lunedì 4 maggio 2009

l’Unità 4.5.09
La svolta laica
di Giovanni Maria Bellu


Sia chiaro. Due adulti consenzienti possono fare tra loro quello che vogliono. Basta che lo facciano a casa loro, oppure oscurino i vetri dell’automobile, e comunque non turbino l’innocenza dei bambini e, in definitiva, non commettano reati. A parte quelli imposti dal codice penale, i limiti al libertinaggio sono un fatto privato. Lo Stato non può, e non deve, pretendere di regolamentare la vita sessuale dei cittadini.
Il problema non è infatti la vita sessuale di Silvio Berlusconi (tralasciamo la questione delle minorenni in attesa dei doverosi accertamenti sulla loro età). Il problema è se un uomo pubblico debba o meno tenere una condotta di vita coerente con i principi che proclama. Se, cioè, sia accettabile che la stessa persona benedica il family day e divorzi, lanci proclami per la difesa della vita e condivida con la sua compagna un aborto al settimo mese, si circondi di sventole seminude e baci la mano al Papa. Il problema è se il capo della polis possa pretendere dai cittadini comportamenti che egli stesso non pratica.
La storia politica di un paese che anche il nostro premier considera un faro della democrazia, gli Stati Uniti, è punteggiata di carriere politiche distrutte da scandali sessuali. Tanto che il dibattito pubblico ha seguito un percorso opposto a quello italiano. Oggi si discute se questa pretesa di assoluta moralità - che ebbe nel caso Clinton-Lewinsky la sua manifestazione più esasperata - non sia eccessiva e puerile. Ma la pretesa di coerenza resta fuori discussione. Un anno fa il governatore dello Stato di New York, Eliot Spitzer, si dimise a furor di popolo quando si scoprì una sua relazione con una squillo d'alto bordo. Un altro forse se la sarebbe cavata facendo pubblica ammenda, ma Spitzer aveva costruito la sua carriera politica sulla moralizzazione: si faceva chiamare «Mr Clean». Ed era un puttaniere.
È una discussione che andrebbe fatta anche in Italia. Il nostro parere è che un leader politico debba dare l’esempio. Se passasse l’idea che il dovere della coerenza cessa a partire da un certo reddito o da una certa carica, il paese andrebbe in malora. Ma se ne può discutere. Si potrebbe anche arrivare alla conclusione che per governare l'Italia ci vuole un maniaco sessuale e che Berlusconi, con le sue uscite da vecchio satiro, non è ancora sufficiente. E che per tutelare la famiglia è indispensabile l'esperienza di chi ne ha distrutto un paio. E che la coerenza è la virtù dei cretini. E così via. Tutto è possibile nel nostro paese.
Ciò che sembra impossibile è proprio la discussione. Una notizia che ha fatto il giro del mondo è stata ridotta a una “breve” dai telegiornali pubblici e privati. I più devoti baciapile della destra sono diventati più laici di Pannella. E quel campione di coerenza di Daniele Capezzone, che di Pannella era seguace, è diventato muto. Il family day, evidentemente, era dedicato alla moralità dei cassintegrati e dei precari dei call center. Le scelte di vita individuali da qualche giorno sono diventate sacre. Salutiamo con gioia questa svolta laica del Pdl.

l’Unità 4.5.09
La signora Lario conferma anticipazioni di stampa. Il premier: sono addolorato
La moglie accusa: ho cercato di aiutarlo come si fa con chi non sta bene, è stato inutile
Veronica divorzia Berlusconi la preoccupa
di Natalia Lombardo


Veronica Lario chiude «il sipario» sul suo matrimonio: annuncia di voler divorziare da Silvio Berlusconi, per le sue frequentazioni di «minorenni». Ne dipinge una figura che non sta bene. Il premier vola a Arcore.

«La strada del mio matrimonio è segnata, non posso stare con un uomo che frequenta le minorenni»: con parole che pesano come un macigno Veronica Lario annuncia di aver avviato la pratica di divorzio da Silvio Berlusconi. «Dopo 30 anni chiudo il sipario sulla mia vita coniugale», spiega, vorrebbe farlo «da persona comune e perbene, senza clamore. Vorrei evitare lo scontro». Il clamore è inevitabile, la notizia è nel colloquio pubblicato ieri da La Repubblica e da La Stampa, e confermata all’Ansa. Una bomba che ha fatto il giro del mondo.
La «goccia» che ha fatto traboccare il vaso, o anticipato i tempi, è stata la presenza del marito alla festa dei 18 di Noemi Letizia, la ragazza di Portici che, insieme alla madre, lo chiama «papi». Legata al Silvio Berlusconi imprenditore dal 1980, sposato nel ‘90, la signora Bartolini in Berlusconi, in arte Lario, ne parla come se si trattasse di un malato: «Ho cercato di aiutare mio marito, ho implorato coloro che gli stanno accanto di fare altrettanto, come si farebbe con una persona che non sta bene. È stato tutto inutile». Inutile anche quell’ultima chance lanciata nel 2007 nella lettera a Repubblica.
La notizia piomba a Palazzo Grazioli di prima mattina. Dopo un consulto con Gianni Letta e Paolo Boniauti, Berlusconi lascia Roma con il fratello Paolo, e vola a Milano. All’una arriva in elicottero a Villa San Martino ad Arcore, pochi chilometri più in là vive Veronica, a Villa Belvedere di Macherio. L’ordine è: bocche cucite nell’entourage del cavaliere. È lui a dettare una nota secca: «È una vicenda personale che mi addolora, che rientra nella dimensione privata, e di cui mi pare doveroso non parlare». La linea decisa con il suo avvocato-deputato, Niccolò Ghedini. Tanto dolore, però, non ha impedito a Silvio di mostrarsi in maglioncino blu come uno showman sul cancello di Arcore. E verso le quattro è uscito in un fuoristrada.
La risoluzione finale
Veronica ha preso la decisione che stava «meditando» da dieci anni, racconta. Ha chiamato un’amica avvocata che si trovava in un’isola del Sud. Capri, forse, e potrebbe essere Anna Danovi Galizia, nota a Milano, specializzata in diritto di famiglia. La prima mossa di Veronica è stata l’invio della mail all’Ansa alle dieci e mezza di sera, martedì scorso, un fendente sul «ciarpame politico» che si stava spargendo in quelle ore, il gioco delle tre carte e delle tante «veline» da mettere in lista per le europee. Quelle che il premier ha ordinato di cancellare e ridurre. Un martedì d’angoscia, per la Lario, con la figlia Barbara ricoverata al San Raffaele per il rischio di un parto prematuro. Il padre, invece, da Napoli aveva fatto un blitz a Portofino per festeggiare i quarant’anni di Piersilvio, nato dal primo matrimonio con Carla Dall’Oglio.
La bomba polacca
Così la vera sorpresa per Berlusconi la vice mercoledì, quando a Varsavia è arrivato il colpo della mail di Veronica. Da tre giorni, quindi, il premier sapeva dell’imminente richiesta di divorzio, nonostante la tregua che sembra avesse siglato con la moglie sulla base di un accordo patrimoniale e una exit strategy meno dirompente per lui. Il quale, vista la brutta aria, il primo maggio è volato qua e là: dal concerto di Muti a Napoli alla decima visita a L’Aquila, terremotato terreno di propaganda, evitando «chiarimenti» milanesi, snobbando anche la Sardegna ormai senza G8.
Il «ciarpame» che ha colpito la signora Lario è il rapporto di Noemi con l’Imperatore. Non se la prende con lei, né con le veline, «figure di vergini che si offrono al drago per rincorrere il successo, la notorietà e la crescita economica». Il marito l’ha accusata di «aver creduto alla disinformatia della stampa» e, peggio, si è ritrovata sulla prima di Libero le sue foto a seno nudo nello spettacolo teatrale in cui, nell’80, conquistò Silvio. Non è tenera con lei Daniela Santanché: «Veronica, hai toppato, come madre non puoi fare la principessa sposando il principe. Impara piuttosto a esistere da sola».

l’Unità 4.5.09
Intervista a Marcelle Padovani: «L’unica che poteva colpire la sua ascesa era lei, i consensi caleranno»
La giornalista francese: il premier è il peggio dell’italiano
Ma Franceschini e Di Pietro non lo scalfiscono nemmeno un po’
di Federica Fantozzi


Marcelle Padovani, corrispondente dall’Italia del Nouvel Observateur, analizza il fatto politico-mediatico del giorno.
Veronica divorzia. Finalmente?
«Nel fantastico consenso di Berlusconi, tra sondaggi e passerelle in Abruzzo, l’unica capace di colpirlo sulle ginocchia è sua moglie. Viene da dire: compagna Veronica. Non è originale, ma è quello che pensa la gente di sinistra».
I francesi come la pensano?
«Berlusconi è il peggio dell’italiano: esibizionista, seduttore senza qualità. La sua immagine all’estero è repellente. Parlo dell’opinione pubblica, non dei ceti intellettuali».
Lo pensano tutti tranne Sarkozy?
«Lui è un piccolo Berlusconi. Fa ragionamenti utilitaristici. Ma è sorprendente che al vostro premier siano attribuite tante liaison: è un antidoto a qualsiasi voglia di relazione sessuale».
In Francia si chiedono come mai piaccia tanto agli italiani?
«Certamente. Anche se comincia a serpeggiare un piccolo dubbio su come faccia Sarkò ad avere il 42% dei consensi quando dovrebbe averne molti meno...».
Stiamo esportando il modello?
«Ecco, sorge il dubbio che il peggio non susciti soltanto interesse ma anche simpatia».
La Francia ha avuto un presidente, François Mitterrand, con una figlia segreta. Come ha reagito l’opinione pubblica?
«Il presidente stesso ha reso pubblica la notizia quando sua figlia ha compiuto 18 anni. Ma lo sapevamo tutti. Mitterrand ha gestito la situazione con grande discrezione e signorilità. Senza dichiarazioni o comparsate. La sua doppia vita segreta è stata il contrario del berlusconismo e gli ha guadagnato l’indulgenza della maggioranza dei cittadini. Non c’è stato profumo di scandalo».
Non si può dire che la discrezione sia la caratteristica di Sarkozy, presidente bling bling...
«Sì, ha avuto divorzi e matrimoni lampo, figli su figli. In un certo senso è peggio del Cavaliere: lui è ricco di suo, ha yacht e ville, Sarkò deve mendicare. Come la vacanza in Messico ospite di un nababbo trafficante di droga».
Perché Veronica è esplosa?
«Forse la vicenda di Noemi, forse un accumulo. Ma è stato un gesto politico: ha voluto colpirlo. E l’ha colpito. Come Franceschini e Di Pietro non sono riusciti a fare».

l’Unità 4.5.09
Nemmeno Capezzone, il portavoce dice una parola. Pdl, divorzio nel silenzio


Nelle ore in cui Veronica Lario cala il sipario sul suo matrimonio con Silvio Berlusconi, sul palcoscenico del Popolo della Libertà va in onda lo spettacolo dei mimi. No comment. Silenzio tombale. Bossi a parte, gli esponenti della maggioranza non parlano. Staccano il telefono quando possono. Si pronunciano proprio se stretti in un angolo. Altrimenti si negano. Daniele Capezzone, per esempio, non vuole proferire parola non solo sul tema del divorzio, ma nemmeno su quello più politico dell’immagine che deriva al partito o al governo in generale: «Sarebbe la stessa cosa. Grazie molte. Buona domenica». E dire che di mestiere farebbe il portavoce del Pdl.
Giovanardi è via
Gli altri tacciono a cascata. Non sarà nemmeno un ordine di scuderia, è semplice buonsenso. Particolarmente silenti i cattolici, forse provati dalla distanza tra la difesa che si fa della famiglia in astratto e la macelleria che se ne fa in concreto. Eugenia Roccella, almeno dai tempi del Family day in prima fila quando si tratta fare barricate sulla difesa della vita, convinta che «solo il Pdl possa difendere la famiglia», non proferisce verbo e se cercata squilla a vuoto. Clemente Mastella, appena ripescato dal nulla per essere lanciato alle Europee gratis et amore Dei dopo il tiro mancino che giocò a Prodi un paio d’anni fa, non risponde a nessuno dei suoi due telefoni Passati due squilli,, il cellulare del ciellino Maurizio Lupi, alfiere dell’ala cattolica del Pdl, attacca con la segreteria. Formigoni irrintracciabile.
Impagabile Carlo Giovanardi. L’uomo fuggito dall’Udc di Casini probabilmente perché troppo laica, lo stesso sottosegretario che venti giorni fa dichiarava «o rilanciamo il modello della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, o siamo spacciati», ora senza nemmeno una punta d’imbarazzo spiega: «Sono via da due giorni, quando avrò letto le notizie mi potrò fare un’opinione e le saprò dire cosa è successo». Le saprò dire. Ma dove si trova, all’estero? «No: via».
Bossi, l’unico
Tace Italo Bocchino, tace persino Gasparri, un miracolo. Anche sul fronte laico nulla. Gianfranco Fini non ha intenzione di proferir verbo. Sul web magazine di Fare futuro sono espunti articoli che trattino Silvi o Veroniche. Abbiamo già dato. Anche l’ispiratore laico del presidente della Camera, Benedetto Della Vedova, preferisce parlare di calcio.
Al silenzio fanno eccezione in pochi, per lo più per dire che non vogliono far commenti. Solo il leader della Lega Umberto Bossi, coraggiosissimo, si spinge a dire in generale che «bisogna stare attenti a non far star male le mogli, quando ci sono figli». Ignazio La Russa, invece, confessa che «si vergognerebbe al solo pensiero di fare dichiarazioni al riguardo» . Il dettaglio, da solo, chiarisce tutta l’eccezionalità della giornata.

l’Unità 4.5.09
Palazzo Grazioli. Tra piatti e bacetti
Una festa tra le tante. Cinquanta coperti a tavola perché al padrone piace
così. E molte donne giovani, sorridenti. E ripagate da gioielli e collane
di Riccardo De Gennaro


I coperti sono sempre cinquanta. È un numero che probabilmente piace al Presidente del Consiglio, lo considera forse congruo per qualunque occasione, una riunione politica, un incontro d'affari, una festa.
La tavola è situata al centro di un bellissimo salone, come quelli dei ristoranti di lusso, ma si trova a Palazzo Grazioli, l'abitazione privata di Berlusconi di fronte a Palazzo Venezia. Vuota, la sala fa un po' impressione, soprattutto quando gli invitati sono quattro o cinque e naturalmente si domandano il perché dei restanti coperti.
Non è considerato un problema non arrivare a occupare tutti i posti, ma - si sa - l'attuale Presidente del Consiglio è anche uomo di fantasia, difficile non immaginare qualche sorpresa.
Per avere la certezza che quella sera il premier non ha alcuna intenzione di parlare di politica o d'affari basta attendere qualche minuto.
A un certo punto, infatti, si spalancano le porte ed ecco Berlusconi, accompagnato dal fido menestrello Apicella e scortato da una cinquantina di fanciulle. Sono tutte intorno ai vent'anni, sono poco vestite e adoranti al punto da intonare immediatamente l'inno personale del padrone di casa: «Meno male che Silvio c'è!». Silvio, tuttavia, non vuole essere soltanto spettatore, ma protagonista.
Come sempre. Eccolo allora afferrare il microfono che sta a centro tavola e ricambiare l'omaggio con alcuni stornelli, accompagnato dal simpaticissimo Apicella. Sono le canzoni da osteria, dal doppio senso incorporato, che lasciano un po' sbigottiti alcuni tra i presenti.
Le ragazze sembrano incantate da tanta bravura, ridono, scherzano tra loro e non nascondono la gioia per una serata che sarà sempre tra i loro migliori ricordi. Terminati gli stornelli, il presidente del consiglio, che forse anche per questo qualcuno definisce l'Imperatore, non ha difficoltà nell'andare incontro alle ragazze festanti, dare un bacetto a questa e una carezza a quella, invitare la giovane che sul momento ispira maggiormente i suoi sentimenti a sedergli sulle ginocchia. D'altronde, non mostra grande appetito.
Il Presidente del Consiglio, infatti, si limita a una forchettata sola, una di numero. Poi più nulla. Eppure il cibo è ottimo. I camerieri, che indossano rigorosamente guanti bianchi, sembrano un po' svogliati e servono le ragazze quasi controvoglia: anziché appoggiare delicatamente le portate quasi le lasciano cadere. E poi non sembra loro affatto interessare se si tratti di aspiranti soubrette o future eurodeputate.
Chiunque siano, infatti, saranno premiate in una misura di gran lunga superiore di quanto sia retribuito il lavoro dei domestici: a fine cena, i valletti entrano ancora una volta con i vassoi d'argento e porgono ad ogni ragazza un gioiello, una collana, un braccialetto. Le fanciulle saltellano, lanciano gridolini, ringraziano il loro generoso anfitrione, sebbene nessuna possa ancora permettersi di chiamarlo "papi".
Forse più avanti.
Questa storia sembra una fiaba, ma non è una fiaba: mi è stata raccontata da una persona che l'ha vissuta e che, comprensibilmente, preferisce rimanere nell'anonimato.

l’Unità 4.5.09
Il vizietto di Papisilvio
di Silvia Ballestra


Sul divorzio del secolo (Veronica versus Silvio, una guerra in cui non si faranno prigionieri), niente sconti, niente trucchi e niente inganni. Come assidue tricoteuses sotto la ghigliottina, vorremo sapere tutto, vedere tutto, commentare tutto. Cattiveria? Macché! È il sacrosanto contrappasso che papi Silvio deve pagare. Non è stato forse lui ad abolire il privato? Non è stato forse lui negli ultimi quindici anni (e più), da regnante, a fare della vita privata un semplice ed efficace spot per il potere pubblico? Ricco nella vita e quindi bravo per forza a guidare un paese. Bravo con il Milan e quindi vincente per forza. Lumacone con le ragazze e dunque supergiovane a oltranza anche se va verso gli “ento”. Coi capelli, senza capelli, con bandana, senza bandana, con terremoto, senza terremoto. Tutto, ma proprio tutto, è stato al servizio del potere. Editore e padrone di tutto quel che di più raccapricciante si può immaginare nel campo della pornografia dei sentimenti, spiattellati davanti a tutti proprio perché privati. E Stranamore, e C’è posta per te, e Verissimo, e Chi e altro ancora. Che non si azzardi, papi Silvio, ad appellarsi alla privacy! Non può per il semplice motivo che la privacy per lui è solo un consiglio per gli acquisti, e quello che c’era da acquistare era lui: Silvio primo, il magnifico. Bene. Ora siamo tutt’occhi e tutt’orecchie. Anche i ciechi e i sordi capiranno finalmente cosa vuol dire controllare i media. Lo capiranno quando vedranno dispiegarsi in tutta la sua potenza il linciaggio mediatico dell’ex consorte, ora nemica in tribunale. Lui ha già cominciato, chiamandola “la signora”, alcuni zelanti direttori hanno già ubbidito, chiamandola “velina ingrata”. Ora il gioco si fa duro. Abbiamo pagato (carissimo) il biglietto, e ora vogliamo lo spettacolo. Buona visione.

Repubblica 4.5.09
La parola fine detta in pubblico
di Natalia Aspesi


Dire basta a un matrimonio come il suo potrebbe scatenare una guerra più dura del più duro dei divorzi.
Veronica Lario ha deciso di spezzare il lungo legame con l´uomo che nel nostro paese è il più ricco, il più potente, il più invidiato, il più temuto, il più servito, il più amato, colui che ad ogni evento, con ogni gesto, parola, ammicco, sorriso, suscita simpatia, passione, consenso, al punto di aver cambiato l´anima degli italiani, o di essere diventato il magico specchio di ciò che gli italiani non sapevano di essere.
Nessuna persona che affronta un divorzio difficile, per difendere le sue ragioni e distruggere quelle dell´avversario, ha a sua disposizione non solo una moltitudine di potenti avvocati che siedono anche in Parlamento, ma anche tutte o quasi tutte le televisioni e uno sbarramento di giornali pieni di inventiva nella sottomissione, nella menzogna e nella crudeltà. La signora Lario lo sa, e forse anche per questo ha aspettato tanto, o come gli rimproverano le anime belle, anche troppo. Lei quel marito che l´ha molte volte pubblicamente umiliata, lo conosce bene, e forse ha le sue ragioni per temerlo. Ma è finalmente riuscita a reagire e a decidere, proprio quando si è sentita «come davanti a un plotone di esecuzione qualche secondo prima della fucilazione»: cioè quando un quotidiano si è sentito autorizzato a pubblicare fotografie vecchie di trent´anni della giovane attrice Veronica, apparsa discinta (come capita anche alle attrici più grandi) sui palcoscenici, recitando in una commedia di Crommelynck. Un´offesa così volgare non all´attrice di un tempo fiera della sua bellezza da Venere, ma alla moglie del premier, alla signora Berlusconi, era un chiaro e pilotato messaggio di minaccia, l´avvertimento che se non si fosse tappata la bocca (così si dice tra gente di mondo) la guerra sarebbe stata terribile: e che sarebbe stata vinta da chi sa che mai gli capiterà di perdere.
Ma cosa aveva osato fare la signora solitamente invisibile e muta, tanto da trovarsi circondata da un commando pronto a far fuoco su di lei sino a sterminarla? È probabile che come moglie, sapesse di non poter più sperare in un marito e padre meno pubblicamente intemperante, né di riuscire ad aiutarlo a comportarsi in modo più adatto al suo ruolo istituzionale; invano aveva sollecitato i cortigiani attorno a lui a tentare di convincerlo ad assumere modi più consoni a un ultrasettantenne, ma perché farlo se è così che gli italiani lo vogliono e lo premiano. L´impressione è che la signora Lario non abbia più taciuto, sia pronta, come pare abbia detto, «a mettere la testa sotto la lama della ghigliottina», perché da un punto di vista non familiare ma civile, tutti gli ultimi episodi che hanno coinvolto il premier le sono sembrati inaccettabili: quella ragazzina frequentata minorenne e che chiama il capo del governo "papi", quell´idea che la politica conti così poco da poterla affidare a ragazze che pur vantando due lauree e cosce sode, al Parlamento europeo avrebbero dovuto misurarsi magari con bruttoni e bruttone di altri paesi, però di lunga e raffinata pratica politica. Le è sembrato impossibile che il paese restasse muto davanti a queste storie; anzi, non solo muto, ma in buona parte contentissimo, ammirato, connivente, oppure solo indifferente, estraneo.
Forse è retorica, ma chiedendo il divorzio, osando affrontare un futuro forse difficilissimo, opponendosi al sovrano, la signora Lario ci sta dicendo, in solitudine, che il re è nudo. Però si sa, nessuno è in grado di sorprendere come il premier: potrebbe anche immaginarsi nei panni dell´amico Sarkozy, che piantato dalla moglie e per di più per un altro uomo, seppe comportarsi da Presidente trattenendo gli ovvi veleni, per poi ritrovarsi pochi mesi dopo sposo felice della celebre Carla Bruni, bella, ricca, elegante, intelligente, di grandi modi: certo non diciottenne né velina né bisognosa di essere premiata con scranni parlamentari, ma insomma ognuno, anche tra i capi di governo, ha i suoi gusti.

Repubblica 4.5.09
Veronica divide e imbarazza le donne del Pdl Prestigiacomo: "Silvio ha bisogno della famiglia"
La Santanchè critica la moglie del premier, la Perina parla di "guerra". E la Bongiorno rivela il disagio per le veline candidate
di Giovanna Casadio


Bertolini incredula, assolutoria la Giammanco: si tratta di una storia d´amore finita

ROMA - La signora divide. Ma in definitiva, il consorte può contare sull’indulgenza, o sul silenzio, delle "sue" donne in politica. Tra le donne del centrodestra circola qualche imbarazzo? «Imbarazzo per tutto quello che è accaduto prima, le candidature alle europee, le veline eccetera. Ma i due piani vanno tenuti distinti, sulla separazione Lario-Berlusconi francamente non me la sento di fare un commento pubblico», si trincera dietro il riserbo professionale Giulia Bongiorno, avvocato, Pdl-provenienza An, una che solitamente non ha peli sulla lingua. Però qui, sul divorzio di Berlusconi e soprattutto su quell´accusa, a quanto pare gettata lì da Veronica di non poter restare accanto a un uomo che «frequenta minorenni» - s´intende la napoletana Noemi Letizia - la prudenza impera. Stefania Prestigiacomo per dire, che dalla signora Berlusconi è stata citata come esempio di donna che dà lustro alla politica al pari di Nilde Iotti, del Capo si limita a dire: «Lui ha bisogno della famiglia. Spero che non si separino, per Berlusconi la famiglia è un grande rifugio».
Un happy end del tutto improbabile. Daniela Santanché prevede che «ne vedremo di peggio», e attacca alzo zero la signora: «Ha fatto un danno agli italiani, perché Berlusconi piaccia o no è il presidente del Consiglio. E se non altro il ruolo di madre avrebbe dovuto impedirle di dare il padre dei suoi figli in pasto agli avversari». A parteggiare per Veronica è Maretta Scoca, avvocato del diritto di famiglia, che però le rivolge un invito: «Eviti di ricorrere agli addebiti, alle prove sui doveri di fedeltà violati», far volare gli stracci non giova. Quanto questo divorzio, che sta facendo il giro del mondo, sia lontano da altre celebri crisi familiari, lo segnala Margherita Boniver, sottosegretario agli Esteri: «L´Italia è severa nei confronti delle mogli dei leader mentre c´è una grande indulgenza verso le inclinazioni e le predilezioni al maschile». Niente a che vedere con Sarkozy e Cecilia. Qui da noi, ammette Boniver, c´è un retrogusto amaro per la bagarre su veline, troniste, letteronze, «il ciarpame politico» di cui ha parlato Veronica. Un premier che si circonda di favorite? Incredula, Isabella Bertolini. Assolutoria Gabriella Giammanco, a cui Berlusconi a inizio legislatura inviò un bigliettino comprensivo («Gabri e Nunzia, grazie ma potete alzarvi» dagli scranni parlamentari). Ora Gabri dice: «Si sa com´è Berlusconi. Geniale. Il divorzio è una storia d´amore finita». Né il premier/papi la turba: «Sarà andato da quella ragazza perché siamo in campagna elettorale». Flavia Perina, direttore del Secolo d´Italia, ha pubblicato un articolo sul maschilismo dalle parti del Pdl, però sul divorzio:«È una guerra, e si sa à la guerre comme à la guerre». Tace Giorgia Meloni: «Io lavoro, queste cose sono personali».

Repubblica 4.5.09
Il premier avvertito di notte da Ghedini "Se vuole così, ora saremo durissimi"
Berlusconi ieri agli amici più cari ha confidato "dirò sì al divorzio"
di Claudio Tito


Berlusconi: sono addolorato, ma darò il divorzio a Veronica
Abbiamo problemi sulla Rai e su molto altro. Adesso poi». Questa, però, è probabilmente solo la prima puntata di una telenovela ancora molto lunga.

ROMA. Il telefono squilla poco dopo le 22. A Palazzo Grazioli non c´è più nessuno. Silvio Berlusconi è solo. È sabato sera, 2 maggio.
Tutto il suo staff è andato via. Il Cavaliere risponde sulla linea privata. All´altro capo del telefono c´è Niccolò Ghedini, parlamentare del Pdl, suo avvocato di fiducia. «Mi ha appena chiamato Veronica - scandisce -. Ha detto che chiederà il divorzio. Non vuole parlarti. Ha avvertito che leggeremo la sua scelta domani su "Repubblica"». Il tranquillo week-end di paura si è aperto così per il premier. E si è chiuso con un annuncio agli amici più fidati: «Dirò sì al divorzio». Solitamente abituato ad attaccare, questa volta il premier viene schiacciato sulla difensiva. Sapeva che la moglie, Veronica Lario, dopo la dichiarazione all´Ansa di mercoledì scorso non si sarebbe fermata. Per questo aveva evitato con cura di tornare a Milano riorganizzando la sua agenda con appuntamenti a Napoli, a l´Aquila e Roma. Un suggerimento arrivato dalla fida segretaria Marinella. Ma non si aspettava un precipitare degli eventi. «Ne sei sicuro? O è la solita sparata?», chiede il "Dottore". «Ho provato a invitarla alla calma, le ho detto "parliamone" - racconta ancora Ghedini al suo "cliente" con un tono di voce gelido -. Ma lei mi ha risposto che ne possiamo parlare con il suo avvocato, una donna. Mi ha dato il nome e i numeri di telefono per contattarla». Del resto, la "signora" dopo il comunicato di mercoledì scorso e soprattutto dopo le foto osé pubblicate da "Libero", aveva fatto sapere che la misura era colma. «La vicenda non può più chiudersi solo con un´intervista alla stampa».
Intenzioni comunicate attraverso i soliti "ambasciatori", come Ghedini appunto. Tra moglie e marito, invece, nemmeno una parola. Neanche un sms. Eppure Berlusconi era convinto che la bufera sarebbe prima o poi passata. A Napoli, durante il pranzo del primo maggio in Prefettura, con i commensali rimasti rigidamente in silenzio aveva sdrammatizzato. Solo qualche battuta acida per ridimensionare la protesta di Veronica. Forse perché in gioco restano fattori che poco hanno a che fare con i rapporti sentimentali. I futuri assetti aziendali e l´eredità dell´impero imprenditoriale. Basti pensare che giovedì scorso, lo stesso Ghedini si mostrava piuttosto sicuro con alcuni parlamentari del Pdl. Convinto che la protesta della consorte presidenziale si sarebbe fermata di fronte ad un muro invalicabile: «Sull´eredità stiamo raggiungendo un accordo.»
Motivo in più per far scatenare la furia del premier. Nella prima telefonata ha subito scelto come difensore lo stesso Ghedini, assistito dalla sorella insigne divorzista. «Dobbiamo essere durissimi e inflessibili», è stata la sua raccomandazione. Ma soprattutto si è messo immediatamente in moto per studiare tutte le possibili contromosse dal punto di vista della comunicazione.
E già, perché al di là del «dolore» per un legame che si è esaurito dopo 29 anni, l´inquilino di Palazzo Chigi è preoccupato per le possibili ripercussioni politiche ed elettorali. Tant´è che ieri mattina, prima di partire per Arcore, ha convocato a Via del Plebiscito Gianni Letta e Paolo Bonaiuti. Per ora la parola d´ordine è «silenzio».
Con i fedelissimi si è sfogato. «Ogni volta che deve lamentarsi di qualcosa - ha attaccato - si mette a parlare con i giornali e non con me. Mi accusa di averla messa davanti al plotone di esecuzione, ma io con quella roba di "Libero" non c´entro niente».
In effetti le foto pubblicate dal giornale di Vittorio Feltri hanno sorpreso pure il Cavaliere. Nei confronti della «signora», però, il giudizio è pesantissimo. Bordate sparate alzo zero. «Mi ha detto che vado con le minorenni. Capite? Una cosa incredibile. Si dovrebbe vergognare. Lo ha fatto per mettermi i figli contro». Senza tenere conto, a suo giudizio, anche delle condizioni di salute di uno di loro. Ossia di Barbara che aspetta il secondo figlio ed è ricoverata in ospedale. «Questo sarebbe il modo "dignitoso" di comportarsi?». Un gelo che adesso non sembra essersi mai sciolto dopo la lettera inviata nel 2007 a Repubblica. «Siete solo voi - si lasciò scappare con un giornalista dello stesso quotidiano - che la descrivete come una santa». Frase ripetuta in questi giorni. Con un interrogativo in più. «E se non si ferma qui?». Il dubbio cioè che la battaglia mediatica impostata dalla Lario venga combattuta fino alla fine. Non più con lettere o mail ai giornali. Ma con interviste in tv. Con testimonianze nei programmi di approfondimento più pugnaci. Con resoconti di vita familiare ancora più dettagliati. Rischi che a Palazzo Grazioli stanno già valutando. Anche perché allo studio ci sono pure i risvolti più immediati. Una volta tornato a Villa San Martino le riunioni si sono concentrate sui timori che la "sintonia" instaurata con il paese venga incrinata. Sui rapporti con il Vaticano intaccati dal secondo divorzio. Sul suo tavolo c´è già uno studio che mette in bilico due milioni di voti "cattolici". Potenziali elettori che potrebbero optare per il "non voto" alle prossime europee. Per non parlare di un´intesa sempre più traballante con Gianfranco Fini. I due avevano un appuntamento per giovedì scorso. Il premier lo ha annullato. E non a caso. Al presidente della Camera addossa una quota consistente di responsbailità per quel che sta accadendo. Secondo Berlusconi, l´editoriale contro il «velinismo» di "Fare Futuro", la fondazione che fa capo proprio a Fini, è stato uno degli elementi che ha fatto scatenare la signora Lario. «Con Fini non ci parliamo più da tempo.

Corriere della Sera 4.5.09
Parla il premier dopo l’annuncio della moglie di voler rompere il matrimonio
«E’ Veronica che deve scusarsi»
Berlusconi: so da chi è sobillata, il divorzio potrei chiederlo io
di f. de b.


Veronica deve chiedermi scusa. So da chi viene sobillata, il divorzio potrei essere io a chiederlo
A quella serata a Napoli ho fatto le foto assieme ad ospiti, camerieri e cuochi. E le ho date a «Chi»
«Veline in lista? No, sono laureate Ecco la verità sulla festa di Noemi»
«Lei è caduta in un tranello, i figli sono solidali con me»

Arcore, domenica sera. Una domenica molto diversa da tutte le al­tre. Silvio Berlusconi è amareggiato. «Sono indignato». Ha letto, con sorpre­sa, dell’intenzione di sua moglie di di­vorziare. Prima, afferma, non ne sapeva nulla. «Veronica è caduta in un tranello. E io so da chi è consigliata. Meglio, so­billata. La verità verrà fuori, stia tran­quillo ».
Presidente, e lei pensa che si possa, come in altre occasioni, riconciliare un rapporto che dura da quasi trent’anni, di cui diciannove di matrimonio? «Non credo, non so se lo vo­glio io questa volta. Veronica dovrà chiedermi scusa pubbli­camente. E non so se basterà. È la terza volta che in campagna elettorale mi gioca uno scher­zo di questo tipo. È davvero troppo».
E i figli? Non dovete pensare ai tre figli, e poi c’è un altro ni­potino in arrivo? «I figli sono solidali con me». «Sa come chiamo io tutto quello che è accaduto in questi giorni? Crimi­nalità mediatica». Non esageri, presidente, Repubblica e Stam­pa hanno fatto semplicemente il loro lavoro. E non le dico la mia sofferenza. No, sostiene il Cavaliere che c’è un disegno. Una manovra per metterlo in difficoltà ed esporlo persino al ridicolo, proprio nel momento in cui la sua popolarità è al massimo. E sua moglie ne sa­rebbe diventata complice in­consapevole. «Veronica è sem­plicemente caduta in un tranel­lo mediatico». Sì, ma le veline le avete messe in lista e poi, do­po la lettera di sua moglie al­l’Ansa («Ciarpame senza pudo­re, io e i miei figli siamo vittime...») le avete tolte? «Guardi, direttore, voglio dirlo una vol­ta per tutte, e chiaramente: non avevamo messo in lista nessuna velina e quelle tre che sono state escluse all’ultimo minuto erano bravissime ragaz­ze, con ottimi studi. Altro che veline. Veronica ha creduto al­le tante cose inesatte scritte sul­la stampa, purtroppo».
E le tre ragazze entrate effetti­vamente nelle liste delle candi­dature per le europee? «Lara Comi ha due lauree, ha coordi­nato i giovani del Pdl in Lombardia, è dirigente della Giochi Preziosi. Mai andata in tv. Licia Ronzulli è una manager della sanità di altissimo livello, è re­sponsabile delle professioni sa­nitarie e delle sale operatorie del Galeazzi; l’imprenditore della sanità Giuseppe Rotelli la stima molto, va due volte l’an­no in Bangladesh. Barbara Ma­tera è laureata in scienze politi­che, me l’ha consigliata Gianni Letta, è la fidanzata del figlio di un prefetto suo amico. Ecco, ha fatto una parte in Carabinie­ri 7 su Canale 5, ma mai la veli­na. Insomma, mi creda, è una montatura. Parliamo di tre ra­gazze in gamba su settantadue candidati. E che male c’è se so­no anche carine? Non possia­mo candidare tutte Rosy Bin­di...».
Presidente, e poi c’è la fe­sta napoletana della giovanis­sima Noemi Letizia, alla qua­le lei ha partecipato a sorpre­sa. «Anche qui sono state scrit­te cose inesatte. Le racconto come è andata veramente.
Quel giorno mi telefona il pa­dre, un mio amico da tanti an­ni. E quando sa che in serata sarei stato a Napoli, per controllare lo stato di avan­zamento del progetto per il termovalorizzatore, insiste perché passi almeno un attimo al compleanno della figlia. So­lo due minuti, mi assicura. La casa è vicina all’aeroporto. Mi faresti un grande regalo. Non molla. Io non so dire di no. Era­vamo in anticipo di un’ora e ci sono andato. Nulla di strano, è accaduto altre volte per com­pleanni e matrimoni. Pensi che ho fatto le fotografie con tutti i partecipanti, i camerieri, persi­no i cuochi. Le pubblicherà Chi sul prossimo numero perché me le ha chieste quel diavolo di Signorini». D’accordo, pre­sidente, ma perché quella ragazza Noemi la chiama papi? «Ma è un scherzo, mi volevano dare del nonno, meglio mi chia­mino papi, non crede?».
Quell'episodio, dice Berlusconi, è stato mon­tato ad arte. E Veronica avrebbe creduto a mol­te delle versioni, false, sulla serata napoleta­na, domenica 26 aprile, conclusa con un incon­tro con Aurelio De Lauren­tiis. Quella sera il suo Napo­li aveva battuto l’Inter, fa­cendo un favore al Milan nel­l’inseguimento impossibile alla capolista. «Ho ringraziato De Laurentiis che si è fatto per­donare a metà l’eliminazione dalla Champions’ League che ci inflisse, battendoci, nello scorso campionato».
Amareggiato e deluso, Silvio Berlusconi non pensa che que­sta volta sia possibile una ri­conciliazione. Arcore e Mache­rio, dove risiede la moglie, so­no vicine. Gli amici comuni se lo augurano. Basterebbe poco. Una spiegazione franca, come succede fra coniugi. Ma nella domenica quasi estiva di Arco­re l’aria è molto diversa dalle al­tre volte. E il Cavaliere è offe­so. Chi lo conosce bene dice che questa volta, per ricon­quistare Veronica, non andrà di sorpresa al suo compleanno a Marrakesh, avvici­nandola vestito da berbero per poi sve­larsi di colpo con un bellissimo gioiello in re­galo. Ma non si sa mai. Il nostro modesto auspicio è che ciò avvenga. Magari in forma del tutto privata.

Corriere della Sera 4.5.09
«L’ho aiutato fino all’ultimo ma ora ha superato i limiti»
Veronica: che futuro ha un Paese che cerca soldi facili in tv?
di Maria Latella


Ho contribuito a costruire il suo rapporto con i figli e di questo sono contenta
I sondaggi tutti per lui mi fanno piacere. Basta con la scemenza di me manovrata dalla sinistra

Chissà quanti ricordi riaffiorano, in queste ore, nella mente di Veronica Ber­lusconi. I più dolorosi, forse, non sono ancora ricordi, ma delusioni recenti. Leggere che suo marito era stato alla fe­sta di compleanno di tale Noemi, diciot­to anni appena compiuti, sarà stato un dolore o una delusione? Il patto siglato nel 2007 dopo la lettera inviata a Repub­blica è andato in frantumi in un mo­mento: la giovane Noemi che racconta «Lo chiamo papi, vado a trovarlo, a Ro­ma, a Milano» e Veronica che vede con­fermata quella «mancanza di rispetto» nei suoi confronti per la quale nel 2007 aveva chiesto pubbliche scuse. In con­fronto ai giorni del 2007, però, oggi c’è qualcosa di più. Sembra a Veronica che la mancanza di rispetto sia una questio­ne più generale, che questo Paese man­chi di rispetto anche nei confronti di se stesso. Alle amiche racconta che l’Italia del momento è uno specchio che riflet­te brutte cose: genitori pronti a chiude­re tutti e due gli occhi purché la figlia diventi una Velina, ragazzi convinti che la vita valga solo se partecipi al Grande Fratello.
La decisione è stata presa mercoledì mattina. E ora è il momento dei ricordi che fanno male. Gli altri, quelli belli, fin quando si sta insieme contano relativa­mente. Solo mentre ci si separa struggo­no e distruggono anche le più coriacee: provi a cacciarli indietro, scopri che ci riesci, sì, ma solo se non freni le lacri­me. Un paio di ricordi felici me li aveva raccontati proprio lei, Veronica, mentre lavoravamo al libro.
Quando, nei primi anni Ottanta, lui la portava al mare di domenica e insie­me canticchiavano quella canzone che le piaceva tanto: «Che domenica bestia­le, la domenica con teeee». La nascita di Barbara, figlia fortemente voluta dopo il dolore di un aborto terapeutico. La co­perta di lana che Silvio le portò a Roma (erano ancora molto meno che fidanza­ti) perché al telefono lei gli aveva confi­dato di aver freddo. Il travestimento da berbero, a Marrakesh, tre anni fa, quan­do erano già una coppia distante e cio­nonostante lui riuscì a sorprenderla e a farla piangere perfino, presentandosi inatteso alla festa per i suoi 50 anni. I ricordi felici, le emozioni affiorano sem­pre nei giorni in cui si sancisce la fine di una storia. Chi ci è passato lo sa. Gli altri, quelli abituati a valutare l’annun­cio di un divorzio col metro degli avvo­cati e delle star di Hollywood, cinica­mente se ne fregano. Chi si appassiona al pettegolezzo si impegnerà ora nel so­lito conteggio del dare e dell’avere, gua­dagni e perdite nel divorzio dell’anno, quanto «ci perde lei», «quanto guada­gna lui» e vai con la valutazione dell’ef­fetto sondaggi, impegnati tutti nell’at­tribuire al premier un consenso al qua­le nessuno arriva, neppure Obama.
Trattandosi di ricchi e famosi, natu­ralmente, nessuno crede e nessuno cre­derà che i due protagonisti di questa storia soffrano, almeno un po’ e ciascu­no in proporzione alla vita che si è scel­to: Silvio Berlusconi potrà, in questo momento, consolarsi con l’ammirazio­ne che milioni di italiani, il 76% della popolazione sondata (addirittura), gli tributano. Una consolazione (lo sanno bene le star di Hollywood) capace di al­leggerire le tensioni, se non il dolore. Veronica, da oggi ufficialmente ex first lady, potrà consolarsi sapendo che i tre figli, ai quali ha dedicato i primi 52 anni della sua vita, non le rimproverano né la decisione né il modo in cui l’ha gesti­ta.
Sono con lei, i tre figli, a patto che il padre venga rispettato quanto la ma­dre, in tutta questa storia. Luigi, Barba­ra ed Eleonora hanno con lui un legame vero perciò quando Berlusconi dice «i miei figli mi amano» dice la verità. «E io di questo sono contenta, ho contribu­ito a costruire il loro rapporto e l’ultima cosa che vorrei fare è danneggiare mio marito — ha ripetuto Veronica ai pochi che, oltre al suo avvocato, hanno potu­to parlarle —. Non l’ho mai danneggia­to per trent’anni, ho solo cercato di aiu­tarlo, fino all’ultimo. Se i sondaggi so­no oggi tutti per lui questo non può che farmi piacere. Nessuno potrà dire che con la mia decisione politicamente gli creo un problema. La smetteranno, for­se, con la scemenza di Veronica mano­vrata dalla sinistra».
Come se fosse facile, poi, manovrare una come lei.
E il resto, quel che interessa ai pette­goli? Si arrangino con le leggende, così come si sono arrangiati in questi anni. Quelli che non vedono oltre il dollaro e l’euro (e perciò ripetono, come in un di­sco rotto, «divorzia per la robba, per l’eredità»), non sanno che, separando­si, probabilmente Veronica Berlusconi rinuncerà a quel 25% del patrimonio che, in quanto moglie, le sarebbe spetta­to alla morte del marito. Del resto, es­sendo sposata con uno destinato all’im­mortalità, la rinuncia si presenta tutto sommato teorica.
In ogni caso, nel raccontare la storia di quei due, Silvio e Veronica bisognerà piuttosto ricordare che la separazione sarà anche per loro un vero dolore, per dirla con Battisti. Basta riavvolgere il film dei ricordi, per stare male. Chi ci è passato lo sa. Sa che quelle sensazioni dolorose sbiadiranno, pian piano, ma mai del tutto. Ripensando al giorno del­l’addio, anche vent’anni dopo, può capi­tare di aver voglia di piangere.
E allora eccola, la nostra prima cop­pia d’Italia che così di rado abbiamo vi­sto in coppia. Per l’ultima volta insie­me, nel ricordo di lui («Quando l’ho vi­sta la prima volta, a teatro, sono rima­sto senza parole. Era bellissima») e nei ricordi di lei: «La prima volta l’ho incon­trato a Milano, a una cena. Era il padro­ne di casa e con le sue ospiti si compor­tava come se fosse single, invece aveva moglie e due bambini. Sono sicura di averlo conosciuto in quell’occasione, ma lui nega, non se lo ricorda» mi rac­contò Veronica all’epoca in cui racco­glievo materiale per il libro. Chi, anche di recente, aveva avuto occasione di ve­derli insieme, non poteva non ricono­scere in quei due il rapporto di chi si conosce fino in fondo all’anima. Pun­zecchiature reciproche ma, si sarebbe detto, in fondo affettuose. Tra coniugi che sanno, volendo, dove andare a para­re. Ogni tanto, si chiamavano amore.
«Da quando è nato Alessandro, an­che mia moglie mi vuole più bene» raccontava il premier radioso per la ritro­vata pace familiare. L’estate scorsa, pur di farla sorridere una sera in cui era un po’ giù, le aveva perfino offerto il sacri­ficio supremo, la rinuncia al prediletto ferragosto a Villa Certosa, la sua Disney­land: «Resta tu in Sardegna con Alessan­dro, vado via, vado ad Antigua». A dirlo così, sembra la battuta di un film di Na­tale, Christian De Sica e Neri Parenti, ma chi conosce Berlusconi sa quanto tenga al suo Ferragosto coi fuochi d’arti­ficio, le ballerine, l’amato chitarrista na­poletano.
Fino a poche settimane fa, insomma, la coppia sembrava avviata verso una sia pur turbolenta sopportazione. Saba­to scorso, per dire, Veronica era stata in­vitata dal marito al concerto di Napoli, al teatro San Carlo. E ci sarebbe andata. E adesso? Adesso, lascia filtrare Vero­nica, il problema non è più suo. Il pro­blema è di chi accetta. «Bisogna spec­chiarci in questo Paese, vederlo per quello che è in realtà. Un Paese nel qua­le le madri offrono le figlie minorenni in cambio di un’illusoria notorietà. Un Paese in cui nessuno vuole più fare sa­crifici perché tanto la fama, i soldi, la fortuna arrivano con la tv, col Grande Fratello. Che futuro si prepara per un Paese così?».
Veronica in quello specchio non ci si trova. E vuole avere la libertà di dirlo.

l’Unità 4..09
I poveri votano Pdl
«È il Pd che deve rompere l’incantesimo»
Bruno Miserendino intervista Giorgio Tonini


Il senatore democratico sull’indagine Ipsos: ormai gli schieramenti
sono interclassisti, la Destra colpisce i ceti deboli ma appare come
loro paladina. Di Pietro? Sintomo del nostro malessere, non la causa

Ceti deboli, operai, precari, che preferiscono il Pdl al Pd. E astensionismo e voto di protesta in agguato. Non sarà una novità, anzi al Nazareno i dati erano già noti, però non fa piacere lo stesso. Quel sondaggio Ipsos, pubblicato con evidenza ieri dal Sole24ore, oltretutto il giorno in cui le cifre della crisi certificano la scarsa incisività del governo, racconta di una difficoltà, culturale e politica del centrosinistra e del Pd, che a un mese dalle elezioni sembra una montagna. Sconfortante? Giorgio Tonini senatore democratico, usa questa immagine: «Siamo di fronte a una bolla speculativa, ma quando la distanza tra la realtà e ciò che viene percepito si fa troppo grande, la bolla scoppia. Il Pd deve lavorare per farla scoppiare».
Sembrano andare inesorabilmente a destra ceti tradizionalmente di sinistra.
«Non sono dati nuovi in assoluto, è la dimostrazione che si va consolidando una tendenza allo sgretolamento dei blocchi sociali tradizionali: ossia entrambi gli schieramenti sono interclassisti, non c’è più il voto di classe. Quindi quando in una fase storica uno dei due schieramenti ha il vento in poppa, come ora lo ha il Pdl, è ovvio che prende consensi in tutte le categorie sociali. Al contrario il Pd risulta in affanno in tutti gli strati».
Ma stupisce che i ceti deboli diano il loro consenso a chi ha fatto poco per loro. Solo un problema di comunicazione?
«È un paradosso non nuovo: ricordiamoci che la destra americana ed europea degli anni scorsi ha impostato politiche chiaramente antipopolari, che spostavano ricchezza dal basso verso l’alto, riuscendo però a tenere alto il consenso anche nei ceti colpiti, con l’uso di altre politiche. Krugman ad esempio le chiama “armi di distrazione di massa”. In realtà si tratta di tutte le politiche che fanno leva sulla paura: gli immigrati, la sicurezza, con l’individuazione di nemici del popolo. Ma la realtà delle politiche del governo verso i ceti deboli sta tutta in due cifre: il taglio di 4 miliardi dell’Ici ai ceti medio alti, e i 400 milioni per la social card. Clamoroso: il governo è riuscito a dare la sensazione che si occupasse dei più poveri dopo aver dato dieci volte di più ai ricchi».
Anche tra i precari non va meglio...
«È chiaro che c’è un problema di comunicazione, ma non solo: anche alle ultime politiche, quando il Pd fece del precariato un elemento forte della sua campagna, la maggioranza di loro votò per il centrodestra. Noi dobbiamo fare come Obama, che è riuscito a imporre le questioni sociali e a evidenziare il carattere antipopolare delle politiche repubblicane. C’è però un problema di innovazione politica e programmatica. Quando Ichino ci dice che metà del mondo del lavoro non ha alcuna garanzia e l’altra metà è garantita, noi veniamo identificati come quelli che difendono i garantiti. O noi saremo in grado di riunificare il mondo del lavoro, o la parte senza tettoia guarderà alla Lega o alle favole di Berlusconi».
Siete calati anche tra gli autonomi dove c’erano stati segnali positivi.
«Vediamo la cosa in modo positivo. Le idee nuove del Lingotto avevano cominciato a far breccia, la semplificazione burocratica, il patto fiscale, la nostra poca convinzione ci ha fatto perdere terreno, ci dice quanto è importante riprendere quella linea».
Adesso le tasse aumentano, ma gli autonomi non si lamentano.
«È il problema».
Di comunicazione o di informazione?
«Entrambe le cose. Ad esempio: noi lavoriamo per le fasce deboli, eppure il nostro consenso diminuisce proporzionalmente al livello di istruzione dei cittadini. Tra quelli che leggono giornali e internet noi siamo in vantaggio, con quelli che come strumento informativo hanno solo la televisione aumentano le difficoltà».
Parte del disagio si esprimerà a favore dell’Idv.
«Di Pietro lo considero un sintomo del mostro malessere e non la causa. Quando il Pd è in sofferenza il nostro elettorato ci tradisce o con l’astensione oppure con liste vicine di protesta. Ma non serve prendere a calci il termometro se si ha la febbre. Per questo resto perplesso quando D’Alema chiede di rompere con l’Idv. Più rotti di così...Per me Di Pietro non è un avversario, quando il Pd è percepito in campo, il fenomeno si riassorbe».

Corriere della Sera 4.5.09
Cibo e politica Le diete, i menu del Gulag e i banchetti di Stato
Le ricette di Stalin per i sudditi felici
La «cucina rivoluzionaria» destinata ai cittadini modello
di Claudio Magris


«L’ harco (una minestra piccante del Caucaso) va in genere preparato con petto di manzo, ma quest’ultimo può essere sostituito anche con il petto di montone (...) Dopo che è passata un’ora, un’ora e mezza dall’inizio della bollitura, bisogna aggiungere la cipolla tritata, l’aglio pestato, il riso, le prugne acide, il sale, il pepe e cucinare il tutto ancora per 30 minuti. Stufare leggermente il pomodoro nel burro...».
Queste ed altre appetitose ricette, dal Plov o Pilaf all’uzbeka ai Bliny al­l’ucraina, non si trovano in una rac­colta qualunque, bensì in un testo «rivoluzionario» ovvero nel Libro del cibo gustoso e salutare, pubblica­to la prima volta a Mosca nel 1939 e ristampato, con ricche illustrazioni, più volte negli anni a cura dell’Acca­demia delle scienze mediche del­l’Unione Sovietica. Il libro, per espli­cita volontà di Stalin, doveva attesta­re la «Rivoluzione in cucina» e docu­mentare «la massima affermazione del costante progresso delle necessi­tà materiali e culturali della socie­tà » promosso dal Partito comuni­sta, coronando «la felice realizzazio­ne dei piani quinquennali» col «be­nessere, la felicità e la gioia di vive­re » procurati ai lavoratori e in parti­colare alle donne. Aureo libretto per noi, che potrem­mo permetterci di mettere nei nostri piatti il risultato di quelle succose ricet­te, e tragica beffa per milioni di affama­ti e denutriti cittadini sovietici di quegli anni, il Libro del cibo gustoso e salutare ci viene ora proposto da Ljiljana Aviro­vic (straordinaria traduttrice cui si devo­no non solo fondamentali versioni in croato di autori italiani, ma anche di au­tori quali Pasternak, Crnjanski o Bul­gakov in italiano) e interpretato in con­troluce alla terribile storia sovietica di quegli anni.
A quel ricettario collaborano scienziati e intellettuali di diverse di­scipline; «l’ingegnere di anime» — ossia lo scrittore e l’intellettuale che secondo Stalin deve produrre il nuo­vo uomo della società comunista— non trascura la tavola, in cui si rige­nera non soltanto il corpo, ma an­che lo spirito, il senso cordiale del vivere. «Un uomo rinasce vivendo fi­no in fondo la vita»: è Stalin ad affer­marlo, brindando generosamente ad una suntuosa cena il 26 ottobre 1932 a casa di Gor’kij, davanti a lette­rati e scrittori che Gor’kij ha il com­pito di formare, educare, plasmare e irreggimentare secondo le diretti­ve del Capo supremo, quella sera buongustaio gioviale e soddisfatto di vedere che la fabbrica di intellet­tuali di regime sta funzionando a do­vere. I buoni pranzi hanno sempre aiutato i signori e i loro favoriti a do­minare chi ha lo stomaco vuoto.
In quell’ottima cena si program­ma infatti un viaggio collettivo d’istruzione di 120 scrittori scelti da Gor’kij per andare a visitare, in quat­tro vagoni del treno speciale «Frec­cia Rossa», il Gulag, i penitenziari di «rieducazione mediante il lavoro fisico» disseminati lungo il canale Bjelomor, costruito con l’immane e spaventoso lavoro forzato dei carce­rati e con la loro ecatombe. Bjelo­mor, il libro collettivo scritto da 36 autori sotto la guida di Gor’kij, esce nel 1934. Questa apologia della schiavitù riporta un menu quotidia­no del detenuto, che a Ljiljana Aviro­vic appare assai improbabile: «Mez­zo litro di brodo di cavolo fresco, 300 grammi di polenta con carne, 75 grammi di cotolette di pesce con salsa, 100 grammi di pasta sfoglia con cavolo bianco». Cibo e menu so­no peraltro ben presenti a questi scrittori in gita scolastica; Saša Avde­enko, giovane e di robusto appetito, scrive: «Abbiamo mangiato e bevu­to quello che abbiamo voluto e quanto abbiamo potuto: salsicce af­fumicate, formaggi, caviale, frutta, cioccolato, vino, cognac, senza paga­re niente».
Nel sapido e doloroso saggio in­troduttivo di Ljiljana Avirovic il Li­bro del cibo gustoso e salutare viene letto in tragico contrappunto a Bjelo­mor.
Quel libretto di cucina è una minima nota a piè di pagina della storia dell’Unione Sovietica e del tra­gico pervertimento e/o fallimento dei suoi proclamati valori. Pensare alla tavola, in cui cibo e vino posso­no diventare non solo nutrizione ma comunione di famiglia e di ami­cizia, è un vero pensiero rivoluziona­rio, che ha in mente una vita libera­ta, vissuta lietamente in barba al tempo che passa. Forse Lenin pensa­va a questo, quando diceva che una buona madre di famiglia poteva es­sere una commissaria del popolo, perché quelle virtù femminili, libe­rate dall’oppressione, sono già arte di vivere e sapienza politica.
C’è una profonda nobiltà nel proget­to di liberare, con un’adeguata organiz­zazione del lavoro, la donna dalle fati­che domestiche che la soffocano, con­sentendole di essere madre che dona ci­bo e amore ma è libera di coltivare altri interessi come gli uomini. La Rivoluzio­ne, in teoria, non vuol togliere alla Mar­ta evangelica l’amore che la spinge ai fornelli, ma dovrebbe darle la possibili­tà di non essere schiacciata da quel la­voro e di ascoltare, come Maria, la Paro­la. Negata brutalmente dalla realtà so­vietica, questa visione contiene in sé un reale, anche se in quel caso meramente utopico, ideale di redenzione. È vero che si «rinasce vivendo fino in fondo la vita» e tanto meglio se accompagnati da un buon bicchiere; il tragico è che a dire quelle parole, quella sera d’ottobre del 1932, davanti a una tavola di schiavi travestiti da ingegneri di anime, è il compagno Stalin, che sta opprimendo, affamando e sterminando milioni di uo­mini.
Anche in tempi difficili i potenti mangiano bene. Il Libro del cibo gu­stoso e salutare riporta il menu of­ferto da Stalin il 21 settembre 1944 a Tito, «un gigante e un dandy», lo de­finisce Bettiza, e sfacciato gaudente di cui Francesco Battistini ha ricor­dato sul «Corriere» la dolce vita. Quella cena offertagli da Stalin com­prendeva caviale rosso, storione e murena marinati, cetrioli legger­mente sottaceto, gulasch alla geor­giana nel vino con gnocchetti, pollo allo spiedo alla russa, funghi conser­vati, frittelle, mirtilli. Pane e vino, che su una tavola fraternamente im­bandita suggellano l’umanità, diven­tano sconcia gozzoviglia nell’abbuf­fata dei potenti che si spartiscono la torta e si illudono di spartirsi il mon­do, come quando Churchill e Stalin, a Mosca, si dividono un superbo sto­rione e le sventurate nazioni balcani­che, 75 per cento della Romania al­l’influenza sovietica e 25 a quella in­glese, per la Grecia il contrario e co­sì via, mentre Churchill, tagliandosi un boccone prelibato, cede territori che, confesserà, non sa bene dove esattamente siano, come la Bessara­bia. Dieci anni più tardi, nell’edizio­ne del 1954, l’introduzione collettiva del Libro del cibo gustoso e salutare dice che, per il bene del Paese, è «necessario introdurre il sugo di po­modoro come bevanda di massa».

Corriere della Sera 4.5.09
Antichità Un ciclo d’incontri sui secoli della Magna Grecia
Taranto, la prima democrazia
di Antonio Carioti


A volte la democrazia è fi­glia della sconfitta. È ac­caduto all’Italia con la Secon­da guerra mondiale, ma ac­cadde anche alla colonia gre­ca di Taranto, fra il 470 e il 460 avanti Cristo. «Fu dopo una grave disfatta subita ad opera dei popoli circostanti, Iapigi e Messapi, che i taranti­ni — spiega lo storico Mario Lombardo — riformarono i propri ordinamenti in senso democratico: il fior fiore del­l’aristocrazia era perito in bat­taglia e si decise di estendere il raggio della cittadinanza per rafforzare le basi della po­lis.
Al fine di accogliere i nuo­vi cittadini, che confluivano nel centro urbano dal territo­rio contiguo, fu ampliato il pe­rimetro dell’abitato, fortifican­dolo con una cinta muraria di 11 chilometri. Quindi Taranto divenne la prima democrazia creata sul territorio italiano: non ha fondamento la tesi, avanzata di recente, che sia stata preceduta dall’altra colo­nia greca di Metaponto. Ari­stotele la definì 'democrazia di pescatori', perché a Taran­to il porto era il fulcro della vi­ta economica e sociale».
Su quelle vicende Lombar­do, docente di Storia greca al­l’Università del Salento, terrà una conferenza in program­ma giovedì 7 maggio nella cit­tà pugliese, terzo appunta­mento del ciclo «I giorni di Taranto». Si tratta di un’inizia­tiva ideata da un altro studio­so, Emanuele Greco, che diri­ge la Scuola archeologica ita­liana di Atene, ispirandosi al­le manifestazioni analoghe promosse a Roma, Firenze e Milano. «Taranto — dichiara Greco — attraversa una fase difficile e ho pensato di rilan­ciarne la vita culturale rievo­cando l’epoca della Magna Grecia, quando fu per un cer­to periodo la più importante città d’Italia».
Gli incontri, organizzati dal­la Fondazione Taranto e la Ma­gna Grecia, coprono un arco di cinque secoli, dal 706 al 209 a.C., e si tengono sempre alle 18,30 del giovedì, nella sa­la «Resta» della Cittadella del­le Imprese. Lombardo si occu­perà del V secolo, compresa la guerra del Peloponneso: al­l’epoca Taranto, pur essendo una democrazia come Atene, si schierò sull’altro fronte, poi­ché era nata come colonia di Sparta. Poi toccherà a due no­ti archeologi: il 14 maggio ci sarà la conferenza di Paolo Moreno, che si soffermerà sul IV secolo, autentica età del­l’oro di Taranto, e il 21 l’incon­tro finale con Filippo Coarelli, che tratterà le tragiche vicen­de della Seconda guerra puni­ca, con il saccheggio della cit­tà da parte dei romani.

Repubblica 4.5.09
Alla Gemäldegalerie di Berlino Rogier Van der Weyden e i suoi contemporanei
La rivoluzione luminosa dei maestri fiamminghi


BERLINO. Tutto comincia negli anni Trenta del ´400, nei Paesi Bassi, dove si sviluppa un nuovo modo, più preciso e realistico, di restituire il mondo in pittura. È l´«ars nova», secondo il dettato di Ervin Panofsky. Ma non appena gli storici dell´arte cercano di stabilire il diverso ruolo e la diversa identità dei pittori che dettero vita a quel movimento, inizia una interminabile disputa che, lungi dall´essersi risolta, resta a tutt´oggi aperta. Perciò è tanto più importante la bellissima mostra della Gemäldegalerie di Berlino (aperta fino al 21 giugno), incentrata sul Maestro di Flémalle e su Rogier Van der Weyden.
La Gemäldegalerie dispone, come noto, di una delle più importanti collezioni al mondo dei primi maestri fiamminghi del quindicesimo secolo. In questo caso però è il contributo di quadri provenienti dal resto d´Europa, dalla Russia e dagli Stati Uniti, a fare la differenza. Perché mentre in passato l´indisponibilità ai prestiti aveva reso più problematico il confronto diretto tra l´opera del Maestro di Flémalle e quella del suo allievo Rogier Van der Weyden (con tutte le disparità interpretative che ne erano discese), ora finalmente le opere stanno fianco a fianco. Davanti ai nostri occhi. Facilitando perciò stesso una comparazione chiara e puntuale. Malgrado sia ancora dibattuta l´identificazione del Maestro di Flémalle con il pittore Robert Campin (o addirittura con un singolo artista). E malgrado Rogier Van der Weyden abbia apposto firma e data soltanto a uno dei suoi quadri.
Visitando la mostra in compagnia di uno dei due curatori (Stephan Kemperdick e Jochen Sander), ho potuto saggiare con l´occhio (guardando) e con l´orecchio (ascoltando), gli aspetti più strettamente "investigativi" della questione. Aspetti quanto mai fascinosi, ricostruiti attraverso una sorta di concreta applicazione di quel metodo indiziario di cui parlò Carlo Ginzburg in un suo famoso saggio. Comunque, anche chi non subisse questo tipo di fascino, storico e intellettuale, non abbia timori: le sessanta opere in mostra sono talmente belle che gli basterà abbandonarsi al piacere delle forme. Al succedersi dei colori. All´intensità dei volti, all´ininterrotto dispiegarsi dei paesaggi. Già, perché la prima cosa che colpisce, nella cosiddetta «ars nova», è proprio la sua sbalorditiva ricchezza, la complessità pittorica di ogni singolo quadro. Quasi che le figure rappresentate vivessero in un universo (domestico o naturale) molto più ampio di quanto accadeva in precedenza.
Il prerequisito di questa innovazione - spiegano i curatori - è di natura tecnica: l´agente principale della coesione dei pigmenti non è più la tempera, ma l´olio. Il che moltiplica le chance coloristiche dell´artista. I possibili giochi di luce e di ombra, la cura dei dettagli. Che ora risaltano sulla tela in maniera precedentemente impensabile: nella descrizione minuziosa delle rughe di un volto, nella puntuale raffigurazione del tessuto di un abito. A trarne vantaggio, naturalmente, non è soltanto la caratterizzazione del mondo visibile, ma la complessità psicologica dei personaggi: basti, per tutti, la mirabile Santa Veronica del monumentale trittico di Flémalle con cui si apre la mostra. Ma forse il tema più indicato per cogliere il senso del "salto" pittorico in atto è quello dell´Annunciazione. Al rigore ieratico impresso dai vecchi sfondi dorati, si sostituisce il costante contrappunto tra una nuova interiorità domestica e l´estensione in lontananza di "paesaggi atmosferici" animati da una vasta varietà di fenomeni luminosi che moltiplicano di continuo i piani della narrazione. In una parola, si va affermando una pittura infinitamente più ricca e perciò stesso più precisa e profonda.

Repubblica 4.5.09
Zurigo. Giacometti l’Egiziano
Kunsthaus. Fino al 24 maggio


Mentre si aspetta la retrospettiva in cartellone a fine maggio alla Fondazione Beyeler di Basilea, merita attenzione questa interessante esposizione che indaga alcuni presupposti dell'orientamento culturale dell'artista svizzero. Capolavori del Museo Egizio di Berlino, come i busti di Akhenaton e di Nefertiti, la statua-cubo di Senemut e la Testa verde, sono qui posti a colloquio con le sculture di Giacometti, le celebri, fragili figure, i suoi ritratti, con l'obiettivo di documentare il suo interesse nei confronti di questa grande cultura del passato. Lo scultore ha fatto proprie alcune componenti dell'arte egizia, come la concentrazione sull'immagine umana, restituita in alcuni tipologie elementari, e il rapporto esistente tra i personaggi e lo spazio, che nasce dalla necessità filosofico-religiosa di conferire all'individuo un presente atemporale. Giacometti ha studiato questa cultura, copiandone i capolavori, anche sul margine delle monografie. In mostra, numerosi fogli permettono di verificare tempi e modi di questa appropriazione.

domenica 3 maggio 2009

l’Unità 3.5.09
L’ultima telefonata di Delara: «Mamma, ora mi impiccano». Giustiziata in Iran. La ragazza era accusata di un omicidio compiuto quando era minorenne
Il boia Il cappio intorno al collo gliel’ha stretto il figlio della vittima
Assassinata la giovane pittrice, accusata di omicidio. L’ultima telefonata per chiedere aiuto alla madre. Amnesty: «Sui diritti umani gli ayatollah continuano a provocare l’Occidente». Ottantaquattro esecuzioni in 4 mesi
di Gabriel Bertinetto


La sostanza è atroce di per sé: un assassinio commesso dietro il paravento di una sentenza di tribunale. Ma i particolari sono addirittura agghiaccianti, perché prima di salire sulla forca nel carcere di Rasht, in Iran, Delara Darabi è riuscita a chiamare al telefono la mamma, implorando disperatamente aiuto: «Mamma, vogliono ammazzarmi. Vedo il patibolo, mamma salvami». Poi ha chiesto di parlare al papà: «Voglio che veniate qui, per amore di Dio, aiutatemi».
IL COLTELLO NELLA PIAGA
Una persona di media umanità avrebbe almeno avuto un moto di pietà davanti ad una scena così straziante. Non l’addetto al crimine di Stato, che non ha saputo fare altro che strappare il cellulare dalle mani di Delara e affondare con protervia il coltello nella piaga, comunicando con ferocia: «Metteremo a morte vostra figlia e non c’è niente che voi possiate fare al riguardo». I genitori si sono precipitati al carcere, stringendo in mano una copia del Corano. Hanno visto uscire dal portone un’ambulanza con le insegne del medico legale. Hanno capito che trasportava il cadavere della povera figlia.
Tragico primo maggio a Rasht. Da undici giorni la sorte di Delara, condannata per un delitto commesso (ma lei si proclamava innocente) quando era ancora minorenne, era appesa ad un filo. L’esecuzione, fissata in un primo tempo per il 20 aprile, era stata rinviata, anche per la pressante campagna delle organizzazioni umanitarie, Amnesty International fra le altre. Si era diffusa ormai, fra i familiari della ragazza, gli avvocati, gli attivisti per i diritti umani mobilitatisi in suo soccorso, la speranza che le autorità volessero concedere un rinvio di due mesi.
Cosa sia accaduto per far precipitare la vicenda verso l’epilogo più crudele, non è chiaro. Un giornale iraniano, Etemad, scrive che a mettere la corda al collo di Delara, venerdì mattina, ha voluto venire personalmente uno dei figli della donna che la giovane, secondo il tribunale, uccise durante un tentativo di rapina nel dicembre 2003. L’uomo avrebbe così giustificato il proprio ruolo di vicario del boia: «Il sangue si lava col sangue». Evidentemente i parenti della vittima avevano rifiutato il perdono, impedendo la commutazione della pena. Ma decisivo deve essere stato anche il recente arrivo di un nuovo magistrato a Rasht, un certo Javid Nia. Ha già fatto lapidare a morte un condannato. L’altro giorno è stato lui a firmare l’ordine di impiccagione per Delara.
POESIA E PITTURA
Il calvario di Delara Darabi inizia il giorno in cui assieme al fidanzato Amir, 19 anni, tenta di derubare un’anziana zia aggredendola in casa. La donna reagisce, Amir la colpisce con un bastone, poi ordina alla giovane complice di prendere un coltello in cucina. Uno dei due affonda la lama nella schiena della poveretta. Inizialmente Delara confessa di essere stata lei. Poi però cambia completamente versiono e accusa il fidanzato di averla convinta ad autoaccusarsi con il pretesto che, essendo lei minorenne, non avrebbe rischiato la pena di morte. Così sarebbe infatti se la Repubblica islamica rispettasse le convenzioni internazionali che vietano le esecuzioni capitali per chi abbia commesso un crimine in età minorile. Gli inquirenti comunque non hanno mai creduto alla ritrattazione. Delara fu condannata a morte, Amir se la cavò con dieci anni di reclusione.
Mentre si batteva perché fosse creduta la sua innocenza, Delara affidava alla poesia ed alla pittura il racconto del suo dolore. I suoi quadri vennero esposti in due mostre a Teheran e a Stoccolma. Ma la disperazione a volte prevaleva, e un giorno del 2007 fu salvata in extremis da una compagna di cella dopo avere tentato il suicidio tagliandosi le vene dei polsi.
Il giorno prima di essere impiccata, Delara ha ricevuto la visita della mamma. Le ha detto che quando fosse finalmente uscita dal carcere voleva riprendere gli studi. In quegli stessi momenti in un’altra ala dell’edificio gli aguzzini allestivano il patibolo. Di nascosto, senza avere il coraggio nemmeno di rispettare le loro leggi che impongono di avvisare almeno 48 ore prima delle esecuzioni i familiari e i legali dei condannati.

l’Unità 3.5.09
Intervista a Hassiba Hadj Sahroui:«Sui diritti umani gli ayatollah sfidano l’Occidente»
La vicepresidente di Amnesty Asia: sul caso Darabi hanno accelerato i tempi per timore delle pressioni internazionali
di Umberto De Giovannangeli


Quello condotto contro Delara Darabi è stato un processo iniquo; iniquo rispetto agli stessi standard della giustizia iraniani. La Corte che l’ha giudicata si è rifiutata di prendere in considerazione prove a favore di Delara; il suo avvocato non è stato informato (dell’impiccagione, ndr.) nonostante l’obbligo di legge di avere comunicazione 48 ore prima dell’esecuzione». A denunciarlo è Hassiba Hadj Sahroui, vice direttrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Asia. «I diritti umani – sottolinea Sahroui – devono diventare una priorità nell’azione della comunità internazionale». La dirigente di Amnesty sta seguendo direttamente anche un altro caso scottante che investe l’Iran: quello della giornalista Roxana Saberi, condannata a otto anni di reclusione per spionaggio a favore degli Usa. Amnesty International ha chiesto il rilascio immediato e senza condizioni della giornalista. Roxana Saberi, denuncia Hassiba Hadj Sahroui, «è solo una pedina degli sviluppi politici in corso tra Iran e Usa». La pedina di un gioco sporco. «Il fatto che le accuse siano di volta in volta cambiate, dal momento del suo arresto fino al processo, indicano chiaramente che le autorità iraniane cercano qualsiasi scusa per tenerla in prigione».
Nonostante i ripetuti appelli delle organizzazioni umanitarie, Delara Darabi è stata giustiziata.
«Un atto gravissimo che viene a conclusione di un processo iniquo; iniquo rispetto agli stessi standard, del tutto opinabili, di giustizia iraniani…».
L’esecuzione è avvenuta nonostante fosse stata accordata all'imputata, il 19 aprile scorso, una sospensione di due mesi della pena.
«Quando parlo di processo iniquo e di una condotta cinica da parte delle autorità iraniane, mi riferisco anche a questo. Hanno voluto far presto. È come se avessero voluto evitare le proteste interne e internazionali che avrebbero potuto salvare la vita a Delara. C’è da aggiungere che questa triste, drammatica vicenda testimonia che persino le decisioni presa dal potere giudiziario centrale (la sospensione di due mesi della pena) non hanno nessuna incidenza e vengono disattese nei distretti provinciali. L’esecuzione di Delara è un oltraggio al diritto umanitario, ad un senso minimo di giustizia. La comunità internazionale non può, non deve tacere di fronte a questo scempio. Così come deve fare i conti con un dato inquietante…».
Quale?
«Dall’inizio dell’anno almeno 84 persone sono state impiccate in Iran. Oggi sono oltre 150 i giovani, come Delara, condannati all’impiccagione per omicidi commessi quando erano minorenni. Non abbandoniamoli nelle mani del boia di Stato».
Un altro caso scottante è quello della giornalista irano-statunitense Roxana Saberi.
«Roxana è ostaggio delle relazioni non certo amichevoli tra Teheran e Washington. Se, come appare, è detenuta solo per ragioni politiche legate ai rapporti dell'Iran con gli Usa o per aver esercitato in modo pacifico il diritto alla libertà d'espressione, Saberi è una prigioniera di coscienza e deve essere rilasciata immediatamente e senza condizioni. L’annuncio da parte iraniana della revisione della sua condanna è un primo passo ma non basta. La vicenda di Roxana come quella, ancor più tragica di Delara, confermano quanto Amnesty documenta da tempo: è difficile avere giustizia in Iran».

Repubblica 3.5.09
Continuare a lottare
Parla Marina Nemat, condannata a morte in Iran, riuscì a evitare l´esecuzione sposando il suo carceriere
"Così sono sfuggita a quella forca ma altre mille donne rischiano la vita"
di Francesca Caferri


A 17 anni aveva confessato ma, disse dopo, sotto l´effetto della tortura
In Iran tantissimi ragazzi e ragazze sono arrestati e uccisi come se niente fosse Dobbiamo continuare a fare pressione in nome della democrazia

Aveva 16 anni Marina Nemat quando fu arrestata per «attività rivoluzionaria» in Iran: uno meno di Delara Darabi. Come lei, fu torturata, costretta a confessare crimini che non aveva commesso e condannata a morte. In carcere ha passato più di due anni. Poi una guardia carceraria ossessionata da lei convinse le autorità prima a commutare la sua pena in ergastolo e poi a liberarla. Marina fu costretta a sposare il carceriere: solo alla sua morte riuscì a fuggire dall´Iran. Sulla sua vicenda ha scritto un libro - "Prigioniera a Teheran" - diventato un best seller internazionale.
Signora Nemat, quale è stata la sua reazione quando ha saputo di Delara Darabi?
«Sono rimasta paralizzata. Non riuscivo a respirare. Non riuscivo a parlare. Anche ora non posso crederci: la sua storia è così simile alla mia che mi è sembrato di rivivere l´incubo. Io sono fuori dalle carceri iraniane da anni, ma non posso dire di stare bene: ho ancora incubi e visioni. E tutto è tornato fuori appena ho saputo della morte di quella povera ragazza».
Le autorità iraniane dicono che aveva confessato di essere colpevole...
«Anche io avevo confessato. Non so cosa, ma ho confessato qualunque cosa volevano sentirsi dire. Anche la giornalista americana Roxana Saberi ha confessato. Tutti confessano, nella speranza che l´incubo finisca, le torture termino. Quando passi una settimana legata a una sedia con una benda sugli occhi. O quando hai fame e ti lanciano la zuppa addosso. Quando ti minacciano. Chi non confesserebbe?».
Lei ha parlato di Roxana Saberi: poche ore dopo la morte di Delara le autorità iraniane hanno annunciato che la sua condanna sarà rivista. Crede che i due casi siano legati?
«Non lo so. Può darsi che qualcuno abbia scelto di uccidere Delara per dare un segnale, per dire "questo è quello che siamo capaci di fare". E trattandosi di una iraniana è stato facile. La Saberi è americana, per lei sarà diverso: ma ci sono migliaia di Delara rinchiuse nelle carceri. Ragazze e ragazzi arrestati per motivi pretestuosi e uccisi come se niente fosse. A centinaia sono morti mentre ero in carcere io: sparivano e le famiglie non ricevevano neanche i corpi. Pensavo sempre che presto sarebbe successo a me».
Cosa può fare la comunità internazionale?
«Continuare a fare pressione. Usare i mezzi di comunicazione per arrivare in Iran e far entrare nella testa dei milioni di giovani cresciuti solo con la Rivoluzione un messaggio di democrazia. Non spetta a noi decidere per gli iraniani, non dobbiamo dirgli noi che è tempo di eliminare la sharia. E non possiamo pensare a un intervento armato. Ma possiamo continuare a spingere per un cambiamento».

il Riformista 3.5.09
La pittrice Delara tradita dal ragazzo uccisa dall'Iran
di Roberta Del Principe


TEHERAN. La ventiduenne è stata giustiziata venerdì. Confessò un omicidio per salvare l'amato. Prima dell'esecuzione i carcerieri le hanno concesso una telefonata al padre e alla madre. Ma nessuno ha potuto aiutarla.
Delera Darabi, condannata a morte per un omicidio commesso a 17 anni.

Primo Maggio. Prigione centrale di Rasht, Iran settentrionale. È ancora notte, fa caldo e l'aria è molto umida. Delara Darabi, ventidue anni, viene svegliata bruscamente dai suoi carcerieri che la trascinano nel cortile del carcere. Alla vista del patibolo e del boia realizza, sono gli ultimi momenti della sua vita. Solo qualche ora prima Delara nella sua cella aveva incontrato sua madre e si erano salutate senza sapere che non si sarebbero più riviste. Le concedono un'ultima telefonata. «Mi impiccano fra pochi secondi… aiutatemi», dice angosciata ai suoi genitori. Comincia ad albeggiare, le viene posto un cappio intorno al collo dal figlio della donna per la cui uccisione è stata condannata. Il suo corpo esile, era arrivata a pesare 35 chili, è sollevato e abbandonato nel vuoto. La giovane pittrice iraniana è assassinata per impiccagione.
Piove tutto l'anno a Rasht sul litorale del Mar Caspio e gli abitanti di Teheran lì trascorrono i loro fine settimana in cerca di un clima più fresco. Nella prigione di questa località, il primo week-end di maggio ha portato la morte, un'altra tacca di sangue sulla spada della giustizia iraniana. La Darabi sei anni fa, all'età di 17 anni, si introdusse insieme al suo fidanzato Amir Hossain in casa di una cugina di suo padre, una donna di 58 anni chiamata Hamin. Volevano derubarla, ma la donna finì pugnalata a morte. Delara si dichiarò colpevole e fu proprio suo padre, che ora è ricoverato in ospedale in stato di shock, a consegnarla alla polizia. Entrambi i ragazzi finirono in prigione puniti con tre anni di carcere, 50 frustate per tentata rapina e 20 per la loro «relazione illecita». «È stato solo per proteggere Amir. Fu lui ad ucciderla, sono innocente», dichiarò la pittrice iraniana poco tempo dopo. Il fidanzato aveva convinto Delara ad assumersi la colpa dell'omicidio, assicurandole che siccome era minorenne sarebbe stata rilasciata dopo qualche anno, mentre lui avrebbe rischiato il patibolo. Delara accettò addossandosi tutta la colpa, Amir Hossain dopo aver scontato tre anni di carcere fu rilasciato.
Nel 2005 la condanna a morte per omicidio, confermata due anni dopo dalla Corte Suprema e due giorni fa l'esecuzione, nonostante che il 19 aprile scorso fosse stata accordata all'imputata una sospensione di due mesi della pena. Il rinvio per dare modo alla famiglia di riflettere sulla richiesta di perdono avanzata dai genitori di Delara. Si chiama «il prezzo del sangue», è il risarcimento che può essere chiesto a un assassino condannato alla pena capitale da chi ha subito il reato. La barbarie della pena di morte si somma alla barbarie della faida. L'intero sistema iraniano è simile più alla antica tradizione medievale europea, che non a quella di un normale stato di diritto, in cui le norme sono applicate in base a un principio d'interesse generale e non in base alla soddisfazione della propria voglia di vendetta personale. Delara aveva accettato le condizioni poste dalla famiglia della vittima per concedere il perdono che le avrebbe salvato la vita, ma non è servito.
L'avvocato della ragazza, Abdolsamad Khoramshahi, non riesce a darsi pace per non essere riuscito a convincere l'accusa. La sua linea difensiva puntava a dimostrare che Delara fosse stata una semplice testimone dell'omicidio, provando che la sua assistita quella notte fu drogata dal fidanzato e che la signora Hamin, secondo quanto emerso dall'autopsia, fu pugnalata da un destrorso, mentre Delara Darabi è mancina. I giudici non hanno tenuto conto delle prove condannando Delara, come troppo spesso avviene in Iran, sulla base della propria intuizione.
Quella ragazza così bella, dagli occhi neri e con un piccolo neo sulla guancia, l'avevamo conosciuta grazie a una foto che aveva fatto il giro del mondo. Delara in quell'immagine era assorta, sguardo pensieroso, la mano sotto il mento, un anello alle dita e quell'hijab di color turchese portato con grande eleganza. Delara amava i colori, dipingeva. «Sono prigioniera dei colori», disse un giorno. «Sin dall'età di quattro anni i colori sono stati la mia vita…poi li ho persi a 17 anni. Da allora l'unica immagine che ho davanti agli occhi è quella del muro della mia cella. Ma mi sono difesa con i colori, le forme e le espressioni. Spero che i colori mi restituiscano alla vita…».
Delara non ce l'ha fatta, ma grazie a una sua ex compagna di cella, Lily Mazahery, abbiamo i suoi quadri, i suoi disegni, i suoi scritti. «Questi dipinti sono la prova che anche nelle situazioni più buie della vita umana, vi è comunque una via d'uscita. Dopo tutto… le speranze e i sogni non si possono imprigionare».

il Riformista 3.5.09
I lati oscuri d'una strana esecuzione
di R. D. P.


Amnesty International ha seguito la vicenda di Delara Darabi sin dal 2006. Riccardo Noury, portavoce della Sezione Italiana dell'organizzazione umanitaria ne ha parlato con il Riformista.
Siete stati i primi a comunicare la notizia della barbara uccisione di Delara sul vostro sito internet?
«Sì. Siamo stati contattati dal suo avvocato. Ci occupiamo della vicenda da tanto e siamo il suo punto di riferimento».
Cosa ha provato nell'apprendere la notizia?
«Un terribile dolore. È un brutto segnale, non l'ha salvata neanche la notorietà. Delara era diventata il simbolo della lotta contro la pena capitale. In questa vicenda c'è però tanto che non mi convince. L'esecuzione è avvenuta in un giorno di festa sacro per i musulmani. Non è stato avvisato il suo legale che per legge avrebbe dovuto essere informato 48 ore prima dell'esecuzione per permettergli di preparare l'ultima difesa ed è stata violata un ordinanza del Capo dell'Autorità giudiziaria. Collegando tutto questo alle imminenti elezioni presidenziali iraniane, credo di poter dire che Delara sia stata la vittima sacrificale di uno scontro di potere tra un Tribunale di provincia e l'Autorità centrale del Paese».
In Iran la situazione si fa sempre più drammatica.
«Per quanto riguarda la pena di morte la situazione in Iran è terribile. 140 esecuzioni dall'inizio dell'anno, di cui due nei confronti di minorenni al momento del reato e ci risulta ce ne siano altri 150 in attesa di esecuzione. Questo contro la Convenzione Onu per i diritti dell'Infanzia, firmata anche dall'Iran, che vieta la pena di morte per i minorenni. Nei bracci della morte ci sono poi tantissimi condannati, tra i quali prigionieri politici, detenuti per reati d'opinione, omosessuali, adultere ed adulteri».
E ora?
«Bisogna continuare a lottare con ancora più ostinazione. In Iran di fronte a tanta barbarie c'è una società civile molto coraggiosa e organizzata che non si ferma dinnanzi al pericolo. La moratoria sulle lapidazioni delle adultere per esempio non sarebbe stata possibile senza il grande lavoro degli attivisti iraniani per i diritti umani».

l’Unità 3.5.09
Berlusconi Sugar Daddy
di Furio Colombo


Non governa, appare. Eccolo sulle macerie del terremoto. Eccolo piangere. Poi cambia argomento ed ecco il lampo di festa giovane

L’Italia è l’unico caso di una democrazia occidentale declassata al livello di Paese semi-libero. Lo ha dichiarato, il 29 aprile, la Fondazione americana “Freedom House” : «Troppa concentrazione di potere mediatico nelle mani di una sola persona che è anche il capo del governo».
Reazioni italiane alla grave denuncia? Nel corso della settimana si è udita solo la voce indignata di Veronica Lario, però a causa della disputa familiare ormai nota.
Nel silenzio di quasi ogni altra fonte, c’è da domandarsi se il grido di indignazione della signora Lario verso il marito Berlusconi non abbia di gran lunga superato le linee guida dettate da Massimo D’Alema per un corretto confronto politico.
La personalità del Pd, con il peso della sua storia, ammonisce, in una vasta intervista al Corriere della Sera (29 aprile): «Se fai un versaccio al premier (...) significa scegliere un ruolo eterno di comprimario, fare la spalla a Berlusconi per i prossimi mille anni».
Sì, ma allora che cosa fare? Nel vuoto lo spazio è libero sia per il silenzio che per l’imitazione del presidente-padrone e dei suoi associati. Il silenzio per non correre il rischio di fare da spalla. L’imitazione - tipo tagliare il pasto ai bambini rom, come ha fatto il sindaco Pd di Pessano (Milano) «perché noi facciamo assistenza, non assistenzialismo», come dice la Lega.
A questo punto permettete a chi scrive di lasciar transitare un piccolo carico di memoria. Ciò che D’Alema ha detto al Corriere della Sera per illustrare l’errore grossolano di denunciare le malefatte del governo, lo aveva detto e scritto, con la stessa chiarezza, ai tempi de l’Unità appena rinata e subito accusata di esagerare con la sua «fissa» sul conflitto di interessi e le leggi ad personam. Altri tempi. Però allora, (segretario Ds Fassino) elezione dopo elezione, comuni, province, regioni si spostavano da destra a sinistra, oppure si radicavano a sinistra dove avevano governato ormai da decenni.
Ma l'ammonizione di D’Alema non riserva alcuna benevolenza a chi volesse disapprovare vivacemente il premier. Neppure nel giorno di «Papi Noemi». Noemi, come ormai tutti sanno dalla Sicilia alla Lapponia, è una adolescente bellina, che nell’entroterra di Napoli, ha celebrato i suoi 18 anni in compagnia del presidente del Consiglio, prontamente e misteriosamente apparso sul posto. È la neo-diciottenne Noemi a confidare al Corriere della Sera: «Certe volte lo chiamo Papi» (30 aprile). «Papi» in inglese si traduce «Daddy», se si parla del vero papà. Ma l’espressione diventa «Sugar Daddy» quando riguarda un tipo straricco (”sugar”, zucchero, sta per dollari) che ronza intorno a una ragazzina infatuata. «Sugar Daddy», dunque, si fa trovare (per deliberata, stravagante strategia), in una notte buia, alla periferia di Casoria in un villone affittato per la festa. È la festa della «sua bambina» (tanto che in due giorni fiorirà anche la leggenda della figlia segreta). L’invadente leader d’aziende, di governo, di partito e di popolo compie dunque un passo nuovo. Non un passo di governo. Come si sa Berlusconi non governa. Berlusconi appare.
Non un passo politico. Come si sa Berlusconi è impegnato a portare il suo popolo fuori dalla politica e dentro il magico mondo della «audience», un mondo tipo Maria De Filippi.
Come si sa Berlusconi, prima ancora dei voti, cerca «indici di gradimento». Lui sa che il gradimento porta voti e non il contrario. E peggio per chi non controlla un po’ di giornali e tutte le televisioni.
Ecco allora Berlusconi sulle macerie del terremoto, Berlusconi con i primi sopravvissuti dell’Aquila che piange, Berlusconi con i primi anziani delle tendopoli che ride, Berlusconi con soldati, vigili del fuoco, e i bambini. Poi cambia bruscamente argomento, come nei suoi telegiornali. Ecco il lampo di festa giovane di «Sugar Daddy», figlia o corteggiamento o bizzarria o inspiegata gentilezza. L’importante è che si accenda un’altra luce sulla nuova apparizione dell’unico governante che non governa. Ma viene regolarmente festeggiato dai suoi media come uno statista.
A questo punto Veronica Lario occupa il vuoto. E parla, indignata. Diciamo che tutto ciò riguarda la sua famiglia. Tranne il vuoto, che riguarda noi. Ripensiamo allo schema D’Alema: Berlusconi parla, canta, balla, appare e ricompare (più o meno non fa altro)? Tu fermo e zitto, se no gli fai da spalla.
Dunque noi, disciplinatamente in silenzio, aspettiamo che un professionista della politica ci spieghi il segreto: come vincere (o anche solo sopravvivere) restando buoni, bravi e zitti. Forse in attesa di fare le riforme «insieme».

Repubblica 3.5.09
"Adesso basta, chiedo il divorzio" così Veronica dice addio a Berlusconi
Veronica, addio a Berlusconi "Ho deciso, chiedo il divorzio"
di Dario Cresto-Dina


Non posso più stare con Silvio. È stato tutto inutile. Chiudo il sipario

MILANO. «Chiudo il sipario sulla mia vita coniugale». Dopo quasi trent´anni, i due si conobbero nel 1980 e si sposarono con rito civile il 15 dicembre 1990, le strade del presidente del Consiglio e di sua moglie, già spezzate sul piano sentimentale e personale, si dividono anche giuridicamente.
Ho cercato di aiutare mio marito, ho implorato coloro che gli stanno accanto di fare altrettanto, come si farebbe con una persona che non sta bene. È stato tutto inutile
Sono convinta che fermarsi non sia più dignitoso. La strada del mio matrimonio è segnata, non posso stare con un uomo che frequenta le minorenni
Dopo trent´anni chiudo il sipario sulla mia vita coniugale ma voglio farlo da persona comune e perbene, senza clamore. Vorrei evitare lo scontro
Veronica Lario ha avviato le pratiche per la separazione e il divorzio da Silvio Berlusconi, portando a termine un percorso cominciato molto tempo fa come ammise lei stessa alla fine dell´estate 2008, quando confessò che all´eventualità di una separazione stava meditando da dieci anni.
Ora ha scelto l´avvocato che la seguirà passo dopo passo davanti ai giudici: «Finalmente una persona di cui mi posso fidare fino in fondo». È una donna. Una professionista lontana dallo star system e dalla politica. L´ha sentita al telefono il primo maggio, l´avvocato era in vacanza su un´isola del Sud Italia. È stato in pratica il loro primo vertice sulla separazione. Veronica le ha spiegato: «Voglio tirare giù il sipario, ma voglio fare una cosa da persona comune e perbene, senza clamore. Vorrei evitare lo scontro». Il legale le ha risposto: «Stia tranquilla. Parto subito, prendo un aliscafo e rientro immediatamente a Milano. Lei è consapevole che non sarà facile e che dovrà sopportare attacchi pesanti? È sicura di volerlo fare?».
Nella risposta non ci sono state esitazioni: «So tutto. Voglio andare avanti». Ieri le due donne si sono incontrate a Macherio per studiare la strategia e si rivedranno molto presto, all´inizio della settimana. Vogliono stringere i tempi, evitare il contropiede di un uomo sempre molto abile a ribaltare le situazioni, capace di convocare una conferenza stampa per dire che il divorzio lo ha deciso lui per primo, e non la "signora".
Naturalmente nei giorni scorsi Veronica ne ha discusso con i figli e le persone più vicine, un paio di amiche molto care, sottolineando ancora una volta le ragioni del suo distacco dalla vita pubblica del marito e insistendo sull´importanza che rappresenta per una donna come lei il valore della dignità: «Ora sono più tranquilla - ha confidato loro - . Sono convinta che a questo punto non sia dignitoso che io mi fermi qui. La strada del mio matrimonio è segnata, non posso stare con un uomo che frequenta le minorenni».
Per i suoi ragazzi - Barbara di 24 anni, Eleonora di 22 che studia negli Stati Uniti e Luigi di 20, il più legato al mito imprenditoriale e politico del papà - sono state ore di grande amarezza e di sofferenza, ma alla madre tutti e tre hanno assicurato che rispetteranno ogni sua decisione per dolorosa possa essere: «Non muoveremo mai un dito contro nostro padre, ma tu mamma fai ciò che ti fa stare bene».
L´inizio della fine arriva la mattina di martedì 28 aprile. Veronica guarda i giornali, la sua attenzione si sofferma sull´articolo di "Repubblica" che svela come nella notte di domenica il premier si sia presentato a sorpresa in una villetta di Casoria, dove si celebravano i diciott´anni di Noemi Letizia. Lei è bella, bionda, studia da grafica pubblicitaria a Portici e sogna una carriera televisiva, tanto che avrebbe inviato il suo "book" fotografico al presidente del Consiglio in persona. Un album che avrebbe provocato la scintilla. Accanto a Noemi ci sono il padre Elio e la madre Anna. La ragazza chiama Berlusconi "papi", ai giornalisti dirà più tardi che lo conosce da tempo e che spesso lo va a trovare a Milano e Roma, «perché lui, poverino, lavora molto e non può sempre venire a Napoli». Il Cavaliere le ha portato un regalo, una collana d´oro giallo e bianco con pendente di brillanti. C´è chi mormora anche le chiavi di un´auto, ma Noemi smentisce.
Veronica legge e rimane stupefatta, chiama al telefono un´amica: «Basta, non posso più andare a braccetto con questo spettacolo». A Roma infuria la polemica sulle "veline" pronte a entrare nelle liste elettorali del Pdl e ci sono, soprattutto, quella ragazzina di Casoria, Noemi, e la sua mamma Anna che si rivolgono a Berlusconi con gli affettuosi diminutivi di "papi" e "papino". Veronica non ce l´ha né con le giovani donne aspiranti europarlamentari né con Noemi. Interpreta la loro parabola quasi epicamente, come «figure di vergini che si offrono al drago per rincorrere il successo, la notorietà e la crescita economica». La sconcerta, però, che il metodo da "ciarpame politico" non faccia scandalo, che quasi nessuno si stupisca, che «per una strana alchimia il paese tutto conceda e tutto giustifichi al suo imperatore», come racconta a chi le sta vicino.
Quell´imperatore è ancora suo marito ed è il padre dei suoi figli, un padre che, seppure invitato, non ha mai partecipato alla festa dei loro diciott´anni. Di fronte alla nuova pubblica offesa sceglie di replicare pubblicamente con una dichiarazione che manda all´agenzia Ansa soltanto dopo le dieci di sera. È stato infatti un giorno di angoscia a villa Belvedere. Barbara, incinta di sette mesi del suo secondo figlio, è stata ricoverata all´ospedale San Raffaele. Sono lunghe ore di ansia, c´è il rischio di un parto prematuro. Veronica Lario ha in casa il nipotino Alessandro, chiede alla segretaria Paola di fermarsi fino a mezzanotte. La misura è colma, il "ciarpame" non è soltanto politico.
La mattina successiva Berlusconi dalla Polonia attiva la cortina fumogena e la contraerea dopo una notte di rabbia. Ordina che le "veline" spariscano quasi tutte dalle liste europee, ridimensiona il rapporto con Noemi a una antica conoscenza con il padre ex autista di Craxi (notizia poi smentita da Bobo Craxi e cancellata comicamente addirittura da un comunicato di Palazzo Chigi) e liquida con una battuta maschilista e greve l´indignazione della moglie, evitando di pronunciarne il nome e il ruolo: «La signora si è fatta ingannare dai giornali della sinistra. Mi spiace». Rientrato a Roma, annulla un incontro in calendario per il giorno successivo con il presidente della Camera Gianfranco Fini.
La sua intenzione è di andare a Milano, come fece due anni or sono, per ricucire lo strappo con Veronica. Non ci andrà, lo ferma la sua fidatissima segretaria Marinella. Veronica Lario, infatti, l´ha appena chiamata: riferisca a mio marito che non mi si avvicini, non ho più nulla da dire e nulla da ascoltare, tutte le parole sono state consumate.
Giovedì i giornali del Cavaliere e i blog del Pdl fanno capire all´ex first lady di Macherio che aria tira. Dietro al "come si permette?" si scatena una minacciosa muta di cani. Il quotidiano "Libero" pubblica nella testata di prima pagina tre fotografie in bianconero della giovane attrice Veronica Lario a seno nudo. Il messaggio è più che mai trasparente, sembra arrivata l‘ora dell´olio di ricino. Quando vede quelle fotografie la moglie del premier capisce, se ce ne fosse ancora bisogno, di essere davvero sola e di essere minacciata. In quelle foto si sente «come davanti a un plotone di esecuzione qualche secondo prima della fucilazione». Alla figlia Barbara dice: «Sono molto preoccupata di ciò che potrà accadere, ma ho la libertà per andare avanti».
Cala il sipario. La lettera affidata a "Repubblica" due anni fa da Veronica era un ultimatum. Qualche ora dopo Berlusconi inviò le sue scuse pubbliche alla moglie. Era il 31 gennaio 2007: «La tua dignità non c´entra, la custodisco come un bene prezioso nel mio cuore anche quando dalla mia bocca esce la battuta spensierata, il riferimento galante, la bagattella di un momento». A sigillo un grande bacio. Qualche mese dopo, ad appannaggio esclusivo dei settimanali patinati della famiglia, arrivarono le passeggiate della coppia mano nella mano nel giardino della villa in Costa Smeralda e sui moli di Portofino.
Immagini che oggi sembrano lontanissime. «Mi domando in che paese viviamo - ha raccontato Veronica l´altro giorno a un´amica - , come sia possibile accettare un metodo politico come quello che si è cercato di utilizzare per la composizione delle liste elettorali del centrodestra e come bastino due mie dichiarazioni a generare un immediato dietrofront. Io ho fatto del mio meglio, tutto ciò che ho creduto possibile. Ho cercato di aiutare mio marito, ho implorato coloro che gli stanno accanto di fare altrettanto, come si farebbe con una persona che non sta bene. È stato tutto inutile. Credevo avessero capito, mi sono sbagliata. Adesso dico basta».

Il Giornale 3.5.09
Il caso Veronica
La lezioncina del moralista
(mandante di un omicidio)
di Paolo Granzotto


Adriano Sofri è un campione del moralismo rorido e ipocrita da sacrestia. Non un Moliere, come ambirebbe essere, ma un piccolo, meschino Tartufo. Ovvero un trombone che paludandosi nei broccati delle virtù civili - lui, il mandante dell'omicidio Calabresi, cioè un criminale - va a caccia dei peccati del mondo per poi poterli candeggiare con la varichina del suo stucchevole perbenismo sociale. Un ripiego, perché era con il piombo delle P38 che Sofri avrebbe voluto fare pulizia ai tempi in cui, vestendo i panni del gelido Strelnikov, giocava alla rivoluzione facendo della non metaforica pelle altrui la membrana del tamburo sul quale rullare la carica. Fallito in quel ruolo, condannato al carcere (breve e di lusso), si trovò costretto a cambiar registro e dichiarandosi vittima del «sistema» si presentò alla ribalta come il maestro buono, lamentoso e saggio; come colui che avendo molto sofferto ingiustamente, molto aveva da insegnare. L'ultima lezione in ordine di tempo, Sofri l'ha impartita - dalle colonne della Repubblica e con un sospetto ritardo sui tempi - a Silvio Berlusconi. Rinunciando ai consueti accenti quereli, alla sua abituale gnagnera intimista, nell'occasione ha preferito riprendere quel tonetto sprezzante, da gradasso, che lo rese sinistramente famoso quand'era alla testa di Lotta continua. E per dare unà mano di biacca politicamente corretta al suo antiberlusconismo di maniera, ha voluto giocare la carta femminista assumendosi la difesa d'ufficio della signora Veronica. Che però, siccome al cuor non si comanda e il cuore che batte nel petto di Sofri è quello, liquida come una sciampista che si dà per interesse, perché il mascalzone (Berlusconi) è ricco, ha le televisioni, le carte giuste per barare.
Gli argomenti della tartufesca lezioncina non si discostano da quelli standard dell'antiberlusconismo plebeo. Tanto per fare un esempio, Sofri afferma di non poter invidiare uno che, come Berlusconi, «ha un problema con la caduta dei capelli»: assunto da dialettica d'avanspettacolo - genere Ambra Jovinelli - al quale non ricorre più nemmeno Travaglio, che è tutto dire. Né manca - e come poteva mancare alla ovvia, scontata penna di Sofri? - l'accostamento Mussolini-Cavaliere. Al 'quale sono ricordate le figure di Ida Dalser e di Benitino, l'amante e il figlio della colpa che siccome «facevano ombra» al Duce finirono i loro giorni rinchiusi in manicomio. Così, profetizza Sofri, finirà anche la povera e ombreggiante signora Veronica: «Magari finalmente la signora la lascerà - scrive rivolgendosi a Berlusconi - e lei le scioglierà addosso la muta dei suoi cani». Parole di così pesante volgarità (solo un animo triviale può assiìmlare la signora Veronica all'estetista Ida Dasler, parlandone non da legittima moglie, ma da pidocchiosa relazione extraconiugale di Silvio Berlusconi e liquidare Barbara, Eleonora e Luigi come ingombranti figli adulterini della coppia) di fronte àlle quali la «colonna infame» - come Sofri definisce il quotidiano che pubblicò certe foto della signora Veronica senza un pezzo dell'abito di scena - diventa un soave e fanciullesco sberleffo.
Il richiamo alla privacy violata dalla signora Berlusconi, fatto proprio da tutte le persone di buon senso intervenute nell'affaire delle giovanotte che si voleva candidate all'Europarlamento, esula, ovviamente, dalle scelte moraliste di Adriano Sofri. Che anzi vi si scaglia contro con sociologico furore. «Il vecchio ritornello "fra moglie e marito ... " - scrive - di tutti i vizi nostri è il peggiore. È la incrollabile Protezione civile dei panni sporchi da tenere sporchi in famiglia». E qui sembra risuonare l'invocazione partenopea: «Tutt'o vico ha da sapé!» cara, evidentemente, all'animo specchiato, nobile e sensibile del mandante dell'omicidio Calabresi. Cioè di un criminale.

il Riformista 3.5.09
I postumi familiari sul consenso
I sondaggi e il caso Veronica
«Non nuocerà al premier»
di A.D.A.


Il ciclone Veronica non ha travolto il Cavaliere, anzi. Non lo dice solo il premier («Sono al 75,1 per cento. Più di Obama»). Ma anche i sondaggisti. Proprio loro. E dire che il Cavaliere li ha accusati, il 1° maggio a Napoli, di non rivelare quanto sia amato dagli italiani, usando un aneddoto: «Mi sembra il principio della zia Marina. Una volta l'ho trovata con un grande vestito rosa-rosso davanti a uno specchio dell'ingresso di Arcore che si diceva: "Marina come sei bella, Marina come sei bella". E io le ho detto: "ma zia, te lo dici da sola?" E lei: "Certo, non me lo dice nessuno". Quindi i sondaggi sono fatti da altri, ma non è che in giro vengano con piacere pubblicati».
Eppure proprio gli scienziati dell'opinione pubblica gli danno ragione. Tra Silvio e Veronica ha vinto Silvio. Renato Mannheimer taglia corto: «Non so nemmeno se sonderò l'affaire Veronica. Credo non sposti niente». Nando Pagnoncelli dell'Ipsos spiega: «Non è che l'elettorato ha un riflesso pavloviano che ad ogni movimento cambia modo di votare. Le motivazioni di fondo del consenso sono legate a tutto ciò che riguarda la sicurezza: in relazione alla crisi, al lavoro. Se uno non arriva a fine mese non si appassiona a Veronica. Tra l'altro Berlusconi è in crescita sin dalla fondazione del Pdl, che ha trasmesso un messaggio di leadership forte. Poi con l'Abruzzo ha consolidato il trend positivo comunicando due cose: una forte prossimità alle persone colpite dal terremoto; e una possibilità concreta di intervento». Numeri o no, la tendenza è chiara. Roberto Weber dell'Swg dice: «Il meccanismo di radicamento del consenso non passa per questioni come quella di Veronica. Nell'elettorato di centrodestra in molti rispondono: se sposi un miliardario, poi di che ti lamenti? Al di là delle cifre esatte i numeri dicono che temi come l'Abruzzo e il 25 aprile hanno spostato consensi a suo favore. Sull'Abruzzo, annunci o meno, sembra che alcune cose le abbia portate a casa. Tra l'altro riesce a gestire bene l'emotività diffusa. Un esempio: il giorno dopo la lite con Veronica, all'assemblea di Coldiretti quando ha parlato dei vigili del fuoco morti ha colpito molto la sala. Anche il 25 aprile è stato importante. Il 60 per cento degli italiani crede che il 25 aprile e l'antifascismo siano a fondamento della Repubblica. Quindi la sua partecipazione ha tranquillizzato una parte di elettorato moderato, in quel 60 per cento».
Insomma, la nottata di Veronica è passata. O forse non è nemmeno iniziata. Luigi Crespi, ex guru del Cavaliere la vede così: «Quello di Veronica è stato un déja vue e la minestra riscaldata non funziona. Quelli che abbiamo interpellato si chiedevano: "perché non divorzia?", "perché accetta condizioni che altre donne rifiutano?". Poteva invece essere rischiosa la vicenda della ragazza che lo ha chiamato "papi". Comunque l'ha gestita bene: prima con la storia dell'autista di Craxi, poi mangiandosi la mortadella e poi andando di nuovo in Abruzzo. Nell'ultimo sondaggio che ho fatto è al 62. Se perde un punto, è fisiologico visto che ha toccato il tetto. Difficile possa salire di più». Chissà.

l’Unità 3.5.09
Il nostro Paese declassato al settantatreesimo posto, al pari delle isole Tonga
La Freedom house: sistema di garanzie democratiche fragile
Italia bocciata in libertà
«La stampa è in pericolo»
di Federica Fantozzi


L’organizzazione indipendente americana che monitora la libertà di stampa nel mondo ha declassato il nostro Paese. da «libero» a «parzialmente libero». Con l’Italia retrocessi anche Israele e Hong Kong.

Per Reporter senza frontiere siamo al 44esimo posto nel mondo
Nella classifica stilata per il 2009 dall’organizzazione Reporters sans frontières, l’Italia figura al quarantaquattresimo posto, su 173 Paesi considerati. Nel report si parla anche del disegno di legge sulle intercettazioni che sarebbe, si legge, «incompatibile con gli standard democratici dell’Unione europea».

Nel 2007, Amnesty International ha riscontrato leggi limitative della libertà d’espressione e di stampa in settantasette Paesi. Tra le nuove frontiere, l'organizzazione segnala in particolare le limitazioni a Internet, soprattutto in Cina, Vietnam, Egitto e Cuba.

Nel rapporto di Freedom House, su 195 Paesi esaminati, solo 70 Stati sono classificati “free” (36 per cento del campione). Sessantuno (31 per cento) sono “parzialmente liberi” e 64 (pari al 33 per cento) sono considerati “non liberi”.

La libertà di stampa si sta riducendo in tutto il mondo. Anche in Italia che - per la prima volta - viene declassata da Paese «libero» (free) a «parzialmente libero» (partly free). Emerge dal Rapporto 2009 della Freedom House, un’organizzazione indipendente americana che da trent’anni analizza lo stato della libertà di stampa in 195 Paesi. L’Italia è al 73esimo posto alla pari di Tonga.
«L’arretramento - si legge nel documento - non è limitato agli Stati tradizionalmente autoritari. Con l’Italia scendono di categoria Israele e Hong Kong». Eppure, «l‘Europa Occidentale resta la regione con la maggiore libertà». La FH elenca le ragioni della retrocessione del nostro Paese, dove le libertà sono «fragili»: «La libertà di parola è stata limitata dai tribunali, da nuove leggi, dalle crescenti intimidazioni ai giornalisti da parte di criminalità organizzata e gruppi di estrema destra, e per le preoccupazioni sulla concentrazione della proprietà dei media».
I criteri del Rapporto sono tre: il contesto legale (leggi e regolamenti che possono influenzare i media o restringere la loro operatività); quello politico (il livello di controllo politico sui media, indipendenza e censure); il contesto economico (trasparenza, risorse pubblicitarie, corruzione). La ricercatrice della FH Karin Karlekar spiega che la retrocessione è dovuta anche al secondo mandato di Berlusconi premier: «Il suo ritorno nel 2008 ha risvegliato i timori sulle concentrazioni di mezzi di comunicazione pubblici e privati sotto una sola guida».
Leggi punitive
Tra gli elementi indicatori della libertà di stampa ci sono le garanzie costituzionali. Mentre in senso opposto agiscono norme penali che restringono la possibilità di fare informazione o sanzionano i giornalisti.
In questa categoria rientra il disegno di legge Alfano sulle intercettazioni, all’esame del Parlamento, che vieta la pubblicazione di tutti gli atti di indagine fino al dibattimento e prevede il carcere per i giornalisti. Un testo considerato un «bavaglio» da Fnsi, Fieg, Ordine Gionalisti e Unione Cronisti che accusano: il governo vuole cancellare gli articoli 20 e 101 della Costituzione, le sentenze della Cassazione che definiscono la stampa «cane da guardia della democrazia, le indicazioni dell’Unione Europea». Anche Pecorella, avvocato di Berlusconi, ha espresso dubbi sulla costituzionalità del ddl: bisogna tutelare la privacy senza azzerare un importante strumento di indagine.
Censura e autocensura
La FH indaga fino a che punto il governo possa determinare i contenuti dei media, se esista censura ufficiale o clandestina, se i cronisti siano spinti ad autocensurarsi o intimiditi da «violenza di Stato».
Sull’invadenza del governo, si può citare la frase di Berlusconi ad una recente conferenza stampa, rivolta a una giornalista Rai: «Cosa scrive lei? Non sa che a casa mia si stanno facendo le nomine di Viale Mazzini?». O quanto lo stesso premier ha detto in una conferenza stampa di ottobre (in piena protesta studentesca): «Portate ai vostri direttori i saluti miei e del ministro Gelmini». Dichiarazioni stigmatizzate dalla Fnsi: «Parole minacciose, i colleghi continuino a fare il loro lavoro».
Capitolo censure: il cda Rai ha punito con l’allontanamento temporaneo dal video Vauro, il vignettista di Annozero, reo di avere attaccato il governo sul terremoto.

l’Unità 3.5.09
Le mani di uno su tutto: l’enorme conflitto di interessi
Il «fattore economico»: questo preoccupa gli osservatori internazionali. Gli squilibri sia nella carta stampata sia nelle televisioni: con la Gasparri Mediaset resta dominante
di F. Fan


Fino a che punto i media sono posseduti o controllati dal governo e questo influenza la loro diversità di vedute? La proprietà è trasparente? La proprietà è altamente concentrata e questo influenza la diversità di contenuti? I costi di avvio e mantenimento di un’attività giornalistica sono alti?
La risposta a queste semplici domande è stata cruciale nella retrocessione italiana. È il «fattore economico» a differenziare questo governo dal precedente. Cacciato dalla porta e affatto risolto dalla Legge Frattini, il conflitto di interessi rispunta dalla finestra.
La Freedom House condivide le critiche alla Legge Gasparri sull’assetto del sistema radiotv, che lede il principio del pluralismo, favorisce la pubblicità televisiva a svantaggio della carta stampata. E non sventa il rischio di una posizione dominante di Mediaset né di un rafforzamento del profilo editoriale di Berlusconi. Nel dettaglio: Rete4 non è andata sul satellite e l’emittente Europa7, pur avendo diritto alle frequenze, non ha mai trasmesso.
È soprattutto negativa «la concentrazione insolitamente alta della proprietà dei media rispetto agli standard europei». In sostanza, il Rapporto conclude che il Cavaliere possiede Mediaset e controlla - attraverso il governo - anche la Rai. Un quadro confermato dalla partita per le nomine a Viale Mazzini con la famosa riunione notturna a Palazzo Grazioli, residenza privata del premier. «Ha fatto risparmiare ai cittadini la bolletta della luce» ha commentato sarcastica l’opposizione.
Tuttavia, questo è il panorama. Cristallizzato dalla crisi di La 7 (piano di ristrutturazione e voci di dismissione da parte di Telecom). Ed esacerbato dallo scontro tra Berlusconi e il magnate australiano Rupert Murdoch, patron di Sky. Nel dicembre scorso fu scontro aperto: con la decisione del governo, Tremonti in testa, di alzare l’Iva sulla pay-tv dal 10 al 20%. Accordi europei presi dal governo Prodi, secondo il ministro dell’Economia; «non risultano» smentì una gelida nota dell’emittente satellitare. Che lanciò una campagna di spot antigovernativi e diffuse la mail di Palazzo Chigi ai telespettatori imbufaliti. I giornali titolarono a effetto: «Lo Squalo contro il Caimano». Berlusconi se la prese con le cronache: «Che vergogna, i direttori di “Stampa” e “Corriere” cambino mestiere».
La partita è economica. In palio c’è il bacino di 4,7 milioni di famiglie abbonate al «terzo polo digitale». Una platea che fa gola, in un momento in cui persino l’impero del Biscione risente della crisi globale. Tenzone ancora aperta: Sky ha risposto ingaggiando Fiorello e Mike Bongiorno. Nel 2005 il governo sempre guidato da Berlusconi finanziò l’incentivo all’acquisto di decoder prodotti dall’azienda di Paolo Berlusconi (suo fratello). Non fu sanzionato dall’Antitrust perché aveva commesso un «atto estraneo» all’ambito di applicazione della Legge Frattini.

l’Unità 3.5.09
Il falco Lieberman inizia da Roma la missione europea fra le contestazioni
di Umberto De Giovavannangeli


Inizia domani da Roma il tour europeo di Avigdor Lieberman, il leader della destra radicale, neo ministro degli Esteri dello Stato di Israele. A Roma si preannunciano manifestazioni di protesta, e lo stesso a Berlino, Parigi, Praga.

Personaggio controverso, amato o odiato, nessuna mezza misura, Lieberman, capo della diplomazia israeliana, si è fatto annunciare da dichiarazioni di diverso tono sul processo di pace: alcune più concilianti, altre di aperto scetticismo sui principi seguiti finora nel negoziato con i palestinesi e di opposizione irriducibile a ogni ipotesi di restituzione delle Alture del Golan alla Siria.
Particolare scalpore hanno destato le affermazioni del neo ministro degli Esteri del governo Netanyahu – apparse un atto di sfida non solo alle posizioni dell’Unione Europea, ma anche ai messaggi della nuova amministrazione americana di Barack Obama – contro la validità dell’intesa definita ad Annapolis nel 2007 fra Israele e Autorità nazionale palestinese (Anp) sotto l’ombrello degli Usa per rimarcare l’impegno verso una pace globale e duratura fondata sulla soluzione dei «due popoli per due Stati».
Soluzione tuttora sostenuta dall’Occidente e dalla comunità internazionale, ma su cui il nuovo esecutivo israeliano si è mostrato finora quanto meno evasivo, suscitando la preoccupata reazione del presidente palestinese, il moderato Mahmoud Abbas (Abu Mazen).
ISRAELE AVVERTE L’EUROPA
Nei giorni scorsi un alto funzionario del ministero degli Esteri di Gerusalemme ha avvertito i Paesi europei che se non verrà posto un freno alla critiche al governo di Benjamin Netanyahu, l’Europa rischia di trovarsi esclusa dal negoziato di pace con i palestinesi. Il principale obiettivo delle critiche israeliane è la Commissaria europea per i rapporti Esterni, l’austriaca Benita Ferrero Waldner, che ha recentemente parlato di un possibile congelamento del processo di rafforzamento dei rapporti con Israele legato all’andamento del processo di pace.
AMBASCIATORI CONVOCATI
Diversi giorni fa il vice direttore per l’Europa al ministero degli Esteri israeliano, Rafi Barak, ha iniziato a convocare gli ambasciatori europei. I primi incontri sono stati con il francese Jean Michel Casa (il più solidale con le affermazioni della Waldner), il britannico Tom Philips e l’incaricato d’affari tedesco. «È da settimane che diciamo a tutti in Europa che il governo israeliano ha bisogno di tempo per riformulare le sue politiche e non vuole iniziare una guerra sulla stampa», spiega Rafi Barak.. «Israele sta chiedendo all’Europa di abbassare i toni e portare avanti un dialogo discreto – aggiunge il diplomatico - tuttavia se dichiarazioni come quelle della signora Waldner continueranno, l’Europa non potrà far del processo diplomatico e le due parti ci perderanno». Con questo poco amichevole viatico, Lieberman inizia domani il suo tour europeo. Un tour in salita per «Avigdor il russo».

l’Unità 3.5.09
Modello Thatcher e nuove teoria economche
di Loretta Napoleoni


È fallito il socialismo e poco dopo anche il neo liberismo si è frantumato. Travolti da questo cataclisma i governi usano l’economia come i pompieri l’idrante, gettano acqua dove c’è più fuoco cercando di salvare il salvabile. Ci vorrebbero architetti e ingegneri per farlo ma non ce ne sono disponibili. Nessun governo ha infatti sottomano una nuova teoria economica, un modello da seguire perché per trent’anni ci si è adagiati sul sistema creato dalla signora Thatcher. Ed è questo il pericolo vero della recessione, l’assenza di un’alternativa al modello del libero mercato. L’economia che fino allo scorso settembre ha fatto da cornice alla nostra vita poggiava su questo principio, professato per un decennio dal governo della signora di ferro. Ma i pilasti ideologici della rivoluzione thatcheriana hanno iniziato ad alzarsi ben prima della sua elezione a primo ministro il 3 maggio del 1979. In un’Inghilterra fiaccata dalle politiche assistenzialiste del partito laburista, la dottrina neo-liberista incoraggia l’iniziativa privata. Nascono migliaia di piccole imprese. A facilitarne la rinascita è l’abbattimento delle aliquote fiscali, quella più elevata si dimezza al 40%, e la privatizzazione dei beni dello stato. La Gran Bretagna vende i suoi gioielli: scuole, parchi, ospedali, trasporti e telefonia finiscono in mano ai privati. Le casse dello stato si gonfiano e la politica monetaria diventa un esercizio contabile, proprio come aveva suggerito il guru del neo-liberismo, Milton Friedman, l’economista più ammirato dalla signora di ferro. L’era in cui si stampava carta moneta pervia andare avanti il carrozzone dello stato è finita e con lei le ondate di inflazione galoppante. Chi beneficia maggiormente delle nuove politiche è però la finanza. Con il Big Bang la Thatcher apre le porte della City di Londra ai banchieri europei e americani. Un misto di sgravi fiscali, incentivi monetari e il rilassamento dei controlli trasforma la capitale inglese nella piazza affari più dinamica ed ambita del mondo. È l’inizio della deregulation. Il modello thatcheriano si presenta come lo schema economico della globalizzazione, un modello però che funziona solo in alcuni paesi e che non resiste al test del tempo. In Russia crea la casta degli oligarchi, in America dà vita agli abusi finanziari che hanno trascinato l’economia mondiale nella recessione, persino in Gran Bretagna l’eredità della Thatcher è il caos economico. Quale la soluzione? Non il colpo di spugna che tutti i governi vorrebbero: innalzamento delle aliquote fiscali, creazione dal nulla di carta moneta, nazionalizzazioni e potenziamento del sistema sociale. L’alternativa non può essere il ritorno al socialismo ma una nuova teoria economica. Una che funzioni per i prossimi trent’anni fino alla prossima crisi. L’economia non è una scienza esatta e la teoria perfetta non esiste.


Repubblica 3.5.09
Così si perde la partita della memoria
Assurdo il progetto per costruire campi di football davanti al monumento romano
Colosseo, la storia presa a calci
di Salvatore Settis


Finalmente sapremo a che cosa servono ruderi inutili e ingombranti come il Colosseo, l’Arco di Costantino, il tempio di Venere e Roma. Il momento della verità è arrivato, e a quel che pare dobbiamo esserne grati al Comune di Roma.

Quello stupido e noioso pietrame grigiastro verrà finalmente messo a buon frutto: le finali della Champions League saranno allietate da campi di erba sintetica a ridosso del Colosseo, l´arco di Costantino in asse con una delle porte del rettangolo verde. Intorno, stand gastronomici, grappoli di gabinetti chimici, megaschermi con pubblicità, son et lumière, e "un´azione di guerrilla marketing". Finalmente un po´ di modernità, finalmente sconfitti i nostalgici che vedono nella tutela dei monumenti un dovere civile. Che importa se i 200 mila tifosi previsti, compresi gli hooligans, dovessero danneggiare quel vecchiume? Questo ennesimo episodio di barbarica incuria non è isolato. Predichiamo contro l´inquinamento ambientale, e dimentichiamo che la stessa battaglia va combattuta contro l´inquinamento acustico e visivo. Ci parliamo addosso sulla bellezza delle nostre città, sulla ricchezza monumentale dei nostri centri storici, sulle migliaia di anni di storia di cui ci vantiamo di essere eredi: e nelle piazze più belle portiamo impunemente folle rumorose che ne deturpano l´immagine e ne inquinano la percezione. Non riusciamo più a "vedere" i nostri palazzi e le nostre chiese, i templi e gli archi e gli anfiteatri: sempre più spesso ridotti a comodo fondale per inscenare spot o spettacolini d´ogni sorta. Abbiamo dimenticato facilmente gli orrori del concerto dei Pink Floyd a piazza San Marco vent´anni fa, con danni molto più costosi degli introiti. Non vogliamo sentirci dire che la bellezza delle nostre città è fragile, va protetta con la cura amorevole delle generazioni passate: preferiamo accorciarne la vita, accecando la memoria storica per meschini guadagni immediati, senza nemmeno un pensiero ai posteri. Inutile accusare sindaci, assessori, soprintendenti: se non sappiamo levare la nostra voce, siamo tutti colpevoli. Roma poi è un caso speciale. È il sito archeologico più vasto del mondo, e fra i più importanti. Contiene memorie storiche uniche. Impone una sfida senza pari: conservare per il mondo un patrimonio che è di tutto il mondo, e farlo con gli strumenti di un solo Paese. Titolare di questo compito straordinario dev´essere lo Stato o il Comune? C´è una sola risposta possibile: tutte le istituzioni pubbliche devono far convergere i propri sforzi, perché quanto accade a Roma è sotto gli occhi del mondo. Perciò l´argomento "il Colosseo è dello Stato, la piazza è del Comune" è spazzatura. I monumenti non sono soprammobili, esistono nel loro contesto: è il contesto che va protetto, e i monumenti con esso. A questo alto dovere il Comune è tenuto non meno dello Stato.
Nei mesi scorsi si è svolta una diatriba sul commissariamento della Soprintendenza archeologica di Roma, affidato a Guido Bertolaso, che si è da poco dimesso perché sa bene che il suo posto è in Abruzzo. Molti si sono chiesti che cosa ci stesse a fare un esperto di protezione civile come commissario dell´archeologia di Roma. Il danno all´immagine della città e i probabili danni ai monumenti che ci sta per ammannire la kermesse calcistica in arrivo sono, e saranno, una vera emergenza. Che fosse questa la vera ragione del commissariamento, il disastro non tellurico ma umano a cui Bertolaso doveva porre riparo?

Repubblica 3.5.09
I luoghi della destra e la sinistra senza luoghi
di Ilvo Diamanti


LA DESTRA - il Centrodestra, per usare un linguaggio politicamente corretto - ha fatto del territorio un fondamento della propria identità. Per la Lega Nord è il più importante.
Un riferimento costitutivo. Reso visibile da una presenza territoriale diffusa. Attraverso i gazebo, i volontari in divisa, le stesse ronde (talora in camicia verde). Il federalismo fiscale, approvato dal Parlamento la settimana scorsa, contribuisce a rafforzare questa immagine. Non è possibile sapere, oggi, in che misura garantirà, effettivamente, l´autonomia responsabile delle regioni e degli enti locali. Tuttavia, si tratta di una bandiera piantata sul territorio. Per usare un ossimoro: un "simbolo pratico", che fa sembrare reali e attuali gli effetti di una legge approvata, ma non ancora in vigore.
Anche il principale partito di Destra (pardon, Centrodestra), il PdL, ha accentuato sensibilmente il rapporto con il territorio, facendone quasi un marchio. Non tanto perché l´aggregazione tra Fi e An ha disegnato una geografia elettorale precisa e complementare a quella della Lega. Quindi: centro-meridionale. Ma perché il PdL ha sviluppato e sta sviluppando una politica "localizzata": profondamente associata ai "luoghi". È questa, a nostro avviso, la principale ragione del successo di pubblico - se non di critica - riscosso da Silvio Berlusconi dopo aver vinto le elezioni. Ciò può apparire singolare e quasi paradossale. Berlusconi è il Signore dell´Immagine. Della "politica come marketing". Il suo territorio coincide con lo "spazio mediatico". Anzitutto con la televisione. Non per caso, negli ultimi giorni, è stato coinvolto da polemiche relative alle candidature in vista delle prossime elezioni europee. Selezionate, alcune, non in base alla "presenza" nel partito e sul territorio. Ma alla "bella" presenza. E basta.
Silvio Berlusconi. Negli ultimi mesi, nell´ultimo anno, ha costruito la propria immagine - oltre a quella del governo - in rapporto diretto ai "luoghi" che hanno concentrato l´attenzione degli italiani. Nell´ultimo mese: l´Abruzzo e i luoghi del terremoto. La cui tragedia ha suscitato l´emozione e la solidarietà popolare. Il dolore e la distruzione: sotto i riflettori, le telecamere. Ogni giorno: L´Aquila, Onna. E Berlusconi. Sullo sfondo Gianni Letta. Visibile, nella sua invisibilità. Davanti a tutti - apripista e battistrada - Guido Bertolaso. Efficiente direttore della Protezione Civile. Ormai un´icona. Garante, appunto, della "protezione" dei cittadini, in occasione delle catastrofi che si abbattono - numerose, sempre impreviste e sempre prevedibili - nel nostro paese. Così bello e martoriato. Berlusconi c´è. Accanto ai terremotati. A testimoniare la "sua" solidarietà e la "sua" presenza: personale, politica e come capo del governo. In Abruzzo, fra qualche tempo, si riuniranno anche i Grandi del Mondo. Guidati da Lui. Che, nei prossimi mesi e nei prossimi anni, continuerà a recarsi lì. Per controllare e sottolineare la ricostruzione che procede. Il ritorno alla normalità. (Prospettive che - noi per primi - auspichiamo).
Questo legame - diretto, personale e politico - fra Berlusconi e i "luoghi", a nostro avviso, è all´origine della grande popolarità del premier in questo momento. L´Abruzzo ne è l´esempio recente, ma non unico. Basta pensare a Napoli, al tempo della campagna elettorale e all´indomani del voto. La città sommersa dai rifiuti, a sua volta palcoscenico e scenario mediatico frequentato da tutte le reti e da tutti i giornali. Non solo italiani. Più efficace di qualsiasi mobilitazione politica a raffigurare la sconfitta del progetto di "ricostruire" il Mezzogiorno. E, dunque, di Bassolino ma soprattutto della Sinistra. Pardon: del Centrosinistra. Napoli. Divenuta il simbolo dell´efficienza miracolosa e quasi taumaturgica di Berlusconi. Affiancato e sostenuto da Bertolaso. Sullo sfondo, invisibile e per questo più visibile, Gianni Letta. Da un anno, i rifiuti sembrano scomparsi. Almeno, dai media. E da un anno Silvio Berlusconi continua a recarsi con frequenza a Napoli. Vi riunisce il governo. Partecipa a feste private di compleanno. Semplicemente, ci passa. Un salto rapido per vedere come vanno le cose e via.
L´identificazione del governo e di Berlusconi con i "luoghi del degrado e della ricostruzione", della morte e della rinascita. E, insieme, il legame della Lega - l´allitterazione non è involontaria - con il territorio e in particolare con il Nord. Rendono più evidente, per contrasto, la distanza dell´opposizione di Sinistra - pardon: centrosinistra - dal territorio. Un paradosso, perché il Pd è l´erede dei maggiori partiti di massa della prima Repubblica. La Dc e il Pci. Tanto radicati nel territorio e nella società da caratterizzare la stessa definizione geopolitica di alcune zone del paese. Definite "bianche" (le regioni del Nordest) oppure "rosse" (quelle del Centro). Oggi il Pd è affaccendato in altre faccende. Certo, nelle sue liste per le europee non si incontrano "veline". Ma ha presentato candidati e soprattutto capolista scarsamente collegati al territorio. (Per usare un eufemismo). Mentre i sindaci - principali interpreti del legame della Sinistra con il territorio, durante la seconda Repubblica - non godono di grande popolarità. Soprattutto quelli del Nord. Le loro critiche al distacco del partito dagli interessi locali sono accolte con insofferenza. E indifferenza. Il Pd come il PdL: si è personalizzato. Concentrato e diviso alla ricerca del suo Berlusconi, sta perdendo i presidi sul territorio. Non solo nel Nord. A Roma, dopo 15 anni governa la Destra. Nel Sud, pare aver abbandonato Napoli e la Campania, per oltre dieci anni le nuove "zone rosse". E alle elezioni di giugno la "battaglia europea" sembra più importante, per il Pd, rispetto alla difesa delle ultime roccaforti: Bologna e Firenze.
Si assiste, così, a un singolare - e oseremmo dire: storico - rovesciamento delle parti. Mentre la Destra costruisce e inventa i suoi luoghi, la Sinistra li ha dimenticati.
Era utopica. Oggi è atopica.

il Riformista 3.5.09
L'ultima suite di Picasso
Romanzo picaresco del '68
di Emanuele Trevi


Capolavori. Il ciclo di incisioni del pittore spagnolo in mostra a Cremona. «Il diario di bordo del genio ottantaseienne», un racconto «dove tutto è accaduto», mentre fuori va in onda il maggio francese. Un artista col «senso vivissimo e precoce di un destino d'eccezione», come Goethe e le sue "Affinità".

Quanti artisti, soprattutto tra i moderni, possono definirsi uomini perfettamente realizzati, alla maniera di Pablo Picasso ? Posso spremermi le meningi quanto voglio, ma mi viene in mente solo lui, l'eterno, impassibile, ironico Goethe. Fra lo scrittore tedesco e il pittore spagnolo, del resto, certe analogie non mancano: a partire da un senso vivissimo e molto precoce del proprio destino d'eccezione. Li si è accusati spesso, in campo umano e sentimentale, di crudeltà ed egoismo: forse con più giustizia si sarebbe potuto dire che erano individui incapaci di tornare sui propri passi.
Miracolosa, poi, a giudizio unanime, è la vecchiaia di entrambi. Tanto che si potrebbero considerare opere come Le affinità elettive o la Suite 347, stupendo ciclo di incisioni in mostra al Museo Civico di Cremona, come due allegre sfide alla morte, e insieme nobilissime affermazioni della dignità umana. Curata da Ivana Iotta e Donatella Migliore, la mostra cremonese è un'occasione più unica che rara, visto che mai il ciclo di Picasso era stato esposto nella sua integrità (ottimamente curato è anche il catalogo della Silvana Editoriale). Ideate ed eseguite fra il 16 marzo e il 5 ottobre del 1968, le 347 incisioni del ciclo possono essere considerate come il diario di bordo di un genio di ottantasette anni, e assieme un tour de force tecnico senza paragoni, nel quale tutte le risorse ed i trucchi dell'arte vengono sperimentati e messi a frutto l'ultima volta. Un testamento, infine, che invece di avvitarsi sui rimpianti e la malinconia di chi lo scrive, si spalanca sul mondo, trasformandosi in enciclopedia, museo, spettacolo circense, festa galante e libertina.
Iniziata il 16 marzo, la prima acquaforte dell'intera serie è intitolata Picasso, la sua opera e il suo pubblico. Non manca un autoritratto dell'artista di profilo, assieme a un Ercole barbuto, un altro misterioso personaggio dai tratti gitani, e una figura giovane e nuda, d'aspetto androgino, che osserva sdraiata per terra la scena al centro della rappresentazione: una donna (la prima delle centinaia di avvenenti apparizioni femminili della Suite 347) in groppa a un cavallo visibilmente eccitato, che ha l'aria di rapirla come Giove tramutato in toro che si porta via Europa in tanti pittori rinascimentali e barocchi. Una vera e propria ouverture, quest'acquaforte iniziale, con le prime scintille prodotte dal cortocircuito fra erotismo e voyeurismo destinato a manifestarsi in tutto il ciclo.
Facciamo adesso un balzo fino all'ultimo segmento della Suite, la Serenata al tramonto in un bosco alla Monet, numerata 347. La tecnica particolare di questa incisione, un'«acquatinta allo zucchero», permette a Picasso di giocare al meglio con i volumi del fogliame, suggerendone la densità, il movimento e il rumore prodotti dal vento, assieme ai giochi di luce del sole calante sulle fronde. Presenze appena distaccate dal fondo boschivo che le circonda, due figurine umane occupano l'angolo destro della composizione. Un chitarrista suona inginocchiato ai piedi di una presenza femminile seminuda, le braccia conserte sul seno, in atteggiamento meravigliosamente ambiguo, sospeso tra pudicizia e diletto. È una donna o una ninfa dei boschi, questa presenza così attraente, che la musica della chitarra cerca di attrarre nella sua rete sottile, privandola di ogni resistenza - quasi che la serenata fosse una tecnica di caccia, l'eterna caccia la cui soddisfazione è il desiderio erotico ?
Nella sua classica compostezza, quest'ultima incisione è un degno finale di tutta l'impresa, non solo per l'erotismo che ancora una volta vi si afferma, in una maniera che risulta nuova pur al termine di innumerevoli variazioni, ma anche per l'iscrizione del segno del vecchio Picasso nel canone più nobile della pittura europea. Come tantissime volte accade nell'opera del maestro spagnolo, l'omaggio esplicito (in questo caso a Monet) è tutt'altro che un punto di arrivo. La citazione evidente, al contrario, innesca un movimento allusivo di portata ben più ampia, che non si tira indietro nemmeno di fronte a una delle pagine più importanti della pittura veneta del cinquecento, il Concerto campestre del Louvre conteso da Tiziano e Giorgione. La grande pittura del passato, del resto, non è presente solo nella conclusione della serie, ma innerva tutta intera l'impresa, coinvolgendo Goya e Velazquez, Raffaello e Rembrandt.
In qualche modo, il vecchio Picasso è ossessionato dall'immagine del Museo. Il Museo è l'immagine ultima che assume un mondo-come-spettacolo inseguito fin dai primi passi d'artista. È il circo, il bordello, la scena mitologica, il teatro di una memoria individuale tanto vasta da assomigliare alla memoria di tutti - come sempre accade a un vero "classico". Ma nello stesso tempo, quello del Museo non è affatto uno spazio pacificato, percorribile al riparo da pulsioni ed inquietudini potenzialmente micidiali. La vera e più profonda natura del Museo, infatti, lo apparenta al Labirinto, dove il desiderio animale del Minotauro può manifestarsi ad ogni svolta.
Ma che cos'è la "Suite 347"? Indubbiamente, si tratta di un lungo racconto per immagini, dotato di una sua architettura, segreta ma efficace. Con le sue date progressive, risente del diario, certamente, ma non si accontenta di essere un semplice deposito di esperienze stratificate. Troppe ricorrenze di simboli, simmetrie, corrispondenze interne cementano l'unità narrativa dell'opera. Potremmo quasi parlare di una specie di romanzo, ma a patto di rinunciare ad una delle prerogative più ovvie dei romanzi di tutti i tempi e di tutti i generi: la progressione lineare, quella specie di linea invisibile che collega il prima e il dopo, le cause e gli effetti. Come in certi sogni lunghi ed affannosi che capita di fare, nella Suite 347 tutto è già accaduto, tutto accade nello stesso momento, e tutto sta per accadere. Frequente è il ricorso al romanzo picaresco, o meglio d'avventura, con situazioni di cappa e spada più vicine ai Tre moschettieri che al Don Chisciotte.
Vi appaiono spesso personaggi vestiti alla maniera dei quadri di Rembrandt, come li definisce lo stesso Picasso, con larghi cappelli, eleganti farsetti, mantelli e stivaloni. Sempre pronti a un duello, a un rapimento, a una fuga a cavallo, questi eroi li sorprendiamo spesso incantati di fronte alla nudità femminile, che è il segreto ultimo, la posta in gioco di ogni avventura. Non disdegnano, questi moschettieri onirici, di tralasciare la spada a favore dei pennelli e della tavolozza del pittore. Di incisione in incisione, l'organismo narrativo procede sostituendo la logica alla meraviglia. Con suprema padronanza e consapevolezza della propria superiorità, Picasso ingloba nella sua serie interi romanzi o episodi leggendari, come nelle serie dedicate alla Celestina, capolavoro erotico del rinascimento spagnolo, o agli amori di Raffaello e della Fornarina, spiati da papa Giulio II assiso…sul suo pitale. Non sono parentesi in cui il genio di Picasso si piega a illustrare un'altra storia. Semmai, in questo modo viene dimostrata la forza della Suite, capace di inglobare e fare propria ogni specie di materiale, come un mostro marino che tutto divora e tutto assimila a sé nelle sue viscere.
Profonda ironia delle date: tra il marzo e l'ottobre del 1968 tutto il mondo occidentale è scosso da una rivoluzione capace di rendere irriconoscibile l'aspetto della società occidentale, le sue gerarchie ed i suoi valori consolidati. A Mougins, nel sud della Francia, nella villa di Notre-Dame-de-Vie, il vecchio maestro capta qualche segnale del disordine che regna sotto il cielo. La tv gli porta l'immagine del presidente De Gaulle, oppure di un vecchio film in costume, e lui, impassibile, assorbe anche quei richiami provenienti dall'esterno nel calderone delle incisioni. Indefessi, i fratelli Crommelynck, leggendari stampatori e vicini di casa, stanno al passo dell'avventura. Osservando quest'impresa meravigliosa, questo romanzo le cui trame sono innumerevoli come le foglie di una pianta tropicale, tocchiamo con mano la forza del genio. E una degna epigrafe mi sembra quella offerta da una delle ultime poesie di un altro grande vecchio del novecento, Eugenio Montale, dedicata al mitico Re Pescatore: solo lui, osserva il poeta, conosce «la giusta misura». Quanto a tutti gli altri, hanno «solo un'anima», ed anche «paura di perderla».