giovedì 30 aprile 2009

l’Unità 30.4.09
Berlusconi attacca la moglie
«Ha creduto alle falsità»
di Natalia Lombardo


Silvio Berlusconi risponde attaccando la moglie per aver creduto alle «falsità della stampa di sinistra». Non smentisce di essere stato alla festa di Noemi, che lo chiama «papi». E immagina il Pdl al 50 per cento.

«La signora»: non la chiama neppure «mia moglie», Silvio Berlusconi, anzi la accusa di alimentare la «disinformatia» della sinistra: «La signora ha creduto a quello che hanno messo in giro i giornali, mi dispiace», così il premier ieri a Varsavia, irritato, ha commentato la lettera di Veronica Lario sulle veline candidate, sul «ciarpame senza pudore in nome del potere». Il marito contrattacca: «Una bufala», una «manovra montata dalla stampa di sinistra e dall'opposizione sulle nostre liste con notizie assolutamente infondate», (la scuola di formazione per le euroveline?l’ha fatta Frattini, è la risposta). Berlusconi non smentisce nulla, «farò campagna elettorale con le veline e parleranno», né di essere stato domenica notte in una villa alla periferia di Casoria per festeggiare i 18 anni di Noemi Letizia, con un ciondolo d’oro e diamanti in regalo. La giovane, bionda e carina, nata nel 1991, in un’intervista lo chiama «papi» e rivela una consuetudine affettuosa di famiglia, la bella mamma Anna «che è stata anche valletta a Canale 21». Veronica lancia il colpo più duro sui figli: «Non è mai venuto a nessun diciottesimo dei suoi figli pur essendo stato invitato».
Veline e Velone
I fedelissimi del cavaliere ieri si esercitavano in congetture varie, come se la «velona», la notizia della festa di Noemi, fosse stata rivelata a Repubblica su suggerimento di Veronica e dei suoi legali per far scoppiare il caso, sulla mina della spartizione ereditaria. E un parlamentare scherza: «il Fini giustifica i mezzi», ovvero che il fronte anti-veline è stato aperto dalla Fondazione finiana FareFuturo. Toccato, Berlusconi assicura che i figli gli «vogliono un bene dell'anima». Quanto a Noemi, nessuna festa «piccante» (davanti a tanti flash), è amico di famiglia perché il padre della ragazza «era un autista di Craxi». Il figlio Bobo smentisce. Conclusione da maschio italico: «Le donne a volte sono nervose».
Dario Franceschini si rifà al detto popolare «tra moglie e marito non mettere il dito» (e il premier apprezza), ma denuncia che «Berlusconi ha in mente un mondo fatto di lustrini, veline e denaro. Un mondo del tutto diverso dall'Italia vera». Che nulla sa «di un miliardario che si sposta con aereo privato tra le sue ville», e lui «che ne sa della fatica delle vere donne italiane per affermarsi nel mondo del lavoro?».
Il privato di Silvio irrompe di nuovo nel pubblico, una commistione che lui alimenta con i suoi eccessi (e da molte giovani si fa chiamare «papi» dicono i suoi). Immaginando il Pdl «al 50 per cento» rivendica la scelta delle candidate giovani e belle, contro i «vecchi arnesi della politica» della sinistra, «interessati al compenso e assenteisti» a Strasburgo. Persone colte e preparate», piuttosto che «maleodoranti e malvestite». Il premier, invece, manda avanti deputate (non veline) come Laura Ravetto per trainare voti, e poi farle restare a Montecitorio. Alcune non hanno accettato, come Nunzia Di Girolamo o Beatrice Lorenzin.

l’Unità 30.4.09
L’avanspettacolo e le farfalline
Qualcuna è triste per essere rimasta vittima del «ciclone Veronica»
Ma il peggio è altro: indagati e nemici-amici insieme nel circo del premier
di Concita De Gregorio


Delle veline dirò tra un momento. Della giovane procuratrice legale a cui il Presidente aveva regalato la consueta farfallina d'oro dopo lo «spettacolino» in villa anche: ha telefonato ieri sera in lacrime, l'hanno tolta dalla lista «per colpa di Veronica», dice. Mi hanno sbianchettata». Intende cancellata col bianchetto. Le ragazze sono il meno. Sono lo specchio per le allodole così che tutti parlino di solo loro, delle pupe e non dei bulli. Concorre all'impresa la signora Lario al secolo Miriam Bartolini, una volta lei stessa attrice, convolata a nozze con nome d'arte e da dieci anni almeno in procinto di separarsi da un uomo le cui caratteristiche non devono averla sorpresa nel sonno l'altro ieri. Prima però diciamo dell'amarcord che coglie nello scorrere le liste dei candidati Pdl alle europee: Mario Mastella detto Clemente e Antonino Strano detto Nino, per esempio. Indimenticati protagonisti della seduta d'aula del 24 gennaio 2008, il giorno in cui per cinque voti cadde il governo Prodi. Andò così. Mastella, amareggiato perché il governo Prodi non lo aveva difeso da quello che lui chiamava un agguato giudiziario a sua moglie Sandra, si presentò in aula leggendo «una poesia di Neruda», «Lentamente muore». Purtroppo è di Marta Madeiros (erronea attribuzione di Wikipedia, da cui Mastella deve averla scaricata) ma nella drammaticità del momento non se ne accorge nessuno. Mastella declama per quattro minuti e lascia l'aula. Stefano Cusumano detto Nuccio (da bambino Stefanuccio), siciliano eletto nell'Udeur, annuncia che contrariamente alle indicazioni di Mastella voterà sì alla fiducia. Tommaso Barbato, suo collega di partito, gli si scaglia contro facendo il gesto di sputare e gli urla «pezzo di merda». I commessi lo trattengono. Dal lato opposto dell'aula Antonino Strano detto Nino, munito di occhiali neri da sole a dispetto della totale assenza di riverbero, gli grida «mafioso e venduto», poi anche «checca squallida e frocio». Strano, eletto in An, è indicato dai colleghi come omosessuale - la spiegazione servirebbe a mitigare le sue esclamazioni in quanto esperto del ramo - ma lui chiarisce che degli omosessuali è solo «molto amico». Cusumano sviene sui banchi, Marini sospende la seduta. Il governo Prodi cade che fuori è già notte. Strano viene immortalato nell'atto di ingozzarsi di mortadella in aula (mortadella/Prodi) e di agitare prosecco prima di spruzzarlo sulla moquette. Nei giorni successivi Berlusconi fa sapere che Strano non sarà ricandidato. Difatti ha osservato un turno di riposo: le politiche. Rieccolo alle europee. Nel frattempo ha lavorato: indagato insieme all'ex sindaco Umberto Scapagnini per il buco in bilancio a Catania, condannato a due anni e due mesi per lo scandalo sulla cenere lavica.
Altri con lui. Vito Bonsignore è condannato a due anni di carcere per tentata corruzione nell'appalto per l'ospedale di Asti. Franco Malvano ex questore di Napoli sotto inchiesta per associazione camorristica. Aldo Patriciello imputato in udienza preliminare a Isernia per violazione delle leggi ambientali nel processo Piedi d'argilla, l’accusa di questi tempi particolarmente odiosa è aver messo sabbia nel cemento armato dei piloni della variante, costruttore suo fratello. Fa sorridere, tutto sommato, la candidatura del socialista Lucio Barani assiduo del cimitero di Hammamet, quello che ha sostituito ad Aulla il busto di Gramsci con Craxi, il primo firmatario della legge su Salò. Poco resta alla fine per parlare di letteronze e veline, la più nota delle quali «fidanzata del figlio di un prefetto amico di Gianni Letta». Dispiace, in fondo, per la giovane avvocatessa «sbianchettata" per colpa di Veronica. «Me lo aveva promesso», dice. Sarà per un'altra volta. Vedrà che prima o poi la signora divorzia, non appena sarà chiara la situazione patrimoniale degli eredi suoi figli: vuole che siano tutti trattati al pari di Marina e Piersilvio, un po' come Margherita Agnelli in fondo. Sono questioni dinastiche sull'equa distribuzione del patrimonio. Anche legittime, basterebbe non confonderle con la politica. Dopo il divorzio che immaginiamo senz’altro imminente tutte le farfalline d'Italia avranno quel che è stato loro promesso. Al compimento del diciottesimo anno, certo. Sarebbe proprio sciocco essere arrivati fin qui e rischiare la galera per questo.

Repubblica 30.4.09
Berlusconi cede, via le veline
Vince Veronica, liste cambiate. Il premier: la signora ha creduto alla sinistra
di Francesco Bei


Telefonate di Berlusconi a Letta e ai registi delle candidature. E qualcuno dice: grazie Veronica
Contrordine nella notte da Varsavia "Via le veline". E in lista ne resta una
Da giorni sulle "bellissime" il malumore di una parte della base, soprattutto ex An
Franceschini: il Cavaliere non conosce la fatica delle donne. Maroni sul referendum: se passa il sì è crisi. Varato il federalismo

ROMA - Lo chiamano effetto Veronica. Il vento ha cominciato a soffiare forte la sera di martedì, nel rush finale di chiusura delle liste del Pdl, ancora prima che fosse resa pubblica la dura protesta della signora Lario contro il «ciarpame senza pudore» di alcune candidature femminili. Il presidente del Consiglio, a Varsavia per il congresso del Ppe, informato preventivamente della tempesta in arrivo ha chiesto subito di essere messo in contatto con Gianni Letta e Nicolò Ghedini. In quei drammatici minuti, sul filo tra Roma e Varsavia, un rapido consulto ha prodotto la decisione inevitabile: rinunciare alle euroveline. La telefonata decisiva alle 22.20 a via dell´Umiltà, il premier in viva voce con i tre coordinatori La Russa, Bondi e Verdini: «E va bene, bloccate tutto. Togliete quei nomi, sostituitele e poi mandatemi le liste per l´ok definitivo». Liste sbianchettate dunque? Denis Verdini, lasciando Montecitorio, nega tutto: «Il bianchetto - scherza - me lo metto sulle unghie, anche dei piedi. Ma sulle liste non l´abbiamo usato perché non ce n´era bisogno». Oggi comunque Silvio Berlusconi sarà a Milano (è saltato dunque, fa sapere l´entourage di Gianfranco Fini, il consueto pranzo con il premier) e forse, dopo due giorni di comunicazioni interrotte, e potrebbe avere un chiarimento faccia a faccia con la moglie.
Eppure, al di fuori del refrain ufficiale contro la stampa gossippara, dentro in Pdl sono in molti a confessare che le veline c´erano eccome. E a ringraziare Veronica per lo scampato pericolo. In fondo erano giorni che dal territorio salivano fino a via dell´Umiltà i mugugni dalla base, dalle varie regioni, soprattutto gente di An, peones, per quei nomi catapultati senza alcuna esperienza dal mondo dello spettacolo alla rappresentanza europea. «Quando ho visto la lettera di Veronica - confida una deputata in vista del Pdl - ho capito che ce l´avevamo fatta». Insomma, non tutto il male viene per nuocere. Ridendo sotto i baffi, Ignazio La Russa non resiste alla tentazione della battuta, non sapendo di essere ascoltato da un giornalista: «Noi tre coordinatori abbiamo lavorato bene, ma c´è una che ha lavorato meglio di noi». Chi se non Veronica?
A fare le spese dell´effetto Veronica sembra siano state soltanto in tre, visto che altre ragazze come Angela Sozio e Camilla Ferranti erano già state escluse nei giorni precedenti. L´unica showgirl a resistere è stata Barbara Matera. La scure si sarebbe abbattuta su Elisa Alloro, presentatrice tv, Cristina Ravot, la giovane cantante delle serate di villa Certosa, e Susanna Petrone (Sud), valletta Mediaset di Guida al campionato. A chi martedì notte gli chiedeva spiegazioni, Berlusconi motivava la sua decisione in questo modo: «Io queste ragazze conoscevo, che si erano proposte per fare politica. Se ne conoscete altre fatemi un elenco e vediamo». E il nuovo elenco di sostituite alla fine è venuto fuori, pescando frettolosamente anche fra segretarie e funzionarie di partito. L´altro problema è che pure alcune deputate, come Nunzia Di Girolamo, avevano dato forfait volontariamente, temendo un gioco al massacro con le preferenze. E così si erano creati altri buchi da riempire. Come Beatrice Lorenzin, che aveva convinto Fabrizio Cicchitto a darle una dispensa. O Anna Grazia Calabria, la più giovane deputata, volata fino a Varsavia per chiedere al Cavaliere di non mandarla allo sbaraglio.
Insomma, tra un «riempitivo» e l´altro, le liste alle due di notte erano pronte. «Si sarebbe potuto evitare tutto questo casino - si sfoga a cose fatte un alto papavero forzista, che se la prende con gli uomini vicini a Berlusconi - se qualcuno non avesse chiamato tutte quelle ragazze per fare un corso di politica con Frattini senza prima avvisarci. Avremmo chiamato trenta maschi, si sarebbero mischiati, e nessuno ci avrebbe fatto caso. Ma così era indifendibile». Alla fine anche questa grana è stata chiusa, non senza sfregi all´immagine del Cavaliere. Sospira Sandro Bondi: «Dobbiamo tornare tutti a parlare di politica, quella vera. A star dietro a queste cose perdiamo tutti, politici e giornalisti».

Repubblica 30.4.09
Se la regina grida "Il re è nudo"
di Curzio Maltese


Se a gridare "Il re è nudo!" stavolta è la regina, la notizia fa il giro del mondo. Del mondo più che dell´Italia, anche se il re, anzi l´imperatore, tocca a noi. Tutti i giornali e i siti del mondo titolano con caratteri di scatola le critiche di Veronica Lario al ciarpame politico di Berlusconi e aprono un dibattito sulla democrazia in Italia.
Da noi il dibattito è già chiuso, nascosto dai telegiornali o recintato nell´angusta dimensione del conflitto coniugale, troncato e sopito dai cani da guardia del giornalismo, sommerso infine dal mare della banalizzazione. I regimi sono sempre banali.
Le parole di Veronica Lario hanno aperto una breccia nel muro dell´immagine costruita intorno al potere. Per l´ultima volta, proviamo a guardare dentro e a guardarci da fuori. Che paese stiamo diventando? Siamo un paese dove è considerato normale che il premier scelga veline, ballerine, presentatrici o comunque presunte sue conquiste per fare il ministro, il sottosegretario, il parlamentare italiano o europeo, un paese dove ragazze 18enni nemmeno parenti chiamano "papi" il presidente del Consiglio, dove padri di aspiranti candidate si danno fuoco davanti a Palazzo Grazioli. In qualsiasi democrazia (e perfino sotto molte dittature) questo modo di selezione della classe dirigente, solleverebbe ondate d´indignazione popolare e magari di semplice schifo. E qui è invece tutto un ammiccare complice, di uomini e donne. La sesta o settima potenza industriale sembra felice di essere rappresentata da un premier che, essendo il più anziano in carica ai vertici internazionali, in quindici anni non ha mai pronunciato un discorso politico decente e viene ricordato all´estero soltanto per gaffe, scherzi, corna, battutacce da vecchio macho, regali da sceicco, vanterie sessuali, e per aver detto kapò, Kakà, cucù. Un´ampia maggioranza di cittadini apprezza che il premier si cambi d´abito quando deve recarsi sul luogo del terremoto, come fossimo a teatro. Sorride alle sue battute da schiaffi, "prendetelo un po´ come un campeggio". Applaude allo spostamento del G-qualcosa dalla Maddalena all´Aquila, invece di nascondersi sotto il tavolo dalla vergogna a una trovata così platealmente demagogica. L´opinione pubblica, anche d´opposizione, si felicita con il premier che si è degnato finalmente di presenziare al 25 aprile, patrocinato ormai dagli ex fascisti, senza tuttavia resistere alla tentazione di cambiarne il nome e soprattutto di demolire nei fatti e ogni giorno il risultato, la Costituzione. Gli uomini sono per natura obbedienti, e alcuni popoli, come il nostro, più della media. Ma l´accettare come normale questo stato di servitù, in un´acquiescenza generale e finanche serena, non sembrava possibile. Berlusconi è stato abile, bravo, furbo, ad assuefare, per non dire a corrompere, un popolo intero o quasi. Ci siamo ridotti così un po´ alla volta, e ora tutto insieme.
Alla vigilia di un regime conclamato, qualcuno ci ricorda ancora che esiste la dignità. La sua, di donna, moglie, madre. La nostra di cittadini. Non si tratta dunque di un affare privato, ma di una questione politica. E´ importante ricordarlo, perché ci sono momenti in cui il fiume della cattiva politica tracima in dato antropologico permanente, e questo è il passaggio che stiamo vivendo. Alcuni il confine l´hanno già superato, basta leggere i commenti di certi giornali o il linciaggio via Internet della destra alla signora Lario. Altri si allenano a farlo e altri ancora, una minoranza, non lo faranno mai. Si ostineranno, magari senza successo, a voler abbattere il muro dell´Immagine, che da quindici anni nel nostro paese ha preso il posto di un altro Muro. Ma quella era la storia, queste sono storielle piuttosto miserabili. Se a gridare "il re è nudo!" è la regina, forse il regno non durerà a lungo.

Repubblica 30.4.09
La prevalenza del maschio
di Natalia Aspesi


"Questa situazione va contro le donne e soprattutto contro quelle che sono in prima linea per la tutela dei loro diritti"

Dopo quasi trent´anni di matrimonio non è così facile lasciare un marito, sia pure recidivo nell´offendere platealmente e pubblicamente la dignità di una moglie. E non perché magari lo si è molto amato, o perché con lui si sono avuti tre figli, o perché è ricchissimo e ormai onnipotente. Ci avrà pensato molte volte Veronica Lario.
La più invisibile e discreta delle first lady lo avrà pensato, come lo pensano centinaia di mogli ignote, deluse e offese. Che poi restano lì, nella casa non più amata, nel gelo del rancore irrimediabile, nel fastidio di una vicinanza insopportabile anche se saltuaria, perché c´è sempre una speranza che le cose cambino miracolosamente. E perché certi gesti da eroina paiono del tutto inutili e velleitari, sapendo che l´umiliazione e il dolore di un fallimento personale non saranno leniti da una porta sbattuta, anche se è la porta di una dimora sontuosa, dietro cui si potrebbero lasciare agi grandiosi, ma anche silenzio, riservatezza, una vita appartata e protetta. Lo sdegno che l´altro ieri la signora Berlusconi ha espresso per quella specie di Bagaglino che si stava preparando per entrare nelle liste elettorali europee del pdl, arriva 27 mesi dopo la famosa lettera a Repubblica con cui la signora chiedeva pubbliche scuse del marito per le sue amenità erotiche ai Telegatti. Allora con qualche banale distinguo, la gente apprezzò il coraggio della signora, come capita quasi sempre quando si tratta di schierarsi anche solo astrattamente verso il più coraggioso e il più ferito.
Ma i tempi cambiano in fretta e oggi, imperando incontrastato il premier della libertà anche libertina, sono tutti con lui, i devoti del suo partito, che fanno scoppiare il sito del Pdl di attacchi a colei che ha osato dire la sua. Qualcuno la faccia tacere, ex attricetta, se voleva ricordarci che esiste l´ha fatto nel modo peggiore, ha perso una buona occasione per stare zitta, offendendo tuo marito offendi te stessa e tutti quelli che hanno fiducia in lui, certo che sputare nel piatto che ti ha permesso la bella vita…Magico e irrefrenabile pifferaio, qualunque cosa dica o faccia gli rende sempre più appassionato il suo popolo, che non ha ragione di porsi dei dubbi, e per esempio chiedersi in questo caso se possa giovare al paese e quindi anche a loro che la via per l´esercizio della politica anziché passare dalla cultura e dalla pratica nasca da portfolio in cui si mostrano enormi tette o dalle accoglienti ginocchia del Capo. O anche solo domandarsi: come reagirebbe la mia signora se assumessi come grandi manager solo signorine ventenni di gamba lunga, scosciate e scollate, scarti di concorsi di Miss Italia? Mi taglierebbe la gola o fuggirebbe con tutto il conto in banca?
Anche lo stesso premier, che ai tempi della lettera pubblica della moglie aveva reagito con garbo romantico, questa volta si è arrabbiato, forse perché per smentire la perfida sinistra, per vendicarsi della sua signora che ha osato credere alla realtà della stampa di opposizione e non alle sue finzioni, per far contenti i suoi cortigiani che hanno già promesso liste europee solo di premi Nobel per di più maschi oppure centenari, è stato costretto a limitare le sue vistose e disinibite aspiranti all´europarlamento e ai relativi emolumenti, intasandole di nuovo nelle sue tante televisioni già debordanti di beltà insaziabili. In più con l´onere di dover sopportare le signore dell´opposizione che come si sa, sono troppo spesso «maleodoranti e malvestite», roba che gli appanna il buonumore e il fuoco d´artificio inventivo.
Ma la signora Lario non è solo una moglie e madre che si indigna per le offese all´integrità della sua famiglia, quali l´infantile volo a Napoli per sentirsi dare del "papi" (confidenza che i suoi cinque figli non osano) da una graziosa diciottenne, su stampo identico a tutte le aspiranti tivù, non ancora in politica ma già "gossipista" su un televisioncina privata. Veronica è una donna intelligente, preparata, attenta: quel «ciarpame senza pudore, tutto in nome del potere», che costituisce quello che lei definisce il divertimento dell´imperatore, è il risultato della «sfrontatezza e della mancanza di ritegno del potere che offende la credibilità di tutte le donne». La signora inquadra benissimo e con belle parole un momento drammatico: non si era mai visto un simile arretramento delle donne da una presunta parità, al ritorno dell´unica affermazione possibile della femminilità, quella delle favorite di corte. Questa situazione «va contro le donne in genere e soprattutto contro quelle che sono sempre state in prima linea e che ancora lo sono a tutela dei loro diritti», dice Veronica Lario.
Di nuovo, il valore delle donne si identifica nella grazia fisica e nella giovinezza, cioè in un breve periodo della vita, e ci si può quindi chiedere se la carriera politica delle signore Carfagna e delle altre terminerà con le loro prime rughe o i chili in più. Se da noi la televisione è un veicolo indispensabile a ogni tipo di carriera cominciando da quella politica, che negli altri paesi si prepara in scuole di massimo prestigio e difficoltà, ci si chiede come mai non sono stati cooptati per le prossime elezioni i pur amatissimi maschi dai toraci lucenti del Grande Fratello o della Fattoria o della pubblicità. È semplice (fino a quando non avremo un premier gay); perché la gestione politica del potere è tornata solidamente in mano agli uomini che come ci mostra ogni giorno il telegiornale sono spesso inguardabili per bruttezza, antipatia, ridicolaggine, volgarità, e non li vorrebbe proprio nessuno, tranne appunto la politica. Già le donne di età, esperienza, forza, pazienza, che, in numero esiguo, si erano guadagnate un posto nei parlamenti e nei governi passati, dovevano subire i lazzi per i loro tailleur sbagliati o la loro scarsa avvenenza. C´erano ma non le volevano, oggi non si vorrebbero neppure le giovani e belle, ma pazienza, se tiran su il morale del Capo non si può dire di no, purché da vere donne, non pretendano di capire, sorridano e dicano sempre di sì.

Corriere della Sera 30.4.09
Il Cavaliere oggi vola a Milano per un chiarimento con la moglie
Il presidente del Consiglio ai suoi «Stavolta non mi scuso»
di Francesco Verderami


ROMA — Non sapeva se ridere o di­sperarsi, Enrico Letta: «Stanno per arriva­re dati terrificanti sul fabbisogno dello Stato, e di cosa si parla? Di 'papi'». Per­ché in effetti non si parlava d’altro ieri in Parlamento, della diciottenne Noemi che chiama Berlusconi «papi» e dell’en­nesima sfuriata di Veronica Lario contro il marito. Ma per quanto possa apparire paradossale non c’è differenza tra questa storia d’interno familiare e i conti dello Stato, perché lo scontro tra il premier e la sua consorte è un affare di Stato nel sistema della seconda Repubblica.
Così la «dynasty all’italiana» si è pre­potentemente infilata nelle dinamiche politiche. All’ombra di una lite privata sulla suddivisione dell’asse ereditario— con Berlusconi a dir poco irritato con la moglie, «la signora», che starebbe cer­cando di «mettermi contro i figli» — si sono prodotti effetti sul Pdl e sul gover­no, con ministri e dirigenti di partito pre­occupati per i contraccolpi d’immagine alla vigilia delle elezioni. Perché dopo il 25 aprile il Cavaliere è schizzato ben ol­tre il 73% nella fiducia degli italiani e il suo partito nei rilevamenti ha raggiunto «quota 45%».
Insomma, il rischio che la lite recasse danni c’era. Non a caso ieri mattina il Ca­valiere ha commissionato subito un son­daggio, dal quale — così ha spiegato in serata ai suoi — «sono uscito vincitore». Gli italiani sarebbero dalla sua parte, «stavolta non dovrò chiedere scusa», co­me accadde nel 2007 dopo la lettera in­viata dalla moglie a Repubblica. Tanto basta per capire quanto abbia inciso la faccenda privata nelle faccende pubbli­che. Ecco perché martedì — venuto a sa­pere in mattinata delle intenzioni della moglie — Berlusconi aveva invano tenta­to di evitare che la questione esplodesse. Ecco perché oggi avrebbe intenzione di volare a Milano. Ecco il motivo per cui sarebbe saltato il pranzo con Fini.
D’altronde non sarebbe stata una cola­zione serena, dato che Berlusconi aveva il dente avvelenato con il presidente del­la Camera, perché la sua fondazione, Fa­refuturo, con un articolo aveva sparato a zero sulle «veline in lista», prima che la moglie lo attaccasse. Quando poi la si­gnora Lario ha fatto riferimento proprio a quell’articolo, apriti cielo. È vero che Fi­ni aveva in parte rettificato il tiro di Fare­futuro, ed è vero che le liste del Pdl all’ul­timo momento sono state in parte sbian­chettate, «ma le candidature — racconta il coordinatore Verdini — erano concor­date, Gianfranco ne era a conoscenza. Più volte l’ho sentito in questi giorni». La Russa conferma la versione del colle­ga, «eravamo d’accordo su tutto, anche perché avevamo potere di veto sulle pro­poste ».
Il ministro della Difesa, chiamato spes­so a fare da pompiere tra il Cavaliere e Fini, ci prova anche stavolta: «A parte il fatto che Gianfranco ha preso subito le distanze dall’articolo di Farefuturo, Sil­vio non ce l’ha con lui. Diciamo che gli attribuisce una sorta di 'responsabilità oggettiva', come accade alle squadre di calcio che devono rispondere del com­portamento dei tifosi sugli spalti».
Sarà, ma ciò non basta a placare l’ira del premier, pronto a sfidare tutto e tut­ti, facendo campagna elettorale «con le veline a fianco»: «Ho chiesto dei giovani perché non volevo che le liste fossero in­zeppate dai soliti noti, per di più d’età avanzata. Mentre il Pd candida Berlin­guer e Cofferati, alla faccia del rinnova­mento. Ed è spregevole quello che han­no detto sul conto di alcune ragazze. La stessa cosa l’avevano fatta con Mara Car­fagna. E poi...». E poi Franceschini ha ri­conosciuto che verso la ministra «gli uo­mini hanno mostrato tutto il loro razzi­smo inconsapevole, il loro maschili­smo ». Insomma, dirà pure «cose sbaglia­te » ma è «preparata».
Non erano tuttavia solo le «veline in lista» il motivo del dissidio tra Berlusco­ni e sua moglie, e se la «dynasty all’italia­na » è diventata un affare di Stato, è pro­prio il leader del Pd che l’ha spiegato nel­l’intervista alla Stampa, quando ha getta­to lì che «dopo Silvio ci sarà Pier Silvio». Non era una battuta, c’era dietro un ra­gionamento sul sistema presidenziale ca­ro al Cavaliere, e che riproduce il model­lo statunitense, dove da decenni le gran­di famiglie si contendono la Casa Bianca: dai Kennedy, ai Bush, ai Clinton.
Ecco perché ieri non si parlava d’altro in Parlamento, nonostante la crisi, l’Abruzzo. E soprattutto il sì del Cavalie­re al referendum. Una mossa dirompen­te. Perché è vero che il 21 giugno difficil­mente la consultazione otterrà il quo­rum, ma ci sono alcune variabili che ven­gono calcolate nel Pdl: insieme al 12% de­gli italiani che andrebbe a votare per i ballottaggi, c’è un 15% di cittadini legati al referendum. Se poi a sostenerlo ci fos­sero Berlusconi, Fini e Franceschini...
Di qui alle Europee il premier non di­rà altro sull’argomento, attenderà il risul­tato delle urne. E se davvero superasse il 45%, allora potrebbe anche decidere di dare un ulteriore segnale sul referen­dum. «E se passasse — come dice Cic­chitto — sarebbe con quella legge che si andrebbe a votare». Magari in anticipo.

Corriere della Sera 30.4.09
La first lady «Sono una donna oramai abituata alla solitudine»
Veronica, tormento e affondo «Prima o poi penserò a me»
Lo sfogo: lotto per i ragazzi. La «sorpresa» di Marina e Piersilvio
di Angela Frenda


MILANO — È l’ora, in parti­colare, ad aver stupito tutti: le 22 e 38. Chi la conosce bene, sa che i colpi di testa non appartengo­no a Veronica Lario. E invece, quel comunicato inviato all’An­sa a tarda sera, dimostrerebbe l’esatto contrario.
Ecco perché molti si sono chiesti che cosa possa aver scate­nato l’irritazione improvvisa del­la moglie del presidente del Con­siglio. Arrivati a questa fase del­la vicenda, sono rimasti in pochi a credere al movente della gelo­sia. Al di là delle foto ufficiali e dei servizi posati e concordati - come quello a Portofino con tut­ta la famiglia allargata - per i Berlusconi il Mulino Bianco sem­bra essere un’idea oramai sbiadi­ta. D’altronde, da anni Veronica Lario coltiva con passione la sua immagine di donna forte, anti­conformista e intellettualmente indipendente, anche rispetto al marito. Basta ricordare le sue di­chiarazioni su alcune vicende pubbliche, come la fecondazio­ne assistita o il caso Englaro. E per questo appare difficile imma­ginare che possa ancora ingelo­sirsi per le boutade o le iniziati­ve folcloristiche di Silvio Berlu­sconi. Lei stessa nella sua lettera pubblica del 31 gennaio 2007 scriveva: «Nel corso del rappor­to con mio marito ho scelto di non lasciare spazio al conflitto coniugale, anche quando i suoi comportamenti ne hanno creato i presupposti». Allora la lite fu composta con le pubbliche scu­se del consorte, che misero a ta­cere anche le insistenti voci di di­vorzio. Poi arrivò la «trasforma­zione » di Veronica: capelli mossi e non più lisci, abiti colorati neo-folk, l’adorato nipotino Ales­sandro, il figlio di Barbara, esibi­to con orgoglio. E spesso accan­to, per un improvviso restyling familiare, Silvio Berlusconi.
Tutto inutile. La tregua appa­rente è stata rotta l’altro ieri da quel comunicato carico d’ira e d’indignazione. E nulla esclude che Veronica possa rendere an­cora più esplicito il conflitto e abbandonare le convenienze. Sa­rebbe nel suo stile. A infastidir­la, stavolta, l’improvvisata di Berlusconi a Napoli, alla festa di 18 anni di Noemi Letizia. In un momento delicato in cui forse lei avrebbe preferito che il mari­to rimanesse a casa, magari ac­canto alla figlia Barbara, al setti­mo mese di gravidanza, in atte­sa del secondo bambino. Ma in­tanto chi conosce bene i Berlu­sconi sa che vivono da anni in case diverse: Veronica a Mache­rio, Silvio ad Arcore. Difficili da credere, dunque, le frequenti battute del premier su episodi di quotidianità familiare.
Alle amiche più care, poche e selezionate, la riservatissima Ve­ronica avrebbe più volte confida­to la sua solitudine: «Abbiamo esistenze separate. Io sono una donna oramai abituata alla soli­tudine. Ma per fortuna mi onora e mi rafforza il mio ruolo di mamma e di nonna. È per i miei figli che vivo. E combatto. A me? Ci penserò solo quando tutto sa­rà a posto». Una frase sibillina. Che però, chi la conosce bene, interpreta nell’ottica della grande questio­ne, tuttora irrisolta, della sparti­zione ereditaria. Aspetto che sa­rebbe pesantemente dietro la sua esternazione di martedì se­ra. Il futuro manageriale e patri­moniale dei suoi tre figli — Bar­bara, Eleonora e Luigi — sta par­ticolarmente a cuore a Veronica Lario. Che spesso avrebbe mani­festato i suoi timori di vederli pe­nalizzati rispetto a Marina e Pier­silvio, nati dal primo matrimo­nio del Cavaliere con Carla Elvi­ra Dall’Oglio. È la Fininvest, la «cassaforte» di famiglia, ad esse­re al centro della contesa. C’è poi da definire l’eredità patrimonia­le di Berlusconi. Nel 2006 è stato assegnato a ognuno dei tre figli avuti da Veronica Lario il 7,6 per cento di Fininvest. Ma c’è anco­ra da fare. Sia per quanto riguar­da il 63 per cento del gruppo an­cora in mano al Cavaliere, sia per stabilire chi comanderà dav­vero domani. Ciò nonostante, se­condo indiscrezioni, Marina e Piersilvio ieri avrebbero accolto con sorpresa la dichiarazione al­l’Ansa di Veronica. Infine, un’altra questione di fondo riguarderebbe l’esito di un’eventuale separazione. Di qui quel «poi penserò a me», spesso ripetuto alle amiche. Si dice in­fatti che la sua lettera pubblica del gennaio 2007 avrebbe dato il via a una sorta di «lodo» (smenti­to dall’avvocato del premier, Nic­colò Ghedini) che prevedereb­be, in caso di separazione, una diversa e più cospicua sistema­zione patrimoniale per Veronica Lario.
Fin qui le ipotesi. Resta il ge­sto di grande rottura scelto dalla signora Berlusconi. Rispetto al quale sono arrivati, naturalmen­te, apprezzamenti da sinistra. Ad esempio quello di Giovanna Me­landri. Ma il «popolo» azzurro ha gradito davvero poco. Ieri, in­fatti, il sito del Pdl è stato bom­bardato con email d’ira e di pro­testa. Il bersaglio, si capisce, era lei, Veronica. Il capo d’imputazio­ne: ha danneggiato l’immagine del premier. E così c’è chi, come Andrea, scrive: «Caro Presiden­te, dica a sua moglie di compor­tarsi da vera first lady e di accom­pagnarLa nei suoi viaggi istitu­zionali come fanno le altre. Altro che comunicati indignati».

l’Unità 30.4.09
La medicina sa come si combatte la sofferenza
La legge non ancora
a colloquio con Gian Domenico Borasio Professore Ordinario di Cure Palliative, Università di Monaco di Baviera, di Luca Landò


Il mio consiglio da medico? Emigrare il prima possibile. Lo so, è una provocazione, ma se questa sciagurata legge sul testamento biologico dovesse venire approvata nella sua forma attuale, chi volesse essere sicuro di poter morire in pace dovrebbe andar via dall’Italia».
Detto da uno che da anni vive in Germania fa un certo effetto, ma Gian Domenico Borasio, uno dei maggiori esperti di medicina palliativa al mondo, rientra nella categoria dei cervelli in fuga, di quegli scienziati che l’Italia prepara con cura e poi regala all’estero. In questo caso all’Università di Monaco di Baviera dove occupa la cattedra di Cure Palliative. Ha redatto il protocollo per interrompere l’idratazione e l’alimentazione di Eluana Englaro ed è presidente del comitato scientifico dell’Associazione «Per Eluana». Il ministero della Giustizia tedesco lo ha nominato membro ad personam della commissione che stabilisce i principi per una legge sul testamento biologico. Borasio è cattolico praticante e membro del consiglio scientifico dell’Accademia Cattolica della Baviera.
Perdoni, ma che c’entrano le cure palliative con le dichiarazioni anticipate di trattamento, il testamento biologico insomma?
«Esiste un nesso strettissimo tra le cure palliative e l’autodeterminazione del malato, recentemente ribadito da una risoluzione del Consiglio d’Europa che stabilisce: “Le Cure Palliative permettono alle persone con malattie gravi, forti dolori o grande disperazione di esercitare la loro autodeterminazione. L’approccio delle Cure Palliative (...) contribuisce direttamente all’asserzione dei diritti umani, civili e partecipativi fino alla morte dell’individuo”».
D’accordo, cosa sono allora le cure palliative?
«L’Organizzazione mondiale della sanità le definisce “un approccio che migliora la qualità della vita dei malati e delle famiglie che si confrontano con i problemi associati a malattie inguaribili”. Già qui ci sono due concetti che differiscono dalla medicina classica: non si parla di curare o di prolungare la vita, ma di migliorare il più possibile la qualità di quella che resta. Inoltre, le cure palliative si occupano dei familiari nella stessa misura nella quale si occupano dei malati. Primo, perché una malattia grave è un problema per tutti i componenti della famiglia. Secondo, perché le nostre ricerche hanno dimostrato che i malati terminali cambiano radicalmente la scala dei loro valori: passano da una visione egoistica della vita ad una altruistica, e si preoccupano più per la loro famiglia che per se stessi. Migliorare le condizioni psicologiche dei loro cari, quindi, contribuisce direttamente a migliorare la qualità della vita di chi sta male. Ci sarebbe da riflettere sul perché uno debba aspettare di morire per scoprire i valori dell’altruismo...».
La qualità della vita è un concetto poco scientifico, non le pare?
«Al contrario: è uno dei concetti scientifici più studiati degli ultimi anni. È sicuramente un concetto soggettivo, come lo sono peraltro il dolore e la sofferenza. Ma è anche quello che ci spinge a stare, sempre, dalla parte del malato. La medicina palliativa deve fare il possibile per consentire al malato di sentirsi meglio, in tutti i sensi».
In che modo?
«Di nuovo l’Oms, testuale: “Attraverso la prevenzione e il sollievo dalla sofferenza, per mezzo dell’identificazione precoce, della approfondita valutazione e del trattamento del dolore e di altri problemi fisici, psicosociali e spirituali”. Qui, per la prima volta, i problemi di tipo psicosociale e spirituale vengono messi sullo stesso piano di quelli fisici. Quale di queste aree sia più importante per la sua qualità di vita è il malato a dovercelo dire».
Non mi dirà che un medico si deve mettere nei panni di un prete?
«Il benessere spirituale è un concetto che prescinde dalla religione. In Germania, se chiede chi si considera religioso le risponderanno positivamente in quindici su cento; ma quando chiediamo ai nostri malati se si considerano “credenti, nel senso più ampio del termine” le risposte positive arrivano all’87%. Di fronte alla morte le domande di tipo esistenziale e spirituale affiorano spontaneamente. Se un malato mi chiede “Perché proprio a me?” non posso rispondergli: “Questo è meglio che lo chieda al cappellano”. Anche un medico deve avere il coraggio di confrontarsi con domande alle quali non esiste una risposta».
Qual è esattamente il compito del medico nelle cure palliative?
«Le cause di sofferenza nei malati terminali sono diverse: sintomi fisici, quali il dolore, la nausea, o la mancanza di fiato, ma anche ansia per la famiglia o questioni di tipo esistenziale. Metà del nostro lavoro concerne l’assistenza psicosociale e spirituale, l’altra metà le terapie mediche. Fra queste, la terapia del dolore occupa circa un terzo, e quindi un sesto del nostro impegno totale. Un buon palliativista riconosce la causa primaria della sofferenza che affligge la persona in quel momento e interviene di conseguenza. Ancora meglio è riuscire a prevenire la sofferenza quando ciò è possibile - il testamento biologico ne è un esempio».
In Italia è iniziata la discussione per una legge sulle cure palliative.
«Apprezzo lo spirito ma il testo è carente, in particolare per quel che riguarda la copertura finanziaria della rete di cure palliative sul territorio: 2,1 milioni di euro l’anno. Una somma risibile, con la quale si potrebbero curare solo 700 pazienti, ovvero lo 0,1% dei malati terminali in Italia. In Germania le cure palliative domiciliari ricevono 240 milioni di euro annui, 120 volte quelli ipotizzati in Italia».
Se dovesse scriverla lei questa legge, su cosa punterebbe?
«Al primo articolo metterei senz’altro l’introduzione delle cure palliative come materia d’esame obbligatoria in ogni facoltà di medicina. I medici devono saper curare tutti i malati, anche quelli gravi che più soffrono o stanno per morire. Mi chiedo quale altra materia possa essere più necessaria per un medico. Eppure non c’è. In Italia non esistono cattedre di cure palliative. In Germania, che dopo l’Inghilterra e l’Irlanda è uno dei Paesi più all’avanguardia in Europa, ce ne sono sei e altre tre sono in progetto. E ne stanno nascendo anche in Austria, Svizzera e Francia, dove le cure palliative sono state definite per legge priorità nazionale. In Italia no. E dire che questo consentirebbe ai medici di famiglia di svolgere la maggior parte del lavoro: perché di tutti i malati terminali, solo il 10-20% ha bisogno di un’assistenza specializzata. Il restante 80% necessita sì di cure palliative, ma a un livello che ogni medico di base preparato potrebbe dare. Non introdurre le cure palliative negli studi di medicina significa correre il rischio, altissimo, di trovarsi nelle mani di un medico incompetente ad alleviare le nostre sofferenze quando sarà il nostro turno. Non lo auguro a nessuno».
Secondo articolo?
«Riguarda quel 10-20% di malati che ha bisogno di cure palliative specializzate, per i quali anche un medico di base preparato non sarebbe più sufficiente. Anche questi pazienti, tranne i casi più gravi che però sono solo l’1-2%, potrebbero restare a casa se venissero adeguatamente seguiti. In Germania si sta realizzando su tutto il territorio una rete di cure palliative specializzate domiciliari. Si tratta di gruppi di otto persone - tre medici, quattro infermieri e un assistente sociale - che assistono a casa il malato e i suoi familiari. Ogni gruppo riesce a seguire ogni anno circa 250 malati terminali particolarmente gravi. Al secondo punto metterei proprio l’istituzione di una rete simile. Ovviamente con finanziamenti adeguati».
Terzo punto di questa ideale “legge Borasio”.
«Definirei con chiarezza che le cure palliative si devono occupare di tutti i malati terminali e non solo di quelli oncologici. Il testo in discussione alla Camera è focalizzato sui malati di cancro, ma solamente il 25% della popolazione muore di tumore, mentre il 70% muore di malattie croniche o degenerative di tipo prevalentemente internistico o neurologico. Non possiamo concentrare le cure palliative su un quarto dei malati e tralasciare tutti gli altri».
Torniamo alla domanda iniziale: che c’entrano le cure palliative con l’autodeterminazione nel fine vita?
«Se un malato soffre terribilmente a causa di sintomi non curati, non è in grado di prendere decisioni autonome. Riducendo la sofferenza, ogni tipo di sofferenza, consentiamo alle persone di decidere serenamente come affrontare l’ultima parte della propria vita. Morire è un fatto fisiologico, come il nascere».
C’è una bella differenza.
«Meno di quanto si pensi. Vi sono molti punti di contatto tra il venire al mondo e l’uscirne. Nella maggioranza dei casi, ambedue gli eventi avvengono nella maniera migliore se vengono disturbati il meno possibile dai medici. In Olanda, dove è diffusa la pratica di partorire in casa, la mortalità infantile è minore che in Italia. Nelle nascite, come nella morte, esiste poi una percentuale di casi dove l’intervento medico è necessario; e nelle nascite, come nella morte, ci sono casi, molto più rari, dove è necessaria la disponibilità di una struttura altamente specialistica, come i reparti di terapia intensiva neonatale o le unità specializzate di medicina palliativa».
Cosa ne pensa del rifiuto della nutrizione artificiale recentemente espresso da Paolo Ravasin e Paolo di Modica, malati di Sla?
«È un loro sacrosanto diritto. Inoltre, in fase terminale, la nutrizione e l’idratazione artificiali non solo non servono a niente, ma sono addirittura dannose. I fluidi iniettati per via endovenosa, non potendo più essere espulsi perché i reni smettono di funzionare molto prima della morte, si infiltrano nei tessuti e causano edema polmonare con conseguente soffocamento. È per questo che la Società Italiana di Cure Palliative, riferendosi al ddl Calabrò, ha scritto che “questo disegno di legge, è evidente, ci imporrebbe, in ambito palliativo, di attuare delle pratiche contrarie al bene dei pazienti”. Come è possibile che si continui a perseguire un disegno di legge rifiutato dagli specialisti e dalla stragrande maggioranza dei medici, che sarebbe causa diretta di inutili sofferenze in fase terminale e che darebbe ai sondini più diritti che ai malati? Io spero ancora, nonostante le evidenze, che alla fine prevarrà la ragione».

Repubblica 30.4.09
Gli scatti e un testo inedito di Jean Baudrillard
Fotografia. L’ombra del reale


È una illusione che l´immagine sia "oggettiva" mentre non è altro che una emanazione del nostro sguardo
Occorre capire che gli oggetti sono sensibili alla ripresa quanto gli esseri umani
Oggi ognuno può credere di veder sfilare lo spirito del mondo davanti al proprio obiettivo
Wittgenstein diceva che in teatro uno scenario di alberi disegnati è meglio degli alberi veri
A volte la violenza estrema messa in mostra rischia di diventare un effetto speciale

Questo testo di Jean Baudrillard, inedito per l´Italia, è la base teorica su cui la vedova del filosofo, Marine, ha allestito la mostra fotografica che si inaugura oggi a Reggio Emilia.

In fondo tutte le fotografie sono come le ombre platoniche proiettate sulle pareti della caverna, o come quest´ombra spettrale dell´irradiato di Hiroshima, transverberato dalla luce atomica – esempio perfetto del cliché istantaneo. Stessa proiezione "acheiropoietica" di quella del sudario del Cristo (oggetto indipendente dalla nostra volontà, l´ombra è in sé stessa un segno acheiropoietico). Le immagini più pregnanti sono quelle più vicine a questa scena primitiva di un´iscrizione fantomatica e più lontane dall´intervento umano.
La silhouette atomizzata di Hiroshima, sostanza polverizzata del corpo: un´impronta fossile – volatilizzazione dell´oggetto in una sostanza non carnale, una traccia. I fossili stessi sono altrettanto vicini all´analogon fotografico, sono come dei negativi fotografati da una mano invisibile, come le pitture rupestri del neolitico, quest´arte parietale da cui la figura umana è misteriosamente assente (salvo le mani "in negativo" contornate sulle pareti come a partire da una fonte luminosa). Unica figura moderna erede di queste pitture murali e di una forma "fotografica" del segno – più vicina a una figurazione automatica che al segno rappresentativo – sono i graffiti: anch´essi inseparabili dalle pareti.
La fotografia è l´ombra proiettata sulla pellicola di ciò di cui non avremo mai l´esperienza concreta, oggettiva, e di cui neppure conosceremo mai la fonte luminosa, proprio come i prigionieri della caverna platonica, i quali del mondo esterno e della propria esistenza non conosceranno mai altro che il riflesso.
La sfilata delle ombre (la mia sulla parete ocra, quella degli alberi, quelle dei personaggi sulla parete della Recoleta, o tutte queste sagome silenziose, la notte nelle strade di Venezia), tutto questo teatro d´ombre è come il riflesso di un mondo anteriore in cui non eravamo ancora altro che ombre, di un´età dell´oro crepuscolare in cui gli uomini non sono ancora precipitati verso la luce brutale del mondo reale, verso questo deserto dove tutte le ombre sono vittime della luce artificiale e della realtà virtuale, dove i corpi sono diventati traslucidi in un mondo sovraesposto dall´interno.
La fotografia, appunto, conserva la traccia di una scrittura d´ombra, quale essa è altrettanto che "scrittura di luce", e dunque il segreto di una fonte luminosa venuta dalla notte dei tempi.
Si dice dell´ombra che ci segue, ma di fatto essa ci ha sempre già preceduti, e ci seguirà. Come la morte: noi siamo già stati morti prima di essere viventi, e lo saremo ancora dopo.
Il controsenso più totale, e più generale, è l´ipertecnicità di tutte queste immagini così perfette, così impeccabili, in cui traspare soltanto l´iperrealtà della tecnica come effetto speciale (lo sfocato stesso è un effetto speciale). Di colpo la violenza che esse ci mostrano è soltanto un effetto speciale. Impossibile sfuggire a questo ricatto e di fronte a questa vampirizzazione estetica della miseria resta solo revulsione e repulsione. È come nella scena di condizionamento ottico di Arancia meccanica, in cui si è costretti a mantenere gli occhi aperti su scene insopportabili nell´illusione di purgarne l´immaginazione. Più è atroce, più è estetico, e tutti applaudono, secondo un rituale feroce di compiacimento "professionale". Del resto, non si sa più a che cosa si applaude: alla morte? alla performance? È per questa ragione che tutte queste immagini non ci toccano più, sono un´arma di distruzione di massa dell´intelligenza e della sensibilità.
Il controsenso è sempre dell´ordine del realismo, dell´alterazione del senso attraverso l´"informazione" inutile. Viene da pensare a una riflessione di Wittgenstein sulla scena teatrale: uno scenario di alberi dipinti è molto meglio che uno di alberi veri, che distrarrebbero l´attenzione da ciò di cui si tratta. O ancora, nei reportage sulla micidiale canicola del 2003 in cui ci vengono mostrati i vecchi in carne e ossa, frontalmente, nella loro agonia – ben più violenti, ben più pungenti erano le fotografie degli immensi camion di refrigerazione dove sono conservati per vari giorni i corpi che non si possono seppellire, ma che non si vedono. Immagine fredda, obliqua, molto più efficace per l´immaginazione. Ovunque la verità, la veracità tecnica, essa pure inutile, esilia l´essenziale – nella sfera delle funzioni inutili.
Della stupidità realista fa parte non solo la perfezione tecnica delle immagini, ma anche la loro accumulazione. Sempre più immagini si accumulano in serie, in sequenze "tematiche", che illustrano fino alla nausea lo stesso avvenimento, che si accavallano e si succedono – immagini che credono di accumularsi e di fatto si annullano l´un l´altra. Ciò che viene completamente cancellato in questa storia è la libertà delle immagini le une rispetto alle altre. Ognuna priva l´altra della sua libertà e della sua intensità. Ora, bisogna che un´immagine sia libera da se stessa, che sia sola e sovrana, che abbia il proprio spazio simbolico (la qualità "estetica" qui non è in causa). Non si è capito che è in atto un duello delle immagini tra loro. Se sono vive, seguono la legge degli esseri viventi: selezione ed eliminazione. Ogni immagine deve eliminarne un´infinità d´altre. È esattamente nel senso inverso che si va oggi, in particolare con il digitale, dove la sfilata delle immagini assomiglia alla sequenza del genoma.
È vero che oggi ognuno può immaginare di veder passare il Weltgeist davanti al proprio obiettivo e di essere diventato, grazie all´incessante padronanza sulle immagini, una coscienza universale. È il regno dell´espressionismo fotografico – di fronte a degli oggetti che non aspetterebbero altro che di essere visti e fotografati, cioè presi a testimoni dell´esistenza del soggetto e del suo sguardo.
Vi è qui invece un errore totale sulla ripresa e sull´essenza dell´immagine, considerata uno stereotipo oggettivo. Infatti non si tratta affatto di una registrazione, ci sono tante cose che fotografiamo mentalmente, senza necessariamente usare una macchina fotografica (del resto le più belle sono forse quelle che avremmo potuto fare in sogno, ma, ahimè, non avevamo la macchina!). È di una visione fotografica del mondo che si tratta nella fotografia, una visione del mondo nel suo dettaglio, nella sua stranezza e nella sua apparizione. Talvolta c´è passaggio all´atto, cioè a una ripresa che materializza questa visione delle cose, non così come sono, ma come in se stesse la fotografia le cambia, "just as they look as photographed". Perché la cosa fotografata non è affatto la stessa, e questo sguardo, questa visione, è da essa che emana, così come entra nel campo, nel momento dell´atto fotografico. E ciò che ne risulta – l´immagine – non ha affatto l´aria di quello che le cose sono oggettivamente, ma di quello che assumono "di fronte" all´obiettivo.
Gli oggetti sono sensibili alla ripresa quanto gli esseri umani – da qui l´impossibilità di testimoniare la loro realtà oggettiva. Quest´ultima è un´illusione tecnica, che dimentica che essi entrano in scena nel momento dello scatto, e che ciò che la fotografia può fare di meglio, ciò di cui può sognare, è di catturare questa entrata in scena dell´oggetto (escludendo ogni messa in scena o artificio sti-listico).
Ombre et photo, in François L´Yvonnet (a cura di), Jean Baudrillard, Paris, L´Herne, 2004, pp. 231-232.
Traduzione di Elio Grazioli

Corriere della Sera 30.4.09
Venti quadri del maestro francese e le stampe giapponesi che influenzarono il suo stile
Monet. il giardino incantato
Nel ciclo delle Ninfee il sogno della sua vita. La natura diventa arte
di Francesca Montorfano


Pare quasi di vederlo, Monet, davanti a quello spettacolo magico della natura che lui stesso ha creato. È il 1890 quando il pittore acquista la casa di Giverny, rea­lizzando il sogno di una vita: un giardino che fosse «un baccanale» di colori, che di­ventasse la sua opera d’arte en plein air, che si trasformasse esso stesso in un qua­dro, anzi in una serie quasi infinita di di­pinti, di dimensioni sempre più grandi, per i quali dovrà costruire un apposito atelier. Da una parte il tripudio sfolgoran­te di girasoli, nasturzi, rose, iris, gerani, papaveri e dalie del Clos Normand, dall’al­tra il segreto di quello specchio d’acqua che negli ultimi decenni assorbirà gran parte del suo tempo e delle sue energie.
Neppure durante i soggiorni in Norve­gia e in Normandia, a Londra o a Venezia, Monet dimentica di essere un giardiniere e anche da lontano indica e controlla ciò che va fatto. «Ci vuole del tempo per com­prendere un paesaggio», scriverà. E lui di tempo a quel giardino diventato famoso nel mondo, visitato da artisti, letterati e uomini politici, Cézanne e Mary Cassat, Proust (che nella sua Recherche ne dà un’indimenticabile descrizione) e Cle­menceau, ne ha dedicato tanto.
Solo dopo anni e svariati tentativi ottie­ne dal Comune il permesso di far deviare il corso del vicino torrente Ru e trasforma­re lo stagno in uno specchio d’acqua più grande, che contorna di glicini e bambù, di cotogni, ciliegi ornamentali e salici piangenti e dove mette a dimora le ama­tissime ninfee, seguendo le suggestioni di quei paesaggi giapponesi che tanto lo affascinano. Renderle sulla tela diventerà per oltre trent’anni la gioia e il tormento della sua vita: «Non dormo più per colpa loro. Di notte mi torturo pensan­do a ciò che sto cercan­do di realizzare… Ma non voglio morire sen­za aver detto ciò che avevo da dire. E i miei giorni sono contati», annota nel 1925.
E proprio alle ninfee è dedicata la mo­stra di Palazzo Reale che vedrà esposti venti capolavori usciti per la prima volta in tal numero dal Museo Marmottan di Pa­rigi, dove è conservata una delle più im­portanti raccolte di opere del pittore: ven­ti grandi tele dipinte in quella sua ultima, altissima stagione creativa che lo porterà a superare le istanze della rivoluzione im­pressionista per andare oltre il suo tem­po, fino a preparare la strada alle nuove ricerche pittoriche dell’Informale e del­l’Astrattismo.
Ma accanto alle opere del pittore, accan­to alle sue prime, delicatissime ninfee, ai glicini, ai salici piangenti, ai ponti sullo stagno, accanto alla sua tavolozza e al li­bro che lo stesso Clemenceau dedicò al suo giardino, sono esposte in un suggesti­vo gioco di rimandi 56 stampe di Hiroshi­ge e di Hokusai e una preziosa collezione di cartoline dell’Ottocento, dipinte a ma­no, di giardini giapponesi. Monet, che non amava i musei e si annoiava anche al Louvre, fu infatti un appassionato colle­zionista di stampe giapponesi arrivando a possederne quasi trecento, con le quali tappezzò la casa di Giverny.
«L’obiettivo di una mostra come que­sta è di rileggere da un punto di vista inso­lito anche un artista molto conosciuto, quasi 'scontato' come Monet, per scoprir­ne aspetti ogni volta differenti. E qui il fi­lo conduttore è proprio il rapporto del pit­tore con i grandi maestri giapponesi, di cui l’allestimento rigoroso ne sottolinea la grafica essenziale», commenta Claudia Zevi, curatrice della rassegna.
«Dalle vedute quasi 'in sequenza' del Monte Fuji di Hokusai e da quelle dei pon­ti di Hiroshige, Monet trae quel concetto di serialità che ritroviamo in molti dei suoi soggetti preferiti — aggiunge —. Ma a suscitare il suo interesse è soprattutto il modo diverso di intendere il paesaggio nell’arte figurativa giapponese, lontano da quello occidentale e rinascimentale, che pone al centro l’uomo. Monet inizia a guardare alla natura con occhi diversi, ad ammorbidire i contorni delle forme per far parlare solo la luce e il colore, ad elimi­nare ogni punto di riferimento spaziale in una sorta di risonanza cosmica che tutto abbraccia nel fluire naturale del mondo, la natura, il paesaggio, l’uomo. Così, men­tre crea e continuamente trasforma il suo giardino, il suo giardino cambia il suo mo­do di fare arte».

mercoledì 29 aprile 2009

l’Unità 29.4.09
L’imperatore è nudo
di Conchita De Gregorio

La signora Berlusconi si è innervosita, come darle torto. «Ciarpame senza pudore in nome del potere». Parla delle candidate scelte da suo marito il presidente del Consiglio per le prossime elezioni europee. «Qualcuno ha scritto che tutto questo è a sostegno dell’imperatore. Condivido». Chissà se hanno raccontato anche a lei la storia delle farfalline d’oro appese al collo delle ragazze devote e gentili, quelle chiamate a rallegrare le feste. Tutta Italia ne parla. Di certo ha saputo delle notti di suo marito in discoteca, a Napoli da una debuttante. «Una notizia che ha sorpreso molto anche me. Non è mai venuto a nessun diciottesimo compleanno dei suoi figli pur essendo stato invitato». In un paese qualunque sarebbe un conflitto coniugale. Nell’Italia del ciarpame senza pudore è un caso politico, essendo la moglie dell’imperatore l’unica ancora in grado di dire con una certa risonanza mediatica: è nudo. Vedremo come andrà a finire, se con una nottata a sorpresa con danza del ventre a Marrakesh come l’ultima volta (il cinquantesimo della signora) dopo il dispiacere causato da una signorina oggi famosa e riverita. Che le vicende coniugali di Silvio Berlusconi abbiano rilevanza per la democrazia, che siano l’unico ostacolo in cui il premier rischia di inciampare è un serio motivo di riflessione. Questo è, bisognerà pure cominciare a trarne le conseguenze. L’Udc di Casini in affanno nella corsa alle veline candida Emanuele Filiberto di Savoia reduce dal successo di «Ballando sotto le stelle». A ciascuno il suo. La moglie non avrà da ridire.
Umberto De Giovannangeli ha avuto in anteprima la testimonianza di chi ha visto le centinaia di immagini finora coperte da segreto che testimoniano come il «protocollo di tortura» sui prigionieri di guerra degli Stati Uniti di Bush sia stato fino a pochi mesi fa un manuale adottato nei centri di detenzione Usa in tutto il mondo (Iraq, Afghanistan, Guantanamo): esecuzione simulata con pistola alla tempia, tecnica di annegamento con acqua su benda che copre naso e bocca, detenuti nudi al guinzaglio, assalto di cani. Non solo Abu Ghraib, molto di peggio e di più. Le foto che hanno fatto il giro del mondo - quelle della soldatessa che tiene al guinzaglio un detenuto, quelle dell’«albero di Natale» - sono solo una piccola parte del repertorio che i soldati americani nel mondo sono stati tenuti a seguire. Non certo per loro capriccio o particolare ferocia, come al principio si è cercato di sostenere, ma per rispetto di un codice di tortura ben noto al Pentagono e alla Cia. Obama svela ora quei metodi e quelle immagini, le foto saranno rese pubbliche il 28 maggio. Le associazioni umanitarie chiedono che sia tolta l’impunità per mandanti ed esecutori, il premio Nobel Paul Krugman vuole che sia istituita una commissione d’inchiesta. Intanto leggiamo e fin da ora guardiamo a occhi aperti.
Igiaba Scego e Gabriele Del Grande raccontano nell’inchiesta di oggi i percorsi paralleli di somali e italiani. Pubblichiamo i disegni e le poesie dei giovani arrivati dall’Africa. Igiaba li ha incontrati: «Dagli anni Settanta, quando mio padre andava alla stazione Termini per vedere gli amici, non è cambiato niente. Viviamo nei luoghi che danno l’illusione di poter tornare indietro in un paese senza guerra».

Repubblica 29.4.09
"Mio marito, come Napoleone"
di Dario Cresto-Dina

Lo strappo politico della first lady "Mio marito come Napoleone"
La famiglia, i gossip: così è nata l´ultima rottura

Uno sfregio familiare. La risposta è un attacco politico. Come due anni fa, quando, dopo i complimenti di Berlusconi alla Carfagna («Se non fossi sposato, ti sposerei»), Veronica scrisse a Repubblica spiegando che lei non voleva essere la metà di niente.
Anche questa volta le sue parole all´Ansa sembrano concordate con i figli, soprattutto là dove, commentando la partecipazione del presidente del Consiglio alla festa di compleanno di una ragazza napoletana, Veronica Lario manifesta uno stupore che è una stilettata: «Che cosa ne penso? La cosa ha sorpreso molto anche me, anche perché non è mai venuto a nessun diciottesimo compleanno dei suoi figli pur essendo stato invitato».
Non pronuncia le parole "mio marito". Mai. Una scelta precisa dietro alla quale c´è una nuova rottura. Una bufera davvero inattesa. «Mi spiace che Veltroni si sia dimesso. Mi sembra che il centrosinistra non ci sia più», mi aveva detto un mese fa a Macherio Veronica Lario. Poi aveva aggiunto: «Mio marito insegue lo spirito di Napoleone, non quello del dittatore. Il vero pericolo è che in questo paese la dittatura arrivi dopo di lui, se muore la politica come temo stia succedendo». Voleva dire che il Cavaliere stava correndo su una strada senza ostacoli. Senza opposizione. Che il suo obiettivo era il Quirinale. Scherzando le avevo fatto notare che la paura più grande del premier poteva essere ancora lei. Lei e l´effetto Veronica. «Le cose vanno un po´ meglio - aveva risposto -. Io faccio soltanto la nonna, seguo Alessandro, il bimbo di Barbara e devo riconoscere che anche mio marito si è innamorato di lui. Trascorre ore a farlo giocare, spesso anche da solo».
Aveva ribadito che le voci di divorzio erano infondate, ripetendo ciò che aveva spiegato un anno prima: «Potrei dire che ci sto pensando da dieci anni e che sono lenta a prendere le decisioni. Non avere compiuto questo passo ha dato risultati molto positivi per i miei figli. Ora sono serena, non ho pensieri di questo tipo. Voglio stare fuori da tutto e non fare nessun tipo di dichiarazioni». Aveva preferito parlare della crisi, dei contrasti tra Tremonti e Draghi sugli interventi anti-recessione («Chi sbaglia dovrà dimettersi, credo»), dell´azione del governo che non la convinceva fino in fondo. Delle polemiche sul testamento biologico: «La tecnica oggi ci impone dubbi più grandi di noi». Della lotta di Beppino Englaro: «È stato linciato. Non doveva essere permessa una cosa del genere».
Insomma, era serena. Fino a ieri sera. A farla scattare sono state le critiche sulle liste elettorali del centrodestra per le europee avanzate dalla Fondazione "Fare futuro" e l´articolo di questo giornale sulla notte napoletana del premier. Veronica è scesa in campo, trasferendo la dignità sua e dei suoi figli dentro il teatro della politica. Come in quel giorno di fine gennaio di due anni fa. Quarantotto righe che fecero il giro del mondo: «Con difficoltà vinco la riservatezza che ha contraddistinto il mio modo di essere nel corso dei 27 anni trascorsi accanto a un uomo pubblico, imprenditore prima e politico illustre poi, qual è mio marito. Ho affrontato gli inevitabili contrasti e i momenti più dolorosi che un lungo rapporto coniugale comporta con rispetto e discrezione. Ora scrivo per esprimere la mia reazione alle affermazioni svolte da mio marito nel corso della cena di gala che ha seguito la consegna dei Telegatti, dove, rivolgendosi ad alcune delle signore presenti si è lasciato andare a considerazioni per me inaccettabili».
Una festa, una donna. Mara Carfagna. Veronica Lario continuava così: «Sono affermazioni che interpreto come lesive della mia dignità, affermazioni che per l´età, il ruolo politico e sociale, il contesto familiare (due figli da un primo matrimonio e tre figli dal secondo) della persona da cui provengono, non possono essere ridotte a scherzose esternazioni. A mio marito e all´uomo pubblico chiedo quindi pubbliche scuse, non avendone ricevute privatamente». E ancora: «Ho sempre considerato le conseguenze che le mie eventuali prese di posizione avrebbero potuto generare a carico di mio marito nella sue dimensione extra familiare e le ricadute che avrebbero potuto esserci sui miei figli. Questa linea di condotta incontra un unico limite, la mia dignità di donna che deve costituire anche un esempio per i propri figli, diverso in ragione della loro età e del loro sesso. Oggi nei confronti delle mie figlie femmine, ormai adulte, l´esempio di donna capace di tutelare la propria dignità nei rapporti con gli uomini assume un´importanza particolarmente pregnante, almeno quanto l´esempio di madre capace di amore materno che mi dicono rappresento per loro».

Repubblica 29.4.09
Berlusconi: "Voterò sì al referendum"
Il premier risponde al Pd: "La Costituzione si può cambiare senza opposizione"
di Gianluca Luzi

VARSAVIA - Berlusconi voterà sì al referendum per modificare l´attuale legge elettorale. «Sì certo. La risposta è ovvia. Il referendum dà un premio di maggioranza al partito più forte e vi sembra che io possa votare no?». Nella hall dell´albergo che lo ospita a Varsavia per il vertice italo-polacco, il presidente del consiglio per la prima volta dichiara esplicitamente che al referendum del 21 giugno per abolire il Porcellum non solo andrà a votare - e questo già lo aveva detto - ma che il suo voto sarà affermativo. Di fronte alla domanda di un giornalista, per un attimo il premier sembra volersi trincerare dietro il segreto dell´urna, ma subito dopo, e senza neppure essere incalzato da una successiva domanda, rende esplicita la sua posizione: «Nella domanda c´è la risposta. Certo, va bene tutto, ma non si può pensare di essere masochisti». Quindi «voterò sì». Del resto, «non abbiamo posto noi il problema, ma puoi domandare all´avvantaggiato di votare no per un vantaggio che gli altri gli regalano e potrebbe essere confermato dal popolo?». Dopo aver "regalato" alla Lega la rinuncia all´election day, spostando il referendum al 21 giugno, una data che mette quasi certamente a rischio il raggiungimento del quorum, con questa sua dichiarazione esplicita sull´intenzione di votare sì, il presidente del consiglio si rende perfettamente conto di toccare un nervo scoperto della Lega che potrebbe provocare una reazione molto irritata di Bossi e dei suoi ministri. Berlusconi si aspetta che la Lega non la prenderà tanto bene: «E ci credo, - risponde infatti a chi gli obietta che la Lega reagirà male - se io fossi nei loro panni non sarei contento». Berlusconi replica anche negativamente al segretario del Pd Franceschini che lo aveva esortato a prendere un impegno per non cambiare la Costituzione con i soli voti della maggioranza senza l´accordo dell´opposizione. «Non c´è un solo articolo nella Costituzione che dice che è necessario il concorso dell´opposizione» per modificare la Carta costituzionale, rilancia il presidente del consiglio da Varsavia. Certo, aggiunge il premier, «la maggioranza è sempre aperta ad una discussione e a un confronto con l´opposizione», ma «la Costituzione indica essa stessa come debba essere cambiata, quali maggioranze debbano esserci, le formule dei voti successivi in Parlamento e poi, alla fine, ci sono i referendum abrogativi. Tutto è quindi previsto.
Non vedo - sottolinea Berlusconi - come si possa pensare ad una innovazione per la modifica della Costituzione che non è nella Carta stessa». E poi, obietta Berlusconi a Franceschini, «mi risulta strano che arrivino certe richieste proprio da loro che quando erano al governo hanno cambiato il titolo V della Costituzione con soli 4 voti di maggioranza». Un gesto che non è stato «apprezzato» dall´attuale maggioranza.
Infine un accenno ad Acerra: "Sono stato a Napoli perché ero preoccupato per tutta una serie di ritardi sulle gare per i termovalorizzatori e soprattutto per il fatto che si fanno progetti diversi rispetto ad Acerra» ha detto Berlusconi. A suo avviso in questo modo «si butta via tanto tempo per fare un nuovo progetto quando già c´è un impianto, come quello di Acerra, che funziona benissimo e che dà polluzione vicino allo zero».

Repubblica 29.4.09
Un cittadino su due passa da una religione all’altra almeno una volta E lo fa intorno ai 24 anni. Lo rivela uno studio realizzato a Washington
Così l’America diventa il Paese che cambia Dio
di Vittorio Zucconi

Da cattolici a episcopali, da avventisti a battisti, e i luterani migrano alla Chiesa Romana

È irrequieto il gregge, e smarrite le pecorelle, nell´immenso ovile della cristianità nord americana. Sotto la coperta di una fede cristiana che si estende rassicurante come in nessun´altra nazione occidentale e avvolge genericamente il 75% dei cittadini, 230 milioni di anime e corpi che qui si professano credenti, le affiliazioni religiose cambiano con disinvoltura e senza grandi traumi.
È una continua transumanza di cattolici che divengono episcopali, avventisti che si uniscono ai battisti, luterani che abbracciano Santa Romana Chiesa, con un fedele su due che cambia altare almeno una volta nella vita e uno su cinque che abbandona la fede nella quale fu allevato dai genitori prima di diventare adulto e compiere i 24 anni.
Della cristianità nella prima grande nazione nella storia moderna che sancì il principio della libertà assoluta di religione e della separazione fra stato e chiese, conosciamo da anni l´esplosione del fondamentalismo sudista cinicamente reclutato dai lupi della politica come blocco elettorale, l´invenzione del tele-evangelismo e la crescita delle mega chiese che raccolgono in salmodianti happening decine di migliaia di fedeli in strutture da palazzo dello sport olimpico. Ma se gli Stati Uniti si vantano di essere la più grande «christian nation» della Terra, quando gli istituti di ricerca come il Pew di Washington, frugano nel gregge che si proclama cristiano, si scopre che il rapporto con gli intermediari e i rappresentati del Dio della Bibbia è molto più disinvolto e pragmatico di come lo raccontino i luoghi comuni.
Gli americani fanno shopping religioso come fanno shopping tra partiti, candidati, automobili o detersivi, cercando la chiesa, il pastore, la confessione che meglio corrisponde ai loro desideri. Se la fede è un dono, la fede americana è un dono nel quale i compratori guardano bene dentro e che restituiscono facilmente al fornitore in cambio di un´altra, come i regali di Natale il giorno di Santo Stefano. Il 44% di chi si professa cristiano, appartiene a una confessione diversa da quella appresa da bambino. Due terzi di coloro che furono cresciuti come Cattolici o come Protestanti confessano di essere saltati da una parte all´altra dello steccato riformista o controriformista almeno una volta, spesso facendo andata e ritorno. Per delusione verso la fede ereditata, per comodità di culto soprattutto nelle regioni dove raggiungere una chiesa comporta viaggi di ore, per assecondare e seguire un coniuge che appartiene a un altro ovile. Moltissimi, il 50% dei convertiti ad altre confessioni, e il 70% degli ex cattolici divenuti protestanti, ammettono che la loro fede «non gli piaceva più».
E´ dunque un Dio su misura, un cristianesimo molto "pret-a-porter" quello che i 113 milioni di americani che frequentano regolarmente una chiesa (o una sinagoga, o una moschea, o un tempio buddista) cercano, spesso insofferenti della rigidità dottrinale. Se i cattolici romani restano la prima confessione organizzata per numero di aderenti, 66 milioni in 19 mila chiese, per il 23% della popolazione, meno dei protestanti, che sono il 51% ma divisi in dozzine di denominazioni, sono proprio loro quelli che più soffrono e pagano per il dogmatismo centralistico della Chiesa di Roma. Gli apostati cattolici citano i temi classici e dolorosi della controversia cattolica, l´aborto, l´omosessualità, il sesso prematrimoniale, l´incomprensibile nyet alla contraccezione, l´offensiva esclusione delle donne dal sacerdozio, il celibato imposto ai preti, come cause della loro disaffezione e del loro distacco dalla Gran Madre. Il 2,5% dei 66 milioni ha lasciato il cattolicesimo scosso dall´orrore dei preti pedofili e, soprattutto, dal comportamento pilatesco della gerarchia verso i colpevoli. Il numero di aderenti alla Chiesa di Roma rimane stabile soltanto grazie alle trasfusioni di immigrati dalle comunità e nazioni cattoliche a sud della frontiera, ora che l´Europa non fornisce più le legioni devote che fecero di città come Boston o Baltimora bastioni del cattolicesimo.
Sui documenti e sulle cifre delle ricerche demografiche, l´America, nella quale il 90% proclama di credere comunque in un "Ente" soprannaturale, sia esso il Dio degli Zoroastriani o l´Allah del Corano che conta 6 milioni di seguaci, rimane una nazione incomparabilmente religiosa rispetto all´Europa scristianizzata e laicizzata: nel giorno del Signore, alla domenica per i cristiani, il 41% degli abitanti si mette i vestiti della festa e si trascina in una chiesa, contro il 14% dei francesi e il 6% degli svedesi. E per quanto ambigui e contraddittori siano i simboli stampati su quelle banconote che mescolano allusioni evidenti alla Massoneria, alla quale appartenevano tanti dei Padri Fondatori nel ‘700, alla promessa del "Noi confidiamo in Dio" appiccicata dal presidente Eisenhower nel XX secolo, nessun altra nazione occidentale oserebbe stampare il nome di Dio sulla propria moneta. Ma l´incessante turnover di fedeli fra una confessione e l´altra segnala che anche in materia di religione, gli americani tendono a credere più in Dio che nei preti, a differenza di altri cristiani più opportunisti.
E ad applicare anche alla religione il principio fondante della loro nazione, che non è la Bibbia, ma è la libertà di scelta individuale che pure il cristianesimo proclama e che il cattolicesimo papista spesso teme.

Corriere della Sera 29.4.09
In crescita Dal 1990 al 2008 i non credenti sono passati dall’8 al 15%. E si moltiplicano iniziative, libri e gruppi di pressione dei «senza fede»
La «lobby atea» fa breccia nell’America
di P. Val.

WASHINGTON — In soli 6 anni, la Secular Student Alliance, un network di studenti atei, ha messo piede in ben 146 campus universita­ri. Nel 2003 era presente solo in una quarantina. Dopo lunga rivalità e tanti battibecchi ideologici, 10 orga­nizzazioni nazionali di atei, umani­sti e liberi pensatori hanno dato vi­ta insieme alla Secular Coalition of America, con l'obiettivo di avere a Washington un gruppo di pressio­ne, in grado di far lobby per la sepa­razione tra Stato e Chiesa. Mentre Fred Edwords, vecchio leader del movimento ateo, è finalmente riu­scito a creare la sua United Coali­tion of Reason, fondata al momen­to su 20 gruppi locali, ma con ragio­nevoli ambizioni di espandersi.
L'America scopre di avere i suoi atei. Non che non lo sapesse. Ma ora li vede uscire dall'ombra, orga­nizzarsi, far sentire la loro voce, avanzare sul sentiero del coming out, tipico di tante minoranze del crogiolo americano.
A dare il segnale che fosse giunta l'ora di venire allo scoperto, è stato probabilmente Barack Obama nel suo discorso inaugurale, il 20 gen­naio scorso: «La nostra eredità com­posita è una forza e non una debo­lezza. Siamo una nazione di cristia­ni e musulmani, ebrei, hindu e non credenti». Nessun presidente lo ave­va mai fatto.
Non credenti, una definizione for­te per la nazione che sulla sua mone­ta nazionale ha scritto «In God We Trust». Ma nondimeno, una realtà crescente. Dall'8% del 1990, la popo­lazione dei cosiddetti «nones» ne­gli Stati Uniti è aumentata fino al 15% del 2008. Non che tutti i non-credenti siano necessariamen­te atei militanti o agnostici, ma sicu­ramente sono un vasto bacino di pe­sca potenziale del nascente movi­mento ateista. Quando alcuni mesi fa Herb Sil­vermann, professore di matematica al College of Charleston, in South Carolina, aveva fondato la Secular Humanists of the Lowcountry, pen­sava piuttosto a un club per pochi intimi. «Non credete in Dio? Non siete soli», diceva il cartello, che an­nunciava le riunioni del gruppo a un indirizzo privato. Ma quando più di cento persone si sono presen­tate a uno degli incontri recenti, Sil­vermann e i suoi fedelissimi hanno dovuto affittare una sala. Oggi la Se­cular Humanists ha 150 aderenti. Non cosa da poco, in uno Stato cele­bre per essere la sede della Bob Jo­nes University (il più oltranzista dei college cristiani) e per avere un Con­gresso che un anno fa approvò una targa automobilistica cristiana con tanto di croce e scritta «I believe».
«Ma la cosa più importante è es­sere usciti dall'armadio», dice Sil­vermann al New York Times, spie­gando che la strategia degli atei è si­mile a quella del movimento per i diritti dei gay, che esplose quando scelse di venir fuori. I sondaggi sem­brano dargli ragione: secondo l'American Religious Identification Survey, gli americani che si defini­scono «senza religione» sono l'uni­co gruppo demografico in crescita nell'ultimo ventennio negli Usa.
Una grossa spinta a riconoscersi e organizzarsi, l'ha data lo sdegno per l'abbraccio incondizionato dell' Amministrazione Bush all'estrema destra religiosa. Iniziative locali, li­bri sull'ateismo improvvisamente diventati dei best-seller e donazio­ni per milioni di dollari hanno dato coraggio e fiducia a una minoranza, ancora di recente considerata nel migliore dei casi una concentrazio­ne di eccentrici, nel peggiore una pericolosa banda di senza Dio.
Uno dei gruppi più attivi alla Uni­versity of South Carolina è quello dei «Pastafarian» della cosiddetta Church of the Flying Spaghetti Mon­ster. Fra le loro attività preferite nel campus, quella di dare ai passanti «abbracci gratis dai vostri amici e vi­cini atei».


Repubblica 29.4.09
Colpito da una grave sindrome neurologica sembrava non fosse più in grado di suonare
Londra applaude il pianista malato salvato dalle note
di Enrico Franceschini

Dopo quindici anni di assenza dalle scene Van Blosse è tornato a esibirsi in pubblico

A sette anni era un bambino prodigio, a cui si pronosticava un futuro come uno dei più grandi pianisti del mondo. A ventun anni si sentiva un rottame, squassato dai tremiti incontrollabili della sindrome di Tourette, una grave malattia neurologica: dovette abbandonare il pianoforte nel mezzo di un concerto e la sua carriera sembrava finita. Da allora Nick Van Bloss ha lasciato l´Inghilterra, i familiari, i palcoscenici, ed è andato a chiudersi, in totale isolamento, in una vecchia casa fatiscente di Lisbona. Be´, non era del tutto solo: con lui c´era un pianoforte. E dalla casa, specialmente la notte, risuonavano le note di Beethoven e Bach, perché il pianista malato, senza più timore di deludere il pubblico, aveva ripreso gradualmente a suonare, soltanto per sé. L´unico contatto umano che aveva con l´esterno era un´anziana vicina portoghese, che gli depositava regolarmente sulla porta di casa una torta, da lei preparata.
Ma non era certo la musica a spingerla a regalare le torte a Nick: la donna era completamente sorda.
Sembra una storia da film, ne ricorda effettivamente uno, «Shine», in cui si raccontava la vera battaglia combattuta dal pianista australiano David Helgoff con una malattia mentale, e anche questa potrebbe trovare presto un regista ad Hollywood. Nel frattempo ha trovato il lieto fine: ieri sera, dopo quindici anni di assenza dalla scene, Van Bloss è tornato a suonare davanti a un pubblico, suonando alla Cadogan Hall di Londra, insieme alla English Chamber Orchestra, diretto da David Parry. Il pianoforte è stata la sua cura: una cura che non gli restituisce la guarigione totale, ma che gli permette di nuovo di suonare. «Dopo tanti anni in cui ho suonato per un unico spettatore, me stesso, torno a farlo davanti a una sala piena di gente, è un miracolo», dichiara il pianista al Times. Il miracolo della musica: appena Nick posa le dita sulla tastiera, il suo male scompare. «Di solito non c´è un momento in cui almeno un muscolo del mio corpo non stia contraendosi o contorcendosi», dice, calcolando che le scosse e i tic si ripetano mediamente 40 mila volte al giorno. «E´ come avere un alieno dentro di te, qualcosa che spinge e preme per uscire fuori. I muscoli si piegano, i denti si spezzano, gli occhi cominciano a dolermi. E´ piuttosto atroce». Poi comincia a suonare, e il dolore si arresta: «Tutto a un tratto avverto la meravigliosa sensazione della normalità», continua. «Immagino che i miei muscoli si stendano su una poltrona e vogliano godersi anche loro la musica».
Il piano, spiega Van Bloss, è per lui qualcosa di simile a una sorte di interruttore «acceso-spento»: quando lo tocca, la sindrome di Tourette si spegne; quando smette di suonarlo, si riaccende. Il Times ricorda che anche Mozart, secondo alcune supposizioni, soffriva della medesima malattia; e un eccezionale talento musicale è stato spesso collegato a particolari condizioni neurologiche. «Mi piace pensare di aver trasformato qualcosa di negativo in positivo», afferma il pianista. «La Tourette era il mio nemico, ma ho imparato ad accettare che la sindrome è anche ciò che mi ha reso il musicista che sono oggi. Penso di essere stato maledetto, ma di aver ricevuto anche una benedizione».

Repubblica 29.4.09
"Torniamo al pensiero forte"
Perché servono le utopie
"In difesa delle cause perse" il nuovo saggio del filosofo
di Slavoj Zizek

Tesi provocatoria: "Nonostante i crimini, l´aspirazione di redenzione dei totalitarismi può essere utile"
In tempo di crisi e rotture, si deve rischiare un Salto di Fede
La disperazione di chi ha combattuto i vecchi paradigmi estremisti

Il senso comune della nostra epoca ci dice che, rispetto alla vecchia distinzione tra doxa (opinione accidentale/empirica, Saggezza) e verità o, ancora più radicalmente, tra conoscenza positiva empirica e fede assoluta, si dovrebbe tracciare una linea tra ciò che si può pensare e si può fare oggi. Sul piano del senso comune, il punto più lontano a cui si può arrivare è un liberalismo conservatore illuminato: ovviamente non ci sono alternative praticabili al capitalismo; allo stesso tempo, lasciata a se stessa la dinamica capitalistica minaccia di minare le proprie fondamenta. (...) All´interno di questo orizzonte, la risposta non è né un liberalismo radicale alla Hayek, né un crudo conservatorismo, sempre meno aderente ai vecchi ideali dello Stato sociale, ma una miscela tra liberalismo economico e un minimo spirito «autoritario» di comunità (l´enfasi sulla stabilità sociale, i «valori» eccetera) che controbilanci gli eccessi del sistema - in altre parole ciò che hanno sviluppato i socialdemocratici della Terza Via, come Blair.
Questo è il limite del senso comune. Ciò che sta dietro di esso implica un Salto di Fede, una fede nelle Cause perse, Cause che, dall´interno dello spazio della saggezza scettica, non possono che apparire folli. E questo libro parla dall´interno di questo Salto di Fede. Ma perché? Il problema, ovviamente, è che in un tempo di crisi e rotture, la stessa saggezza empirica scettica, costretta nell´orizzonte della forma dominante del senso comune, non può fornire delle risposte, e dunque si deve rischiare un Salto di Fede. Questo passo è il passo da «io dico la verità» a «la verità stessa parla (in/attraverso di me)» (come nel «mathema» lacaniano del discorso dell´analista, in cui l´agente parla da una posizione di verità), sino al punto in cui posso dire, come Meister Eckhart, «è vero, e la verità stessa lo dice». Sul piano della conoscenza positiva, ovviamente, non è mai possibile raggiungere la verità o essere sicuri di averlo fatto - ci si può solo approssimare senza fine, poiché il linguaggio è in ultima istanza autoreferenziale, non c´è modo di tracciare una linea definitiva di separazione tra sofismi, esercizi sofistici, e la Verità stessa (questo è il problema di Platone). La scommessa di Lacan è, in questo senso, la stessa di Pascal: la scommessa della Verità. Ma in che modo? Non correndo appresso a una verità «oggettiva», ma basandosi sulla verità riguardo alla posizione da cui si parla.
Esistono solo due teorie che implicano e praticano una nozione così impegnata di libertà: il marxismo e la psicoanalisi. Sono entrambe teorie di lotta, non solo teorie sulla lotta, ma teorie esse stesse impegnate in una lotta: le loro storie non consistono in un´accumulazione di conoscenza neutra, sono al contrario segnate da scismi, eresie, espulsioni. (...) Normalmente ci si dimentica che i cinque grandi resoconti clinici di Freud sono al fondo resoconti di un successo parziale e di un fallimento finale; nello stesso modo, i più grandi racconti storici marxisti di eventi rivoluzionari sono racconti di grandi fallimenti (della guerra dei contadini in Germania, dei giacobini nella Rivoluzione francese, della Comune di Parigi, della Rivoluzione d´ottobre, della Rivoluzione culturale cinese). Una tale analisi dei fallimenti ci mette di fronte al problema della fedeltà: come riscattare il potenziale emancipatore di questi fallimenti evitando la doppia trappola dell´attaccamento nostalgico al passato e dell´adattamento un po´ troppo furbo alle «nuove circostanze»?
Il tempo di queste due teorie sembra concluso. Come ha affermato recentemente Todd Dufresne, nessun personaggio nella storia del pensiero umano ha commesso più errori rispetto a tutti i fondamentali della propria teoria di Freud - con l´eccezione di Marx, qualcuno potrebbe aggiungere. E infatti nella coscienza liberale le due teorie emergono come i maggiori «complici del crimine» del ventesimo secolo: com´era prevedibile, nel 2005, il famigerato Libro nero del comunismo, che elencava tutti i crimini comunisti, è stato seguito dal Libro nero della psicoanalisi, contenente l´elenco di tutti gli errori teorici e gli inganni clinici della psicoanalisi. Anche se in modo negativo, la profonda solidarietà tra marxismo e psicoanalisi è ora sotto gli occhi di tutti. Tuttavia, ci sono dei segnali che disturbano questo autocompiacimento postmoderno. Commentando la crescente risonanza del pensiero di Badiou, Alain Finkelkraut lo ha recentemente definito «la filosofia più violenta, sintomatica di un ritorno di radicalità e della crisi dell´antitotalitarismo»: un´onesta e sorpresa ammissione di fallimento del lungo e arduo lavoro di tutti i difensori «antitotalitari» dei diritti umani, che hanno combattuto contro «i vecchi paradigmi estremisti», dai nouveaux philosophes francesi ai sostenitori di una «seconda modernità». Ciò che sarebbe dovuto essere morto, liquidato, del tutto screditato, sta ritornando per vendicarsi. Questa disperazione è comprensibile: com´è possibile che questo genere di filosofia stia ritornando nella sua forma più violenta? La gente non ha ancora capito che il tempo di queste pericolose utopie è finito? La nostra proposta è di rovesciare la prospettiva: come affermerebbe Badiou nella sua originale maniera platonica, le idee vere sono eterne, sono indistruttibili, fanno sempre ritorno ogni qual volta vengano proclamate morte. Questo è sufficiente a Badiou per affermare nuovamente queste idee in maniera chiara, e il pensiero antitotalitario si mostra in tutta la sua miseria per ciò che realmente è, un esercizio sofistico privo di valore, una pseudo-teorizzazione delle paure e degli istinti di sopravvivenza più meschini e opportunisti, un modo di pensare che non solo è reazionario ma anche profondamente reattivo nel senso nietzschiano del termine.

Un paio d´anni fa, la rivista Premiere riportava un´inchiesta intelligente sul modo in cui i finali famosi dei film di Hollywood erano stati tradotti in alcune delle maggiori lingue non inglesi. In Giappone, il «Francamente, mia cara, me ne infischio» di Clark Gable a Vivien Leigh da Via col vento era reso con: «Mia cara, temo che fra di noi ci sia un piccolo malinteso» - un omaggio alla proverbiale cortesia ed etichetta giapponese. Al contrario, il cinese (nella Repubblica popolare cinese) traduceva il «Questo è l´inizio di una bella amicizia!» di Casablanca con «Noi due costituiremo ora una nuova cellula di lotta antifascista!» - essendo la lotta antifascista la priorità maggiore, ben al di sopra delle relazioni personali. Per quanto possa sembrare che questo volume ceda spesso ad affermazioni eccessivamente polemiche e «provocatorie» (cosa potrebbe essere più «provocatorio» oggi di mostrare una sia pur minima simpatia o comprensione per il terrore rivoluzionario?), esso pratica piuttosto uno spostamento nel modo degli esempi citati in Premiere: laddove la verità è che me ne infischio del mio avversario, dico che c´è un piccolo malinteso; laddove la posta in gioco è un nuovo condiviso campo di battaglia politico-teorico, può sembrare che io stia parlando di amicizie e alleanze accademiche. In questi casi, spetta al lettore risolvere il rebus che giace di fronte a lui.
(c) 2008 Traduzione di Cinzia Azzurra
Pubblicato in Italia da Ponte alle Grazie

Corriere della Sera 29.4.09
L’intervista «Non più riproponibili la confusione dell’Unione o l’autosufficienza»
D’Alema: congresso vero. Basta asse con Di Pietro
«Guida del Pd, sì a una sfida seria. Dividersi non è un dramma»
intervista di Maria Teresa Meli

ROMA — Presidente D'Alema, Berlusconi sembra la superstar della politica italiana, e il Pd, che fine ha fatto?
«Apparentemente sembra che Berlusconi occupi quasi per intero la scena della politica italiana e che un po' di fronda venga solo dall'in­terno dello stesso Pdl, in particola­re dalle personalità che si raccolgo­no intorno a Fini. E non c'è dubbio che Berlusconi cerchi in questo mo­mento di debolezza dell'opposizio­ne di allargare il suo insediamento non soltanto elettorale ma anche politico e culturale. Se però noi spingiamo lo sguardo oltre la cro­naca politica e l'indubbia capacità di Berlusconi di occupare la scena ogni giorno con una trovata nuo­va, la cosa che colpisce è che que­sto governo di fronte a una crisi co­sì drammatica non stia facendo as­solutamente nulla».
Fa propaganda elettorale, ono­revole D'Alema?
«No. Il governo galleggia sui pro­blemi del Paese senza affrontarne nessuno. Berlusconi è un uomo che ama il consenso. Preferisce re­gnare piuttosto che governare, da­to che governare l'Italia comporta il fatto di misurarsi con delle scelte che creano consensi ma, inevitabil­mente, anche dissensi. Nei 15 anni in cui è stato protagonista della vi­ta politica italiana non ha fatto nul­la di significativo. Non si ricorda una sua sola riforma importante. Le uniche riforme di un qualche si­gnificato, da quella delle pensioni alla privatizzazione delle grandi in­dustrie pubbliche, dalla riforma fe­deralista della Costituzione alle li­beralizzazioni, le ha fatte il centro­sinistra. E io credo che grazie a que­sto suo comportamento l'Italia pa­gherà un prezzo altissimo».
Veramente Berlusconi dice che stiamo meglio degli altri.
«Un'affermazione che non ha nessun fondamento: il calo del Pil è maggiore della media europea, l'inflazione pure. E la situazione della finanza pubblica è sempre più disastrosa. Anche questa sua idea che si possa affrontare ogni emergenza senza copertura finan­ziaria è sicuramente molto sugge­stiva e popolare, però bisogna sape­re che ha come corrispettivo il fat­to che il debito pubblico italiano sia spinto verso il 115,3 per cento del pil, quest'anno, e proiettato al 121,1 per cento nel 2010. Quindi, quando si uscirà dalla crisi e la ge­rarchia internazionale verrà ridise­gnata, rischiamo che il nostro Pae­se conti molto meno nell'econo­mia mondiale. Lo dico non perché io sia pessimista sulle potenzialità dell'Italia, ma perché sono preoccu­pato: non vedo una strategia e una azione coerente che dovrebbero puntare sulla riduzione delle dise­guaglianze e sulla promozione dell' innovazione, della ricerca e della formazione, cioè dei talenti di cui dispone il nostro Paese».
E il Pd intanto che fa?
«Ecco, il Pd non può non riparti­re da qui: dalla sfida con la destra sul governo del Paese. Il problema non è tanto fare il viso delle armi, come fa Di Pietro, che in questo senso è funzionale a Berlusconi. Se fai un versaccio al premier il risultato è che il 70 per cento sta con lui, solo il 10 con te, ma siccome Idv aveva il 4 loro sono contenti. Questa è una logica minoritaria. Significa scegliere per sé un ruolo eterno di com­primario, fare la spal­la a Berlusconi per i prossimi mille anni».
Ma Di Pietro vor­rebbe sostituirsi al Pd...
«Già, vede in noi più che in Berlusconi il suo avversario principale. La sua idea di sostituirci è del tutto vellei­taria, ma è pericoloso che in un mo­mento come questo si indichi co­me obiettivo principale quello di colpire il più grande partito d'oppo­sizione ».
Ma il Pd non dovrebbe ridefini­re il suo ruolo?
«E' per questo che ci vuole un congresso serio».
Anche a costo di dividersi?
«Dividersi non è drammatico. Al loro congresso i leader del Pdl si so­no divisi perché hanno detto cose diverse gli uni dagli altri. Un gran­de partito che vuole rappresentare il fulcro dell'alternativa di governo è un partito plurale, dove si discu­te, ma il problema non è questo, il problema è la qualità della discus­sione: non ci si può dividere sui gossip».
Un Pd «ridefinito» dovrà anche giocare la sfida delle riforme. Quali mandare in porto per pri­me?
«Innanzitutto ci vuole un drasti­co ridimensionamento dell’ipertro­fia del ceto politico. Se vogliamo re­stituire autorevolezza alla politica democratica dobbiamo puntare a una drastica riduzione del numero degli eletti a tutti i livelli: nel Parla­mento, nei consigli regionali, in quelli comunali. E' poi necessaria una rinnovata selezione del ceto politico. I meccanismi di selezione sono saltati: ci sono solo logiche plebiscitarie. I consigli comunali sono scelti dal sindaco, il Parlamen­to viene nominato da due, tre capi. Una forma di selezione è rappresen­tata dal collegio uninominale. Ma bisogna anche restituire ai partiti un loro profilo e una loro identità, uscendo dalla logica delle coalizio­ni forzose, perciò va tolto il premio di coalizione. In questo quadro io credo che si possa fare una grande riforma che preveda anche il raffor­zamento della stabilità dei governi con la sfiducia costruttiva e la pos­sibilità del premier di nominare e cambiare i ministri. Ma il fonda­mento di una riforma di questo ge­nere è una nuova legge elettorale, che secondo me deve essere di tipo tedesco. Senza una nuova legge elettorale non c'è nessuna riforma costituzionale possibile».
Tornando al Congresso, la scel­ta del segretario avverrà come l'al­tra volta: un candidato vero e tut­ti gli altri «finti »?
«Io penso che sarà un congresso competitivo, che ci saranno più candidature e che ci sarà una di­scussione politica».
E crede che il Pd decollerà al­meno questa volta?
«Il Pd deve rivendicare l'eredità dell'Ulivo e l'esperienza di gover­no. Bisogna costruire un partito ve­ro, radicato nella società, e struttu­rare una leadership. Lo stesso Ber­lusconi sa che senza Bossi, Fini e gli altri la sua leadership sarebbe più debole. Insomma, il progetto va rilanciato su basi assai più soli­de».
Alla festa dei suoi 60 anni, lei ha detto che vuole ancora avere un ruolo in politica. C'è chi so­spetta che lei voglia fare il segre­tario.
«Ho detto che non mi sentivo co­me Guglielmo il Maresciallo, prota­gonista di uno splendido libro di Georges Duby, che, sentendosi mo­rire, riunisce attorno a sé tutti gli amici e fa un bilancio della propria vita. A sessant'anni uno può anco­ra continuare a darsi da fare in poli­tica, anche senza necessariamente rivendicare per sé il bastone del co­mando ».
Al congresso dovrete anche de­cidere le alleanze future.
«Certo, dovremo sciogliere un nodo politico: non sono più ripro­ponibili né la confusione dell'Unio­ne, né l'autosufficienza del Pd e l'asse privilegiato con Di Pietro, che non avrebbe senso e che secon­do me non ne aveva molto nean­che allora. Dovremo quindi lavora­re intorno al progetto di un nuovo centrosinistra il cui fulcro sia il Pd. Questo sarà il nodo politico più im­portante della discussione congres­suale ».
Ultima domanda: che impres­sione le ha fatto Berlusconi che fe­steggia il 25 aprile?
«Certo, è un po' l'indice della si­tuazione triste del nostro Paese il fatto che questo debba essere salu­tato come un evento. Ma che lui fi­nalmente arrivi a riconoscere che le grandi forze antifasciste, com­presa la sinistra, hanno avuto il me­rito di contribuire alla liberazione del Paese è positivo. Ci sono voluti 15 anni perché partecipasse ai fe­steggiamenti del 25 aprile, può dar­si che tra altri 15 anni affronti an­che il tema del conflitto di interes­si... ».

l’Unità 29.4.09
«La mia sfida in musica per battere ogni pregiudizio sul podio e tra le note»
di Marcella Ciarnelli

Xian Zhang è una donna minuta di 36 anni. Fa un lavoro raro e straordinario. Dirige un’orchestra. È cinese, originaria di Dandong, a ridosso del confine coreano. La sua passione per la musica è cominciata molto presto. Aveva solo quattro anni quando cominciò a studiare il pianoforte. Poi fu indirizzata alla direzione perché la bacchetta era più adatta alle piccole mani di una ragazza sedicenne di piccola statura ma di grande talento.
Xian ha sfidato le regole. Ha fatto suo un lavoro “maschile” ma non ha rinunciato ad un destino di donna. Da tre mesi è mamma del piccolo Din, un bambino che è stato in palcoscenico anche prima di nascere, dato che la direttrice d’orchestra non ha rinunciato alla bacchetta fino a pochi giorni prima del parto ed ora è già pronta a ritornare sul podio. Un pancione in scena. Con tutta la tenerezza che un’immagine del genere può evocare. Ma anche la forza e la caparbietà di una giovane donna che è stata chiamata a guidare l’orchestra Verdi di Milano nel ruolo di direttore musicale. E questa sì che è una vera rarità.
In attesa di mettersi al lavoro per dare la sua impronta al cartellone di una fondazione che è riuscita a superare i problemi economici che ne avevano messo in dubbio la stessa sopravvivenza e che sembra già chiaro viaggerà su una linea che Xiang sintetizza in «più ritmo, più energia, più fuoco al suono dell’orchestra», la giovane direttrice d’orchestra si appresta ad un impegno per cui si dice «onorata e stimolata». Domani dirigerà nella sala Nervi in Vaticano il concerto che il presidente della Repubblica offre a Papa Benedetto XVI in occasione del compleanno del Pontefice da poco trascorso. Saranno presenti Giorgio Napolitano e il Papa e oltre settemila spettatori tra rappresentanti del governo italiano, alti prelati, gli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede, appassionati di musica. In programma opere di Haydin, Mozart e Vivaldi, «scelte assecondando le preferenze espresse dai due illustri spettatori che sono anche degli autentici appassionati», spiega Xian Zhang che non nega di essere «emozionata da questa grande possibilità». Sarà «un inizio non facile», un’occasione per cui «la pressione psicologica è forte». Ma anche un «evento speciale» che per la giovane direttrice ha il sapore di un nuovo debutto da affrontare con la stessa emozione e la voglia di fare al meglio come fu per il primo, ormai lontano sedici anni.
Dal primo concerto i successi sono stati innumerevoli. L’ultimo incarico l’ha vista “Associate Conductor” della New York Philarmonic. In precedenza ha lavorato negli Stati Uniti e in Europa. In Giappone e in Australia. Ovunque si faccia musica in modo eccellente. Ovunque ci sia chi comprende che la crescita e lo sviluppo in positivo passa per la comprensione della magia che una sinfonia è in grado di trasmettere.
Parla un po’ d’italiano la direttrice, una lingua studiata in omaggio alla passione per la musica del nostro Paese anche se poi preferisce conversare in inglese. Spiega di essere consapevole di aver fatto, per riuscire e per arrivare ai traguardi che ha raggiunto, «uno sforzo più arduo di quello che è richiesto ad un uomo». Ma allora anche in un campo così straordinario si può avvertire la sensazione che le pari opportunità siano ancora da venire? Da cittadina del mondo, Xian lascia intendere che ci sono realtà in cui qualche passo avanti è stato fatto. In Italia purtroppo ancora non è una consuetudine anche se la sua nomina alla guida della Verdi consente qualche speranza per un riconoscimento più costante e meno straordinario ai talenti e alle capacità delle donne. In qualunque campo. Ma è difficile. Anche quando hanno un consolidato curriculum la strada è sempre in salita. E c’è bisogno della massima collaborazione, a cominciare dalla famiglia «anche se si ha un fisico resistente» rivendicato con forza, a dispetto dell’apparenza minuta.
Qui viene evocato il ruolo del marito di Xian, che fa «lo scrittore e si occupa di finanza» e non si sottrae in alcun modo ad una concreta e fattiva collaborazione con la moglie con la bacchetta che ora ha anche un piccolino da accudire, cui deve dirigere la vita alternando pappe e sonnellini. Capita anche in camerino. «Coniugare maternità e lavoro è abbastanza complicato. Tanto più che noi viaggiamo molto. Per questo l’aiuto di mio marito è fondamentale e rende possibile mettere assieme vita privata e carriera». Con il nuovo incarico la direttrice dovrà abitare a Milano per almeno quattro mesi l’anno. «L’occasione per conoscere meglio una città importante per la cultura, la moda, la finanza. Sarà molto bello scoprire cosa significa fare musica in questa realtà». E cercare di condurre in porto la sfida di «far arrivare la Verdi tra le prime venti orchestre al mondo». Il feeling tra l’orchestra e lei è scattato in ottobre, alla prima direzione, quando era al settimo mese di gravidanza e dirigeva Sheherazade. Una sintonia immediata e inusuale. Così Luigi Corbani, direttore della Verdi, con il presidente Cervetti, decise di affidarle il prestigioso incarico che correrà, tra le altre, sulle note Stravinskij e Beethoven. La sua orchestra le ha mostrato il massimo di disponibilità, «nessuna diffidenza perchè sono donna, né curiosità». Il fatto è che lei è davvero brava e chi ama la musica non può trovarsi che in sintonia con lei. Il maestro Lorin Maazel alla giovane direttrice ha mostrato tutta la sua stima.
La strada da percorrere sarà lunga. I programmi potranno essere aggiornati e cambiati. Ma per il momento prevale su tutto l’impegno del concerto di domani. Quest’oggi sarà una lunga giornata di prove nella sala dall’acustica perfetta dovuta alla genialità architettonica di Pier Luigi Nervi. La direttrice dagli occhi a mandorla arriva alla prova forte di una invidiabile carriera che molti uomini non possono vantare.
«Ma le donne impegnate nella direzione di un’orchestra non sono ormai una rarità», ci tiene a precisare Xian Zhang quasi a volersi difendere da una curiosità eccessiva, quasi a voler evitare che il riconoscimento del suo talento si perda davanti all’eccezionalità del ruolo che le è stato affidato. In realtà il suo è ancora un lavoro eccezionale. «Su cento diplomati al conservatorio in direzione d’orchestra solo cinque sono donne, e una minoranza riesce ad arrivare sul podio», ha detto Nicoletta Conti che dirige complessi prestigiosi dal 1987, ed è stata scelta come assistente da Leonard Bernstein. E’ socio fondatore dell’Association International Femmes Maestros, l’associazione delle donne che hanno dedicato il loro talento alla bacchetta.
Negli Stati Uniti sono 52. In Europa il numero è molto più basso. Però Xian è lì a dimostrare con il suo nuovo incarico e con il concerto di domani che forse qualcosa sta cambiado anche nel mondo delle sette note. A testimoniarlo c’è l’esibizione sul podio di un’altra donna, e sempre alla presenza, del Pontefice. L’anno scorso, per le solenni celebrazioni del sessantesimo della Dichiarazione universale dell’uomo, è stata la volta dell’esuberante basca Imma Shara. Sì, qualcosa sta cambiando.

l’Unità 29.4.09
Oltre Gauguin e oltre il mito
L’arte in viaggio alla ricerca di sé
di Marco Di Capua

Oltre i confini. Al Mar di Ravenna Schifano e Matisse, Kokoschka e Dubuffet: le rotte dell’arte
L’antologica. E poi Boetti a Napoli: il mondo come sdoppiamento, metamorfosi e molteplicità

Orientalismo e primitivismo, il fiume Me Nam per Chini, la Hammamet di Klee, l’Oceania stilizzata di Matisse, ma anche il «primo dei nomadi», ossia Boetti: due mostre raccontano il connubio tra arte e viaggio.

In epoca di spostamenti in massa low cost (con massicce migrazioni di vita bassa, direbbe Arbasino) diventano corroboranti sia l’idea dell’artista Willem De Kooning, secondo cui se allunghi le braccia, beh è quello lo spazio che serve a un pittore, sia una convinzione di Doris Lessing: il miglior modo di viaggiare, anzi l’unico, è farlo dentro. Però ai tempi in cui non proprio tutti partivano e chi vagheggiava favolosi Orienti magari lo faceva sognando sul divano fin-di-secolo del suo salotto tra i Buddha di giada e i paraventi giapponesi, l’andarsene effettivo di Paul Gauguin, quella progressione fanatica e ascetica di addii verso il mai più del Paradiso Perduto risultò eclatante. Non muovetevi dalla Polinesia, non tornate per carità, Voi appartenete ormai alla schiera dei Grandi Morti! si raccomandò vivamente il suo amico Daniel de Monfreid. E Gauguin non tornò, consolidando per sempre il proprio mito, provando fisicamente, con la sua tensione a valicare confini e con la sua fine solitaria agli antipodi, che l’arte è sempre esotica. E questo anche se ti sposti da qui a lì, voglio dire. Il tema è immenso e le rotte degli artisti in viaggio sono scie numerose e luminose come costellazioni.
ORIENTALISMO & ESTETISMO
Ne hanno messo a fuoco una ventina quelli del Mar di Ravenna, con questa mostra fascinosa per forza che si intitola L’artista viaggiatore. Dentro ci sono: orientalismo e primitivismo, critica del colonialismo e culto dell’estetismo, elegantissime palme, mari blu, ore nostalgiche sul fiume Me Nam per Chini, incantevoli sere ad Hammamet per Klee, l’Oceania stilizzata in pura luce di Matisse (al quale andò meglio che, proprio allora, al Turista di banane di Simenon) l’Egitto di Kokoschka, pantere, leopardi e cannibali nella Nuova Guinea visitata dagli espressionisti tedeschi Nolde e Pechstein a caccia di emozioni forti come gli avventurieri sulla Via dei Re di Malraux, i deserti algerini di un Dubuffet alla scoperta di spazi puri e inumani. Poi si arriva a Schifano e Ontani, ma qui il diario di viaggio ha poi riletture e ricadute e atterraggi tra Piazza del Popolo e Bar della Pace. Là dove spesso passava a folate, come un rapidissimo vento, anche Alighiero Boetti. Lui era il primo dei nomadi, il trasandato principe dell’altrove, e merita una zona tutta per sé.
Gliela forniscono al Madre di Napoli con questa splendida antologica che si chiama Alighero & Boetti. Mettere all’Arte il Mondo 1993-1962. Dove già nel titolo c’è che: se oggi nell’arte contemporanea va di moda essere in 2 per diventare 1 Alighiero Boetti ha fatto di tutto per smettere di essere 1 e diventare una metà, oppure 2 (scrivo così perché so che amava i numeri) e anche molti di più se è per questo, perché amava lo sdoppiamento e la metamorfosi e la molteplicità; il mondo nasce dal ventre dell’arte, che però non sta nella pancia né nel cuore ma nella mente, nella sua rapidità e leggerezza di illuminazioni; in mostra si procede dagli ultimi lavori per arrivare ai primi, perché l’arte, e forse anche la vita, non sta mica su una linea retta ma è un cerchio.
Se volete che qualcuno vi racconti chi fosse questo leggendario, mercuriale torinese leggetevi la bellissima Vita avventurosa di AB che Pino Corrias pubblica in catalogo (Electa). Le opere, gli amori, le mogli, i figli, l’identificazione con un avo settecentesco che da domenicano diventa musulmano, l’amore per l’Oriente, per il sufismo, la scoperta dell’Afghanistan, l’hascish, gli arazzi e i tappeti di preghiera come finestre sull’universo, la mappatura del mondo, la noncuranza per il fare e l’esaltazione della prima intuizione, la consacrazione dei gesti plurali e anonimi, l’amore e il disdegno per il denaro, la velocità, sempre, anche nel morire a soli 54 anni, di cancro, nel 1994.
Lo spazio di questo viaggiatore è stato vastissimo ma anche singolarmente simile a quello indicato da Willem De Kooning: A&B distende le braccia, scrivendo, e sia nella mano destra che nella sinistra ha una biro. Ciò gli basta: quello è un mondo. Fatti i conti, il suo nome gemellare ci fa fare pace con un’epoca, del Concettuale imperante, che attraverso di lui smette di essere noiosa e petulante e brutta e diventa trasparente, geniale, tutta raccolta in un permanente stato di grazia. «Sai da dove vengono i miei ricami? - ha confidato una volta - da mia madre che li faceva fare per i corredi delle ragazze torinesi. E sai dove teneva i modelli di quei ricami? Dentro buste da lettere usate. Ricami, buste, francobolli… Viene tutto da lì». Una gestazione di opere tra pudori e memorie piemontesi? O tra laconiche riservatezze zen? Il talento è timido, ha spiegato Franca Valeri. E L’eleganza è frigida (Adelphi) già intitolò un suo incantevole diario giapponese Goffredo Parise.