martedì 28 aprile 2009

Repubblica 24.4.09
Bellocchio: "Vi mostro la donna che Mussolini chiuse in manicomio"


ROMA «Quando ho fatto Vincere non ho pensato affatto a Berlusconi né ho fatto similitudini tra Mussolini e l´attuale premier. Non penso che nasceranno polemiche, comunque saranno gli spettatori a decidere». Lo ha detto Marco Bellocchio, unico regista italiano a partecipare al concorso del Festival di Cannes con il suo nuovo lavoro Vincere che racconta la storia di Ida Dalser, madre di un figlio di Mussolini, Benito Albino. Ida Dalser morì in manicomio dove il Duce l´aveva fatta rinchiudere. La interpreta Giovanna Mezzogiorno, mentre Filippo Timi è sia Mussolini che suo figlio Benito Albino.
«Ida Dalser» spiega Bellocchio «è stata un´eroina piuttosto antipatica, una rompiscatole che voleva affermare a ogni costo la verità e i suoi diritti. Per questo l´ho amata e per questo ho voluto la Mezzogiorno, un´attrice che ha in sé quel carattere, quella determinazione». Vincere, prodotto da RaiCinema insieme ai francesi, «è incalzante, scandito su trent´anni di storia e segue questa donna dai 21 ai 50 anni. Racconto il manicomio, dove è rinchiusa, non in modo veristico ma come una prigione».
(ro.rom.)

l’Unità 28.4.09
Medici sotto controllo
Una professione fuorilegge?
L’arroganza della politica è una brutta malattia
Con queste norme diventiamo dei microcriminali
Forum all’Unità sulle norme che limitano e controllano il mestiere del medico. Intervengono Ignazio Marino Antonio Guglielmino Maurizio Marceca
e Adriana Turriziani


I rapporti tra una politica considerata troppo invasiva e i temi etici resi cruciali dalla velocità del progresso scientifico. Le difficoltà della professione sanitaria oggi in una società multirazziale, piena di paure, che una parte della politica cavalca per imporre nuove figure. Come il medico-spia, obbligato a denunciare i clandestini, o addirittura il “medico- assassino”, colui che, varato il ddl Calabrò, deciderà di staccare il sondino a un malato terminale. La scarsità, la disomogeneità territoriale e l’assenza di fondi per gli hospice in un Paese come l’Italia che pure punta a protrarre artificialmente la vita finché possibile.
All’Unità ne abbiamo discusso con Ignazio Marino, senatore del Pd e chirurgo; Antonino Guglielmino, ginecologo esperto in riproduzione assistita; Adriana Turriziani, radioterapista oncologa ed esponente della Società Cure Palliative; Maurizio Marceca, medico epidemiologo e della Sanità pubblica.
L’analisi di quattro tematiche - il biotestamento, la Legge 40, l’obbligo di denuncia dei clandestini per i medici, lo stato delle cure palliative - evidenzia un rapporto difficile tra politica e medicina. È davvero così?
Marino: «Esiste, ma non è un problema solo italiano. È oggettivo, legato allo sviluppo della scienza più rapido che nei secoli passati. Abbiamo impiegato centinaia di anni per definire la morte come cessazione del respiro, altri secoli per stabilire che invece è lo stop del battito cardiaco. Adesso si è morti con la cessazione irreversibile delle attività cerebrali. Ma è un dato molto recente, acquisito nel 1968. Il punto è che l’articolo 32 della Costituzione, che vieta trattamenti sanitari obbligatori, è stato scritto nel 1947 quando per il legislatore era scontato che le persone potessero a voce accettare o rifiutare una terapia. Basta considerare che il primo respiratore artificiale è arrivato solo nel ‘52 e i primi esperimenti sulla nutrizione artificiale sono degli anni ‘60. La velocità del progresso scientifico è superiore a quella di adeguamento del Parlamento e, forse, della società».
Marceca: «Il tema dell’immigrazione è importante perché diventa cartina tornasole di come il sistema sanitario reagisce ai mutamenti sociali e si configura in grado di reagire ai bisogni diffusi. L’approccio della politica è enfatico, allarmistico, parcellizzato. Per i cittadini è difficile agire sul processo decisionale influenzato dalle lobby. Ancor più lo è per la comunità di immigrati, che in realtà ne comprende diverse centinaia. A mio avviso la politica guarda alla salute come a uno spazio di potere, un mercato. I temi nascono dal nulla e scompaiono nel nulla. Adesso c’è l’allarme per la febbre suina che durerà qualche giorno, mentre dimentichiamo la scarsità di organi per i trapianti, la carenza di emoderivati, l’assistenza domiciliare negata da molte regioni. Da epidemiologo mi preoccupo di comunicare i problemi della salute secondo il loro peso specifico.
L’Italia nel modo in cui affronta questi temi può essere considerata un’anomalia?
Marino: «Certi Paesi come l’Italia sono più lenti. Negli Usa il testamento biologico è stato affrontato in tempi diversi. La California ha scritto la prima normativa nel 1976, un terzo di secolo fa. Da noi non è così. Uno strumento come il respiratore artificiale è positivo perché può consentire a chi ha un trauma cranico di essere operato e tornare alla vita di prima. A volte però il paziente finisce in un limbo senza possibilità di recupero e la legge non sa come intervenire. I medici lo saprebbero ma non possono perché un magistrato sarebbe obbligato a indagarli per omicidio volontario.
Guglielmino: «In questi ultimi anni le bio-tecnologie hanno fatto enormi passi in avanti, velocemente: in Italia l’approccio che la politica ha nei confronti delle tematiche legate al progresso scientifico è di grande invadenza. Il nostro paese è arrivato al dibattito - che prima era relegato alla sfera privata degli individui e che ora ha assunto contorni di carattere pubblico - in modo non adeguato. Non è un caso che in questi ultimi anni il tema della laicità dello Stato - che non è certo di oggi - sia tornato di attualità. Il punto è che non c’è un approccio laico».
Qual è il paese che da questo punto di vista è più attento quando si tratta di legiferare sui temi di inizio e fine vita?
Marceca : «È un paradosso che si debba guardare ad altri paesi. Alla fine degli anni Novanta è stata proprio l’Italia, con la legge Turco-Napolitano sull’immigrazione, ad essere un punto di riferimento per gli altri, equiparando gli stranieri residenti nel nostro Paese agli italiani.
Turriziani: «L’Inghilterra e gli Stati Uniti hanno avuto una grande intuizione: investire nella formazione. Qui da noi ancora oggi tutto il personale impiegato negli hospice ha come unica formazione quella che deriva dal proprio curriculum personale. Non esistono corsi ad hoc e non c’è una distribuzione uniforme su tutto il territorio rendendo così effettiva una diseguaglianza».
Marino: «Basta un esempio. Gli hospice sono 120: 103 sono al Nord, 17 al Sud. In Lombardia ce ne sono 50, in Sicilia, con una popolazione di 5 milioni di persone, ce ne sono 5. Il diritto alla salute sancito dalla Costituzione è evidentemente violato».
Come deve orientarsi il legislatore quando scrive una legge sui temi cosiddetti “eticamente sensibili”?
Guglielmino: «Sulla legge 40 come sul testamento biologico la politica dovrebbe avere un approccio “leggero”, dettare linee generali, non scrivere leggi ideologiche. Il testo sulla fecondazione assistita, che prevede l’obbligo di trattamento sanitario, è stata dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale. È evidente che il punto di partenza era sbagliato.
Marino: «Credo sia giusto emanare leggi con poche norme chiare, ma dobbiamo tener presente che oggi, mentre parliamo, i reparti di terapia intensiva dei nostri ospedali sono pieni di pazienti non spiù in grado di decidere se continuare o meno le terapie. E già in questo momento un medico che decide di staccare il respiratore o interrompere l’alimentazione e l’idratazione artificiale ad un paziente in fin di vita, con metastasi diffuse in tutto il corpo, sedato per non farlo soffrire troppo, infrange la legge. Invece la legge dovrebbe dare la possibilità ad ognuno di noi di decidere cosa fare della propria vita in casi simili. Una normativa giusta deve permettere a chiunque quando è nel pieno delle proprie facoltà intellettive di potersi esprimere sul fine vita avendo la certezza che le sue volontà saranno rispettate».
Spesso si dice “fare all’italiana”: vale a dire interrompere l’alimentazione artificiale senza pubblicizzarlo. Quello che, in sostanza, è stato rimproverato al padre di Eluana Englaro: “perché non se l’è portata a casa invece di creare questo putiferio?”. Succede così anche negli hospice? Si fa ma non si dice?
Turriziani: «Bisogna capire che chi arriva negli hospice è un paziente la cui evoluzione della malattia non possiamo contrastare. La morte arriverà: si tratta di mettere in campo un team in grado di attuare le scelte condivise tra medico e famiglia. La nutrizione viene adeguata e graduata rispetto al decorso della malattia. L’idratazione non viene sospesa anche per veicolare i farmaci. Il problema per noi è che la politica non ci offre luoghi di formazione: non esiste un esame universitario per le cure palliative, non ci sono infermieri specializzati».
È corretto dire che la desistenza terapeutica configura omicidio volontario?
Marino: «Il punto è che bisognerebbe avere un Parlamento che lavora in parallelo con il progresso della scienza. Il vero salto è stato quando con le tecnologie si è potuta protrarre l’esistenza in modo artificiale. Sospendere le terapie non è uccidere ma lasciare che il processo di morte naturale riprenda il suo corso. Sono decisioni da assumere in una vera alleanza con il paziente e, se non può esprimersi, con la famiglia. Non si può procedere come accade oggi nell’illegalità o facendo, appunto, le cose all’italiana».
Turriziani: «Per noi una cartella clinica ben redatta è uno strumento di bordo. Ed è multidisciplinare. Io ci scrivo tutto quello che è utile per quel paziente».
Marino: «Se il disegno di legge Calabrò verrà approvato, però, o la desistenza terapeutica non viene scritta in cartella o si verrà indagati per omicidio. Non colposo, volontario: come se si sparasse in testa a un cittadino».
Guglielmino: «La vera stranezza del ddl Calabrò è che né il medico né il paziente potranno più intervenire su alcune aree. C’è un aspetto che va chiarito: nutrizione e idratazione artificiali sono terapie o no? Se lo sono non si possono somministrare contro la volontà del destinatario perché si viola la Costituzione. E a mio avviso lo sono: non si può pensare che un buco nello stomaco, praticato da un chirurgo per inserire un sondino, necessario per sopravvivere, non sia una forma di cura».
Arriviamo ai medici “spia”: non c’è una contraddizione tra la paura di non riuscire a individuare malattie contagiose e, dall’altra parte, una norma che spinge alla clandestinità sanitaria?
Marceca: «La norma che impone la denuncia dei clandestini mostra come si mette in discussione il ruolo degli operatori della salute. Ai medici si chiede di denunciare persone che, dall’oggi al domani, diventano criminali. È assurdo creare dei “clandestini sanitari”. Solo l’effetto annuncio ha già prodotto ansia, paura, allontanamento dai servizi. Nessuno dice che in 13 anni questo sistema ha funzionato benissimo, e neppure la Bossi-Fini ha toccato norme che rispondono a esigenze di sanità pubblica. Anche se mi preoccupa l’approccio “dagli all’untore”. Le malattie non conoscono confini: riguardano la mobilità umana, non degli immigrati. Ricordo le sofferenze della comunità cinese ai tempi dell’aviaria: la nazionalità diventava elemento di discriminazione per persone che non tornavano in Oriente da anni. Temo che l’enfasi mediatica non aiuti il ragionamento bensì lo complichi».
È in Parlamento la legge sulle cure palliative e la regolamentazione degli hospice a livello nazionale. C’è un’attenzione reale della politica in un paese dove l’obiettivo sembra essere l’allungamento della vita ad ogni costo?
Turriziani: «Sarebbe auspicabile ascoltare chi ogni giorno piega la schiena sui pazienti. L’hospice non deve essere ultimo a livello di preparazione e formazione. Seguire malati terminali richiede grande competenza. Ed è enorme il significato sociale di queste strutture che assistono intere famiglie. Si va a morire, è vero, ma si vive fino alla fine. Bisogna promuovere un clima positivo, sostenerli culturalmente, evitare che diventino solo dei letti. Mi auguro che il lavoro svolto in questi anni negli hospice attraverso l’ascolto dei pazienti e dei familiari, venga tenuto nella debita considerazione dal legislatore che dovrà scrivere delle norme al riguardo».
Marino: «La competenza è cruciale. È stato un errore smembrare in due tronconi gli hospice e il biotestamento che per formazione e ricerca dovrebbero stare insieme. Poi, la Commissione Sanità non ha neppure audito gli oncologi».
La politica riuscirà a dialogare e trovare un punto di sintesi che rappresenti la società civile sul testamento biologico? E il Partito Democratico raggiungerà infine una posizione chiara sui temi etici?».
Marino: «Credo che serva un passo indietro rispetto all’arroganza attuale con cui si affrontano questi temi. Quanto al Pd: se non riesce a risolvere queste questioni con spirito maggioritario, discutendo al suo interno e votando sulla posizione da prendere, non avrà speranze. Scomparirà, fallirà: non può non dare risposte sui temi che scuotono le coscienze. Purtroppo oggi c’è una classe dirigente che fa riferimento ai due maggiori partiti che c’erano prima, che ragiona per quote e sta sempre a contarsi. Delle due l’una: o tutti costoro verranno spazzati via e si formerà un partito riformista, moderno, oppure sarà il Pd stesso ad essere spazzato via».
In Senato, durante il dibattito sul testamento biologico, il Pdl ha applaudito Marcello Pera, intervenuto contro la legge. Poi, però, ha votato compatto per il sì, malgrado dai sondaggi risulti che l’opinione pubblica vuole un testamento biologico vincolante. Perché la politica pensa di non dover rispondere di ciò che fa?
Marino: «Questo è il problema centrale: ormai si viene eletti per indicazione del leader e non per le proprie convinzioni. Il 25 febbraio del 2009 la Commissione Giustizia del Senato ha inviato un parere alla Commissione Sanità in cui affermava che il testamento biologico deve essere giuridicamente vincolante. La Commissione Sanità ha dovuto prenderne atto, ma in aula è cambiato tutto. Gli stessi membri della Commissione hanno votato contro il valore vincolante del testamento. Di fatto non hanno espresso un convincimento personale ma hanno risposto ad un ordine di partito. Siamo di fronte alla corruzione della politica, messa sotto ricatto da chi decide le candidature dei singoli».
Alla luce di queste nuove leggi, la professione del medico sta diventando un mestiere pericoloso nel nostro Paese? Sta nascendo la figura del “medico disobbediente”?
Marceca: «Il nostro è da sempre un mestiere complesso, ma nel caso della denuncia degli immigrati si sono scatenati degli anticorpi che sembravano sopiti. La Federazione degli Ordini dei medici, gli psicologi e gli infermieri hanno reagito compatti per far cambiare una norma che va contro tutti i nostri principi deontologici. Credo sia necessario, però, che si crei una forte alleanza tra medico e società e che i medici ricomincino a rendere conto di quello che fanno in modo trasparente perché ormai la sanità sembra preda di una deriva economicistica».
Guglielmino: «Quella del medico disobbediente è una posizione scomoda. I medici non possono essere costretti a compiere ogni giorno atti di “microcriminalità” perché la legge impedisce loro di fare il proprio mestiere secondo scienza e coscienza. È fondamentale alleggerire le norme garantendo la possibilità di fare questo mestiere senza essere costretti a scegliere tra il codice deontologico e la legge dello Stato».
Marino: «Credo sia giusto emanare leggi con poche norme chiare, ma dobbiamo tener presente che oggi, mentre parliamo, i reparti di terapia intensiva dei nostri ospedali sono pieni di pazienti non spiù in grado di decidere se continuare o meno le terapie. E già in questo momento un medico che decide di staccare il respiratore o interrompere l’alimentazione e l’idratazione artificiale ad un paziente in fin di vita, con metastasi diffuse in tutto il corpo, sedato per non farlo soffrire troppo, infrange la legge. Invece la legge dovrebbe dare la possibilità ad ognuno di noi di decidere cosa fare della propria vita in casi simili. Una normativa giusta deve permettere a chiunque quando è nel pieno delle proprie facoltà intellettive di potersi esprimere sul fine vita avendo la certezza che le sue volontà saranno rispettate».
Spesso si dice “fare all’italiana”: vale a dire interrompere l’alimentazione artificiale senza pubblicizzarlo. Quello che, in sostanza, è stato rimproverato al padre di Eluana Englaro: “perché non se l’è portata a casa invece di creare questo putiferio?”. Succede così anche negli hospice? Si fa ma non si dice?
Turriziani: «Bisogna capire che chi arriva negli hospice è un paziente la cui evoluzione della malattia non possiamo contrastare. La morte arriverà: si tratta di mettere in campo un team in grado di attuare le scelte condivise tra medico e famiglia. La nutrizione viene adeguata e graduata rispetto al decorso della malattia. L’idratazione non viene sospesa anche per veicolare i farmaci. Il problema per noi è che la politica non ci offre luoghi di formazione: non esiste un esame universitario per le cure palliative, non ci sono infermieri specializzati».
È corretto dire che la desistenza terapeutica configura omicidio volontario?
Marino: «Il punto è che bisognerebbe avere un Parlamento che lavora in parallelo con il progresso della scienza. Il vero salto è stato quando con le tecnologie si è potuta protrarre l’esistenza in modo artificiale. Sospendere le terapie non è uccidere ma lasciare che il processo di morte naturale riprenda il suo corso. Sono decisioni da assumere in una vera alleanza con il paziente e, se non può esprimersi, con la famiglia. Non si può procedere come accade oggi nell’illegalità o facendo, appunto, le cose all’italiana».
Turriziani: «Per noi una cartella clinica ben redatta è uno strumento di bordo. Ed è multidisciplinare. Io ci scrivo tutto quello che è utile per quel paziente».
Marino: «Se il disegno di legge Calabrò verrà approvato, però, o la desistenza terapeutica non viene scritta in cartella o si verrà indagati per omicidio. Non colposo, volontario: come se si sparasse in testa a un cittadino».
Guglielmino: «La vera stranezza del ddl Calabrò è che né il medico né il paziente potranno più intervenire su alcune aree. C’è un aspetto che va chiarito: nutrizione e idratazione artificiali sono terapie o no? Se lo sono non si possono somministrare contro la volontà del destinatario perché si viola la Costituzione. E a mio avviso lo sono: non si può pensare che un buco nello stomaco, praticato da un chirurgo per inserire un sondino, necessario per sopravvivere, non sia una forma di cura».
Arriviamo ai medici “spia”: non c’è una contraddizione tra la paura di non riuscire a individuare malattie contagiose e, dall’altra parte, una norma che spinge alla clandestinità sanitaria?
Marceca: «La norma che impone la denuncia dei clandestini mostra come si mette in discussione il ruolo degli operatori della salute. Ai medici si chiede di denunciare persone che, dall’oggi al domani, diventano criminali. È assurdo creare dei “clandestini sanitari”. Solo l’effetto annuncio ha già prodotto ansia, paura, allontanamento dai servizi. Nessuno dice che in 13 anni questo sistema ha funzionato benissimo, e neppure la Bossi-Fini ha toccato norme che rispondono a esigenze di sanità pubblica. Anche se mi preoccupa l’approccio “dagli all’untore”. Le malattie non conoscono confini: riguardano la mobilità umana, non degli immigrati. Ricordo le sofferenze della comunità cinese ai tempi dell’aviaria: la nazionalità diventava elemento di discriminazione per persone che non tornavano in Oriente da anni. Temo che l’enfasi mediatica non aiuti il ragionamento bensì lo complichi».
È in Parlamento la legge sulle cure palliative e la regolamentazione degli hospice a livello nazionale. C’è un’attenzione reale della politica in un paese dove l’obiettivo sembra essere l’allungamento della vita ad ogni costo?
Turriziani: «Sarebbe auspicabile ascoltare chi ogni giorno piega la schiena sui pazienti. L’hospice non deve essere ultimo a livello di preparazione e formazione. Seguire malati terminali richiede grande competenza. Ed è enorme il significato sociale di queste strutture che assistono intere famiglie. Si va a morire, è vero, ma si vive fino alla fine. Bisogna promuovere un clima positivo, sostenerli culturalmente, evitare che diventino solo dei letti. Mi auguro che il lavoro svolto in questi anni negli hospice attraverso l’ascolto dei pazienti e dei familiari, venga tenuto nella debita considerazione dal legislatore che dovrà scrivere delle norme al riguardo».
Marino: «La competenza è cruciale. È stato un errore smembrare in due tronconi gli hospice e il biotestamento che per formazione e ricerca dovrebbero stare insieme. Poi, la Commissione Sanità non ha neppure audito gli oncologi».
La politica riuscirà a dialogare e trovare un punto di sintesi che rappresenti la società civile sul testamento biologico? E il Partito Democratico raggiungerà infine una posizione chiara sui temi etici?».
Marino: «Credo che serva un passo indietro rispetto all’arroganza attuale con cui si affrontano questi temi. Quanto al Pd: se non riesce a risolvere queste questioni con spirito maggioritario, discutendo al suo interno e votando sulla posizione da prendere, non avrà speranze. Scomparirà, fallirà: non può non dare risposte sui temi che scuotono le coscienze. Purtroppo oggi c’è una classe dirigente che fa riferimento ai due maggiori partiti che c’erano prima, che ragiona per quote e sta sempre a contarsi. Delle due l’una: o tutti costoro verranno spazzati via e si formerà un partito riformista, moderno, oppure sarà il Pd stesso ad essere spazzato via».
In Senato, durante il dibattito sul testamento biologico, il Pdl ha applaudito Marcello Pera, intervenuto contro la legge. Poi, però, ha votato compatto per il sì, malgrado dai sondaggi risulti che l’opinione pubblica vuole un testamento biologico vincolante. Perché la politica pensa di non dover rispondere di ciò che fa?
Marino: «Questo è il problema centrale: ormai si viene eletti per indicazione del leader e non per le proprie convinzioni. Il 25 febbraio del 2009 la Commissione Giustizia del Senato ha inviato un parere alla Commissione Sanità in cui affermava che il testamento biologico deve essere giuridicamente vincolante. La Commissione Sanità ha dovuto prenderne atto, ma in aula è cambiato tutto. Gli stessi membri della Commissione hanno votato contro il valore vincolante del testamento. Di fatto non hanno espresso un convincimento personale ma hanno risposto ad un ordine di partito. Siamo di fronte alla corruzione della politica, messa sotto ricatto da chi decide le candidature dei singoli».
Alla luce di queste nuove leggi, la professione del medico sta diventando un mestiere pericoloso nel nostro Paese? Sta nascendo la figura del “medico disobbediente”?
Marceca: «Il nostro è da sempre un mestiere complesso, ma nel caso della denuncia degli immigrati si sono scatenati degli anticorpi che sembravano sopiti. La Federazione degli Ordini dei medici, gli psicologi e gli infermieri hanno reagito compatti per far cambiare una norma che va contro tutti i nostri principi deontologici. Credo sia necessario, però, che si crei una forte alleanza tra medico e società e che i medici ricomincino a rendere conto di quello che fanno in modo trasparente perché ormai la sanità sembra preda di una deriva economicistica».
Guglielmino: «Quella del medico disobbediente è una posizione scomoda. I medici non possono essere costretti a compiere ogni giorno atti di “microcriminalità” perché la legge impedisce loro di fare il proprio mestiere secondo scienza e coscienza. È fondamentale alleggerire le norme garantendo la possibilità di fare questo mestiere senza essere costretti a scegliere tra il codice deontologico e la legge dello Stato».

Due novità sul fronte della Legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita. Una è contenuta nelle linee guida emanate dall’ex ministro della Salute Livia Turco nel 2008, che rispetto alle precedenti del luglio 2004, prevedono sia la possibilità di effettuare la diagnosi preimpianto dell’embrione prima vietata, sia la possibilità di ricorrere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (Pma) anche per le coppie in cui l’uomo sia portatore di malattie virali sessualmente trasmissibili, in particolare virus HIV ed Epatiti B e C, riconoscendo che tali condizioni sono assimilabili ai casi di infertilità. L’altra grande novità è la sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato parzialmente illegittima la Legge 40, soprattutto per quanto riguarda l’obbligo di limitare a tre il numero di embrioni e di impiantarli tutti in utero.

Dopo il caso Englaro, la maggioranza di centrodestra ha approvato al Senato e passato alla Camera una legge sulle «dichiarazioni anticipate di trattamento» in cui, partendo dal presupposto della indisponibilità della vita, sostiene che nessuno può morire di fame e di sete e, dunque, obbliga il medico ad alimentare e a idratare anche artificialmente (tramite l’impianto di un sondino) un paziente non più in grado di esprimere la propria volontà. Il testo approvato viene considerato da molti bioeticisti e dal centrosinistra quasi al completo un vero e proprio tradimento dell’idea stessa di “testamento biologico”: viene sottratta al paziente la possibilità di rifiutare un trattamento sanitario, un diritto riconosciuto dalla legge italiana e dalle convenzioni internazionali sui diritti dell’uomo. La destra sostiene che alla Camera il testo sarà rivisto.

La Lega ne aveva fatto una bandiera della propria azione politica. Il ministro degli Interni, Maroni, lo aveva inserito come punto qualificante del Decreto sicurezza: l’immigrazione clandestina è un reato e i medici avrebbero dovuto denunciare gli immigrati non in regola che si fossero presentati in ospedale a chiedere di essere curati. I medici sono insorti. E hanno scritto una bella pagina di civiltà. Non vogliamo e non possiamo fare i delatori, hanno detto. Ce lo impedisce il nostro codice deontologico. E anche il normale buon senso. Se i clandestini, per timore di subire guai giudiziari, non si fanno curare, mettono a repentaglio la propria salute e quella dell'intera comunità nazionale. Maroni ha ritirato il decreto. Secondo la Cgil l’annuncio della misura ha comunque provocato un effetto: gli immigrati che hanno richiesto cure sono calati del 10-20%.

I medici e la rianimazione
Il Senato approva una legge in cui nessuno può interrompere l’alimentazione e l’idratazione artificiale di pazienti in stato vegetativo permamente (come Eluana Englaro). Più o meno nello stesso periodo una ricerca dell’Istituto Mario Negri di Milano rivela che il 62% dei decessi nelle rianimazioni italiane sono dovuti a “desistenza terapeutica”, un intervento attivo del medico che, insieme ai parenti o, in alcuni casi, autonomamente, decide di sospendere ogni cura perchè questa non potrebbe cambiare in alcun modo l’esito naturale della malattia. Una legge dice una cosa, la realtà ne racconta un’altra. Da una parte si impone di insistere, dall’altra si sceglie di “desistere”.

il Riformista 28.4.09
«Biotestamento, la legge entro l'estate»
Il Governo riprende iniziativa sul fine-vita
di Alessandro Calvi


CENTRODESTRA. Quagliariello, Mantovano e Gasparri rivendicano insieme la "laicità" del ddl Calabrò e i valori cattolici che lo hanno ispirato. Attacchi all'opposizione e ottimismo sui tempi parlamentari.

Si farà entro l'estate la legge sul testamento biologico. Questo, almeno, prevede Eugenia Roccella perché, come è ovvio, nei desideri del governo non ci sono rallentamenti in vista, come invece in molti ritenevano inevitabile con l'arrivo del fine-vita alla Camera che, ed è anche questa una idea alquanto diffusa, potrebbe rimettere mano al testo approvato di recente dal Senato.
È ottimista la sottosegretaria al welfare. Come al Senato, però, anche alla Camera quel testo rischia di incontrare qualche ostacolo, se non altro perché la situazione nella maggioranza è diversa nei due rami del Parlamento e perché, almeno sino ad ora, manca qualcosa che rappresenti - come fu il caso di Eluana Englaro - una spinta per arrivare al traguardo. Così, ieri, un convegno organizzato dai Cristiano Riformisti di Antonio Mazzocchi, è stata l'occasione per una sorta di pride cattolico, con una rivendicazione di valori cattolici e di capacità di legiferazione laica che è andata di pari passo con un attacco al laicismo del quale sono stati accusati gli avversari. E tutto più con l'occhio alle dinamiche interne al centrodestra che alla opposizione. D'altra parte, il parterre riunito da Mazzocchi era di prim'ordine: Gaetano Quagliariello, Maurizio Gasparri, Alfredo Mantovano e, appunto, Eugenia Roccella, protagonisti sinora del dibattito nel Pdl, pur se da posizioni diverse.
Dunque, «entro l'estate dovremmo arrivare a una legge», ha detto la Roccella, annunciando che il testo sarà incardinato entro la metà di maggio. «Si stanno semplicemente seguendo i tempi della Camera - ha aggiunto - e non era certo possibile incardinare il provvedimento prima». D'altra parte, ha spiegato ancora la Roccella, sono questi «i tempi del Parlamento» e, «se non si fa una legge, la fa qualcun altro, cioè la magistratura, come si è visto nel caso Eluana». Per questo, ha concluso, «è un dovere del Parlamento riappropriarsi del potere legislativo al posto di una magistratura che tende a tracimare».
Di sentenza «eversiva», a proposito di quella della Cassazione sul caso Englaro, ha parlato Quagliariello, rivendicando da cima a fondo il lavoro del Senato e dicendosi convinto che la Camera saprà rispettare il lavoro di un «libero legislatore» che «ha deciso secondo coscienza». Anche Gasparri ha battuto su questo tasto nel corso di un intervento piuttosto accorato durante il quale non è mancato un attacco al Secolo d'Italia e un forte riferimento all'Osservatore Romano. «La presenza della Chiesa incide. Ma noi non siamo strumento passivo di una volontà clericale», ha detto per rivendicare la laicità dell'operato del Senato. Quindi, ha avvertito che, seppure «la Camera discuterà liberamente» sul testamento biologico, «i principi non si possono stravolgere». «Noi - ha concluso - non vogliamo imporre niente a nessuno ma non dobbiamo vergognarci: possiamo anche perdere ma non tradiremo ciò in cui crediamo». A quel punto, anche Mazzocchi ha allentato le briglie, lasciandosi andare a un esplicito richiamo rivolto ai suoi: «Ci troviamo di fronte a una società sempre più laica» nella quale se non si è d'accordo con i laici si è considerati «integralisti». Ma «noi - ha concluso - siamo la maggioranza. Purtroppo, una maggioranza timida».
Infine, è stata la volta di Mantovano che a tratti è stato particolarmente ruvido con gli avversari, definiti «giacobini» che «costruiscono, attraverso capziose interpretazioni della Costituzione, tali e tanti limiti» da azzerare la volontà del popolo, fino ad esclamare - in risposta alle accuse di integralismo piovutegli addosso - che: «No, non sono integralista, sono reazionario». Poi, guardando al lavoro che ci sarà da fare alla Camera sul fine-vita, ha concluso: «La nostra è una battaglia laica di civiltà che non ha bisogno di nessuna confessione religiosa di riferimento». Avvertendo, però, che «la legge uscita dal Senato si può migliorare, certamente, ma non peggiorare».
Se le premesse sono le stesse che hanno accompagnato la conclusione del dibattito in Senato, si tratta ora di capire sino a dove si può spingere quel «migliorare» invocato da Mantovano o se, come chiede Gasparri, i principi non si debbano «stravolgere». Certo, nessuno ieri sembrava convinto che quella uscita dal Senato fosse una legge da stato etico. E a dirlo fu Gianfranco Fini.

l’Unità 28.4.09
L’estate del ’44
Un’alleanza coi socialisti l’ultima mossa disperata dei repubblichini di Salò
di Aldo Giannuli


Una rivolta pilotata. I consigli operai avrebbero dovuto proclamare la «nuova repubblica». Poi, dopo un ammutinamento, le forze armate avrebbero aderito. Ma l’arresto del leader dei «consigli» bloccò tutto. Mussolini ne chiese invano la liberazione.

Doppi giochi. Gli emissari del Cln finsero di aderire e ottennero la liquidazione della banda Koch

Il piano dei gerarchi. La trappola per gli Alleati: una repubblica «antifascista» al Nord la monarchia al Sud

Nell’estate 1944, alcuni gerarchi di Salò (il ministro Pisenti, Franco Colombo, capo della «Ettore Muti», il capo della polizia Renzo Montagna, Junio Valerio Borghese ed altri) iniziarono a cercare una via d’uscita con l’«operazione ponte»: spaccare il Comitato di liberazione nazionale, trattare una tregua con socialisti ed azionisti con i quali dare vita ad un governo di «unità nazionale». Più tardi si arrivò ad ipotizzare una nuova Repubblica socialista, neutrale. Questo avrebbe posto gli Alleati di fronte alla scelta di usare le armi contro una repubblica governata da partiti antifascisti o invitare i due governi (repubblica del nord e monarchia del sud) a trovare una mediazione. Ed avrebbe messo il Pci in una situazione assai imbarazzante: appoggiare il governo monarchico contro una repubblica socialista o rischiare di compromettere l’ intesa con gli inglesi. Nella situazione di stallo fra due governi antifascisti, avrebbe avuto qualche possibilità di sopravvivenza anche al progetto del «ridotto alpino» della Valtellina, tanto più che Mussolini si illudeva di giungere ad una pace separata con i sovietici.
In questa ottica, il duce autorizzava la costituzione del Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista, guidato da Edmondo Cione e da Carlo Silvestri (già spia dell’Ovra).
L’offerta di collaborazione, avanzata dal questore di Milano Bettini e dal generale Nunzio Luna (della Guardia Nazionale Repubblicana) trovò disponibile Corrado Bonfantini, capo delle Brigate Matteotti (Psi) e i suoi vice, l’ex comunista Gabriele Vigorelli e l’anarchico Germinale Concordia. Ma Riccardo Lombardi per il Partito d’Azione e Sandro Pertini e Lelio Basso per il Psi avrebbero respinto l’offerta.
In realtà, Bonfantini ed i suoi non credevano affatto nel progetto, ma cercavano di ricavarne il massimo vantaggio. Infatti, essi chiesero - ed ottennero - la liquidazione della famigerata «banda Koch», con la liberazione di parte dei loro prigionieri. Ed è probabile che si ripromettessero anche di migliorare i propri rapporti di forza rispetto alle altre componenti del Cln. Infatti, grazie a Luna, iniziarono una massiccia infiltrazione nella Gnr e nella X Mas, quel che gli consentirà, negli ultimi giorni, di occupare punti nevralgici come radio Milano. Prudenzialmente, in dicembre Bonfantini dichiarò di ritirarsi dall’operazione, una volta constatato che non se ne poteva ricavare altro.
Gli storici (con l’eccezione di Cesare Bermani) hanno dedicato poco spazio a questo piano, rilevandone il carattere disperato e sottolineando come l’indisponibilità di Pertini e Basso lo avesse fatto fallire sul nascere. Documenti recentemente emersi ci descrivono una vicenda più complessa, che merita una maggiore attenzione, anche se resta fermo che il piano non aveva concrete possibilità di riuscita.
L’8 marzo 1945, la fonte C.O.M.O. riferiva al Servizio di Informazioni Militari del sud che, negli ultimi giorni di febbraio si erano riuniti il capo della Gnr, un rappresentate del Comando regionale dell’Esercito, uno del prefetto ed il capo ufficio stampa della «Muti» Gastone Gorrieri. Dall’incontro era scaturito un piano per il quale, nelle settimane successive, si sarebbe riunita una assemblea di consigli operai che avrebbe proclamato la repubblica socialista. Gran parte delle Forze armate si sarebbe ammutinata, schierandosi con la nuova repubblica, nel cui governo si sperava di attirare socialisti ed azionisti.
Ma complicare le cose era giunto l’arresto di Germinale Concordia, organizzatore della lega dei consigli operai che avrebbe dovuto proclamare la repubblica (nota 4 aprile). Mussolini avrebbe chiesto al generale Wolff la sua liberazione, ma senza successo. Dunque, il tentativo era proseguito ben oltre dicembre, si era ulteriormente evoluto ipotizzando addirittura un governo dei consigli operai e prevedeva l’appoggio di una parte molto consistente delle Forze Armate della Rsi.
Il 7 febbraio 1946, un reparto della polizia ausiliaria (composto da partigiani) traeva in arresto il generale Nunzio Luna che viveva, sotto falsa identità, in una casa di Milano (rapporto del 9 febbraio 1946 del servizio speciale del ministero dell’Interno); nulla di strano se la padrona di casa non fosse stata Carla Voltolina, futura moglie di Sandro Pertini e se lo stesso Luna non avesse dichiarato che Pertini era perfettamente a conoscenza della sua vera identità e che lo aveva nascosto per ringraziarlo dei servigi resi durante la guerra di Liberazione. Nell’abitazione di Luna vennero trovati anche documenti sulla situazione interna al Partito Socialista ed un mazzetto di assegni firmati da Bonfantini. Nonostante il generale fosse sospettato di essere finanziatore dei gruppi fascisti clandestini, l’inchiesta venne rapidamente avocata dal questore, che prendeva provvedimenti contro il tenente della polizia ausiliaria che aveva operato l’arresto. Il nome di Luna non comparirà fra gli imputati al processo contro le Squadre d’Azione Mussolini svoltosi poco dopo a Venezia. Nelle carte del Pci milanese compare un appunto su Bonfantini nel quale si richiama l’affaire Luna, sottolineando come esso «venne passato sott’acqua per non mettere in cattiva luce i socialisti».
Un episodio sin qui sconosciuto: è plausibile che le esigenze della lotta clandestina abbiano imposto molti di questi negoziati sotto banco, anche in nome di ragioni in sé nobili, ma tutto questo diventava difficile da raccontare dopo la Liberazione, quando ognuno di essi sarebbe potuto apparire come un cedimento morale. E, probabilmente, fu questo ad obbligare Pertini - sulla cui dirittura morale e sui cui antifascismo non ci sono dubbi - a quella difficile operazione per salvare l’immagine del partito.
I documenti non ci permettono di far piena luce sulla vicenda e sulle reali motivazioni con cui si mossero i suoi singoli attori, ma sono sufficienti a farci capire che è una pagina di storia ancora da scrivere.

Pertini, Lelio Basso e Lombardi tre padri della democrazia
Sandro Pertini diventerà presidente della Repubblica, Junio Valerio Borghese legherà il suo nome a un tentativo di colpo di Stato. Molti dei protagonisti delle convulse giornate raccontate nell’articolo di Aldo Giannuli lasceranno una traccia importante nella storia della Repubblica. Vediamo in breve i percorsi politici nel dopoguerra.
SANDRO PERTINI (1896-1990). Deputato alla Costituente, quindi senatore nella prima legislatura e deputato in quelle successive, sempre rieletto dal 1953 al 1976. Dopo essere stato eletto per due volte consecutive presidente della Camera, divenne capo dello Stato l’8 luglio del 1978.
RICCARDO LOMBARDI (1901-1984). Deputato alla Costituente e sempre eletto alla Camera, è stato il leader della sinistra socialista. A lui si deve la formula «riforme di struttura» la cui mancata attuazione fu, nell’analisi lombardiana, la ragione del fallimento del primo centrosinistra.
LELIO BASSO (1903-1978). Deputato alla Costituente. Esponente della sinistra socialista, si oppose all primo governo di centro-sinistra e fondò il Psiup. Ma il suo prestigio, in campo internazionale, è legato all’impegno per la difesa dei diritti umani. Fece parte del «Tribunale Russel» e promosse la nascita della «Fondazione Internazionale e la Lega Internazionale per i Diritti e la Liberazione dei Popoli» che oggi prosegue la sua attività con la Fondazione che porta il suo nome.

Corriere della Sera 28.4.09
Centenari. Una conferenza-spettacolo riporta alla ribalta il padre della fisiognomica, una celebrità dell’800
Lombroso, catalogo di assurdità
di Gian Antonio Stella


Non c’è opera lombrosiana in cui non sia possibile trovare, a voler essere maliziosi, spunti di comicità.
A partire da certi titoli: «La ruga del cretino e l’anomalia del cuoio capelluto», «Sulla cortezza dell’alluce negli epilettici e negli idioti».
Illusioni, pasticci e paradossi dello scienziato che aprì le porte al razzismo

Cosa c’entrano i cammelli coi camalli? Niente, si dirà. Eppu­re, partendo anche dall’asso­nanza dei nomi, che verrebbe­ro dall’arabo hamal, Cesare Lombroso si spinse nel 1891 a teorizzare che tra gli animali e gli scaricatori di porto ci fos­se una sorta di parentela dovuta alla gibbosità. Al punto che, con Filippo Cougnet, firmò un saggio dal titolo irre­sistibile: Studi sui segni professionali dei facchini e sui lipomi delle Ottentot­te, cammelli e zebù.
La folgorante idea, scrive Luigi Guar­nieri nel suo irridente L’atlante crimi­nale. Vita scriteriata di Cesare Lombro­so (Bur), gli viene «esaminando un pa­ziente, di professione brentatore, il qua­le ha sulle spalle, nel punto in cui ap­poggia il carico, una specie di cuscinet­to adiposo. Vuoi vedere, almanacca prontamente Lombroso, che la gobba dei cammelli e dei dromedari ha la stes­sa origine del cuscinetto del brentato­re? Subito esamina tutti i facchini di To­rino e scrive a legioni di veterinari per­ché studino a fondo gli animali da so­ma, in special modo gli asini. Non pago dell’imponente massa di dati raccolti, Lombroso indaga con grande scrupolo i misteri del cuscinetto adiposo delle Ottentotte», cioè le donne del popolo africano dei Khoikhoi.
C’è da riderne, adesso. Come c’è da sorridere a rileggere gran parte del­l’opera dell’antropologo veronese. Ba­sti ricordare, tra gli altri, lo studio su La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, dove sosteneva, in base all’esame del­le foto degli scheda­ri del capo della po­lizia parigina, Go­ron (il quale scoprì poi che per sbaglio aveva mandato al nostro le immagini di bottegaie in lista per una licenza...), che «le prostitute, come i delinquenti, presentano caratte­ri distintivi fisici, mentali e congeniti» e hanno l’alluce «prensile». O quello su Il ciclismo nel delitto, pubblicato su «Nuova Antologia», nel quale teorizza­va che «la passione del pedalare trasci­na alla truffa, al furto, alla grassazio­ne ».
Non c’è opera lombrosiana in cui non sia possibile trovare, a voler essere maliziosi, spunti di comicità. A partire da certi titoli: «Sul vermis ipertrofico», «La ruga del cretino e l’anomalia del cuoio capelluto», «Fenomeni mediani­ci in una casa di Torino», «Sulla cortez­za dell’alluce negli epilettici e negli idio­ti », «Rapina di un tenente dipsoma­ne », «Il vestito dell’uomo preistorico», «Il cervello del brigante Tiburzio», «Perché i preti si vestono da donna»...
Nulla è più facile, un secolo dopo la sua morte avvenuta nel 1909, che ridur­re l’antropologo, criminologo e giuri­sta veronese a una macchietta. Un ciar­latano. Eppure, come scrisse Giorgio Ie­ranò, andrebbe riscoperta «la comples­sità di una figura che, nel bene e nel male, ha lasciato un segno nella cultura italiana». Se non altro perché «c’era del metodo nella follia di Lombroso. C’era l’illusione di poter offrire di ogni aspet­to, anche minuto, dell’universo una spiegazione scientifica, la ferma convin­zione di poter misurare quantitativa­mente ogni fenomeno. Lombroso era un utopista che credeva nella missione redentrice della scienza».
Certo, spiega l’antropologo Duccio Canestrini, che insegna a Trento e a Lucca e per celebrare il centenario del­la scomparsa ha allestito una conferen­za- spettacolo ( Lombroso illuminato. Delinquenti si nasce o si diventa?) al de­butto domani sera a Torino al Circolo dei lettori, era un uomo pieno di con­traddizioni: «Socialista, criminalizza di fatto i miserabili. Ebreo, pone le basi del razzismo scientifico. Razionalista, partecipa a sedute spiritiche nel corso delle quali una medium gli fa incontra­re persino la mamma defunta e spiega il paranormale con l’esistenza di una 'quarta dimensione'. Le sue teorie, affa­scinanti e spesso assurde, ebbero un successo internazionale, condizionan­do sia la giurisprudenza, sia la frenolo­gia ».
Con Verdi e Garibaldi, fu probabil­mente uno degli italiani più famosi del XIX secolo. Le sue opere erano tradotte e pubblicate in tutto il mondo, dal­l’America alla Russia, dall’Argentina (dove lo studioso lombrosiano Corne­lio Moyano Gacitúa arrivò a rovesciare certe analisi contro i nostri immigrati: «La scienza ci insegna che insieme col carattere intraprendente, intelligente, libero, inventivo e artistico degli italia­ni c’è il residuo della sua alta criminali­tà di sangue») fino al Giappone. I con­vegni scientifici di tutto il pianeta se lo contendevano. Vittorio Emanuele III sa­lutava in lui «l’onore d’Italia». I sociali­sti lo omaggiavano regalandogli un bu­sto di Caligola. Émile Zola lo elogiava come «un grande e potente ingegno». Il governo francese gli consegnava la Legion d’Onore. Gli scienziati, i medici e i prefetti si facevano in quattro per ar­ricchire la sua stupefacente collezione di crani, cervelli, maschere funerarie, foto segnaletiche, dettagli di tatuaggi di criminali e prostitute e deviati di ogni genere, oggi raccolti al «Museo Lombroso» di Torino. Lo scrittore Bram Stoker lo tirava in ballo scrivendo Dracula. Il filosofo Hippolyte Adolphe Taine gli si inchinava: «Il vostro meto­do è l’unico che possa portare a nozio­ni precise e a conclusioni esatte».
E questo cercava Cesare Lombroso, misurando crani e confrontando orec­chie e calcolando pelosità in un avvitar­si di definizioni «scientifiche» avventa­te: l’esattezza. Capire il perché delle co­se. Così da migliorare la società. «Il tra­guardo che spero di raggiungere com­pletando le mie ricerche», dice in un’edizione de L’uomo delinquente del 1876, «è quello di dare ai giudici e ai pe­riti legali il mezzo per prevenire i delit­ti, individuando i potenziali soggetti a rischio e le circostanze che ne scatena­no l’animosità. Accertando rigorosa­mente fatti determinati, senza azzarda­re su di essi dei sentimenti personali che sarebbero ridicoli» .
Il guaio è che proprio quel «rigore scientifico» appare oggi sospeso tra il ridicolo e lo spaventoso. Il consiglio da­to al Pellegrosario di Mogliano Veneto di curare la pellagra con «piccole dosi di arsenico». Il marchio sugli africani: «Del tetro colore della pelle, il povero Negro ne va tinto più o meno in tutta la superficie, e in certe provincie, anche interne, del corpo, come il cervello e il velo pendulo». Il giudizio sulla donna che tende «non tanto a distruggere il nemico quanto a infliggergli il massi­mo dolore, a martoriarlo a sorso a sor­so e a paralizzarlo con la sofferenza». La ricerca «sul cretinismo in Lombar­dia » dove descrive una «nuova specie di uomini bruti che barbugliano, gru­gniscono, s’accosciano su immondo strame gettato sul terreno». Le parole sull’anarchico Ravachol: «Ciò che ci col­pisce nella fisionomia è la brutalità. La faccia si distingue per la esagerazione degli archi sopracciliari, pel naso devia­to molto verso destra, le orecchie ad an­sa. ». La teoria che «il mancinismo e l’ambidestrismo sensorii sono un po’ piu frequenti nei pazzi».
Un disastro, col senno di poi. Gravi­do di conseguenze pesanti. Eppure a quell’uomo incapace di trovare il ban­dolo della matassa e liquidato da Lev Nikolaevic Tolstoj (che in base alla brut­tezza lui aveva classificato «di aspetto cretinoso o degenerato») come un «vecchietto ingenuo e limitato», una cosa gliela dobbiamo riconoscere. Non si stancò mai di cercare. A che prezzo, però...

Corriere della Sera 28.4.09
La tv «dalemiana»
E su Red sbarca la fiction made in Usa
di Pa.Fo.


ROMA — È il fiore all’occhiello della nuova programmazione. Stasera su Red Tv, il canale gratuito sulla piattaforma Sky (890) legato alla Fondazione ItalianiEuropei di Massimo D’Alema, andrà in onda il primo dei 22 episodi della serie «Studio 60 On the sunset strip», ideata da Aaron Sorkin e che racconta in maniera cinica e dissacrante il dietro le quinte di una rete statunitense. Il telefilm andrà in onda tutti i martedì alle 21. Ed è solo una delle novità del palinsesto: ieri è stata trasmessa la prima delle 10 puntate de «Il ritorno della tribuna politica». E fra gli altri nuovi programmi, venerdì (ore 22) esordirà «Ribalta», approfondimento giornalistico che avrà come ospite fisso Piero Marrazzo, presidente della Regione Lazio, ex conduttore di successo di «Mi manda Rai Tre». La programmazione passerà dalle 4 ore di diretta quotidiana della nascita a novembre scorso, a 9 ore. «E continueremo a dare voce a tutti», promette il direttore Claudio Caprara.

Repubblica Firenze 28.4.09
Binetti: "Renzi è il Pd che vorrei"
La teodem: fa sintesi tra cultura laica e cattolica. Matteo: dov´è il problema?
di Ernesto Ferrara


«Trovo che Matteo Renzi sia una splendida espressione del Pd che io vorrei. È capace di fare davvero sintesi tra una cultura cattolica e una laica». Così dice Paola Binetti, deputata teodem del Pd. E il termometro del dibattito torna a salire. Binetti - antiabortista, contraria alle unioni di fatto, alla procreazione assistita e vicina alle posizioni del Pdl sulla legge sul testamento biologico - era ieri a Firenze per il convegno "Capolinea e dintorni. Fine vita e caso Englaro", organizzato dall´associazione Assi in collaborazione con Scienza e Vita e Movimento per la vita: «Il Pd che io vorrei assomiglia più a Matteo Renzi che ad altre cose. Matteo è coraggioso, giovane e capace di andare anche contro corrente, contro un sistema, capace di assumere su di sé, anche attraverso la sua gioventù, una responsabilità che va oltre il tempo», ha detto la deputata suscitando un certo imbarazzo negli stessi ambienti laici del Pd. Lo stesso Renzi è apparso seccato: «Paola Binetti mi appoggia? Che problema c´è, non vedo la notizia. Lei voleva l´accordo con l´Udc e lo volevo anch´io ma purtroppo non c´è stato», ha detto il candidato sindaco del Pd. I due si erano incontrati in treno, ieri mattina, sul Roma-Firenze. «In viaggio mi ha chiesto per quale circoscrizione fossi candidato, ho dovuto spiegarle che mi candidavo a sindaco», ha raccontato Renzi, che ieri ha incassato l´appoggio del gruppo dei Centouno e in serata ha inaugurato il suo comitato elettorale alla presenza del segretario regionale Pd Andrea Manciulli, del sindaco uscente Leonardo Domenici e di Giuseppe Civati, giovane consigliere regionale della Lombardia. «Il Pd si conferma ambiguo sulle questioni della laicità», attacca la candidata sindaco di "Perunaltracittà" Ornella De Zordo. «Noi preferiamo il Pd all´americana, non quello alla vaticana della Binetti e di Renzi», rintuzza il candidato sindaco Valdo Spini.

Repubblica Firenze 28.4.09
Colombo: "Se Spini vince rinasce la sinistra"


VALDO Spini batte un altro colpo in casa Pd e incassa l´appoggio del deputato, ex direttore dell´Unità, Furio Colombo: «Sostengo Spini perché mi interessano candidati con un vero passato e un vero curriculum, che hanno fatto cose importanti per ragioni importanti in cui continuare a credere. Ritengo che Renzi sia un bravo ragazzo, ma è un moderato di cui la città dei Calamandrei non ha bisogno», ha detto il deputato, ieri a Firenze al comitato elettorale del candidato della lista civica Insieme per Firenze. «Un partito serio come il Pd non può scegliere un candidato solo per l´età e organizzando primarie "a caso" come qui a Firenze - ha aggiunto Colombo - Credo che Firenze e il Pd meritino qualcosa di più di Matteo Renzi: e anzi se Spini a Firenze facesse un buon risultato ci sarebbe una speranza di rinascita per la sinistra non solo fiorentina ma italiana, perché si romperebbe il muro che oggi blocca il Pd».
«Mi presento come candidato di una coalizione di sette tra partiti e gruppi di sinistra, di centrosinistra e civici. E questo è già un bel risultato», ha detto il candidato sindaco Valdo Spini ieri allo Spazio Incontri.
E ancora: «Ma la mia candidatura si propone un obiettivo più largo. Ed è quello di rappresentare, come candidatura a Sindaco, tutta la sinistra, anche quella presente nel partito democratico. Una sinistra del ventunesimo secolo, una sinistra moderna, non certo la nostalgia del novecento o dell´ottocento».

Secolo d'Italia 11.3.09
Invito alla lettura
Ecco perché torna d'attualità Ezra Pound

di Giano Accame


E’ vero: siamo in tempo di crisi e accadono cose davvero sorprendenti. Anche nel movimento delle idee. Occupa appena una trentina di pagine il saggio di Ezra Pound su “Il carteggio Jefferson_Adams come tempio e monumento” ed è quindi motivo di un lieve stupore l’ampiezza dell’interesse che ha suscitato. Il 18 febbraio scorso si parte con un’intera pagina del Corriere della Sera per una recensione di Giulio Giorello, filosofo della scienza, ma anche raffinato lettore dei Cantos da un versante laico-progressista, che ha acceso la discussione a cominciare dal titolo: “Elogio libertario di Ezra Pound. Scambiò Mussolini per Jefferson. Ma il suo era un Canto contro i tiranni.” Di quel titolo il giorno dopo profittava Luciano Lanna per ribadire sul nostro Secolo : “Pound (come Jünger) era libertario”. Due giorni dopo (venerdì 20 febbraio) nelle pagine culturali del Corriere della Sera Dino Messina riapriva il dibattito : “Fa scandalo il “Pound libertario”, mentre il 21 febbraio il tema veniva approfondito da Raffaele Iannuzzi nel paginone centrale ancora del Secolo. Ricordo ancora le critiche rivolte a Pound e a Giorello il 27 febbraio da Noemi Ghetti su LEFT. Avvenimenti settimanali dell’Altraitalia: era abbastanza facile indicare qualche contraddizione tra la censura fascista e lo spirito libertario, pur essendo altrettanto innegabile il durissimo prezzo pagato da Ezra Pound pacifista alla sua appassionata predicazione contro l’usura, la speculazione finanziaria internazionale e le guerre, con le settimane vissute in gabbia nella prigionia americana di Pisa e i dodici anni di manicomio criminale a Washington. Tuttavia nell’ampio dibattito di cui ho segnalato le tappe è comparso solo marginalmente il nome di Luca Gallesi (Antonio Pannullo lo ha però intervistato il 5 marzo in queste pagine sull’etica delle banche islamiche), geniale studioso di Pound cui si deve la pubblicazione del saggio su Jefferson, ma anche e soprattutto l’apertura di nuovi percorsi in una materia di crescente interesse quale è la storia delle idee. Occorre rimediare alla disattenzione per l’importanza dei contributi che Gallesi ci sta suggerendo e per i risultati che nel campo degli studi poundiani sta raccogliendo con l’editrice Ares guidata da Cesare Cavalleri insieme alla rivista Studi cattolici, anch’essa molto attenta al pensiero economico di un poeta che sin dai primi anni ’30 aveva previsto lo spaventoso disordine della finanza globale e il dissesto con cui oggi il mondo à alle prese. Le Edizioni Ares avevano già pubblicato gli atti di due convegni internazionali curati da Luca Gallesi, prima Ezra Pound e il turismo colto a Milano, poi Ezra Pound e l’economia, e dello stesso Gallesi lo studio su le origini del fascismo di Pound ove dimostra che il più innovativo poeta di lingua inglese del secolo scorso era stato predisposto a larga parte dei programmi socio-economici mussoliniani degli anni di collaborazione a Londra con la rivista The New Age diretta da Alfred Richard Orage, espressione di una corrente gildista, cioè corporativa del laburismo. Dalla frequentazione della società inglese Pound si portò dietro anche alcuni trattati del tutto sgradevoli d’antisemitismo, che negli anni Venti salvo rare eccezioni erano ancora ignote al fascismo italiano. L’introduzione di Gallesi al breve saggio di Pound sul carteggio Jefferson Adams punta a estendere agli Usa la ricerca già avviata in Inghilterra sulle origini anglosassoni del fascismo poundiano. Questa volta paragoni diretti tra i fondatori degli stati Uniti e il fascismo non emergono come nel più noto Jefferson e Mussolini ripubblicato nel ’95 a cura di Mary de Rachelwiltz e Luca Gallesi da Terziaria dopo che era andata dispersa la prima edizione per la Repubblica sociale del dicembre ’44. Di Jefferson e Adams da Gallesi viene ricordato l’impegno, da primi presidenti americani, nello sventare i tentativi di Hamilton di togliere al Congresso, cioè al potere politico elettivo, il controllo sull’emissione di moneta per delegarlo ai banchieri e alla speculazione attraverso la creazione di una banca centrale controllata, come nel modello inglese, da gruppi privati. Un’altra traccia innovativa per la storia delle idee è stata suggerita da Gallesi il 4 marzo sul quotidiano Avvenire segnalando il saggio dell’americano Jonah Goldberg, che stufo di sentirsi accusare di fascismo ha scalato i vertici delle classifiche librarie con Liberal Fascism, un saggio ove ha sostenuto la natura rivoluzionaria del fascismo, che durante la stagione roosveltiana del New Deal suscitò “negli Usa stima e ammirazione soprattutto negli ambienti progressisti, mentre all’estrema destra il Ku Klux Klan faceva professione di antifascismo”. Una storia trasversale di idee al di là della destra e della sinistra che Gallesi si prepara a approfondire lungo l’Ottocento americano attraverso la secolare resistenza che da Jefferson in poi vide opporsi correnti legate allo spirito dei pionieri e delle fattorie alla creazione di una banca centrale, che avvenne solo nei primi del Novecento, alla speculazione monetaria e alla dilagante corruzione. Tutti contributi a una interpretazione di Pound, che senza indebolire le posizioni ideali a cui teniamo, risulterà più autentica, più ricca, più fuori dagli schemi, più prossima alla definizione di ”libertario” che della lettura poundiana di Jefferson ha ricavato Giorello. E non so trattenermi dal riportare due frasi che avevo sottolineate un quindicina di anni fa leggendo la prima volta l’ancor più scandaloso confronto tra Jefferson e Mussolini. Una tesa a far somigliare i due leader nella lotta alla corruzione: “In quanto all’etica finanziaria, direi che dall’essere un pese dove tutto era in vendita Mussolini in dieci anni ha trasformato l’Italia in un paese dove sarebbe pericoloso tentare di comprare il governo”. E proprio alla fine del libro l’invenzione della settimana corta, per una gestione politica della decrescita economica che solo adesso assume aspetti marcati d’attualità: “Nel febbraio del 1933 il governo fascista precedette gi altri, sia di Europa che delle Americhe, nel sostenere che quanto minor lavoro umano è necessario nelle fabbriche, si deve ridurre la durata della giornata di lavoro piuttosto che ridurre il numero del personale impiegato. E si aumenta il personale invece di far lavorare più ore coloro che sono già impiegati”. Queste erano le soluzioni pratiche che piacevano a Pound, autore di solito complicato, ma reso a volte paradossalmente difficile per eccesso di semplicità.

lunedì 27 aprile 2009

Repubblica 27.4.09
Se scompare la liberazione
di Adriano Prosperi

E così scomparirà forse dal vocabolario delle feste nazionali la parola "Liberazione". A partire dal 25 aprile 2009, da quella che sarà stata (forse) l´ultima Festa della Liberazione, la sostituirà un´altra parola, solo in apparenza simile: "Libertà". Un mutamento che sembra del tutto naturale, di fatto già avvenuto, come bere un bicchier d´acqua, come trovare la definizione adatta per riempire le caselle di un gioco di parole incrociate. Una piccolissima modifica, una roba da niente. Tanto piccola e innocua che questo mutamento di fatto è come se fosse già avvenuto. Del resto, l´accoglienza è stata benevola, perfino un po´ distratta. Una parola, nient´altro. I pochi, prevedibili dissensi sanno più di blando rimpianto per la dipartita di un vecchio amico di famiglia che di lotta per difendere valori non negoziabili. Nel consenso si avverte un respiro di sollievo, come quello a cui dà voce un editoriale sul Corriere della Sera di ieri. È – vi si legge – «una ferita che si chiude».
C´era dunque una ferita: la parola "Liberazione" la teneva aperta, la parola "Libertà" la chiude. Caso singolare, degno di attenzione. Una parola divideva, di più: feriva e faceva sanguinare, l´altra – pur della stessa famiglia – magicamente risana la ferita, ricompone la società, fa scomparire l´ultimo riflesso delle passioni da cui era nata. E certo quelle passioni se le portava dietro fin da quando era nata: perché erano quelle passioni che l´avevano generata nella mente di una minoranza di italiani. Quegli uomini parlavano anche di libertà ma intanto vedevano l´urgenza di un´azione da compiere, un´azione liberatoria, «questa cruenta lotta di liberazione» – come scriveva il 25 settembre del 1945 il partigiano Didimo Ferrari al commissario della Divisione Lunense, l´azionista e futuro storico Roberto Battaglia. Ma se libertà e liberazione erano così solidali nella lingua di allora, che cosa le ha fatte diventare nemiche nella lingua di oggi? «Il concetto di libertà – ha scritto Marc Bloch – è uno di quelli che ogni epoca rimaneggia a suo piacere». Più difficile rimaneggiare "Liberazione" – quella specifica e precisa lotta di liberazione che si svolse in un determinato momento della storia italiana. Quanti liberatori attivi ebbe l´Italia tra il 1940 e il 1945? C´era allora il "Consolidated B-24 Liberator": un bombardiere quadrimotore. Lo vedevamo dal basso quando veniva a bombardare un´Italia già alleata della Germania e poi occupata dai tedeschi, dove popolazioni inermi tradite dai rappresentanti dello Stato aspettavano che qualcuno li liberasse dalla condizione schiavile in cui erano precipitati. Se qualcuno non si fosse ribellato e non avesse dato vita all´organizzazione di Comitati di Liberazione Nazionale, gli italiani avrebbero avuto una liberazione tutta americana, insieme alle "AM-Lire" stampate dagli alleati.
Non sarebbe stata la prima volta. Nella storia d´Italia altre svolte rivoluzionarie del mondo moderno sono state vissute in modo passivo. Per una di loro, quella della Grande Rivoluzione francese esportata dalle armate napoleoniche in tutta Europa, lo storico napoletano Vincenzo Cuoco coniò il termine di "rivoluzione passiva", che rimase buono anche per altri usi. Ma almeno in un caso l´Italia è stata attiva e creativa: nell´invenzione del regime fascista, guidato da un capo che si presentò agli inizi come rivoluzionario. Lo storico che sottolineò questo aspetto, Renzo De Felice, fu anche colui che coniò una espressione poi entrata nel linguaggio comune delle narrazioni della storia italiana del ´900: "gli anni del consenso". Significava quella espressione che l´adesione degli italiani al regime fascista era stata un fenomeno di massa. E questo è servito spesso nella polemica ideologica a sminuire ancora di più la piccolezza del fenomeno della Resistenza come guerra di liberazione condotta da italiani. Poteva mai nascere dal paese del consenso di massa al fascismo, un altro e opposto paese capace di lottare per riscattare la propria dignità? Nella stanchezza di un´Italia lontanissima da quei tempi oggi sembra giunto il tempo per cancellare anche nel linguaggio l´ultima traccia verbale di una stagione lontana. Ma nella parola "Liberazione" e solo in quella è iscritto il ricordo di un fatto storico che ha segnato la discontinuità tra due Italie. Questo termine sta a ricordare che c´è stata una lotta di una parte del paese contro un´altra, che quella parte pur minoritaria seppe allora raccogliere l´esito della fine del consenso al regime e conquistarsi nel paese un altro e diverso consenso di massa: quel consenso che, attraverso libere elezioni e nella dialettica di ideali diversi ma capaci di dialogare e di incontrarsi sulla sostanza, dette vita e forma alla Costituzione repubblicana. Lo si cancelli, se si vuole, se si può. Vediamo bene che c´è un patteggiamento intorno a questo e che non mancano offerte di pagamento in buona moneta: tale è il ritiro della legge che equipara gli italiani di Salò e quelli dei Comitati di Liberazione, tale è la possibilità di una revisione della Costituzione non a colpi di maggioranza. E il prezzo che si chiede è solo una piccola operazione di "lifting" verbale. Tuttavia una cosa deve essere tenuta presente: il banco di prova più delicato del potere si trova proprio qui, nella capacità di iscriversi nel linguaggio, di mutare le denominazioni delle feste come momento simbolico della vita collettiva. E non è solo nell´universo dantesco che per una "paroletta" ci si danna o ci si salva.

l’Unità 27.4.09
No all’ora di religione
Berlino boccia il referendum dei cattolici
di Gherardo Ugolini

Contro l’insegnamento dell’etica voluto dalla coalizione Spd-Linke, erano scesi in campo i gruppi cattolici. Anche la cancelliera Merkel si era schierata per l’abrogazione. Ma i berlinesi hanno detto no.

Il referendum non ha raggiunto il quorum ed è fallito. E chi ha votato ha detto no. E così la «battaglia sull’ora di religione», combattuta ieri a Berlino, si è conclusa con una chiara e netta vittoria del fronte laico. Se c’era bisogno di un’ulteriore conferma del fatto che i cittadini di questa metropoli sono orgogliosi del loro spirito tollerante e alieno da integralismi e fondamentalismi, questa è arrivata in modo clamoroso con l’affossamento dell’iniziativa Pro Reli, che mirava a modificare l’attuale sistema d’insegnamento della religione a scuola introducendo l’obbligo di scelta tra ora di religione o di etica.
Flop alle urne
Solo il 29% degli aventi diritto si è recata ieri alle urne e tra i votanti solo coloro che hanno detto «sì» alla proposta di cambiamento sono stati molto meno dei 612mila necessari per far scattare il quorum. Di conseguenza nelle scuole di Berlino si continuerà come prima: tutti gli scolari dovranno frequentare obbligatoriamente le lezioni di etica (intesa come educazione civica e trasmissione dei valori costituzionali), mentre solo chi lo vorrà potrà facoltativamente seguire l’ora di religione. Attualmente ben il 70% dei berlinesi in età scolare sceglie di non avvalersi dell’insegnamento di religione.
Fino a ieri la città era invasa di manifesti e volantini invitanti a mobilitarsi «per la libertà di fede», contro «il materialismo imposto dalle sinistre».
Toni da crociata
Evidentemente questi toni da guerra fredda, questi slogan da crociata, non piacciono in una città che come nessun’altra ha vissuto sulla sua pelle il dramma novecentesco della contrapposizione ideologica. La sconfitta è cocente per Christoph Lehmann, il quarantaseienne avvocato di successo che un anno fa ha fondato l’iniziativa Pro Reli e l’ha guidata fino a ieri. Se ce l’avesse fatta avrebbe con ogni probabilità utilizzato la vittoria per catapultarsi alla guida della Cdu locale, travolta da scandali finanziari, relegata all’opposizione e in perenne attesa di un serio rilancio. Ha perso il vescovo della chiesa evangelica Wolfgang Huber. Hanno perso la Cdu e i liberali della Fdp. E ha perso Angela Merkel che alla vigilia del voto ha lanciato un appello a votare in massa per Pro Reli rompendo una tradizione che vuole il cancelliere neutrale in faccende di politica locale. Vero vincitore dalla consultazione referendaria è senz’altro il borgomastro Klaus Wowereit, il personaggio che meglio interpreta il sentimento di forte laicismo in cui si riconosce la stragrande maggioranza dei berlinesi. Era stato lui, governatore socialdemocratico alla guida di una maggioranza in cui Spd e Linke cooperano pragmaticamente e con discreti risultati, a volere che fosse introdotta etica come materia obbligatoria per tutti i ragazzi.

Corriere della Sera 27.4.09
Il cardinale. Il tedesco Walter Kasper
«Città profana e secolarizzata Così si nega una libertà»
di Gian Guido Vecchi

Poche illusioni. Ho sperato che il referendum passasse, ma senza farmi illusioni: conosco la capitale tedesca ed ero realista... Non è la Germania del Sud, la mia Svevia, la Baviera...
Dibattito. Una cosa positiva c’è: per settimane la città ha discusso in pubblico e sui giornali di religione, un tema di solito ignorato.

CITTÀ DEL VATICANO — «È tri­ste, lo dobbiamo accettare ma mi sento molto triste: non si voleva imporre nulla, la possibilità di scelta è un segno di libertà ed è questa che alla fine hanno nega­to ». Il cardinale Walter Kasper, presidente del pontificio Consi­glio per la promozione dell’unità dei cristiani, è un teologo di fama che si è formato a Tubinga e a Mo­naco. La voce, comunque, è sere­na. Triste sì, ma non particolar­mente stupito: «Ho sperato che il referendum passasse, ma senza farmi illusioni: conosco Berlino e sono rimasto realista...».
Certo che è una situazione strana, eminenza: il suo è un Pa­ese da sempre all’avanguardia negli studi biblici e teologici, il dottorato in Germania è l’eccel­lenza in materia, e ora nella capi­tale si boccia la possibilità di ave­re l’ora di religione a scuola...
«Vede, Berlino rappresenta un caso straordinario, non è la Ger­mania. E certo non è la Germania del Sud, la mia Svevia, la Bavie­ra... In Germania è un po’ come in Italia, c’è differenza tra Nord e Sud. Ma Berlino, in particolare, è una città profana e secolarizzata, nella quale i cristiani sono sem­pre stati una minoranza, fin da prima della guerra, dagli anni del nazismo al comunismo. È la capi­tale dell’ateismo!».
Ma in fondo qui si trattava di poter scegliere la religione anzi­ché l’ora di etica. Come si spiega il rifiuto?
«L’argomento, dall’altra parte, era che nella città vivono tanti im­migrati, in particolare musulma­ni, e c’è bisogno di un’etica che coinvolga e unisca tutti. Ora, a parte che un’etica senza Dio è as­sai debole e che per la maggioran­za dei ragazzi è anche noiosa per­ché non ha fondamento nella vi­ta, il problema è questo pregiudi­zio: si pensa che la religione sia un fattore di divisione. Tra l’altro, c’è una cosa interessante...».
Cosa?
«Ho saputo che gli ebrei e an­che i musulmani erano favorevoli al referendum, alcuni lo hanno so­stenuto. Loro stessi, del resto, so­no interessati al tema e vorrebbe­ro che fosse dato un insegnamen­to della loro religione».
Il caso Berlino è un problema anche per il resto d’Europa?
«Beh, certo, la secolarizzazione purtroppo è diffusa anche altro­ve. Pensi solo al Belgio, dove il Parlamento è arrivato a votare contro il Papa».
Benedetto XVI non sarà contento, per il voto di Berli­no...
«Ah, questo è sicu­ro. E non posso esse­re contento nean­ch’io. Nessuno lo è. Però una cosa positi­va, in tutto questo, c’è».
E quale, eminenza?
«Per settimane a Berlino si è di­scusso in pubblico e sui giornali di religione, un tema di solito ignorato. Evviva! Vista la situazio­ne, già questo è un passo in avan­ti. La cosa peggiore è quando non se ne parla proprio».
Ma ora non teme che la cam­pagna per il referendum si ritor­ca contro chi l’ha promossa, il classico effetto boomerang?
«Questo no, non lo credo asso­lutamente. I cristiani, cattolici e protestanti, si sono risvegliati. Hanno mostrato di voler lottare per la loro fede».

Corriere della Sera 27.4.09
Sinistra. «Gigante» malato
La via Emilia ai tempi del Pd. Addio alle case del popolo e i sindaci diventano «bianchi»
di Francesco Alberti

I democratici guidano 232 dei 275 Comuni al voto ma i dirigenti sono sotto accusa: «Come l’orchestra sul Titanic». Anche il Prc è in crisi: nel paese del busto di Lenin correrà senza falce e martello
Bolognina deserta. Ai circoli si va per la ginnastica rilassante

BOLOGNA — Nessuno porta fiori sulla tomba del Pci. Civico 4 di piazza dell’Unità. Cortile interno. Piano terra, in un’anonima palazzina. È la sezione della Bolognina Centro. Qui, il 12 novembre dell’89, Achille Occhetto annunciò la fine del più grande partito comunista d’Occidente. La saracinesca si al­za solo il giovedì e la domenica, una manciata di ore. L’interno è lindo, moderno. Una scala porta in uno scantinato che ospita un’associazione di pittori amatoriali. Non c’è traccia di quel 12 novembre che cambiò un pezzo d’Italia. Una foto di Enrico Berlin­guer. Una di Nilde Iotti. Occhetto fa capolino in una firma autografa su una bandiera del Pds. Altrove, forse, ci avrebbero fatto un museo. Scrive Lanfran­co Turci sulle Ragioni del Socialismo di Emanuele Macaluso: «È una rimozione silenziosa: l’abbando­no di un’autonarrazione, che, per quanto ideologi­ca, rappresenta pur sempre un deposito di valori».
Lenin e l’ultima trincea — Mirko Tutino, 26 anni, è segretario del Pd di Cavriago (55% di voti su 9.000 anime) e ogni volta che esce di casa sbatte gli occhi sul busto di Lenin, 1922, «dono dell’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche alla popolazione di Cavriago». Marmo citatissimo da giornali e tv ai tempi del crollo del Muro. «Ora — dice — è un souvenir per nostalgici a zonzo per trattorie». Il custode, Bruno Ferrari, detto «Pravda», è morto e non l’hanno sostituito. Anche i teppistelli di paese hanno perso il gusto d’imbrattarlo. Rifondazione, qui, si presenta alle elezioni senza falce e martello. Tutino non crede in Lenin. Crede nel Pd. In un Pd ancora tutto da fare. Lo ha scritto ai capi della Federazione di Reggio Emilia. Dieci paginette. Il docu­mento «è al vaglio». Ci sono passaggi morettiani: «L’attuale classe dirigente è come l’orchestra del Ti­tanic. Sembra quasi che il lutto per la scomparsa del Pci abbia tolto speranza alla generazione del ’68. Bi­sogna ripartire da modelli di vita alternativi: solida­rietà, sacrificio, investimento». Tutino cita Debora Serracchiani. Ma si scalda di più per Alessio Mam­mi, 29 anni, che nessuno conosce, ma a Scandiano ha vinto le primarie da sindaco: «Ci vuole una gene­razione di salmoni, che risalgano la corrente: i missi­ni l’hanno fatto».
L’Emilia Romagna non è rossa né bianca. Il suo Pd è un ponte sospeso tra presente e futuro e, come scri­ve Turci, «sembra vivere in quel non luogo politico in cui vive il partito nazionale». Diciamo allora che la via Emilia è semplicemente l’ultima trincea del Pd prima del nulla: se qui crolla alle Amministrative di giugno, vanno a casa anche a Roma. Lo sciame sismi­co c’è e si sente: proliferazione di liste civiche, cresci­ta dipietrista, artigliate leghiste (con candidati sinda­ci a Reggio, Modena e Ferrara), liti intestine, lo spet­tro del disimpegno. «Abbiamo avuto tanto e ora ab­biamo molto da perdere» riconosce Giorgio Sangri­ni, responsabile organizzazione. Eppure la macchina è ancora da guerra, anche se non ha nulla di occhet­tianamente gioioso: 45,7% alle Politiche 2008, 75 mila iscritti.
Il Pd è al governo in 232 Co­muni dei 275 chiamati al vo­to. Burocrazia ramificata.
Bologna, Modena, Reggio, Ravenna, Ferrara spesso ai vertici delle classifiche sulla qualità della vita. Il gigante cooperativo a far da sponda, anche se l’afflato sociale è sta­to risucchiato nel gorgo del business e ciò che resta del collateralismo è nelle parole del presidente della Lega Coop, Gianpiero Calzolari: «Non è scon­tato il voto al Pd».
Frattocchie e ballottaggi — Marino Montanari ha 90 anni, frequentava la casona a Gatta­tico dei fratelli Cervi. Ha lasciato un polmone e un rene nella guerra partigiana, consegnando ordini nei boschi della Val d’Enza, ai confini del Parmense. Il Pci lo curò e lo spedì alle Frattocchie, a Roma, lui che aveva solo la licenza elementare: «Il mio mae­stro era Paolo Robotti, cognato di Togliatti, bravissi­mo, durissimo. A volte mi sentivo scoppiare il cer­vello, e lui mi diceva: 'Vai a dormire...'». Montanari ha allevato più di una generazione di assessori nel Reggiano: «Insegnavo economia politica applica­ta... ». Applicata a cosa? «Alla pancia della gente, ai bisogni veri». Il Pd? «Io sono un culindietro, sono uscito così da mia madre. Quelli come me, racconta­no qui, hanno bisogno di un sogno, anche se sba­gliato. Beh, non lo vedo».
Se è per questo, scarseggiano anche le certezze. Perfino a Reggio Emilia, dove le elezioni non sono mai state un thrilling dai tempi in cui Togliatti (con il discorso Ceto medio e Emilia rossa del ’46) co­strinse l’anima bolscevica del Pci a stringersi negli abiti del riformismo socialista. Il sindaco uscente Graziano Del Rio (ex margheritino), pur partendo da un oceanico 63,2% del 2004, rischia seriamente il ballottaggio a causa del «fuoco amico» di Antonella Spaggiari, che viene dal Pci-Pds, è detta «la zarina», è stata sindaco per 13 anni, poi presidente della fon­dazione bancaria Manodori, e ora guida una lista ci­vica sostenuta dall’Udc. Stessa sorte rischiano Fla­vio Delbono a Bologna e Giorgio Pighi a Modena. Il primo, nonostante l’appoggio prodiano, la scelta di far risorgere il modello Unione e il sostegno critico di alcuni intellettuali tra i quali Filippo Andreatta, è insidiato dalla lista del politologo Pasquino, dalla si­nistra creativa di Franco Berardi «Bifo» e dalle incur­sioni guazzalochiane. Il secondo rischia di pagare ca­ra la rottura con dipietristi e Rifondazione.
Il ritorno dei dc — Senza il mastice del Partito, si moltiplicano liste civiche e comitati di protesta: 33 candidati solo nell’ex Triangolo rosso (Bologna, Modena, Reggio), roba mai vista. Ci sguazzano i padani di Bossi: «Il Pd perde pezzi, c’è speranza per tutti» dice il deputato Angelo Alessan­dri, candidato a Reggio.
Nulla è scontato. La cosiddetta «fusione a freddo» tra ex diessini ed ex margheritini, ad esempio. Sarà anche fredda, ma solo per i nipotini di Togliatti. Quelli di De Gasperi, viaggiano come treni alle pri­marie. A Bologna Delbono. A Ferrara Tagliani (ex cri­stiano sociali). A Reggio Del Rio. A Forlì, il laico e mazziniano Roberto Balzani ha battuto per 44 voti il sindaco uscente pd: «Il segreto? Fare campagna fuo­ri dal partito» dice con disarmante candore, non na­scondendo «di avere problemi con la nomenklatura del partito». Il politologo Paolo Pombeni l’ha rias­sunta così all’Assemblea costituente: «Gli eredi del Pci non sono più capaci di esprimere una classe diri­gente, c’è una crisi di presentabilità». E troppa disin­voltura. Come a Travo, nel Piacentino: neanche 2000 votanti e tre liste di pd o ex pd che fanno a cazzotti. Anche le Case del Popolo soffrono una crisi di presentabilità. Non se ne trova una. All’Arci Benas­si, alle porte di Bologna (2.800 iscritti, sezione stori­ca, un mare di teste bianche), fanno di tutto: burra­co, ginnastica rilassante, calcetto, carte, pesca. Me­no che politica: «Siamo apolitici...».

Corriere della Sera 27.4.09
Spagna, aborto libero a 16 anni
di Elisabetta Rosaspina

Il raddoppio. In dieci anni il numero degli aborti nelle cliniche spagnole è raddoppiato E sono aumentate le gravidanze delle ragazzine: oltre 10 mila in un anno

Previsto nella nuova legge preparata da un gruppo di esperti Nelle prime 14 settimane interruzione senza alcun limite
Oggi. Secondo le norme in vigore dal 1985 la gravidanza si può interrompere fino al nono mese, ma solo in tre casi specifici
Domani. La riforma che il governo Zapatero vuole varare prevede, tra l’altro, il limite della ventiduesima settimana

MADRID — Sedici candeline, in Spagna, non per­mettono ancora a una ragazza di guidare l’auto o di comprarsi un pacchetto di sigarette, ma l’autorizza­no a rifarsi il seno, senza il permesso di mamma e papà, e a opporsi a qualunque trattamento sanita­rio, dall’apparecchio per raddrizzare i denti a un tra­pianto, eccetto l’aborto, la fecondazione assistita e le analisi cliniche. Prima dell’estate, però, l’emanci­pazione adolescenziale farà probabilmente un altro passo avanti e una minorenne spagnola potrà inter­rompere un’eventuale gravidanza senza neppure in­formarne i genitori e senza l'avvallo di un giudice tutelare, come avviene, nei casi estremi, in Italia.
La riforma della legge sull’aborto, al vaglio del governo socialista di José Luis Rodriguez Zapatero, sta riaprendo nel Paese un dibattito analogo, per argomenti e veemenza, a quello che accompagnò nel 1985 la prima depenalizzazione dell’aborto in tre casi specifici: la malformazione del feto, la gravi­danza frutto di violenza e il pericolo per la salute fisica o psichica della donna, ampio ombrello (sen­za limiti legati ai tempi di gravidanza) sotto al qua­le trova spazio il 97% dei 120 mila aborti praticati ogni anno. Se la nuova normativa accoglierà i sug­gerimenti della commissione di nove esperti, gine­cologi e giuristi, istituita al principio di settembre dal ministero dell’Uguaglianza, l’aborto in Spagna diventerà libero fino alla 14esima settimana di ge­stazione e sarà condizionato, fino alla 22esima, dal grave rischio per la vita e la salute della madre o dal riscontro di serie anomalie nel feto.
«Porremo limiti dove finora, di fatto, non ce n’erano», difende le linee della riforma Bibiana Ai­do, ministra dell’Uguaglianza, di fronte all’ondata di anatemi lanciati dalla chiesa, dal Partito Popola­re, dal 2004 all’opposizione, e dai ranghi conserva­tori che includono una larga fetta della classe scien­tifica.
Ma anche tra i progressisti serpeggia qualche perplessità sulla facoltà legale concessa a una mino­renne di interrompere una gravidanza accidentale all’insaputa della famiglia: «Non è altro che un am­pliamento della legge sull’autonomia del paziente, approvata nel 2002 proprio dal governo del Partito Popolare, secondo la quale dai 16 anni in poi si pos­sono prendere decisioni autonome riguardo a qual­siasi intervento medico — contrattacca Bibiana Ai­do —. Con quella legge un adolescente può sceglie­re liberamente se sottoporsi, o no, a un’operazione a cuore aperto o alla chirurgia estetica. Includendo l’aborto, tuteliamo anche la minorenne che voglia tenere il suo bambino contro il parere dei genitori. Comunque, la modifica è stata raccomandata dal comitato di esperti, ma sarà il parlamento, infine, a decidere».
Il dibattito e le conclusioni del congresso sono previsti prima della pausa estiva, e intanto la batta­glia infuria: «È più protetta la lince iberica di un bambino» gioca sul paradosso e sull’accostamento delle foto delle due diverse specie di cuccioli, la campagna lanciata dalla Conferenza episcopale spa­gnola attraverso migliaia di manifesti.
«Per la ministra Aido l’aborto diventerà un’alter­nativa al preservativo» va giù, ancora più duro, il presidente onorario dei popolari, Manuel Fraga. E alla solenne apertura dell’assemblea generale dei vescovi, il presidente della Conferenza episcopale, cardinale Antonio Maria Rouco Varela, ha chiama­to i fedeli a raccolta contro il «crimine dell’aborto» che «oscura la democrazia». Provocando la reazio­ne della ministra dell’Uguaglianza: «Alla Chiesa compete dire semmai che l’aborto è peccato, non che è un delitto. E al governo spetta elaborare leggi che riguardano tutti i cittadini, nel rispetto di tutte le posizioni».
In un’intervista al quotidiano El Pais, la nuova ministra alla Sanità, Trinidad Jimenez, assicura di non temere l’ostilità delle ge­rarchie ecclesiastiche: «Il di­battito sociale pro o contro l’aborto è ormai superato da moltissimi anni. Ora si sta di­scutendo di come offrire mag­gior sicurezza e privacy alle donne e agli operatori sanita­ri ». E di come canalizzare ne­gli ospedali pubblici un inter­vento appaltato, quasi nel 98% dei casi, alle cliniche pri­vate.
Anche le statistiche sembrano adattarsi, come un elastico, alle differenti interpretazioni: se gli opi­nionisti conservatori fanno notare che in 10 anni il numero degli aborti all’anno è raddoppiato, passan­do dai 53.847 (6 ogni mille donne tra i 15 e i 44 anni) del 1998 ai 112.138 del 2007 (11,49 per mil­­le), i progressisti replicano che l’impennata è lega­ta all’immigrazione, poiché il 50% delle interruzio­ni di gravidanza è richiesto da straniere. Di qualun­que nazionalità siano, sono sempre più giovani: nel 2007 hanno abortito in Spagna 6.273 minoren­ni (500 avevano meno di 15 anni) e altre 4.400 han­no portato a termine la gestazione. Significa che ne sono rimaste incinte poco meno di undicimila. Ne­gli ultimi 10 anni sono raddoppiate le gravidanze sotto ai 17 anni e gli aborti sotto ai 19 (passando dal 5,71% al 13,79% del totale). Un’inchiesta condot­ta tra duemila spagnole dall’Equipo Daphne, una squadra di sette ginecologi di prestigio in attività dal 1996, conclude che il 21% non ricorre ad alcun metodo anticoncezionale. Per estensione, si calcola che due milioni e centomila donne siano esposte al rischio di un «incidente di percorso».
«Nei sondaggi l'80% dei giovani assicura di pren­dere precauzioni — commenta Esther de la Viuda, presidente della Società spagnola per la contracce­zione —, ma poi il 39% ammette di proteggersi in maniera inconsistente e occasionale». Approva che una sedicenne possa poi rimediare al «guaio» sen­za farsi accompagnare dai genitori? «C’è una pole­mica esagerata su questo aspetto — risponde —. Forse il testo di legge stabilirà che debba essere ac­compagnata da un maggiorenne. Ma dal punto di vista della maturità non credo ci sia ormai molta differenza tra una ragazza di 16 e una di 18». Due candeline, la patente e un pacchetto di sigarette.

l’Unità 27.4.09
L’Homo floresiensis sapeva modellare pietre. Prima di noi
Il luogo I ritrovamenti dei paleontologi sull’isola di Flores, in Indonesia
Un piccoletto insegnò al Sapiens a lavorare la pietra
di Pietro Greco

L’Homo sapiens imparò a lavorare la pietra dall’Homo florensiesis, una sorta di ominide alto un metro e dal cervello grande come una pera? Dei ritrovamenti nell’isola di Flores, Indonesia, suggeriscono di sì.
E se il piccolo hobbit, l’ultimo degli erectus, avesse insegnato direttamente al grande ed encefalizzato Homo sapiens come si lavora la pietra, nell’isola di Flores almeno ventimila anni fa? L’ipotesi - avanzata di recente da Mark Moore della University of New England, in Australia - è tutta da confermare. Ma racchiude in sé due novità per molti versi sorprendenti.
Si fonda su quattro fatti. Il primo è che nel sito di Liang Bua sull’isola di Flores, in Indonesia, frequentato per circa 80.000 anni - da 100.000 fino a 17.000 anni fa - da Homo floresiensis, un omino alto non più di un metro e col cervello grande come una pera, Mark Moore ha trovato pietre di origine vulcanica sapientemente lavorate. Il secondo fatto è che nello stesso sito il paleontologo australiano ha rinvenuto pietre lavorate molto più di recente, ma con la medesima tecnica. L’archeologo le ha studiate tutte, le più antiche e le più recenti. Ne ha prelevate 11.667 in cinque diversi livelli dello scavo. Osservandole a fondo, con le più moderne tecniche, una per una, per verificare come sono state lavorate. Il terzo fatto è che Liang Bua è stata frequentata, a partire almeno da 11.000 anni fa, da gruppi di Homo sapiens. Il quarto fatto è che i sapiens sono giunti in Indonesia 45.000 anni fa.
TECNICHE ELABORATE
Mark Moore ha provato a dare un’interpretazione coerente a questi quattro fatti. Le pietre ben lavorate non possono essere state realizzate tutte dai sapiens. Le più antiche, almeno, sono state lavorate certamente da Homo floresiensis, perché risalgono a un periodo in cui i sapiens in tutta l’Indonesia e persino in Asia non erano ancora arrivati. Di qui il primo rovello: come faceva quell’omino dal fisico e soprattutto dal cervello così piccolo ad aver sviluppato una cultura litica così avanzata? Domanda davvero intrigante. Cui Moore risponde chiedendo aiuto a Nicholas Toth e a Kathy Shick, due antropologi americani della Indiana University, che hanno insegnato ai bonobo (i piccoli scimpanzé che sono stati gli ultimi primati ad aver avuto un antenato comune con l’uomo) a lavorare la pietra in maniera abbastanza sofisticata.
La seconda domanda non è meno intrigante. Le pietre più recenti e quelle più antiche sembrano essere state lavorate se non dalla stessa mano, certo allo stesso modo: perché i sapiens hanno lavorato la pietra con la stessa tecnica dei floresiensis? E qui Moore avanza la sua ipotesi innovativa: semplice, perché l’hanno appresa direttamente dagli «hobbit», con cui hanno evidentemente convissuto occupando la medesima area. Non è l’unica risposta possibile: potrebbe trattarsi di semplice convergenza evolutiva (nel medesimo ambiente, con la medesima materia, entrambe le specie umane hanno trovato il modo migliore per intagliare). Per saperne di più Moore sta per pubblicare il suo report sul prossimo numero del Journal of Human Evolution.

Repubblica 27.4.09
Date un obolo a Rita e ai poveri marziani
di Mario Pirani

Nell´affettuoso saluto in onore di Rita Levi Montalcini, in occasione del suo centesimo genetliaco, il Presidente della Repubblica ha aggiunto nel finale una piccola frase, di cui a molti sarà sfuggita l´importanza.
Giorgio Napolitano ha detto testualmente: «Cara amica, le auguriamo di tutto cuore successo per il suo progetto di ricerca, successo per le sue creature, la Fondazione Levi Montalcini e l´Ebri, un istituto al quale sono certo che i poteri pubblici, se necessario lo stesso Parlamento, non faranno mancare le risorse indispensabili per conseguire risultati importanti».
È opportuno spiegare il retroscena dell´autorevole intervento. Esso si riferisce al fatto che l´Ebri, l´European Brain Reserche Institute, il centro di ricerche messo in piedi nel 2004, tra generali plausi e confortanti promesse, dalla Levi Montalcini è stato lasciato totalmente privo di mezzi per funzionare e rischia ogni giorno la chiusura. Eppure le premesse e i primi passi furono attraenti: alla base vi era l´idea di creare un piccolo fulcro di eccellenza di tipo europeo per gli studi sul cervello con tecniche biomolecolari e elettrofisiologiche e per portare avanti la scoperta del fattore Ngf. Venne pubblicato un bando sulle grandi riviste scientifiche internazionali, con offerte di remunerazioni di livello europeo, fatto senza precedenti in Italia. Vennero assunti i primi ricercatori (il pieno organico ne contempla 20, più il personale tecnico e amministrativo). Per la sede un istituto privato di Roma, il S. Anna, concesse in comodato uno spazio di 2300 mq nella sua area di ricerca, chiedendo però una partecipazione alle spese di condominio pari a 700.000 euro l´anno. Una spesa alta ma affrontabile se il piano, che prevedeva in partenza un finanziamento di 20 milioni, e le promesse ministeriali avessero trovato riscontro nella realtà. Invece trascorsi cinque anni sono entrati poco più di 3 milioni. Un milione stanziato in una vecchia Finanziaria è andato, invece, come si dice in gergo amministrativo, in perenzione, in base alla recente norma secondo la quale le somme destinate ad un progetto, se questo non è portato a termine in tre anni, rientrano nelle disponibilità del Tesoro. Ma quale ricerca scientifica è sicuramente completabile in tre anni? Insomma tra impegni dismessi, clausole capestro, sordità politica l´Ebri è rimasto praticamente a secco. Le attività scientifiche sono state quasi esclusivamente finanziate grazie alle sovvenzioni (grant) individuali ottenute dai giovani ricercatori. Ora siamo agli sgoccioli e non c´è quasi più un euro per andare avanti. Al minimo occorrerebbe un finanziamento di 5 milioni per ripartire.
Chi farà la carità ad uno dei più illustri rappresentanti della scienza italiana? Tanto per fare un paragone cinque milioni è all´incirca lo stipendio annuo di un calciatore di media bravura.
Questa è la condizione della ricerca scientifica in Italia. Me lo conferma un´altra sconsolata segnalazione: uno dei pochi successi internazionali raggiunti negli ultimi tempi da parte dell´Agenzia Spaziale Italiana e dai ricercatori della Facoltà di Ingegneria della Sapienza consiste nella partecipazione ai lanci di due satelliti, uno europeo, l´altro con la Nasa, per la ricerca dell´acqua su Marte. All´Italia era stata assegnata la realizzazione, ad opera di Thales-Alenia, dei due radar, il Marsis e lo Sharad, operanti sotto e sopra la superficie del pianeta rosso. Il lancio è riuscito, i radar stanno scaricando una messe abbondantissima di dati. Negli altri Paesi li stanno interpretando e studiando. Da noi alcuni meritevoli giovani studiosi, grazie a borse singole di studio da Finmeccanica e dalla Sapienza, fanno qual che possono, ma la gran mole di lavoro che occorrerebbe e giustificherebbe gli investimenti iniziali resta inevasa. Non ci sono più soldi e non importa a nessuno. La ricerca non fa audience.

Repubblica 27.4.09
Un raffronto tra il signore di tebe e il biblico Giuseppe
I crimini di Edipo Re
Quanto dista il mito dalla bibbia
di René Girard

Due "eroi" simili: ma il sovrano incestuoso è colpevole e basta mentre il figlio di Giacobbe smonta ogni inganno
L´antico testamento si oppone sempre in modo consapevole alle religioni mitologiche
Prendiamo "Caino e Abele" e "Romolo e Remo": il fratricidio è visto in modo quasi opposto

La città di Tebe è devastata dalla peste. Un oracolo religioso annuncia che il responsabile del disastro è un unico individuo che vive in città: egli ha offeso gli dei uccidendo suo padre e sposando sua madre. Si cerca il colpevole e un colpevole si trova: nientedimeno che il nuovo re. Egli non sapeva di aver commesso gli orrendi crimini che pure aveva commesso. Da bambino era stato abbandonato dai suoi genitori a causa di un oracolo, ancora, lo stesso che aveva previsto quello che più tardi sarebbe avvenuto, che cioè il bambino avrebbe un giorno ucciso suo padre e sposato sua madre. Diventato adulto, egli torna a Tebe da perfetto sconosciuto, e il vaticinio si avvera. Ancora una volta il risultato è l´espulsione di Edipo dalla sua comunità.
Esaminando questo mito da vicino, vi si scoprono alcune corrispondenze con la storia biblica di Giuseppe. Giuseppe ha dodici fratelli, Edipo nemmeno uno, ma entrambi vengono respinti dalle loro rispettive famiglie, Edipo dai genitori, Giuseppe dai fratelli. In entrambe le storie l´eroe viene espulso: prima dalla comunità a cui appartiene per diritto di nascita, poi dalla comunità che l´aveva adottato.
Sia Edipo, dopo il suo ritorno a Tebe, che Giuseppe dopo che fu portato in Egitto si potrebbero definire immigranti di successo. Grazie alla loro abilità nell´interpretare oscuri enigmi entrambi riescono a risolvere seri problemi e a diventare di conseguenza grandi leader. Edipo viene incoronato re di Tebe e Giuseppe nominato qualcosa come primo ministro dell´Egitto. Entrambi gli eroi si trovano a esercitare il loro potere contro un disastro naturale. Per Edipo si tratta di un´epidemia di peste; per Giuseppe di una devastante carestia.
Edipo è colpevole di parricidio e incesto. Giuseppe non commette questo tipo di crimini, ma la sua carriera è macchiata da un incidente che rassomiglia all´incesto di Edipo: la moglie del suo padrone e benefattore egizio accusa falsamente il giovane Giuseppe di aver tentato di sedurla. Il marito di lei aveva accolto a corte e trattato Giuseppe come un figlio ed egli avrebbe dovuto rispettarla come avrebbe fatto con la sua stessa madre. L´accusa richiama in qualche maniera alla mente l´incesto con la madre. Siccome Giuseppe è straniero e la donna egizia, i suoi compatrioti credono a lei e Giuseppe finisce per qualche tempo in galera.
Le corrispondenze esistono, e credo siano da evidenziare più che da tacere, se vogliamo arrivare a cogliere la differenza, quella che ha davvero un´enorme importanza.
Edipo fin da bambino è potenzialmente colpevole del parricidio e dell´incesto che commetterà successivamente. I suoi genitori hanno tutte le buone ragioni per abbandonarlo. Più avanti i tebani avranno anch´essi un buon motivo per espellere Edipo una seconda volta, dato che la sua presenza tra loro aveva provocato un´epidemia di peste.
Nel caso di Giuseppe le cose stanno molto diversamente. I suoi fratelli non hanno alcun valido motivo per eliminarlo, sono semplicemente gelosi di lui. Nemmeno gli egizi avevano motivo di incarcerare Giuseppe: il racconto biblico riferisce che era la moglie del suo benefattore a essere gelosa di lui. (...)
Nelle due storie, due eroi simili affrontano simili circostanze con conseguenze non tutto dissimili. Ma se guardiamo al ruolo dell´eroe all´interno della storia, l´interpretazione del mito e l´interpretazione della Bibbia si collocano ai poli opposti.
Si può affermare che le comunità a cui appartenevano Edipo e Giuseppe abbiamo agito giustamente nell´espellerli? Credo che questa sia la domanda predominante in entrambi i testi, ma che rimane implicita nel mito di Edipo, poiché la risposta silenziosa del mito è sempre sì. Quello che Edipo dovrà soffrire è la giusta punizione per i suoi crimini.
Nella Bibbia la domanda si fa del tutto esplicita, perché la risposta è un riecheggiante no. Quello che Giuseppe dovrà soffrire è un´ingiusta punizione. Egli non è che una vittima della gelosia. (...)
La storia biblica mette in ridicolo una dopo l´altra le prove senza senso che nel mito vengono presentate contro il capro espiatorio e le sostituisce con argomentazioni in favore della vittima. La mitologia ripudiata è ripudiata come menzogna. Tutte le volte che Giuseppe diventa vittima, dei suoi fratelli o degli egizi, le accuse contro di lui vengono denunciate come falsità prodotte dall´invidia o dall´odio. Abbiamo dunque sia il racconto dei fratelli al padre, sia la denuncia della falsità di quel racconto. I fratelli si sbarazzano di Giuseppe ma raccontano al padre che il giovane è stato sbranato da una bestia selvaggia. In molti miti il processo di vittimizzazione del capro espiatorio è descritto come un attacco da parte di un branco di animali a caccia o da parte di un singolo animale selvaggio. La storia raccontata dai fratelli è, a mio parere, un mito di questo tipo.
La storia di Giuseppe non è la sola nella Bibbia a ripudiare l´inganno e la violenza del mito. Potrei scegliere altri racconti biblici e mostrare che la differenza assolutamente essenziale di cui ho parlato è sempre presente. Denunciano il credo su cui si basa la mitologia come un sistema di rappresentazione coeso e crudele: l´eroe mitico è colpevole e viene giustamente punito anche se si tratta di un dio e anche se alla fine riesce a ripristinare l´ordine delle cose. L´eroe biblico, invece, viene punito ingiustamente, perché è innocente.
La Bibbia si oppone in modo perfettamente consapevole alle religioni mitologiche. Le taccia di idolatria, e credo che la rivelazione della natura fallace del sistema vittimario all´interno della mitologia sia parte essenziale della lotta biblica contro l´idolatria. Confrontiamo ad esempio la storia di Caino e Abele con il mito di Romolo e Remo.
Nella storia di Caino e Abele l´uccisione di un fratello da parte dell´altro è presentata come un crimine e simultaneamente come l´atto fondatore di una comunità.
Nella storia dei gemelli romani questo atto fondatore non può essere considerato un crimine, è l´azione legittima di Romolo. Il punto di vista della Bibbia è lontanissimo da quello del mito.
(Traduzione di Eliana Crestani)
Copyright 2009 Pier Vittorio e Associati, Transeuropa, Massa, www.transeuropaedizioni.it

Repubblica 27.4.09
Beato Angelico
Lo splendore della sua luce
di Antonio Pinelli

A 550 anni dalla morte, una rassegna in Campidoglio esalta il legame del "santo frate" con l´umanesimo rinascimentale

ROMA. Promossa dal Comitato nazionale per i 550 anni della morte dell´Angelico, la mostra che si è inaugurata in Campidoglio giunge con quattro anni di ritardo («Beato Angelico. L´alba del Rinascimento», Palazzo Caffarelli, a cura di A. Zuccari, G. Morello e G. De Simone, fino al 5 luglio). Ma puntualità a parte, va dato atto ai promotori di aver realizzato la maggiore esposizione dedicata all´Angelico in Italia, dopo quella ormai mitica che si tenne in Vaticano e a Firenze nel 1955, in occasione del V centenario della morte del grande frate pittore.
Soprattutto va riconosciuto al Comitato di aver concepito questa rassegna come il punto di approdo di un percorso pluriennale costellato di iniziative meritorie, quali il Convegno di studi tenutosi a Roma nel 2006, il finanziamento di restauri condotti su opere presenti in mostra (il Trittico della Galleria Corsini di Roma e la predella della Pala di Bosco ai Frati) ed infine la campagna di indagini riflettografiche effettuate dal Laboratorio della Normale di Pisa su un significativo campione di opere dell´Angelico, che rivelandone la preparazione grafica soggiacente alla superficie dipinta (il cosiddetto underdrawing) apportano nuove conoscenze sulle modalità operative del pittore, confermandone quella nitida sicurezza di disegno (rarissimi i pentimenti) di cui già tessevano le lodi gli scrittori d´arte suoi contemporanei.
Guido di Piero - questo al secolo il nome dell´Angelico - nacque a Vicchio nel Mugello tra il 1395 e il 1400, e si avviò precocemente alla pittura, tanto che già nel 1418 è documentato con la qualifica di magister. Poco dopo prese i voti ed assunse il nome di Fra´ Giovanni da Fiesole, pur continuando ad esercitare infaticabilmente quella professione di pittore e miniatore, che lo impose ben presto come uno dei massimi protagonisti della scena artistica del primo Rinascimento. Egli fu attivo soprattutto a Firenze, dove il convento domenicano di San Marco custodisce un così gran numero di sue testimonianze figurative da esser divenuto una sorta di suo Museo personale, e nella Roma dei papi Eugenio IV e Niccolò V, dove si recò a più riprese per dipingere in Vaticano, e passò a miglior vita nel 1455, mentre era intento ad affrescare il chiostro di S. Maria sopra Minerva, la chiesa domenicana dove fu sepolto con tutti gli onori.
Fu una monografia di Argan, anch´essa del 1955, a dare l´ultima spallata al mito romantico e ottocentesco del «santo frate» che dipingeva visioni paradisiache in preda ad estasi mistica. Un mito duro a morire, tanto che una ventina d´anni fa il pittore ha beneficiato dell´inflazione promossa da Giovanni Paolo II, ottenendo il crisma dell´ufficialità vaticana a quel titolo di Beato di cui l´aveva gratificato l´Ottocento nazareno e preraffaellita.
Il succo del pensiero di Argan sull´argomento è che non si tratta di mettere in dubbio la profonda religiosità del frate pittore, ma di diradare quell´alone abbagliante di misticismo, che a partire dall´appellativo di Angelico (come il domenicano San Tommaso, «doctor angelicus») donatogli da un confratello poco dopo la sua morte e dalla definizione di pittore «al ben ardente» coniata da Giovanni Santi, padre di Raffaello, in un crescendo che passa attraverso il ritrattino vasariano di un Fra´ Giovanni che dipingeva solo dopo aver pregato e si commuoveva davanti ai propri Crocifissi dipinti, per culminare negli «sfoghi del cuore di un monaco» di Wackenroder o alle beatificazioni preraffaellite di Rio e John Ruskin, finiva per ottenebrare la sostanza rinascimentale dell´arte angelichiana, ed in particolare la sua perfetta dimestichezza con i teoremi della prospettiva.
Quello del frate - sosteneva Argan - è un umanesimo cristiano, un rinascimento in chiave tomista, che non ignora la rivoluzione prospettica e attraversa anche la sua fase «antiquaria», come dimostrano gli affreschi di quel gioiello rinascimentale che è la Cappella Niccolina in Vaticano, in cui tra citazioni classiche e solenni cerimoniali liturgici ambientati in scenari architettonici che evocano le mura aureliane e le basiliche paleocristiane, Fra´ Giovanni pronuncia la sua più alta ed eloquente «orazione latina».
Oggi, pur avendo fatto tesoro di questa decisiva «apertura» arganiana, gli studi di cui questa mostra vuol essere il compendio espositivo puntano giustamente a valorizzare più che il legame di Angelico con la «rivoluzione» umanistica di Masaccio e Donatello, quello con il «riformismo» umanistico di Masolino e Ghiberti. Un riformismo che non ignora l´Antico né la prospettiva, ma nemmeno taglia del tutto i ponti con il Medioevo. Studi che valorizzano gli scambi reciproci tra la pittura angelichiana e quella fiamminga di Van der Weyden e di Jean Fouquet. E che nel peculiare luminismo del frate pittore, in quello splendore metafisico di una luce che non si limita a modellare le forme dall´esterno, ma ne accende misticamente i colori gemmei dall´interno, individua uno dei fondamenti della «pittura di luce» del Rinascimento, quella tendenza che passa attraverso Angelico e Domenico Veneziano, per approdare nella metafisica sacralità prospettica dell´arte di Piero della Francesca.