mercoledì 29 aprile 2009

l’Unità 29.4.09
L’imperatore è nudo
di Conchita De Gregorio

La signora Berlusconi si è innervosita, come darle torto. «Ciarpame senza pudore in nome del potere». Parla delle candidate scelte da suo marito il presidente del Consiglio per le prossime elezioni europee. «Qualcuno ha scritto che tutto questo è a sostegno dell’imperatore. Condivido». Chissà se hanno raccontato anche a lei la storia delle farfalline d’oro appese al collo delle ragazze devote e gentili, quelle chiamate a rallegrare le feste. Tutta Italia ne parla. Di certo ha saputo delle notti di suo marito in discoteca, a Napoli da una debuttante. «Una notizia che ha sorpreso molto anche me. Non è mai venuto a nessun diciottesimo compleanno dei suoi figli pur essendo stato invitato». In un paese qualunque sarebbe un conflitto coniugale. Nell’Italia del ciarpame senza pudore è un caso politico, essendo la moglie dell’imperatore l’unica ancora in grado di dire con una certa risonanza mediatica: è nudo. Vedremo come andrà a finire, se con una nottata a sorpresa con danza del ventre a Marrakesh come l’ultima volta (il cinquantesimo della signora) dopo il dispiacere causato da una signorina oggi famosa e riverita. Che le vicende coniugali di Silvio Berlusconi abbiano rilevanza per la democrazia, che siano l’unico ostacolo in cui il premier rischia di inciampare è un serio motivo di riflessione. Questo è, bisognerà pure cominciare a trarne le conseguenze. L’Udc di Casini in affanno nella corsa alle veline candida Emanuele Filiberto di Savoia reduce dal successo di «Ballando sotto le stelle». A ciascuno il suo. La moglie non avrà da ridire.
Umberto De Giovannangeli ha avuto in anteprima la testimonianza di chi ha visto le centinaia di immagini finora coperte da segreto che testimoniano come il «protocollo di tortura» sui prigionieri di guerra degli Stati Uniti di Bush sia stato fino a pochi mesi fa un manuale adottato nei centri di detenzione Usa in tutto il mondo (Iraq, Afghanistan, Guantanamo): esecuzione simulata con pistola alla tempia, tecnica di annegamento con acqua su benda che copre naso e bocca, detenuti nudi al guinzaglio, assalto di cani. Non solo Abu Ghraib, molto di peggio e di più. Le foto che hanno fatto il giro del mondo - quelle della soldatessa che tiene al guinzaglio un detenuto, quelle dell’«albero di Natale» - sono solo una piccola parte del repertorio che i soldati americani nel mondo sono stati tenuti a seguire. Non certo per loro capriccio o particolare ferocia, come al principio si è cercato di sostenere, ma per rispetto di un codice di tortura ben noto al Pentagono e alla Cia. Obama svela ora quei metodi e quelle immagini, le foto saranno rese pubbliche il 28 maggio. Le associazioni umanitarie chiedono che sia tolta l’impunità per mandanti ed esecutori, il premio Nobel Paul Krugman vuole che sia istituita una commissione d’inchiesta. Intanto leggiamo e fin da ora guardiamo a occhi aperti.
Igiaba Scego e Gabriele Del Grande raccontano nell’inchiesta di oggi i percorsi paralleli di somali e italiani. Pubblichiamo i disegni e le poesie dei giovani arrivati dall’Africa. Igiaba li ha incontrati: «Dagli anni Settanta, quando mio padre andava alla stazione Termini per vedere gli amici, non è cambiato niente. Viviamo nei luoghi che danno l’illusione di poter tornare indietro in un paese senza guerra».

Repubblica 29.4.09
"Mio marito, come Napoleone"
di Dario Cresto-Dina

Lo strappo politico della first lady "Mio marito come Napoleone"
La famiglia, i gossip: così è nata l´ultima rottura

Uno sfregio familiare. La risposta è un attacco politico. Come due anni fa, quando, dopo i complimenti di Berlusconi alla Carfagna («Se non fossi sposato, ti sposerei»), Veronica scrisse a Repubblica spiegando che lei non voleva essere la metà di niente.
Anche questa volta le sue parole all´Ansa sembrano concordate con i figli, soprattutto là dove, commentando la partecipazione del presidente del Consiglio alla festa di compleanno di una ragazza napoletana, Veronica Lario manifesta uno stupore che è una stilettata: «Che cosa ne penso? La cosa ha sorpreso molto anche me, anche perché non è mai venuto a nessun diciottesimo compleanno dei suoi figli pur essendo stato invitato».
Non pronuncia le parole "mio marito". Mai. Una scelta precisa dietro alla quale c´è una nuova rottura. Una bufera davvero inattesa. «Mi spiace che Veltroni si sia dimesso. Mi sembra che il centrosinistra non ci sia più», mi aveva detto un mese fa a Macherio Veronica Lario. Poi aveva aggiunto: «Mio marito insegue lo spirito di Napoleone, non quello del dittatore. Il vero pericolo è che in questo paese la dittatura arrivi dopo di lui, se muore la politica come temo stia succedendo». Voleva dire che il Cavaliere stava correndo su una strada senza ostacoli. Senza opposizione. Che il suo obiettivo era il Quirinale. Scherzando le avevo fatto notare che la paura più grande del premier poteva essere ancora lei. Lei e l´effetto Veronica. «Le cose vanno un po´ meglio - aveva risposto -. Io faccio soltanto la nonna, seguo Alessandro, il bimbo di Barbara e devo riconoscere che anche mio marito si è innamorato di lui. Trascorre ore a farlo giocare, spesso anche da solo».
Aveva ribadito che le voci di divorzio erano infondate, ripetendo ciò che aveva spiegato un anno prima: «Potrei dire che ci sto pensando da dieci anni e che sono lenta a prendere le decisioni. Non avere compiuto questo passo ha dato risultati molto positivi per i miei figli. Ora sono serena, non ho pensieri di questo tipo. Voglio stare fuori da tutto e non fare nessun tipo di dichiarazioni». Aveva preferito parlare della crisi, dei contrasti tra Tremonti e Draghi sugli interventi anti-recessione («Chi sbaglia dovrà dimettersi, credo»), dell´azione del governo che non la convinceva fino in fondo. Delle polemiche sul testamento biologico: «La tecnica oggi ci impone dubbi più grandi di noi». Della lotta di Beppino Englaro: «È stato linciato. Non doveva essere permessa una cosa del genere».
Insomma, era serena. Fino a ieri sera. A farla scattare sono state le critiche sulle liste elettorali del centrodestra per le europee avanzate dalla Fondazione "Fare futuro" e l´articolo di questo giornale sulla notte napoletana del premier. Veronica è scesa in campo, trasferendo la dignità sua e dei suoi figli dentro il teatro della politica. Come in quel giorno di fine gennaio di due anni fa. Quarantotto righe che fecero il giro del mondo: «Con difficoltà vinco la riservatezza che ha contraddistinto il mio modo di essere nel corso dei 27 anni trascorsi accanto a un uomo pubblico, imprenditore prima e politico illustre poi, qual è mio marito. Ho affrontato gli inevitabili contrasti e i momenti più dolorosi che un lungo rapporto coniugale comporta con rispetto e discrezione. Ora scrivo per esprimere la mia reazione alle affermazioni svolte da mio marito nel corso della cena di gala che ha seguito la consegna dei Telegatti, dove, rivolgendosi ad alcune delle signore presenti si è lasciato andare a considerazioni per me inaccettabili».
Una festa, una donna. Mara Carfagna. Veronica Lario continuava così: «Sono affermazioni che interpreto come lesive della mia dignità, affermazioni che per l´età, il ruolo politico e sociale, il contesto familiare (due figli da un primo matrimonio e tre figli dal secondo) della persona da cui provengono, non possono essere ridotte a scherzose esternazioni. A mio marito e all´uomo pubblico chiedo quindi pubbliche scuse, non avendone ricevute privatamente». E ancora: «Ho sempre considerato le conseguenze che le mie eventuali prese di posizione avrebbero potuto generare a carico di mio marito nella sue dimensione extra familiare e le ricadute che avrebbero potuto esserci sui miei figli. Questa linea di condotta incontra un unico limite, la mia dignità di donna che deve costituire anche un esempio per i propri figli, diverso in ragione della loro età e del loro sesso. Oggi nei confronti delle mie figlie femmine, ormai adulte, l´esempio di donna capace di tutelare la propria dignità nei rapporti con gli uomini assume un´importanza particolarmente pregnante, almeno quanto l´esempio di madre capace di amore materno che mi dicono rappresento per loro».

Repubblica 29.4.09
Berlusconi: "Voterò sì al referendum"
Il premier risponde al Pd: "La Costituzione si può cambiare senza opposizione"
di Gianluca Luzi

VARSAVIA - Berlusconi voterà sì al referendum per modificare l´attuale legge elettorale. «Sì certo. La risposta è ovvia. Il referendum dà un premio di maggioranza al partito più forte e vi sembra che io possa votare no?». Nella hall dell´albergo che lo ospita a Varsavia per il vertice italo-polacco, il presidente del consiglio per la prima volta dichiara esplicitamente che al referendum del 21 giugno per abolire il Porcellum non solo andrà a votare - e questo già lo aveva detto - ma che il suo voto sarà affermativo. Di fronte alla domanda di un giornalista, per un attimo il premier sembra volersi trincerare dietro il segreto dell´urna, ma subito dopo, e senza neppure essere incalzato da una successiva domanda, rende esplicita la sua posizione: «Nella domanda c´è la risposta. Certo, va bene tutto, ma non si può pensare di essere masochisti». Quindi «voterò sì». Del resto, «non abbiamo posto noi il problema, ma puoi domandare all´avvantaggiato di votare no per un vantaggio che gli altri gli regalano e potrebbe essere confermato dal popolo?». Dopo aver "regalato" alla Lega la rinuncia all´election day, spostando il referendum al 21 giugno, una data che mette quasi certamente a rischio il raggiungimento del quorum, con questa sua dichiarazione esplicita sull´intenzione di votare sì, il presidente del consiglio si rende perfettamente conto di toccare un nervo scoperto della Lega che potrebbe provocare una reazione molto irritata di Bossi e dei suoi ministri. Berlusconi si aspetta che la Lega non la prenderà tanto bene: «E ci credo, - risponde infatti a chi gli obietta che la Lega reagirà male - se io fossi nei loro panni non sarei contento». Berlusconi replica anche negativamente al segretario del Pd Franceschini che lo aveva esortato a prendere un impegno per non cambiare la Costituzione con i soli voti della maggioranza senza l´accordo dell´opposizione. «Non c´è un solo articolo nella Costituzione che dice che è necessario il concorso dell´opposizione» per modificare la Carta costituzionale, rilancia il presidente del consiglio da Varsavia. Certo, aggiunge il premier, «la maggioranza è sempre aperta ad una discussione e a un confronto con l´opposizione», ma «la Costituzione indica essa stessa come debba essere cambiata, quali maggioranze debbano esserci, le formule dei voti successivi in Parlamento e poi, alla fine, ci sono i referendum abrogativi. Tutto è quindi previsto.
Non vedo - sottolinea Berlusconi - come si possa pensare ad una innovazione per la modifica della Costituzione che non è nella Carta stessa». E poi, obietta Berlusconi a Franceschini, «mi risulta strano che arrivino certe richieste proprio da loro che quando erano al governo hanno cambiato il titolo V della Costituzione con soli 4 voti di maggioranza». Un gesto che non è stato «apprezzato» dall´attuale maggioranza.
Infine un accenno ad Acerra: "Sono stato a Napoli perché ero preoccupato per tutta una serie di ritardi sulle gare per i termovalorizzatori e soprattutto per il fatto che si fanno progetti diversi rispetto ad Acerra» ha detto Berlusconi. A suo avviso in questo modo «si butta via tanto tempo per fare un nuovo progetto quando già c´è un impianto, come quello di Acerra, che funziona benissimo e che dà polluzione vicino allo zero».

Repubblica 29.4.09
Un cittadino su due passa da una religione all’altra almeno una volta E lo fa intorno ai 24 anni. Lo rivela uno studio realizzato a Washington
Così l’America diventa il Paese che cambia Dio
di Vittorio Zucconi

Da cattolici a episcopali, da avventisti a battisti, e i luterani migrano alla Chiesa Romana

È irrequieto il gregge, e smarrite le pecorelle, nell´immenso ovile della cristianità nord americana. Sotto la coperta di una fede cristiana che si estende rassicurante come in nessun´altra nazione occidentale e avvolge genericamente il 75% dei cittadini, 230 milioni di anime e corpi che qui si professano credenti, le affiliazioni religiose cambiano con disinvoltura e senza grandi traumi.
È una continua transumanza di cattolici che divengono episcopali, avventisti che si uniscono ai battisti, luterani che abbracciano Santa Romana Chiesa, con un fedele su due che cambia altare almeno una volta nella vita e uno su cinque che abbandona la fede nella quale fu allevato dai genitori prima di diventare adulto e compiere i 24 anni.
Della cristianità nella prima grande nazione nella storia moderna che sancì il principio della libertà assoluta di religione e della separazione fra stato e chiese, conosciamo da anni l´esplosione del fondamentalismo sudista cinicamente reclutato dai lupi della politica come blocco elettorale, l´invenzione del tele-evangelismo e la crescita delle mega chiese che raccolgono in salmodianti happening decine di migliaia di fedeli in strutture da palazzo dello sport olimpico. Ma se gli Stati Uniti si vantano di essere la più grande «christian nation» della Terra, quando gli istituti di ricerca come il Pew di Washington, frugano nel gregge che si proclama cristiano, si scopre che il rapporto con gli intermediari e i rappresentati del Dio della Bibbia è molto più disinvolto e pragmatico di come lo raccontino i luoghi comuni.
Gli americani fanno shopping religioso come fanno shopping tra partiti, candidati, automobili o detersivi, cercando la chiesa, il pastore, la confessione che meglio corrisponde ai loro desideri. Se la fede è un dono, la fede americana è un dono nel quale i compratori guardano bene dentro e che restituiscono facilmente al fornitore in cambio di un´altra, come i regali di Natale il giorno di Santo Stefano. Il 44% di chi si professa cristiano, appartiene a una confessione diversa da quella appresa da bambino. Due terzi di coloro che furono cresciuti come Cattolici o come Protestanti confessano di essere saltati da una parte all´altra dello steccato riformista o controriformista almeno una volta, spesso facendo andata e ritorno. Per delusione verso la fede ereditata, per comodità di culto soprattutto nelle regioni dove raggiungere una chiesa comporta viaggi di ore, per assecondare e seguire un coniuge che appartiene a un altro ovile. Moltissimi, il 50% dei convertiti ad altre confessioni, e il 70% degli ex cattolici divenuti protestanti, ammettono che la loro fede «non gli piaceva più».
E´ dunque un Dio su misura, un cristianesimo molto "pret-a-porter" quello che i 113 milioni di americani che frequentano regolarmente una chiesa (o una sinagoga, o una moschea, o un tempio buddista) cercano, spesso insofferenti della rigidità dottrinale. Se i cattolici romani restano la prima confessione organizzata per numero di aderenti, 66 milioni in 19 mila chiese, per il 23% della popolazione, meno dei protestanti, che sono il 51% ma divisi in dozzine di denominazioni, sono proprio loro quelli che più soffrono e pagano per il dogmatismo centralistico della Chiesa di Roma. Gli apostati cattolici citano i temi classici e dolorosi della controversia cattolica, l´aborto, l´omosessualità, il sesso prematrimoniale, l´incomprensibile nyet alla contraccezione, l´offensiva esclusione delle donne dal sacerdozio, il celibato imposto ai preti, come cause della loro disaffezione e del loro distacco dalla Gran Madre. Il 2,5% dei 66 milioni ha lasciato il cattolicesimo scosso dall´orrore dei preti pedofili e, soprattutto, dal comportamento pilatesco della gerarchia verso i colpevoli. Il numero di aderenti alla Chiesa di Roma rimane stabile soltanto grazie alle trasfusioni di immigrati dalle comunità e nazioni cattoliche a sud della frontiera, ora che l´Europa non fornisce più le legioni devote che fecero di città come Boston o Baltimora bastioni del cattolicesimo.
Sui documenti e sulle cifre delle ricerche demografiche, l´America, nella quale il 90% proclama di credere comunque in un "Ente" soprannaturale, sia esso il Dio degli Zoroastriani o l´Allah del Corano che conta 6 milioni di seguaci, rimane una nazione incomparabilmente religiosa rispetto all´Europa scristianizzata e laicizzata: nel giorno del Signore, alla domenica per i cristiani, il 41% degli abitanti si mette i vestiti della festa e si trascina in una chiesa, contro il 14% dei francesi e il 6% degli svedesi. E per quanto ambigui e contraddittori siano i simboli stampati su quelle banconote che mescolano allusioni evidenti alla Massoneria, alla quale appartenevano tanti dei Padri Fondatori nel ‘700, alla promessa del "Noi confidiamo in Dio" appiccicata dal presidente Eisenhower nel XX secolo, nessun altra nazione occidentale oserebbe stampare il nome di Dio sulla propria moneta. Ma l´incessante turnover di fedeli fra una confessione e l´altra segnala che anche in materia di religione, gli americani tendono a credere più in Dio che nei preti, a differenza di altri cristiani più opportunisti.
E ad applicare anche alla religione il principio fondante della loro nazione, che non è la Bibbia, ma è la libertà di scelta individuale che pure il cristianesimo proclama e che il cattolicesimo papista spesso teme.

Corriere della Sera 29.4.09
In crescita Dal 1990 al 2008 i non credenti sono passati dall’8 al 15%. E si moltiplicano iniziative, libri e gruppi di pressione dei «senza fede»
La «lobby atea» fa breccia nell’America
di P. Val.

WASHINGTON — In soli 6 anni, la Secular Student Alliance, un network di studenti atei, ha messo piede in ben 146 campus universita­ri. Nel 2003 era presente solo in una quarantina. Dopo lunga rivalità e tanti battibecchi ideologici, 10 orga­nizzazioni nazionali di atei, umani­sti e liberi pensatori hanno dato vi­ta insieme alla Secular Coalition of America, con l'obiettivo di avere a Washington un gruppo di pressio­ne, in grado di far lobby per la sepa­razione tra Stato e Chiesa. Mentre Fred Edwords, vecchio leader del movimento ateo, è finalmente riu­scito a creare la sua United Coali­tion of Reason, fondata al momen­to su 20 gruppi locali, ma con ragio­nevoli ambizioni di espandersi.
L'America scopre di avere i suoi atei. Non che non lo sapesse. Ma ora li vede uscire dall'ombra, orga­nizzarsi, far sentire la loro voce, avanzare sul sentiero del coming out, tipico di tante minoranze del crogiolo americano.
A dare il segnale che fosse giunta l'ora di venire allo scoperto, è stato probabilmente Barack Obama nel suo discorso inaugurale, il 20 gen­naio scorso: «La nostra eredità com­posita è una forza e non una debo­lezza. Siamo una nazione di cristia­ni e musulmani, ebrei, hindu e non credenti». Nessun presidente lo ave­va mai fatto.
Non credenti, una definizione for­te per la nazione che sulla sua mone­ta nazionale ha scritto «In God We Trust». Ma nondimeno, una realtà crescente. Dall'8% del 1990, la popo­lazione dei cosiddetti «nones» ne­gli Stati Uniti è aumentata fino al 15% del 2008. Non che tutti i non-credenti siano necessariamen­te atei militanti o agnostici, ma sicu­ramente sono un vasto bacino di pe­sca potenziale del nascente movi­mento ateista. Quando alcuni mesi fa Herb Sil­vermann, professore di matematica al College of Charleston, in South Carolina, aveva fondato la Secular Humanists of the Lowcountry, pen­sava piuttosto a un club per pochi intimi. «Non credete in Dio? Non siete soli», diceva il cartello, che an­nunciava le riunioni del gruppo a un indirizzo privato. Ma quando più di cento persone si sono presen­tate a uno degli incontri recenti, Sil­vermann e i suoi fedelissimi hanno dovuto affittare una sala. Oggi la Se­cular Humanists ha 150 aderenti. Non cosa da poco, in uno Stato cele­bre per essere la sede della Bob Jo­nes University (il più oltranzista dei college cristiani) e per avere un Con­gresso che un anno fa approvò una targa automobilistica cristiana con tanto di croce e scritta «I believe».
«Ma la cosa più importante è es­sere usciti dall'armadio», dice Sil­vermann al New York Times, spie­gando che la strategia degli atei è si­mile a quella del movimento per i diritti dei gay, che esplose quando scelse di venir fuori. I sondaggi sem­brano dargli ragione: secondo l'American Religious Identification Survey, gli americani che si defini­scono «senza religione» sono l'uni­co gruppo demografico in crescita nell'ultimo ventennio negli Usa.
Una grossa spinta a riconoscersi e organizzarsi, l'ha data lo sdegno per l'abbraccio incondizionato dell' Amministrazione Bush all'estrema destra religiosa. Iniziative locali, li­bri sull'ateismo improvvisamente diventati dei best-seller e donazio­ni per milioni di dollari hanno dato coraggio e fiducia a una minoranza, ancora di recente considerata nel migliore dei casi una concentrazio­ne di eccentrici, nel peggiore una pericolosa banda di senza Dio.
Uno dei gruppi più attivi alla Uni­versity of South Carolina è quello dei «Pastafarian» della cosiddetta Church of the Flying Spaghetti Mon­ster. Fra le loro attività preferite nel campus, quella di dare ai passanti «abbracci gratis dai vostri amici e vi­cini atei».


Repubblica 29.4.09
Colpito da una grave sindrome neurologica sembrava non fosse più in grado di suonare
Londra applaude il pianista malato salvato dalle note
di Enrico Franceschini

Dopo quindici anni di assenza dalle scene Van Blosse è tornato a esibirsi in pubblico

A sette anni era un bambino prodigio, a cui si pronosticava un futuro come uno dei più grandi pianisti del mondo. A ventun anni si sentiva un rottame, squassato dai tremiti incontrollabili della sindrome di Tourette, una grave malattia neurologica: dovette abbandonare il pianoforte nel mezzo di un concerto e la sua carriera sembrava finita. Da allora Nick Van Bloss ha lasciato l´Inghilterra, i familiari, i palcoscenici, ed è andato a chiudersi, in totale isolamento, in una vecchia casa fatiscente di Lisbona. Be´, non era del tutto solo: con lui c´era un pianoforte. E dalla casa, specialmente la notte, risuonavano le note di Beethoven e Bach, perché il pianista malato, senza più timore di deludere il pubblico, aveva ripreso gradualmente a suonare, soltanto per sé. L´unico contatto umano che aveva con l´esterno era un´anziana vicina portoghese, che gli depositava regolarmente sulla porta di casa una torta, da lei preparata.
Ma non era certo la musica a spingerla a regalare le torte a Nick: la donna era completamente sorda.
Sembra una storia da film, ne ricorda effettivamente uno, «Shine», in cui si raccontava la vera battaglia combattuta dal pianista australiano David Helgoff con una malattia mentale, e anche questa potrebbe trovare presto un regista ad Hollywood. Nel frattempo ha trovato il lieto fine: ieri sera, dopo quindici anni di assenza dalla scene, Van Bloss è tornato a suonare davanti a un pubblico, suonando alla Cadogan Hall di Londra, insieme alla English Chamber Orchestra, diretto da David Parry. Il pianoforte è stata la sua cura: una cura che non gli restituisce la guarigione totale, ma che gli permette di nuovo di suonare. «Dopo tanti anni in cui ho suonato per un unico spettatore, me stesso, torno a farlo davanti a una sala piena di gente, è un miracolo», dichiara il pianista al Times. Il miracolo della musica: appena Nick posa le dita sulla tastiera, il suo male scompare. «Di solito non c´è un momento in cui almeno un muscolo del mio corpo non stia contraendosi o contorcendosi», dice, calcolando che le scosse e i tic si ripetano mediamente 40 mila volte al giorno. «E´ come avere un alieno dentro di te, qualcosa che spinge e preme per uscire fuori. I muscoli si piegano, i denti si spezzano, gli occhi cominciano a dolermi. E´ piuttosto atroce». Poi comincia a suonare, e il dolore si arresta: «Tutto a un tratto avverto la meravigliosa sensazione della normalità», continua. «Immagino che i miei muscoli si stendano su una poltrona e vogliano godersi anche loro la musica».
Il piano, spiega Van Bloss, è per lui qualcosa di simile a una sorte di interruttore «acceso-spento»: quando lo tocca, la sindrome di Tourette si spegne; quando smette di suonarlo, si riaccende. Il Times ricorda che anche Mozart, secondo alcune supposizioni, soffriva della medesima malattia; e un eccezionale talento musicale è stato spesso collegato a particolari condizioni neurologiche. «Mi piace pensare di aver trasformato qualcosa di negativo in positivo», afferma il pianista. «La Tourette era il mio nemico, ma ho imparato ad accettare che la sindrome è anche ciò che mi ha reso il musicista che sono oggi. Penso di essere stato maledetto, ma di aver ricevuto anche una benedizione».

Repubblica 29.4.09
"Torniamo al pensiero forte"
Perché servono le utopie
"In difesa delle cause perse" il nuovo saggio del filosofo
di Slavoj Zizek

Tesi provocatoria: "Nonostante i crimini, l´aspirazione di redenzione dei totalitarismi può essere utile"
In tempo di crisi e rotture, si deve rischiare un Salto di Fede
La disperazione di chi ha combattuto i vecchi paradigmi estremisti

Il senso comune della nostra epoca ci dice che, rispetto alla vecchia distinzione tra doxa (opinione accidentale/empirica, Saggezza) e verità o, ancora più radicalmente, tra conoscenza positiva empirica e fede assoluta, si dovrebbe tracciare una linea tra ciò che si può pensare e si può fare oggi. Sul piano del senso comune, il punto più lontano a cui si può arrivare è un liberalismo conservatore illuminato: ovviamente non ci sono alternative praticabili al capitalismo; allo stesso tempo, lasciata a se stessa la dinamica capitalistica minaccia di minare le proprie fondamenta. (...) All´interno di questo orizzonte, la risposta non è né un liberalismo radicale alla Hayek, né un crudo conservatorismo, sempre meno aderente ai vecchi ideali dello Stato sociale, ma una miscela tra liberalismo economico e un minimo spirito «autoritario» di comunità (l´enfasi sulla stabilità sociale, i «valori» eccetera) che controbilanci gli eccessi del sistema - in altre parole ciò che hanno sviluppato i socialdemocratici della Terza Via, come Blair.
Questo è il limite del senso comune. Ciò che sta dietro di esso implica un Salto di Fede, una fede nelle Cause perse, Cause che, dall´interno dello spazio della saggezza scettica, non possono che apparire folli. E questo libro parla dall´interno di questo Salto di Fede. Ma perché? Il problema, ovviamente, è che in un tempo di crisi e rotture, la stessa saggezza empirica scettica, costretta nell´orizzonte della forma dominante del senso comune, non può fornire delle risposte, e dunque si deve rischiare un Salto di Fede. Questo passo è il passo da «io dico la verità» a «la verità stessa parla (in/attraverso di me)» (come nel «mathema» lacaniano del discorso dell´analista, in cui l´agente parla da una posizione di verità), sino al punto in cui posso dire, come Meister Eckhart, «è vero, e la verità stessa lo dice». Sul piano della conoscenza positiva, ovviamente, non è mai possibile raggiungere la verità o essere sicuri di averlo fatto - ci si può solo approssimare senza fine, poiché il linguaggio è in ultima istanza autoreferenziale, non c´è modo di tracciare una linea definitiva di separazione tra sofismi, esercizi sofistici, e la Verità stessa (questo è il problema di Platone). La scommessa di Lacan è, in questo senso, la stessa di Pascal: la scommessa della Verità. Ma in che modo? Non correndo appresso a una verità «oggettiva», ma basandosi sulla verità riguardo alla posizione da cui si parla.
Esistono solo due teorie che implicano e praticano una nozione così impegnata di libertà: il marxismo e la psicoanalisi. Sono entrambe teorie di lotta, non solo teorie sulla lotta, ma teorie esse stesse impegnate in una lotta: le loro storie non consistono in un´accumulazione di conoscenza neutra, sono al contrario segnate da scismi, eresie, espulsioni. (...) Normalmente ci si dimentica che i cinque grandi resoconti clinici di Freud sono al fondo resoconti di un successo parziale e di un fallimento finale; nello stesso modo, i più grandi racconti storici marxisti di eventi rivoluzionari sono racconti di grandi fallimenti (della guerra dei contadini in Germania, dei giacobini nella Rivoluzione francese, della Comune di Parigi, della Rivoluzione d´ottobre, della Rivoluzione culturale cinese). Una tale analisi dei fallimenti ci mette di fronte al problema della fedeltà: come riscattare il potenziale emancipatore di questi fallimenti evitando la doppia trappola dell´attaccamento nostalgico al passato e dell´adattamento un po´ troppo furbo alle «nuove circostanze»?
Il tempo di queste due teorie sembra concluso. Come ha affermato recentemente Todd Dufresne, nessun personaggio nella storia del pensiero umano ha commesso più errori rispetto a tutti i fondamentali della propria teoria di Freud - con l´eccezione di Marx, qualcuno potrebbe aggiungere. E infatti nella coscienza liberale le due teorie emergono come i maggiori «complici del crimine» del ventesimo secolo: com´era prevedibile, nel 2005, il famigerato Libro nero del comunismo, che elencava tutti i crimini comunisti, è stato seguito dal Libro nero della psicoanalisi, contenente l´elenco di tutti gli errori teorici e gli inganni clinici della psicoanalisi. Anche se in modo negativo, la profonda solidarietà tra marxismo e psicoanalisi è ora sotto gli occhi di tutti. Tuttavia, ci sono dei segnali che disturbano questo autocompiacimento postmoderno. Commentando la crescente risonanza del pensiero di Badiou, Alain Finkelkraut lo ha recentemente definito «la filosofia più violenta, sintomatica di un ritorno di radicalità e della crisi dell´antitotalitarismo»: un´onesta e sorpresa ammissione di fallimento del lungo e arduo lavoro di tutti i difensori «antitotalitari» dei diritti umani, che hanno combattuto contro «i vecchi paradigmi estremisti», dai nouveaux philosophes francesi ai sostenitori di una «seconda modernità». Ciò che sarebbe dovuto essere morto, liquidato, del tutto screditato, sta ritornando per vendicarsi. Questa disperazione è comprensibile: com´è possibile che questo genere di filosofia stia ritornando nella sua forma più violenta? La gente non ha ancora capito che il tempo di queste pericolose utopie è finito? La nostra proposta è di rovesciare la prospettiva: come affermerebbe Badiou nella sua originale maniera platonica, le idee vere sono eterne, sono indistruttibili, fanno sempre ritorno ogni qual volta vengano proclamate morte. Questo è sufficiente a Badiou per affermare nuovamente queste idee in maniera chiara, e il pensiero antitotalitario si mostra in tutta la sua miseria per ciò che realmente è, un esercizio sofistico privo di valore, una pseudo-teorizzazione delle paure e degli istinti di sopravvivenza più meschini e opportunisti, un modo di pensare che non solo è reazionario ma anche profondamente reattivo nel senso nietzschiano del termine.

Un paio d´anni fa, la rivista Premiere riportava un´inchiesta intelligente sul modo in cui i finali famosi dei film di Hollywood erano stati tradotti in alcune delle maggiori lingue non inglesi. In Giappone, il «Francamente, mia cara, me ne infischio» di Clark Gable a Vivien Leigh da Via col vento era reso con: «Mia cara, temo che fra di noi ci sia un piccolo malinteso» - un omaggio alla proverbiale cortesia ed etichetta giapponese. Al contrario, il cinese (nella Repubblica popolare cinese) traduceva il «Questo è l´inizio di una bella amicizia!» di Casablanca con «Noi due costituiremo ora una nuova cellula di lotta antifascista!» - essendo la lotta antifascista la priorità maggiore, ben al di sopra delle relazioni personali. Per quanto possa sembrare che questo volume ceda spesso ad affermazioni eccessivamente polemiche e «provocatorie» (cosa potrebbe essere più «provocatorio» oggi di mostrare una sia pur minima simpatia o comprensione per il terrore rivoluzionario?), esso pratica piuttosto uno spostamento nel modo degli esempi citati in Premiere: laddove la verità è che me ne infischio del mio avversario, dico che c´è un piccolo malinteso; laddove la posta in gioco è un nuovo condiviso campo di battaglia politico-teorico, può sembrare che io stia parlando di amicizie e alleanze accademiche. In questi casi, spetta al lettore risolvere il rebus che giace di fronte a lui.
(c) 2008 Traduzione di Cinzia Azzurra
Pubblicato in Italia da Ponte alle Grazie

Corriere della Sera 29.4.09
L’intervista «Non più riproponibili la confusione dell’Unione o l’autosufficienza»
D’Alema: congresso vero. Basta asse con Di Pietro
«Guida del Pd, sì a una sfida seria. Dividersi non è un dramma»
intervista di Maria Teresa Meli

ROMA — Presidente D'Alema, Berlusconi sembra la superstar della politica italiana, e il Pd, che fine ha fatto?
«Apparentemente sembra che Berlusconi occupi quasi per intero la scena della politica italiana e che un po' di fronda venga solo dall'in­terno dello stesso Pdl, in particola­re dalle personalità che si raccolgo­no intorno a Fini. E non c'è dubbio che Berlusconi cerchi in questo mo­mento di debolezza dell'opposizio­ne di allargare il suo insediamento non soltanto elettorale ma anche politico e culturale. Se però noi spingiamo lo sguardo oltre la cro­naca politica e l'indubbia capacità di Berlusconi di occupare la scena ogni giorno con una trovata nuo­va, la cosa che colpisce è che que­sto governo di fronte a una crisi co­sì drammatica non stia facendo as­solutamente nulla».
Fa propaganda elettorale, ono­revole D'Alema?
«No. Il governo galleggia sui pro­blemi del Paese senza affrontarne nessuno. Berlusconi è un uomo che ama il consenso. Preferisce re­gnare piuttosto che governare, da­to che governare l'Italia comporta il fatto di misurarsi con delle scelte che creano consensi ma, inevitabil­mente, anche dissensi. Nei 15 anni in cui è stato protagonista della vi­ta politica italiana non ha fatto nul­la di significativo. Non si ricorda una sua sola riforma importante. Le uniche riforme di un qualche si­gnificato, da quella delle pensioni alla privatizzazione delle grandi in­dustrie pubbliche, dalla riforma fe­deralista della Costituzione alle li­beralizzazioni, le ha fatte il centro­sinistra. E io credo che grazie a que­sto suo comportamento l'Italia pa­gherà un prezzo altissimo».
Veramente Berlusconi dice che stiamo meglio degli altri.
«Un'affermazione che non ha nessun fondamento: il calo del Pil è maggiore della media europea, l'inflazione pure. E la situazione della finanza pubblica è sempre più disastrosa. Anche questa sua idea che si possa affrontare ogni emergenza senza copertura finan­ziaria è sicuramente molto sugge­stiva e popolare, però bisogna sape­re che ha come corrispettivo il fat­to che il debito pubblico italiano sia spinto verso il 115,3 per cento del pil, quest'anno, e proiettato al 121,1 per cento nel 2010. Quindi, quando si uscirà dalla crisi e la ge­rarchia internazionale verrà ridise­gnata, rischiamo che il nostro Pae­se conti molto meno nell'econo­mia mondiale. Lo dico non perché io sia pessimista sulle potenzialità dell'Italia, ma perché sono preoccu­pato: non vedo una strategia e una azione coerente che dovrebbero puntare sulla riduzione delle dise­guaglianze e sulla promozione dell' innovazione, della ricerca e della formazione, cioè dei talenti di cui dispone il nostro Paese».
E il Pd intanto che fa?
«Ecco, il Pd non può non riparti­re da qui: dalla sfida con la destra sul governo del Paese. Il problema non è tanto fare il viso delle armi, come fa Di Pietro, che in questo senso è funzionale a Berlusconi. Se fai un versaccio al premier il risultato è che il 70 per cento sta con lui, solo il 10 con te, ma siccome Idv aveva il 4 loro sono contenti. Questa è una logica minoritaria. Significa scegliere per sé un ruolo eterno di com­primario, fare la spal­la a Berlusconi per i prossimi mille anni».
Ma Di Pietro vor­rebbe sostituirsi al Pd...
«Già, vede in noi più che in Berlusconi il suo avversario principale. La sua idea di sostituirci è del tutto vellei­taria, ma è pericoloso che in un mo­mento come questo si indichi co­me obiettivo principale quello di colpire il più grande partito d'oppo­sizione ».
Ma il Pd non dovrebbe ridefini­re il suo ruolo?
«E' per questo che ci vuole un congresso serio».
Anche a costo di dividersi?
«Dividersi non è drammatico. Al loro congresso i leader del Pdl si so­no divisi perché hanno detto cose diverse gli uni dagli altri. Un gran­de partito che vuole rappresentare il fulcro dell'alternativa di governo è un partito plurale, dove si discu­te, ma il problema non è questo, il problema è la qualità della discus­sione: non ci si può dividere sui gossip».
Un Pd «ridefinito» dovrà anche giocare la sfida delle riforme. Quali mandare in porto per pri­me?
«Innanzitutto ci vuole un drasti­co ridimensionamento dell’ipertro­fia del ceto politico. Se vogliamo re­stituire autorevolezza alla politica democratica dobbiamo puntare a una drastica riduzione del numero degli eletti a tutti i livelli: nel Parla­mento, nei consigli regionali, in quelli comunali. E' poi necessaria una rinnovata selezione del ceto politico. I meccanismi di selezione sono saltati: ci sono solo logiche plebiscitarie. I consigli comunali sono scelti dal sindaco, il Parlamen­to viene nominato da due, tre capi. Una forma di selezione è rappresen­tata dal collegio uninominale. Ma bisogna anche restituire ai partiti un loro profilo e una loro identità, uscendo dalla logica delle coalizio­ni forzose, perciò va tolto il premio di coalizione. In questo quadro io credo che si possa fare una grande riforma che preveda anche il raffor­zamento della stabilità dei governi con la sfiducia costruttiva e la pos­sibilità del premier di nominare e cambiare i ministri. Ma il fonda­mento di una riforma di questo ge­nere è una nuova legge elettorale, che secondo me deve essere di tipo tedesco. Senza una nuova legge elettorale non c'è nessuna riforma costituzionale possibile».
Tornando al Congresso, la scel­ta del segretario avverrà come l'al­tra volta: un candidato vero e tut­ti gli altri «finti »?
«Io penso che sarà un congresso competitivo, che ci saranno più candidature e che ci sarà una di­scussione politica».
E crede che il Pd decollerà al­meno questa volta?
«Il Pd deve rivendicare l'eredità dell'Ulivo e l'esperienza di gover­no. Bisogna costruire un partito ve­ro, radicato nella società, e struttu­rare una leadership. Lo stesso Ber­lusconi sa che senza Bossi, Fini e gli altri la sua leadership sarebbe più debole. Insomma, il progetto va rilanciato su basi assai più soli­de».
Alla festa dei suoi 60 anni, lei ha detto che vuole ancora avere un ruolo in politica. C'è chi so­spetta che lei voglia fare il segre­tario.
«Ho detto che non mi sentivo co­me Guglielmo il Maresciallo, prota­gonista di uno splendido libro di Georges Duby, che, sentendosi mo­rire, riunisce attorno a sé tutti gli amici e fa un bilancio della propria vita. A sessant'anni uno può anco­ra continuare a darsi da fare in poli­tica, anche senza necessariamente rivendicare per sé il bastone del co­mando ».
Al congresso dovrete anche de­cidere le alleanze future.
«Certo, dovremo sciogliere un nodo politico: non sono più ripro­ponibili né la confusione dell'Unio­ne, né l'autosufficienza del Pd e l'asse privilegiato con Di Pietro, che non avrebbe senso e che secon­do me non ne aveva molto nean­che allora. Dovremo quindi lavora­re intorno al progetto di un nuovo centrosinistra il cui fulcro sia il Pd. Questo sarà il nodo politico più im­portante della discussione congres­suale ».
Ultima domanda: che impres­sione le ha fatto Berlusconi che fe­steggia il 25 aprile?
«Certo, è un po' l'indice della si­tuazione triste del nostro Paese il fatto che questo debba essere salu­tato come un evento. Ma che lui fi­nalmente arrivi a riconoscere che le grandi forze antifasciste, com­presa la sinistra, hanno avuto il me­rito di contribuire alla liberazione del Paese è positivo. Ci sono voluti 15 anni perché partecipasse ai fe­steggiamenti del 25 aprile, può dar­si che tra altri 15 anni affronti an­che il tema del conflitto di interes­si... ».

l’Unità 29.4.09
«La mia sfida in musica per battere ogni pregiudizio sul podio e tra le note»
di Marcella Ciarnelli

Xian Zhang è una donna minuta di 36 anni. Fa un lavoro raro e straordinario. Dirige un’orchestra. È cinese, originaria di Dandong, a ridosso del confine coreano. La sua passione per la musica è cominciata molto presto. Aveva solo quattro anni quando cominciò a studiare il pianoforte. Poi fu indirizzata alla direzione perché la bacchetta era più adatta alle piccole mani di una ragazza sedicenne di piccola statura ma di grande talento.
Xian ha sfidato le regole. Ha fatto suo un lavoro “maschile” ma non ha rinunciato ad un destino di donna. Da tre mesi è mamma del piccolo Din, un bambino che è stato in palcoscenico anche prima di nascere, dato che la direttrice d’orchestra non ha rinunciato alla bacchetta fino a pochi giorni prima del parto ed ora è già pronta a ritornare sul podio. Un pancione in scena. Con tutta la tenerezza che un’immagine del genere può evocare. Ma anche la forza e la caparbietà di una giovane donna che è stata chiamata a guidare l’orchestra Verdi di Milano nel ruolo di direttore musicale. E questa sì che è una vera rarità.
In attesa di mettersi al lavoro per dare la sua impronta al cartellone di una fondazione che è riuscita a superare i problemi economici che ne avevano messo in dubbio la stessa sopravvivenza e che sembra già chiaro viaggerà su una linea che Xiang sintetizza in «più ritmo, più energia, più fuoco al suono dell’orchestra», la giovane direttrice d’orchestra si appresta ad un impegno per cui si dice «onorata e stimolata». Domani dirigerà nella sala Nervi in Vaticano il concerto che il presidente della Repubblica offre a Papa Benedetto XVI in occasione del compleanno del Pontefice da poco trascorso. Saranno presenti Giorgio Napolitano e il Papa e oltre settemila spettatori tra rappresentanti del governo italiano, alti prelati, gli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede, appassionati di musica. In programma opere di Haydin, Mozart e Vivaldi, «scelte assecondando le preferenze espresse dai due illustri spettatori che sono anche degli autentici appassionati», spiega Xian Zhang che non nega di essere «emozionata da questa grande possibilità». Sarà «un inizio non facile», un’occasione per cui «la pressione psicologica è forte». Ma anche un «evento speciale» che per la giovane direttrice ha il sapore di un nuovo debutto da affrontare con la stessa emozione e la voglia di fare al meglio come fu per il primo, ormai lontano sedici anni.
Dal primo concerto i successi sono stati innumerevoli. L’ultimo incarico l’ha vista “Associate Conductor” della New York Philarmonic. In precedenza ha lavorato negli Stati Uniti e in Europa. In Giappone e in Australia. Ovunque si faccia musica in modo eccellente. Ovunque ci sia chi comprende che la crescita e lo sviluppo in positivo passa per la comprensione della magia che una sinfonia è in grado di trasmettere.
Parla un po’ d’italiano la direttrice, una lingua studiata in omaggio alla passione per la musica del nostro Paese anche se poi preferisce conversare in inglese. Spiega di essere consapevole di aver fatto, per riuscire e per arrivare ai traguardi che ha raggiunto, «uno sforzo più arduo di quello che è richiesto ad un uomo». Ma allora anche in un campo così straordinario si può avvertire la sensazione che le pari opportunità siano ancora da venire? Da cittadina del mondo, Xian lascia intendere che ci sono realtà in cui qualche passo avanti è stato fatto. In Italia purtroppo ancora non è una consuetudine anche se la sua nomina alla guida della Verdi consente qualche speranza per un riconoscimento più costante e meno straordinario ai talenti e alle capacità delle donne. In qualunque campo. Ma è difficile. Anche quando hanno un consolidato curriculum la strada è sempre in salita. E c’è bisogno della massima collaborazione, a cominciare dalla famiglia «anche se si ha un fisico resistente» rivendicato con forza, a dispetto dell’apparenza minuta.
Qui viene evocato il ruolo del marito di Xian, che fa «lo scrittore e si occupa di finanza» e non si sottrae in alcun modo ad una concreta e fattiva collaborazione con la moglie con la bacchetta che ora ha anche un piccolino da accudire, cui deve dirigere la vita alternando pappe e sonnellini. Capita anche in camerino. «Coniugare maternità e lavoro è abbastanza complicato. Tanto più che noi viaggiamo molto. Per questo l’aiuto di mio marito è fondamentale e rende possibile mettere assieme vita privata e carriera». Con il nuovo incarico la direttrice dovrà abitare a Milano per almeno quattro mesi l’anno. «L’occasione per conoscere meglio una città importante per la cultura, la moda, la finanza. Sarà molto bello scoprire cosa significa fare musica in questa realtà». E cercare di condurre in porto la sfida di «far arrivare la Verdi tra le prime venti orchestre al mondo». Il feeling tra l’orchestra e lei è scattato in ottobre, alla prima direzione, quando era al settimo mese di gravidanza e dirigeva Sheherazade. Una sintonia immediata e inusuale. Così Luigi Corbani, direttore della Verdi, con il presidente Cervetti, decise di affidarle il prestigioso incarico che correrà, tra le altre, sulle note Stravinskij e Beethoven. La sua orchestra le ha mostrato il massimo di disponibilità, «nessuna diffidenza perchè sono donna, né curiosità». Il fatto è che lei è davvero brava e chi ama la musica non può trovarsi che in sintonia con lei. Il maestro Lorin Maazel alla giovane direttrice ha mostrato tutta la sua stima.
La strada da percorrere sarà lunga. I programmi potranno essere aggiornati e cambiati. Ma per il momento prevale su tutto l’impegno del concerto di domani. Quest’oggi sarà una lunga giornata di prove nella sala dall’acustica perfetta dovuta alla genialità architettonica di Pier Luigi Nervi. La direttrice dagli occhi a mandorla arriva alla prova forte di una invidiabile carriera che molti uomini non possono vantare.
«Ma le donne impegnate nella direzione di un’orchestra non sono ormai una rarità», ci tiene a precisare Xian Zhang quasi a volersi difendere da una curiosità eccessiva, quasi a voler evitare che il riconoscimento del suo talento si perda davanti all’eccezionalità del ruolo che le è stato affidato. In realtà il suo è ancora un lavoro eccezionale. «Su cento diplomati al conservatorio in direzione d’orchestra solo cinque sono donne, e una minoranza riesce ad arrivare sul podio», ha detto Nicoletta Conti che dirige complessi prestigiosi dal 1987, ed è stata scelta come assistente da Leonard Bernstein. E’ socio fondatore dell’Association International Femmes Maestros, l’associazione delle donne che hanno dedicato il loro talento alla bacchetta.
Negli Stati Uniti sono 52. In Europa il numero è molto più basso. Però Xian è lì a dimostrare con il suo nuovo incarico e con il concerto di domani che forse qualcosa sta cambiado anche nel mondo delle sette note. A testimoniarlo c’è l’esibizione sul podio di un’altra donna, e sempre alla presenza, del Pontefice. L’anno scorso, per le solenni celebrazioni del sessantesimo della Dichiarazione universale dell’uomo, è stata la volta dell’esuberante basca Imma Shara. Sì, qualcosa sta cambiando.

l’Unità 29.4.09
Oltre Gauguin e oltre il mito
L’arte in viaggio alla ricerca di sé
di Marco Di Capua

Oltre i confini. Al Mar di Ravenna Schifano e Matisse, Kokoschka e Dubuffet: le rotte dell’arte
L’antologica. E poi Boetti a Napoli: il mondo come sdoppiamento, metamorfosi e molteplicità

Orientalismo e primitivismo, il fiume Me Nam per Chini, la Hammamet di Klee, l’Oceania stilizzata di Matisse, ma anche il «primo dei nomadi», ossia Boetti: due mostre raccontano il connubio tra arte e viaggio.

In epoca di spostamenti in massa low cost (con massicce migrazioni di vita bassa, direbbe Arbasino) diventano corroboranti sia l’idea dell’artista Willem De Kooning, secondo cui se allunghi le braccia, beh è quello lo spazio che serve a un pittore, sia una convinzione di Doris Lessing: il miglior modo di viaggiare, anzi l’unico, è farlo dentro. Però ai tempi in cui non proprio tutti partivano e chi vagheggiava favolosi Orienti magari lo faceva sognando sul divano fin-di-secolo del suo salotto tra i Buddha di giada e i paraventi giapponesi, l’andarsene effettivo di Paul Gauguin, quella progressione fanatica e ascetica di addii verso il mai più del Paradiso Perduto risultò eclatante. Non muovetevi dalla Polinesia, non tornate per carità, Voi appartenete ormai alla schiera dei Grandi Morti! si raccomandò vivamente il suo amico Daniel de Monfreid. E Gauguin non tornò, consolidando per sempre il proprio mito, provando fisicamente, con la sua tensione a valicare confini e con la sua fine solitaria agli antipodi, che l’arte è sempre esotica. E questo anche se ti sposti da qui a lì, voglio dire. Il tema è immenso e le rotte degli artisti in viaggio sono scie numerose e luminose come costellazioni.
ORIENTALISMO & ESTETISMO
Ne hanno messo a fuoco una ventina quelli del Mar di Ravenna, con questa mostra fascinosa per forza che si intitola L’artista viaggiatore. Dentro ci sono: orientalismo e primitivismo, critica del colonialismo e culto dell’estetismo, elegantissime palme, mari blu, ore nostalgiche sul fiume Me Nam per Chini, incantevoli sere ad Hammamet per Klee, l’Oceania stilizzata in pura luce di Matisse (al quale andò meglio che, proprio allora, al Turista di banane di Simenon) l’Egitto di Kokoschka, pantere, leopardi e cannibali nella Nuova Guinea visitata dagli espressionisti tedeschi Nolde e Pechstein a caccia di emozioni forti come gli avventurieri sulla Via dei Re di Malraux, i deserti algerini di un Dubuffet alla scoperta di spazi puri e inumani. Poi si arriva a Schifano e Ontani, ma qui il diario di viaggio ha poi riletture e ricadute e atterraggi tra Piazza del Popolo e Bar della Pace. Là dove spesso passava a folate, come un rapidissimo vento, anche Alighiero Boetti. Lui era il primo dei nomadi, il trasandato principe dell’altrove, e merita una zona tutta per sé.
Gliela forniscono al Madre di Napoli con questa splendida antologica che si chiama Alighero & Boetti. Mettere all’Arte il Mondo 1993-1962. Dove già nel titolo c’è che: se oggi nell’arte contemporanea va di moda essere in 2 per diventare 1 Alighiero Boetti ha fatto di tutto per smettere di essere 1 e diventare una metà, oppure 2 (scrivo così perché so che amava i numeri) e anche molti di più se è per questo, perché amava lo sdoppiamento e la metamorfosi e la molteplicità; il mondo nasce dal ventre dell’arte, che però non sta nella pancia né nel cuore ma nella mente, nella sua rapidità e leggerezza di illuminazioni; in mostra si procede dagli ultimi lavori per arrivare ai primi, perché l’arte, e forse anche la vita, non sta mica su una linea retta ma è un cerchio.
Se volete che qualcuno vi racconti chi fosse questo leggendario, mercuriale torinese leggetevi la bellissima Vita avventurosa di AB che Pino Corrias pubblica in catalogo (Electa). Le opere, gli amori, le mogli, i figli, l’identificazione con un avo settecentesco che da domenicano diventa musulmano, l’amore per l’Oriente, per il sufismo, la scoperta dell’Afghanistan, l’hascish, gli arazzi e i tappeti di preghiera come finestre sull’universo, la mappatura del mondo, la noncuranza per il fare e l’esaltazione della prima intuizione, la consacrazione dei gesti plurali e anonimi, l’amore e il disdegno per il denaro, la velocità, sempre, anche nel morire a soli 54 anni, di cancro, nel 1994.
Lo spazio di questo viaggiatore è stato vastissimo ma anche singolarmente simile a quello indicato da Willem De Kooning: A&B distende le braccia, scrivendo, e sia nella mano destra che nella sinistra ha una biro. Ciò gli basta: quello è un mondo. Fatti i conti, il suo nome gemellare ci fa fare pace con un’epoca, del Concettuale imperante, che attraverso di lui smette di essere noiosa e petulante e brutta e diventa trasparente, geniale, tutta raccolta in un permanente stato di grazia. «Sai da dove vengono i miei ricami? - ha confidato una volta - da mia madre che li faceva fare per i corredi delle ragazze torinesi. E sai dove teneva i modelli di quei ricami? Dentro buste da lettere usate. Ricami, buste, francobolli… Viene tutto da lì». Una gestazione di opere tra pudori e memorie piemontesi? O tra laconiche riservatezze zen? Il talento è timido, ha spiegato Franca Valeri. E L’eleganza è frigida (Adelphi) già intitolò un suo incantevole diario giapponese Goffredo Parise.

martedì 28 aprile 2009

Repubblica 24.4.09
Bellocchio: "Vi mostro la donna che Mussolini chiuse in manicomio"


ROMA «Quando ho fatto Vincere non ho pensato affatto a Berlusconi né ho fatto similitudini tra Mussolini e l´attuale premier. Non penso che nasceranno polemiche, comunque saranno gli spettatori a decidere». Lo ha detto Marco Bellocchio, unico regista italiano a partecipare al concorso del Festival di Cannes con il suo nuovo lavoro Vincere che racconta la storia di Ida Dalser, madre di un figlio di Mussolini, Benito Albino. Ida Dalser morì in manicomio dove il Duce l´aveva fatta rinchiudere. La interpreta Giovanna Mezzogiorno, mentre Filippo Timi è sia Mussolini che suo figlio Benito Albino.
«Ida Dalser» spiega Bellocchio «è stata un´eroina piuttosto antipatica, una rompiscatole che voleva affermare a ogni costo la verità e i suoi diritti. Per questo l´ho amata e per questo ho voluto la Mezzogiorno, un´attrice che ha in sé quel carattere, quella determinazione». Vincere, prodotto da RaiCinema insieme ai francesi, «è incalzante, scandito su trent´anni di storia e segue questa donna dai 21 ai 50 anni. Racconto il manicomio, dove è rinchiusa, non in modo veristico ma come una prigione».
(ro.rom.)

l’Unità 28.4.09
Medici sotto controllo
Una professione fuorilegge?
L’arroganza della politica è una brutta malattia
Con queste norme diventiamo dei microcriminali
Forum all’Unità sulle norme che limitano e controllano il mestiere del medico. Intervengono Ignazio Marino Antonio Guglielmino Maurizio Marceca
e Adriana Turriziani


I rapporti tra una politica considerata troppo invasiva e i temi etici resi cruciali dalla velocità del progresso scientifico. Le difficoltà della professione sanitaria oggi in una società multirazziale, piena di paure, che una parte della politica cavalca per imporre nuove figure. Come il medico-spia, obbligato a denunciare i clandestini, o addirittura il “medico- assassino”, colui che, varato il ddl Calabrò, deciderà di staccare il sondino a un malato terminale. La scarsità, la disomogeneità territoriale e l’assenza di fondi per gli hospice in un Paese come l’Italia che pure punta a protrarre artificialmente la vita finché possibile.
All’Unità ne abbiamo discusso con Ignazio Marino, senatore del Pd e chirurgo; Antonino Guglielmino, ginecologo esperto in riproduzione assistita; Adriana Turriziani, radioterapista oncologa ed esponente della Società Cure Palliative; Maurizio Marceca, medico epidemiologo e della Sanità pubblica.
L’analisi di quattro tematiche - il biotestamento, la Legge 40, l’obbligo di denuncia dei clandestini per i medici, lo stato delle cure palliative - evidenzia un rapporto difficile tra politica e medicina. È davvero così?
Marino: «Esiste, ma non è un problema solo italiano. È oggettivo, legato allo sviluppo della scienza più rapido che nei secoli passati. Abbiamo impiegato centinaia di anni per definire la morte come cessazione del respiro, altri secoli per stabilire che invece è lo stop del battito cardiaco. Adesso si è morti con la cessazione irreversibile delle attività cerebrali. Ma è un dato molto recente, acquisito nel 1968. Il punto è che l’articolo 32 della Costituzione, che vieta trattamenti sanitari obbligatori, è stato scritto nel 1947 quando per il legislatore era scontato che le persone potessero a voce accettare o rifiutare una terapia. Basta considerare che il primo respiratore artificiale è arrivato solo nel ‘52 e i primi esperimenti sulla nutrizione artificiale sono degli anni ‘60. La velocità del progresso scientifico è superiore a quella di adeguamento del Parlamento e, forse, della società».
Marceca: «Il tema dell’immigrazione è importante perché diventa cartina tornasole di come il sistema sanitario reagisce ai mutamenti sociali e si configura in grado di reagire ai bisogni diffusi. L’approccio della politica è enfatico, allarmistico, parcellizzato. Per i cittadini è difficile agire sul processo decisionale influenzato dalle lobby. Ancor più lo è per la comunità di immigrati, che in realtà ne comprende diverse centinaia. A mio avviso la politica guarda alla salute come a uno spazio di potere, un mercato. I temi nascono dal nulla e scompaiono nel nulla. Adesso c’è l’allarme per la febbre suina che durerà qualche giorno, mentre dimentichiamo la scarsità di organi per i trapianti, la carenza di emoderivati, l’assistenza domiciliare negata da molte regioni. Da epidemiologo mi preoccupo di comunicare i problemi della salute secondo il loro peso specifico.
L’Italia nel modo in cui affronta questi temi può essere considerata un’anomalia?
Marino: «Certi Paesi come l’Italia sono più lenti. Negli Usa il testamento biologico è stato affrontato in tempi diversi. La California ha scritto la prima normativa nel 1976, un terzo di secolo fa. Da noi non è così. Uno strumento come il respiratore artificiale è positivo perché può consentire a chi ha un trauma cranico di essere operato e tornare alla vita di prima. A volte però il paziente finisce in un limbo senza possibilità di recupero e la legge non sa come intervenire. I medici lo saprebbero ma non possono perché un magistrato sarebbe obbligato a indagarli per omicidio volontario.
Guglielmino: «In questi ultimi anni le bio-tecnologie hanno fatto enormi passi in avanti, velocemente: in Italia l’approccio che la politica ha nei confronti delle tematiche legate al progresso scientifico è di grande invadenza. Il nostro paese è arrivato al dibattito - che prima era relegato alla sfera privata degli individui e che ora ha assunto contorni di carattere pubblico - in modo non adeguato. Non è un caso che in questi ultimi anni il tema della laicità dello Stato - che non è certo di oggi - sia tornato di attualità. Il punto è che non c’è un approccio laico».
Qual è il paese che da questo punto di vista è più attento quando si tratta di legiferare sui temi di inizio e fine vita?
Marceca : «È un paradosso che si debba guardare ad altri paesi. Alla fine degli anni Novanta è stata proprio l’Italia, con la legge Turco-Napolitano sull’immigrazione, ad essere un punto di riferimento per gli altri, equiparando gli stranieri residenti nel nostro Paese agli italiani.
Turriziani: «L’Inghilterra e gli Stati Uniti hanno avuto una grande intuizione: investire nella formazione. Qui da noi ancora oggi tutto il personale impiegato negli hospice ha come unica formazione quella che deriva dal proprio curriculum personale. Non esistono corsi ad hoc e non c’è una distribuzione uniforme su tutto il territorio rendendo così effettiva una diseguaglianza».
Marino: «Basta un esempio. Gli hospice sono 120: 103 sono al Nord, 17 al Sud. In Lombardia ce ne sono 50, in Sicilia, con una popolazione di 5 milioni di persone, ce ne sono 5. Il diritto alla salute sancito dalla Costituzione è evidentemente violato».
Come deve orientarsi il legislatore quando scrive una legge sui temi cosiddetti “eticamente sensibili”?
Guglielmino: «Sulla legge 40 come sul testamento biologico la politica dovrebbe avere un approccio “leggero”, dettare linee generali, non scrivere leggi ideologiche. Il testo sulla fecondazione assistita, che prevede l’obbligo di trattamento sanitario, è stata dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale. È evidente che il punto di partenza era sbagliato.
Marino: «Credo sia giusto emanare leggi con poche norme chiare, ma dobbiamo tener presente che oggi, mentre parliamo, i reparti di terapia intensiva dei nostri ospedali sono pieni di pazienti non spiù in grado di decidere se continuare o meno le terapie. E già in questo momento un medico che decide di staccare il respiratore o interrompere l’alimentazione e l’idratazione artificiale ad un paziente in fin di vita, con metastasi diffuse in tutto il corpo, sedato per non farlo soffrire troppo, infrange la legge. Invece la legge dovrebbe dare la possibilità ad ognuno di noi di decidere cosa fare della propria vita in casi simili. Una normativa giusta deve permettere a chiunque quando è nel pieno delle proprie facoltà intellettive di potersi esprimere sul fine vita avendo la certezza che le sue volontà saranno rispettate».
Spesso si dice “fare all’italiana”: vale a dire interrompere l’alimentazione artificiale senza pubblicizzarlo. Quello che, in sostanza, è stato rimproverato al padre di Eluana Englaro: “perché non se l’è portata a casa invece di creare questo putiferio?”. Succede così anche negli hospice? Si fa ma non si dice?
Turriziani: «Bisogna capire che chi arriva negli hospice è un paziente la cui evoluzione della malattia non possiamo contrastare. La morte arriverà: si tratta di mettere in campo un team in grado di attuare le scelte condivise tra medico e famiglia. La nutrizione viene adeguata e graduata rispetto al decorso della malattia. L’idratazione non viene sospesa anche per veicolare i farmaci. Il problema per noi è che la politica non ci offre luoghi di formazione: non esiste un esame universitario per le cure palliative, non ci sono infermieri specializzati».
È corretto dire che la desistenza terapeutica configura omicidio volontario?
Marino: «Il punto è che bisognerebbe avere un Parlamento che lavora in parallelo con il progresso della scienza. Il vero salto è stato quando con le tecnologie si è potuta protrarre l’esistenza in modo artificiale. Sospendere le terapie non è uccidere ma lasciare che il processo di morte naturale riprenda il suo corso. Sono decisioni da assumere in una vera alleanza con il paziente e, se non può esprimersi, con la famiglia. Non si può procedere come accade oggi nell’illegalità o facendo, appunto, le cose all’italiana».
Turriziani: «Per noi una cartella clinica ben redatta è uno strumento di bordo. Ed è multidisciplinare. Io ci scrivo tutto quello che è utile per quel paziente».
Marino: «Se il disegno di legge Calabrò verrà approvato, però, o la desistenza terapeutica non viene scritta in cartella o si verrà indagati per omicidio. Non colposo, volontario: come se si sparasse in testa a un cittadino».
Guglielmino: «La vera stranezza del ddl Calabrò è che né il medico né il paziente potranno più intervenire su alcune aree. C’è un aspetto che va chiarito: nutrizione e idratazione artificiali sono terapie o no? Se lo sono non si possono somministrare contro la volontà del destinatario perché si viola la Costituzione. E a mio avviso lo sono: non si può pensare che un buco nello stomaco, praticato da un chirurgo per inserire un sondino, necessario per sopravvivere, non sia una forma di cura».
Arriviamo ai medici “spia”: non c’è una contraddizione tra la paura di non riuscire a individuare malattie contagiose e, dall’altra parte, una norma che spinge alla clandestinità sanitaria?
Marceca: «La norma che impone la denuncia dei clandestini mostra come si mette in discussione il ruolo degli operatori della salute. Ai medici si chiede di denunciare persone che, dall’oggi al domani, diventano criminali. È assurdo creare dei “clandestini sanitari”. Solo l’effetto annuncio ha già prodotto ansia, paura, allontanamento dai servizi. Nessuno dice che in 13 anni questo sistema ha funzionato benissimo, e neppure la Bossi-Fini ha toccato norme che rispondono a esigenze di sanità pubblica. Anche se mi preoccupa l’approccio “dagli all’untore”. Le malattie non conoscono confini: riguardano la mobilità umana, non degli immigrati. Ricordo le sofferenze della comunità cinese ai tempi dell’aviaria: la nazionalità diventava elemento di discriminazione per persone che non tornavano in Oriente da anni. Temo che l’enfasi mediatica non aiuti il ragionamento bensì lo complichi».
È in Parlamento la legge sulle cure palliative e la regolamentazione degli hospice a livello nazionale. C’è un’attenzione reale della politica in un paese dove l’obiettivo sembra essere l’allungamento della vita ad ogni costo?
Turriziani: «Sarebbe auspicabile ascoltare chi ogni giorno piega la schiena sui pazienti. L’hospice non deve essere ultimo a livello di preparazione e formazione. Seguire malati terminali richiede grande competenza. Ed è enorme il significato sociale di queste strutture che assistono intere famiglie. Si va a morire, è vero, ma si vive fino alla fine. Bisogna promuovere un clima positivo, sostenerli culturalmente, evitare che diventino solo dei letti. Mi auguro che il lavoro svolto in questi anni negli hospice attraverso l’ascolto dei pazienti e dei familiari, venga tenuto nella debita considerazione dal legislatore che dovrà scrivere delle norme al riguardo».
Marino: «La competenza è cruciale. È stato un errore smembrare in due tronconi gli hospice e il biotestamento che per formazione e ricerca dovrebbero stare insieme. Poi, la Commissione Sanità non ha neppure audito gli oncologi».
La politica riuscirà a dialogare e trovare un punto di sintesi che rappresenti la società civile sul testamento biologico? E il Partito Democratico raggiungerà infine una posizione chiara sui temi etici?».
Marino: «Credo che serva un passo indietro rispetto all’arroganza attuale con cui si affrontano questi temi. Quanto al Pd: se non riesce a risolvere queste questioni con spirito maggioritario, discutendo al suo interno e votando sulla posizione da prendere, non avrà speranze. Scomparirà, fallirà: non può non dare risposte sui temi che scuotono le coscienze. Purtroppo oggi c’è una classe dirigente che fa riferimento ai due maggiori partiti che c’erano prima, che ragiona per quote e sta sempre a contarsi. Delle due l’una: o tutti costoro verranno spazzati via e si formerà un partito riformista, moderno, oppure sarà il Pd stesso ad essere spazzato via».
In Senato, durante il dibattito sul testamento biologico, il Pdl ha applaudito Marcello Pera, intervenuto contro la legge. Poi, però, ha votato compatto per il sì, malgrado dai sondaggi risulti che l’opinione pubblica vuole un testamento biologico vincolante. Perché la politica pensa di non dover rispondere di ciò che fa?
Marino: «Questo è il problema centrale: ormai si viene eletti per indicazione del leader e non per le proprie convinzioni. Il 25 febbraio del 2009 la Commissione Giustizia del Senato ha inviato un parere alla Commissione Sanità in cui affermava che il testamento biologico deve essere giuridicamente vincolante. La Commissione Sanità ha dovuto prenderne atto, ma in aula è cambiato tutto. Gli stessi membri della Commissione hanno votato contro il valore vincolante del testamento. Di fatto non hanno espresso un convincimento personale ma hanno risposto ad un ordine di partito. Siamo di fronte alla corruzione della politica, messa sotto ricatto da chi decide le candidature dei singoli».
Alla luce di queste nuove leggi, la professione del medico sta diventando un mestiere pericoloso nel nostro Paese? Sta nascendo la figura del “medico disobbediente”?
Marceca: «Il nostro è da sempre un mestiere complesso, ma nel caso della denuncia degli immigrati si sono scatenati degli anticorpi che sembravano sopiti. La Federazione degli Ordini dei medici, gli psicologi e gli infermieri hanno reagito compatti per far cambiare una norma che va contro tutti i nostri principi deontologici. Credo sia necessario, però, che si crei una forte alleanza tra medico e società e che i medici ricomincino a rendere conto di quello che fanno in modo trasparente perché ormai la sanità sembra preda di una deriva economicistica».
Guglielmino: «Quella del medico disobbediente è una posizione scomoda. I medici non possono essere costretti a compiere ogni giorno atti di “microcriminalità” perché la legge impedisce loro di fare il proprio mestiere secondo scienza e coscienza. È fondamentale alleggerire le norme garantendo la possibilità di fare questo mestiere senza essere costretti a scegliere tra il codice deontologico e la legge dello Stato».
Marino: «Credo sia giusto emanare leggi con poche norme chiare, ma dobbiamo tener presente che oggi, mentre parliamo, i reparti di terapia intensiva dei nostri ospedali sono pieni di pazienti non spiù in grado di decidere se continuare o meno le terapie. E già in questo momento un medico che decide di staccare il respiratore o interrompere l’alimentazione e l’idratazione artificiale ad un paziente in fin di vita, con metastasi diffuse in tutto il corpo, sedato per non farlo soffrire troppo, infrange la legge. Invece la legge dovrebbe dare la possibilità ad ognuno di noi di decidere cosa fare della propria vita in casi simili. Una normativa giusta deve permettere a chiunque quando è nel pieno delle proprie facoltà intellettive di potersi esprimere sul fine vita avendo la certezza che le sue volontà saranno rispettate».
Spesso si dice “fare all’italiana”: vale a dire interrompere l’alimentazione artificiale senza pubblicizzarlo. Quello che, in sostanza, è stato rimproverato al padre di Eluana Englaro: “perché non se l’è portata a casa invece di creare questo putiferio?”. Succede così anche negli hospice? Si fa ma non si dice?
Turriziani: «Bisogna capire che chi arriva negli hospice è un paziente la cui evoluzione della malattia non possiamo contrastare. La morte arriverà: si tratta di mettere in campo un team in grado di attuare le scelte condivise tra medico e famiglia. La nutrizione viene adeguata e graduata rispetto al decorso della malattia. L’idratazione non viene sospesa anche per veicolare i farmaci. Il problema per noi è che la politica non ci offre luoghi di formazione: non esiste un esame universitario per le cure palliative, non ci sono infermieri specializzati».
È corretto dire che la desistenza terapeutica configura omicidio volontario?
Marino: «Il punto è che bisognerebbe avere un Parlamento che lavora in parallelo con il progresso della scienza. Il vero salto è stato quando con le tecnologie si è potuta protrarre l’esistenza in modo artificiale. Sospendere le terapie non è uccidere ma lasciare che il processo di morte naturale riprenda il suo corso. Sono decisioni da assumere in una vera alleanza con il paziente e, se non può esprimersi, con la famiglia. Non si può procedere come accade oggi nell’illegalità o facendo, appunto, le cose all’italiana».
Turriziani: «Per noi una cartella clinica ben redatta è uno strumento di bordo. Ed è multidisciplinare. Io ci scrivo tutto quello che è utile per quel paziente».
Marino: «Se il disegno di legge Calabrò verrà approvato, però, o la desistenza terapeutica non viene scritta in cartella o si verrà indagati per omicidio. Non colposo, volontario: come se si sparasse in testa a un cittadino».
Guglielmino: «La vera stranezza del ddl Calabrò è che né il medico né il paziente potranno più intervenire su alcune aree. C’è un aspetto che va chiarito: nutrizione e idratazione artificiali sono terapie o no? Se lo sono non si possono somministrare contro la volontà del destinatario perché si viola la Costituzione. E a mio avviso lo sono: non si può pensare che un buco nello stomaco, praticato da un chirurgo per inserire un sondino, necessario per sopravvivere, non sia una forma di cura».
Arriviamo ai medici “spia”: non c’è una contraddizione tra la paura di non riuscire a individuare malattie contagiose e, dall’altra parte, una norma che spinge alla clandestinità sanitaria?
Marceca: «La norma che impone la denuncia dei clandestini mostra come si mette in discussione il ruolo degli operatori della salute. Ai medici si chiede di denunciare persone che, dall’oggi al domani, diventano criminali. È assurdo creare dei “clandestini sanitari”. Solo l’effetto annuncio ha già prodotto ansia, paura, allontanamento dai servizi. Nessuno dice che in 13 anni questo sistema ha funzionato benissimo, e neppure la Bossi-Fini ha toccato norme che rispondono a esigenze di sanità pubblica. Anche se mi preoccupa l’approccio “dagli all’untore”. Le malattie non conoscono confini: riguardano la mobilità umana, non degli immigrati. Ricordo le sofferenze della comunità cinese ai tempi dell’aviaria: la nazionalità diventava elemento di discriminazione per persone che non tornavano in Oriente da anni. Temo che l’enfasi mediatica non aiuti il ragionamento bensì lo complichi».
È in Parlamento la legge sulle cure palliative e la regolamentazione degli hospice a livello nazionale. C’è un’attenzione reale della politica in un paese dove l’obiettivo sembra essere l’allungamento della vita ad ogni costo?
Turriziani: «Sarebbe auspicabile ascoltare chi ogni giorno piega la schiena sui pazienti. L’hospice non deve essere ultimo a livello di preparazione e formazione. Seguire malati terminali richiede grande competenza. Ed è enorme il significato sociale di queste strutture che assistono intere famiglie. Si va a morire, è vero, ma si vive fino alla fine. Bisogna promuovere un clima positivo, sostenerli culturalmente, evitare che diventino solo dei letti. Mi auguro che il lavoro svolto in questi anni negli hospice attraverso l’ascolto dei pazienti e dei familiari, venga tenuto nella debita considerazione dal legislatore che dovrà scrivere delle norme al riguardo».
Marino: «La competenza è cruciale. È stato un errore smembrare in due tronconi gli hospice e il biotestamento che per formazione e ricerca dovrebbero stare insieme. Poi, la Commissione Sanità non ha neppure audito gli oncologi».
La politica riuscirà a dialogare e trovare un punto di sintesi che rappresenti la società civile sul testamento biologico? E il Partito Democratico raggiungerà infine una posizione chiara sui temi etici?».
Marino: «Credo che serva un passo indietro rispetto all’arroganza attuale con cui si affrontano questi temi. Quanto al Pd: se non riesce a risolvere queste questioni con spirito maggioritario, discutendo al suo interno e votando sulla posizione da prendere, non avrà speranze. Scomparirà, fallirà: non può non dare risposte sui temi che scuotono le coscienze. Purtroppo oggi c’è una classe dirigente che fa riferimento ai due maggiori partiti che c’erano prima, che ragiona per quote e sta sempre a contarsi. Delle due l’una: o tutti costoro verranno spazzati via e si formerà un partito riformista, moderno, oppure sarà il Pd stesso ad essere spazzato via».
In Senato, durante il dibattito sul testamento biologico, il Pdl ha applaudito Marcello Pera, intervenuto contro la legge. Poi, però, ha votato compatto per il sì, malgrado dai sondaggi risulti che l’opinione pubblica vuole un testamento biologico vincolante. Perché la politica pensa di non dover rispondere di ciò che fa?
Marino: «Questo è il problema centrale: ormai si viene eletti per indicazione del leader e non per le proprie convinzioni. Il 25 febbraio del 2009 la Commissione Giustizia del Senato ha inviato un parere alla Commissione Sanità in cui affermava che il testamento biologico deve essere giuridicamente vincolante. La Commissione Sanità ha dovuto prenderne atto, ma in aula è cambiato tutto. Gli stessi membri della Commissione hanno votato contro il valore vincolante del testamento. Di fatto non hanno espresso un convincimento personale ma hanno risposto ad un ordine di partito. Siamo di fronte alla corruzione della politica, messa sotto ricatto da chi decide le candidature dei singoli».
Alla luce di queste nuove leggi, la professione del medico sta diventando un mestiere pericoloso nel nostro Paese? Sta nascendo la figura del “medico disobbediente”?
Marceca: «Il nostro è da sempre un mestiere complesso, ma nel caso della denuncia degli immigrati si sono scatenati degli anticorpi che sembravano sopiti. La Federazione degli Ordini dei medici, gli psicologi e gli infermieri hanno reagito compatti per far cambiare una norma che va contro tutti i nostri principi deontologici. Credo sia necessario, però, che si crei una forte alleanza tra medico e società e che i medici ricomincino a rendere conto di quello che fanno in modo trasparente perché ormai la sanità sembra preda di una deriva economicistica».
Guglielmino: «Quella del medico disobbediente è una posizione scomoda. I medici non possono essere costretti a compiere ogni giorno atti di “microcriminalità” perché la legge impedisce loro di fare il proprio mestiere secondo scienza e coscienza. È fondamentale alleggerire le norme garantendo la possibilità di fare questo mestiere senza essere costretti a scegliere tra il codice deontologico e la legge dello Stato».

Due novità sul fronte della Legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita. Una è contenuta nelle linee guida emanate dall’ex ministro della Salute Livia Turco nel 2008, che rispetto alle precedenti del luglio 2004, prevedono sia la possibilità di effettuare la diagnosi preimpianto dell’embrione prima vietata, sia la possibilità di ricorrere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (Pma) anche per le coppie in cui l’uomo sia portatore di malattie virali sessualmente trasmissibili, in particolare virus HIV ed Epatiti B e C, riconoscendo che tali condizioni sono assimilabili ai casi di infertilità. L’altra grande novità è la sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato parzialmente illegittima la Legge 40, soprattutto per quanto riguarda l’obbligo di limitare a tre il numero di embrioni e di impiantarli tutti in utero.

Dopo il caso Englaro, la maggioranza di centrodestra ha approvato al Senato e passato alla Camera una legge sulle «dichiarazioni anticipate di trattamento» in cui, partendo dal presupposto della indisponibilità della vita, sostiene che nessuno può morire di fame e di sete e, dunque, obbliga il medico ad alimentare e a idratare anche artificialmente (tramite l’impianto di un sondino) un paziente non più in grado di esprimere la propria volontà. Il testo approvato viene considerato da molti bioeticisti e dal centrosinistra quasi al completo un vero e proprio tradimento dell’idea stessa di “testamento biologico”: viene sottratta al paziente la possibilità di rifiutare un trattamento sanitario, un diritto riconosciuto dalla legge italiana e dalle convenzioni internazionali sui diritti dell’uomo. La destra sostiene che alla Camera il testo sarà rivisto.

La Lega ne aveva fatto una bandiera della propria azione politica. Il ministro degli Interni, Maroni, lo aveva inserito come punto qualificante del Decreto sicurezza: l’immigrazione clandestina è un reato e i medici avrebbero dovuto denunciare gli immigrati non in regola che si fossero presentati in ospedale a chiedere di essere curati. I medici sono insorti. E hanno scritto una bella pagina di civiltà. Non vogliamo e non possiamo fare i delatori, hanno detto. Ce lo impedisce il nostro codice deontologico. E anche il normale buon senso. Se i clandestini, per timore di subire guai giudiziari, non si fanno curare, mettono a repentaglio la propria salute e quella dell'intera comunità nazionale. Maroni ha ritirato il decreto. Secondo la Cgil l’annuncio della misura ha comunque provocato un effetto: gli immigrati che hanno richiesto cure sono calati del 10-20%.

I medici e la rianimazione
Il Senato approva una legge in cui nessuno può interrompere l’alimentazione e l’idratazione artificiale di pazienti in stato vegetativo permamente (come Eluana Englaro). Più o meno nello stesso periodo una ricerca dell’Istituto Mario Negri di Milano rivela che il 62% dei decessi nelle rianimazioni italiane sono dovuti a “desistenza terapeutica”, un intervento attivo del medico che, insieme ai parenti o, in alcuni casi, autonomamente, decide di sospendere ogni cura perchè questa non potrebbe cambiare in alcun modo l’esito naturale della malattia. Una legge dice una cosa, la realtà ne racconta un’altra. Da una parte si impone di insistere, dall’altra si sceglie di “desistere”.

il Riformista 28.4.09
«Biotestamento, la legge entro l'estate»
Il Governo riprende iniziativa sul fine-vita
di Alessandro Calvi


CENTRODESTRA. Quagliariello, Mantovano e Gasparri rivendicano insieme la "laicità" del ddl Calabrò e i valori cattolici che lo hanno ispirato. Attacchi all'opposizione e ottimismo sui tempi parlamentari.

Si farà entro l'estate la legge sul testamento biologico. Questo, almeno, prevede Eugenia Roccella perché, come è ovvio, nei desideri del governo non ci sono rallentamenti in vista, come invece in molti ritenevano inevitabile con l'arrivo del fine-vita alla Camera che, ed è anche questa una idea alquanto diffusa, potrebbe rimettere mano al testo approvato di recente dal Senato.
È ottimista la sottosegretaria al welfare. Come al Senato, però, anche alla Camera quel testo rischia di incontrare qualche ostacolo, se non altro perché la situazione nella maggioranza è diversa nei due rami del Parlamento e perché, almeno sino ad ora, manca qualcosa che rappresenti - come fu il caso di Eluana Englaro - una spinta per arrivare al traguardo. Così, ieri, un convegno organizzato dai Cristiano Riformisti di Antonio Mazzocchi, è stata l'occasione per una sorta di pride cattolico, con una rivendicazione di valori cattolici e di capacità di legiferazione laica che è andata di pari passo con un attacco al laicismo del quale sono stati accusati gli avversari. E tutto più con l'occhio alle dinamiche interne al centrodestra che alla opposizione. D'altra parte, il parterre riunito da Mazzocchi era di prim'ordine: Gaetano Quagliariello, Maurizio Gasparri, Alfredo Mantovano e, appunto, Eugenia Roccella, protagonisti sinora del dibattito nel Pdl, pur se da posizioni diverse.
Dunque, «entro l'estate dovremmo arrivare a una legge», ha detto la Roccella, annunciando che il testo sarà incardinato entro la metà di maggio. «Si stanno semplicemente seguendo i tempi della Camera - ha aggiunto - e non era certo possibile incardinare il provvedimento prima». D'altra parte, ha spiegato ancora la Roccella, sono questi «i tempi del Parlamento» e, «se non si fa una legge, la fa qualcun altro, cioè la magistratura, come si è visto nel caso Eluana». Per questo, ha concluso, «è un dovere del Parlamento riappropriarsi del potere legislativo al posto di una magistratura che tende a tracimare».
Di sentenza «eversiva», a proposito di quella della Cassazione sul caso Englaro, ha parlato Quagliariello, rivendicando da cima a fondo il lavoro del Senato e dicendosi convinto che la Camera saprà rispettare il lavoro di un «libero legislatore» che «ha deciso secondo coscienza». Anche Gasparri ha battuto su questo tasto nel corso di un intervento piuttosto accorato durante il quale non è mancato un attacco al Secolo d'Italia e un forte riferimento all'Osservatore Romano. «La presenza della Chiesa incide. Ma noi non siamo strumento passivo di una volontà clericale», ha detto per rivendicare la laicità dell'operato del Senato. Quindi, ha avvertito che, seppure «la Camera discuterà liberamente» sul testamento biologico, «i principi non si possono stravolgere». «Noi - ha concluso - non vogliamo imporre niente a nessuno ma non dobbiamo vergognarci: possiamo anche perdere ma non tradiremo ciò in cui crediamo». A quel punto, anche Mazzocchi ha allentato le briglie, lasciandosi andare a un esplicito richiamo rivolto ai suoi: «Ci troviamo di fronte a una società sempre più laica» nella quale se non si è d'accordo con i laici si è considerati «integralisti». Ma «noi - ha concluso - siamo la maggioranza. Purtroppo, una maggioranza timida».
Infine, è stata la volta di Mantovano che a tratti è stato particolarmente ruvido con gli avversari, definiti «giacobini» che «costruiscono, attraverso capziose interpretazioni della Costituzione, tali e tanti limiti» da azzerare la volontà del popolo, fino ad esclamare - in risposta alle accuse di integralismo piovutegli addosso - che: «No, non sono integralista, sono reazionario». Poi, guardando al lavoro che ci sarà da fare alla Camera sul fine-vita, ha concluso: «La nostra è una battaglia laica di civiltà che non ha bisogno di nessuna confessione religiosa di riferimento». Avvertendo, però, che «la legge uscita dal Senato si può migliorare, certamente, ma non peggiorare».
Se le premesse sono le stesse che hanno accompagnato la conclusione del dibattito in Senato, si tratta ora di capire sino a dove si può spingere quel «migliorare» invocato da Mantovano o se, come chiede Gasparri, i principi non si debbano «stravolgere». Certo, nessuno ieri sembrava convinto che quella uscita dal Senato fosse una legge da stato etico. E a dirlo fu Gianfranco Fini.

l’Unità 28.4.09
L’estate del ’44
Un’alleanza coi socialisti l’ultima mossa disperata dei repubblichini di Salò
di Aldo Giannuli


Una rivolta pilotata. I consigli operai avrebbero dovuto proclamare la «nuova repubblica». Poi, dopo un ammutinamento, le forze armate avrebbero aderito. Ma l’arresto del leader dei «consigli» bloccò tutto. Mussolini ne chiese invano la liberazione.

Doppi giochi. Gli emissari del Cln finsero di aderire e ottennero la liquidazione della banda Koch

Il piano dei gerarchi. La trappola per gli Alleati: una repubblica «antifascista» al Nord la monarchia al Sud

Nell’estate 1944, alcuni gerarchi di Salò (il ministro Pisenti, Franco Colombo, capo della «Ettore Muti», il capo della polizia Renzo Montagna, Junio Valerio Borghese ed altri) iniziarono a cercare una via d’uscita con l’«operazione ponte»: spaccare il Comitato di liberazione nazionale, trattare una tregua con socialisti ed azionisti con i quali dare vita ad un governo di «unità nazionale». Più tardi si arrivò ad ipotizzare una nuova Repubblica socialista, neutrale. Questo avrebbe posto gli Alleati di fronte alla scelta di usare le armi contro una repubblica governata da partiti antifascisti o invitare i due governi (repubblica del nord e monarchia del sud) a trovare una mediazione. Ed avrebbe messo il Pci in una situazione assai imbarazzante: appoggiare il governo monarchico contro una repubblica socialista o rischiare di compromettere l’ intesa con gli inglesi. Nella situazione di stallo fra due governi antifascisti, avrebbe avuto qualche possibilità di sopravvivenza anche al progetto del «ridotto alpino» della Valtellina, tanto più che Mussolini si illudeva di giungere ad una pace separata con i sovietici.
In questa ottica, il duce autorizzava la costituzione del Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista, guidato da Edmondo Cione e da Carlo Silvestri (già spia dell’Ovra).
L’offerta di collaborazione, avanzata dal questore di Milano Bettini e dal generale Nunzio Luna (della Guardia Nazionale Repubblicana) trovò disponibile Corrado Bonfantini, capo delle Brigate Matteotti (Psi) e i suoi vice, l’ex comunista Gabriele Vigorelli e l’anarchico Germinale Concordia. Ma Riccardo Lombardi per il Partito d’Azione e Sandro Pertini e Lelio Basso per il Psi avrebbero respinto l’offerta.
In realtà, Bonfantini ed i suoi non credevano affatto nel progetto, ma cercavano di ricavarne il massimo vantaggio. Infatti, essi chiesero - ed ottennero - la liquidazione della famigerata «banda Koch», con la liberazione di parte dei loro prigionieri. Ed è probabile che si ripromettessero anche di migliorare i propri rapporti di forza rispetto alle altre componenti del Cln. Infatti, grazie a Luna, iniziarono una massiccia infiltrazione nella Gnr e nella X Mas, quel che gli consentirà, negli ultimi giorni, di occupare punti nevralgici come radio Milano. Prudenzialmente, in dicembre Bonfantini dichiarò di ritirarsi dall’operazione, una volta constatato che non se ne poteva ricavare altro.
Gli storici (con l’eccezione di Cesare Bermani) hanno dedicato poco spazio a questo piano, rilevandone il carattere disperato e sottolineando come l’indisponibilità di Pertini e Basso lo avesse fatto fallire sul nascere. Documenti recentemente emersi ci descrivono una vicenda più complessa, che merita una maggiore attenzione, anche se resta fermo che il piano non aveva concrete possibilità di riuscita.
L’8 marzo 1945, la fonte C.O.M.O. riferiva al Servizio di Informazioni Militari del sud che, negli ultimi giorni di febbraio si erano riuniti il capo della Gnr, un rappresentate del Comando regionale dell’Esercito, uno del prefetto ed il capo ufficio stampa della «Muti» Gastone Gorrieri. Dall’incontro era scaturito un piano per il quale, nelle settimane successive, si sarebbe riunita una assemblea di consigli operai che avrebbe proclamato la repubblica socialista. Gran parte delle Forze armate si sarebbe ammutinata, schierandosi con la nuova repubblica, nel cui governo si sperava di attirare socialisti ed azionisti.
Ma complicare le cose era giunto l’arresto di Germinale Concordia, organizzatore della lega dei consigli operai che avrebbe dovuto proclamare la repubblica (nota 4 aprile). Mussolini avrebbe chiesto al generale Wolff la sua liberazione, ma senza successo. Dunque, il tentativo era proseguito ben oltre dicembre, si era ulteriormente evoluto ipotizzando addirittura un governo dei consigli operai e prevedeva l’appoggio di una parte molto consistente delle Forze Armate della Rsi.
Il 7 febbraio 1946, un reparto della polizia ausiliaria (composto da partigiani) traeva in arresto il generale Nunzio Luna che viveva, sotto falsa identità, in una casa di Milano (rapporto del 9 febbraio 1946 del servizio speciale del ministero dell’Interno); nulla di strano se la padrona di casa non fosse stata Carla Voltolina, futura moglie di Sandro Pertini e se lo stesso Luna non avesse dichiarato che Pertini era perfettamente a conoscenza della sua vera identità e che lo aveva nascosto per ringraziarlo dei servigi resi durante la guerra di Liberazione. Nell’abitazione di Luna vennero trovati anche documenti sulla situazione interna al Partito Socialista ed un mazzetto di assegni firmati da Bonfantini. Nonostante il generale fosse sospettato di essere finanziatore dei gruppi fascisti clandestini, l’inchiesta venne rapidamente avocata dal questore, che prendeva provvedimenti contro il tenente della polizia ausiliaria che aveva operato l’arresto. Il nome di Luna non comparirà fra gli imputati al processo contro le Squadre d’Azione Mussolini svoltosi poco dopo a Venezia. Nelle carte del Pci milanese compare un appunto su Bonfantini nel quale si richiama l’affaire Luna, sottolineando come esso «venne passato sott’acqua per non mettere in cattiva luce i socialisti».
Un episodio sin qui sconosciuto: è plausibile che le esigenze della lotta clandestina abbiano imposto molti di questi negoziati sotto banco, anche in nome di ragioni in sé nobili, ma tutto questo diventava difficile da raccontare dopo la Liberazione, quando ognuno di essi sarebbe potuto apparire come un cedimento morale. E, probabilmente, fu questo ad obbligare Pertini - sulla cui dirittura morale e sui cui antifascismo non ci sono dubbi - a quella difficile operazione per salvare l’immagine del partito.
I documenti non ci permettono di far piena luce sulla vicenda e sulle reali motivazioni con cui si mossero i suoi singoli attori, ma sono sufficienti a farci capire che è una pagina di storia ancora da scrivere.

Pertini, Lelio Basso e Lombardi tre padri della democrazia
Sandro Pertini diventerà presidente della Repubblica, Junio Valerio Borghese legherà il suo nome a un tentativo di colpo di Stato. Molti dei protagonisti delle convulse giornate raccontate nell’articolo di Aldo Giannuli lasceranno una traccia importante nella storia della Repubblica. Vediamo in breve i percorsi politici nel dopoguerra.
SANDRO PERTINI (1896-1990). Deputato alla Costituente, quindi senatore nella prima legislatura e deputato in quelle successive, sempre rieletto dal 1953 al 1976. Dopo essere stato eletto per due volte consecutive presidente della Camera, divenne capo dello Stato l’8 luglio del 1978.
RICCARDO LOMBARDI (1901-1984). Deputato alla Costituente e sempre eletto alla Camera, è stato il leader della sinistra socialista. A lui si deve la formula «riforme di struttura» la cui mancata attuazione fu, nell’analisi lombardiana, la ragione del fallimento del primo centrosinistra.
LELIO BASSO (1903-1978). Deputato alla Costituente. Esponente della sinistra socialista, si oppose all primo governo di centro-sinistra e fondò il Psiup. Ma il suo prestigio, in campo internazionale, è legato all’impegno per la difesa dei diritti umani. Fece parte del «Tribunale Russel» e promosse la nascita della «Fondazione Internazionale e la Lega Internazionale per i Diritti e la Liberazione dei Popoli» che oggi prosegue la sua attività con la Fondazione che porta il suo nome.

Corriere della Sera 28.4.09
Centenari. Una conferenza-spettacolo riporta alla ribalta il padre della fisiognomica, una celebrità dell’800
Lombroso, catalogo di assurdità
di Gian Antonio Stella


Non c’è opera lombrosiana in cui non sia possibile trovare, a voler essere maliziosi, spunti di comicità.
A partire da certi titoli: «La ruga del cretino e l’anomalia del cuoio capelluto», «Sulla cortezza dell’alluce negli epilettici e negli idioti».
Illusioni, pasticci e paradossi dello scienziato che aprì le porte al razzismo

Cosa c’entrano i cammelli coi camalli? Niente, si dirà. Eppu­re, partendo anche dall’asso­nanza dei nomi, che verrebbe­ro dall’arabo hamal, Cesare Lombroso si spinse nel 1891 a teorizzare che tra gli animali e gli scaricatori di porto ci fos­se una sorta di parentela dovuta alla gibbosità. Al punto che, con Filippo Cougnet, firmò un saggio dal titolo irre­sistibile: Studi sui segni professionali dei facchini e sui lipomi delle Ottentot­te, cammelli e zebù.
La folgorante idea, scrive Luigi Guar­nieri nel suo irridente L’atlante crimi­nale. Vita scriteriata di Cesare Lombro­so (Bur), gli viene «esaminando un pa­ziente, di professione brentatore, il qua­le ha sulle spalle, nel punto in cui ap­poggia il carico, una specie di cuscinet­to adiposo. Vuoi vedere, almanacca prontamente Lombroso, che la gobba dei cammelli e dei dromedari ha la stes­sa origine del cuscinetto del brentato­re? Subito esamina tutti i facchini di To­rino e scrive a legioni di veterinari per­ché studino a fondo gli animali da so­ma, in special modo gli asini. Non pago dell’imponente massa di dati raccolti, Lombroso indaga con grande scrupolo i misteri del cuscinetto adiposo delle Ottentotte», cioè le donne del popolo africano dei Khoikhoi.
C’è da riderne, adesso. Come c’è da sorridere a rileggere gran parte del­l’opera dell’antropologo veronese. Ba­sti ricordare, tra gli altri, lo studio su La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, dove sosteneva, in base all’esame del­le foto degli scheda­ri del capo della po­lizia parigina, Go­ron (il quale scoprì poi che per sbaglio aveva mandato al nostro le immagini di bottegaie in lista per una licenza...), che «le prostitute, come i delinquenti, presentano caratte­ri distintivi fisici, mentali e congeniti» e hanno l’alluce «prensile». O quello su Il ciclismo nel delitto, pubblicato su «Nuova Antologia», nel quale teorizza­va che «la passione del pedalare trasci­na alla truffa, al furto, alla grassazio­ne ».
Non c’è opera lombrosiana in cui non sia possibile trovare, a voler essere maliziosi, spunti di comicità. A partire da certi titoli: «Sul vermis ipertrofico», «La ruga del cretino e l’anomalia del cuoio capelluto», «Fenomeni mediani­ci in una casa di Torino», «Sulla cortez­za dell’alluce negli epilettici e negli idio­ti », «Rapina di un tenente dipsoma­ne », «Il vestito dell’uomo preistorico», «Il cervello del brigante Tiburzio», «Perché i preti si vestono da donna»...
Nulla è più facile, un secolo dopo la sua morte avvenuta nel 1909, che ridur­re l’antropologo, criminologo e giuri­sta veronese a una macchietta. Un ciar­latano. Eppure, come scrisse Giorgio Ie­ranò, andrebbe riscoperta «la comples­sità di una figura che, nel bene e nel male, ha lasciato un segno nella cultura italiana». Se non altro perché «c’era del metodo nella follia di Lombroso. C’era l’illusione di poter offrire di ogni aspet­to, anche minuto, dell’universo una spiegazione scientifica, la ferma convin­zione di poter misurare quantitativa­mente ogni fenomeno. Lombroso era un utopista che credeva nella missione redentrice della scienza».
Certo, spiega l’antropologo Duccio Canestrini, che insegna a Trento e a Lucca e per celebrare il centenario del­la scomparsa ha allestito una conferen­za- spettacolo ( Lombroso illuminato. Delinquenti si nasce o si diventa?) al de­butto domani sera a Torino al Circolo dei lettori, era un uomo pieno di con­traddizioni: «Socialista, criminalizza di fatto i miserabili. Ebreo, pone le basi del razzismo scientifico. Razionalista, partecipa a sedute spiritiche nel corso delle quali una medium gli fa incontra­re persino la mamma defunta e spiega il paranormale con l’esistenza di una 'quarta dimensione'. Le sue teorie, affa­scinanti e spesso assurde, ebbero un successo internazionale, condizionan­do sia la giurisprudenza, sia la frenolo­gia ».
Con Verdi e Garibaldi, fu probabil­mente uno degli italiani più famosi del XIX secolo. Le sue opere erano tradotte e pubblicate in tutto il mondo, dal­l’America alla Russia, dall’Argentina (dove lo studioso lombrosiano Corne­lio Moyano Gacitúa arrivò a rovesciare certe analisi contro i nostri immigrati: «La scienza ci insegna che insieme col carattere intraprendente, intelligente, libero, inventivo e artistico degli italia­ni c’è il residuo della sua alta criminali­tà di sangue») fino al Giappone. I con­vegni scientifici di tutto il pianeta se lo contendevano. Vittorio Emanuele III sa­lutava in lui «l’onore d’Italia». I sociali­sti lo omaggiavano regalandogli un bu­sto di Caligola. Émile Zola lo elogiava come «un grande e potente ingegno». Il governo francese gli consegnava la Legion d’Onore. Gli scienziati, i medici e i prefetti si facevano in quattro per ar­ricchire la sua stupefacente collezione di crani, cervelli, maschere funerarie, foto segnaletiche, dettagli di tatuaggi di criminali e prostitute e deviati di ogni genere, oggi raccolti al «Museo Lombroso» di Torino. Lo scrittore Bram Stoker lo tirava in ballo scrivendo Dracula. Il filosofo Hippolyte Adolphe Taine gli si inchinava: «Il vostro meto­do è l’unico che possa portare a nozio­ni precise e a conclusioni esatte».
E questo cercava Cesare Lombroso, misurando crani e confrontando orec­chie e calcolando pelosità in un avvitar­si di definizioni «scientifiche» avventa­te: l’esattezza. Capire il perché delle co­se. Così da migliorare la società. «Il tra­guardo che spero di raggiungere com­pletando le mie ricerche», dice in un’edizione de L’uomo delinquente del 1876, «è quello di dare ai giudici e ai pe­riti legali il mezzo per prevenire i delit­ti, individuando i potenziali soggetti a rischio e le circostanze che ne scatena­no l’animosità. Accertando rigorosa­mente fatti determinati, senza azzarda­re su di essi dei sentimenti personali che sarebbero ridicoli» .
Il guaio è che proprio quel «rigore scientifico» appare oggi sospeso tra il ridicolo e lo spaventoso. Il consiglio da­to al Pellegrosario di Mogliano Veneto di curare la pellagra con «piccole dosi di arsenico». Il marchio sugli africani: «Del tetro colore della pelle, il povero Negro ne va tinto più o meno in tutta la superficie, e in certe provincie, anche interne, del corpo, come il cervello e il velo pendulo». Il giudizio sulla donna che tende «non tanto a distruggere il nemico quanto a infliggergli il massi­mo dolore, a martoriarlo a sorso a sor­so e a paralizzarlo con la sofferenza». La ricerca «sul cretinismo in Lombar­dia » dove descrive una «nuova specie di uomini bruti che barbugliano, gru­gniscono, s’accosciano su immondo strame gettato sul terreno». Le parole sull’anarchico Ravachol: «Ciò che ci col­pisce nella fisionomia è la brutalità. La faccia si distingue per la esagerazione degli archi sopracciliari, pel naso devia­to molto verso destra, le orecchie ad an­sa. ». La teoria che «il mancinismo e l’ambidestrismo sensorii sono un po’ piu frequenti nei pazzi».
Un disastro, col senno di poi. Gravi­do di conseguenze pesanti. Eppure a quell’uomo incapace di trovare il ban­dolo della matassa e liquidato da Lev Nikolaevic Tolstoj (che in base alla brut­tezza lui aveva classificato «di aspetto cretinoso o degenerato») come un «vecchietto ingenuo e limitato», una cosa gliela dobbiamo riconoscere. Non si stancò mai di cercare. A che prezzo, però...

Corriere della Sera 28.4.09
La tv «dalemiana»
E su Red sbarca la fiction made in Usa
di Pa.Fo.


ROMA — È il fiore all’occhiello della nuova programmazione. Stasera su Red Tv, il canale gratuito sulla piattaforma Sky (890) legato alla Fondazione ItalianiEuropei di Massimo D’Alema, andrà in onda il primo dei 22 episodi della serie «Studio 60 On the sunset strip», ideata da Aaron Sorkin e che racconta in maniera cinica e dissacrante il dietro le quinte di una rete statunitense. Il telefilm andrà in onda tutti i martedì alle 21. Ed è solo una delle novità del palinsesto: ieri è stata trasmessa la prima delle 10 puntate de «Il ritorno della tribuna politica». E fra gli altri nuovi programmi, venerdì (ore 22) esordirà «Ribalta», approfondimento giornalistico che avrà come ospite fisso Piero Marrazzo, presidente della Regione Lazio, ex conduttore di successo di «Mi manda Rai Tre». La programmazione passerà dalle 4 ore di diretta quotidiana della nascita a novembre scorso, a 9 ore. «E continueremo a dare voce a tutti», promette il direttore Claudio Caprara.

Repubblica Firenze 28.4.09
Binetti: "Renzi è il Pd che vorrei"
La teodem: fa sintesi tra cultura laica e cattolica. Matteo: dov´è il problema?
di Ernesto Ferrara


«Trovo che Matteo Renzi sia una splendida espressione del Pd che io vorrei. È capace di fare davvero sintesi tra una cultura cattolica e una laica». Così dice Paola Binetti, deputata teodem del Pd. E il termometro del dibattito torna a salire. Binetti - antiabortista, contraria alle unioni di fatto, alla procreazione assistita e vicina alle posizioni del Pdl sulla legge sul testamento biologico - era ieri a Firenze per il convegno "Capolinea e dintorni. Fine vita e caso Englaro", organizzato dall´associazione Assi in collaborazione con Scienza e Vita e Movimento per la vita: «Il Pd che io vorrei assomiglia più a Matteo Renzi che ad altre cose. Matteo è coraggioso, giovane e capace di andare anche contro corrente, contro un sistema, capace di assumere su di sé, anche attraverso la sua gioventù, una responsabilità che va oltre il tempo», ha detto la deputata suscitando un certo imbarazzo negli stessi ambienti laici del Pd. Lo stesso Renzi è apparso seccato: «Paola Binetti mi appoggia? Che problema c´è, non vedo la notizia. Lei voleva l´accordo con l´Udc e lo volevo anch´io ma purtroppo non c´è stato», ha detto il candidato sindaco del Pd. I due si erano incontrati in treno, ieri mattina, sul Roma-Firenze. «In viaggio mi ha chiesto per quale circoscrizione fossi candidato, ho dovuto spiegarle che mi candidavo a sindaco», ha raccontato Renzi, che ieri ha incassato l´appoggio del gruppo dei Centouno e in serata ha inaugurato il suo comitato elettorale alla presenza del segretario regionale Pd Andrea Manciulli, del sindaco uscente Leonardo Domenici e di Giuseppe Civati, giovane consigliere regionale della Lombardia. «Il Pd si conferma ambiguo sulle questioni della laicità», attacca la candidata sindaco di "Perunaltracittà" Ornella De Zordo. «Noi preferiamo il Pd all´americana, non quello alla vaticana della Binetti e di Renzi», rintuzza il candidato sindaco Valdo Spini.

Repubblica Firenze 28.4.09
Colombo: "Se Spini vince rinasce la sinistra"


VALDO Spini batte un altro colpo in casa Pd e incassa l´appoggio del deputato, ex direttore dell´Unità, Furio Colombo: «Sostengo Spini perché mi interessano candidati con un vero passato e un vero curriculum, che hanno fatto cose importanti per ragioni importanti in cui continuare a credere. Ritengo che Renzi sia un bravo ragazzo, ma è un moderato di cui la città dei Calamandrei non ha bisogno», ha detto il deputato, ieri a Firenze al comitato elettorale del candidato della lista civica Insieme per Firenze. «Un partito serio come il Pd non può scegliere un candidato solo per l´età e organizzando primarie "a caso" come qui a Firenze - ha aggiunto Colombo - Credo che Firenze e il Pd meritino qualcosa di più di Matteo Renzi: e anzi se Spini a Firenze facesse un buon risultato ci sarebbe una speranza di rinascita per la sinistra non solo fiorentina ma italiana, perché si romperebbe il muro che oggi blocca il Pd».
«Mi presento come candidato di una coalizione di sette tra partiti e gruppi di sinistra, di centrosinistra e civici. E questo è già un bel risultato», ha detto il candidato sindaco Valdo Spini ieri allo Spazio Incontri.
E ancora: «Ma la mia candidatura si propone un obiettivo più largo. Ed è quello di rappresentare, come candidatura a Sindaco, tutta la sinistra, anche quella presente nel partito democratico. Una sinistra del ventunesimo secolo, una sinistra moderna, non certo la nostalgia del novecento o dell´ottocento».

Secolo d'Italia 11.3.09
Invito alla lettura
Ecco perché torna d'attualità Ezra Pound

di Giano Accame


E’ vero: siamo in tempo di crisi e accadono cose davvero sorprendenti. Anche nel movimento delle idee. Occupa appena una trentina di pagine il saggio di Ezra Pound su “Il carteggio Jefferson_Adams come tempio e monumento” ed è quindi motivo di un lieve stupore l’ampiezza dell’interesse che ha suscitato. Il 18 febbraio scorso si parte con un’intera pagina del Corriere della Sera per una recensione di Giulio Giorello, filosofo della scienza, ma anche raffinato lettore dei Cantos da un versante laico-progressista, che ha acceso la discussione a cominciare dal titolo: “Elogio libertario di Ezra Pound. Scambiò Mussolini per Jefferson. Ma il suo era un Canto contro i tiranni.” Di quel titolo il giorno dopo profittava Luciano Lanna per ribadire sul nostro Secolo : “Pound (come Jünger) era libertario”. Due giorni dopo (venerdì 20 febbraio) nelle pagine culturali del Corriere della Sera Dino Messina riapriva il dibattito : “Fa scandalo il “Pound libertario”, mentre il 21 febbraio il tema veniva approfondito da Raffaele Iannuzzi nel paginone centrale ancora del Secolo. Ricordo ancora le critiche rivolte a Pound e a Giorello il 27 febbraio da Noemi Ghetti su LEFT. Avvenimenti settimanali dell’Altraitalia: era abbastanza facile indicare qualche contraddizione tra la censura fascista e lo spirito libertario, pur essendo altrettanto innegabile il durissimo prezzo pagato da Ezra Pound pacifista alla sua appassionata predicazione contro l’usura, la speculazione finanziaria internazionale e le guerre, con le settimane vissute in gabbia nella prigionia americana di Pisa e i dodici anni di manicomio criminale a Washington. Tuttavia nell’ampio dibattito di cui ho segnalato le tappe è comparso solo marginalmente il nome di Luca Gallesi (Antonio Pannullo lo ha però intervistato il 5 marzo in queste pagine sull’etica delle banche islamiche), geniale studioso di Pound cui si deve la pubblicazione del saggio su Jefferson, ma anche e soprattutto l’apertura di nuovi percorsi in una materia di crescente interesse quale è la storia delle idee. Occorre rimediare alla disattenzione per l’importanza dei contributi che Gallesi ci sta suggerendo e per i risultati che nel campo degli studi poundiani sta raccogliendo con l’editrice Ares guidata da Cesare Cavalleri insieme alla rivista Studi cattolici, anch’essa molto attenta al pensiero economico di un poeta che sin dai primi anni ’30 aveva previsto lo spaventoso disordine della finanza globale e il dissesto con cui oggi il mondo à alle prese. Le Edizioni Ares avevano già pubblicato gli atti di due convegni internazionali curati da Luca Gallesi, prima Ezra Pound e il turismo colto a Milano, poi Ezra Pound e l’economia, e dello stesso Gallesi lo studio su le origini del fascismo di Pound ove dimostra che il più innovativo poeta di lingua inglese del secolo scorso era stato predisposto a larga parte dei programmi socio-economici mussoliniani degli anni di collaborazione a Londra con la rivista The New Age diretta da Alfred Richard Orage, espressione di una corrente gildista, cioè corporativa del laburismo. Dalla frequentazione della società inglese Pound si portò dietro anche alcuni trattati del tutto sgradevoli d’antisemitismo, che negli anni Venti salvo rare eccezioni erano ancora ignote al fascismo italiano. L’introduzione di Gallesi al breve saggio di Pound sul carteggio Jefferson Adams punta a estendere agli Usa la ricerca già avviata in Inghilterra sulle origini anglosassoni del fascismo poundiano. Questa volta paragoni diretti tra i fondatori degli stati Uniti e il fascismo non emergono come nel più noto Jefferson e Mussolini ripubblicato nel ’95 a cura di Mary de Rachelwiltz e Luca Gallesi da Terziaria dopo che era andata dispersa la prima edizione per la Repubblica sociale del dicembre ’44. Di Jefferson e Adams da Gallesi viene ricordato l’impegno, da primi presidenti americani, nello sventare i tentativi di Hamilton di togliere al Congresso, cioè al potere politico elettivo, il controllo sull’emissione di moneta per delegarlo ai banchieri e alla speculazione attraverso la creazione di una banca centrale controllata, come nel modello inglese, da gruppi privati. Un’altra traccia innovativa per la storia delle idee è stata suggerita da Gallesi il 4 marzo sul quotidiano Avvenire segnalando il saggio dell’americano Jonah Goldberg, che stufo di sentirsi accusare di fascismo ha scalato i vertici delle classifiche librarie con Liberal Fascism, un saggio ove ha sostenuto la natura rivoluzionaria del fascismo, che durante la stagione roosveltiana del New Deal suscitò “negli Usa stima e ammirazione soprattutto negli ambienti progressisti, mentre all’estrema destra il Ku Klux Klan faceva professione di antifascismo”. Una storia trasversale di idee al di là della destra e della sinistra che Gallesi si prepara a approfondire lungo l’Ottocento americano attraverso la secolare resistenza che da Jefferson in poi vide opporsi correnti legate allo spirito dei pionieri e delle fattorie alla creazione di una banca centrale, che avvenne solo nei primi del Novecento, alla speculazione monetaria e alla dilagante corruzione. Tutti contributi a una interpretazione di Pound, che senza indebolire le posizioni ideali a cui teniamo, risulterà più autentica, più ricca, più fuori dagli schemi, più prossima alla definizione di ”libertario” che della lettura poundiana di Jefferson ha ricavato Giorello. E non so trattenermi dal riportare due frasi che avevo sottolineate un quindicina di anni fa leggendo la prima volta l’ancor più scandaloso confronto tra Jefferson e Mussolini. Una tesa a far somigliare i due leader nella lotta alla corruzione: “In quanto all’etica finanziaria, direi che dall’essere un pese dove tutto era in vendita Mussolini in dieci anni ha trasformato l’Italia in un paese dove sarebbe pericoloso tentare di comprare il governo”. E proprio alla fine del libro l’invenzione della settimana corta, per una gestione politica della decrescita economica che solo adesso assume aspetti marcati d’attualità: “Nel febbraio del 1933 il governo fascista precedette gi altri, sia di Europa che delle Americhe, nel sostenere che quanto minor lavoro umano è necessario nelle fabbriche, si deve ridurre la durata della giornata di lavoro piuttosto che ridurre il numero del personale impiegato. E si aumenta il personale invece di far lavorare più ore coloro che sono già impiegati”. Queste erano le soluzioni pratiche che piacevano a Pound, autore di solito complicato, ma reso a volte paradossalmente difficile per eccesso di semplicità.