domenica 3 maggio 2009

l’Unità 3.5.09
L’ultima telefonata di Delara: «Mamma, ora mi impiccano». Giustiziata in Iran. La ragazza era accusata di un omicidio compiuto quando era minorenne
Il boia Il cappio intorno al collo gliel’ha stretto il figlio della vittima
Assassinata la giovane pittrice, accusata di omicidio. L’ultima telefonata per chiedere aiuto alla madre. Amnesty: «Sui diritti umani gli ayatollah continuano a provocare l’Occidente». Ottantaquattro esecuzioni in 4 mesi
di Gabriel Bertinetto


La sostanza è atroce di per sé: un assassinio commesso dietro il paravento di una sentenza di tribunale. Ma i particolari sono addirittura agghiaccianti, perché prima di salire sulla forca nel carcere di Rasht, in Iran, Delara Darabi è riuscita a chiamare al telefono la mamma, implorando disperatamente aiuto: «Mamma, vogliono ammazzarmi. Vedo il patibolo, mamma salvami». Poi ha chiesto di parlare al papà: «Voglio che veniate qui, per amore di Dio, aiutatemi».
IL COLTELLO NELLA PIAGA
Una persona di media umanità avrebbe almeno avuto un moto di pietà davanti ad una scena così straziante. Non l’addetto al crimine di Stato, che non ha saputo fare altro che strappare il cellulare dalle mani di Delara e affondare con protervia il coltello nella piaga, comunicando con ferocia: «Metteremo a morte vostra figlia e non c’è niente che voi possiate fare al riguardo». I genitori si sono precipitati al carcere, stringendo in mano una copia del Corano. Hanno visto uscire dal portone un’ambulanza con le insegne del medico legale. Hanno capito che trasportava il cadavere della povera figlia.
Tragico primo maggio a Rasht. Da undici giorni la sorte di Delara, condannata per un delitto commesso (ma lei si proclamava innocente) quando era ancora minorenne, era appesa ad un filo. L’esecuzione, fissata in un primo tempo per il 20 aprile, era stata rinviata, anche per la pressante campagna delle organizzazioni umanitarie, Amnesty International fra le altre. Si era diffusa ormai, fra i familiari della ragazza, gli avvocati, gli attivisti per i diritti umani mobilitatisi in suo soccorso, la speranza che le autorità volessero concedere un rinvio di due mesi.
Cosa sia accaduto per far precipitare la vicenda verso l’epilogo più crudele, non è chiaro. Un giornale iraniano, Etemad, scrive che a mettere la corda al collo di Delara, venerdì mattina, ha voluto venire personalmente uno dei figli della donna che la giovane, secondo il tribunale, uccise durante un tentativo di rapina nel dicembre 2003. L’uomo avrebbe così giustificato il proprio ruolo di vicario del boia: «Il sangue si lava col sangue». Evidentemente i parenti della vittima avevano rifiutato il perdono, impedendo la commutazione della pena. Ma decisivo deve essere stato anche il recente arrivo di un nuovo magistrato a Rasht, un certo Javid Nia. Ha già fatto lapidare a morte un condannato. L’altro giorno è stato lui a firmare l’ordine di impiccagione per Delara.
POESIA E PITTURA
Il calvario di Delara Darabi inizia il giorno in cui assieme al fidanzato Amir, 19 anni, tenta di derubare un’anziana zia aggredendola in casa. La donna reagisce, Amir la colpisce con un bastone, poi ordina alla giovane complice di prendere un coltello in cucina. Uno dei due affonda la lama nella schiena della poveretta. Inizialmente Delara confessa di essere stata lei. Poi però cambia completamente versiono e accusa il fidanzato di averla convinta ad autoaccusarsi con il pretesto che, essendo lei minorenne, non avrebbe rischiato la pena di morte. Così sarebbe infatti se la Repubblica islamica rispettasse le convenzioni internazionali che vietano le esecuzioni capitali per chi abbia commesso un crimine in età minorile. Gli inquirenti comunque non hanno mai creduto alla ritrattazione. Delara fu condannata a morte, Amir se la cavò con dieci anni di reclusione.
Mentre si batteva perché fosse creduta la sua innocenza, Delara affidava alla poesia ed alla pittura il racconto del suo dolore. I suoi quadri vennero esposti in due mostre a Teheran e a Stoccolma. Ma la disperazione a volte prevaleva, e un giorno del 2007 fu salvata in extremis da una compagna di cella dopo avere tentato il suicidio tagliandosi le vene dei polsi.
Il giorno prima di essere impiccata, Delara ha ricevuto la visita della mamma. Le ha detto che quando fosse finalmente uscita dal carcere voleva riprendere gli studi. In quegli stessi momenti in un’altra ala dell’edificio gli aguzzini allestivano il patibolo. Di nascosto, senza avere il coraggio nemmeno di rispettare le loro leggi che impongono di avvisare almeno 48 ore prima delle esecuzioni i familiari e i legali dei condannati.

l’Unità 3.5.09
Intervista a Hassiba Hadj Sahroui:«Sui diritti umani gli ayatollah sfidano l’Occidente»
La vicepresidente di Amnesty Asia: sul caso Darabi hanno accelerato i tempi per timore delle pressioni internazionali
di Umberto De Giovannangeli


Quello condotto contro Delara Darabi è stato un processo iniquo; iniquo rispetto agli stessi standard della giustizia iraniani. La Corte che l’ha giudicata si è rifiutata di prendere in considerazione prove a favore di Delara; il suo avvocato non è stato informato (dell’impiccagione, ndr.) nonostante l’obbligo di legge di avere comunicazione 48 ore prima dell’esecuzione». A denunciarlo è Hassiba Hadj Sahroui, vice direttrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Asia. «I diritti umani – sottolinea Sahroui – devono diventare una priorità nell’azione della comunità internazionale». La dirigente di Amnesty sta seguendo direttamente anche un altro caso scottante che investe l’Iran: quello della giornalista Roxana Saberi, condannata a otto anni di reclusione per spionaggio a favore degli Usa. Amnesty International ha chiesto il rilascio immediato e senza condizioni della giornalista. Roxana Saberi, denuncia Hassiba Hadj Sahroui, «è solo una pedina degli sviluppi politici in corso tra Iran e Usa». La pedina di un gioco sporco. «Il fatto che le accuse siano di volta in volta cambiate, dal momento del suo arresto fino al processo, indicano chiaramente che le autorità iraniane cercano qualsiasi scusa per tenerla in prigione».
Nonostante i ripetuti appelli delle organizzazioni umanitarie, Delara Darabi è stata giustiziata.
«Un atto gravissimo che viene a conclusione di un processo iniquo; iniquo rispetto agli stessi standard, del tutto opinabili, di giustizia iraniani…».
L’esecuzione è avvenuta nonostante fosse stata accordata all'imputata, il 19 aprile scorso, una sospensione di due mesi della pena.
«Quando parlo di processo iniquo e di una condotta cinica da parte delle autorità iraniane, mi riferisco anche a questo. Hanno voluto far presto. È come se avessero voluto evitare le proteste interne e internazionali che avrebbero potuto salvare la vita a Delara. C’è da aggiungere che questa triste, drammatica vicenda testimonia che persino le decisioni presa dal potere giudiziario centrale (la sospensione di due mesi della pena) non hanno nessuna incidenza e vengono disattese nei distretti provinciali. L’esecuzione di Delara è un oltraggio al diritto umanitario, ad un senso minimo di giustizia. La comunità internazionale non può, non deve tacere di fronte a questo scempio. Così come deve fare i conti con un dato inquietante…».
Quale?
«Dall’inizio dell’anno almeno 84 persone sono state impiccate in Iran. Oggi sono oltre 150 i giovani, come Delara, condannati all’impiccagione per omicidi commessi quando erano minorenni. Non abbandoniamoli nelle mani del boia di Stato».
Un altro caso scottante è quello della giornalista irano-statunitense Roxana Saberi.
«Roxana è ostaggio delle relazioni non certo amichevoli tra Teheran e Washington. Se, come appare, è detenuta solo per ragioni politiche legate ai rapporti dell'Iran con gli Usa o per aver esercitato in modo pacifico il diritto alla libertà d'espressione, Saberi è una prigioniera di coscienza e deve essere rilasciata immediatamente e senza condizioni. L’annuncio da parte iraniana della revisione della sua condanna è un primo passo ma non basta. La vicenda di Roxana come quella, ancor più tragica di Delara, confermano quanto Amnesty documenta da tempo: è difficile avere giustizia in Iran».

Repubblica 3.5.09
Continuare a lottare
Parla Marina Nemat, condannata a morte in Iran, riuscì a evitare l´esecuzione sposando il suo carceriere
"Così sono sfuggita a quella forca ma altre mille donne rischiano la vita"
di Francesca Caferri


A 17 anni aveva confessato ma, disse dopo, sotto l´effetto della tortura
In Iran tantissimi ragazzi e ragazze sono arrestati e uccisi come se niente fosse Dobbiamo continuare a fare pressione in nome della democrazia

Aveva 16 anni Marina Nemat quando fu arrestata per «attività rivoluzionaria» in Iran: uno meno di Delara Darabi. Come lei, fu torturata, costretta a confessare crimini che non aveva commesso e condannata a morte. In carcere ha passato più di due anni. Poi una guardia carceraria ossessionata da lei convinse le autorità prima a commutare la sua pena in ergastolo e poi a liberarla. Marina fu costretta a sposare il carceriere: solo alla sua morte riuscì a fuggire dall´Iran. Sulla sua vicenda ha scritto un libro - "Prigioniera a Teheran" - diventato un best seller internazionale.
Signora Nemat, quale è stata la sua reazione quando ha saputo di Delara Darabi?
«Sono rimasta paralizzata. Non riuscivo a respirare. Non riuscivo a parlare. Anche ora non posso crederci: la sua storia è così simile alla mia che mi è sembrato di rivivere l´incubo. Io sono fuori dalle carceri iraniane da anni, ma non posso dire di stare bene: ho ancora incubi e visioni. E tutto è tornato fuori appena ho saputo della morte di quella povera ragazza».
Le autorità iraniane dicono che aveva confessato di essere colpevole...
«Anche io avevo confessato. Non so cosa, ma ho confessato qualunque cosa volevano sentirsi dire. Anche la giornalista americana Roxana Saberi ha confessato. Tutti confessano, nella speranza che l´incubo finisca, le torture termino. Quando passi una settimana legata a una sedia con una benda sugli occhi. O quando hai fame e ti lanciano la zuppa addosso. Quando ti minacciano. Chi non confesserebbe?».
Lei ha parlato di Roxana Saberi: poche ore dopo la morte di Delara le autorità iraniane hanno annunciato che la sua condanna sarà rivista. Crede che i due casi siano legati?
«Non lo so. Può darsi che qualcuno abbia scelto di uccidere Delara per dare un segnale, per dire "questo è quello che siamo capaci di fare". E trattandosi di una iraniana è stato facile. La Saberi è americana, per lei sarà diverso: ma ci sono migliaia di Delara rinchiuse nelle carceri. Ragazze e ragazzi arrestati per motivi pretestuosi e uccisi come se niente fosse. A centinaia sono morti mentre ero in carcere io: sparivano e le famiglie non ricevevano neanche i corpi. Pensavo sempre che presto sarebbe successo a me».
Cosa può fare la comunità internazionale?
«Continuare a fare pressione. Usare i mezzi di comunicazione per arrivare in Iran e far entrare nella testa dei milioni di giovani cresciuti solo con la Rivoluzione un messaggio di democrazia. Non spetta a noi decidere per gli iraniani, non dobbiamo dirgli noi che è tempo di eliminare la sharia. E non possiamo pensare a un intervento armato. Ma possiamo continuare a spingere per un cambiamento».

il Riformista 3.5.09
La pittrice Delara tradita dal ragazzo uccisa dall'Iran
di Roberta Del Principe


TEHERAN. La ventiduenne è stata giustiziata venerdì. Confessò un omicidio per salvare l'amato. Prima dell'esecuzione i carcerieri le hanno concesso una telefonata al padre e alla madre. Ma nessuno ha potuto aiutarla.
Delera Darabi, condannata a morte per un omicidio commesso a 17 anni.

Primo Maggio. Prigione centrale di Rasht, Iran settentrionale. È ancora notte, fa caldo e l'aria è molto umida. Delara Darabi, ventidue anni, viene svegliata bruscamente dai suoi carcerieri che la trascinano nel cortile del carcere. Alla vista del patibolo e del boia realizza, sono gli ultimi momenti della sua vita. Solo qualche ora prima Delara nella sua cella aveva incontrato sua madre e si erano salutate senza sapere che non si sarebbero più riviste. Le concedono un'ultima telefonata. «Mi impiccano fra pochi secondi… aiutatemi», dice angosciata ai suoi genitori. Comincia ad albeggiare, le viene posto un cappio intorno al collo dal figlio della donna per la cui uccisione è stata condannata. Il suo corpo esile, era arrivata a pesare 35 chili, è sollevato e abbandonato nel vuoto. La giovane pittrice iraniana è assassinata per impiccagione.
Piove tutto l'anno a Rasht sul litorale del Mar Caspio e gli abitanti di Teheran lì trascorrono i loro fine settimana in cerca di un clima più fresco. Nella prigione di questa località, il primo week-end di maggio ha portato la morte, un'altra tacca di sangue sulla spada della giustizia iraniana. La Darabi sei anni fa, all'età di 17 anni, si introdusse insieme al suo fidanzato Amir Hossain in casa di una cugina di suo padre, una donna di 58 anni chiamata Hamin. Volevano derubarla, ma la donna finì pugnalata a morte. Delara si dichiarò colpevole e fu proprio suo padre, che ora è ricoverato in ospedale in stato di shock, a consegnarla alla polizia. Entrambi i ragazzi finirono in prigione puniti con tre anni di carcere, 50 frustate per tentata rapina e 20 per la loro «relazione illecita». «È stato solo per proteggere Amir. Fu lui ad ucciderla, sono innocente», dichiarò la pittrice iraniana poco tempo dopo. Il fidanzato aveva convinto Delara ad assumersi la colpa dell'omicidio, assicurandole che siccome era minorenne sarebbe stata rilasciata dopo qualche anno, mentre lui avrebbe rischiato il patibolo. Delara accettò addossandosi tutta la colpa, Amir Hossain dopo aver scontato tre anni di carcere fu rilasciato.
Nel 2005 la condanna a morte per omicidio, confermata due anni dopo dalla Corte Suprema e due giorni fa l'esecuzione, nonostante che il 19 aprile scorso fosse stata accordata all'imputata una sospensione di due mesi della pena. Il rinvio per dare modo alla famiglia di riflettere sulla richiesta di perdono avanzata dai genitori di Delara. Si chiama «il prezzo del sangue», è il risarcimento che può essere chiesto a un assassino condannato alla pena capitale da chi ha subito il reato. La barbarie della pena di morte si somma alla barbarie della faida. L'intero sistema iraniano è simile più alla antica tradizione medievale europea, che non a quella di un normale stato di diritto, in cui le norme sono applicate in base a un principio d'interesse generale e non in base alla soddisfazione della propria voglia di vendetta personale. Delara aveva accettato le condizioni poste dalla famiglia della vittima per concedere il perdono che le avrebbe salvato la vita, ma non è servito.
L'avvocato della ragazza, Abdolsamad Khoramshahi, non riesce a darsi pace per non essere riuscito a convincere l'accusa. La sua linea difensiva puntava a dimostrare che Delara fosse stata una semplice testimone dell'omicidio, provando che la sua assistita quella notte fu drogata dal fidanzato e che la signora Hamin, secondo quanto emerso dall'autopsia, fu pugnalata da un destrorso, mentre Delara Darabi è mancina. I giudici non hanno tenuto conto delle prove condannando Delara, come troppo spesso avviene in Iran, sulla base della propria intuizione.
Quella ragazza così bella, dagli occhi neri e con un piccolo neo sulla guancia, l'avevamo conosciuta grazie a una foto che aveva fatto il giro del mondo. Delara in quell'immagine era assorta, sguardo pensieroso, la mano sotto il mento, un anello alle dita e quell'hijab di color turchese portato con grande eleganza. Delara amava i colori, dipingeva. «Sono prigioniera dei colori», disse un giorno. «Sin dall'età di quattro anni i colori sono stati la mia vita…poi li ho persi a 17 anni. Da allora l'unica immagine che ho davanti agli occhi è quella del muro della mia cella. Ma mi sono difesa con i colori, le forme e le espressioni. Spero che i colori mi restituiscano alla vita…».
Delara non ce l'ha fatta, ma grazie a una sua ex compagna di cella, Lily Mazahery, abbiamo i suoi quadri, i suoi disegni, i suoi scritti. «Questi dipinti sono la prova che anche nelle situazioni più buie della vita umana, vi è comunque una via d'uscita. Dopo tutto… le speranze e i sogni non si possono imprigionare».

il Riformista 3.5.09
I lati oscuri d'una strana esecuzione
di R. D. P.


Amnesty International ha seguito la vicenda di Delara Darabi sin dal 2006. Riccardo Noury, portavoce della Sezione Italiana dell'organizzazione umanitaria ne ha parlato con il Riformista.
Siete stati i primi a comunicare la notizia della barbara uccisione di Delara sul vostro sito internet?
«Sì. Siamo stati contattati dal suo avvocato. Ci occupiamo della vicenda da tanto e siamo il suo punto di riferimento».
Cosa ha provato nell'apprendere la notizia?
«Un terribile dolore. È un brutto segnale, non l'ha salvata neanche la notorietà. Delara era diventata il simbolo della lotta contro la pena capitale. In questa vicenda c'è però tanto che non mi convince. L'esecuzione è avvenuta in un giorno di festa sacro per i musulmani. Non è stato avvisato il suo legale che per legge avrebbe dovuto essere informato 48 ore prima dell'esecuzione per permettergli di preparare l'ultima difesa ed è stata violata un ordinanza del Capo dell'Autorità giudiziaria. Collegando tutto questo alle imminenti elezioni presidenziali iraniane, credo di poter dire che Delara sia stata la vittima sacrificale di uno scontro di potere tra un Tribunale di provincia e l'Autorità centrale del Paese».
In Iran la situazione si fa sempre più drammatica.
«Per quanto riguarda la pena di morte la situazione in Iran è terribile. 140 esecuzioni dall'inizio dell'anno, di cui due nei confronti di minorenni al momento del reato e ci risulta ce ne siano altri 150 in attesa di esecuzione. Questo contro la Convenzione Onu per i diritti dell'Infanzia, firmata anche dall'Iran, che vieta la pena di morte per i minorenni. Nei bracci della morte ci sono poi tantissimi condannati, tra i quali prigionieri politici, detenuti per reati d'opinione, omosessuali, adultere ed adulteri».
E ora?
«Bisogna continuare a lottare con ancora più ostinazione. In Iran di fronte a tanta barbarie c'è una società civile molto coraggiosa e organizzata che non si ferma dinnanzi al pericolo. La moratoria sulle lapidazioni delle adultere per esempio non sarebbe stata possibile senza il grande lavoro degli attivisti iraniani per i diritti umani».

l’Unità 3.5.09
Berlusconi Sugar Daddy
di Furio Colombo


Non governa, appare. Eccolo sulle macerie del terremoto. Eccolo piangere. Poi cambia argomento ed ecco il lampo di festa giovane

L’Italia è l’unico caso di una democrazia occidentale declassata al livello di Paese semi-libero. Lo ha dichiarato, il 29 aprile, la Fondazione americana “Freedom House” : «Troppa concentrazione di potere mediatico nelle mani di una sola persona che è anche il capo del governo».
Reazioni italiane alla grave denuncia? Nel corso della settimana si è udita solo la voce indignata di Veronica Lario, però a causa della disputa familiare ormai nota.
Nel silenzio di quasi ogni altra fonte, c’è da domandarsi se il grido di indignazione della signora Lario verso il marito Berlusconi non abbia di gran lunga superato le linee guida dettate da Massimo D’Alema per un corretto confronto politico.
La personalità del Pd, con il peso della sua storia, ammonisce, in una vasta intervista al Corriere della Sera (29 aprile): «Se fai un versaccio al premier (...) significa scegliere un ruolo eterno di comprimario, fare la spalla a Berlusconi per i prossimi mille anni».
Sì, ma allora che cosa fare? Nel vuoto lo spazio è libero sia per il silenzio che per l’imitazione del presidente-padrone e dei suoi associati. Il silenzio per non correre il rischio di fare da spalla. L’imitazione - tipo tagliare il pasto ai bambini rom, come ha fatto il sindaco Pd di Pessano (Milano) «perché noi facciamo assistenza, non assistenzialismo», come dice la Lega.
A questo punto permettete a chi scrive di lasciar transitare un piccolo carico di memoria. Ciò che D’Alema ha detto al Corriere della Sera per illustrare l’errore grossolano di denunciare le malefatte del governo, lo aveva detto e scritto, con la stessa chiarezza, ai tempi de l’Unità appena rinata e subito accusata di esagerare con la sua «fissa» sul conflitto di interessi e le leggi ad personam. Altri tempi. Però allora, (segretario Ds Fassino) elezione dopo elezione, comuni, province, regioni si spostavano da destra a sinistra, oppure si radicavano a sinistra dove avevano governato ormai da decenni.
Ma l'ammonizione di D’Alema non riserva alcuna benevolenza a chi volesse disapprovare vivacemente il premier. Neppure nel giorno di «Papi Noemi». Noemi, come ormai tutti sanno dalla Sicilia alla Lapponia, è una adolescente bellina, che nell’entroterra di Napoli, ha celebrato i suoi 18 anni in compagnia del presidente del Consiglio, prontamente e misteriosamente apparso sul posto. È la neo-diciottenne Noemi a confidare al Corriere della Sera: «Certe volte lo chiamo Papi» (30 aprile). «Papi» in inglese si traduce «Daddy», se si parla del vero papà. Ma l’espressione diventa «Sugar Daddy» quando riguarda un tipo straricco (”sugar”, zucchero, sta per dollari) che ronza intorno a una ragazzina infatuata. «Sugar Daddy», dunque, si fa trovare (per deliberata, stravagante strategia), in una notte buia, alla periferia di Casoria in un villone affittato per la festa. È la festa della «sua bambina» (tanto che in due giorni fiorirà anche la leggenda della figlia segreta). L’invadente leader d’aziende, di governo, di partito e di popolo compie dunque un passo nuovo. Non un passo di governo. Come si sa Berlusconi non governa. Berlusconi appare.
Non un passo politico. Come si sa Berlusconi è impegnato a portare il suo popolo fuori dalla politica e dentro il magico mondo della «audience», un mondo tipo Maria De Filippi.
Come si sa Berlusconi, prima ancora dei voti, cerca «indici di gradimento». Lui sa che il gradimento porta voti e non il contrario. E peggio per chi non controlla un po’ di giornali e tutte le televisioni.
Ecco allora Berlusconi sulle macerie del terremoto, Berlusconi con i primi sopravvissuti dell’Aquila che piange, Berlusconi con i primi anziani delle tendopoli che ride, Berlusconi con soldati, vigili del fuoco, e i bambini. Poi cambia bruscamente argomento, come nei suoi telegiornali. Ecco il lampo di festa giovane di «Sugar Daddy», figlia o corteggiamento o bizzarria o inspiegata gentilezza. L’importante è che si accenda un’altra luce sulla nuova apparizione dell’unico governante che non governa. Ma viene regolarmente festeggiato dai suoi media come uno statista.
A questo punto Veronica Lario occupa il vuoto. E parla, indignata. Diciamo che tutto ciò riguarda la sua famiglia. Tranne il vuoto, che riguarda noi. Ripensiamo allo schema D’Alema: Berlusconi parla, canta, balla, appare e ricompare (più o meno non fa altro)? Tu fermo e zitto, se no gli fai da spalla.
Dunque noi, disciplinatamente in silenzio, aspettiamo che un professionista della politica ci spieghi il segreto: come vincere (o anche solo sopravvivere) restando buoni, bravi e zitti. Forse in attesa di fare le riforme «insieme».

Repubblica 3.5.09
"Adesso basta, chiedo il divorzio" così Veronica dice addio a Berlusconi
Veronica, addio a Berlusconi "Ho deciso, chiedo il divorzio"
di Dario Cresto-Dina


Non posso più stare con Silvio. È stato tutto inutile. Chiudo il sipario

MILANO. «Chiudo il sipario sulla mia vita coniugale». Dopo quasi trent´anni, i due si conobbero nel 1980 e si sposarono con rito civile il 15 dicembre 1990, le strade del presidente del Consiglio e di sua moglie, già spezzate sul piano sentimentale e personale, si dividono anche giuridicamente.
Ho cercato di aiutare mio marito, ho implorato coloro che gli stanno accanto di fare altrettanto, come si farebbe con una persona che non sta bene. È stato tutto inutile
Sono convinta che fermarsi non sia più dignitoso. La strada del mio matrimonio è segnata, non posso stare con un uomo che frequenta le minorenni
Dopo trent´anni chiudo il sipario sulla mia vita coniugale ma voglio farlo da persona comune e perbene, senza clamore. Vorrei evitare lo scontro
Veronica Lario ha avviato le pratiche per la separazione e il divorzio da Silvio Berlusconi, portando a termine un percorso cominciato molto tempo fa come ammise lei stessa alla fine dell´estate 2008, quando confessò che all´eventualità di una separazione stava meditando da dieci anni.
Ora ha scelto l´avvocato che la seguirà passo dopo passo davanti ai giudici: «Finalmente una persona di cui mi posso fidare fino in fondo». È una donna. Una professionista lontana dallo star system e dalla politica. L´ha sentita al telefono il primo maggio, l´avvocato era in vacanza su un´isola del Sud Italia. È stato in pratica il loro primo vertice sulla separazione. Veronica le ha spiegato: «Voglio tirare giù il sipario, ma voglio fare una cosa da persona comune e perbene, senza clamore. Vorrei evitare lo scontro». Il legale le ha risposto: «Stia tranquilla. Parto subito, prendo un aliscafo e rientro immediatamente a Milano. Lei è consapevole che non sarà facile e che dovrà sopportare attacchi pesanti? È sicura di volerlo fare?».
Nella risposta non ci sono state esitazioni: «So tutto. Voglio andare avanti». Ieri le due donne si sono incontrate a Macherio per studiare la strategia e si rivedranno molto presto, all´inizio della settimana. Vogliono stringere i tempi, evitare il contropiede di un uomo sempre molto abile a ribaltare le situazioni, capace di convocare una conferenza stampa per dire che il divorzio lo ha deciso lui per primo, e non la "signora".
Naturalmente nei giorni scorsi Veronica ne ha discusso con i figli e le persone più vicine, un paio di amiche molto care, sottolineando ancora una volta le ragioni del suo distacco dalla vita pubblica del marito e insistendo sull´importanza che rappresenta per una donna come lei il valore della dignità: «Ora sono più tranquilla - ha confidato loro - . Sono convinta che a questo punto non sia dignitoso che io mi fermi qui. La strada del mio matrimonio è segnata, non posso stare con un uomo che frequenta le minorenni».
Per i suoi ragazzi - Barbara di 24 anni, Eleonora di 22 che studia negli Stati Uniti e Luigi di 20, il più legato al mito imprenditoriale e politico del papà - sono state ore di grande amarezza e di sofferenza, ma alla madre tutti e tre hanno assicurato che rispetteranno ogni sua decisione per dolorosa possa essere: «Non muoveremo mai un dito contro nostro padre, ma tu mamma fai ciò che ti fa stare bene».
L´inizio della fine arriva la mattina di martedì 28 aprile. Veronica guarda i giornali, la sua attenzione si sofferma sull´articolo di "Repubblica" che svela come nella notte di domenica il premier si sia presentato a sorpresa in una villetta di Casoria, dove si celebravano i diciott´anni di Noemi Letizia. Lei è bella, bionda, studia da grafica pubblicitaria a Portici e sogna una carriera televisiva, tanto che avrebbe inviato il suo "book" fotografico al presidente del Consiglio in persona. Un album che avrebbe provocato la scintilla. Accanto a Noemi ci sono il padre Elio e la madre Anna. La ragazza chiama Berlusconi "papi", ai giornalisti dirà più tardi che lo conosce da tempo e che spesso lo va a trovare a Milano e Roma, «perché lui, poverino, lavora molto e non può sempre venire a Napoli». Il Cavaliere le ha portato un regalo, una collana d´oro giallo e bianco con pendente di brillanti. C´è chi mormora anche le chiavi di un´auto, ma Noemi smentisce.
Veronica legge e rimane stupefatta, chiama al telefono un´amica: «Basta, non posso più andare a braccetto con questo spettacolo». A Roma infuria la polemica sulle "veline" pronte a entrare nelle liste elettorali del Pdl e ci sono, soprattutto, quella ragazzina di Casoria, Noemi, e la sua mamma Anna che si rivolgono a Berlusconi con gli affettuosi diminutivi di "papi" e "papino". Veronica non ce l´ha né con le giovani donne aspiranti europarlamentari né con Noemi. Interpreta la loro parabola quasi epicamente, come «figure di vergini che si offrono al drago per rincorrere il successo, la notorietà e la crescita economica». La sconcerta, però, che il metodo da "ciarpame politico" non faccia scandalo, che quasi nessuno si stupisca, che «per una strana alchimia il paese tutto conceda e tutto giustifichi al suo imperatore», come racconta a chi le sta vicino.
Quell´imperatore è ancora suo marito ed è il padre dei suoi figli, un padre che, seppure invitato, non ha mai partecipato alla festa dei loro diciott´anni. Di fronte alla nuova pubblica offesa sceglie di replicare pubblicamente con una dichiarazione che manda all´agenzia Ansa soltanto dopo le dieci di sera. È stato infatti un giorno di angoscia a villa Belvedere. Barbara, incinta di sette mesi del suo secondo figlio, è stata ricoverata all´ospedale San Raffaele. Sono lunghe ore di ansia, c´è il rischio di un parto prematuro. Veronica Lario ha in casa il nipotino Alessandro, chiede alla segretaria Paola di fermarsi fino a mezzanotte. La misura è colma, il "ciarpame" non è soltanto politico.
La mattina successiva Berlusconi dalla Polonia attiva la cortina fumogena e la contraerea dopo una notte di rabbia. Ordina che le "veline" spariscano quasi tutte dalle liste europee, ridimensiona il rapporto con Noemi a una antica conoscenza con il padre ex autista di Craxi (notizia poi smentita da Bobo Craxi e cancellata comicamente addirittura da un comunicato di Palazzo Chigi) e liquida con una battuta maschilista e greve l´indignazione della moglie, evitando di pronunciarne il nome e il ruolo: «La signora si è fatta ingannare dai giornali della sinistra. Mi spiace». Rientrato a Roma, annulla un incontro in calendario per il giorno successivo con il presidente della Camera Gianfranco Fini.
La sua intenzione è di andare a Milano, come fece due anni or sono, per ricucire lo strappo con Veronica. Non ci andrà, lo ferma la sua fidatissima segretaria Marinella. Veronica Lario, infatti, l´ha appena chiamata: riferisca a mio marito che non mi si avvicini, non ho più nulla da dire e nulla da ascoltare, tutte le parole sono state consumate.
Giovedì i giornali del Cavaliere e i blog del Pdl fanno capire all´ex first lady di Macherio che aria tira. Dietro al "come si permette?" si scatena una minacciosa muta di cani. Il quotidiano "Libero" pubblica nella testata di prima pagina tre fotografie in bianconero della giovane attrice Veronica Lario a seno nudo. Il messaggio è più che mai trasparente, sembra arrivata l‘ora dell´olio di ricino. Quando vede quelle fotografie la moglie del premier capisce, se ce ne fosse ancora bisogno, di essere davvero sola e di essere minacciata. In quelle foto si sente «come davanti a un plotone di esecuzione qualche secondo prima della fucilazione». Alla figlia Barbara dice: «Sono molto preoccupata di ciò che potrà accadere, ma ho la libertà per andare avanti».
Cala il sipario. La lettera affidata a "Repubblica" due anni fa da Veronica era un ultimatum. Qualche ora dopo Berlusconi inviò le sue scuse pubbliche alla moglie. Era il 31 gennaio 2007: «La tua dignità non c´entra, la custodisco come un bene prezioso nel mio cuore anche quando dalla mia bocca esce la battuta spensierata, il riferimento galante, la bagattella di un momento». A sigillo un grande bacio. Qualche mese dopo, ad appannaggio esclusivo dei settimanali patinati della famiglia, arrivarono le passeggiate della coppia mano nella mano nel giardino della villa in Costa Smeralda e sui moli di Portofino.
Immagini che oggi sembrano lontanissime. «Mi domando in che paese viviamo - ha raccontato Veronica l´altro giorno a un´amica - , come sia possibile accettare un metodo politico come quello che si è cercato di utilizzare per la composizione delle liste elettorali del centrodestra e come bastino due mie dichiarazioni a generare un immediato dietrofront. Io ho fatto del mio meglio, tutto ciò che ho creduto possibile. Ho cercato di aiutare mio marito, ho implorato coloro che gli stanno accanto di fare altrettanto, come si farebbe con una persona che non sta bene. È stato tutto inutile. Credevo avessero capito, mi sono sbagliata. Adesso dico basta».

Il Giornale 3.5.09
Il caso Veronica
La lezioncina del moralista
(mandante di un omicidio)
di Paolo Granzotto


Adriano Sofri è un campione del moralismo rorido e ipocrita da sacrestia. Non un Moliere, come ambirebbe essere, ma un piccolo, meschino Tartufo. Ovvero un trombone che paludandosi nei broccati delle virtù civili - lui, il mandante dell'omicidio Calabresi, cioè un criminale - va a caccia dei peccati del mondo per poi poterli candeggiare con la varichina del suo stucchevole perbenismo sociale. Un ripiego, perché era con il piombo delle P38 che Sofri avrebbe voluto fare pulizia ai tempi in cui, vestendo i panni del gelido Strelnikov, giocava alla rivoluzione facendo della non metaforica pelle altrui la membrana del tamburo sul quale rullare la carica. Fallito in quel ruolo, condannato al carcere (breve e di lusso), si trovò costretto a cambiar registro e dichiarandosi vittima del «sistema» si presentò alla ribalta come il maestro buono, lamentoso e saggio; come colui che avendo molto sofferto ingiustamente, molto aveva da insegnare. L'ultima lezione in ordine di tempo, Sofri l'ha impartita - dalle colonne della Repubblica e con un sospetto ritardo sui tempi - a Silvio Berlusconi. Rinunciando ai consueti accenti quereli, alla sua abituale gnagnera intimista, nell'occasione ha preferito riprendere quel tonetto sprezzante, da gradasso, che lo rese sinistramente famoso quand'era alla testa di Lotta continua. E per dare unà mano di biacca politicamente corretta al suo antiberlusconismo di maniera, ha voluto giocare la carta femminista assumendosi la difesa d'ufficio della signora Veronica. Che però, siccome al cuor non si comanda e il cuore che batte nel petto di Sofri è quello, liquida come una sciampista che si dà per interesse, perché il mascalzone (Berlusconi) è ricco, ha le televisioni, le carte giuste per barare.
Gli argomenti della tartufesca lezioncina non si discostano da quelli standard dell'antiberlusconismo plebeo. Tanto per fare un esempio, Sofri afferma di non poter invidiare uno che, come Berlusconi, «ha un problema con la caduta dei capelli»: assunto da dialettica d'avanspettacolo - genere Ambra Jovinelli - al quale non ricorre più nemmeno Travaglio, che è tutto dire. Né manca - e come poteva mancare alla ovvia, scontata penna di Sofri? - l'accostamento Mussolini-Cavaliere. Al 'quale sono ricordate le figure di Ida Dalser e di Benitino, l'amante e il figlio della colpa che siccome «facevano ombra» al Duce finirono i loro giorni rinchiusi in manicomio. Così, profetizza Sofri, finirà anche la povera e ombreggiante signora Veronica: «Magari finalmente la signora la lascerà - scrive rivolgendosi a Berlusconi - e lei le scioglierà addosso la muta dei suoi cani». Parole di così pesante volgarità (solo un animo triviale può assiìmlare la signora Veronica all'estetista Ida Dasler, parlandone non da legittima moglie, ma da pidocchiosa relazione extraconiugale di Silvio Berlusconi e liquidare Barbara, Eleonora e Luigi come ingombranti figli adulterini della coppia) di fronte àlle quali la «colonna infame» - come Sofri definisce il quotidiano che pubblicò certe foto della signora Veronica senza un pezzo dell'abito di scena - diventa un soave e fanciullesco sberleffo.
Il richiamo alla privacy violata dalla signora Berlusconi, fatto proprio da tutte le persone di buon senso intervenute nell'affaire delle giovanotte che si voleva candidate all'Europarlamento, esula, ovviamente, dalle scelte moraliste di Adriano Sofri. Che anzi vi si scaglia contro con sociologico furore. «Il vecchio ritornello "fra moglie e marito ... " - scrive - di tutti i vizi nostri è il peggiore. È la incrollabile Protezione civile dei panni sporchi da tenere sporchi in famiglia». E qui sembra risuonare l'invocazione partenopea: «Tutt'o vico ha da sapé!» cara, evidentemente, all'animo specchiato, nobile e sensibile del mandante dell'omicidio Calabresi. Cioè di un criminale.

il Riformista 3.5.09
I postumi familiari sul consenso
I sondaggi e il caso Veronica
«Non nuocerà al premier»
di A.D.A.


Il ciclone Veronica non ha travolto il Cavaliere, anzi. Non lo dice solo il premier («Sono al 75,1 per cento. Più di Obama»). Ma anche i sondaggisti. Proprio loro. E dire che il Cavaliere li ha accusati, il 1° maggio a Napoli, di non rivelare quanto sia amato dagli italiani, usando un aneddoto: «Mi sembra il principio della zia Marina. Una volta l'ho trovata con un grande vestito rosa-rosso davanti a uno specchio dell'ingresso di Arcore che si diceva: "Marina come sei bella, Marina come sei bella". E io le ho detto: "ma zia, te lo dici da sola?" E lei: "Certo, non me lo dice nessuno". Quindi i sondaggi sono fatti da altri, ma non è che in giro vengano con piacere pubblicati».
Eppure proprio gli scienziati dell'opinione pubblica gli danno ragione. Tra Silvio e Veronica ha vinto Silvio. Renato Mannheimer taglia corto: «Non so nemmeno se sonderò l'affaire Veronica. Credo non sposti niente». Nando Pagnoncelli dell'Ipsos spiega: «Non è che l'elettorato ha un riflesso pavloviano che ad ogni movimento cambia modo di votare. Le motivazioni di fondo del consenso sono legate a tutto ciò che riguarda la sicurezza: in relazione alla crisi, al lavoro. Se uno non arriva a fine mese non si appassiona a Veronica. Tra l'altro Berlusconi è in crescita sin dalla fondazione del Pdl, che ha trasmesso un messaggio di leadership forte. Poi con l'Abruzzo ha consolidato il trend positivo comunicando due cose: una forte prossimità alle persone colpite dal terremoto; e una possibilità concreta di intervento». Numeri o no, la tendenza è chiara. Roberto Weber dell'Swg dice: «Il meccanismo di radicamento del consenso non passa per questioni come quella di Veronica. Nell'elettorato di centrodestra in molti rispondono: se sposi un miliardario, poi di che ti lamenti? Al di là delle cifre esatte i numeri dicono che temi come l'Abruzzo e il 25 aprile hanno spostato consensi a suo favore. Sull'Abruzzo, annunci o meno, sembra che alcune cose le abbia portate a casa. Tra l'altro riesce a gestire bene l'emotività diffusa. Un esempio: il giorno dopo la lite con Veronica, all'assemblea di Coldiretti quando ha parlato dei vigili del fuoco morti ha colpito molto la sala. Anche il 25 aprile è stato importante. Il 60 per cento degli italiani crede che il 25 aprile e l'antifascismo siano a fondamento della Repubblica. Quindi la sua partecipazione ha tranquillizzato una parte di elettorato moderato, in quel 60 per cento».
Insomma, la nottata di Veronica è passata. O forse non è nemmeno iniziata. Luigi Crespi, ex guru del Cavaliere la vede così: «Quello di Veronica è stato un déja vue e la minestra riscaldata non funziona. Quelli che abbiamo interpellato si chiedevano: "perché non divorzia?", "perché accetta condizioni che altre donne rifiutano?". Poteva invece essere rischiosa la vicenda della ragazza che lo ha chiamato "papi". Comunque l'ha gestita bene: prima con la storia dell'autista di Craxi, poi mangiandosi la mortadella e poi andando di nuovo in Abruzzo. Nell'ultimo sondaggio che ho fatto è al 62. Se perde un punto, è fisiologico visto che ha toccato il tetto. Difficile possa salire di più». Chissà.

l’Unità 3.5.09
Il nostro Paese declassato al settantatreesimo posto, al pari delle isole Tonga
La Freedom house: sistema di garanzie democratiche fragile
Italia bocciata in libertà
«La stampa è in pericolo»
di Federica Fantozzi


L’organizzazione indipendente americana che monitora la libertà di stampa nel mondo ha declassato il nostro Paese. da «libero» a «parzialmente libero». Con l’Italia retrocessi anche Israele e Hong Kong.

Per Reporter senza frontiere siamo al 44esimo posto nel mondo
Nella classifica stilata per il 2009 dall’organizzazione Reporters sans frontières, l’Italia figura al quarantaquattresimo posto, su 173 Paesi considerati. Nel report si parla anche del disegno di legge sulle intercettazioni che sarebbe, si legge, «incompatibile con gli standard democratici dell’Unione europea».

Nel 2007, Amnesty International ha riscontrato leggi limitative della libertà d’espressione e di stampa in settantasette Paesi. Tra le nuove frontiere, l'organizzazione segnala in particolare le limitazioni a Internet, soprattutto in Cina, Vietnam, Egitto e Cuba.

Nel rapporto di Freedom House, su 195 Paesi esaminati, solo 70 Stati sono classificati “free” (36 per cento del campione). Sessantuno (31 per cento) sono “parzialmente liberi” e 64 (pari al 33 per cento) sono considerati “non liberi”.

La libertà di stampa si sta riducendo in tutto il mondo. Anche in Italia che - per la prima volta - viene declassata da Paese «libero» (free) a «parzialmente libero» (partly free). Emerge dal Rapporto 2009 della Freedom House, un’organizzazione indipendente americana che da trent’anni analizza lo stato della libertà di stampa in 195 Paesi. L’Italia è al 73esimo posto alla pari di Tonga.
«L’arretramento - si legge nel documento - non è limitato agli Stati tradizionalmente autoritari. Con l’Italia scendono di categoria Israele e Hong Kong». Eppure, «l‘Europa Occidentale resta la regione con la maggiore libertà». La FH elenca le ragioni della retrocessione del nostro Paese, dove le libertà sono «fragili»: «La libertà di parola è stata limitata dai tribunali, da nuove leggi, dalle crescenti intimidazioni ai giornalisti da parte di criminalità organizzata e gruppi di estrema destra, e per le preoccupazioni sulla concentrazione della proprietà dei media».
I criteri del Rapporto sono tre: il contesto legale (leggi e regolamenti che possono influenzare i media o restringere la loro operatività); quello politico (il livello di controllo politico sui media, indipendenza e censure); il contesto economico (trasparenza, risorse pubblicitarie, corruzione). La ricercatrice della FH Karin Karlekar spiega che la retrocessione è dovuta anche al secondo mandato di Berlusconi premier: «Il suo ritorno nel 2008 ha risvegliato i timori sulle concentrazioni di mezzi di comunicazione pubblici e privati sotto una sola guida».
Leggi punitive
Tra gli elementi indicatori della libertà di stampa ci sono le garanzie costituzionali. Mentre in senso opposto agiscono norme penali che restringono la possibilità di fare informazione o sanzionano i giornalisti.
In questa categoria rientra il disegno di legge Alfano sulle intercettazioni, all’esame del Parlamento, che vieta la pubblicazione di tutti gli atti di indagine fino al dibattimento e prevede il carcere per i giornalisti. Un testo considerato un «bavaglio» da Fnsi, Fieg, Ordine Gionalisti e Unione Cronisti che accusano: il governo vuole cancellare gli articoli 20 e 101 della Costituzione, le sentenze della Cassazione che definiscono la stampa «cane da guardia della democrazia, le indicazioni dell’Unione Europea». Anche Pecorella, avvocato di Berlusconi, ha espresso dubbi sulla costituzionalità del ddl: bisogna tutelare la privacy senza azzerare un importante strumento di indagine.
Censura e autocensura
La FH indaga fino a che punto il governo possa determinare i contenuti dei media, se esista censura ufficiale o clandestina, se i cronisti siano spinti ad autocensurarsi o intimiditi da «violenza di Stato».
Sull’invadenza del governo, si può citare la frase di Berlusconi ad una recente conferenza stampa, rivolta a una giornalista Rai: «Cosa scrive lei? Non sa che a casa mia si stanno facendo le nomine di Viale Mazzini?». O quanto lo stesso premier ha detto in una conferenza stampa di ottobre (in piena protesta studentesca): «Portate ai vostri direttori i saluti miei e del ministro Gelmini». Dichiarazioni stigmatizzate dalla Fnsi: «Parole minacciose, i colleghi continuino a fare il loro lavoro».
Capitolo censure: il cda Rai ha punito con l’allontanamento temporaneo dal video Vauro, il vignettista di Annozero, reo di avere attaccato il governo sul terremoto.

l’Unità 3.5.09
Le mani di uno su tutto: l’enorme conflitto di interessi
Il «fattore economico»: questo preoccupa gli osservatori internazionali. Gli squilibri sia nella carta stampata sia nelle televisioni: con la Gasparri Mediaset resta dominante
di F. Fan


Fino a che punto i media sono posseduti o controllati dal governo e questo influenza la loro diversità di vedute? La proprietà è trasparente? La proprietà è altamente concentrata e questo influenza la diversità di contenuti? I costi di avvio e mantenimento di un’attività giornalistica sono alti?
La risposta a queste semplici domande è stata cruciale nella retrocessione italiana. È il «fattore economico» a differenziare questo governo dal precedente. Cacciato dalla porta e affatto risolto dalla Legge Frattini, il conflitto di interessi rispunta dalla finestra.
La Freedom House condivide le critiche alla Legge Gasparri sull’assetto del sistema radiotv, che lede il principio del pluralismo, favorisce la pubblicità televisiva a svantaggio della carta stampata. E non sventa il rischio di una posizione dominante di Mediaset né di un rafforzamento del profilo editoriale di Berlusconi. Nel dettaglio: Rete4 non è andata sul satellite e l’emittente Europa7, pur avendo diritto alle frequenze, non ha mai trasmesso.
È soprattutto negativa «la concentrazione insolitamente alta della proprietà dei media rispetto agli standard europei». In sostanza, il Rapporto conclude che il Cavaliere possiede Mediaset e controlla - attraverso il governo - anche la Rai. Un quadro confermato dalla partita per le nomine a Viale Mazzini con la famosa riunione notturna a Palazzo Grazioli, residenza privata del premier. «Ha fatto risparmiare ai cittadini la bolletta della luce» ha commentato sarcastica l’opposizione.
Tuttavia, questo è il panorama. Cristallizzato dalla crisi di La 7 (piano di ristrutturazione e voci di dismissione da parte di Telecom). Ed esacerbato dallo scontro tra Berlusconi e il magnate australiano Rupert Murdoch, patron di Sky. Nel dicembre scorso fu scontro aperto: con la decisione del governo, Tremonti in testa, di alzare l’Iva sulla pay-tv dal 10 al 20%. Accordi europei presi dal governo Prodi, secondo il ministro dell’Economia; «non risultano» smentì una gelida nota dell’emittente satellitare. Che lanciò una campagna di spot antigovernativi e diffuse la mail di Palazzo Chigi ai telespettatori imbufaliti. I giornali titolarono a effetto: «Lo Squalo contro il Caimano». Berlusconi se la prese con le cronache: «Che vergogna, i direttori di “Stampa” e “Corriere” cambino mestiere».
La partita è economica. In palio c’è il bacino di 4,7 milioni di famiglie abbonate al «terzo polo digitale». Una platea che fa gola, in un momento in cui persino l’impero del Biscione risente della crisi globale. Tenzone ancora aperta: Sky ha risposto ingaggiando Fiorello e Mike Bongiorno. Nel 2005 il governo sempre guidato da Berlusconi finanziò l’incentivo all’acquisto di decoder prodotti dall’azienda di Paolo Berlusconi (suo fratello). Non fu sanzionato dall’Antitrust perché aveva commesso un «atto estraneo» all’ambito di applicazione della Legge Frattini.

l’Unità 3.5.09
Il falco Lieberman inizia da Roma la missione europea fra le contestazioni
di Umberto De Giovavannangeli


Inizia domani da Roma il tour europeo di Avigdor Lieberman, il leader della destra radicale, neo ministro degli Esteri dello Stato di Israele. A Roma si preannunciano manifestazioni di protesta, e lo stesso a Berlino, Parigi, Praga.

Personaggio controverso, amato o odiato, nessuna mezza misura, Lieberman, capo della diplomazia israeliana, si è fatto annunciare da dichiarazioni di diverso tono sul processo di pace: alcune più concilianti, altre di aperto scetticismo sui principi seguiti finora nel negoziato con i palestinesi e di opposizione irriducibile a ogni ipotesi di restituzione delle Alture del Golan alla Siria.
Particolare scalpore hanno destato le affermazioni del neo ministro degli Esteri del governo Netanyahu – apparse un atto di sfida non solo alle posizioni dell’Unione Europea, ma anche ai messaggi della nuova amministrazione americana di Barack Obama – contro la validità dell’intesa definita ad Annapolis nel 2007 fra Israele e Autorità nazionale palestinese (Anp) sotto l’ombrello degli Usa per rimarcare l’impegno verso una pace globale e duratura fondata sulla soluzione dei «due popoli per due Stati».
Soluzione tuttora sostenuta dall’Occidente e dalla comunità internazionale, ma su cui il nuovo esecutivo israeliano si è mostrato finora quanto meno evasivo, suscitando la preoccupata reazione del presidente palestinese, il moderato Mahmoud Abbas (Abu Mazen).
ISRAELE AVVERTE L’EUROPA
Nei giorni scorsi un alto funzionario del ministero degli Esteri di Gerusalemme ha avvertito i Paesi europei che se non verrà posto un freno alla critiche al governo di Benjamin Netanyahu, l’Europa rischia di trovarsi esclusa dal negoziato di pace con i palestinesi. Il principale obiettivo delle critiche israeliane è la Commissaria europea per i rapporti Esterni, l’austriaca Benita Ferrero Waldner, che ha recentemente parlato di un possibile congelamento del processo di rafforzamento dei rapporti con Israele legato all’andamento del processo di pace.
AMBASCIATORI CONVOCATI
Diversi giorni fa il vice direttore per l’Europa al ministero degli Esteri israeliano, Rafi Barak, ha iniziato a convocare gli ambasciatori europei. I primi incontri sono stati con il francese Jean Michel Casa (il più solidale con le affermazioni della Waldner), il britannico Tom Philips e l’incaricato d’affari tedesco. «È da settimane che diciamo a tutti in Europa che il governo israeliano ha bisogno di tempo per riformulare le sue politiche e non vuole iniziare una guerra sulla stampa», spiega Rafi Barak.. «Israele sta chiedendo all’Europa di abbassare i toni e portare avanti un dialogo discreto – aggiunge il diplomatico - tuttavia se dichiarazioni come quelle della signora Waldner continueranno, l’Europa non potrà far del processo diplomatico e le due parti ci perderanno». Con questo poco amichevole viatico, Lieberman inizia domani il suo tour europeo. Un tour in salita per «Avigdor il russo».

l’Unità 3.5.09
Modello Thatcher e nuove teoria economche
di Loretta Napoleoni


È fallito il socialismo e poco dopo anche il neo liberismo si è frantumato. Travolti da questo cataclisma i governi usano l’economia come i pompieri l’idrante, gettano acqua dove c’è più fuoco cercando di salvare il salvabile. Ci vorrebbero architetti e ingegneri per farlo ma non ce ne sono disponibili. Nessun governo ha infatti sottomano una nuova teoria economica, un modello da seguire perché per trent’anni ci si è adagiati sul sistema creato dalla signora Thatcher. Ed è questo il pericolo vero della recessione, l’assenza di un’alternativa al modello del libero mercato. L’economia che fino allo scorso settembre ha fatto da cornice alla nostra vita poggiava su questo principio, professato per un decennio dal governo della signora di ferro. Ma i pilasti ideologici della rivoluzione thatcheriana hanno iniziato ad alzarsi ben prima della sua elezione a primo ministro il 3 maggio del 1979. In un’Inghilterra fiaccata dalle politiche assistenzialiste del partito laburista, la dottrina neo-liberista incoraggia l’iniziativa privata. Nascono migliaia di piccole imprese. A facilitarne la rinascita è l’abbattimento delle aliquote fiscali, quella più elevata si dimezza al 40%, e la privatizzazione dei beni dello stato. La Gran Bretagna vende i suoi gioielli: scuole, parchi, ospedali, trasporti e telefonia finiscono in mano ai privati. Le casse dello stato si gonfiano e la politica monetaria diventa un esercizio contabile, proprio come aveva suggerito il guru del neo-liberismo, Milton Friedman, l’economista più ammirato dalla signora di ferro. L’era in cui si stampava carta moneta pervia andare avanti il carrozzone dello stato è finita e con lei le ondate di inflazione galoppante. Chi beneficia maggiormente delle nuove politiche è però la finanza. Con il Big Bang la Thatcher apre le porte della City di Londra ai banchieri europei e americani. Un misto di sgravi fiscali, incentivi monetari e il rilassamento dei controlli trasforma la capitale inglese nella piazza affari più dinamica ed ambita del mondo. È l’inizio della deregulation. Il modello thatcheriano si presenta come lo schema economico della globalizzazione, un modello però che funziona solo in alcuni paesi e che non resiste al test del tempo. In Russia crea la casta degli oligarchi, in America dà vita agli abusi finanziari che hanno trascinato l’economia mondiale nella recessione, persino in Gran Bretagna l’eredità della Thatcher è il caos economico. Quale la soluzione? Non il colpo di spugna che tutti i governi vorrebbero: innalzamento delle aliquote fiscali, creazione dal nulla di carta moneta, nazionalizzazioni e potenziamento del sistema sociale. L’alternativa non può essere il ritorno al socialismo ma una nuova teoria economica. Una che funzioni per i prossimi trent’anni fino alla prossima crisi. L’economia non è una scienza esatta e la teoria perfetta non esiste.


Repubblica 3.5.09
Così si perde la partita della memoria
Assurdo il progetto per costruire campi di football davanti al monumento romano
Colosseo, la storia presa a calci
di Salvatore Settis


Finalmente sapremo a che cosa servono ruderi inutili e ingombranti come il Colosseo, l’Arco di Costantino, il tempio di Venere e Roma. Il momento della verità è arrivato, e a quel che pare dobbiamo esserne grati al Comune di Roma.

Quello stupido e noioso pietrame grigiastro verrà finalmente messo a buon frutto: le finali della Champions League saranno allietate da campi di erba sintetica a ridosso del Colosseo, l´arco di Costantino in asse con una delle porte del rettangolo verde. Intorno, stand gastronomici, grappoli di gabinetti chimici, megaschermi con pubblicità, son et lumière, e "un´azione di guerrilla marketing". Finalmente un po´ di modernità, finalmente sconfitti i nostalgici che vedono nella tutela dei monumenti un dovere civile. Che importa se i 200 mila tifosi previsti, compresi gli hooligans, dovessero danneggiare quel vecchiume? Questo ennesimo episodio di barbarica incuria non è isolato. Predichiamo contro l´inquinamento ambientale, e dimentichiamo che la stessa battaglia va combattuta contro l´inquinamento acustico e visivo. Ci parliamo addosso sulla bellezza delle nostre città, sulla ricchezza monumentale dei nostri centri storici, sulle migliaia di anni di storia di cui ci vantiamo di essere eredi: e nelle piazze più belle portiamo impunemente folle rumorose che ne deturpano l´immagine e ne inquinano la percezione. Non riusciamo più a "vedere" i nostri palazzi e le nostre chiese, i templi e gli archi e gli anfiteatri: sempre più spesso ridotti a comodo fondale per inscenare spot o spettacolini d´ogni sorta. Abbiamo dimenticato facilmente gli orrori del concerto dei Pink Floyd a piazza San Marco vent´anni fa, con danni molto più costosi degli introiti. Non vogliamo sentirci dire che la bellezza delle nostre città è fragile, va protetta con la cura amorevole delle generazioni passate: preferiamo accorciarne la vita, accecando la memoria storica per meschini guadagni immediati, senza nemmeno un pensiero ai posteri. Inutile accusare sindaci, assessori, soprintendenti: se non sappiamo levare la nostra voce, siamo tutti colpevoli. Roma poi è un caso speciale. È il sito archeologico più vasto del mondo, e fra i più importanti. Contiene memorie storiche uniche. Impone una sfida senza pari: conservare per il mondo un patrimonio che è di tutto il mondo, e farlo con gli strumenti di un solo Paese. Titolare di questo compito straordinario dev´essere lo Stato o il Comune? C´è una sola risposta possibile: tutte le istituzioni pubbliche devono far convergere i propri sforzi, perché quanto accade a Roma è sotto gli occhi del mondo. Perciò l´argomento "il Colosseo è dello Stato, la piazza è del Comune" è spazzatura. I monumenti non sono soprammobili, esistono nel loro contesto: è il contesto che va protetto, e i monumenti con esso. A questo alto dovere il Comune è tenuto non meno dello Stato.
Nei mesi scorsi si è svolta una diatriba sul commissariamento della Soprintendenza archeologica di Roma, affidato a Guido Bertolaso, che si è da poco dimesso perché sa bene che il suo posto è in Abruzzo. Molti si sono chiesti che cosa ci stesse a fare un esperto di protezione civile come commissario dell´archeologia di Roma. Il danno all´immagine della città e i probabili danni ai monumenti che ci sta per ammannire la kermesse calcistica in arrivo sono, e saranno, una vera emergenza. Che fosse questa la vera ragione del commissariamento, il disastro non tellurico ma umano a cui Bertolaso doveva porre riparo?

Repubblica 3.5.09
I luoghi della destra e la sinistra senza luoghi
di Ilvo Diamanti


LA DESTRA - il Centrodestra, per usare un linguaggio politicamente corretto - ha fatto del territorio un fondamento della propria identità. Per la Lega Nord è il più importante.
Un riferimento costitutivo. Reso visibile da una presenza territoriale diffusa. Attraverso i gazebo, i volontari in divisa, le stesse ronde (talora in camicia verde). Il federalismo fiscale, approvato dal Parlamento la settimana scorsa, contribuisce a rafforzare questa immagine. Non è possibile sapere, oggi, in che misura garantirà, effettivamente, l´autonomia responsabile delle regioni e degli enti locali. Tuttavia, si tratta di una bandiera piantata sul territorio. Per usare un ossimoro: un "simbolo pratico", che fa sembrare reali e attuali gli effetti di una legge approvata, ma non ancora in vigore.
Anche il principale partito di Destra (pardon, Centrodestra), il PdL, ha accentuato sensibilmente il rapporto con il territorio, facendone quasi un marchio. Non tanto perché l´aggregazione tra Fi e An ha disegnato una geografia elettorale precisa e complementare a quella della Lega. Quindi: centro-meridionale. Ma perché il PdL ha sviluppato e sta sviluppando una politica "localizzata": profondamente associata ai "luoghi". È questa, a nostro avviso, la principale ragione del successo di pubblico - se non di critica - riscosso da Silvio Berlusconi dopo aver vinto le elezioni. Ciò può apparire singolare e quasi paradossale. Berlusconi è il Signore dell´Immagine. Della "politica come marketing". Il suo territorio coincide con lo "spazio mediatico". Anzitutto con la televisione. Non per caso, negli ultimi giorni, è stato coinvolto da polemiche relative alle candidature in vista delle prossime elezioni europee. Selezionate, alcune, non in base alla "presenza" nel partito e sul territorio. Ma alla "bella" presenza. E basta.
Silvio Berlusconi. Negli ultimi mesi, nell´ultimo anno, ha costruito la propria immagine - oltre a quella del governo - in rapporto diretto ai "luoghi" che hanno concentrato l´attenzione degli italiani. Nell´ultimo mese: l´Abruzzo e i luoghi del terremoto. La cui tragedia ha suscitato l´emozione e la solidarietà popolare. Il dolore e la distruzione: sotto i riflettori, le telecamere. Ogni giorno: L´Aquila, Onna. E Berlusconi. Sullo sfondo Gianni Letta. Visibile, nella sua invisibilità. Davanti a tutti - apripista e battistrada - Guido Bertolaso. Efficiente direttore della Protezione Civile. Ormai un´icona. Garante, appunto, della "protezione" dei cittadini, in occasione delle catastrofi che si abbattono - numerose, sempre impreviste e sempre prevedibili - nel nostro paese. Così bello e martoriato. Berlusconi c´è. Accanto ai terremotati. A testimoniare la "sua" solidarietà e la "sua" presenza: personale, politica e come capo del governo. In Abruzzo, fra qualche tempo, si riuniranno anche i Grandi del Mondo. Guidati da Lui. Che, nei prossimi mesi e nei prossimi anni, continuerà a recarsi lì. Per controllare e sottolineare la ricostruzione che procede. Il ritorno alla normalità. (Prospettive che - noi per primi - auspichiamo).
Questo legame - diretto, personale e politico - fra Berlusconi e i "luoghi", a nostro avviso, è all´origine della grande popolarità del premier in questo momento. L´Abruzzo ne è l´esempio recente, ma non unico. Basta pensare a Napoli, al tempo della campagna elettorale e all´indomani del voto. La città sommersa dai rifiuti, a sua volta palcoscenico e scenario mediatico frequentato da tutte le reti e da tutti i giornali. Non solo italiani. Più efficace di qualsiasi mobilitazione politica a raffigurare la sconfitta del progetto di "ricostruire" il Mezzogiorno. E, dunque, di Bassolino ma soprattutto della Sinistra. Pardon: del Centrosinistra. Napoli. Divenuta il simbolo dell´efficienza miracolosa e quasi taumaturgica di Berlusconi. Affiancato e sostenuto da Bertolaso. Sullo sfondo, invisibile e per questo più visibile, Gianni Letta. Da un anno, i rifiuti sembrano scomparsi. Almeno, dai media. E da un anno Silvio Berlusconi continua a recarsi con frequenza a Napoli. Vi riunisce il governo. Partecipa a feste private di compleanno. Semplicemente, ci passa. Un salto rapido per vedere come vanno le cose e via.
L´identificazione del governo e di Berlusconi con i "luoghi del degrado e della ricostruzione", della morte e della rinascita. E, insieme, il legame della Lega - l´allitterazione non è involontaria - con il territorio e in particolare con il Nord. Rendono più evidente, per contrasto, la distanza dell´opposizione di Sinistra - pardon: centrosinistra - dal territorio. Un paradosso, perché il Pd è l´erede dei maggiori partiti di massa della prima Repubblica. La Dc e il Pci. Tanto radicati nel territorio e nella società da caratterizzare la stessa definizione geopolitica di alcune zone del paese. Definite "bianche" (le regioni del Nordest) oppure "rosse" (quelle del Centro). Oggi il Pd è affaccendato in altre faccende. Certo, nelle sue liste per le europee non si incontrano "veline". Ma ha presentato candidati e soprattutto capolista scarsamente collegati al territorio. (Per usare un eufemismo). Mentre i sindaci - principali interpreti del legame della Sinistra con il territorio, durante la seconda Repubblica - non godono di grande popolarità. Soprattutto quelli del Nord. Le loro critiche al distacco del partito dagli interessi locali sono accolte con insofferenza. E indifferenza. Il Pd come il PdL: si è personalizzato. Concentrato e diviso alla ricerca del suo Berlusconi, sta perdendo i presidi sul territorio. Non solo nel Nord. A Roma, dopo 15 anni governa la Destra. Nel Sud, pare aver abbandonato Napoli e la Campania, per oltre dieci anni le nuove "zone rosse". E alle elezioni di giugno la "battaglia europea" sembra più importante, per il Pd, rispetto alla difesa delle ultime roccaforti: Bologna e Firenze.
Si assiste, così, a un singolare - e oseremmo dire: storico - rovesciamento delle parti. Mentre la Destra costruisce e inventa i suoi luoghi, la Sinistra li ha dimenticati.
Era utopica. Oggi è atopica.

il Riformista 3.5.09
L'ultima suite di Picasso
Romanzo picaresco del '68
di Emanuele Trevi


Capolavori. Il ciclo di incisioni del pittore spagnolo in mostra a Cremona. «Il diario di bordo del genio ottantaseienne», un racconto «dove tutto è accaduto», mentre fuori va in onda il maggio francese. Un artista col «senso vivissimo e precoce di un destino d'eccezione», come Goethe e le sue "Affinità".

Quanti artisti, soprattutto tra i moderni, possono definirsi uomini perfettamente realizzati, alla maniera di Pablo Picasso ? Posso spremermi le meningi quanto voglio, ma mi viene in mente solo lui, l'eterno, impassibile, ironico Goethe. Fra lo scrittore tedesco e il pittore spagnolo, del resto, certe analogie non mancano: a partire da un senso vivissimo e molto precoce del proprio destino d'eccezione. Li si è accusati spesso, in campo umano e sentimentale, di crudeltà ed egoismo: forse con più giustizia si sarebbe potuto dire che erano individui incapaci di tornare sui propri passi.
Miracolosa, poi, a giudizio unanime, è la vecchiaia di entrambi. Tanto che si potrebbero considerare opere come Le affinità elettive o la Suite 347, stupendo ciclo di incisioni in mostra al Museo Civico di Cremona, come due allegre sfide alla morte, e insieme nobilissime affermazioni della dignità umana. Curata da Ivana Iotta e Donatella Migliore, la mostra cremonese è un'occasione più unica che rara, visto che mai il ciclo di Picasso era stato esposto nella sua integrità (ottimamente curato è anche il catalogo della Silvana Editoriale). Ideate ed eseguite fra il 16 marzo e il 5 ottobre del 1968, le 347 incisioni del ciclo possono essere considerate come il diario di bordo di un genio di ottantasette anni, e assieme un tour de force tecnico senza paragoni, nel quale tutte le risorse ed i trucchi dell'arte vengono sperimentati e messi a frutto l'ultima volta. Un testamento, infine, che invece di avvitarsi sui rimpianti e la malinconia di chi lo scrive, si spalanca sul mondo, trasformandosi in enciclopedia, museo, spettacolo circense, festa galante e libertina.
Iniziata il 16 marzo, la prima acquaforte dell'intera serie è intitolata Picasso, la sua opera e il suo pubblico. Non manca un autoritratto dell'artista di profilo, assieme a un Ercole barbuto, un altro misterioso personaggio dai tratti gitani, e una figura giovane e nuda, d'aspetto androgino, che osserva sdraiata per terra la scena al centro della rappresentazione: una donna (la prima delle centinaia di avvenenti apparizioni femminili della Suite 347) in groppa a un cavallo visibilmente eccitato, che ha l'aria di rapirla come Giove tramutato in toro che si porta via Europa in tanti pittori rinascimentali e barocchi. Una vera e propria ouverture, quest'acquaforte iniziale, con le prime scintille prodotte dal cortocircuito fra erotismo e voyeurismo destinato a manifestarsi in tutto il ciclo.
Facciamo adesso un balzo fino all'ultimo segmento della Suite, la Serenata al tramonto in un bosco alla Monet, numerata 347. La tecnica particolare di questa incisione, un'«acquatinta allo zucchero», permette a Picasso di giocare al meglio con i volumi del fogliame, suggerendone la densità, il movimento e il rumore prodotti dal vento, assieme ai giochi di luce del sole calante sulle fronde. Presenze appena distaccate dal fondo boschivo che le circonda, due figurine umane occupano l'angolo destro della composizione. Un chitarrista suona inginocchiato ai piedi di una presenza femminile seminuda, le braccia conserte sul seno, in atteggiamento meravigliosamente ambiguo, sospeso tra pudicizia e diletto. È una donna o una ninfa dei boschi, questa presenza così attraente, che la musica della chitarra cerca di attrarre nella sua rete sottile, privandola di ogni resistenza - quasi che la serenata fosse una tecnica di caccia, l'eterna caccia la cui soddisfazione è il desiderio erotico ?
Nella sua classica compostezza, quest'ultima incisione è un degno finale di tutta l'impresa, non solo per l'erotismo che ancora una volta vi si afferma, in una maniera che risulta nuova pur al termine di innumerevoli variazioni, ma anche per l'iscrizione del segno del vecchio Picasso nel canone più nobile della pittura europea. Come tantissime volte accade nell'opera del maestro spagnolo, l'omaggio esplicito (in questo caso a Monet) è tutt'altro che un punto di arrivo. La citazione evidente, al contrario, innesca un movimento allusivo di portata ben più ampia, che non si tira indietro nemmeno di fronte a una delle pagine più importanti della pittura veneta del cinquecento, il Concerto campestre del Louvre conteso da Tiziano e Giorgione. La grande pittura del passato, del resto, non è presente solo nella conclusione della serie, ma innerva tutta intera l'impresa, coinvolgendo Goya e Velazquez, Raffaello e Rembrandt.
In qualche modo, il vecchio Picasso è ossessionato dall'immagine del Museo. Il Museo è l'immagine ultima che assume un mondo-come-spettacolo inseguito fin dai primi passi d'artista. È il circo, il bordello, la scena mitologica, il teatro di una memoria individuale tanto vasta da assomigliare alla memoria di tutti - come sempre accade a un vero "classico". Ma nello stesso tempo, quello del Museo non è affatto uno spazio pacificato, percorribile al riparo da pulsioni ed inquietudini potenzialmente micidiali. La vera e più profonda natura del Museo, infatti, lo apparenta al Labirinto, dove il desiderio animale del Minotauro può manifestarsi ad ogni svolta.
Ma che cos'è la "Suite 347"? Indubbiamente, si tratta di un lungo racconto per immagini, dotato di una sua architettura, segreta ma efficace. Con le sue date progressive, risente del diario, certamente, ma non si accontenta di essere un semplice deposito di esperienze stratificate. Troppe ricorrenze di simboli, simmetrie, corrispondenze interne cementano l'unità narrativa dell'opera. Potremmo quasi parlare di una specie di romanzo, ma a patto di rinunciare ad una delle prerogative più ovvie dei romanzi di tutti i tempi e di tutti i generi: la progressione lineare, quella specie di linea invisibile che collega il prima e il dopo, le cause e gli effetti. Come in certi sogni lunghi ed affannosi che capita di fare, nella Suite 347 tutto è già accaduto, tutto accade nello stesso momento, e tutto sta per accadere. Frequente è il ricorso al romanzo picaresco, o meglio d'avventura, con situazioni di cappa e spada più vicine ai Tre moschettieri che al Don Chisciotte.
Vi appaiono spesso personaggi vestiti alla maniera dei quadri di Rembrandt, come li definisce lo stesso Picasso, con larghi cappelli, eleganti farsetti, mantelli e stivaloni. Sempre pronti a un duello, a un rapimento, a una fuga a cavallo, questi eroi li sorprendiamo spesso incantati di fronte alla nudità femminile, che è il segreto ultimo, la posta in gioco di ogni avventura. Non disdegnano, questi moschettieri onirici, di tralasciare la spada a favore dei pennelli e della tavolozza del pittore. Di incisione in incisione, l'organismo narrativo procede sostituendo la logica alla meraviglia. Con suprema padronanza e consapevolezza della propria superiorità, Picasso ingloba nella sua serie interi romanzi o episodi leggendari, come nelle serie dedicate alla Celestina, capolavoro erotico del rinascimento spagnolo, o agli amori di Raffaello e della Fornarina, spiati da papa Giulio II assiso…sul suo pitale. Non sono parentesi in cui il genio di Picasso si piega a illustrare un'altra storia. Semmai, in questo modo viene dimostrata la forza della Suite, capace di inglobare e fare propria ogni specie di materiale, come un mostro marino che tutto divora e tutto assimila a sé nelle sue viscere.
Profonda ironia delle date: tra il marzo e l'ottobre del 1968 tutto il mondo occidentale è scosso da una rivoluzione capace di rendere irriconoscibile l'aspetto della società occidentale, le sue gerarchie ed i suoi valori consolidati. A Mougins, nel sud della Francia, nella villa di Notre-Dame-de-Vie, il vecchio maestro capta qualche segnale del disordine che regna sotto il cielo. La tv gli porta l'immagine del presidente De Gaulle, oppure di un vecchio film in costume, e lui, impassibile, assorbe anche quei richiami provenienti dall'esterno nel calderone delle incisioni. Indefessi, i fratelli Crommelynck, leggendari stampatori e vicini di casa, stanno al passo dell'avventura. Osservando quest'impresa meravigliosa, questo romanzo le cui trame sono innumerevoli come le foglie di una pianta tropicale, tocchiamo con mano la forza del genio. E una degna epigrafe mi sembra quella offerta da una delle ultime poesie di un altro grande vecchio del novecento, Eugenio Montale, dedicata al mitico Re Pescatore: solo lui, osserva il poeta, conosce «la giusta misura». Quanto a tutti gli altri, hanno «solo un'anima», ed anche «paura di perderla».

venerdì 1 maggio 2009

l’Unità 1.5.09
«Avida, esibizionista, pazza». L’ira della Corte delle libertà
I giornali del premier e i suoi sostenitori coprono d’insulti Veronica Lario. Le ricordano il suo passato di attrice e l’accusano di essersi alleata con la sinistra per far cadere il governo, di non aver lavato i panni sporchi in famiglia, di cercare facili applausi mentre è seduta su una montagna di miliardi
di G.M.B


La furibonda lite esplosa nella casa regnante del Pdl ha coinvolto e sconvolto l’intera corte che - come da tradizione - ha preso in modo pressoché unanime le parti del sovrano. Ecco qua, ordinati alfabeticamente e titolati per facilitarne la lettura, i principali tra gli epiteti lanciati dai ciambellani e dal popolo alla regina ribelle Veronica Lario. Lettura che aiuta a comprendere l’idea del mondo, della donna, e anche della libertà di manifestazione del pensiero che a quanto pare domina nel Popolo delle libertà.
Avida «Si permette di criticare e poi sta seduta sulla montagna di miliardi del marito». (da «Spazio azzurro», il Blog del Pdl)
Becera «Offendendo tuo marito offendi te stessa a tutti quelli che credono in lui». (dal Blog del Pdl).
Capricciosa «Sicuramente è pericolosa per Berlusconi, un uomo chiamato a responsabilità da cui non può essere distratto dai capricci rumorosi della moglie». (Vittorio Feltri, Libero)
Dannosa «Pungenti, salaci dichiarazioni che danneggiano, o almeno si cimentano a farlo, non suo marito - sarebbero fatti squisitamente loro - ma il premier e il governo italiano». (Maria Giovanna Maglie, Il Giornale)
Esibizionista. «Lei stessa proviene dal mondo dello spettacolo, memorabili sono le sue esibizioni a torace nudo sul palcoscenico del teatro Manzoni». (Vittorio Feltri, Libero)
Fedifraga «Al suo posto ne avrei discusso a casa, anziché dare in pubblico giudizi ingenerosi». (Laura Comi, candidata del Pdl alle Europee)
Giuda. «Chi c’è dietro la signora Lario, i soliti sinistri?». (dal Blog del Pdl).
Ingiusta. «Insomma, cara Veronica, l’impressione è che il divertimento dell’imperatore non sia un capriccio del sultanato del XXI secolo, ma il semplice gusto di piacere agli italiani, e di vincere le elezioni con mezzi leciti. E questo è difficile rimproverarglielo». (Editoriale del Foglio)
Leggera «Ma non si era detto che la Lario era una donna matura e riservata?» (dal Blog del Pdl)
Moralista «Fuori luogo sconfinare nel moralismo. I giudizi sulle persone sarebbe meglio esprimerli a posteriori». (Gabriella Giammanco, deputata del Pdl).
Nullità «Se voleva ricordarci che esiste, l’ha fatto nel modo peggiore». (dal Blog del Pdl).
Opportunista «Entrando in scena contro il marito, si becca gli applausi più facili di tutta la sua dimenticata carriera». (Valeria Brughieri, Libero).
Pazza «Nei panni della signora avrei agito diversamente, anche solo per evitare il rischio di un ricovero coatto in struttura psichiatrica». (Vittorio Feltri, Libero).
Querula «La solita guerra tra donnicciole, la signora Lario si sarebbe mostrata più intelligente se avesse contato fino a dieci prima di dar fiato a stupidaggini». (dal Blog del Pdl).
Rompiscatole «Veronica ha rotto. Sarebbe opportuno farla vivere con 1000 euro al mese». (dal Blog del Pdl).
Scocciatrice. «Visto che la maggior parte degli italiani la pensa così, di non scocciarlo e di lasciarlo lavorare, quelli che continuano a farlo sono prima di tutto nemici della maggioranza degli italiani. Anche le gentili signore». (Maria Giovanna Maglie, Il Giornale).
Trasformista «Miriam Raffaella Bartolini, tanti anni fa si è trovata un nome d’arte: Veronica Lario. Dall’altro ieri gliene abbiamo trovato uno noi: Lario Franceschini». (Valeria Brughieri, Libero).
Venduta «Veronica Lario nuovo leader del Pd?». (dal Blog del Pdl).
Zotica «Non mi pare che quando Silvio ha scelto la Lario lei stesse facendo l’esegesi della Critica della ragion pura». (Dal Blog del Pdl).

l’Unità 1.5.09
Fascismo da copertina
di Silvia Ballestra


So riconoscere un picchiatore, anche in metafora. E leggendo Libero di ieri ne ho visto uno bello grosso, nientemeno che il direttore Feltri. Correndo in soccorso del più forte, eccolo esercitare il suo personale gusto squadristico su una donna (gusto doppio, dunque!). E allora, via con tutto il campionario. È una mezza matta, velina ingrata, pericolosa per suo marito che sta salvando il mondo, l’Italia, l’Abruzzo, l’economia, e chissà cos’altro mentre lei, l’isterica, osa disturbarlo con le sue paturnie. Argomentazioni non diverse da quelle del marito, che pronuncia a proposito della moglie la seguente frase: «A volte alle donne succede di essere un po' nervose…». Uno statista europeo! E le parole non bastano: le foto di prima pagina (la Lario che si spoglia durante uno spettacolo teatrale) pubblicate fuori contesto fanno parte del linciaggio. E non basta: l’idea evocata nel titolo che una velina debba poi essere grata (e non “ingrata” come Veronica) è un altro sasso nella lapidazione che questa volta pare autorizzata dall’alto. Insomma, la tesi di Feltri è semplice e lineare: la signora Veronica era una starlette anche lei. Eccola quando mostrava le tette a teatro per sedurre il ricco Silvio. E dunque la lezione è: soffra tacendo. Si goda la villa. Essere sposate a un grand’uomo comporta qualche sacrificio, compensato - sottolinea con eleganza Feltri - dai “dané”. Si parla a Veronica, ma la si vorrebbe Rachele. Con in più la malafede di fingere di tifare per tutte le numerose Clarette del nostro amato duce. Pardon, papi.

l’Unità 1.5.09
In velina veritas
di Maria Novella Oppo


E adesso, che fine faranno le Veline estromesse dalle liste? Vuoi vedere che rifluiranno tutte in tv e a noi pubblico toccherà trovarcele in ogni anfratto dei palinsesti? Così, a una forma di antifemminismo se ne aggiungerà un’altra. Del resto, la politica si è sempre pasciuta di carne umana, soprattutto giovane. Mentre, forse, a certi livelli di maschilismo non era ancora arrivata la stampa di un paese cosiddetto democratico. Giustamente, Alessandra Mussolini ha denunciato ieri a Omnibus la pubblicazione su Libero delle foto di Veronica Lario nuda. Un avvertimento: che la signora sappia che cosa le accadrebbe a mezzo stampa se chiedesse il divorzio. A proposito: chissà se il lodo Alfano vieta anche di fare causa di separazione nei confronti di Berlusconi. Il quale intanto, definendo i suoi oppositori «maleodoranti», ha sfondato un nuovo muro mediatico, aggiungendo alla tv (e al dibattito ideale) la dimensione mancante della puzza.

Repubblica 1.5.09
Chiara: "Me l’avevano chiesto loro". Giovanna: "Penalizzate dalle polemiche". Maria Elena: "Scelte le più protette"
La rabbia delle veline escluse "Avevo già firmato dal notaio"
di Carmelo Lopapa


Alcune avevano frequentato il corso di formazione del Pdl con i ministri Frattini e Brunetta
"Al corso io facevo le domande al ministro, la Matera invece è stata sempre zitta"

ROMA - Le più ambiziose, candidatura in tasca, avevano frequentato la quattro giorni di via dell´Umiltà, prof d´eccezione i ministri Frattini e Brunetta. Stile corso rapido di recupero, 4 mesi in quattro giorni. Di politica, s´intende. Le più scottate, nel day after del bianchetto cancella "veline", sono le sfortunate che dopo gli strali di Veronica Lario si sono ritrovate fuori dopo aver firmato davanti al notaio. Segno distintivo per tutte, neanche a dirlo, giovani, carine e alla prima (mancata) candidatura.
Ecco Chiara Sgarbossa, per esempio, 25 anni, veneta, ancora sta lì a chiedersi come le abbiano potuto «revocare» la firma apposta davanti al notaio: «Questa è una grande presa per i fondelli - protesta dalle colonne del "Mattino" di Venezia - Almeno fosse partita da me l´idea di candidarmi, mi è arrivata da loro. A Roma avanti e indietro, alberghi, aerei, treni, sempre a spese mie. Per ricevere le pacche sulle spalle da La Russa: "Signorina l´abbiamo appena candidata, mi lasci anche il numero di telefono, se ha bisogno per la campagna elettorale mi faccia uno squillo che io sono sempre disposto a dare consigli..." E la Matera, poi (unica sopravvissuta della categoria, ndr), al corso è stata sempre zitta, mentre io facevo le domande a Frattini. Ora risulterà solo che ero nel corso delle ex veline candidate da Berlusconi. Figura pessima». Le altre, la squadra di attrici, comparse tv e protagoniste di fiction si sono chiuse nell´amaro riserbo. Da Angela Sozio, la rossa del Grande fratello, a Susanna Petrone, valletta Mediaset di Guida al campionato, da Eleonora Gaggioli, l´Elisa di Rivombrosa, a Camilla Ferranti, star di Incantesimo. Giovanna Del Giudice, avvenente ex "meteorina" di Retequattro, 25enne, da un anno anche assistente di tre senatori (Ghigo, Rizzotti e Picchetto), la sua delusione invece la confessa: «Non protesto, ma un po´ ci resto male. Avevo anche firmato dal notaio. Diciamo che siamo state un po´ penalizzate da queste polemiche. Ma io tra 2 mesi mi laureo, Giurisprudenza». Ad un´altra giovane napoletana, Emanuela Romano, non ha giovato neanche il gesto estremo del padre, che ha provato a darsi fuoco davanti Palazzo Grazioli. Tra Sardegna e Sicilia si parla ancora del caso legato alla giovane cantante sassarese Cristina Ravot. Proprio lei che aveva animato più di una festa nella villa sarda di Silvio Berlusconi, è saltata in extremis sotto la scure del "repulisti", per lasciare posto a Francesca Masci, 39enne madre di tre figli che ora glissa: «La Ravot? Il suo nome non è mai stato sulle liste, solo sui giornali». A Bari, da dove proviene Barbara Matera unica starlette a risplendere nella lista Sud, si può immaginare come l´abbia presa l´europarlamentare uscente Pdl Marcello Vernola che si è dovuto fare da parte.
Ma nell´improbabile classifica della delusione la palma l´ha conquistata Maria Elena Valanzano, 30 anni, forzista napoletana, tanto sicura di farcela da presentarsi sorridente alla conferenza stampa di presentazione delle liste mercoledì a Montecitorio. «Ero certa, mi hanno chiamato per firmare l´accettazione. Alla fine è stato penalizzato chi è meno protetto». È uscita dalla Sala del Mappamondo con gli occhi lucidi.

Repubblica 1.5.09
Il premier che ama farsi chiamare “papi”
risponde Corrado Augias


Gent. mo dott. Augias, dicendo che «la signora» ha «creduto» a quello che hanno messo in giro i giornali, il marito ha in pratica detto che la stessa è una donna da poco o, ben che vada, una credulona.
Michele De Luca m.deluca33@virgilio. it

Caro Augias, mi sembra che non sia stato centrato il problema delle cosiddette veline. A me sembra evidente che dopo avere avocato a sé il potere di decidere chi candidare, Berlusconi è passato a candidare chi voterà senza approfondire troppo quello che sta facendo.
Francesco Ivella fs.ivella@studioivella. it

L' affare veline ha molti aspetti che meritano attenzione. Per ragioni di spazio ne posso accennare due. Il primo è pubblico. Il presidente del Consiglio ha una convinzione, più volte ribadita, a proposito degli organi parlamentari e di governo: servono a poco, a volte risultano addirittura dannosi: fanno perdere un sacco di tempo. Fin dal primo governo (1994) molti uomini e donne collocati in posizioni chiave erano clamorosamente fuori posto. Per evitare ogni 'ciarpame senza pudore' ricordo un esempio alto: fare ministro per i Rapporti col Parlamento un uomo di scontro in prima linea come Giuliano Ferrara fu un evidente 'miscast'. Durò poco. L'uomo, a parte due o tre posizioni chiave, non bada a funzioni e competenze, riempie caselle, ripaga amiche e amici, soddisfa i suoi capricci. Per il resto conta soprattutto su se stesso divorato com'è dalla sua egolatria. Il risultato è che in quindici anni di vita politica, se si escludono alcuni provvedimenti di 'autotutela', non ha lasciato una sola impronta che possa definirsi non dico storica ma almeno significativa. Poi c'è l'aspetto privato, come minimo ha due facce. La moglie legittima, Veronica Lario, che ormai tratta con irata estraneità. Si deve presumere che solo il futuro patrimoniale e manageriale dei suoi tre figli (i due più grandi sono di un precedente matrimonio) impediscano una separazione definitiva. C'è infine Anna Letizia, mamma della diciottenne Noemi, la quale lancia messaggi ambigui: «Come ho conosciuto il presidente? Non chiedetemelo, per favore. Consentiteci un po' di privacy. Come persona, come famiglia e come madre. Le mie foto? No, non amo darle. Se vuole, può farle uscire lui, papi». Chissà perché Papi anche lei, come sua figlia.

il Riformista 1.5.09
Giovani Sartori. «Gli manca solo che passi il referendum, e poi sarà davvero sultano. Gli italiani o sono come lui o vorrebbero esserlo: il donnaiolo impunito».
«Il sultanato ha bisogno del suo harem»
di A.D.A.


«Auguro a Berlusconi un futuro radioso nel suo harem»: il politologo Giovanni Sartori ha appena scritto un libro dal titolo Il sultanato. Col Riformista parla del rapporto tra il «sultano» e le «donne».
Nel suo libro parla del rapporto di Berlusconi con le donne?
Il tema è incidentale rispetto alle polemiche di questi giorni. Anche se il rapporto con le donne è sempre stato decisivo nella sua vita.
Come in quella di tutti.
Certo, ma il suo potere si è consolidato anche con lo stile harem.
Ora più che mai.
Sì, perché l'uomo è sempre più onnipotente in senso psicologico e quindi esibisce l'harem. Anche se la vicenda della ragazza che lo chiama «papi» dimostra che è sempre stato molto attivo.
Non mi dica che crede…
Non è che io credo. Se una ti chiama papà…
L'unica opposizione è Veronica.
È una mamma classica che difende i suoi figli ed è preoccupata che magari non sono favoriti come gli altri. È ovvio che si arrabbia se una chiama il marito papà…
È di cattivo gusto.
Sono tanti ad avere figli illegittimi. Lui è un capo del governo, va lì in quel modo, fa quel regalo. Si può non esibire il tutto in veste non ufficiale.
Insomma è islamico.
Un sultano, appunto.
Però le candida, le mette al governo: cede il potere.
Non è escluso un rapporto intimo…
Agli italiani però piace.
Lo votano perché o sono come lui o vorrebbero esserlo. Loro hanno il desiderio, lui è il simbolo della sua realizzazione.
Una prouderie collettiva.
Sì, c'è anche una prouderie collettiva.
Come giudica l'opposizione al sultano?
Mi pare che l'opposizione ne azzecchi poche. Potrebbe ridacchiare un po'.
Il Pd tifa Veronica.
Bah. All'elettorato di Berlusconi piace il donnaiolo impunito.
Non c'è scampo.
Ha già detto che le riforme le farà da solo. Se poi passa il referendum, sultano lo diventa davvero. Può prendere la maggioranza assoluta con un partito genuflesso.
Meglio non andare a votare.
Sul referendum ho già detto che non tifo per il raggiungimento del quorum. Le buone intenzioni dei promotori sono aggirabili con la legge che ne viene fuori.
Come si torna alla democrazia?
Aspettando che Berlusconi si chiuda nel suo harem e non si occupi d'altro. Gli auguro un futuro radioso nel medesimo.

il Riformista 1.5.09
Dal vecchio Playboy a Playsilvio
Meglio l'originale
di Francesco Bonami


Un tempo ci trinceravamo dietro la patetica scusa di averlo comprato per la «bellissima» intervista con Kissinger o con Garcia Marquez, oggi è più probabile che il candidato/a alle europee si vanti di non sapere chi sono Kissinger o Garcia Marquez

Caro Bob - Il battibecco fra la prima signora italiana e il primo signore italiano la dice lunga sullo stato in cui versano la politica e la società italiane. Un tinello suburbano dove il compito di chi ci governa è quello di intercettare gli umori e le frustrazioni di una classe sociale sempre più amorfa che sogna la ragazza del canale accanto anziché quella della porta accanto come aveva capito il fondatore della rivista Playboy Hugh Hefner nel 1953. Non stupiamoci se presto da Palazzo Chigi uscirà il mensile Playsilvio. Hugh Hefner pensò alla sua rivista per addolcire la noia domenicale. Così, sul tavolo della sua cucina di Chicago, inventò il primo numero di Playboy, una rivista per il "young single man", il giovane scapolo, contemporaneo.
Playboy, che prendeva il nome da un concessionario di auto fallito, non solo fu una coraggiosa, sovversiva, intuizione, in un momento in cui il sesso non andava certo per la maggiore, ma fu anche una vera e propria rivoluzione culturale e sociale. Ancora oggi, che culi e poppe, con tutto quello che sta davanti, dietro, sotto e dentro si possono guardare su Internet gratis, Playboy continua a vendere nel mondo tra i quattro e i cinque milioni di copie, con un 14 per cento di lettrici donne.
Il nostro premier deve essersi ispirato al creatore delle famose conigliette. Il segreto del successo di Playboy e del suo coniglietto simbolo - che nel 1989 fu dichiarato, dopo quello della Coca Cola, il logo più famoso del mondo - non fu solo quello di aver capito che al maschio, giovane o vecchio, solo o sposato , che sia, ogni tanto la mano da quelle parti scappa, ma l'aver intuito che di quella mano tentatrice l'uomo si sarebbe sempre vergognato, tentando di nasconderla dietro bisogni e necessità diverse. Hefner non si sarebbe mai immmaginato che la vergogna del maschio un giorno si sarebbe trasformata in un Paese come l'Italia in strumento politico e orgoglio nazionale. Se un tempo davanti a un ospite inatteso, che vedeva Playboy spuntare da sotto il divano, ci trinceravamo dietro la patetica scusa di aver comprato il famoso mensile per la «bellissima» intervista con Henry Kissinger o quella con il premio Nobel Gabriel Garcia Marquez, oggi è più probabile che vada sotto il divano la rivista culturale e che il candidato o la candidata alle elezioni europee si vanti di non sapere nemmeno chi sono Kissinger o Garcia Marquez. Se Hefner ha costruito un impero sulle proprie ossessioni vivendo la maggior parte della sua vita in vestaglia, trasformando il suo letto circolare, nella villa di Los Angeles, in una redazione, non meravigliamoci se seguendo i propri istinti il nostro primo ministro inizierà a tenere il Consiglio dei ministri in vestaglia (gli incarichi della Rar d'altronde già si decidono attorno al camino del suo salotto ad Arcore). Ma se Playboy aveva una sua dignità, ingenua, banale ma particolare, Playsilvio la dignità, maschile e femminile, l'ha già messa nel tritacarne da tempo. La doppia pagina centrale con la coniglietta del mese si è trasformata nel manifesto elettorale affisso per le strade delle nostre città. L'innegabile, perfida, genialità del nostro premier è comunque quella di aver capito che ha a che fare con un popolo sempre più ritornato allo stato dei primati.
Hefner il suo impero e i suoi soldi li ha usati anche per aiutare i politici democratici a combattere la crociata reazionaria di Edward Meese che, alla metà degli anni Ottanta, nel pieno dell'era reaganiana, con miopia talebana, faceva leggi contro la pornografia che mandarono in crisi le innocue conigliette senza risolvere la vera pornografia prodotta dal degrado sociale. Da noi invece un impero economico e mediatico è stato ed è utilizzato come strumento per governare una società diventata culturalmente pornografica e degradata. Se per Berlusconi non è giusto escludere dalla politica uno o una solo perché è diventato famoso grazie alla televisione, è vero esattamente il contrario: se uno non è stato santificato dalla televisione in Italia avrà poche possibilità di essere preso in considerazione come leader politico.

Repubblica 1.5.09
La caduta degli idoli ribelli
di Natalia Aspesi


Ad uno ad uno, gli idoli ribelli degli anni ´60 sono caduti in pezzi, travolti da memoriali, rivelazioni, pettegolezzi. L´ultimo è quello che fu il massimo divo dell´antipsichiatria, il venerato e affascinante R.D.Laing, autore del celeberrimo "L’io diviso". Se ne riparla adesso perché si sta progettando un film sulla sua vita, protagonista l´attore inglese Robert Carlyle. Litigano per realizzarlo uno dei dieci figli di quattro madri diverse, Adrian Laing, autore di una biografia del detestato padre e Bob Mullan, scrittore e regista di documentari. Film comunque difficilissimo, se racconterà quello che di quella celebrità amata anche in Italia, rivela Russell Miller sul Sunday Times: la star della psichiatria che accusava la famiglia di essere la sola causa della follia, abbandonò la prima moglie e i cinque figli costringendoli a vivere miseramente, volle a tutti i costi rivelare alla figlia ventenne che sarebbe morta in pochi mesi di leucemia senza poi occuparsi della sua disperazione, si faceva talmente di alcol e di droga che alla fine gli fu impedita la professione medica. Morì a 61 anni nell´89, senza un soldo, senza un lavoro, senza fissa dimora.

l’Unità 1.5.09
Quando i lavoratori italiani non potevano festeggiare
Le testimonianze e i ricordi di Nenni, Negarville, Pertini, Lizzadri, di operai e contadini che raccontano la loro battaglia per difendere il Primo Maggio sotto il fascismo, in carcere, davanti ai gerarchi e ai padroni allineati. E l’Unità clandestina: «Torneremo a festeggiare quando sconfiggeremo Mussolini»
di Bruno Ugolini


L’autore del volume ricorda l’Unità del 23 aprile 1926, edita clandestinamente, con la parola d’ordine: “Il diritto di celebrare il Primo Maggio sarà riconquistato abbattendo il fascismo”.

C’è stata un epoca in cui festeggiare il primo maggio, era proibito, era un reato. Erano gli anni del fascismo. Eppure c’era chi sfidava il divieto. Una ricostruzione di quegli anni è contenuta nel volume appena dato alle stampe curato da Francesco Renda, “Storia del primo maggio” (edizioni Ediesse) .
Per fronteggiare quella data, ricorda Renda, “il regime fascista mobilitava tutto l’apparato repressivo”. A chi non era fascista era proibito “financo vestire a festa, incontrarsi con gli amici, coi vicini di casa o coi compagni di lavoro, bere con loro una bottiglia di vino o consumare la pietanza tradizionale preferita”. Ed ecco il racconto del pugliese Domenico Virgilio a Cerignola: “Dopo il 1926 si scriveva sui muri, per terra, si andava a mettere le bandiere rosse nella villa comunale, negli alberi, negli altri punti della cittadella”.
A Piadena (Verona), spiega un altro testimone “Per il primo maggio del 1932 avevamo organizzato un’affissione di manifesti per tutto il Paese. Il momento per poterli affiggere era la sera, ma c’erano le luci per le strade e potevano vederci. Parlammo con C. che ci insegnò come potevamo fare saltare le valvole e mettere il paese al buio. Viene la sera ed il paese restò buio e noi potevamo girare con le nostre carte. Ne avevamo attaccati su tutti i muri e su tutte le porte, fin su quella della Caserma, ai pali della luce lungo la stradone fino a Cremona. Alla mattina i fascisti si trovarono il paese addobbato di tutti quei manifesti con le scritte contro il regime che invitavano i lavoratori a resistere, a “festare” perché era la festa del lavoro. Te la immagini che rabbia! E non sapevano con chi prendersela”.
Oreste Lizzadri, segretario della Cgil, descrive il 1° maggio 1937 a Roma: “Sfoglio i miei appunti e trovo: 14 aprile 1937 riunione a Grottaferrata... Tirai fuori l’appello già preparato. Poche righe invitanti tutti i cittadini che desiderano ricordare il primo maggio a fornirsi di cravatta rossa e di portarla per tutta la giornata…I commissariati entrarono in agitazione. Uomini vestiti di scuro accigliati giravano per i cantieri edilizi diffidando e minacciando. Guai a chi porterà il primo maggio la cravatta rossa. Così dove non erano arrivati i manifestini, arrivarono i poliziotti. Il primo maggio 1937 passò tutt’altro che inosservato a Roma. I fornaciari si astennero in massa dal lavoro, su alcuni palazzi in costruzione sventolò per qualche ora la bandiera rossa; diverse vetture tranviarie, subito costrette a rientrare, uscirono dal deposito con le scritte “Viva il Primo Maggio…”.
Ed ecco un ricordo dalle carceri di Pietro Nenni. “L’ultimo primo maggio da me trascorso in patria fu quello del 1926. Ero in carcere a San Vittore a Milano per certi volantini clandestini. Fu una giornata di grande tensione giacché il carcere ospitava i sicari che avevano pugnalato Matteotti, Domini, Volpi ecc. Ci fu una specie di saluto mattutino da cella a cella a base di imprecazioni contro Mussolini e i suoi sicari, di Viva il Primo Maggio e Viva Matteotti. Da una cella fu esposto un cencio rosso che mise in subbuglio la direzione del carcere. Qualche provocazione partì dai fascisti fortemente rintuzzata dai nostri.”
“Non si trattava” – ha scritto Celeste Negarville, dirigente comunista – di fare delle manifestazioni di massa… Ciascuno di noi comprava al bettolino del carcere qualche cosa per il primo maggio. Attorno alla tavola imbandita sulla branda tutti i compagni di un camerone ci sedevamo, uno di noi faceva un discorso, e poi le nostre canzoni, che intonavamo sommessamente chiudevano la celebrazione”.
Vi è anche la testimonianza di Sandro Pertini: “Ricordo il primo maggio 1925 nella mia Savona. Quel giorno, per i segnali regolamentari, i ferrovieri addetti al movimento della stazione e del tronco ferroviario che collega questa con il porto, agitavano le bandierine rosse non più arrotolate ma accuratamente spiegate. La sera prima le bandierine erano state ben ripulite perché il loro rosso fosse fiammante”.

il Riformista 1.5.09
Primo maggio francese di lotta e di rivolta contro la crisi (e Sarkò)
di Luca Sebastiani


Club degli otto. Oggi nelle piazze d'oltralpe andrà in scena uno spettacolo inedito per la festa del lavoro: l'unità sindacale. Dopo le mobilitazioni-monstre di gennaio e marzo, il movimento tenta il tris. Per tenere viva l'agitazione "pre-rivoluzionaria".

Parigi. Quest'anno in Francia il Primo maggio sarà una giornata storica. Per la prima volta dal dopoguerra, infatti, le otto centrali sindacali francesi si sono convinte ad organizzare «insieme» le manifestazioni per la festa dei lavoratori. Certo non si tratta di una concordia improvvisamente ritrovata, ma più che altro della necessità di trasformare il Primo maggio nella terza giornata di mobilitazione nazionale unitaria contro la recessione e le politiche anticrisi messe in campo da Nicolas Sarkozy. La situazione sul territorio si stava radicalizzando un po' troppo, e bisognava dare una risposta ai lavoratori.
Il 29 gennaio, per il primo sciopero, erano scesi in piazza due milioni di persone e due e mezzo per quello del 19 marzo. Tutto lascia pensare che oggi i francesi si supereranno per la terza volta. A livello locale, tra bossnapping e azioni violente, la radicalità sembra guadagnare terreno. E mentre all'Eliseo Nicolas Sarkozy sulla questione sociale rimane muto e inflessibile - per lui le misure messe in campo dal governo per contrastare la crisi sono più che sufficienti - i cittadini che sostengono il movimento continuano ad aumentare. Secondo i sondaggi sono il 72 per cento dei francesi ad appoggiare la mobilitazione-festa di oggi, mentre erano il 69 prima del 29 gennaio e il 62 alla vigilia del 19 marzo.
Mentre i manager continuano ad attribuirsi super bonus e paracaduti dorati come se la crisi non esistesse, i francesi delle classi medie e popolari si sentono sempre più le uniche vittime di una crisi di cui non sono responsabili. Il malessere cresce e così i tempi diventano poco propensi alla rupture sarkozista. Anzi, quest'ultima non fa che incrementare il tasso di conflittualità. Da mesi le università vengono occupate qui e là per la Francia e i professori scendono in piazza contro la riforma di atenei e licei. Sul piede di guerra, la funzione pubblica chiede a gran voce la fine del blocco del turn over, e da qualche tempo anche la sanità è in agitazione contro la legge di riforma degli ospedali.
Tutto ciò, insieme alle occupazioni delle fabbriche, il sequestro dei manager, il blocco puntuale degli stabilimenti, i black out selvaggi all'Edf (l'Enel francese), contribuisce a creare un clima di mobilitazione permanente. Dall'inizio dell'anno ci sono state a Parigi 855 manifestazioni rivendicative, sette al giorno. E la cosa che turba di più le autorità, è che per un quarto si tratta di manifestazioni spontanee. I politici dell'opposizione, come Ségolène Royal, hanno parlato di clima prerivoluzionario. Ma anche a destra si sprecano le allusioni all'89. La scorsa settimana è stato l'ex primo ministro Dominique de Villepin a parlare di «rischio rivoluzionario».
Se prevedere una nuova Rivoluzione è forse un po' esagerato, certo è che la situazione è frutto di una debolezza storica dei sindacati francesi, frammentati e poco rappresentativi. Per questo, per cercare di tenere insieme le tensioni conflittuali di questi mesi, oltre che con la storica unità ritrovata, i sindacati hanno voluto allora rispondere all'ampiezza del movimento con il numero anch'esso storico di 283 manifestazioni organizzate oggi in tutto il paese.
L'unità del Club degli 8 però, come ormai viene chiamato il raggruppamento delle sigle (CGT, CFDT, FO, CFE-CGC, CFTC, FSU, Unsa, Solidaires), nasconde una sua strtturale fragilità. Nel G8 sono infatti raggruppate sia le centrali più radicali, che vorrebbero condurre subito i lavoratori verso azioni spettacolari, sia quelle più riformiste, che sorvegliano invece le mosse del governo con un occhio ad una base sempre meno paziente. Un esercizio d'equilibrismo tra sensibilità diverse quello del G8, che si deve guardare le spalle anche dagli assalti dei partiti dell'estrema sinistra.
Olivier Besancenot in effetti, non ha fatto altro che soffiare sul fuoco. Col suo Nuovo Partito Anticapitalista ha cavalcato tutti i conflitti, si è recato presso tutte le barricate. Per il postino trotzkista il modello di lotta ideale è lo sciopero generale ad oltranza condotto dal sindacato guadalupense tra gennaio e marzo scorsi. Da settimane Besancenot dice di lavorare per la «convergenza delle lotte» e non fa che interpellare i sindacati affinché dichiarino lo sciopero generale. In attesa, il postino ha già proposto per il mese di maggio «una marcia nazionale su Parigi dei lavoratori licenziati». Oggi, per segnare la sua differenza e sottolineare la sua purezza rivoluzionaria, Besancenot non sfilerà a Parigi con col Club degli 8, ma in Guadalupa.
Nella capitale coi sindacati, sfilerà però il Partito socialista che per una volta unito - anche se poco udibile - vuole invece offrire ai lavoratori uno sbocco politico. La sua parola d'ordine del Ps oggi sarà l'abolizione dello scudo fiscale che proteggendo i grandi capitali conferisce anche una caratterizzazione di classe alla politica economica di Sarkozy.

il Riformista 1.5.09
Età della crisi. Voci da una città che ogni anno manda in scena piccole insurrezioni e scontri politici. E di questi tempi, si teme il peggio.
Scontri. Manifestante fermata durante le dimostrazioni dell’anno scorso
A Berlino sarà guerriglia ancora più tosta del solito
di Paolo Petrillo


Berlino. Primo maggio a Berlino. Grande festa dei lavoratori nella città che un tempo ospitò l'insurrezione spartachista, fu poi per oltre 40 anni capitale dello Stato Operaio e Contadino e oggi - unico esempio in Germania - è una metropoli amministrata da una giunta rosso-rosso, vale a dire da un'alleanza fra socialdemocratici e neo-comunisti? «Ma quando mai! - risponde Sabine, giornalista 40enne nata nell'ex Berlino est e rimasta fondamentalmente di sinistra - Da 20 anni a questa parte, e in modo sempre più evidente negli ultimi dieci, il Primo maggio qui non ha più alcun valore politico. Il vero significato della giornata sta nei disordini e nelle violenze da strada a cui si abbandonano giovani di sinistra e di destra, con l'aggiunta di numerose bande di ragazzi arabi e turchi. L'etichetta rimane quella del Primo Maggio Rivoluzionario, ma in realtà è soprattutto l'occasione per un grande appuntamento ludico, dove buona parte del divertimento consiste nel fare a botte con la polizia o nel bruciare qualche macchina». Naturalmente non sarà dappertutto così. Oggi, sotto la Porta di Brandeburgo sfilerà il tradizionale corteo dei sindacati, ordinato e pacifico. Mentre a Kreuzberg - uno dei quartieri a più alta presenza d'immigrati, soprattutto arabo-turchi - ci saranno per ore musica e danze, una colorata festa da strada che per molti finirà nel Goerlitzer Park, l'area verde più vicina, luogo ideale per prendere il sole e riunirsi intorno a un barbecue. E tuttavia i notiziari di domani avranno immancabilmente l'aria di piccoli bollettini di guerra: scontri fra dimostranti e polizia, numero dei feriti e degli arresti, macchine bruciate, generale conteggio dei danni inflitti alla città. Al punto che, ogni anno, c'è qualcuno che si domanda se non sarebbe in fondo opportuno vietare le manifestazioni del Primo maggio.
Quest'anno poi - ha fatto sapere la polizia tedesca - le cose potrebbero andare peggio del solito. C'è la crisi, naturalmente, con le sue conseguenze in termini di aumento della disoccupazione e dell'instabilità sociale. I senza lavoro in Germania sono ora l'8,3 per cento della popolazione e a Berlino salgono al 14 per cento: anche se la valenza politica di quest'appuntamento è ormai ridotta al minimo, si tratta pur sempre di una cornice favorevole agli slogan più radicali. «Grazie all'attuale crisi del capitalismo - ha dichiarato alla stampa un militante dei famigerati Autonomen berlinesi - noi autonomi abbiamo conquistato una nuova coscienza di noi stessi». «È nostra esplicita intenzione - quindi - dar vita a disordini sociali. Sfrutteremo l'occasione del Primo maggio per crearne il più possibile». La linea della polizia è, ormai da anni, quella della "Deeskalation": presenza di massa ma defilata, cercando di non cedere alle provocazioni dei manifestanti e ricorrendo, di solito, a cariche d'alleggerimento quando la situazione rischia di degenerare. Una strategia ben chiara alla controparte, che ama esercitarsi in lanci di oggetti contro gli agenti per poi defilarsi, divertita, ai primi accenni di reazione.
Altro elemento di tensione è rappresentato dai gruppi neonazisti che - paladini della difesa del lavoratore tedesco contro la minaccia della manodopera straniera - cercano ormai da tempo di essere parte attiva nelle risse del primo maggio. L'Npd ha annunciato una manifestazione nel quartiere di Koepenick, e i militanti di sinistra hanno risposto organizzando una contro-dimostrazione. Compito delle forze dell'ordine, in questo caso, sarà tenere separati due schieramenti che, probabilmente, faranno di tutto per incontrarsi. Infine, a completare il quadro di un Primo maggio che rischia di essere ricordato come uno dei più caldi dalla riunificazione ad oggi, interviene anche lo spettro degli hooligans greci. Questa sera a Berlino si gioca infatti la semifinale della Coppa europea di basket: Olympiakos Pireo contro il Panathinaikos Atene, due squadre fortemente avverse, accompagnate per l'occasione da circa 200 sostenitori. Sostenitori che - teme la polizia berlinese - potrebbero sia creare disordini in proprio sia unirsi al più generale evento cittadino. Quale sarà comunque il tono di questo Primo maggio lo si comincerà a capire durante la notte del 30 aprile, la tedesca "Walpurgisnacht", la Notte delle streghe. Un'antica festa celtica, dedicata alla Primavera e che con la politica non ha molto a che fare. L'abitudine vuole però che i disordini comincino questa notte, con i tradizionali appuntamenti in Boxhagenerplatz e soprattutto al Mauerpark, a due passi dal vecchio Muro. Zone che la polizia ha cominciato a presidiare già dalle prime ore di questa sera.

Repubblica 1.5.09
Mario Vegetti ha scritto un libro sulla visione politica del filosofo
"Era un illuminista, non è stato capito"
Platone tradito dal Novecento
di Antonio Gnoli


È il pensatore più controverso, accusato di totalitarismo. Ecco una lettura diversa e sorprendente
Per Hitler grecità e germanesimo erano alleati nella lotta per la civiltà
Il teorico della ‘caverna´ pensava a un governo delle élite intellettuali

Non poteva prevedere Google e l´utopia della rete. Di fronte a un oggetto di cultura di massa come Matrix sarebbe rimasto interdetto. Ve lo immaginate un dialogo tra Socrate e Neo, il predestinato della grande saga dei fratelli Wachowsky? Eppure non c´è esperienza immateriale, o complicazione virtuale, che oggi non evochi le analisi platoniche. Quando estrasse, come da un cilindro, il mito della caverna avrebbe potuto inventare il cinema, se la tecnologia di allora glielo avesse consentito. Invece ne fece un involontario format in anticipo di 2500 anni sulla televisione. In fondo, realtà platonica e reality sono più contigui di quanto si immagini. Quello che nel quinto secolo fu concepito come una grande sistema speculativo, con tanto di demiurgo, rivive oggi in molte analisi. Platone è il filosofo più letto, più cliccato, più controverso. Il Novecento ne ha fatto un´icona politica, ma al tempo stesso se ne è spaventato. Su di lui è stato detto di tutto, di più. Platone totalitario e democratico, liberale e nazista, etico e immorale, amante dell´eros e fustigatore dei cattivi costumi, elitario e tollerante (o quasi). Non amava la democrazia, ne temeva le degenerazioni, la presa retorica sul popolo. Oggi guarderebbe con orrore ai populismi mediatici. Insomma perché un libro come La Repubblica ha attraversato la storia dell´Occidente sino a giungere a noi così carico di suggestioni?
Mario Vegetti - tra i più grandi antichisti in attività - ha scritto un bellissimo libro sul Platone politico da Aristotele al Novecento. Un paradigma in cielo ne è il titolo, edito da Carocci (pagg. 181, euro 18.50).
Un paradigma in cielo richiama il modo in cui Platone nella Repubblica definisce il suo modello di società giusta. Ma quel testo, credo si possa leggere e forzare in molte altre direzioni. È d´accordo?
«La Repubblica è un repertorio ricchissimo di metafore, di immagini, di paradossi. I primi due libri presentano una teoria dell´origine della giustizia e una genealogia della morale che portano diritto a Hobbes e Nietzsche; il quarto una psicologia dell´io scisso e conflittuale che ha il suo parallelo in Freud; il quinto l´utopia comunistica, l´abolizione della proprietà privata e della famiglia; il settimo un saggio straordinario di epistemologia antiempiristica delle matematiche; l´ottavo una memorabile critica parallela della democrazia e della tirannide».
E il Platone più familiare, quello delle idee, del bene e dell´immortalità dell´anima?
«C´è anche quello. Ma la cosa impressionante è lo sforzo di tenere tutto questo insieme, se non in un sistema almeno in un movimento dialettico unitario. Certo, un progetto eccessivo, che avrebbe destato la comprensibile irritazione di Aristotele. Ma l´eccesso credo sia la cifra dello stile filosofico di Platone, al quale egli rimedia spesso attenuandolo con un certo distacco ironico».
A proposito di eccesso, il Novecento è sceso a valanga su questo filosofo.
«C´è stata un´orgia di appropriazioni e di usurpazioni di Platone per motivi ideologici che risultano alla fine intollerabili».
Pensa alle letture "totalitarie" del suo pensiero?
«Nonostante l´assimilazione proposta da Popper fra i "totalitarismi", bisogna distinguere. I nazisti negli anni Trenta hanno trovato un´immagine di Platone in qualche modo già predisposta al loro abuso. Questa storia comincia con Hegel che aveva negato il carattere utopistico della Repubblica e vi aveva letto lo spirito del tempo, il riflesso dell´eticità sostanziale del popolo greco. E questa eticità consisteva nell´unità organica della comunità statale, la sua incommensurabile superiorità rispetto all´individuo. Quello che per Hegel era un limite di Platone, fu considerato un suo merito, un´idea forza nella Germania della crisi post-bellica, ostile tanto al capitalismo liberale quanto all´anarchismo socialista».
Ma in che modo il nazismo se ne appropriò?
«Platone divenne una bandiera ideologica già con illustri filologi "umanisti" come Wilamowitz, Jaeger e Stenzel. Quando il programma del partito nazional-socialista diceva che i nazisti si proponevano di "governare l´ordine come guardiani nel più alto senso platonico del termine", o quando Hitler scriveva nel Mein Kampf che "grecità e germanesimo" sono alleati nell´imminente lotta per la "civiltà", essi non facevano che citare parole già scritte dai professori berlinesi di filologia classica».
C´era anche Nietzsche alle spalle.
«C´era, ma con questa precisazione: l´idea che si dovesse formare un uomo nuovo e superiore, una "razza di signori", i nazisti la trovarono in parte almeno nella lettura nicciana di Platone».
Nietzsche se ne serve, Marx invece liquida Platone. Perché?
«Marx lo descrive come "l´ideologo ateniese del sistema egiziano delle caste". Sfortunatamente quel Platone divenne una specie di mantra nelle interpretazioni marxiste-leniniste».
A cosa si deve la fortuna della lettura popperiana di Platone?
«Più che di fortuna direi che si debba parlare di impatto. L´aggressione di Popper ha turbato il sonno di tanti che consideravano Platone, come dice Gadamer, "uno dei padri fondatori della nostra tradizione cristiana e liberale". Ma come, abbiamo da sempre avuto in casa il nemico totalitario e non solo non ce ne siamo accorti, ma l´abbiamo studiato e onorato? Si trattava di un attacco alle radici stesse della cultura occidentale, troppo forte per venire accettato. La seconda metà del Novecento ha quindi assistito a una sequenza interminabile di tentativi di difendere Platone da Popper».
Difesa legittima?
«Credo che un nemico come Popper aiuti a pensare Platone meglio di tanti suoi pretesi amici che ne fanno una caricatura perbenista per renderlo simile a se stessi e al loro "pensiero unico". La questione non è di capire se Popper ha bene interpretato Platone, e di segnalare i suoi errori con la matita rossa. La questione è di confrontare i presupposti teorici del pensiero politico di Platone con quelli di Popper, non dando per scontati né gli uni né gli altri: per esempio egualitarismo e antiegualitarismo, liberalismo democratico e governo delle élites, individualismo e comunitarismo. A questo livello, per contrasto, la critica di Popper ci aiuta a capire meglio Platone, e forse Platone può aiutarci a capire i limiti del pensiero liberal-democratico».
Leo Strauss fornì una lettura ironica e dissimulatrice di Platone. Nel farlo pose al centro il complicato legame tra l´intellettuale e il potere. È un rapporto che ha ancora senso?
«Strauss pensava che la filosofia fosse superiore alla politica perché il suo oggetto non è storico umano ma eterno e trascendente, e che quindi l´intellettuale non dovesse farsi coinvolgere nel gioco politico. Al contrario, il suo amico-rivale Kojève pensava hegelianamente che un filosofo non può rimanere estraneo alla storia e alla grande riflessione sulla verità che accade solo nel movimento storico. Questa discussione è interessante, ma a me pare molto viziata dal fatto che entrambi hanno un´idea del tutto astratta dei termini "intellettuale" e "potere", come se in ogni epoca si trattasse sempre delle stesse figure. Quanto a Platone, il suo era un progetto in fondo illuministico: il governo delle élites dell´intelligenza e della conoscenza. Chi crede che oggi governino i tecnocrati pensa che in qualche modo il progetto sia stato realizzato. Chi pensa invece che siamo in preda all´anarchia capitalista e ai suoi imbonitori populisti, può ancora nutrire qualche nostalgia per quel programma».

Fu un bersaglio di Popper
Il primo volume dell´opera di Karl Popper "La società aperta e i suoi nemici" è interamente dedicato a Platone. Si chiama infatti "Platone totalitario" ed è un violento attacco al platonismo politico e filosofico, per il suo carattere autoritario e teso a costruire una società piegata al volere dei governanti. Popper definisce la posizione di Platone come "radicalismo estremo".

l’Unità 1.5.09
Medie, Gelmini bocciata dal Tar sull’inglese «potenziato»
di Maristella Iervasi


La Gelmini scivola sull’inglese potenziato: fermata dal Tar del Lazio. Ha reso obbligatorio una misura in assenza di un decreto del Presidente della Repubblica. In arrivo uno stop anche sugli organici dei docenti alle scuole?

L’inglese pigliatutto della Gelmini è stato bocciato dal Tar del Lazio. I giudici amministrativi hanno accolto la richiesta di sospensiva ai fini del riesame presentata da quasi 300 professori di seconda lingua comunitaria di tutt’Italia, dicendo chiaro e tondo al ministro dell’Istruzione che è sicuramente «illegittimo» che una scuola pubblica faccia only english, impedendo anche ad una sola famiglia di far studiare al figlio la lingua di Stendhal, Goethe o Cervantes.
Come si ricorderà, Gelmini maestra unica con la circolare sulle iscrizioni, la n.4 del 15 gennaio scorso, ha deciso che la scuola media deve «parlare» solo inglese.
Il troppo stroppia
Viale Trastevere ha proposto così, delegando alle famiglie la scelta, la messa in liquidazione dall’istruzione pubblica della seconda lingua comunitaria. La Gelmini punta infatti all’inglese «monopolio» linquistico con 5 ore settimanali invece che le attuali 3, lasciando facoltative le 2 ore di altre lingue straniere purché vi sia «organico disponibile» e non si crei «esubero» dei docenti di francese, spagnolo e tedesco.
Ma c’è di più. Il provvedimento in questione è stato anticipato in assenza del decreto della Presidenza della Repubblica che a tutt’oggi non è stato emanato. Un modus operandi che l’amministrazione Gelmini ha adottato anche per il decreto interministeriale sugli organici che non è definitivo, idem per le nuove norme sul voto in condotta, la circolare sulle iscrizioni nonché per i libri di testo. La prossima settima potrebbero esserci quindi altre sorprese di stop per la maestra unica. Giovedì 7 maggio il Tar del Lazio si pronuncerà sul ricorso della Flc-Cgil sugli organici che il sindacato della Conoscenza ha impugnato chiedendo la sospensiva. Ed è atteso un pronunciamento anche sul ricorso ricorso presentato da un gruppo di prof milanesi per quanto riguarda i libri di testo.
Soddisfatti i docenti di seconda lingua comunitaria, dopo la motivazione dell’ordinanza n.1590/09 del Tar. Che precisano: «Non siamo contrari all’inglese potenziato - spiegano Filippo Perini, docente a Firenze e Giacomo Bartoletti di Montecatini. Entrambi insegnano spagnolo - purchè però questa scelta non ricada a discapito di altre discipline». Anche perché 5 ore settimanali di inglese (e neppure con lo stesso insegnante) non possono avere lo stesso peso di 5 ore di Lettere o di Matematica e Scienze. E via dicendo.
Confusione
Nelle scuole la confusione regna sovrana. Anzi, dopo il pronunciamento del Tar sulla seconda lingua comunitaria tutti i disagi dei presidi stanno venendo al pettine. Gli uffici scolastici infatti stanno fornendo agli istituti la dotazione organica e nelle tabelle figurano anche i numeri delle classi prime alle medie che si avvalgono dell’inglese potenziato. Ci sono scuole ad esempio, come in provincia di Pistoia e Montecatini, che hanno deciso formare solo classi di inglese, lasciando fuori le altre lingue. Cosa accade adesso? Di certo il ministero dell’Istruzione è chiamato a correre ai ripari. Dovrà quantomeno riesaminare la situazione e vigilare su come saranno formati gli organici.
Mimmo Pantaleo, segretario della Flc-Cgil: «Le scelte della Gelmini sulla seconda lingua comunitaria vanno contro l’Europa. È una scelta anacronistica. La mobilitazione non è vero che non serve a nulla. Le improvvisazioni della Gelmini danneggiano la scuola pubblica. Non non sono conforme alle leggi. Non si può con un regolamento mettere in discussione un impianto legislativo».

Corriere della Sera 1.5.09
Gli studi di storia e letteratura, l’antifascismo, le condanne. Per la prima volta il figlio Carlo racconta Leone, a cento anni dalla nascita
Ginzburg, mio padre. Filologo della libertà
Sognava un continente diverso. Prima di morire, ucciso dalle SS, confidò: non odio i tedeschi.
di Dino Messina


Le leggi razziali gli apparvero una ferita all’eredità risorgimentale cui si sentiva fortemente legato

BOLOGNA — «Mi terrò lontano dall’ambito del privato». Con questa precisa indicazione comincia la prima intervista che Carlo Ginzburg, uno dei maggio­ri storici italiani, il più noto in campo internazionale, abbia mai dedicato a suo padre Leone.
Figura cruciale dell’antifascismo e della cultura ita­liana fra le due guerre, uno di quei personaggi che hanno avuto una vita breve e intensa, come Piero Go­betti (che non conobbe) e Giaime Pintor, che invece incontrò nei primi anni Quaranta, Leone Ginzburg nacque a Odessa il 4 aprile 1909 e morì il 5 febbraio 1944 nell’infermeria del carcere romano di Regina Co­eli, in seguito alle percosse subite durante gli interro­gatori da parte dei nazisti. Trasferitosi a Torino con la famiglia, superò gli esami di ammissione al liceo Mas­simo D’Azeglio e continuò il brillante percorso di stu­di con ragazzi che si chiamavano Norberto Bobbio, compagno di classe e coetaneo, Cesare Pavese, di un anno più grande, che lo avrebbe considerato come il suo migliore amico, Massimo Mila, Giorgio Agosti, Vittorio Foa, Carlo Dionisotti, Giulio Einaudi, col qua­le avrebbe dato un impulso decisivo alla costruzione della casa editrice. Un gruppo in cui svolgeva una fun­zione di maestro e guida spirituale Augusto Monti.
«Monti — dice Carlo Ginzburg — commentava il Breviario di estetica di Benedetto Croce, che per quei ragazzi fu la via verso l’antifascismo». Come ha notato Norberto Bobbio nella introduzione agli Scritti di Leone Ginzburg editi nel 1964 (poi ristam­pati nel 2000 con un’importante prefazione di Lui­sa Mangoni), «l’adesione a Croce ci faceva sentire estranei alle convenzioni». La precocità intellettua­le, politica e persino morale di Leone è sottolinea­ta in questo saggio di Bobbio: «La sua sicurezza era frutto non soltanto di una cultura più ampia e più solida, ma anche di una consapevolezza del proprio compito». In giovanissima età tradusse Ta­ras Bul’ba di Nikolaj Gogol, Anna Karenina di Lev Tolstoj e cominciò a pubblicare saggi sulla lettera­tura russa. Si laureò con una tesi su Guy de Mau­passant e incontrò Carlo Rosselli esule a Parigi. Ma prima del 1931, anno in cui ottenne la cittadinanza italiana, non volle impegnarsi nella cospirazione antifascista. «Fu Vittorio Foa — ricorda Carlo — a segnalarmi l’importanza di questo punto. Leone Ginzburg non era venuto in Italia per caso. Il suo padre naturale era un ebreo italiano, e da bambino aveva vissuto alcuni anni a Viareggio. Ma la decisio­ne di diventare italiano fu fondamentale nella co­struzione della sua personalità intellettuale e politi­ca. Aveva un legame fortissimo con la tradizione risorgimentale, come Vittorio Foa, che ne parla ri­petutamente nelle lettere dal carcere. Quando era a Pizzoli, il paese vicino all’Aquila dove era stato internato dopo lo scoppio della guerra, lavorava a una raccolta di scritti sul Risorgimento, di cui è ri­masto il saggio incompiuto La tradizione del Risor­gimento.
Immagino che anche mio padre, come Vittorio Foa, abbia reagito all’ignominia delle leggi razziali come a una cesura rispetto alla tradizione risorgimentale».
L’attenzione al Risorgimento andava di pari passo con gli studi sulla letteratura italiana dell’Ottocento: curò l’edizione dei Canti di Leopardi per la collana Scrittori d’Italia di Laterza fondata da Croce. Nel peri­odo di internamento passato a Pizzoli stava racco­gliendo materiale per un libro su Manzoni, che è an­dato perduto quando, dopo il 25 luglio 1943, lasciò Pizzoli per andare a Roma, dove durante l’occupazio­ne tedesca diresse l’edizione clandestina dell’Italia Libera, giornale del Partito d’Azione. Gli studi sull’Ot­tocento italiano s’intrecciavano con quelli sull’Otto­cento russo: così nacquero l’accostamento tra Puskin e Manzoni e il saggio Garibaldi e Herzen. La scelta di essere italiano venne rinnovata quando, dopo le leg­gi razziali, gli arrivò dagli Stati Uniti, credo attraverso Max Ascoli e la fondazione Rockefeller, l’offerta di espatriare. Lui rifiutò, disse che il suo posto era qui». Di quel periodo a Pizzoli Carlo Ginzburg conserva una foto, appesa di fianco a una delle librerie della grande casa bolognese, che lo ritrae bambino di due anni, con una matita in mano, in braccio al padre. Sul retro c’è un messaggio di Leone al filologo Santorre Debenedetti, che in quel periodo (come risulta dalle Lettere dal confino curate da Luisa Mangoni) era il di­rettore occulto, per via dei divieti razziali, della raccol­ta di classici Einaudi. A Pizzoli Leone era stato rag­giunto dalla moglie Natalia, la scrittrice da cui ebbe tre figli.
«Leone, la sua passione vera era la politica — scri­ve Natalia in Lessico famigliare —. Tuttavia aveva, ol­tre a questa vocazione essenziale, altre appassionate vocazioni, la poesia, la filologia e la storia». Quale di queste vocazioni era la più forte? «Il letterato e lo sto­rico erano molto intrecciati. Resta il problema di capi­re se la vocazione politica fosse imposta dalle circo­stanze, dall’esigenza morale di contrapporsi al fasci­smo, o se fosse qualcosa di originario. Per rispondere a questa domanda di nuovo mi viene in mente Vitto­rio Foa e quel che mi disse una volta parlandomi di Piero Gobetti. 'A differenza di Gobetti tuo padre era un filologo', mi disse. Questa vocazione alla filologia non emerse subito, ma negli anni, anche grazie al de­cisivo incontro con Santorre Debenedetti, che dopo Croce, con cui mio padre ebbe un rapporto intenso e diretto, divenne il suo secondo maestro. Forse 'il mae­stro'. La vocazione di filologo in qualche modo defini­sce un atteggiamento che si può trovare sia negli stu­di sulla letteratura sia in quelli di storia, e forse, para­dossalmente, anche nell’azione politica. Mi spiego: qui non penso alla filologia in senso tecnico ma alla filologia in senso ampio di cui parla Giambattista Vi­co (qui tra i libri di mio padre conservo una copia del­l’edizione 1744 della Scienza nuova): un abito menta­le che consente di ascoltare e interpretare la voce de­gli altri, del passato ma anche dei contemporanei, senza prevaricare. Mi è parso di ritrovare questo atteg­giamento anche nello scritto politico del 1932, Viati­co ai nuovi fascisti, di cui parlò Carlo Dionisotti (lo ricorda Giorgio Panizza nell’introduzione agli Scritti sul fascismo e sulla Resistenza di Dionisotti). A pro­posito delle iscrizioni forzate al Partito nazionale fa­scista dei dipendenti pubblici mio padre scriveva: 'Le settecentomila persone, che sentono come un mar­chio quest’iscrizione forzata (al Partito nazionale fa­scista, ndr) hanno modo di non dare al fascismo che il guadagno del prezzo annuale della tessera. Dinanzi alla loro vendetta, Mussolini si avvedrà di quel che significhi ridurre la gente per bene alla vergogna e al­la disperazione'. Era un discorso duro e generoso: io non faccio le vostre scelte ma non le condanno mora­listicamente; esse però non devono diventare un alibi per una vita di compromessi». Nel 1934 Leone Ginz­burg avrebbe lasciato il posto di libero docente di let­teratura russa rifiutando di prestare giuramento al fa­scismo. Nel novembre di quell’anno sarebbe stato ar­restato, accusato di cospirazione antifascista e con­dannato a quattro anni (ne scontò due nel carcere di Civitavecchia).
Il rigore filologico e la capacità di guida intellettua­le di Leone Ginzburg si vedono soprattutto nella col­laborazione alla neonata Einaudi: «Gli studi di Luisa Mangoni hanno dimostrato inequivocabilmente ciò che lo stesso Giulio Einaudi riconobbe più volte: mio padre, uscito di prigione nel 1936, diede un’impronta decisiva alla casa editrice con la creazione di collane come la Biblioteca di cultura storica, i Narratori stra­nieri tradotti, i Saggi, la Nuova raccolta di classici ita­liani annotati. La severità dell’atteggiamento filologi­co di mio padre traspare anche nella critica alle stra­ordinarie traduzioni che Giaime Pintor aveva fatto delle poesie di Rainer Maria Rilke».
Giaime sarebbe morto il 1˚dicembre 1943 nel tenta­tivo di attraversare sul Volturno le linee naziste e unir­si alla Resistenza romana. Leone era stato catturato il 20 novembre nella tipografia dell’Italia Libera. Diede il falso nome di Leonida Gianturco, ma fu riconosciu­to, perché schedato come antifascista, e consegnato ai nazisti. «Sandro Pertini — ricorda Carlo — ha scrit­to nella sua autobiografia Sei condanne e due evasio­ni che mio padre, che aveva incontrato sanguinante dopo l’ultimo interrogatorio, gli disse 'che non biso­gnerà, in avvenire, avere odio per i tedeschi'. Perché questa frase? Io mi sono dato due spiegazioni. La pri­ma rinvia alle sue convinzioni politiche: nella costru­zione di una federazione europea la Germania avreb­be naturalmente avuto un posto importante. La secon­da rinvia a un imperativo di genere diverso: la necessi­tà di distinguere tra tedeschi e nazisti. Anche in quel momento, penso, imponeva a se stesso il distacco cri­tico di cui parla nell’ultima lettera scritta a mia ma­dre, poi raccolta nel volume Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana. Dal carcere scriveva: 'Una delle cose che più mi addolora è la facilità con cui le persone intorno a me (e qualche volta io stesso) perdono il gusto dei problemi generali dinanzi al peri­colo personale'».

Repubblica 1.5.09
Se Veronica diventa preda
di Adriano Sofri


Gentile Silvio B., le dirò alcune cose sincere, da uomo a uomo. Noi uomini non siamo abituati a dirle, e tanto meno ad ascoltarle. Vale per quasi tutti noi, non solo per i bugiardi più spericolati come lei. Noi (con qualche rarissima eccezione: ci sono anche uomini davvero nobili d´animo, ma non ci riguarda) sappiamo bene di che porcherie si tratti, sia che le pratichiamo, come lei ostenta di fare, sia che ci rinunciamo, perché abbiamo imparato a vergognarcene, o semplicemente perché non abbiamo il fisico. Lo sa lei, lo so io.
Mi hanno raccomandato di non perdermi i giornali a lei vicini: non li ho persi. Ho scorso gli editoriali, ho guardato le fotografie. Sa che cosa ho pensato? No, non che mi trovavo di fronte a qualche colonna infame, questo era ovvio, l´ha pensato chiunque. Ho guardato le fotografie –una giovane donna, un´attrice, che si scopre il seno- e mi sono chiesto come sia stato possibile che una giovane donna così bella dedicasse la propria vita a uno come lei. E´ successo anche a me, mi interrogo anch´io: come sia possibile che giovani donne così belle e intelligenti dedichino la propria vita a uomini come noi. Naturalmente, un po´ lo sappiamo come succede. Che carte abbiamo in mano, per barare. Siamo volgari abbastanza per riconoscere la reciproca volgarità. Semplicemente, ci teniamo a bada un po´ di più di quanto faccia lei. Dicono tutti che gli italiani la invidiino. Sinceramente, nemmeno a questo credo. La guardo, dalla testa ai piedi, e non ci credo. Gli italiani hanno, come tanti maschi del mondo, un problema con la caduta dei capelli. Ma sanno bene che la sua non è la soluzione. Lei stesso lo sa, e non deve farsi troppe illusioni. Il cosiddetto populismo è traditore. Uno crede di aver sostituito ai cittadini un popolo, al popolo un pubblico, al pubblico una plebe: ed ecco, proprio mentre passa sotto l´arco di trionfo del suo impero di cartapesta e lancia gettoni d´oro, parte un solo fischio, e la plebe d´un tratto si rivolta e lo precipita nel fango. L´Italia è il paese di Maramaldo, e io non voglio maramaldeggiare su lei: benché sia ora di rovesciare le parti di quel vecchio scurrile episodio, e avvertire, dal suolo su cui si giace, al prepotente che gl´incombe sopra che è un uomo morto. Noi c´intendiamo: abbiamo gli stessi trucchi, dimissionari o no, pentiti o no. Siamo capaci di molto. Di esibire le nostre liste alle europee, e vantarcene: "Dove sono le famigerate veline?" dopo aver fatto fare le ore piccole ai nostri esasperati luogotenenti a depennare capigliature bionde. Di dire: "La signora" (non so se lei ci metterebbe la maiuscola: fino a questa introspezione non arrivo), sapendo che la signora di noi sa tutto, e anche delle liste elettorali prima della purga. Magari la signora la lascerà, finalmente, e lei le scioglierà addosso la muta dei suoi cani. Diventerà la loro preda prediletta. Ma nel Parlamento Europeo (le maiuscole ce le metto io: un tocco di solennità non fa male) ci si ricorderà di Veronica. Capaci perfino di chiamare "maleodoranti e malvestite" le deputate dell´altro schieramento: ci ho pensato, e le dirò che almeno a questo non credo che avrei saputo spingermi. In fondo lei è fortunato: le circostanze le permetteranno fino alla fine di restare soprattutto un poveruomo desideroso di essere vezzeggiato e invidiato e lusingato da ammiccamenti e colpi di gomito dei suoi sudditi, a Palazzo Chigi o sul prossimo colle, mentre padri di famiglia minacciano di darsi fuoco perché la loro bellissima bambina non è stata candidata, e vanno via contenti con la sua camicia di ricambio. In altre circostanze avrebbero potuto succederle cose terribili. Nel giro d´anni in cui lei e io nascevamo morirono chiusi in due distanti manicomii, perfettamente sani di mente, la signora Ida Dalser e suo figlio Benitino, che facevano ombra al capo del governo. Allora lo Stato era più efficiente di oggi, e misero mano a quella soluzione medici, infermieri, direttori di ospedali, questori, prefetti, commissari di polizia, segretari di fiducia. Altro che lo scherzo delle belle ragazze nelle liste elettorali. Dipende tutto dall´anagrafe.
Per ora molti italiani (e anche parecchie italiane: le è riuscito il gioco di far passare la cosa come una rivalità fra giovani e belle e attempate e risentite) ricantano ancora il vecchio ritornello: "Tra moglie e marito...". Di tutti i vizi nostri, quello è il peggiore. E´ la incrollabile Protezione civile dei panni sporchi da tenere sporchi in famiglia, delle botte e delle violenze a mogli e bambini, delle malefatte di padri spirituali al segreto del confessionale, fino a esploderci nelle mani quando il delitto d´onore appena cancellato dal nostro codice si ripresenta nelle figlia ammazzata in nome di qualche sharia. Non mettere il dito: no, a condizione che non si sentano pianti troppo forti uscire dalle pareti domestiche. O, anche quando la casa è così ricca e i muri così spessi, non sia la moglie a far sapere che cosa pensa. Che né il denaro né il soffio della Storia (Dio ci perdoni) le basta a tacere il suo disgusto. Invidiarla, gentile presidente? Mah. Ammetterò che, reietto come sono, una tentazione l´ho avuta. Non mi dispiacerebbe avere un ruolo importante nell´Italia pubblica di oggi, per le nuove opportunità che si offrono a chi sappia pensare in grande. E´ da quando ero bambino che desidero fare cavallo uno dei miei senatori.

il venerdì di Repubblica 1.5.09
Marco Bellocchio
Vado a Cannes per presentare il mio film più antifascista
Il regista è in concorso con «Vincere», storia ella donna che diede un bambino a Mussolini. Uno scandalo soffocato, che portò madre e figlio a morire in manicomio. E una riflessione sul potere di sempre
intervista di Paola Zanuttini


Roma. Marco Bellocchio si è innamorato di Ida Dalser perché era una seccatrice. Irresistibile, nel senso che non si arrese mai. Tragica, perché finì malissimo. Nella fossa comune del manicomio in cui l'aveva spedita Benito Mussolini che, avendola un tempo amata, non trovò altro modo per levarsela di torno.
«È una di quelle donne per cui gli uomini alzano le spalle sospirando che se l'è cercata, fosse stata un po' zitta e al suo posto, avrebbe potuto fare la bella vita. Invece no, è un'eroina anomala, tra melodramma e mito greco: un po' Antigone e un po' Medea. Una piccola donna antipatica, rompiscatole, che diventa irriducibile per non essere cancellata. Va contro il buon senso, suscita un orrendo sentimento di sufficienza, per questo mi ha esaltato».
Bellocchio si è innamorato di lei il 14 gennaio 2005, vedendo su RaiTre il documentario di Fabrizio Laurenti e Gianfranco Norelli Il segreto di Mussolini, ricostruzione di una vicenda ignobile, risaputa e sottaciuta per quasi un secolo che, sebbene riesumata più volte con inchieste e libri, sembrava desinata a restare un non detto della nostra Storia.
Il segreto è quello di Benito Albino Dalser Mussolini, primo e scomodissimo figlio maschio del Duce, nato nel 1915 dall'unione con Ida e, in seguito, internato come la madre in manicomio. Dove, a 26 anni, morì e fu sepolto, anche lui in una fossa comune.
Il regista non ne sapeva niente: ha deciso di farci un film, Vincere, con Giovanna Mezzogiorno e Filippo Timi, unico titolo italiano in concorso a Cannes. Famiglia, identità, follia, potere, morale cattolica, ragion di Stato, rabbia. E il fascismo nelle sue forme pubbliche e private: sembra il compendio delle tematiche di Bellocchio. «Non vorrei sembrare retorico, ma un amico mi ha detto che è il film più antifascista che ha visto».
Il suo amico ha letto molte analogie con i nostri giorni?
«In una delle prime scene, Ida assiste, nel 1907, al dibattito in una Casa del Popolo fra il giovane Mussolini socialista e anticlericale e un sacerdote: discutono sull'esistenza di Dio, che lui nega. Poi, quando è rinchiusa nel manicomio di Pergine, sente alla radio l'annuncio della firma dei Patti Lateranensi. Mussolini sposò Ida in chiesa, ma poi, poco dopo la nascita di Albino, sposò, stavolta in municipio, anche Rachele, peraltro madre di Edda da cinque mmi: questa è bigamia».
Pensa ai nostri ex liberi pensatori sposati in chiesa o ai pluridivorziati che si scagliano contro le unioni di fatto?
«Penso al cinismo. Ida aiutò molto Mussolini, vendette il suo salone di estetica a Milano per finanziarlo, ma lui poi scelse Rachele: era la moglie che ci voleva. Forse non aveva ancora prefigurato l'ideale della donna fascista, ma, da un certo punto in poi, la custode del focolare che parlava in dialetto era più funzionale alla sua ascesa di quanto non lo fosse Ida, così istruita e intraprendente. Per proteggere la sua immagine e la famiglia ufficiale, strappò Albino alla madre, facendolo adottare, mettendolo in collegio, impedendogli di dire chi fosse. E quando, prima Ida e poi il ragazzo, iniziarono a dar troppo scandalo con le loro richieste di riconoscimento, lì sacrificò. Mussolini usava tutto e tutti. Non fu lui a dire che gli serviva qualche migliaio di morti da gettare sul tavolo della pace?».
Qualcuno ci vedrà il cinismo della nuova politica italiana, che usa tutto per il consenso.
«Riproporre l'asse Mussolini-Berlusconi mi sembra banale, trovo più interessante chiedersi come mai l'Italia allora accettò questa situazione. Parlando con Sergio Luzzatto, che ha scritto quel bellissimo libro, Il corpo del duce, è emerso chiaramente che Mussolini intuì la potenza dell'immagine... ».
Riecco l'asse.
«Attenzione. La conquista del potere attuata da Mussolini anche attraverso la potenza della sua immagine è un fatto. Aveva uno stile nuovo rispetto ai politici con la barba lunga del tempo: rasato, fisico, seduttore. Ma la grande differenza rispetto a oggi è che lui, sebbene legittimato in qualche modo dal re, si impose con una dittatura e gli orrori che l'accompagnarono. Adesso assistiamo al trionfo dell'immagine in senso lato, un'immagine controllata da una certa parte, ma questo avviene in una specie di regime democratico. La gente può ancora parlare, votare. Ma c'è un regime. Democratico».
Filippo Timi ha un'aria innegabilmente simpatica: il suo Mussolini non è un po' troppo seduttivo, oltre che seduttore?
«Nell'ultima parte del film abbandoniamo il Filippo Timi bello e accattivante e passiamo al Duce reale, quello dei filmati di repertorio.
Filippo torna nel ruolo del figlio Benito Albino da giovane: la somiglianza tra i due, del resto, era impressionante. Il ragazzo faceva l'imitazione del padre a scuola».
Un film con il Duce non rischia di sembrare una fiction storica?
«Di quelle che quando compare uno famoso si dice "Ciao Togliatti" per far capire chi è? Sì, la sfida era questa: trovare una forma che tenesse conto dei limiti produttivi, neanche stretti per la media italiana, sette milioni di euro, e utilizzare con uno stile non troppo illustrativo il repertorio. Ci sono immagini anche notissime che abbiamo cercato di elaborare in modo originale: il montaggio è fondamentale in questo film. Detto questo, i film assomigliano sempre più ai prodotti per la tv e non solo in termini formali».
Ci spieghi.
«L'ideologia e la censura televisiva hanno reso mediocre il cinema. Una volta in un film si potevano dire cose che non si potevano dire in tv; ma oggi, visto che questa è il medium principale, il circuito principale, la produzione principale, se voglio fare un fIlm di un certo costo devo sviluppare la metafora, l'allusione, perché la televisione ha le sue regole. Oppure faccio un film indipendente a basso costo e, visto che con le nuove tecnologie il cinema si è molto democratizzato, questo è possibile, ma poi chissà che distribuzione trovo ... Viviamo nell'ipocrita paradosso per cui in tv non possono passare film che un bambino non possa vederee, ma centinaia di migliaia di italiani si sparano un porno sul satellite o sul web prima dì andare a dormire».
A 26 anni, con I pugni in tasca, lei fece il debutto più arrabbiato del cinema italiano. A settanta che si fa della rabbia?
«La rabbia è già qualcosa, ma da,sola non basta, porta alla sconfitta. L'importante è salvare la libertà»,
È salva, la libertà?
«Non tutto è perduto».

Coraggiosa. Ida Dalser combattè fino alla morte per affermare la verità
Quella donna indomabile che il Duce temeva
Ida Dalser nacque a Sopramonte, nel Trentino austriaco nel 1880. Studiò medicina estetica a Parigi e poi aprì il suo Salone orientale di igiene e bellezza a Milano, città in cui rincontrò Mussolini, allora direttore dell'Avanti, che l'aveva già affascinata a Trento, dove aveva lavorato come giornalista. Il futuro Duce aveva già una bambina da Rachele, Edda, ma ciò non gli avrebbe impedito di sposare in chiesa Ida (anche se non tutti gli storici sono certi che questo matrimonio sia davvero avvenuto).
L'anno successivo fu la volta delle nozze civili con Rachele, poco tempo dopo
la nascita di Benito Albino, il figlio avuto da Ida nel 1915, riconosciuto e citato in un documento del Comune di Milano, che gli passò un sussidio mentre
il bersagliere Mussolini era in guerra. Dopo le nozze con Rachele, i rapporti
tra Ida e il futuro Duce divennero tempestosi. Più lui tentava di mettere a tacere lo scandalo più lei scriveva lettere e petizioni. Ida, una delle prime sostenitrici e finanziatrici del fascismo, diventò una nemica, arrestata quando cercava di incontrare il Duce. Nel 1926 finì in manicomio, benché sana di mente. Morì nel 1937. Per Albino adozioni, collegi, arruolamenti in Marina. Poi, visto che era impossibile ridurlo al silenzio, fu internato anche lui. Morì nel 1942, a 26 anni.

il manifesto 30.4.09
Il Pd come una famiglia allargata
di Luigi Manconi


Non mi ha affatto stupito che il manifesto abbia pubblicato una recensione assai positiva di un mio recente libro (Un'anima per il Pd, Nutrimenti 2009).
Leggo questo giornale da oltre trent'anni, e da oltre trent'anni vi collaboro: e non ho mai pensato che si ispirasse al modello-pravda (anzi, se non ricordo male, proprio contro quel modello si formarono movimento e quotidiano). Oltretutto, penso che anche all'interno della redazione del manifesto e tra i suoi lettori le posizioni che io espongo in quel libro siano in qualche modo condivise (probabilmente da un'esigua minoranza: ma dov'è la novità?). In ogni caso, l'impostazione criticata da Eliana Bouchard sul manifesto di domenica scorsa circola tra chi si colloca a sinistra, a prescindere dall'identificazione o meno nella cultura e nel programma del Partito democratico, come interrogativo sul «male minore» al lato della scelta elettorale (ciò che produsse, già nelle elezioni politiche del 2008, un certo flusso di voti che si volevano «utili» verso il Partito democratico).
Comunque, non intendo ribattere punto per punto alle critiche della lettera di Eliana Bouchard e alla risposta di Valentino Parlato - pubblicate nella rubrica «Scritto&Parlato» di domenica scorsa - perché chi scrive un libro ad esse deve esporsi, facendone tesoro, se crede. Mi limito, pertanto, a due precisazioni.
La prima. Non sono un apologeta del «disordine creativo»: non ritengo, di conseguenza, che la pluralità e la contraddittorietà delle ascendenze culturali e politiche e delle opzioni ideologiche e etiche garantiscano di per sé alcunché di buono.
Mi limito a notare che oggi questo è il magma nel quale si ritrova una parte significativa della sinistra: e, dunque, con questa realtà frammentata vanno fatti i conti. Su una questione, ha certamente ragione Valentino Parlato, e è questione assai cara ai Radicali, che pure hanno avuto un certo numero di parlamentari eletti nelle liste del Partito democratico e che al suo interno - conflittualmente, assai conflittualmente - si ritrovano.
Differenze e metodo democratico
La questione, indubbiamente cruciale, è appunto quella delle regole di democrazia all'interno di un partito, e specificatamente del Partito democratico. Questo è davvero decisivo. E, invece, secondo Valentino Parlato, l'eccessiva pluralità interna porta inevitabilmente al «culto di un capo». Io non ritengo affatto che ciò sia fatale: le differenze possono «sciogliersi» attraverso il metodo democratico.
Nel mio libro scrivo (dieci volte) che sulle questioni controverse si deve decidere a maggioranza: e ribadisco (dieci volte) che anche sui temi di bioetica, alla fine, si deve votare.
In proposito, ricordo a Eliana Bouchard, che mi chiede un «esempio che faccia vedere dentro il concreto», un esito positivo della convivenza tra opzioni differenti: al Senato, l'intero gruppo democratico - con appena due eccezioni - ha votato contro il disegno di legge della maggioranza in materia di Testamento biologico. Poca roba? Non ho alcun imbarazzo a replicare: meglio di niente.
Il «bravo entrismo»
Seconda precisazione, più di fondo e che più dovrebbe interessare i lettori del manifesto. Gran parte del ragionamento del mio libro ruota intorno a due temi: quello dell'immigrazione e quello del Testamento biologico. Sono le questioni (unitamente a quella della giustizia e del sistema penitenziario) alle quali dedico tutte le mie energie politiche e intellettuali, da decenni: e sulle quali ho posizioni che, secondo un linguaggio convenzionale e francamente insopportabile, vengono definite di «estrema sinistra». Ebbene, sospetto che il vero contenzioso tra me e i miei critici sia esattamente questo: quelle posizioni di estrema sinistra risultano più efficaci all'interno del Partito democratico o all'interno di un partito che si voglia di estrema sinistra? Con tutti i dubbi e con tutti i rischi del mondo, sono per la prima opzione.
Ma ritengo che la risposta a quell' interrogativo debba passare attraverso la caduta di un pregiudizio assai resistente: ovvero quello che, seguendo una concezione toponomastica della politica, vorrebbe l'Italia dei Valori o, per dire, il Partito dei comunisti italiani come partiti radicali, schierati «alla sinistra» del Partito democratico. Ma quando mai? Io penso che quelle due formazioni tutto siano tranne che due partiti di estrema sinistra o anche solo definibili come radicali. Sono formazioni, piuttosto, ispirate al massimalismo ideologico o moralistico: e su alcune questioni dirimenti (per me e, se non erro, per il manifesto) - come, i diritti, le garanzie, le libertà - hanno posizioni moderate quando non schiettamente «di destra» (per ricorrere, ancora, a un linguaggio convenzionale).
Come dimenticare le indimenticabili parole di Antonio Di Pietro (se l'immigrazione irregolare non verrà sanzionata come reato, «l'Italia diventerà il Vespasiano d'Europa») o le tante posizioni anti-garantiste dei Comunisti italiani?
Insomma, per buona parte della sinistra italiana è più importante e più urgente battersi contro il «lodo Alfano» che contro la qualificazione dell'immigrazione irregolare come fattispecie penale (certo, l'ideale sarebbe mobilitarsi contro entrambi gli obiettivi, ma se devo scegliere una priorità, non ho il minimo dubbio). Ma mi rendo conto che questa risposta è parziale e non esaurisce un altro interrogativo: perché non collocare quelle posizioni di estrema sinistra (sui temi prima ricordati) all'interno di una formazione di estrema sinistra, come il Partito della rifondazione comunista o Sinistra e Libertà? Io mi auguro di cuore che queste due formazioni raggiungano il quorum, ma temo che l'esperienza delle elezioni politiche del 2008 e la sindrome scissionistica che ha determinato non siano state sufficientemente analizzate. E che il destino di quelle due formazioni sia comunque strettamente legato a quello del Partito democratico.
All'esterno o all'interno di quest'ultimo. Da qui la mia ipotesi di «partito-famiglia allargata». Insomma a me sembra che, da trentacinque anni, tutti più o meno pratichiamo il nostro «bravo entrismo». Basta dirselo.