vaticinio si avvera. Ancora una volta il risultato è l´espulsione di Edipo dalla sua comunità.
Esaminando questo mito da vicino, vi si scoprono alcune corrispondenze con la storia biblica di Giuseppe. Giuseppe ha dodici fratelli, Edipo nemmeno uno, ma entrambi vengono respinti dalle loro rispettive famiglie, Edipo dai genitori, Giuseppe dai fratelli. In entrambe le storie l´eroe viene espulso: prima dalla comunità a cui appartiene per diritto di nascita, poi dalla comunità che l´aveva adottato.
Sia Edipo, dopo il suo ritorno a Tebe, che Giuseppe dopo che fu portato in Egitto si potrebbero definire immigranti di successo. Grazie alla loro abilità nell´interpretare oscuri enigmi entrambi riescono a risolvere seri problemi e a diventare di conseguenza grandi leader. Edipo viene incoronato re di Tebe e Giuseppe nominato qualcosa come primo ministro dell´Egitto. Entrambi gli eroi si trovano a esercitare il loro potere contro un disastro naturale. Per Edipo si tratta di un´epidemia di peste; per Giuseppe di una devastante carestia.
Edipo è colpevole di parricidio e incesto. Giuseppe non commette questo tipo di crimini, ma la sua carriera è macchiata da un incidente che rassomiglia all´incesto di Edipo: la moglie del suo padrone e benefattore egizio accusa falsamente il giovane Giuseppe di aver tentato di sedurla. Il marito di lei aveva accolto a corte e trattato Giuseppe come un figlio ed egli avrebbe dovuto rispettarla come avrebbe fatto con la sua stessa madre. L´accusa richiama in qualche maniera alla mente l´incesto con la madre. Siccome Giuseppe è straniero e la donna egizia, i suoi compatrioti credono a lei e Giuseppe finisce per qualche tempo in galera.
Le corrispondenze esistono, e credo siano da evidenziare più che da tacere, se vogliamo arrivare a cogliere la differenza, quella che ha davvero un´enorme importanza.
Edipo fin da bambino è potenzialmente colpevole del parricidio e dell´incesto che commetterà successivamente. I suoi genitori hanno tutte le buone ragioni per abbandonarlo. Più avanti i tebani avranno anch´essi un buon motivo per espellere Edipo una seconda volta, dato che la sua presenza tra loro aveva provocato un´epidemia di peste.
Nel caso di Giuseppe le cose stanno molto diversamente. I suoi fratelli non hanno alcun valido motivo per eliminarlo, sono semplicemente gelosi di lui. Nemmeno gli egizi avevano motivo di incarcerare Giuseppe: il racconto biblico riferisce che era la moglie del suo benefattore a essere gelosa di lui. (...)
Nelle due storie, due eroi simili affrontano simili circostanze con conseguenze non tutto dissimili. Ma se guardiamo al ruolo dell´eroe all´interno della storia, l´interpretazione del mito e l´interpretazione della Bibbia si collocano ai poli opposti.
Si può affermare che le comunità a cui appartenevano Edipo e Giuseppe abbiamo agito giustamente nell´espellerli? Credo che questa sia la domanda predominante in entrambi i testi, ma che rimane implicita nel mito di Edipo, poiché la risposta silenziosa del mito è sempre sì. Quello che Edipo dovrà soffrire è la giusta punizione per i suoi crimini.
Nella Bibbia la domanda si fa del tutto esplicita, perché la risposta è un riecheggiante no. Quello che Giuseppe dovrà soffrire è un´ingiusta punizione. Egli non è che una vittima della gelosia. (...)
La storia biblica mette in ridicolo una dopo l´altra le prove senza senso che nel mito vengono presentate contro il capro espiatorio e le sostituisce con argomentazioni in favore della vittima. La mitologia ripudiata è ripudiata come menzogna. Tutte le volte che Giuseppe diventa vittima, dei suoi fratelli o degli egizi, le accuse contro di lui vengono denunciate come falsità prodotte dall´invidia o dall´odio. Abbiamo dunque sia il racconto dei fratelli al padre, sia la denuncia della falsità di quel racconto. I fratelli si sbarazzano di Giuseppe ma raccontano al padre che il giovane è stato sbranato da una bestia selvaggia. In molti miti il processo di vittimizzazione del capro espiatorio è descritto come un attacco da parte di un branco di animali a caccia o da parte di un singolo animale selvaggio. La storia raccontata dai fratelli è, a mio parere, un mito di questo tipo.
La storia di Giuseppe non è la sola nella Bibbia a ripudiare l´inganno e la violenza del mito. Potrei scegliere altri racconti biblici e mostrare che la differenza assolutamente essenziale di cui ho parlato è sempre presente. Denunciano il credo su cui si basa la mitologia come un sistema di rappresentazione coeso e crudele: l´eroe mitico è colpevole e viene giustamente punito anche se si tratta di un dio e anche se alla fine riesce a ripristinare l´ordine delle cose. L´eroe biblico, invece, viene punito ingiustamente, perché è innocente.
La Bibbia si oppone in modo perfettamente consapevole alle religioni mitologiche. Le taccia di idolatria, e credo che la rivelazione della natura fallace del sistema vittimario all´interno della mitologia sia parte essenziale della lotta biblica contro l´idolatria. Confrontiamo ad esempio la storia di Caino e Abele con il mito di Romolo e Remo.
Nella storia di Caino e Abele l´uccisione di un fratello da parte dell´altro è presentata come un crimine e simultaneamente come l´atto fondatore di una comunità.
Nella storia dei gemelli romani questo atto fondatore non può essere considerato un crimine, è l´azione legittima di Romolo. Il punto di vista della Bibbia è lontanissimo da quello del mito.
(Traduzione di Eliana Crestani)
Copyright 2009 Pier Vittorio e Associati, Transeuropa, Massa, www.transeuropaedizioni.it

Repubblica 27.4.09
Beato Angelico
Lo splendore della sua luce
di Antonio Pinelli

A 550 anni dalla morte, una rassegna in Campidoglio esalta il legame del "santo frate" con l´umanesimo rinascimentale

ROMA. Promossa dal Comitato nazionale per i 550 anni della morte dell´Angelico, la mostra che si è inaugurata in Campidoglio giunge con quattro anni di ritardo («Beato Angelico. L´alba del Rinascimento», Palazzo Caffarelli, a cura di A. Zuccari, G. Morello e G. De Simone, fino al 5 luglio). Ma puntualità a parte, va dato atto ai promotori di aver realizzato la maggiore esposizione dedicata all´Angelico in Italia, dopo quella ormai mitica che si tenne in Vaticano e a Firenze nel 1955, in occasione del V centenario della morte del grande frate pittore.
Soprattutto va riconosciuto al Comitato di aver concepito questa rassegna come il punto di approdo di un percorso pluriennale costellato di iniziative meritorie, quali il Convegno di studi tenutosi a Roma nel 2006, il finanziamento di restauri condotti su opere presenti in mostra (il Trittico della Galleria Corsini di Roma e la predella della Pala di Bosco ai Frati) ed infine la campagna di indagini riflettografiche effettuate dal Laboratorio della Normale di Pisa su un significativo campione di opere dell´Angelico, che rivelandone la preparazione grafica soggiacente alla superficie dipinta (il cosiddetto underdrawing) apportano nuove conoscenze sulle modalità operative del pittore, confermandone quella nitida sicurezza di disegno (rarissimi i pentimenti) di cui già tessevano le lodi gli scrittori d´arte suoi contemporanei.
Guido di Piero - questo al secolo il nome dell´Angelico - nacque a Vicchio nel Mugello tra il 1395 e il 1400, e si avviò precocemente alla pittura, tanto che già nel 1418 è documentato con la qualifica di magister. Poco dopo prese i voti ed assunse il nome di Fra´ Giovanni da Fiesole, pur continuando ad esercitare infaticabilmente quella professione di pittore e miniatore, che lo impose ben presto come uno dei massimi protagonisti della scena artistica del primo Rinascimento. Egli fu attivo soprattutto a Firenze, dove il convento domenicano di San Marco custodisce un così gran numero di sue testimonianze figurative da esser divenuto una sorta di suo Museo personale, e nella Roma dei papi Eugenio IV e Niccolò V, dove si recò a più riprese per dipingere in Vaticano, e passò a miglior vita nel 1455, mentre era intento ad affrescare il chiostro di S. Maria sopra Minerva, la chiesa domenicana dove fu sepolto con tutti gli onori.
Fu una monografia di Argan, anch´essa del 1955, a dare l´ultima spallata al mito romantico e ottocentesco del «santo frate» che dipingeva visioni paradisiache in preda ad estasi mistica. Un mito duro a morire, tanto che una ventina d´anni fa il pittore ha beneficiato dell´inflazione promossa da Giovanni Paolo II, ottenendo il crisma dell´ufficialità vaticana a quel titolo di Beato di cui l´aveva gratificato l´Ottocento nazareno e preraffaellita.
Il succo del pensiero di Argan sull´argomento è che non si tratta di mettere in dubbio la profonda religiosità del frate pittore, ma di diradare quell´alone abbagliante di misticismo, che a partire dall´appellativo di Angelico (come il domenicano San Tommaso, «doctor angelicus») donatogli da un confratello poco dopo la sua morte e dalla definizione di pittore «al ben ardente» coniata da Giovanni Santi, padre di Raffaello, in un crescendo che passa attraverso il ritrattino vasariano di un Fra´ Giovanni che dipingeva solo dopo aver pregato e si commuoveva davanti ai propri Crocifissi dipinti, per culminare negli «sfoghi del cuore di un monaco» di Wackenroder o alle beatificazioni preraffaellite di Rio e John Ruskin, finiva per ottenebrare la sostanza rinascimentale dell´arte angelichiana, ed in particolare la sua perfetta dimestichezza con i teoremi della prospettiva.
Quello del frate - sosteneva Argan - è un umanesimo cristiano, un rinascimento in chiave tomista, che non ignora la rivoluzione prospettica e attraversa anche la sua fase «antiquaria», come dimostrano gli affreschi di quel gioiello rinascimentale che è la Cappella Niccolina in Vaticano, in cui tra citazioni classiche e solenni cerimoniali liturgici ambientati in scenari architettonici che evocano le mura aureliane e le basiliche paleocristiane, Fra´ Giovanni pronuncia la sua più alta ed eloquente «orazione latina».
Oggi, pur avendo fatto tesoro di questa decisiva «apertura» arganiana, gli studi di cui questa mostra vuol essere il compendio espositivo puntano giustamente a valorizzare più che il legame di Angelico con la «rivoluzione» umanistica di Masaccio e Donatello, quello con il «riformismo» umanistico di Masolino e Ghiberti. Un riformismo che non ignora l´Antico né la prospettiva, ma nemmeno taglia del tutto i ponti con il Medioevo. Studi che valorizzano gli scambi reciproci tra la pittura angelichiana e quella fiamminga di Van der Weyden e di Jean Fouquet. E che nel peculiare luminismo del frate pittore, in quello splendore metafisico di una luce che non si limita a modellare le forme dall´esterno, ma ne accende misticamente i colori gemmei dall´interno, individua uno dei fondamenti della «pittura di luce» del Rinascimento, quella tendenza che passa attraverso Angelico e Domenico Veneziano, per approdare nella metafisica sacralità prospettica dell´arte di Piero della Francesca.

domenica 26 aprile 2009

Repubblica 26.4.09
La parte sbagliata
Ingrao: "Deve essere rispettato il significato profondo del 25 Aprile: una cosa concreta, fatta di sangue, di carne, degli ideali di milioni di persone"
Intervista a Pietro Ingrao di Goffredo De Marchis


"Fu una lotta per la liberazione Berlusconi non giochi con le parole"
È scritto a chiare lettere che è stata anche una festa di libertà. Se lo riconosce solo adesso arriva in ritardo
Sono per il rispetto di tutti i morti solo se unito con il rispetto della verità dei fatti. E non mi piacciono i silenzi

ROMA - «Lasciamo perdere i giochi di parole. Anche perché non si capiscono. Lo sappiamo da tempo che il 25 aprile è una festa di liberazione e di libertà, sta scritto in tutti i libri di storia. Perciò fare una distinzione tra i due termini o non significa niente o significa voler toccare, modificare, offuscare qualcosa che è già acquisito storicamente». Non dice certo «grazie», Pietro Ingrao, per la prima volta di Berlusconi in piazza il 25 aprile. Anzi, vorrebbe saperne di più, sembra invitarlo a pronunciare parole più chiare su chi era il nemico da battere in quegli anni, su chi ha vinto e chi ha perso.
Lei vede un´ambiguità nella posizione di Silvio Berlusconi?
«Preferisco ragionare sull´evento. Il 25 aprile ricorda un modo concreto e quanto mai reale di difendere la libertà. C´è stata una guerra contro i nazifascisti che è stata guerra di liberazione perchè ha significato materialmente cacciare un invasore terribile dal nostro Paese. E c´è stata una guerra di libertà per i popoli, per i loro diritti elementari non solo in Italia ma in tutto il mondo. È stata una lotta mondiale contro un attacco feroce, un conflitto inaudito, contro chi ha partorito i campi di sterminio a diritti di libertà elementari. E ha portato alla sconfitta di un soggetto politico, il nazifascismo che s´impersonava in una figura come Hitler».
Berlusconi però ha riconosciuto il valore della Resistenza.
«Se il premier riconosce il senso del 25 aprile io non posso che dire: bene. Ma non mi convince la distinzione tra liberazione e libertà. Tutto quello che cancella la concretezza, con nome e cognome, di questo evento non lo capisco. Piuttosto bisognerebbe dire chiaramente se si è d´accordo nel celebrare questa festa come la vittoria contro il nemico nazista e fascista, se si condivide l´esaltazione per i valori che portarono milioni di italiani, anche loro con nome e cognome, a combattere per la libertà. Il resto o sono frasi gettate al vento oppure significano niente».
Allora dobbiamo considerare il gesto di Berlusconi, questa sua prima volta, un evento importante o una trovata strumentale?
«A me fa piacere che abbia partecipato ai festeggiamenti. Ma per quanto mi riguarda non c´è da dirgli nessun grazie. Non ha scoperto niente, è una data riconosciuta su tutti i libri di storia che raccontano la vicenda italiana, di qualsiasi colore politico essi siano. Lui dice che sono maturi i tempi per far diventare la Liberazione festa di libertà. Ma non c´è davvero nessun tempo da maturare. È scritto a chiare lettere dappertutto che è stata anche una festa di libertà e non solo in Italia. Se lo riconosce solo adesso arriva in ritardo. Oppure vuol dire qualche altra cosa. Allora è bene che lo faccia apertis verbis».
Ha qualche sospetto?
«Non voglio fare il processo alle intenzioni e non avanzo sospetti, me ne guardo bene. Io dico che sul 25 aprile va messa in luce la concretezza, fatta di carne, sangue e ideali, dell´evento che noi celebriamo. Non sono solo chiacchiere, si parla dello stare in campo di milioni di persone. E di fatti da cui è scaturita anche la Costituzione italiana».
È innegabile tuttavia che Berlusconi abbia fatto un passo avanti. È stato dunque un boomerang l´invito rivolto da Franceschini al premier per festeggiare questo anniversario?
«Franceschini evidentemente è gentile d´animo. Da una parte capisco benissimo il suo appello, dall´altra penso che non dobbiamo chiedere regali a nessuno. Parla la storia, la storia scritta in molti volumi in tutto il modo. Abbiamo cacciato dei cani ringhiosi dal nostro Paese e così hanno fatto altri popoli. E per sapere chi erano i nazifascisti basta accendere la televisione. Anche l´altra sera protagonisti diretti e sofferenti spiegavano bene, e amarissimamente, cosa è stato quel mondo e quel periodo storico. Ho ascoltato racconti strazianti. Ed è sufficiente citare due nomi: Auschwitz e Dachau».
Lei ricorda con rispetto tutti i caduti, anche quelli che erano dalla parte sbagliata?
«Offendere i morti non lo farei mai, ma che fascisti e nazisti siano stati nemici terribili dei più elementari diritti di libertà questo è storia».
Non condivide dunque gli appelli alla pacificazione italiana?
«Sono per il rispetto di tutti i morti solo se strettamente unito con il rispetto della verità dei fatti. E non mi piacciono i silenzi».

l’Unità 26.4.09
Difetto di serietà
di Conchita De Gregorio


Proviamo a dire le cose in modo semplice. La pacificazione nazionale è una cosa seria e auspicabile. Quasi nessuno ha più la forza, il tempo, l'energia e la costanza di rendimento necessarie a vivere in una perpetua battaglia fra buoni e cattivi, indiani e cow boy. Siamo stanchi di affrontare discussioni intrise di pregiudizi e mai di giudizi, mai nel merito delle questioni, mai al cuore delle cose. Sarebbe bello che arrivasse il giorno in cui ci si misura adesso, su quello che siamo capaci di fare e di cui c'è bisogno: sulla base delle forze reali in campo, delle energie e dei talenti. In altri paesi a noi vicini per scrivere una legge sul rispetto della memoria tra vincitori e vinti ci sono volute due generazioni: possono farlo i nipoti, meno facilmente i figli di chi c'era, mai chi c'era. Non è difficile capire perché. Servono onestà d'intenti, chiarezza di vedute, serietà. È soprattutto per questo, per la serietà, che risulta molto poco credibile un appello alla pacificazione (all'equiparazione tra chi ha fatto la Resistenza e chi ha combattuto fino all'ultimo a fianco dei nazisti) proposta da un leader politico che non si caratterizza per doti di saggezza austera, di sobrietà sapiente. Silvio Berlusconi è solito far ridere - o piangere, dipende - per i suoi motti di spirito il mondo intero. È famoso per la capacità di ridurre a fatto personale qualsiasi vicenda o relazione politica, si tratti di Gheddafi di Rasmussen o di Putin. È celebre per la passione per i sondaggi e per una certa mobilità di comportamento a seconda delle private convenienze. Gli italiani lo hanno votato dunque si comporta come ritiene utile in quel momento. Altrettanto legittimamente (in base all'esperienza) noi siamo autorizzati a diffidare. Quando propone di chiamare la Festa della Liberazione, da domani, Festa della Libertà ci viene in mente che il suo partito si chiama «delle Libertà», diventerebbe anche questa la sua festa. Ci ricordiamo di quando fondò Forza Italia facendo il verso al tifo per la Nazionale appropriandosi del colore azzurro.
Berlusconi è solito far suo quello che è di tutti. Ha una certa sapienza nell'utilizzare quel che si trovi a portata di mano per un personale incremento di polarità, 25 Aprile compreso. Del resto non aveva mai festeggiato questa data, l'ultima volta irridendola con «ho da lavorare»: lo ha fatto ieri sulle rovine di Onna per la prima volta, fazzoletto tricolore al collo. Quanti punti nel gradimento? Apicella ha pronto l'inno? In generale, nel tempo e nelle grame condizioni in cui viviamo, crediamo che sia meglio non lasciarsi illudere e preservare, al posto dell'equidistanza, la giusta distanza. Conviene, sul crinale della democrazia, praticare la prudenza. Del resto c'è molto da fare. In Abruzzo, per dire, si cercano ancora i dispersi. Le notizie ufficiali non ne parlano ma mancano ancora all'appello 50 persone. Lo avete sentito dire da qualcuno? Da leggere l'intervista di Giovanni Maria Bellu al sindaco di Gela Rosario Crocetta, un resistente dei giorni nostri minacciato di morte per la sua lotta al racket mafioso. Questo governo voleva cambiare nome all'aeroporto Falcone-Borsellino perché «porta jella e avvilisce i turisti». Lo dico per promemoria, a proposito delle reali intenzioni e del marketing politico.

Repubblica 26.4.09
La patria e il nuovo padre padrone
di Eugenio Scalfari


IERI 25 aprile, giorno di festa per la liberazione d´Italia dai nazifascisti e per la Resistenza che ha reso possibile la rinascita della democrazia nel nostro paese, è caduto il muro che aveva fin qui impedito a quella ricorrenza di diventare una data condivisa da tutti gli italiani. Il merito di questo risultato spetta a Silvio Berlusconi, al discorso da lui tenuto ad Onna ed anche – diciamolo – a Dario Franceschini segretario del Pd, che con il suo pressante invito ha incitato il premier a render possibile un evento così importante.
Berlusconi aveva dinanzi a sé tre alternative: ignorare l´invito di Franceschini; accoglierlo per marcare a modo suo la celebrazione equiparando la Resistenza con coloro che si erano schierati a fianco del regime fascista di Salò, uniti entrambi dall´amor di patria; dare atto che Liberazione e Resistenza sono stati un tutto unico dal quale è nata la nostra Costituzione repubblicana, fermo restando il rispetto per tutti i caduti, anche di coloro che in buona fede scelsero la parte sbagliata.
Con il suo discorso di Onna Berlusconi ha scelto questa terza soluzione ed è quindi doveroso dargliene atto. Si potrebbe (e non mancherebbero gli argomenti) fare un´analisi dei moventi che l´hanno spinto a imboccare quella strada, ma sarebbe riduttivo. I fatti del resto hanno un loro linguaggio che esprime la realtà e la realtà è questa.
Berlusconi ha raggiunto un livello di consenso che gli impone di proporsi come il rappresentante politico di tutti gli italiani, quelli che lo amano e quelli che non lo amano, quelli che hanno fiducia e quelli che ne diffidano, quelli che condividono il suo «fare» e quelli che l´avversano.
Noi siamo tra questi ultimi ma riconosciamo che una svolta è stata compiuta, sia nella valutazione storica della Liberazione e della Resistenza, sia nel riconoscimento dei principi sui quali si regge la Costituzione, sia sul ruolo delle forze politiche che contribuirono alla rinascita democratica e che nel discorso di Onna sono state tutte nominate a cominciare dai comunisti, ai socialisti, ai democristiani, ai liberali (anche se l´ipotesi di cambiare il nome della celebrazione in quello di "Festa della Libertà" è certamente una proposta contro la memoria che indebolisce notevolmente le osservazioni precedentemente fatte).
La fermezza del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha giocato un ruolo determinante nella svolta berlusconiana; un altro elemento da non sottovalutare sarà pur venuto dalla posizione di Gianfranco Fini. La svolta è comunque avvenuta. Bisogna ora vedere se i seguiti saranno conformi al nuovo inizio e intanto rallegrarsene.
Dunque tutto bene? Il tessuto democratico del paese si è rafforzato? Si aprirà finalmente una dialettica operosa tra governo ed opposizione?
* * *
Aldo Schiavone, in un articolo pubblicato ieri su «Repubblica» ha risposto anticipatamente a queste domande partendo dalla constatazione che in tempi di emergenza la spinta populista è un dato di realtà dal quale sarebbe sbagliato prescindere.
Ci sono vari modi di affrontare questa deriva. Quello di Berlusconi, secondo il giudizio di Schiavone, consiste nel «rendere istituzionale la spinta populista, prolungarne e dilatarne gli effetti nello spazio sociale e nel tempo storico, alimentare un rapporto fideistico tra il leader e il ‘suo´ popolo, marginalizzare tutte le altre forme di rappresentanza a cominciare dalla divisione dei poteri e dalle autorità di garanzia come inutili impacci. Un Capo che sceglie e decide per tutti: è un modo di stressare la democrazia radicandola su una sola delle sue componenti».
Ebbene la svolta berlusconiana di ieri, della quale abbiamo già segnalato gli aspetti positivi, non ci libera affatto da quelli negativi. Al contrario, li alimenta con nuova linfa rendendoli ancor più attuali e pericolosi. Diventa sempre più incombente la costruzione, già da tempo avviata, d´una nuova costituzione materiale all´ombra della Costituzione vigente, cioè una sua interpretazione che ne stravolge il senso riducendola ad un reperto fossile.
Un´operazione del genere fu già compiuta nel corso della Prima Repubblica. Avvenne tra la metà degli anni Sessanta e la metà degli Ottanta; un ventennio nel corso del quale i partiti assorbirono le istituzioni, il governo si identificò con lo Stato, la democrazia si trasformò in partitocrazia, gli apparati politici confiscarono la pubblica amministrazione e taglieggiarono sistematicamente le imprese.
La costituzione materiale partitocratica fece del Capo dello Stato un´autorità di second´ordine, esercitò un´influenza determinante sulla magistratura inquirente e giudicante, costruì l´impunità del potere e di chi lo impersonava. Le forme vennero scrupolosamente rispettate ma la sostanza fu invece sconvolta e manomessa.
La stagione di Tangentopoli interruppe e anzi sembrò avere distrutto la partitocrazia. Cominciò allora la transizione verso la Seconda Repubblica che adesso ha infine assunto le sue caratteristiche con la costruzione di una nuova costituzione materiale molto diversa dalla precedente.
Non sono più i partiti a monopolizzare il potere, ma un leader con il manipolo dei suoi più stretti collaboratori. Un leader antipolitico e sostanzialmente antiparlamentare, gestore sapiente del sistema mediatico, identificato con la ricerca ossessiva del consenso da trasformare giorno per giorno in plebiscito e da contrapporre a tutte le mediazioni e a tutto il sistema delle garanzie.
La svolta di ieri ha rappresentato dunque un rilevante passo avanti e un ulteriore passo indietro di fronte alla democrazia partecipata. Passo avanti – l´abbiamo già detto – verso la pacificazione del Paese rispetto a quanto accadde sessant´anni fa. Passo indietro verso il populismo autoritario.
Se l´asse portante della nostra Costituzione consiste nella divisione dei poteri, l´essenza della costituzione materiale berlusconiana è nell´unificazione dei poteri in una sola mano. Esecutivo, legislativo e giudiziario intestati al leader attraverso una prassi ed una serie di norme che la consolidano e la presidiano trasformandola in consuetudine.
Il presidente Napolitano ha avvertito da tempo questa deriva e l´ha più volte segnalata con la discrezione che lo distingue. Più di recente deve aver avvertito che la crescita della nuova costituzione materiale stava per oltrepassare una soglia oltre la quale sarebbe diventata irreversibile per un lungo arco di anni ed ha ritenuto che il tema dovesse essere affrontato di petto. L´ha fatto pochi giorni fa inaugurando il festival della democrazia a Torino e indicano i principi che costituiscono il fondamento della democrazia repubblicana: lo stato di diritto, la divisione dei poteri, il ruolo indispensabile delle autorità di garanzia, il vigile rispetto della legalità costituzionale, il rafforzamento del potere esecutivo e dei poteri di controllo del Parlamento. I punti di riferimento culturali di questa visione configurano una democrazia liberale che ha i suoi autori in Montesquieu, Tocqueville, Croce e Luigi Einaudi. La «fantasia al potere» – che tanto piace a Berlusconi e ai suoi mentori – non trova posto in questa visione e rappresenta il culmine della modernità occidentale.
Se volessimo raffigurare le due versioni contemporanee e contrapposte di due leader carismatici, facciamo i nomi di Berlusconi e di Barack Obama, con tutte le differenze di scala da essi rappresentate.
* * *
C´è un freschissimo esempio della «fantasia al potere» o meglio della «follia positiva» stando all´autodefinizione che ne ha dato lo stesso nostro premier, ed è il trasferimento del G8 che avrà luogo nel prossimo luglio dall´isola della Maddalena alla scuola degli allievi ufficiali dell´Aquila. Un colpo di scena suggerito da Bertolaso, sottosegretario alla Protezione civile e ai Grandi eventi e fatto proprio da Berlusconi con entusiasmo all´insaputa dello stesso governo da lui presieduto.
Le motivazioni di questo «coup de théâtre» sono quattro: le minori spese, il desiderio di mettere i potenti della terra a diretto contatto con una catastrofe naturale, la possibilità di elevare il caso Abruzzo dal livello nazionale a quello mondiale, la maggiore sicurezza del «meeting» tra le montagne abruzzesi rispetto alle sedi navali che l´avrebbero ospitato alla Maddalena.
È sufficiente un sommario esame per capire che si tratta di motivazioni infondate.
Le spese per realizzare il G8 alla Maddalena sono state tutte in grandissima parte già fatte (anche se ancora debbono essere pagate). Gli impianti previsti saranno comunque portati a termine. Nessun risparmio da questa parte sarà dunque realizzato. Il grande albergo a cinque stelle costruito nell´isola sarda resterà come una delle tante cattedrali nel deserto, di sperpero del denaro pubblico e di cementificazione di uno degli arcipelaghi più belli d´Europa. Il risparmio sulle spese navali rispetto a quelle aquilane sarà minimo, invece delle navi alla fonda bisognerà mobilitare una flotta di elicotteri che faccia la spola tra Roma e l´Aquila.
I potenti della terra hanno purtroppo larga esperienza di catastrofi naturali, in Giappone, in Louisiana, in Florida, in California, in Russia, in India, in Cina, in Turchia. Insomma nel mondo intero.
Portare il caso Abruzzo all´attenzione del mondo affinché dia una mano per risolverlo è risibile. C´è l´intero continente africano che è di per sé una catastrofe, per citare un solo caso tra tanti.
La sicurezza contro i No Global. Non metteranno piede all´Aquila, l´hanno già detto. Ma faranno altrove le loro prove. Speriamo vivamente che siano prove puramente dimostrative. Se comunque, come scopre ora Bertolaso, garantire sicurezza alla Maddalena era un compito così arduo, ci si domanda adesso perché fu scelta quella località.
Forse Bertolaso ha troppe cose da fare: la protezione contro le catastrofi, i rifiuti dell´immondizia, la progettazione ed esecuzione dei grandi eventi. Il tutto non solo sulle sue spalle ma sulle strutture della Protezione civile. Che non stia nascendo, sotto la leadership politica di Berlusconi, una leadership tecnocratica di Bertolaso? Non credo che i vertici negli altri paesi siano affidati alla Protezione civile. Li curano i ministri dell´Interno, i Servizi di sicurezza, le forze della sicurezza pubblica. Che c´entra la Protezione civile? I pompieri che ne costituiscono l´ossatura?
Bertolaso, racconta il generale della Finanza, Lisi, che lo vede lavorare nella sua scuola, «lavora notte e giorno, non dorme, è una fucina di iniziative, non è un uomo ma un miracolo».
Forse se si concentrasse su uno solo dei suoi tanti compiti eviterebbe alcune disfunzioni che stanno emergendo in questi giorni e che i terremotati vivono sulla loro pelle.
No, neanche Bertolaso è infallibile. Quanto ai miracoli, beati i paesi che sanno farne a meno.

Repubblica 26.4.09
Tutti gli abiti del Cavaliere
di Filippo Ceccarelli


Dieci ne pensa, cento ne fa, mille ne mette in mostra con sorprendente ostentazione strategica e funzionale. Così fa effetto vedere il presidentissimo Berlusconi con il fazzoletto da partigiano al collo, sopra l´inconfondibile doppiopetto di Caraceni.
Dice: gliel´hanno messo i veterani della Brigata Maiella, che doveva fare? Niente, doveva; tutto poteva. E dunque: la meraviglia di quella visione, ciò che ancora riesce a stupire del Cavaliere è la naturalezza, la disinvoltura, la soddisfazione, addirittura, con cui ieri esibiva davanti alle telecamere quel glorioso simbolo di sangue e di libertà; lo stesso stato d´animo che ai loro tempi, con qualche titolo, rivelavano Longo, Pertini, Parri, Mattei e poi Taviani. E non per essere irriverenti, né per buttarla in burletta o in commedia – che oltretutto in Italia viene sempre abbastanza naturale – ma a vedere quelle foto un po´ veniva in testa una scenetta di Gene Gnocchi: «Mio papà ha fatto la Resistenza con Forza Italia». E comunque, più in generale: dalla bandana di Portorotondo al fazzoletto partigiano la distanza sembra incolmabile. Attenzione, sembra.
Poi sì, certo, si capisce. Ieri Berlusconi ha anche fatto – dopo tanti neghittosi, fantasiosi, rinunciatari e provocatori 25 aprile – un discorso di apertura, di adesione ai valori della libertà, eccetera. Ma niente più di quell´indizio di stoffa tricolore sulle spalle gli è servita a coronare la svolta. Che poi a veder bene svolta non è, semmai ri-svolta, avendo già pronunciato il Cavaliere nel 2001, a Torino, teatro Carignano, più o meno le stesse cose, gli stessi ricordi famigliari, le stesse calibrate professioni di fede nella Resistenza. Ma senza fazzoletto partigiano, quella volta, per cui per ricordarselo occorre consultare le banche dati; e magari tener conto che al giorno d´oggi la politica, anzi il potere, più che di antiquata e soporifera retorica, vive di segni ottici istantanei, sorprese artificiali, spudorate apparenze. Insomma: ben prima dei conclamati valori ai potenti sta a cuore la conquista dell´attenzione di un pubblico che per giunta è sempre più distratto.
Questo non vuol dire che il presidente del Consiglio abbia ieri tentato di annettersi la Resistenza con una semplice e ipocrita mascherata. E´ che sotto il regime degli spettacoli sono davvero saltati i parametri, e ancora una volta Berlusconi sembra l´unico ad averlo capito, opportunamente sfruttando la novità. Per cui non c´è situazione, né presenza, né iniziativa, né cerimonia che non preveda la possibilità di un cambio di abito, altrimenti detto costume, come pure l´ingresso in scena di accessori a loro modo evocativi, per non dire simbolici.
Con qualche indulgente semplicità, spesso i media rubricano tutto questo sotto la specie del «look» (che è parola corta e funziona bene nei titoli). Ma quando Berlusconi, nei primi giorni del terremoto, per primo si mette in testa il casco da caposquadra dei vigili del fuoco, manda un messaggio visivo fortissimo: quel copricapo segnala il comando, è una specie di corona che si assegna nell´emergenza. C´è da dire che la faccenda si sta intensificando e da qualche tempo, anche a disdoro dei suoi pallidi imitatori, il premier ci dà dentro indossando berretti – serti, ghirlande o diademi che siano – a tutto spiano: da capostazione, per dire, e/o capobanda musicale, e/o carabiniere, pare di ricordare, a parte quello specialissimo Panama, alla messa dei Vip della Costa Smeralda, che secondo Libero sarebbe costato la ragguardevole cifra di 3.500 euri.
Non si vorrebbe qui raffreddare il legittimo entusiasmo dei partigiani della Brigata Maiella, ma nel corso del tempo e delle varie opportunità che gli si paravano innanzi, l´uomo, il personaggio, il presidente, il sovrano, ha sempre offerto una spaventosa vocazione e una mirabolante capacità di trasformismo o travestitismo strategico, da Proteo a Fregoli e ritorno. Via la cravatta (discorso del predellino), maglione sotto la giacca (operativo in Abruzzo), maglione e maniche rimboccate (operativissimo); e ancora, a ritroso: tuta sportiva (però in cashmeer: lui solo così e gli altri alleati tutti acchittati in piena estate), abito di cotone bianco (per spensierati duetti con Apicella), pelliccione eschimese (picnic con Putin), giubbotto militare (per non sfigurare con Bush a Camp David), playboy tipo Toni Manero (con tanto di pendaglio a croce d´oro bianco e cordoncino di caucciù).
Ogni volta una sorpresa da svelare. Anche in privato, vedi quando (luglio 2006) il Cavaliere si nascose dietro il costume da danzatore beduino a Marrakech, recando una collana in dono a Veronica. Ogni volta al di là del bello e del brutto, del vero e del falso. Ma siccome questo non è per certo il teatrino della politica, si azzarderà l´ipotesi che sia il gran teatro del potere. Il quale potere da sempre si distingue, si adatta e si maschera, e Berlusconi lo fa meglio di chiunque altro: così ieri s´è messo pure il fazzoletto partigiano, ma domani si potrebbe mettersi al collo quello che di norma, oramai, non si riesce nemmeno a immaginare – perché il problema, semmai, è crederci o meno.

l’Unità 26.4.09
Ora di etica o religione, Berlino al voto
Merkel si schiera con i cattolici
di Gherardo Ugolini


Oggi nella capitale tedesca il referendum voluto dall’associazione di fedeli cattolici «Pro Reli». Obiettivo: cancellare l’obbligo di insegnamento dell’etica nelle scuole introdotto dalla maggioranza Spd-Linke.
La crociata divide la capitale: i quartieri orientali per il no, quelli occidentali per il sì
Socialdemocratici difendono la novità dell’insegnamento civico introdotto nel 2006
Per vincere la battaglia i referendari dovranno avere almeno il 25%

Etica o religione? La metropoli più laica e secolarizzata d’Europa (il 60% degli abitanti si dichiara non credente), tradizionalmente moderna e trasgressiva, fiera delle sue «diversità» a partire dal sindaco gay Klaus Wowereit, è diventata nelle ultime settimane il teatro di una guerra di religione in cui gli opposti schieramenti si combattono con slogan e parole d’ordine da guerra fredda che nessuno avrebbe immaginato vent’anni dopo la caduta del Muro.
L’associazione di fedeli
La crociata è partita mesi fa con la nascita dell’iniziativa civica denominata Pro Reli, cioè «per la religione»: un’associazione di fedeli cattolici e protestanti, sostenuta dalla Cdu, che si batte perché venga cambiato il sistema d’insegnamento della religione in vigore nelle scuole di Berlino. Attualmente gli scolari delle medie e superiori a partire dai tredici anni frequentano obbligatoriamente lezioni di etica, mentre l’insegnamento della religione è facoltativo. Questo dispositivo, che costituisce un eccezione rispetto al modello praticato negli altri Länder tedeschi, è stato introdotto nel 2006 dalla maggioranza Spd-Linke al governo della città, in quanto ritenuto il più idoneo per una comunità in cui sono rappresentate decine di etnie e di confessioni religiose. L’insegnamento di etica è concepito come una forma di educazione civica che trasmette i valori fondamentali della costituzione tedesca ed educa alla convivenza pacifica tra cittadini di vario orientamento e provenienza.
I fautori di «Pro Reli» si sono mobilitati contro questo meccanismo che giudicano penalizzante per la fede cristiana e hanno raccolto oltre 250mila firme tra i cittadini per introdurre l’obbligo di scegliere o religione o etica. È precisamente questa la materia del contendere, su cui oggi si svolge un referendum al quale sono invitati a partecipare oltre 2,4 milioni di berlinesi.
E la polemica si è fatta inevitabilmente rovente. «Votare sì è una questione di libertà», «La fede sposta le montagne», «Libertà di scelta»: chi gira per le strade della capitale tedesca non può evitare di imbattersi in megacartelloni con queste frasi scritte a carattere cubitali. La campagna pubblicitaria di Pro Reli, che ha fatto proseliti anche tra alcuni gruppi musulmani, è tutta giocata sul concetto di «libertà»: la libertà di scelta che la sinistra al governo di Berlino avrebbe conculcato imponendo i corsi di etica a tutti. Dall’altra parte i cartelloni della Spd ribattono con lo slogan «Etica o religione? Noi le pratichiamo entrambe».
Alla vigilia del referendum ha pensato bene di scendere in campo anche Angela Merkel proclamando il suo voto a favore di Pro Reli. «Spero che il maggior numero possibile di cittadini si dichiari a favore dell’insegnamento della religione» ha esortato la cancelliera.
L’opinione pubblica appare divisa sull’argomento, con una prevalenza del no nei quartieri orientali (ex Ddr) e del sì in quelli occidentali.
Ma il vero pericolo per i referendari è che succeda come lo scorso anno in occasione della consultazione sulla chiusura dell’aeroporto di Tempelhof, allorquando i promotori del referendum, pur ottenendo la netta maggioranza dei voti, non raggiunsero il quorum e di conseguenza il risultato fu dichiarato nullo.
La sfida
Qui sta il punto: ai sostenitori di Pro Reli non sarà sufficiente ottenere più consensi degli altri. Per farcela davvero bisognerà che per la loro iniziativa votino almeno 612mila cittadini, pari al 25% dei berlinesi aventi diritto. Altrimenti tutto resterà come prima.

Repubblica 26.4.09
"Ora di religione esempio di sana laicità" Il Papa: è parte integrante della scuola


CITTÀ DEL VATICANO - Per papa Ratzinger l´insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica non è «un´interferenza o una limitazione della libertà», ma - al contrario - è un esempio «di quello spirito positivo di laicità che permette di promuovere una convivenza civile costruttiva» in Italia e in tutti i paesi dove è istituito. Benedetto XVI ne ha parlato ieri ai circa 8000 insegnanti di religione che hanno preso parte alla tre giorni di Meeting sull´Irc voluto dalla Cei, aperto giovedì scorso dal ministro dell´Istruzione Maria Stella Gelmini. «L´insegnamento della religione cattolica - secondo il Papa - è parte integrante della storia della scuola in Italia, e l´insegnante di religione è una figura molto importante nel collegio dei docenti. È significativo che con lui tanti ragazzi si tengano in contatto anche dopo i corsi». Presente all´udienza anche il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei.
(o. l. r.)

l’Unità 26.4.09
Se il medico non denuncia i clandestini
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi


Io non ti denuncio”: ovvero, rivolgiti a me con fiducia, come ci si rivolge a un medico e non a un delatore.
Questa scritta campeggia su spille, adesivi e magliette che si possono incontrare nei pronto soccorso e nei presidi medici di molte località; è rivolta a tutti gli immigrati irregolari presenti nel nostro paese, minacciati da una misura che prevede la denuncia, da parte del personale sanitario, della loro condizione di illegalità. Un disegno di legge che ha già fatto le sue vittime ancor prima di divenire norma; come prima di divenire norma ha già visto persone denunciate (una donna ivoriana, a Napoli, che aveva appena partorito, un senegalese a Brescia, una nigeriana dimessa a Conegliano con un foglio di via).
Un disegno di legge, quello dell’attuale governo, che se pure non oltraggiasse ogni istanza di umana pietas violerebbe comunque la deontologia della professione medica, la Costituzione e ogni criterio di sanità pubblica.
Uno dei suoi effetti più perversi, infatti, è quello di dissuadere dal ricorso alle cure sanitarie una fascia di popolazione esposta alla malattia più di ogni altra; mettendo a rischio, così, non solo la salute dei migranti, ma quella della cittadinanza tutta.
Massimo Cozza, responsabile dei medici della Cgil, rende chiaramente il senso di quanto stiamo dicendo: «Il numero di immigrati che nei primi tre mesi dell’anno hanno chiesto cure è calato del 10-20% rispetto al 2008» (Corriere della Sera.it 22.04.2009). E la riduzione più sensibile si è avuta in febbraio, in concomitanza con l’approvazione del ddl al Senato.
La geografia di questo calo di utenza interessa tutto il territorio, con punte massime di un –40% in alcuni ospedali milanesi. Per questo il movimento di obiezione a questa norma sta crescendo e si va organizzando: non solo spille sul camice ma cartelli nei pronto soccorso, e manifesti, in cui il segnale di accoglienza e di assenza di pericolo di denuncia è tradotto in molte lingue. Si stanno muovendo anche la politica e le istituzioni.
Gli assessorati alla Sanità di Lazio, Emilia Romagna, Puglia, Sicilia, e a breve anche Liguria e Piemonte, stanno predisponendo materiale informativo che rassicuri sul fatto che gli ospedali sono luoghi di cura e non prigioni.

Repubblica 26.4.09
Clandestini, quando svanisce la pietà
di Ilvo Diamanti


Cambiano i tempi. Ma gli immigrati non si fermano. Nonostante governino forze politiche inflessibili e "cattive": gli stranieri continuano ad arrivare. Da est e da sud. Per terra e soprattutto per mare. Con ogni mezzo. Barche, barchini, barconi e gommoni. Partono in tanti. Ogni giorno. Uomini, donne e bambini. E in molti non arrivano. Quel piccolo pezzo di mare che separa l´Africa dalla Sicilia è un cimitero dove giacciono un numero imprecisato di imbarcazioni e migliaia di persone.
Gli stranieri continuano ad arrivare. Da est e da sud. Per terra e soprattutto per mare. Con ogni mezzo. Barche, barchini, barconi e gommoni. Partono in tanti. Ogni giorno. Uomini, donne e bambini. E in molti non arrivano. Quel piccolo pezzo di mare che separa l´Africa dalla Sicilia è un cimitero dove giacciono un numero imprecisato di imbarcazioni e migliaia di persone. Persone? Per definirle tali dovremmo «percepirle». Invece non esistono. Sono «clandestini» quando si mettono in viaggio e quando riescono ad entrare nei paesi di destinazione. Ma anche quando vengono ammassati nei Cpa. Migranti perenni. Non riescono a trovare una nuova sistemazione – stabile e riconosciuta – ma non possono neppure tornare indietro.
Come i 140 stranieri raccolti e trasportati dal cargo Pinar. Rimpallati fra l´Italia – che alla fine li ha accettati – e Malta. Indisponibile. Perché la fuga dall´Africa e dall´Asia, come l´esodo dai paesi dell´est europeo, spaventa tutti i paesi ricchi. Non solo noi. La vecchia Europa vorrebbe diventare fortezza. Trasformare il Mediterraneo in un canale inaccessibile. A cui mancano i coccodrilli, ma non gli squali. Eppure, nonostante la politica della fermezza, la tolleranza-meno-uno, i Cpa e migliaia di espulsioni. Nonostante tutto: i flussi non si fermano. Gli sbarchi proseguono senza sosta. Da gennaio ad oggi: oltre seimila. Il doppio rispetto allo stesso periodo dell´anno precedente. Che già aveva segnato il livello più alto della nostra storia di immigrazione. Breve e travolgente. Nel 2008 erano sbarcati sulle nostre coste 37mila stranieri. Quasi il doppio del 2007. Difficile non nutrire dubbi sulla produttività delle nostre politiche e della nostra politica. Anche se l´attuale maggioranza di governo ha vinto le elezioni promettendo di fermare gli stranieri. Di bloccare l´invasione. Con le buone ma soprattutto con le cattive.
Propositi chiari ma, fin qui, inattuati. Semplicemente perché inattuabili. Quando a migliaia intraprendono il viaggio sulle carrette del mare, stipati come animali. Come i disperati del Pinar. Dietro alle spalle le storie terribili raccontate da Francesco Viviano, su queste pagine, nei giorni scorsi. In fuga da persecuzioni, conflitti etnici. Dalla fame. Disposti a tutto. A ogni costo. Come la ragazza annegata con il suo bimbo in grembo, nelle acque davanti a Malta.
Questa emigrazione è una tragedia senza fine. Che, tuttavia, non ci commuove. Anzi, suscita perlopiù distacco e ripulsa. Difficile non cogliere la differenza con l´onda emotiva e la solidarietà sollevate dalla catastrofe in Abruzzo. Ma noi riusciamo a provare pietà e solidarietà solo quando le tragedie accadono sotto i nostri occhi. Quando i media le illuminano, minuto per minuto, luogo per luogo, in modo quasi compiaciuto. Quando la politica le accompagna e le segue da vicino. Perché si tratta della «nostra» gente. Allora ci emozioniamo. Gli «altri», invece, non hanno volto. Le loro tragedie non hanno quasi mai le aperture dei tigì. Gli sbarchi vengono raccontati come una calamità. Per noi. E a nessuno, comunque, verrebbe in mente di organizzare un G8 a Lampedusa. Non solo per ragioni logistiche.
Naturalmente, si tratta di considerazioni che possono apparire «buoniste», fradice di retorica. E con la retorica non si risolvono i problemi. Non si proteggono le città insicure. I cittadini minacciati dalla nuova criminalità etnica, dai clandestini che affollano le periferie. D´altronde, in pochi anni siamo diventati un paese di grande immigrazione. Quasi come la Francia e la Germania. Fino a ieri eravamo noi, italiani, a disperderci nel mondo, a milioni, per fuggire la miseria. Ora invece ci sembra che il mondo si stia rovesciando su di noi. E questo mondo è troppo grande per stare dentro a casa nostra, dentro alla nostra testa. Noi non siamo in grado di controllarlo né di comprenderlo. Non ci riusciamo noi. Ma non ci riescono, soprattutto, i poteri economici e finanziari, le istituzioni di governo. In balia dei collassi delle banche e delle borse, delle guerre, del terrorismo, delle epidemie. La politica. Non riesce a difenderci ma neppure a spiegarci ciò che avviene. E rinuncia a contrastare le nostre paure. Anzi, complici i media, le enfatizza. Inventa muri e confini che non esistono. Promette di chiudere i nostri mari, di sbarrare le frontiere. Promette di difenderci, a casa nostra, dagli stranieri che si insinuano nei nostri quartieri. Ricorrendo a iniziative a bassa efficacia pratica e a elevato impatto simbolico. Come le ronde. I volontari della sicurezza locale. Dovrebbero esercitare il controllo sul territorio un tempo affidato alle reti di vicinato, alla vita di quartiere, alla presenza quotidiana delle persone. Rimpiazzando una società locale che non c´è più. La politica. Promette di difendere la nostra identità, la nostra religione, la nostra cultura, la nostra cucina. E per questo combatte contro la costruzione di moschee. Oppure lancia battaglie gastroculturali. Contro i cibi consumati per strada. Anzitutto e soprattutto: contro il kebab. Insieme alle moschee: icona dell´islamizzazione presunta del nostro paesaggio e della nostra vita quotidiana.
La politica e le politiche usate come placebo. Per rassicurare senza garantire sicurezza. Per guadagnare voti e consenso. La Lega, secondo i sondaggi, sembra essere riuscita a superare i confini del Nord padano e ad espandersi nelle regioni dell´Italia centrale. Tradizionalmente di sinistra. Ma la retorica della «protezione dal mondo», la costruzione della paura: non riguardano solo la Lega. E neppure la destra. Perché gli stranieri possono «servire», politicamente e culturalmente, ma tanto in quanto le distanze fra noi e loro sono visibili e marcate. Tanto in quanto restano stranieri. Oggi, domani. Sempre. Lontani e diversi. In questo modo ci permettono di ritrovare noi stessi. Di ricostruire – artificialmente, per opposizione e paura – la nostra identità e la nostra comunità perduta. A condizione di fingere: che le nostre frontiere immaginarie, i nostri muri emotivi possano arrestare l´onda degli stranieri. A condizione di non vedere. Diventare ciechi e cinici. Perdere gli occhi e il cuore.

l’Unità 26.4.09
Sogni
di Vincenzo Cerami


I brutti sogni hanno spesso risvolti reali piuttosto tragici. Cambise Re di Persia - tanto per fare un esempio - una notte sognò che il fratello, da lui tanto amato, si sedeva sul trono al posto suo. La mattina dopo lo fece uccidere.
E Aristodemo, Re dei Messeni, si tolse la vita perché immaginò i suoi cani che gli lanciavano latrati di malaugurio. Anche il famoso Re Mida, che trasformava in oro tutto ciò che toccava, si suicidò dopo aver fatto un cattivo sogno. Se questi eroi dalle notti inquiete avessero saputo che la natura ha creato i sogni soltanto perché non ci annoias-simo durante il sonno, non avrebbero permesso che si ver-sasse una goccia di sangue.
Ci saranno stati anche Principi e Re che si sono ammazzati dopo un sogno mirabolante, di inaudita bellezza: come sopportare, dalla mattina dopo, un destino piccolo rispetto alle straordinarie apparizioni notturne?
Se è vero che la vita è sogno, che vitaccia per chi fa cattivi sogni. E che vitaccia per chi fa sogni impossibili!
Viviamo una vita ma ne sogniamo un'altra: quale sarà quella vera, visto che una è specchio dell'altra?
Il sogno è un libro che viene sfogliato di notte. Non ci interessano le parole scritte, ma le illustrazioni, le figure, i disegni.
Non ci interessano i ragionamenti ma l'anarchia dell'incoscienza e le contraddizioni dell’inconscio
Si dice che oggi viviamo più nella second life che nella prima. Il virtuale sta a noi umani come l'acqua sta ai pesci e il cielo alle nuvole.
E allora respirare sogni e respirare concretezza sono la stessa cosa: il vero è intangibile come l’illusione. Diciamolo senza pathos: non esistono più né sogni né realtà.

l’Unità Roma 26.4.09
I dati del 2007: 1.107 minorenni avevano una diagnosi principale psichiatrica
Disagio mentale, un reparto per minori
di Dora Marchi


Saranno accolti ragazzi da 12 a 17 anni. Annuncia Esterino Montino, vicepresidente del Lazio
Il centro sarà individuato in una struttura ospedaliera dell’area metropolitana della Capitale
Oggi funziona così: i reparti psichiatrici pubblici per acuti (SPDC), situati presso ospedali dotati di Dea di I o II livello, di norma possono ricoverare esclusivamente maggiorenni.

I dati ci dicono che «nel Lazio in tutto il 2007, su 131.947 dimissioni di minorenni da reparti di degenza, 1.107 presentavano una diagnosi principale psichiatrica. Il 47 per cento di queste dimissioni proveniva da reparti con nessuna specificità psichiatrica, mentre le dimissioni da reparto psichiatrico costituivano il 6,3 per cento. È la fotografia relativa all’anno 2007 che emerge dai dati di Laziosanità-Asp.
I reparti psichiatrici pubblici per acuti (SPDC), situati presso ospedali dotati di Dea di I o II livello, di norma possono ricoverare esclusivamente maggiorenni. Peraltro, presso tali reparti nel 2007 hanno avuto luogo 70 dimissioni di minori, la cui età era per il 95,7% compresa fra 14 e 17 anni. Riguardo le 67 dimissioni di adolescenti da reparti psichiatrici (età 14-17 anni), si verifica che sono state prodotte da 46 soggetti: di questi in effetti oltre un quarto (26,1%) ha ripetuto almeno una volta il ricovero presso reparti con questa tipologia.
Proprio per questa ragione, su proposta del vicepresidente regionale Esterino Montino, la Regione Lazio ha pensato ad un reparto di degenza appositamente pensato per l’accoglienza dei ragazzi dai 12 ai 17 anni in emergenza per motivi psichiatrici.
Il centro per il ricovero dei minori in situazione di emergenza psichiatrica, sarà presto individuato in una struttura ospedaliera nell’area metropolitana di Roma dotata di Dea di I o di II livello. «Finalmente - spiega Montino - è stato predisposto un modello di intervento, che prevede l’accoglienza dei ragazzi in emergenza per motivi psichiatrici in un reparto di degenza appositamente pensato per loro. La presenza di un’equipe medica che includerà sempre personale specializzato nella presa in carico dei minori garantirà l’adeguato approccio con i ragazzi e l’appropriato collegamento con i servizi territoriali dove avviare o proseguire il percorso terapeutico».

l’Unità Roma 26.4.09
La storia: riconsegnato dall’impero Austro-Ungarico nel 1916
Fu poi occupato da Mussolini, fino alla sua defenestrazione
Palazzo Venezia: una nuova guida ne riscopre i segreti
di Adele Cambria


«Oggi siamo arrivati a 27 Sale da visitare, ricavandone più di una splendida sorpresa, come il “Doppio ritratto” di due Giovin Signori, finalmente attribuito al Giorgione», spiega Maria Selene Sconci, una delle direttrici.

Ci fu, negli anni 2004-2007, un turbinìo di notizie clamorose sulla imminente rivoluzione architettonica artistica urbanistica ecc. di Palazzo Venezia: scale elicoidali, una piramide trasparente ad inglobare la settecentesca statua del Monaldi... Ed ancora: prosciugamento delle marrane sottostanti all’edificio, scavi sotterranei e trapianti (rischiosi) degli alberi secolari del viridarium, il giardino pensile prediletto da Paolo II... Il nostro giornale, in Cronaca di Roma, seguì per primo la vicenda della rivoluzione annunciata, progettata dai due architetti, Francesco Amendolagine, veneziano, e Ermanno Guida, napoletano.
Le perplessità furono tante. Ma non accadde nulla. O meglio: all’interno del Palazzo rimasero a lavorare, tenaci e silenziose, le due Direttrici del Museo: Maria Selene Sconci e Giulia Barberini. E sono loro che hanno curato la nuova Guida al Museo Nazionale del Palazzo di Venezia, presentata nei giorni sotto le volte «enigmatiche» della Sala degli Altoviti - così le ha definite Marisa Delai Emiliani - affrescata dal Vasari. La precedente Guida del Museo, curata dalla ex Direttrice Maria Letizia Casanova, e pubblicata nel 1990, era esaurita da anni. «Questo patrimonio è ancora relativamente poco conosciuto nella mappa dei tesori romani». Così la Prof. Dalai Emiliani.
Poco conosciuto perché?
Forse per «colpa» della sua travagliata storia: a partire dal 1916, quando il Palazzo fu riconsegnato all’Italia dall’Impero Austro-Ungarico, per essere ordinato dal conservatore Federico Hermanin, e quindi espropriato da Mussolini che ne fece il centro del suo potere, fino alla notte drammatica del Gran Consiglio del Pnf che lo defenestrò. «Che cosa resta - chiedo a Maria Selene Sconci - degli sfarzosi progetti della Wunderkammer, formulati nel 2004?». «Già allora ritenevo sarebbe stato meglio limitarsi a eliminare l’emergenza, in cui il Palazzo viveva - impianti elettrici non a norma, solo quattro bagni chimici per il pubblico, nessun alloggio per il custode notturno - e mirare alla riapertura di un maggior numero di Sale; oggi siamo arrivati a 27 Sale del Museo da visitare, ricavandone più di una splendida sorpresa, come il “Doppio ritratto” di due Giovin Signori, finalmente attribuito al Giorgione». E le novità ci sono: a cominciare dal Lapidarium, un patrimonio prezioso di marmi di varie epoche, definitivamente sistemato nel loggiato superiore del Palazzetto Venezia. La messa a norma di tutti gli impianti è in via di completamento. La splendida e poco conosciuta Pinacoteca resterà dov’è, le collezioni più importanti, saranno via via presentate al pubblico: mentre quella, mai vista da nessuno, dei cassoni di corredo e forzieri sarà sistemata nelle sei sale che si ricaveranno, insieme alla biglietteria, il bookshop, i bagni e il guardaroba, nel corso del restauro dello scalone Marangoni.

l’Unità Firenze 26.4.09
Biotestamento: in 400 per il town meeting Firenze-Torino
di Paolo Cantini


Esperienze a confronto nell’appuntamento in videoconferenza tra Toscana e Piemonte
Il 75% degli intervenuti ha chiesto che prima di tutto sia rispettata la volontà del paziente

Quasi 400 cittadini collegati in videoconferenza, una parte nella sala Pegaso presso la sede della presidenza della Regione Toscana, a Firenze, l’altra in piazza Borgo Dora a Torino. Tutti insieme per una giornata di discussione sul testamento biologico, in quello che è stto definito un electronic town meeting.
STORIE OPPOSTE
L’evento, parte delle iniziative della Biennale della Democrazia di Torino, ha visto la partecipazione di Regione Piemonte, Comune di Torino, Comune di Firenze e Regione Toscana. I partecipanti hanno ascoltato, in collegamento da Torino, due testimonianze simbolo di schieramenti opposti: la suora che ha difeso l’assolutezza della vita, che rimane tale anche nella malattia se circondata dagli affetti, e il racconto di una figlia che per sette anni «in cui ha prevalso la sofferenza» ha accudito la mamma di oltre novant’anni, che dopo un trauma cranico poteva nutrirsi solo artificialmente. Poi è cominciato il confronto: da Palazzo Strozzi Sacrati, il sindaco di Firenze Leonardo Domenici ha posto l’accento sull’importanza del metodo scelto, in un giorno come il 25 aprile che è simbolo di valori condivisi. Il presidente della Toscana Claudio Martini si è invece detto certo che dall’iniziativa possa arrivare un contributo pacato e riflessivo su un tema che ha suscitato parecchia eccitazione nel paese e in Parlamento.
IL PAZIENTE PRIMA DI TUTTO
Al termine della giornata, tra le varie indicazioni arrivate dai presenti, quella più interessante ha riguardato senza dubbio la necessità di rispettare la volontà del paziente: per il 75% degli intervenuti, infatti, questo «viene prima di ogni cosa» sempre e in ogni caso (per il 44%) o purché espressa in modo informato e appropriato (31%). Sempre tre su quattro, inoltre, ritengono necessaria una legge sul testamento biologico ma solo il 29% la legge deve fissare in modo rigoroso e preciso obblighi, divieti e sanzioni.
Il presidente Martini si è detto convinto che l’iniziativa abbia portato un importante contributo su un tema tanto delicato. Per Domenici è stato importante il metodo scelto in un giorno simbolo di valori condivisi.

Repubblica 26.4.09
La Shoah e il mistero del male assoluto
risponde Corrado Augias


Caro Dott. Augias, sono ordinario di astrofisica da poco in pensione, studiando la magnificenza dell'Universo mi trovo spesso a disagio di fronte alle incongruenze della specie umana. Si sente molto spesso parlare della strage degli Ebrei e delle persecuzioni che hanno subito. Ovviamente sono il primo a condannarle, a sentire una profonda repulsione per questa malvagità. Tuttavia, mi chiedo: è stata l'unico eccidio di massa nella storia dell'uomo? Se penso a quanto fatto in nome della Chiesa in Sud America ed in Messico, per non parlare degli indiani d'America, mi sembra che le differenti stragi non siano trattate nello stesso modo. Non mi pare si celebrino ricorrenze, momenti di silenzio o libri, trasmissioni tv, per quelle popolazioni distrutte nella loro essenza fisica e morale dalla «civiltà» europea. Mi si potrebbe rispondere: «Sono fatti troppo lontani nel tempo». Bene, allora veniamo alle stragi africane di ieri e di oggi (per non parlare della deportazione degli schiavi). Anche lì centinaia di migliaia di innocenti sono stati massacrati. Ecco la domanda: «Ci sono eccidi e stragi di serie A e di serie B?».
Vincenzo Zappalà enzo.zappala@tele2.it

Leggo nelle parole, ma anche in trasparenza, la domanda che preme al professor Zappalà, so che è una domanda che anche altri si pongono poiché la storia umana è costellata di stragi. Ne ricordo una assai lontana nel tempo, ma non per questo meno atroce: la conquista della Gallia da parte di Giulio Cesare: quella guerra costò un milione e più di vittime e lo stesso capo dei nemici, Vercingetorige, venne strangolato a freddo dopo aver ornato il trionfo di Cesare vincitore. Eppure tutti ricordano solo lui, Cesare. Una sola vita contro un milione di vite. Di questo è intriso 'il legno storto dell'umanità' come lo definì Kant nel suo celebre aforisma. Tutte queste stragi però hanno un tratto in comune: sono state compiute in nome di un ideale politico o religioso, distorto che fosse, che spesso nascondeva una brama di conquista. In questo lago di sangue la Shoah resta unica. La riassumo con le parole di Arrigo Levi nel suo bel libro appena uscito ('Un Paese non basta' Il Mulino): «La Shoah, cioè il disegno di distruggere, sistematicamente, tutto un popolo, da parte di un altro popolo giustamente considerato tra i più «civili» della Terra, per ragioni tanto oscure quanto incomprensibili, è andata apparendo sempre più come un orrore che tormenta la mente non solo di noi ebrei, ma di tutti gli uomini. La Shoah è il mistero del male, nella sua forma più pura e assoluta. Il male che si nasconde nel fondo dell'anima umana, che incombe sul futuro della storia dell'umanità».

Corriere della Sera 26.4.09
Il padre del commissario Montalbano collabora a un progetto teatrale tutto al femminile
Pirandello violento: Camilleri indaga
Molestie in famiglia contro le donne: un dramma con i testi del Premio Nobel
di Paolo Conti


«Difficile trovare un uomo psicolo­gicamente più violento nei con­fronti delle sue donne di Luigi Pirandello. L’annientamento della moglie Antonietta, sposata, poi relegata a fi­nanziatrice dei bisogni familiari, che impazzisce quando la fine della sua dote le sottrae la propria identità. La povera figlia Lietta che tenta il suici­dio... Il caro 'zio Luigi' ha predicato bene, denun­ciando le mascalzonate maschili nell’opera lette­raria, e razzolato molto male nella vita privata».
Andrea Camilleri è di umore radioso, il suo stu­dio romano è inondato di sole, risate, aromi di caffè. L’allegria dell’attivissimo ottantatreenne è concimata da quattro attrici-autrici-registe (Ma­nuela Mandracchia, Alvia Reale, Sandra Toffolat­ti, Mariángeles Torres, ovvero il gruppo «Mitipre­tese ») che lo hanno coinvolto nel progetto dram­maturgico di «Festa di famiglia». Debutto già fis­sato al Teatro India, sala sperimentale del Teatro Stabile di Roma, il 6 ottobre. Quindi tournée a Mi­lano, Napoli, Genova e altrove.
Il pretesto è il compleanno di una madre di 60 anni festeggiata dalle sue tre figlie, la vera trama è la violenza quotidiana degli uomini contro le donne nell’ambito familiare. Non una sola battu­ta è nuova perché l’intero impianto drammaturgi­co è composto da materiale letterario di Luigi Pi­randello estrapolato da drammi, novelle, roman­zi. C’è la molestia sessuale del padre verso la fi­gliastra dei Sei personaggi in cerca d’autore, il marito segregatore di Questa sera si recita a sog­getto, il manipolatore di personalità de L’amica delle mogli. L’impianto allestito dalle quattro attri­ci- autrici ha trovato in Camilleri una sterminata banca dati, unica nel suo genere e una cabina di regia dal ricchissimo passato. Dunque una sintesi che solo nominalmente è semplice «collaborazio­ne alla drammaturgia», come si leggerà in locan­dina.
Spiega Camilleri: «C’è chi si ferma alle statisti­che ma i numeri sono il miglior modo per esorciz­zare un problema immenso, che riguarda situa­zioni insospettabili. Ci sono famiglie in cui la pre­varicazione maschile è la regola, e spesso si arriva al gesto penalmente perseguibile». Ma dov’è il no­do di fondo, visto da un narratore? «Per secoli la donna è stata considerata dall’uomo un dominio, un possesso, come materia da dominare e indiriz­zare. Nel mondo moderno e contemporaneo, per fortuna, le cose sono cambiate. E l’uomo non l’ha sopportato. È come se i soldi conser­vati nel suo cassetto avessero deciso di al­lontanarsi e raggiun­gere autonomamente altre tasche. L’uomo non riesce a gestire i sentimenti profondi che nascono dai capo­volgimenti.
Per esempio, anzi soprattutto, l’ab­bandono. Per questo è affascinante la scommes­sa delle mie quattro amiche attrici. Sono riuscite a far dire a Pirandello, con le sue stesse parole, ciò che 'zio Luigi' non avrebbe mai immaginato di poter ammettere».
Una pausa, un piccolo sbuffo: «L’uomo ha una sostanziale paura delle donne, della loro possibi­le fuga. E così il maschio reagisce ricorrendo alla forza fisica. Di lì nascono tutte le storie di mariti, ex mariti, fidanzati ed ex amanti che picchiano, violentano, spesso uccidono purtroppo tante donne. I muri costruiti per secoli intorno alle ca­se siciliane e in genere del Sud non difendevano il nucleo da chi poteva entrare da fuori: in verità impedivano l’evasione delle femmine». Una risa­ta: «Perché, diciamocelo, tutto nasce da Adamo ed Eva. E a dire la verità la colpevole ancestrale è Eva, o no?». Risate femminili delle quattro ragaz­ze.
Anche lei, Camilleri, da siciliano è un vero uo­mo del Sud. Ha mai compiuto gesti di violenza psicologica verso le donne che l’hanno circonda­to? Il padre di Montalbano guarda nel vuoto della finestra, verso il cielo del quartiere Prati. Per qual­che istante fugge chissà dove, la sua bocca si pie­ga nell’inconfondibile smorfia così familiare a chi lavora con lui. Poi ritorna: «Sicuramente. L’ho fatto ma inconsciamente, come capita a chi possiede quei gesti nel proprio Dna. Poi me ne sono reso conto. Ci ho pensato. E me ne sono im­mensamente vergognato. Perché qui sta la matu­rità, la capacità di usare l’intelligenza, di ricorrere all’esercizio quotidiano della conoscenza di se stesso: quando ti rendi conto delle radici dei tuoi difetti».
Quanto tempo occorrerà perché quegli impul­si si sopiscano, magari scompaiano? «Ancora molto tempo, però avverrà. Non riguarderà pur­troppo le generazioni attuali. Occorrerà tempo per educare futuri uomini e donne ad avere rela­zioni diverse». Poi guarda le quattro attrici schie­rate sul divano di casa, con le spalle ai libri. Camil­leri le provoca: «Basta che la piantiate con le Quo­te rosa, con la Festa della donna dell’8 marzo, con la retorica delle mimose... tutte espressioni osce­ne, che sottolineano una diversità che non c’è più». Le quattro ovviamente si ribellano («è un modo per difenderci, per avanzare...») Ma lui non si convince: «Questa roba non mi piace. È come se ci chiedessimo: 'Quanti individui dalla pelle nera mettiamo nelle liste? Anzi, quanti ne­gri?' ». Avete mai litigato tra voi in questi mesi di lavoro? Battuta ironica di Camilleri: «Le mie quat­tro simpatiche amiche hanno avuto rispetto. Ri­spetto per la vecchiaia di un ottantenne. Diciamo che non mi considerano più come uomo...».
Riecco la piega intorno alla bocca. Ma stavolta è molto più amara.

Corriere della Sera 26.4.09
In «Dizionario minimo» Salvatore Veca commenta dodici termini per capire la democrazia
Da libertà a giustizia, le parole della convivenza
di Arturo Colombo


Salvatore Veca, da quando lo conosco, mi è sempre parso un filosofo che ha fatto dell’impegno civile una ragione di vita; e lo continua a fare con un atteggiamento sapientemente socratico, nel senso che non vuole imporre le proprie idee ma cerca — con un costante invito al dialogo — di far conoscere, e soprattutto far capire, quali sono le condizioni minime per riuscire a realizzare una convivenza civile e democratica. Del resto, l’obiettivo primario, o almeno la ricerca continua verso una «società giusta», costruita insieme, attraverso la collaborazione e la solidarietà di tutti (indipendentemente dal colore della pelle, dalle differenze di sesso, dai connotati ideologici), accompagna tutta la sua attività e si ritrova in ciascuno dei suoi libri, dalle pagine Della lealtà civile (1998) fino a quest’ulti­mo, appena uscito.
Si intitola Dizionario minimo (Frassinelli, pp. 192, e 17,50) e raccoglie «le parole della filosofia per una convivenza democratica». Parole — ci spiega lo stesso Veca — che incontriamo tutti i giorni, con le quali dobbiamo fare i conti; ma soprattutto parole che non costituiscono espressioni astratte, campate per aria, ma che noi stessi dobbiamo sfor­zarci di far diventare «fatti» o «valori», indispensabili per re­alizzare quella fondamentale «arte della convivenza», tanto indispensabile nell’odierna età della globalizzazio­ne.
Queste parole-chiave sono dodici, talvolta anche antitetiche fra loro (è il caso della Libertà rispetto alla Tirannia); eppure, a seguire le riflessioni e i sug­gerimenti di Veca, mi sembra che — pur con molte­plici difficoltà ancora presenti — la Giustizia debba costituire il traguardo decisivo cui aspira ciascuno di noi. Ma se la Giustizia è «la prima virtù delle isti­tuzioni sociali», come ci ricorda Veca sulla scìa di John Rawls, per raggiungerla, o almeno avvicinarsi, occorre che scompaiano, o si riducano sempre più quelle disastrose zone di Solitudine e Incompletez­za, cui sono tuttora condannati in tanti. Basti pensa­re alle storie «di bambini soli e di vecchi soli», che rappresentano «condizioni abituali di solitudine metropolitana», e ai tanti dannati della terra.
Ha quindi mille ragioni Veca nel ricordarci che di cammino da fare ne rimane tanto, non solo nel se­gno della Tolleranza e del Rispetto, ma per raggiun­gere quell’ardua, difficile conquista della Libertà e dell’Uguaglianza, senza la quale continueranno a in­combere gli spettri dell’inquietudine, del disagio, della sofferenza, dello sfruttamento. Veca coinvolge nelle sue riflessioni i grandi di ieri e di oggi — da Aristotele a Stuart Mill, da Dostoevskij fino a Berlin e Bobbio — senza dimenticare, con un pizzico d’iro­nia, quella che definisce «la lezione di un maestro come Giorgio Gaber, quando ci invitava a riflettere sul fatto che 'la libertà non è star sopra un albero... libertà è partecipazione».
Altro che accontentarci dei risultati raggiunti, dunque. La Speranza rimane l’ultima parola su cui Veca ci esorta a riflettere, anche come antidoto a quella «Incompletezza», che continua a mietere vit­time innocenti, a dispetto di ogni Riformismo: di destra o di sinistra, poco importa.

il Riformista 26.4.09
Spunti islamici anticrisi nei forzieri di Dubai
di Stefano Feltri


SOLUZIONI. Dal crollo delle torri al crollo di Wall Street: le due crisi sono legate. E forse la finanza di Allah può aiutare a superare entrambe.
Loretta Napoleoni. Economista, vive a Londra.

E se fosse tutto collegato? Se l'undici settembre 2001 (crollano le torri gemelle) e il 15 settembre 2008 (crolla la banca d'affari Lehman Brothers), cioè le due catastrofi che hanno segnato il nuovo millennio fossero legate? Sembrano domande da teoria del complotto. Se le pone Loretta Napoleoni, nel suo ultimo libro appena uscito, "La morsa" (Chiarelettere, 186 pp., 13,60 euro). Economista, specializzata prima in finanza e poi, con un dottorato, in terrorismo e con una carriera da analista e consulente sui loro legami, editorialista del Guardian, di Internazionale e di una decina di altre testate, la Napoleoni sostiene che Al Quaeda e i salvataggi pubblici delle banche al collasso siano parte della stessa storia.
Quando Lyndon Johnson decise di aumentare lo sforzo in Vietnam ricorse alla leva fiscale. Cioè aumentò le tasse. George Bush si è affidato invece alle azioni del presidente della Federal Reserve Alan Greenspan, che tagliava i tassi di interesse ogni volta che la Borsa ne aveva bisogno, consentendo al dollaro di restare debole, esportando inflazione ma favorendo il boom del credito e dei consumi da esso finanziati negli Stati Uniti. «Dopo l'undici settembre la politica dei tassi bassi fa comodo anche e soprattutto al governo americano che nel giro di due anni si trova invischiato in due guerre [...] rende i buoni del Tesoro più competitivi rispetto a quelli dell'industria privata. La politica deflazionista di Greenspan, dunque, finanzia prima il benessere illusorio della globalizzazione e poi la guerra contro il terrorismo. Ecco spiegata l'origine della crisi del credito», scrive la Napoleoni.
Le mosse successive degli Stati Uniti nella psicosi terroristica del 2001 hanno ricadute finanziarie. Dopo la notizia che quindici dirottatori su diciannove vengono dall'Arabia Saudita, gli investitori sauditi in America cominciano a temere ripercussioni e il blocco dei capitali: un fiume di 700 miliardi di dollari esce dagli Stati Uniti nei mesi dopo il crollo delle torri. Soldi che verranno reinvestiti altrove e in parte andranno anche a finanziare il terrorismo visto che la legge che, tra l'altro, doveva bloccare i flussi illegali di denaro, il Patriot Act, intercetta soltanto 200 milioni. Per capire dove finiscono tutti quei capitali basta vedere Dubai, una delle capitali degli Emirati arabi uniti: invasa dai petrodollari che prima finivano a Wall Street, nella città-stato si gonfia una bolla immobiliare che ora è appena scoppiata, un boom finanziario che porta nel 2005 alla creazione di un Nasdaq (uno dei due indici più famosi della Borsa di New York) anche sul listino di Dubai, e consente ai fondi sovrani controllati dalla famiglia regnante di diventare delle potenze finanziarie capaci di condizionare anche le Borse occidentali investendo parte delle proprie risorse proprio là da dove erano fuggite, nel capitale delle grandi banche al collasso come Citigroup o Merrill Lynch. Investimenti che si sono poi rivelati disastrosi, perché il valore dei titoli di quelle società ha continuato a scendere, spesso fin quasi ad azzerarsi. Una parte del denaro che arriva negli Emirati arabi e negli altri paradisi fiscali della regione contribuisce al decollo della finanza islamica a cui ora - secondo la Napoleoni - anche la finanza occidentale dovrebbe ispirarsi per cambiare e diventare più solida dopo la crisi.
«Finora il modello di successo a Wall Street è stata Goldman Sachs, una banca d'affari che funziona come una setta, dove è fortissimo l'elemento tribale dell'appartenenza. Lehman Brothers invece era un'organizzazione meno rigida, più aziendale. Ed è fallita. Il Governo americano ha deciso di non salvarla, e sicuramente nella scelta ha pesato molto il fatto che il segretario al Tesoro fosse Henry Paulson, che è il vero artefice della moderna Goldman, storica rivale di Lehman», dice la Napoleoni davanti a una spremuta d'arancia, in un bar dei Parioli, a Roma, parlando con il Riformista. E ancora: «Goldman ha convinto altre istituzioni come il gruppo assicurativo Aig a investire in strumenti speculativi come i credit default swap, si è comportata come un hedge fund e poi, quando è andata in crisi, è stata subito aiutata dallo Stato con prestiti che ora sta per restituire, sostituendoli con obbligazioni vendute ai privati ma garantite dallo stato, con il risultato che ancora una volta così si nasconde il rischio e si scaricano gli oneri sui contribuenti». Loretta Napoleoni, nella sua prima vita professionale, ha lavorato nella finanza, per le banche d'affari, se si fosse laureata quindici anni dopo forse si sarebbe trovata a progettare derivati. Non ha niente di personale contro Goldman, ma è il simbolo di una finanza che si è gonfiata alimentandosi di prodotti di cui non capiva la natura («Ha ragione Giulio Tremonti, certi derivati andrebbero vietati»), illudendosi che il rischio fosse svanito e che nessuno si sarebbe fatto carico delle eventuali perdite che in casi rari ma non impossibili, come si è visto, erano potenzialmente catastrofiche: «Tutto questo con la finanza islamica non sarebbe successo».
Tra il 2001 e il 2006 i titoli islamici commerciati nel mercato secondario, cioè scambiati tra investitori che ne determinano un prezzo secondo logiche di domanda e offerta, passa da quasi zero a oltre 45 miliardi di dollari, stima l'agenzia di rating Moody's. L'insieme di pratiche, transazioni e contratti finanziari conformi alla shari'a, la legge coranica, cresce di almeno il 10 per cento all'anno, anche se nell'insieme continuano a valere meno dell'uno per cento del totale. Nel volume "Economia e finanza islamica" (il Mulino, 146 pp., 8,80 euro), l'economista Rony Hamaui e Marco Mauri, banchiere attivo nel settore, raccontano l'ascesa della finanza di Allah che dal 1963, quando è nata la prima banca islamica moderna in Egitto, al 2001 è rimasta in letargo. I capitali rimpatriati dopo la grande fuga dai mercati occidentali diventano il carburante per stimolare l'evoluzione di un sistema finanziario in cui il tasso di interesse all'occidentale (remunerazione del rischio di credito e compensazione del costo di privarsi del capitale investito per il tempo del prestito) non esiste. Il principio è quello della condivisione dei profitti: i soldi non si depositano su un conto corrente, ma si investono in una banca che li farà girare, e il depositante verrà remunerato con gli eventuali utili e soffrirà le perdite. Controindicazione: i costi di monitoraggio salgono, il risparmiatore dovrà vigilare sempre sulle scelte della banca per controllare che non sprechi i sui soldi, mentre quello occidentale deve solo aspettare di ricevere gli interessi (in teoria: abbiamo visto in questa crisi che non è affatto così semplice). La politica monetaria non ha quindi il potere di gonfiare le bolle con tassi troppo bassi o di scoppiarle alzandoli per contenere l'inflazione e l'economia islamica è (almeno nei modelli degli economisti, nella realtà sussidi e tasse introducono distorsioni) priva di quei cicli che, come ha spiegato Charles Kindleberger, fanno oscillare il sistema finanziario occidentale tra grandi sviluppo e recessioni sanguinose.
Visto che tutto si fonda sull'investimento diretto, nella finanza islamica non si rischia di eccedere con la leva finanziaria, non si cade nella tentazione dei leveraged buyout, fusioni e acquisizioni fatte con soldi altrui, perché il rischio è sempre condiviso e non si può impacchettarlo e rivenderlo fino a diluirlo in tutto in sistema come si è fatto negli Stati Uniti. Scrivono Hamaui e Mauri che, a differenza del risparmiatore occidentale che vuole essere adeguatamente remunerato per rimandare nel tempo il consumo, «il buon musulmano vuole massimizzare il suo benessere non solo su questa terra, ma anche nell'aldilà, comportandosi secondo i dettami di Allah». L'orizzonte è talmente lungo che il consumatore islamico non si indebita per comprare oggi ciò che non può permettersi, e infatti il credito al consumo conforme alla shari'a praticamente non esiste. I capitali arrivati nel Golfo negli ultimi anni hanno stimolato i banchieri di Allah a sviluppare complessi contratti che rispettino questa lista di principi offrendo rendimenti concorrenziali rispetto ai prodotti tradizionali. C'è un problema: i prodotti finanziari islamici non sono standaridizzati, perché ognuno deve ottenere l'approvazione di un consiglio di saggi che ne verifica il rispetto delle norme coraniche, quindi è difficile confrontarli e fissarne il giusto prezzo (stesso problema per i derivati invendibili che languono nei bilanci delle banche tradizionali). «É questo il punto di forza del sistema islamico: esiste un controllo etico di tutti i prodotti», dice Loretta Napoleoni. Nonostante i tentativi di organismi come l'Accounting and Auditing Organisation for Islamic Financial Institutions in Bahrein o l'International Financial Service Board (Malesia), il settore resta molto frammentato.
Orizzonte di lungo periodo, controllo etico delle remunerazioni dei manager e degli strumenti finanziari, emancipazione dalle oscillazioni del ciclo economico, maggiore evidenza al rischio e più responsabilità sia per chi finanzia che per chi è finanziato: le ricette proposte ai vertici internazionali, a partire dal G20, assomigliano già molto ai principi fondanti della finanza islamica.

il manifesto 24.4.09
L'enciclopedico rabdomante del liberalismo
Il pigro democatico
Escono per Feltrinelli le «Lezioni di storia della filosofia politica» di John Rawls
di Toni Negri


Escono per Feltrinelli le «Lezioni di storia della filosofia politica» di John Rawls. Un'opera monumentale che cerca di legittimare, cercando nei classici, l'anima imperiale dei paesi liberali. E che considera i conflitti sociali, di classe e di potere come incidenti di percorso nel buon governo della società

Chi sono i fondatori del pensiero politico moderno? Quelli che elenca e studia John Rawls nelle sue Lezioni di storia della filosofia politica (traduzione di Valeria Ottonelli, Feltrinelli, pp. 514, euro 45), e cioè Hobbes, Locke, Hume, Rousseau, Mill eccetera, oppure lo sono Machiavelli, Thomas Muentzer, Harrington, Spinoza, Voltaire, Diderot eccetera, che Rawls non cita neppure? Devo ammettere che talvolta, piuttosto che scrivere una recensione, verrebbe voglia di fare un'esecuzione. Io voglio bene a Rawls, ho imparato moltissimo dal suo pensiero negli anni '60 quando lui era ancora liberal. Quello che non sopporto è la teologia dell'Occidente, il contrattualismo liberale, quella storia della filosofia morale che si pretende inevitabile teoria politica. È insopportabile. Lo è sempre stato ma nessuno si permetteva pubblicamente di dirlo perché questo tipo di filosofia e di storia della filosofia costituivano ancora la faccia decente di un neoliberalismo imperiale e capitalista, indecente e trionfante. Bisognava pur salvare gli stracci.
Ma ora, nella crisi, perché continuare a osannare virtù storiografiche ambiguamente o completamente soggette ad un progetto politico che la crisi attuale rivela con tragici effetti e mostruosa efficacia?
Il dovere del liberale
Com'è costruito questo libro? Si comincia con una definizione della filosofia politica, che è in realtà definizione del solo liberalismo come determinazione politica effettuale. Di essa, non si può dire che contenga un'autorità specifica, e cioè che sia la più adeguata a governare, ma sicuramente si può dire che conta, perché essa è riflessione sull'esistente - e l'esistente è quella democrazia politica. Un'altra concezione della giustizia o del bene comune può forse essere data: ma dove sta la sua attualità? Questa è il forzoso presupposto del discorso di Rawls. È chiaro che si può obbiettare, come Hume avrebbe fatto, che questa posizione non è altro che un «a posteriori» trasformato in un «a priori».
Dall'altra parte che c'era di diverso nella formulazione del fondamento di «giustizia come equità» in Rawls? «I due principi della giustiza come equità sono: a) ciascuna persona ha lo stesso diritto indefettibile a uno schema pienamente adeguato di libertà fondamentali eguali, che sia compatibile con lo stesso schema di libertà per tutti; e b) le disuguaglianze sociali ed economiche devono soddisfare due condizioni: primo, che debbano essere collegate a cariche e posizioni aperte a tutti in condizioni di equaeguaglianza di opportunità; e, secondo, che debbano essere per il più grande vantaggio dei membri meno avvantaggiati della società». Che cosa significa questa arzigogolata definizione? Che la libertà e l'eguaglianza (dati a posteriori - così come storicamente sono) vanno riconosciute come campi di realizzazione di un «dover essere» (a priori).
C'è nulla di più banale? E perché non ci si chiede quali siano le condizioni nelle quali consistono i campi di realizzazione del «dover essere»? Eppure è vero che qui la speranza non è cinicamente esclusa. Ma basta sperare?
Da Hobbes a Marx
A che pro' continuare nella descrizione di questo libro? Si continua con una serie di analisi: del pensiero di Hobbes (giustamente valutato come un liberale: il dibattito se lo fosse o meno non sarà mai chiuso da chi costruisce la libertà sul potere, quali che siano i paradossi che ne risultano); di Locke (qui il contrattualismo si mostra lucidamente e pacificamente nello stringere un rapporto indissolubile fra legittimità sovrana e classe borghese: pensate che possa darsi altro contrattualismo? Altro da questo suo fondamento assoluto lockeano, si interroga Rawls); di Hume (quasi uno scandalo il suo empirismo ed il suo illusionismo radicale, ma si sa che nessun assoluto può vivere senza uno scetticismo adeguato e compatibile); di Rousseau (bravo... ma è così irresoluto nel passaggio dall'idea del «contratto» alla realtà del «patto» che il suo individualismo resta opaco); di John Stuart Mill (infine... che brav'uomo, il contrattualismo, pur radicandosi nell'individualismo più strenuo, è finalmente aperto anche alle femmine ed a aspetti caritatevoli che possano anticipare un welfare future...); e infine di Marx (considerato, in maniera tanto subdola quanto riduttiva ma, in questa prospettiva, probabilmente esatta, un filosofo della giustizia liberale quando lo si valuti, come fa Rawls, semplicemente sulla base della sua teoria del valore). Le due appendici su Sidgwich e Butler, autori che spaziano fra il sette e l'ottocento, riarticolano nella tradizione anglosassone più remota le storie che abbiamo fra le mani.
Il libro è molto intelligente - è l'intelligenza pigra della classe media colta, direbbe Veblen. Schematismi, rinvii consueti, ripetizioni si susseguono: la cura del libro è ottima. La cura offerta dagli editori alle lezioni di Hegel fu indubbiamente meno prolissa. Ma soprattutto è un libro di storia della teoria del contratto e della sua eterna funzione nella fondazione del pensiero politico. Ma è legittima questa pretesa? Mi ripeto: supponiamo che la teoria del contratto possa spiegare l'ordine presente, quando esso si dà nella sua stabilità. È tuttavia certo che non può rappresentarne la crisi. La crisi è insopportabile: essa viene infatti sempre, consapevolmente, sia da Hobbes come da Locke, sia da tutti i contrattualisti, rigettata nel passato, rinviata ad uno stato iniziale di natura bellicosa, critica: ma il pensiero politico ed il mondo della politica (vi riassicurano subito i contrattualisti) nascono e si mantengono dopo che la crisi è stata superata. Questa è pura e semplice metafisica, ideologia, Plato redivivus! Che bella differenza dall'ontologia politica, per esempio, del Segretario fiorentino o dell'ebreo olandese o dell'enciclopedista, laddove la crisi è costante e la politica è la sua gestione continua e la filosofia è la critica continua della gestione!
Dicevamo libro di filosofia, ma appunto libro di una filosofia ideologica. Dicevamo libro non storico: perché la storia della filosofia, esattamente come la storiografia civile, non ha più nulla a che fare con queste liste di ritratti, con queste serie scolastiche e con queste celebrazioni di concetti. Anche i libri di storia della filosofia (e soprattutto di filosofia politica) dovrebbero ormai - è passato un cinquantennio da quando questa riforma è intervenuta - tener presente la lezione degli Annales, l'insegnamento cambridgiano di Skinner e di Pocock, e poi soprattutto il lavoro del post-strutturalismo francese dove la produzione di soggettività diventa il centro della processualità storica. La storia della filosofia, dopo Foucault, va reinventata per farla vivere altrimenti, nel gioco di discontinuità e creazione.
La rigida disciplina
Scusatemi questo sfogo, ma è ora di affrontare in termini non sacrali, comunque irrispettosi, una tradizione nella quale si mostrano ormai non solo mancanza di vigore ma insensatezza. Sono libri noiosi, questi che ci fanno leggere; libri troppo dispendiosi che le biblioteche universitarie debbono comperare; libri che ripetono un'ideologia consunta e spandono tossine del tipo di quelle che le banche americane hanno messo in giro negli ultimi anni. Rawls non c'entra: malgrado tutto, quando gli si vuol bene, si riconosce al suo discorso un lieve, lievissimo afflato sessantottesco. Ma c'entra tutto il resto. C'entra quel modello di studi che da Weimar a Oxford a Harvard, ormai da secoli, ha invaso la cultura occidentale imponendone la potenza politica anche quando le sue articolazioni e le sue argomentazioni culturali erano flebili.
Un modello disciplinario rigido che costruisce la struttura del sapere in maniera adeguata agli interessi della classe dominante. Ci fu chi, di fronte a situazioni analoghe, propose «di rompere i vasi Ming»! Non credo che sia questo il momento di farlo, anche perché i nuovi teologi-politici dell'anarchismo e i niceani impuniti continuano a proporcelo. Ed anche perché nelle università di filosofia italiane, se si togliesse di mezzo quel tipo di storiografia filosofica, non si saprebbe più cosa fare, non ci sarebbero nemmeno più argomenti di tesi da proporre. Quindi, che fare? Per chiudere, fermiamoci su un ultimo aspetto del discorso di Rawls che ci sembra tipico dell'allure talora lievemente sessantottina del suo procedere. Ragionando sul pensiero di Marx, Rawls sottolinea che l'idea della pianificazione vi è centrale per la definizione del comunismo. Ora, aggiunge Rawls, noi siamo individualisti, non comunisti. Ma, attenzione, adesso che il socialismo sovietico è finito, non buttiamo, con questo, anche l'idea razionale di piano. Essa può essere un'idea di buon governo per riassestare il corso della storia e per sanare i momenti di cattiva sorte del capitalismo: benvenuto Mr. Obama!

Terra 26.4.09
25 aprile. I ghost writer della maggioranza hanno fatto grandi sforzi per presentarsi come pacifici alfieri dell'unità nazionale. Ma con la Resistenza, pace non l'hanno fatta
L'impossibilità di dirsi eredi dei partigiani
di Luca Bonaccorsi


È una coperta corta quella che i discorsi di Berlusconi hanno steso ieri sulle membra dèll'attuale maggioranza. In tanti l'hanno tirata, ma qualcosa restava sempre scoperto. I ghost writer del premier, a dire il vero, uno sforzo l'hanno fatto. Ma per quante mani di cerone si applicassero aI busto, il profilo· restava sempre quello dal mento· alto che parla agli "italiani". Anche perché, oltre le parole, restano i fatti. Il lembo tirato in nome dell'antitotalitarismo, ad esempio, lasciava in evidenza l'allergia alla parola "antifascismo". Allergia egualmente suscitata dal dover riconoscere ai comunisti di essere tra i "padri della patria". Operazione storiograficamente necessaria, ma possibile solo dopo aver accuratamente spianato ogni differenza con "tutti gli altri". E comunque non priva dell'abituale stoccata ai partigiani "stalinisti".
Il presenzialismo dei membri del Pdl in abito istituzionale non è riuscito a nascondere che il sindaco di Roma, quello con la celtica al collo, la cui elezione fu accolta da festanti saluti romani al Campidoglio, non ha potuto partecipare alla manifestazione partigiana di Porta San Paolo per timore (certezza) di essere contestato. Le calibrate frasi sulla distinzione tra partigiani e repubblichini, poi, lasciavano scoperto il progetto di legge 1360, quello che di fatto li rende ugualmente degni dell'"Ordine del Tricolore". C'ha provato anche il buon La Russa a tirare verso di sé la coperta dal lembo della "libertà e del pluralismo". Lasciando scoperto il fatto che nel Paese c'è un signore che può decidere in salotto i direttori di cinque telegiornali nazionali. E che controlla l'intero mercato pubblicitario che fa la vita e la morte dei media italiani. E non potendo neanche celare l'accusa di Napolitano di pochi giorni fa, sul rischio democratico insito nella incessante retorica della governabilità. È cosa nota, infatti, che se non fosse per il potere d'interdizione della Lega nord, il Pdl non avrebbe avuto alcun problema a sostenere il referendum truffa sul sistema elettorale, che il pluralismo italiano lo ammazza. L'appello ai principi della nostra bella Costituzione, quella del lavoro, dei diritti e della democrazia, lasciava scoperti i valori veri dell'attuale maggioranza: Dio, patria e famiglia. Ed è proprio la dimensione "culturale" di questa maggioranza egemone che emergeva da ogni angolo. Se non fossero bastati i duetti Ratzinger-Berlusconi a raccontare la sintonia tra questo papato e questo governo, c'è sempre la recente vicenda di Eluana Englaro a ricordare che il principio costituzionale della laicità dello Stato è stato spàzzato via definitivamente. E come scordare le performance dei Quagliariello o delle Roccella? Sulla centralità di Dio e del cattolicesimo, per l'attuale classe dirigente c'è ormai poco da dubitare. Ma la coperta della resistenza è stata tirata anche sul concetto di Patria. Per fortuna sono ancora vivi i partigiani per raccontare la verità.
Ovvero che il movimento, in nessun modo sentiva l'asfissiante retorica della Patria cara al Ventennio fascista. L'operazione revisionista includeva anche l'asserire una continuità tra Resistenza e Risorgimento. Mentre la Resistenza e la lotta di liberazione costituirono una discontinuità nella storia d'Italia. Da esse nacque l'Italia repubblicana, democratica, con il voto alle donne, come ricordava Lidia Menapace, la partigiana Bruna, ieri su Terra. E dopo il Dio e la Patria, come scordare la famiglia? Quella tradizionale, patriarcale, fondata sul matrimonio cattolico. Tutti, infatti, sappiamo che i progetti di legge sui Pacs e il riconoscimento delle coppie di fatto sono spariti dall'agenda poltica. L'operazione "25 aprile" comprendeva anche l'utilizzo dello stage privilegiato del momento: l'Abruzzo martoriato. E lì, infatti, che Berlusconi ha trovato il terreno congeniale al consolidamento del suo consenso, quello del "fare", del "costruire", Nel quale la sua esperienza di costruttore porterà sicuri successi. "Berlusconia" nascerà presto, e comunque è già riuscita a far dimenticare quella mostruosità legislativa, quel monumento all'abusivismo, che era il Piano casa. La coperta del terremoto copre un altro grande dramma nazionale: la crisi economica. Una crisi di proporzioni storiche, verso la quale il governo è stato di un'inefficienza assoluta. Tutto ciò per dire, insomma, che non sono certo le nostalgie ducesche a rendere incompatibili questa maggioranza con le idee e le pratiche della Resistenza o con i valori della Costituzione, ma la cultura di cui essa è intrisa.
E a sinistra? La Liberazione, la Resistenza, sono ancora miti fondativi validi? Il migliore settimanale d'Italia, left;, ha fatto un giro nelle scuole e tra la gente per scoprire che tra i giovani sono miti sbiaditi, quasi sconosciuti. E se non li conoscono i ragazzi vuol dire che la storia, lentamente, li cancellerà. Ai ragazzi forse bisognerebbe ricordare ancora le parole di Lidia Menapace, quando racconta che in quei giorni nessun contadino denunciò i partigiani mentre si nascondevano dai fascisti. E che gli operai al Nord, sabotarono l'operazione tedesca di trasportare gli impianti in Germania, salvando il nostro patrimonio industriale. Raccontare che tanti italiani non furono fascisti. E che la Resistenza fu un movimento dal basso, di popolo. Dare un senso alla parola "resistenza" oggi, forse richiede di spostare il fronte da quello politico-militare a quello culturale. Ma per resistere è indispensabile l'individuazione e il superamento delle debolezze, innanzitutto culturali, del fronte progressista. Il drammatico vuoto di credibilità a sinistra oggi è direttamente proporzionale al suo vuoto di identità. La storia ha spesso determinato le condizioni in cui bisognava resistere. Questo è uno di quelli. Il momento di resistere a quella operazione culturale che nell'insapore brodo della "modernizzazione" rende tutti i gatti grigi. Alcuni gatti, invece, sono neri.

Terra 25.4.09
Nel segno della Costituzione dove antifascismo è democrazia
L'analisi. Alle prese con il 25 aprile, il centrodestra tenta furbescamente di riscrivere la storia. Giovanni De Luna: «Berlusconi? La sua partecipazione alle celebrazioni non è una consapevolezza ma una prova di forza»
di Donatella Coccoli


«La presa di posizione del presidente Napolltano è importante. Oggi la cosa fondamentale da salvaguardare in questo Paese è un modello di cittadinanza inclusiva»

Il 25 aprile è un po' la cartina di tornasole della storia della Repubblica. Analizzare come sia stato vissuto durante gli anni significa quindi ripercorrere conflitti tra i partiti e tra i blocchi internazionali, significa immergersi in acque non proprio limpide, infettate da ideologie sulle quali forse occorre fare chiarezza fino in fondo. Se non altro, per offrire elementi di conoscenza ai giovani, adesso in preda a un incolmabile vuoto di memoria. Che è il frutto, ricordiamo, di una piattezza culturale sorta non d'improvviso, ma frutto di strategie precise da una parte, e da assenza di contenuti teorici e di rapporto con la realtà dall'altra.
Allo storico quindi il compito di dare un giudizio, dopo giorni, questi ultimi, in cui il centrodestra ha esibito le sue diverse facce: da Ignazio La Russa che ha definito i partigiani rossi come non dei veri liberatori dell'Italia a Berlusconi che ha accettato di festeggiare la data «per non lasciarla alla sinistra».
Giovanni De Luna, docente di Storia contemporanea, autore di numerosi saggi sull'antifascismo e la Resistenza, acuto e appassionato osservatore non solo dei fatti del passato ma anche dell'oggi sostiene che «ogni 25 aprile ha le sue caratteristiche specifiche ma tutte insieme dimostrano che nel Paese c'è una memoria inquieta, non pacificata». Ogni 25 aprile restituisce i momenti che stiamo attraversando, i momenti della nostra storia. E quest'anno com'è? «Di fronte al dilagante tentativo di estromettere l'antifascismo dal paradigma della nostra democrazia - osserva De Luna - le novità sono la scelta di Berlusconi di partecipare e il discorso del presidente della Repubblica nel difendere la Carta costituzionale. Rispetto al presidente del Consiglio quello che emerge non è tanto l'affiorare di una sua consapevolezza rispetto al passato, un suo avvicinamento alle nostre radici, quanto una prova di forza da ostentare in questo momento: lui si sente il padrone d'Italia. Quindi non c'è alcun passo avanti da un punto di vista storiografico e culturale. La presa di posizione di Napolitano è, però, importante, di questi tempi, perché effettivamente erano tanti anni che non si sentiva in Italia la ripresa dell'equazione antifascismo-democrazia».
E, in effetti, l'antifascismo per anni è stato etichettato quasi come sovversivo, se si pensa che fino al '60 le celebrazioni ufficiali del 25 aprile escludevano i partiti della sinistra.
«L'uscita del capo dello Stato è significativa perché l'antifascismo per avere una sua validità va raccordato alla democrazia. L'antifascismo è la Carta costituzionale - rimarca con forza De Luna -. Rappresenta una visione potenziata della democrazia, perché in Italia non basta una democrazia normale, considerando che usciva da una dittatura. Occorre qualcosa di più che è proprio l'antifascismo, un modello di cittadinanza inclusiva che ancora oggi è la cosa più importante da salvaguardare in questo Paese. Bene quindi ha fatto il presidente a dire quanto sia attuale questa lezione». Curiosamente, ad anticipare le varie esternazioni del centrodestra sul 25 aprile, nei giorni scorsi, era stato Ernesto Galli della Loggia che, in un articolo sul Corriere della Sera a proposito dell'ultimo libro di Aldo Schiavone se ne era uscito con il parallelismo tra antifascismo e anticomunismo. «Della Loggia? Lasci stare ... - conclude De Luna -. L'antifascismo è la Costituzione, con la partecipazione di forze che in altri Paesi erano totalitarie; ma i comunisti qui sono stato essenziali per costruire la democrazia. La Costituzione è firmata da Umberto Terracini. Vale quello».

Terra 25.4.09
In fuga per non perdere la tenerezza
Letteratura. In libreria Quanta stella c'è nel cielo, il nuovo romanzo della scrittrice ungherese che ha vissuto sulla sua pelle la tragica esperienza del lager
di Simona Maggiorelli


Anita ha sedici anni. È bella, non solo perché il movimento femminile del suo corpo si va facendo consapevole e sensuale. È bella anche perché sensibile, vibrante. La tragica esperienza dei campi di concentramento, a cui è sopravvissuta per miracolo, non l'ha uccisa interiormente. Anche se una ferita grandissima le rimane dentro. E Anita sa che non si rimarginerà. Quanta stella c'è nel cielo, il nuovo libro della scrittrice Edith Bruck, prende il titolo da un verso di una ballata del poeta ungherese Petöfi «Quei versi sono tra le poche cose che Anita porta con sé, insieme a molti ricordi laceranti». In fuga dall'orrore, la ragazza viaggia da clandestina su un treno tanto affollato da non riuscire a respirare: spera di raggiungere alcuni parenti in una Cecoslovacchia povera, come lo era l'Italia del dopoguerra dove la scrittrice ungherese, scampata al lager, decise di 'provare a ricominciare a vivere. «Avevo una piccola valigia piena di ricordi dolorosi. Niente altro. Ma la Roma di quegli anni racconta Bruck che ha scelto di vivere nella Capitale e di scrivere in italiano - mi assomigliava perché sapeva tirare avanti con poco e la gente trasmetteva, comunque sia, voglia di vivere». Sapere più lingue e la facilità ad apprenderne di nuove, insieme alla scoperta della scrittura come mezzo per cercare di attaccare quel macigno di dolore che si portava dentro, hanno fatto di Edith Bruck una delle prime scrittrici italiane proveniente da una cultura diversa. Un'area, quella della narrativa fatta di opere di autori immigrati o migranti, che negli ultimi anni ha reso assai più ricco e articolato il canone della letteratura italiana, ma che negli anni Cinquanta, quando Edith Bruck cominciava a scrivere, non aveva ancora piena cittadinanza letteraria. «A dire il vero ostacoli non ne ho incontrati molti - chiosa la scrittrice -; a parte quella volta in cui un editore di sini: stra pretendeva che censurassi le violenze dei comunisti sovietici sulle donne ungheresi». E di censure o, peggio ancora, di autocensure Edith Bruck non ne ha mai voluto sapere. Così oggi parla con schiettezza del suo disamore per Israele per la sue violente politiche di guerra nella striscia di Gaza. «Sono una pacifista, non sopporto nessun tipo di sopruso o di violenza, da qualunque parte venga» ribadisce la scrittrice. In Italia Bruck dice di aver trovato finalmente "una lingua da abitare", nella quale «poter dire "io"». Ma, così come ha rifiutato la religione della sua famiglia, dice di sentirsi in tutto e per tutto una cittadina del mondo: «La parola patria non mi piace, perché in nome della patria, come in nome di Dio, hanno commesso delitti infiniti». Ed è con questo coraggio e una scrittura tesa, nitida, che scava nella psicologia dei personaggi che negli ultimi quarant'anni Edith Bruck ha scritto libri che restano come capisaldi della letteratura occidentale. Libri come Chi ti ama così (1958), Transit (1978) o come l'intensa Lettera alla madre (1988) o il nuovo Quanta stella c'è nel cielo, da poco uscito per Garzanti, formano un puzzle di narrazioni in cui la rielaborazione continua della memoria e l'impegno a dare voce alle vittime del nazismo costituiscono il centro lirico della narrazione. Ma, come è stato notato, sarebbe ingiusto chiudere la scrittura di Edith Bruck nell'ambito della scrittura testimoniale (lei stessa, del resto in Signora Auschwitz, del 1999, si era ribellata a questa etichetta).
«Molti pensano che narri storie vere - confessa - ma io scrivo romanzi e ho sempre lavorato per immagini, frutto di fantasia». Una fantasia, quella di Edith Bruck, che riesce a denunciare la violenza inaudita della Shoah con una risonanza emotiva che la cronaca non riuscirebbe mai a raggiungere. Perché con parole poetiche riesce a essere fedele al senso più profondo della storia, al di là dei fatti.

Il Sole 24 Ore Domenica 26.4.09
Hannah Arendt e Martin Heidegger
L'amore-odio per il maestro
di Maurizio Ferraris


«Il vero irreparabile si presenta spesso sotto forma - illusoria - di un mero accidente. Talvolta, su un'impercettibile linea di confine che noi varchiamo tranquillamente, fiduciosi che non ne verrà alcuna conseguenza, si erge una muraglia capace di separare veramente alcuni uomini dagli altri. In altre parole, benché io non abbia mai sentito alcun trasporto per il vecchio Husserl, né sul piano oggettivo né su quello personale, ritengo di dovergli, in questo caso, la mia solidarietà. E poiché so che quella lettera e quella firma lo hanno poco meno che ucciso, non posso fare a meno di ritenere Heidegger altro che un potenziale assassino».
Chi scrive queste parole è Hannah Arendt, in una lettera del luglio 1946 a Karl Jaspers in cui commenta il fatto che, investe di rettore della Università di Friburgo, e ottemperando a una legge valida per tutte le università tedesche, Heidegger avesse emanato nel 1933 una circolare che vietava l'accesso agli atenei ai professori ebrei licenziati in precedenza. Tra questi c'era per l'appunto Edmund Husserl, il maestro di Heidegger. Difficile riassumere meglio il senso della banalità del male, per riprendere il titolo del controverso (all'epoca) libro di Arendt sul processo Eichmann a Gerusalemme uscito nel 1963.
Nel 1949, Arendt dirà a Jaspers della sua relazione d'anteguerra con Heidegger, e scriverà al secondo marito, Heinrich Blücher: «Ho raccontato apertamente a Jaspers come stavano le cose fra Heidegger e me. E lui: ah, però, molto eccitante». Tuttavia, o meglio proprio perciò, se per Eichmann c'è una specie di commiserazione, per Heidegger la Arendt oscilla per decenni tra due polarità difficili da sostenere, l'ammirazione e il disprezzo, e solo negli ultimissimi anni si fa avanti l'amicizia.
Queste due lettere sono riportate, insieme a una grande quantità di altri documenti (spesso inediti) da Antonia Grunenberg, docente di scienze politiche e direttrice del Centro Hannah Arendt di Oldenburg, in Hannah Arendt e Martin Heidegger. Storia di un amore. Diversamente dal bellissimo libro di Safranski (Heidegger e il suo tempo ripubblicato l'anno scorso da Longanesi), qui non abbiamo a che fare con una limpida biografia intellettuale, bensì con l'intricata storia di due vite che si avvicinano in una relazione iniziata nella metà degli anni Venti a Marburgo, dove insegnava Heidegger e dove venne a studiare la Arendt, proseguita in segreto anche dopo che Hannah aveva lasciato Marburgo, interrotta dalla ascesa al potere di Hitler, che costringe Arendt all'esilio prima a Parigi poi a New York, per riprendere (come confronto e scontro intellettuale) nel 1950, sino alla morte di lei nel 1975.
È oggettivamente difficile tenere sotto controllo uno scacchiere così ampio, perché per molti anni le esistenze dei due protagonisti sono distanti quanto possono esserlo la baita di Todtnauberg e i dintorni della Columbia University, gli "Heil Hitler!" di Heidegger e il marxismo della «Partisan Review» con cui collabora Arendt. E davvero a momenti si ha l'impressione di avere a che fare con Guerra e pace, sebbene Grunenberg (oltre a un po' di inesattezze) si lasci andare a frasi insieme trasognate e trasandate, ogni tanto dia l'impressione di aver perso il filo di una trama troppo complicata, e a volte (soprattutto per il pensiero di Heidegger) manifesti una certa sordità.
Questo non toglie niente all'interesse di un libro che è un mosaico di fatti e figure (gli allievi di Heidegger, l'ambiente della Arendt, gli avversari politici e filosofici dell'uno e dell'altra, gli eventi militari, la moglie di lui e i mariti di lei) che si estendono per un cinquantennio partendo da una vicenda che per l'essenziale dura pochi mesi intorno al 1924. Straordinario e insieme scontatissimo destino di una delle storie più famose del secolo scorso e che, nella mente dei due amanti, doveva rimanere un segreto assoluto.