martedì 5 maggio 2009

Repubblica 5.5.09
Il Cavaliere teme il processo mediatico "Troppo lungo un divorzio per colpa"
Marina e Piersilvio ad Arcore. Gli altri tre figli schierati con la madre
Le mosse della First Lady farebbero pensare ad una separazione "con addebito"
Il premier studia la controffensiva e continua a ripetere di non avere nulla da nascondere
di Claudio Tito


ROMA - «Separazione con addebito». Adesso sono diventate queste le parole che fanno più paura a Silvio Berlusconi. La possibilità, cioè, che Veronica Lario chieda non la procedura consensuale per arrivare al divorzio, ma quella per «colpa». Un iter che renderebbe tutto più drammatico. Soprattutto trasformerebbe l´addio tra "Veronica e Silvio" in un grande processo pubblico.
Il Cavaliere ha passato tutta la giornata di ieri ad Arcore. Ha chiamato tutti i collaboratori più fidati, ha consultato l´avvocato Niccolò Ghedini e la sorella Ippolita, ha convocato l´amico di sempre Bruno Ermolli e ha chiesto ai figli maggiori, Marina e Piersilvio, di mettere sul tavolo la loro posizione e i loro suggerimenti. Ha insomma discusso come affrontare le tappe del secondo divorzio. Ha soppesato i rischi connessi agli assetti proprietari dell´impero aziendale ma anche quelli relativi alla prossima campagna elettorale. Lo staff berlusconiano dunque prepara la controffensiva. Gli annunci dell´ormai "ex consorte" hanno messo in allarme lo stato maggiore di Villa San Martino. Al punto che tra le varie opzioni, è stata valutata pure la reazione da organizzare nel caso in cui la Lario si rivolga al giudice per ottenere la «separazione per colpa». Una eventualità che innervosisce il capo del governo. Dopo l´approvazione del cosiddetto "Lodo Alfano", infatti, il capo del governo era convinto di non dover più frequentare le aule dei tribunali. In particolare quelle di Milano. Ma se la "signora" davvero imboccherà la strada dello "scontro", sarà inevitabile rimettere piede a corso di Porta Vittoria.
Secondo i legali del premier, infatti, le mosse della First lady fanno pensare ad una soluzione di questo tipo. A cominciare da quel richiamo alla «minorenne» Noemi. «Se sarà così - è il timore del premier - la vicenda potrebbe durare troppo». Una telenovela su cui saranno puntati gli obiettivi di tv e giornali. Sebbene l´avvocato della Lario, Maria Cristiana Morelli, abbia ieri spiegato che questa è una «materia che non va gestita sui giornali».
Gli uomini del presidente del consiglio, poi, hanno centrato la loro attenzione anche su altri rischi che potrebbero fare chiudere il divorzio in modo poco proficuo. Compresa la parte economica e aziendale. Non solo. C´è anche chi ha fatto notare che Tangentopoli è scoppiata nel 1992 proprio a causa di una lite coniugale. Il braccio di ferro sugli alimenti tra Mario Chiesa e l´allora consorte Laura Sala incuriosì il pool milanese di Mani Pulite. Un´osservazione, però, contestata da Berlusconi: «Io non ho nulla da nascondere».
Sta di fatto che l´idea di un addio lungo e travagliato non lascia tranquillo l´inquilino di Palazzo Chigi. Moglie e marito non si sono ancora chiariti a quattr´occhi. Per non parlare della scelta dei tre figli di "secondo letto" schieratisi al fianco della madre. Non è un caso che ieri pomeriggio ad Arcore ci fossero solo Marina e Piersilvio. Del resto, sul tavolo restano i nodi relativi ai ruoli che assumeranno Barbara, Eleonora e Luigi nei futuri assetti societari. Nessuno dei tre riveste cariche di primo piano in Mediaset e in Mondadori, ossia nel cuore del colosso imprenditoriale berlusconiano.
Per gli stessi motivi fino a domenica scorsa il "marito" non aveva escluso una riconciliazione in extremis con la moglie. Un´opzione che ieri ha perso terreno, sebbene ad Arcore non venga ancora considerata definitivamente tramontata.
A Palazzo Chigi nessuno sottovaluta le ripercussioni della vicenda sulla situazione politica. Soprattutto sulla prossima campagna elettorale e sui risultati delle europee. Prima dell´"affaire Veronica", il premier era deciso a giocare la consultazione di Strasburgo solo sulla sua persona. Un vero e proprio plebiscito, non tanto sul governo ma su "Silvio Berlusconi". «Voglio battere tutti i record di preferenze», aveva spiegato ai suoi fedelissimi. Voleva superare per numero di voti tutti i "campioni" della Prima Repubblica (l´esempio più citato è quello anni ´80 di Giulio Andreotti nella circoscrizione Centro) e soprattutto voleva battere tutti i candidati europei. Per presentarsi così come l´uomo più "cliccato" del continente. Con questo obiettivo ha deciso di "correre" su tutto il territorio nazionale. Il "caso Lario", però, potrebbe costringerlo a cambiare i programmi.

Repubblica 5.5.09
Maria Cristina Morelli, 48 anni, ha assistito anche Beppino Englaro
"Il ciarpame resterà fuori dalla causa" l´avvocato della Lario prepara la guerra
di Cinzia Sasso


Nell´ambiente forense è conosciuta come una che non molla mai. Ha incontrato la moglie del Cavaliere domenica scorsa a Macherio

MILANO - La guerriera è una donna molto alta, il fisico asciutto, un fascino androgino e un paio di occhi blu che almeno nel colore somigliano a quelli della famosa cliente. Maria Cristina Morelli, il Davide che sfiderà Golia, l´avvocato che Veronica Lario ha scelto per dire addio al marito Silvio Berlusconi, arriva a piedi con le sue solite scarpette basse e mostra subito di che pasta è fatta: sa che la battaglia non sarà solo davanti al giudice civile, che l´immagine e la comunicazione conteranno molto, certo che ha letto i primi segnali - le foto a seno scoperto di Veronica attrice pubblicate su Libero e in possesso solo della casa - ma da subito vuole mettere i paletti. «Io sono un avvocato e mi occupo dell´aspetto legale» dice. Il «ciarpame» resterà fuori da qui.
"Qui" è uno studio in un palazzo anonimo di via Fontana, a due passi dal palazzo di giustizia. La via dei grandi studi, degli avvocatoni di fama, di quelli, insomma, che ieri si chiedono stupiti: ma davvero Veronica ha scelto la Morelli? Nessuno disposto a dire che è simpatica: una dura, raccontano; una che non molla mai; una che dà anima e corpo alla professione e che lavora venti ore al giorno; una che «va sempre alla guerra». A giugno compirà 48 anni, viene da Soresina, nel Cremonese, da una famiglia benestante di quelle col villone, la madre aveva una partecipazione in una concessionaria della Fiat, due fratelli maschi, lei l´unica ad aver studiato legge. Niente marito e nemmeno figli. Laurea a Parma, poi l´inizio della professione a Milano, assistente del suo relatore, il professore di diritto processuale Bruno Cavallone; il passaggio, per un paio d´anni, in uno degli studi più importanti per il diritto di famiglia, quello di Laura Hoesch, e infine il grande salto: titolare. Ed eccola, nei primi tempi dei ricorsi alla corte d´appello di Milano, accanto a Beppino Englaro. Interviene, ma ai convegni giuridici, sui temi di bioetica: dal caso di Eluana a quello della donna che morì per aver rifiutato l´amputazione di una gamba. Nessuna concessione all´immagine, niente salotti, nessun timore reverenziale per alcuno, una vena di sarcasmo contro gli uomini.
Il primo maggio era a Ginostra, là dove va sempre quando può, ed è rientrata subito per via della telefonata di Veronica. Si sono viste domenica a Macherio, ma non sono servite tante parole. Avevano già parlato a lungo, di questa storia. Cristina c´era già due anni fa, ai tempi della lettera a Repubblica della «signora». Veronica sa a cosa andrà incontro e sa anche che Cristina non ha paura.

Repubblica 5.5.09
Privato e pubblico di un divorzio
Risponde Corrado Augias


Caro Augias, molti dicono che il divorzio è questione privata. Dissento. Più volte la nostra vita è stata influenzata da leggi o commenti fatti su questioni altrettanto private. Procreazione assistita, coppie di fatto, divorzio breve, il signor Englaro trattato come un assassino. Tutti costoro hanno il diritto di sapere chi ha interferito con la loro vita in nome di principi religiosi, e se a questi stessi principi si attiene.
Antonio Scirocco a.scirocco@katamail.com

I L divorzio tra Berlusconi e Veronica è affar loro. Ma vedendo l'edizione di Libero del 30 aprile e i commenti di certi giornalisti di destra si ha la netta impressione che il «signore abbia slegato i cani».
Claudio Tarozzi claudio.tarozzi@gmail.com

Fino a ieri Veronica Lario era la moglie del Presidente, la Fist lady. Discreta, riservata, lontana dalla scena pubblica. Rispettata. Poi Libero pubblica sue vecchie foto a seno nudo. Una ritorsione, una vendetta. I media del capo faranno scempio della signora Lario. Veronica dovrà essere forte.
Ezio Pelino pelinoezio@tiscali.it

Una questione privata, è vero. Devo dire però che le osservazioni del signor Scirocco mi hanno colpito. Molte questioni altrettanto private, molte vite, molte decisioni sono state deviate o impedite da provvedimenti presi in nome di valutazioni altrettanto private, tirando in ballo la morale cattolica. Giusto dunque che anche il secondo divorzio di questo "difensore della famiglia" venga pubblicamente valutato. Ma tralasciamo pure questo aspetto. In questa "faccenda privata" ci sono almeno due aspetti clamorosamente pubblici. Il primo è la famosa questione delle veline messe in lista e poi frettolosamente espunte, di notte. Berlusconi aveva rimproverato sua moglie dicendo che s'era fatta turlupinare dai giornali di sinistra. Era una delle sue menzogne, ma chissà quante persone male informate dai suoi media ci hanno creduto e continuano a crederci. La seconda questione è in una piccola frase detta dalla signora Lario quando lo ha definito: «Un uomo che non sta bene». Perché lo avrà detto? Erano parole dettate dal risentimento o basate su conoscenze precise? Anche questo è un aspetto pubblico perché se l'uomo non sta bene la cosa interessa, molto, tutti noi.

Repubblica 5.5.09
Venticinque per cento
di Sebastiano Messina


Quanto influirà, si chiedono tutti, il divorzio da Veronica sul consenso di Berlusconi? Ce lo diranno i prossimi sondaggi. Gli ultimi dati, assicurava il presidente del Consiglio fino all´altro ieri, rivelano che il 75% degli italiani lo ama. Un record mondiale, secondo l´interessato. E i numeri, si sa, hanno una forza invincibile. Anche in politica. Anzi, soprattutto in politica, dove il potere si può conquistare o perdere per un solo voto. Ma adesso quelle stime e quelle percentuali dovranno essere riviste. Perché l´unico evento che la matematica non può calcolare - il destino cinico e baro - ha voluto che proprio adesso la sua seconda moglie abbia deciso di chiedere il divorzio. Tradotto in percentuali, significa che lui ha il consenso del 75% degli italiani, ma ahimè il 50% delle sue consorti fa parte dell´altro 25%. Statisticamente, è una bella sfiga.

Corriere della Sera 5.5.09
Dietro le quinte «Sto difendendo la mia dignità di donna e quella dei miei figli»
E Veronica: mi sento come un soldatino assediato dagli eserciti


MILANO — «E adesso come mi sen­to? Come un povero soldatino oramai assediato dagli eserciti nemici». Ufficia­lizzata la richiesta di divorzio, condita da una serie di critiche rivolte al mari­to, in questi giorni finalmente primave­rili Veronica Lario se ne sta rintanata nella sua villa di Macherio a guardare la tempesta mediatica e politica che han­no scatenato le sue parole. Certo, l’ha fatta soffrire il fatto che tra le fila di que­gli eserciti abbia scorto anche volti un tempo amici. Attacchi che le hanno da­to il senso della battaglia che si sta pre­parando: senza limiti e senza regole.
Ma se la ride, all’ipotesi lanciata da Berlusconi che dietro il suo gesto si na­sconda «un sobillatore». Idea che fa sor­ridere anche le sue amiche più care: «Veronica sobillata? Chi la conosce be­ne sa che sarebbe impossibile. Ha una testa durissima, a volte ai limiti della cocciutaggine». E per ora lei sceglie, co­me è naturale, di non commentare uffi­cialmente. Né le dichiarazioni del mari­to né quelle di altri.
Un aspetto, però, Veronica Lario ci tie­ne a chiarirlo per bene: «In questa sto­ria vorrei che tutti capissero, se non l’hanno ancora fatto, che sto soltanto di­fendendo la mia dignità di donna. Che è stata profondamente offesa. E, con me, sto difendendo anche quella dei miei figli».
Già, i figli. Luigi, Eleonora e Barbara di commentare non hanno alcuna inten­zione. Lo hanno detto più e più volte. Il piccolo di casa in queste ore è a Lour­des con i cavalieri dell’Ordine di Malta. La secondogenita è a New York, dove studia all’università. La maggiore, Bar­bara, invece è rimasta a Macherio, an­che perché è al settimo mese di gravi­danza. Tutti e tre, però, in questi giorni ostentano grande serenità. Certo, la de­cisione della madre per loro non è stata una bella notizia. Al padre, come vanno ripetendo a tutti da giorni, loro voglio­no un gran bene. E se anche gli rimpro­verano atteggiamenti e comportamenti spesso sopra le righe, non per questo vogliono rinunciare al suo affetto. «I miei figli mi amano tantissimo», ha ri­badito quasi difendendosi Silvio Berlu­sconi in questi giorni. Per poi aggiunge­re: «Veronica me li vuole mettere con­tro ». La replica della moglie non si è fat­ta attendere: «Non è così. Se gli voglio­no bene ne sono contenta, ho contribui­to io a costruire il loro rapporto e l’ulti­ma cosa che vorrei fare è danneggiare mio marito».
Ma per ora, almeno ufficialmente, i tre ragazzi Berlusconi non hanno inten­zione di schierarsi con nessuno dei due genitori. Lasciano alla sfera privata eventuali sentimenti di disapprovazio­ne o di rabbia. In queste ore è sempre e solo Veronica ad esporsi. Alle amiche ha spiegato, ancora una volta, i motivi che si nascondono dietro la sua scelta, primo fra tutti la storia di Noemi, la di­ciottenne di Napoli: «È la prova che lui non è cambiato. Me l’aveva promesso ma non è stato così. Anzi, è peggiorato. Sono dieci anni che sopporto tutto que­sto. Ora la misura è colma. Non provas­se a convincermi di ripensarci. Non tor­no più indietro».

Corriere della Sera 5.5.09
Un caso destinato a rinfocolare l’antiberlusconismo
Pd e Idv puntano il dito contro il pubblico e privato del premier
di Massimo Franco


Definirla una questione privata, ormai, è impos­sibile. Il problema è per quanto tempo rimarrà un caso politico; e se in prospettiva possa assu­mere altri risvolti. Sebbene deprimente, la lite coniugale fra il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, e la seconda mo­glie, Veronica Lario, rappresenta la nuova frontiera dello scon­tro fra governo e opposizione. E vede, forse per la prima volta, un premier preoccupato dai contraccolpi della vicenda. Il sotto­segretario a Palazzo Chigi, Gianni Letta, cita Niccolò Machiavel­li per sostenere che in politica bisognerebbe evitare «disprezzo e odio». Ma i veleni lievitano.
Il dopoterremoto in Abruzzo, sul quale Berlusconi ha scommes­so parte della propria credibilità, viene oscurato dalle cronache del suo matrimonio pubblicamente in pezzi. Le parole imbarazzanti della moglie sulla frequentazione di ragazze minorenni sono diven­tate materia di interrogazioni par­lamentari. Nel Pd si parla di «per­versioni morali» che sarebbero ri­flesse dalla cultura berlusconiana. Cade nel vuoto l’appello di esponenti come Umberto Ranieri, a non colpire «nella sfera pri­vata »: anche perché il Cavaliere insiste sul «complotto mediati­co » orchestrato dalla sinistra. E dopo l’autodifesa iniziale sem­bra oscillare fra strategia del silenzio e controffensiva dura. Gli avversari hanno capito che la storia potrebbe durare a lungo; e che offre una forte tentazione di rivincita sugli ultimi successi berlusconiani. La sensazione è che il centrosinistra si renda con­to di avere trovato un punto debole del premier.
E adesso addita e mescola pubblico e privato di Berlusconi, usando la sponda offerta dalla moglie. Si tratta di un filone scivo­loso: anche se lui continua a ripetere che la sua popolarità non è intaccata dalle disavventure familiari. Ma rimane l’incognita, adombrata da Idv e Pd, dei contraccolpi extrapolitici delle allu­sioni della consorte alle frequentazioni con minorenni: un argo­mento imbarazzante, che può oscurare l’attività di governo.
Alla tesi del «complotto della sinistra», accreditata dal pre­mier, il segretario del Pd, Dario Franceschini, replica definendo­la assurda. Come minimo, appare riduttiva. Ma anche sentir di­re ai legali della signora Berlusconi che la pratica di divorzio «non è materia che va gestita sui giornali» fa un po’ sorridere: soprattutto dopo che ogni mossa è sembrata mirata a dare la massima eco ad una lite di famiglia, scaricandola inopinatamen­te sul Paese.

Corriere della Sera 5.5.09
Berlusconi vuole evitare il Tribunale e arrivare a un compromesso
Lo sfogo del Cavaliere «Contro di me ondata di falso perbenismo»
La preoccupazione per il fronte cattolico


ROMA — Ancora una setti­mana fa era «il presidente di tut­ti gli italiani». Ci ha pensato sua moglie, «la signora», a pic­conare il basamento della sta­tua. Perché sarà pur vero che, per ora, Silvio Berlusconi tiene nei sondaggi, che tutti gli anali­sti giudicano la lite familiare priva di riflessi sull’elettorato. Ma il Cavaliere - dopo l’affondo di Veronica Lario - teme che «l’offensiva di perbenismo e fal­so moralismo avviata contro di me» possa alla lunga intaccare la sua immagine, il suo indice di gradimento presso l’opinio­ne pubblica, e infine i suoi con­sensi. È il fronte cattolico che lo preoccupa maggiormente, lì c’è il rischio di uno smottamento, e come non bastassero gli av­versari «c’è anche l’amico Um­berto », Umberto Bossi, che si è messo a fare la talpa per scavar­gli la terra sotto i piedi. Compe­tition is competition, vale an­che per il centrodestra.
Fossero questi tutti i suoi problemi. Il fatto è che la «Dina­sty » all’italiana impone al pre­mier di tutelarsi su molti, trop­pi fronti. Il primo è legato alla pesante allusione della moglie sulla «frequentazione di mino­renni ». I rischi potrebbero non limitarsi a un contraccolpo nel­l’ambito politico e nella contro­versia del divorzio. Perciò il Ca­valiere ha anticipato un pezzo della sua strategia mediatica: le foto della festa a Casoria per i 18 anni di Noemi Letizia, la gio­vane che chiama Berlusconi «papi», verranno pubblicate sul prossimo numero di Chi, settimanale del gruppo Monda­dori. Ma ieri il tg di Italia1, Stu­dio Aperto, le ha mostrate co­me anticipazione, «ed è la pro­va della mia moralità e buona fede».
È evidente come la strategia d’immagine del premier s’in­trecci con la linea legale, per controbattere alle accuse della Lario. Raccontano che in que­ste ore il suo umore ondeggi tra un senso di liberazione, «mi sento un uomo libero» ha det­to, e picchi di indignazione ver­so «la signora»: «Lei non mi vuole parlare? Sono io che non voglio parlarle».
Le battute sul «sobillatore» della Lario e sui «giornali di si­nistra » non sono state affatto casuali: agli amici il Cavaliere ha fatto un identikit preciso del personaggio, rivelando che «Ve­ronica ci passava le ore al telefo­no, subendone il fascino intel­lettuale e finendo per prestarsi a una macchinazione politica». Pare che voglia addirittura far­ne uno dei punti della linea di difesa. Ma c’è di più: il premier immagina che dietro le mosse della (ex) moglie si celino «av­vocati e finanzieri», e che dun­que sia l’impero dell’«imperato­re » nel mirino.
Una cosa è certa, Berlusconi non può né vuole arrivare in tri­bunale. I panni di famiglia di­verrebbero cosa pubblica e sa­rebbe un disastro che vorrebbe risparmiare anzitutto ai figli. Per questo è propenso a ricercare un compromesso. È l’unico punto sul quale i due (ex) coniugi concordano. Si preannuncia uno scontro fra eserciti legali.
È in questo clima che descrivono un Fedele Confalonieri assai preoccupato per la serenità dell’amico e anche per la tranquillità di Mediaset. Al patron del Biscione, che si è sempre speso per pacificare le cose tra «Silvio» e «Veronica», non piace l’idea dell’azienda ridotta a prateria dove si fanno scorribande. D’altronde c’è chi - toccando ferro - rammenta come finì la vicenda dell’Arnoldo Mondadori Editore, che iniziò proprio con una lite tra due rami della stessa famiglia. E ci sarà un motivo se ieri - mentre lo staff del Cavaliere si preparava già a fronteggiare «un’estate di paparazzate contro il premier» - ad Arcore veniva ricevuto Bruno Ermolli, amico strettissimo di Berlusconi e grande consulente di strategie aziendali. Il Biscione va difeso, il Biscione non si tocca.
Fuori dalla porta il Cavaliere ha lasciato le vicende politiche, l’astio verso «quel Fini» a cui attribuisce un ruolo - per quanto indiretto - nella vicenda, e il disappunto verso Bossi. La battuta del leader leghista sulle veline non gli è piaciuta, perché «quando Walter Veltroni ha candidato Marianna Madia, tutti hanno parlato di ricambio generazionale. Invece, appena ho proposto io delle giovani, una delle quali ha persino collaborato con le agenzie delle Nazioni Unite, si è scatenato il putiferio. Altro che ciarpame, questo è razzismo».
Ancora una settimana fa Berlusconi era «il presidente di tutti gli italiani». Non è stata l’opposizione a picconarlo ma la (ex) moglie. Così sì è aperta una crepa, e tutti lavorano per allargarla. Tra il serio e il faceto l’altro giorno la leghista Emanuela Dal Lago commentava: «Magari potessimo candidare la Lario con noi...». Berlusconi è consapevole dello sbrego, e per quanto cercherà di abbassare i toni della vicenda familiare, lo scontro legale e mediatico sul divorzio si preannuncia durissimo. Sarà stato un caso, ma il 30 aprile, proprio dopo l’attacco della «signora» al Cavaliere, sulla prima pagina del Giornale è apparsa la rubrica «controcor­rente » con uno strano testo: «Una delle celebri figure della corrida è la Veronica. Il toro il più delle volte ne esce male». Il più delle volte, non sempre.

Corriere della Sera 5.5.09
La madre di Noemi «L’ho cresciuta nella luce del Vangelo e nel mito di Silvio»


NAPOLI — Un angelo cresciuto «nella luce del Vangelo» e «nel mito di Berlusconi». Ec­co Noemi Letizia nella sintesi che ne fanno i suoi genitori. E non si sono nemmeno messi d’accordo, mamma e papà, prima di annun­ciare i valori che hanno accompagnato il per­corso della loro figlia dall’infanzia a oggi che è appena maggiorenne.
La signora Anna lo dice al Corriere con tono risentito: «Basta con tutta questa attenzione su Noemi. È una bambina, una ragazzina che io ho allevato nella luce, la luce del Vangelo e del Signore». Benedetto Letizia, invece, ne parla con Chi - il settimanale della berlusco­niana Mondadori in edicola oggi con le foto in esclusiva del premier alla festa della giova­nissima che lo chiama papi - e spiega così il perché di quel vezzeggiativo: «È cre­sciuta con il mito di Berlusconi e que­sto è un suo modo spontaneo di ma­nifestargli la propria ammirazio­ne. I soliti maligni hanno dato al­la parola sfumature scandalose del tutto fuori posto».
C’è una foto, tra quelle scattate il 26 aprile scorso durante il ri­cevimento in una villa sulla cir­cumvallazione esterna di Napo­li, che sembra la rappresenta­zione di quanto sostengono i genitori della diciottenne. Berlu­sconi, la signora Anna, Noemi e il papà: tutti vicini e con i calici colmi di champagne. Sguardi verso l’obiettivo, sorrisi, e Noemi che co­pre in parte i capelli biondi con un velo di merletto, come si fa prima di entrare in chiesa.
«Era un momento bello, non c’era l’intenzio­ne di far male a nessuno», dice Benedetto Le­tizia se gli si fa notare che la presenza del pre­mier alla festa di sua figlia sembra essere sta­ta la molla che ha fatto scattare in Veronica Lario la decisione di chiedere la separazione. Benedetto invece riconduce tutto a «notizie distorte» che «capisco possano turbare una persona dolce e squisita come la signora Ve­ronica. Me ne dispiace tanto, ma non saprei davvero che altro dire».
Per il papà di Noemi, però, «quando tutto sa­rà chiarito ogni cosa tornerà al proprio po­sto, perché l’unica verità è che è stata trasfor­mata una amicizia un fatto sia politico». Il chiarimento Benedetto Letizia ritiene sia quello che riferisce nell’intervista a Chi, dove ritira fuori la storia dell’amicizia tra lui e Ber­lusconi nata ai tempi del Psi: «Ci siamo cono­sciuti casualmente durante una campagna elettorale molti anni fa ed è iniziato un rap­porto fondato sulla sintonia politica (io sono un vecchio socialista riformista) e sulla mia grande ammirazione per lui». E conferma pu­re quanto già dichiarato da Berlusconi, e cioè che prima della festa per il compleanno di Noemi, lui aveva contattato il suo amico presidente del Consiglio «per caldeggiare al­cune candidature nelle liste elettorali per le elezioni europee», e da quel colloquio politi­co sarebbe nato poi l’invito, accettato dal pre­mier «con la sua solita generosità e corte­sia ».

il Riformista 5.5.09
I vizi privati e le virtù pubbliche dell'imperatore
di Antonio Polito


Non occorre una visione evoluta della vita per amare il potere. Non occorre una visione evoluta della vita per andare al potere. Una visione evoluta della vita può, anzi, essere il peggiore impedimento, mentre non avere una visione evoluta può essere il più splendido vantaggio.
Philip Roth

Qual è il rapporto tra potere ed etica? Ce n'è uno? E qual è in Silvio Berlusconi? Dopo la questione morale, una questione sessuale? Da sempre il nostro premier è inseguito da un qualche fantasma, che gli impedisce di essere "normale", e secondo alcuni lo rende «unfit to run Italy», secondo un celebre titolo dell'Economist. Finché c'erano processi in corso, la questione erano gli affari; ora che sono finiti, la questione sono gli affari di cuore.
La domanda è: questa nuova "questione" personale avrà un peso pubblico analogo a quella che ebbe la questione morale? Non mi riferisco al gradimento presso il pubblico, del quale i sondaggisti non prevedono grandi cambiamenti. Lì entrano in gioco fattori psicologici e irrazionali: ci sarà chi accrescerà il suo disgusto per l'uomo dopo aver letto ciò che ne dice la moglie, e ci sarà pure chi lo considererà anche più umano e simpatico di quanto avesse mai pensato, perché più simile alla Middle Italy, all'italiano medio.
Ma i sondaggi non dicono tutto in democrazia. Lasciano comunque aperta la questione: i vizi privati possono avere conseguenze pubbliche? È questa la domanda che conta, anche per il futuro della leadership di Berlusconi che, com'è noto, aspira un giorno a trasferirsi al Quirinale.
Si dice spesso che i Paesi di etica protestante sono più severi di quelli cattolici nel giudicare questo nesso tra privato e pubblico. È vero fino a un certo punto. I Paesi protestanti, per esempio, sono da sempre più spregiudicati dei nostri in quanto a morale privata.
Nei Paesi protestanti ci sono politici e ministri dichiaratamente gay da molto tempo prima che si affacciassero sulla scena italiana. E i Paesi protestanti hanno tollerato grandi vizi privati: Clinton sarebbe stato tranquillamente eletto, a giudicare dai sondaggi, anche al colmo dello scandalo con Monica. Non è la morale che distingue quei Paesi dall'Italia. È piuttosto il senso dell'interesse collettivo. Di fronte a uno scandalo sessuale, in America o in Gran Bretagna ci si domanda se l'incapacità del politico di controllare i suoi comportamenti privati denunci una debolezza di carattere che può farlo sbagliare anche mentre maneggia la cosa pubblica. Il peccato - che spesso i politici coinvolti negli scandali devono ammettere in atti di contrizione pubblica - è il «lack of judgment»: la mancanza di giudizio. Se nella sua vita privata mostra un difetto di equilibrio, è possibile che possa sbagliare anche nella sua funzione pubblica.
Credo che sia su questo, e solo su questo, che gli italiani giudicheranno Berlusconi anche stavolta. Sui giornali ci accapiglieremo sui risvolti psicologici e morali del divorzio del leader. Gli italiani, invece, si domanderanno soltanto se possono ancora credere a quest'uomo, e affidarsi a lui. Dopo cinque anni di governo, Berlusconi perse le elezioni nel 2006, seppur di poco, esclusivamente perché diede l'idea di occuparsi con più impegno dei suoi affari con la giustizia che degli affari dell'azienda Italia. Se invece in questa legislatura Berlusconi dimostrerà di saper far convivere la passione per le ragazzine con la ricostruzione dell'Abruzzo o con la difesa dell'occupazione, non perderà le prossime elezioni.
Per chi si oppone politicamente a Berlusconi, e vorrebbe rimuoverlo dal potere, anche stavolta non ci sono scorciatoie. La critica che può fargli male non è quella di essere un sultano, o un leader da Turkmenistan. Ma quella di governare un'Italia con una recessione peggiore della media europea (-4,4% del Pil), avviata ad alti tassi di disoccupazione (8,8%), con un debito pubblico che è tornato sopra il 120%. Nel mal comune, l'Italia non trova affatto mezzo gaudio, ma piuttosto l'aggravamento della sua storica condizione di malato d'Europa. E - come ha segnalato l'Economist - l'incapacità di riformare il Paese è ancora più grave quando un leader gode del consenso di cui Berlusconi dispone oggi. Proprio quel favore popolare, quell'acquiescenza che scandalizza Franceschini e che spinge la stessa Veronica a chiedersi perché solo lei protesta per i vizi dell'imperatore, gli toglie ogni alibi e lo obbliga a salvare l'Italia. È per questo che è stato eletto, ed è solo su questo che alla fine sarà giudicato.

il Riformista 5.5.09
S'infrange il tabù
Approdano in aula i veleni del divorzio
di Stefano Cappellini


Dal letto al Parlamento. Dai tempi del caso Montesi la regola non scritta del Palazzo vuole che le vicende a sfondo sessuale siano tenute fuori dalla lotta politica. Ma l'Idv chiede al premier di riferire su Noemi (poi frena). Franceschini non segue, però nel Pd il dibattito è aperto: garantire o no embargo alle traversie familiari del premier?
È toccato al fin qui defilato Antonio Borghesi, vicecapogruppo alla Camera dei deputati per Italia dei Valori, rompere un tacito, annoso e trasversale accordo di Palazzo: tenere fuori le vicende private, specialmente quelle a sfondo sessuale, dalla lotta politica. Parlando ieri in aula Borghesi non ha usato giri di parole: «In un'intervista non smentita - ha tuonato il dipietrista dal suo scranno - Veronica Lario ha dichiarato che il proprio marito avrebbe intrattenuto una relazione con una minorenne solo da pochi giorni diventata maggiorenne». Quindi ha invitato il presidente del Consiglio a riferirne in aula, non prima di aver citato l'articolo del codice penale - il 609 - «che configura una serie di reati relativi a rapporti tra persone adulte e minorenni».
Era forse dai tempi del caso Montesi - la ragazza romana trovata cadavere su una spiaggia di Tor Vajanica nel 1953, al centro di un giallo mai risolto che costò (ingiustamente) la carriera al potente ministro democristiano Attilio Piccioni - che fatti di letto, o presunti tali, non entravano così esplicitamente in un'aula di Parlamento. Quando nel luglio scorso Sabina Guzzanti ha sdoganato dal palco girotondino di piazza Navona le chiacchiere sulle intercettazioni hot del Cavaliere, nessun esponente politico l'ha seguita su quel terreno. E quanto Borghesi si sia spinto più in là delle regole non scritte della politica tricolore è testimoniato dal fatto che nel giro di pochi minuti è stato addirittura il suo capogruppo Massimo Donadi a smorzare il valore politico dell'intervento in aula: «Siamo convinti che l'etica privata di un uomo pubblico sia un fatto assolutamente rilevante, ma non vogliamo confondere le responsabilità del presidente del Consiglio con la vita privata di terze persone, che siano figli o ragazze minorenni verso cui dobbiamo rispetto».
Il dibattito parallelo in seno all'opposizione resta aperto: chiedere conto a Berlusconi delle sue traversie familiari o stendere un velo di silenzio in nome del fair play? Il segretario del Pd Dario Franceschini, sostenitore della seconda posizione, ha ripreso la parola solo per replicare alla teoria del premier secondo cui sarebbe una non meglio precisata manovra della sinistra a sobillare «la signora» («Berlusconi è patetico»). Ma nel partito non tutti la pensano allo stesso modo. Non altri cattolici ex popolari come Rosy Bindi e Pierluigi Castagnetti, che invocano «coerenza» e gridano «indignazione». E nemmeno una laica a tutto tondo come Linda Lanzillotta condivide l'embargo assoluto sulla vicenda: «Berlusconi - dice l'ex ministro - non può usare la sua biografia come elemento di propaganda politica e poi pretendere silenzio quando gli è più comodo». Vittoria Franco, responsabile nazionale pari opportunità del Pd, respingendo la linea del silenzio («la signora Berlusconi ha portato ragioni pubbliche di etica politica alla sua decisione»), approfitta per chiedere presto una legge sul divorzio breve, «perché certe vicende si concludano il più rapidamente possibile, tutelando il coniuge più debole».
Ma a preoccupare il Cavaliere, al momento, non sono tanto le possibili intemerate degli avversari politici, quanto l'eventualità che la campagna mediatica della consorte preveda nuovi dirompenti uscite mediatiche. O che altri particolari della sua vita oltre la politica finiscano in pasto all'opinione pubblica con il semplice avanzare della causa di divorzio, trasformandosi in faccenda politica a prescindere dalle scelte dell'opposizione. Perché il tono e il merito delle parole scelte da Veronica per annunciare la sua dipartita coniugale non lasciano dubbi, e il ruolo di apripista incarnato da Borghesi nemmeno: il divorzio Berlusconi-Lario non godrà del riparo mediatico e politico che - dopo il caso Montesi - ha accompagnato nel tempo per quasi mezzo secolo fossero le inconfessabili trasgressioni o i gusti particolari del doroteismo diccì, le esuberanze nottambule e le scappatelle mondane del rampante socialismo craxiano e le stesse «bagattelle» berlusconiane fin qui archiviate. Storie che animavano conversazioni da trivio in Transtlantico, e di cui pure i sassi erano al corrente, e che però mai, nemmeno nei momenti di più aspro scontro nell'Italia della Prima Repubblica, sono state brandite come clave. Il che non significa che mancassero manovre sotterranee e minatorie, come testimoniò al massimo grado negli anni Settanta la campagna stampa da destra e da sinistra contro l'allora presidente della Repubblica Leone, che trovò il suo sfogo più brutale sulle colonne di Op, il settimanale diretto da Carmine Pecorelli e specializzato nel rilanciare veleni e boatos. Ma persino su Op i pettegolezzi più selvaggi erano comunque trasfigurati in battute, allusioni, messaggi in codice. E si trattava comunque di un giornale. Nulla in confronto al metodo Borghesi in Parlamento: «La signorina in questione (la diciottenne Noemi, ndr), con una dovizia anche di particolari, lascia intendere che vi siano rapporti altamente confidenziali con il presidente del Consiglio con il quale si sarebbe intrattenuta in più occasioni e in luoghi diversi. I cittadini italiani hanno diritto di conoscere in merito questa vicenda».

il Riformista 5.5.09
Scandalo pubblico o da confessionale?
I dubbi dei cattolici
di Paolo Rodari


OPINIONI. Per Baget Bozzo è «una crisi di coppia come tante». Il cardinale Tonini soffre per i figli e rimpiange De Gasperi e Zaccagnini. Paola Binetti «prova dolore» e attacca la stampa. Duro Castagnetti: «Che futuro ha un paese dove le madri offrono le figlie in cambio di notorietà?».
Un Silvio Berlusconi, a volte a parole altre con azioni politiche, difensore di certe tematiche care al mondo cattolico - dalla vita alla famiglia - che cade proprio su un tema delicato per i credenti (la fedeltà coniugale) provoca reazioni diverse. Se Vaticano e mondo dell'associazionismo preferiscono non commentare («quanti uomini politici anche appartenenti a partiti d'ispirazione cattolica, ad esempio l'Udc, hanno una vita familiare diciamo difficile?», è tutto ciò che esce dalla voce d'un prelato che intende restare anonimo), altri personaggi dichiaratamente cattolici parlano. E si dividono tra coloro che ritengono che la misura sia colma e quelli che, invece, tendono a minimizzare convinti che non è a causa di queste vicende che parte del mondo cattolico smetterà di votare per l'attuale premier.
Gianni Baget Bozzo legge la querelle con distacco: «Siamo semplicemente innanzi a una crisi d'un rapporto di coppia - spiega -. C'è poco altro da dire. Del resto, non è che Berlusconi abbia mai detto di sé: "Sono un santo". Né, credo l'abbia mai pensato». L'hanno forse pensato quei cattolici che l'hanno votato? «Non credo - dice -. Si sa che l'uomo è debole. Anche i vecchi democristiani del resto non erano dei santi. Insomma, nella prassi, la castità è stata sempre tradita. In pochi possono essere d'esempio in proposito. Ed è per questo motivo che penso che la vicenda difficilmente potrà incidere sulla vita politica del paese. Non credo che gli elettori ne saranno influenzati».
Anche il "televisivo" cardinale Ersilio Tonini sa guardare la cosa con distacco, ma fino a un certo punto. «Sono cose che capitano - racconta -. Ma il dramma resta. Ed è anzitutto un dramma familiare. Leggendo i giornali, soffro. Perché penso ai figli della coppia. Penso a come diversa era la mia famiglia: mamma e papà legati da una reciproca venerazione. E poi penso ai grandi politici del passato. Alcuni erano davvero integerrimi, un esempio valido. C'era Alcide De Gasperi che attraversò uno dei periodi più difficili del paese mettendo in campo una ricchezza interiore straordinaria. E c'era Benigno Zaccagnini: indicato come esempio di attaccamento alla politica, mi chiamava al telefono per confidarsi che in verità non faceva altro che il proprio dovere. Non risiedo a Roma e, dunque, non so se il Vaticano simpatizzi per questa o quella parte politica. So però che il popolo deve sapere che ai vescovi interessa anzitutto una cosa: che vi siano politici in grado di assolvere i propri doveri. Occorre leggersi Edgar Morin che in L'identità umana spiega come il momento attuale sia propizio perché la mondializzazione dei problemi può favorire quel lavoro per il bene comune di cui la società necessita».
La "opusiana" Paola Binetti prova «dolore per la vicenda». «Dolore - spiega - per loro due (Silvio e Veronica) e per i figli». Ma c'è anche «un problema dei media: è come se i giornali abbiano sempre bisogno di trovare una notizia sulla quale fare convergere l'attenzione di tutti. Così le cose si amplificano. E, insieme, s'inventano». E anche l'idea che Berlusconi sia più vicino alla Chiesa di quanto non lo siano certi politici del Pd è un'invenzione: «La Chiesa - dice - guarda ai valori. Su questi a volte i politici di centro destra sono più vicini alla Chiesa e altre volte lo sono quelli di centro sinistra».
Per Luigi Bobba «le scelte private dei singoli restano tali e al massimo possono intaccare la credibilità d'una persona». Così è anche per Savino Pezzotta: «Gli italiani - dice - giudicheranno in coscienza, anche se, occorre dirlo, c'è un problema di costume non da poco».
Più drastico è Pierluigi Castagnetti: «La politica - dice - non deve interessarsi del divorzio di Berlusconi» perché «è un fatto privato». Ma «le cose che ha detto la Veronica Lario non può ignorarle, perchè evocano una diretta responsabilità proprio della politica: un paese nel quale le madri offrono le figlie minorenni in cambio di una illusoria notorietà, che futuro potrà mai avere?».

il Riformista 5.5.09
La «satiriasi» e le mille in una notte
Le notti di Palazzo Grazioli. Dalle intercettazioni hard alla storia della diciottenne Noemi. Chi frequenta il Cavaliere racconta come sono cambiate le abitudini di PlaySilvio da quando ha superato i 70 anni. L'apologia degli odori.
di Fabrizio d'Esposito


Le mille in una notte? La cifra è simbolica, ma è certo che un paio di mesi fa nel cortile di Palazzo Grazioli, residenza romana del Cavaliere, hanno visto entrare un camion da cui poi è stato scaricato un materasso enorme. Un letto a tre piazze.
Quest'altra scena, invece, risale allo scorso fine giugno. L'estate rovente delle intercettazioni hard di Silvio Berlusconi, quelle in cui si parlava delle ministre e mai uscite per intero. Il Riformista ne pubblicò qualche brano e un berlusconiano di alto rango si fece vivo chiedendo la massima discrezione. L'incontro col cronista, a Roma, fu una lunga passeggiata attorno ai palazzi del potere. Una discussione, una volta tanto, che esulava dal totus politicus. L'azzurro partì dal problema che angoscia ogni uomo, credente o no. Il problema della morte. Ognuno reagisce a modo suo, disse il politico, e quando il colloquio filosofico, e un po' surreale, arrivò al protagonista delle intercettazioni, il sigillo alla riflessione fu questo: «Satiriasi», ossia l'equivalente maschile della ninfomania. Mani dietro la schiena, il berlusconiano di alto rango si fermò in mezzo alla strada e disse proprio così: «Satiriasi».
E forse è per questo che Veronica Lario, nello sfogo che ha consegnato a Repubblica domenica scorsa, ha parlato di un uomo malato: «Ho cercato di aiutare mio marito, ho implorato coloro che gli stanno accanto di fare altrettanto, come si farebbe con una persona che non sta abene. È stato tutto inutile». E ancora: «Non posso stare con un uomo che frequenta le minorenni». Accuse devastanti, che trovano una conferma nelle storie piccanti che circolano da tempo sulle notti di Palazzo Grazioli. Da quando cioè il Cavaliere ha superato i settant'anni - è nato nel 1936 - e l'assillo dell'età gli avrebbe fatto nascere un forte disgusto per il decadimento fisico. Ieri l'Unità ha scritto delle feste di Palazzo Grazioli, con un tavolo da cinquanta posti, dove mangiare, e graziose fanciulle sulle ginocchia dell'imperatore (copyright Veronica). Chi ha partecipato, da invitata, a queste serate racconta al Riformista una quantità impressionante di dettagli, in cui spicca un accappatoio bianco che quasi abbaglia la vista e un medicinale che non è il Cialis, bensì un farmaco che si inietta. Ma soprattutto, grazie a una frequentazione di vari anni a Palazzo Grazioli, la donna rivela in che modo sono progressivamente cambiate le abitudini del Cavaliere. È un racconto lungo e crudo, che si sovrappone perfettamente allo sfogo della moglie Veronica, in cui a colpire l'interlocutore è anche l'apologia dell'odore. I profumi sono una parte essenziale delle mille in una notte. E poi ci sono il letto, il bagno, i sospiri e altri particolari di cui non si può dare conto perché la questione sessuale del premier si muove a cavallo tra la privacy e il comune senso del pudore.
Il premier che «frequenta le minorenni», secondo l'accusa della consorte, è poi una storia che trapelò dalle stesse intercettazioni hard oggi distrutte, sia a Milano sia a Napoli nell'ambito di due inchieste diverse. C'era il nome di un'importante azzurra, incaricata di svolgere un ruolo delicato nell'organizzazione delle feste berlusconiane. E adesso che Veronica ha deciso di divorziare dal marito Silvio per la vicenda di Noemi e del suo primo compleanno da maggiorenne, dal passato riemerge un quadro più chiaro e completo. Forse un giorno questo spaccato della vita del presidente del Consiglio sarà raccontato in maniera più organica, come fece Gian Carlo Fusco con il duce in un libretto strepitoso intitolato dapprima PlayDux e poi Mussolini e le donne. Fusco fece un catalogo con le amanti preferite e quelle occasionali. Raccolse pure la confidenza del portiere di Palazzo Venezia che gli riferì di come il dittatore del fascismo ne cambiava una al giorno.
E oggi, PlaySilvio, che piaccia o no, non è solo gossip o guardonismo di noi esseri normali e forse invidiosi, ma la narrazione del potere ai tempi del Cavaliere, sdoganatore del velinismo al governo e in Parlamento. Una narrazione sì gaudente ma al tempo stesso tragica perché alle prese, almeno nell'ultimo lustro, con la questione della morte e del senso di finitezza che viene percepito dagli uomini anziani. Fosse davvero immortale, Silvio Berlusconi, i recenti problemi con la moglie li avrebbe evitati, sicuramente.

il Riformista 5.5.09
«Chi critica le veline è un po' razzista»
Vittorio Feltri. Il direttore di "Libero" scatenato contro Veronica Lario. «Non vuole solo separarsi, vuole distruggere politicamente il marito».
di Alessandro De Angelis


«Non credo che Veronica voglia smentire la sua vita da velina». Il direttore di Libero Vittorio Feltri non si sente responsabile di aver scatenato le ire di Veronica pubblicando le foto di uno spettacolo teatrale, in cui la signora Lario appariva poco vestita.
Si sente in colpa per quelle foto?
No. Le ha fatte lei, mica noi, quelle foto.
Però pubblicarle quel giorno…
Quando gliele hanno scattate evidentemente le ha fatto piacere. Altrimenti avrebbe detto di no e si sarebbe arrabbiata all'epoca. Non credo che la signora voglia smentire la sua vita un po' da velina. Suvvia, allora era un'attricetta. Mica recitava Shakespeare.
Dica la verità: lei sta con Berlusconi.
Non entro nelle diatribe tra moglie e marito. Il giorno prima di pubblicare le foto avevo scritto un fondo sulla questione delle veline. Dicevo: perché prendersela con la scelta di candidarle? Sono ragazze che si vogliono impegnare, poi vivaddio alle europee ci sono le preferenze. Se avranno i voti…
E Veronica le ha bollate come «ciarpame».
Appunto, lei si è scagliata contro candidate provenienti dal mondo dello spettacolo e io, il giorno dopo il mio fondo, le ho ricordato che anche lei viene da lì. Quel mondo merita rispetto. Se sono ciarpame le veline è ciarpame anche lei. O è biologicamente cambiata?
Chi critica le veline è snob?
È razzista. E io proprio non lo capisco questo razzismo culturale nei confronti di chi viene dallo spettacolo leggero. Tutti fanno discorsi moralistici e poi si cade nel cliché che se una è bella deve essere per forza pure puttana.
Che cosa non le piace di Veronica?
Come sta gestendo la vicenda. Se uno si vuole separare normalmente parla col marito e con l'avvocato. Lei invece parla con Repubblica, FareFuturo, l'universo mondo. Ci manca solo l'Osservatore romano.
Insomma fa politica.
Non lo posso dire. È ovvio che Repubblica ci inzuppa il biscotto. Se la signora Veronica non sa che parlando con un giornale si può scatenare un casino è stupida. Poiché non lo è, è una furbacchiona che vuole danneggiare il marito. Fatto sta che non può certo appellarsi all'etica.
Le motivazioni con cui Veronica chiede il divorzio sono pesanti: la malattia, le minorenni…
Questa storie non esistono. Secondo me Berlusconi non va neanche con le maggiorenni, figuriamoci con le minorenni.
E lei che ne sa?
Uno di 73 anni che, come è noto, ha avuto un tumore alla prostata, non ha tutta questa attività sessuale, pure se è immortale come Berlusconi. Io che ho 65 anni faccio la mia bella fatica…
Se non è per gelosia perché vuole il divorzio?
Sospetto che c'entrino i quattrini, ma c'entra anche un attivismo politico da portineria. Mi pare che Veronica abbia fini meno nobili di una separazione.
Vuole distruggere il marito?
Credo proprio di sì. Vuole distruggerlo anche politicamente.
Le sue uscite tolgono consenso al premier?
Per ora credo di no. Ma a Berlusconi non giova essere trascinato in tribunale.
Crisi, terremoto: sta invocando il silenzio in nome della ragion di Stato?
Detta così suona un po' retorica, però la realtà drammatica del Paese stride con questi piagnistei. Consiglio di cercare una separazione consensuale. Con una giudiziale uscirebbero sicuro altre storie che adesso non conosciamo, con altri strascichi polemici. Insomma, chiacchiere da portineria.
Senta, il problema del Cavaliere è il suo debole per la gnocca?
È il debole di tutti. Lui ha un atteggiamento da bar dello sport. Lo dico senza offesa. Ha presente quelli che quando vedono una donna, dicono: «Bona quella» o «Te la sei fatta?». Comunque sono certo che il Paese, il dongiovanni da bar, lo perdona.
Anche se ha una figlia illegittima?
Io pure frequento minorenni, ma questo non autorizza nessuno a dire che ci vado a letto.

il Riformista 5.5.09
«Diritto di cronaca»
Si prepara la guerra all'ultimo gossip
Stampa rosa. Il premier affida al suo "Chi" le foto del party di Noemi. Novella 2000 e Diva e donna si preparano a rispondere.
di Sonia Oranges


Veronica e Silvio, la bella e il potente trasformatisi in moglie tradita e satiro impenitente: materia gustosissima per i rotocalchi specializzati in costume e gossip, che ora affilano le armi in una tenzone all'ultima indiscrezione. D'altra parte, è stato lo stesso premier Berlusconi a cavalcare l'onda del pettegolezzo, affidando le foto che lo ritraggono al party per i 18 anni di Noemi Letizia a Chi, magazine della scuderia berlusconiana, che sul gossip ha costruito la sua fortuna, sotto l'acuta direzione di «quel diavolo di Signorini», per usare le parole del premier. Signorini che ieri non ha voluto anticipare nulla su quanto pubblicherà nel prossimo numero.
I suoi competitor non saranno da meno, c'è da scommetterci. «Certo che ci occuperemo di una vicenda così interessante - dice Silvana Giacobini, direttrice di Diva e donna - Qui non ci troviamo di fronte al classico gossip che tende a insinuare fatti, questa è trasparentissima cronaca». Cronaca che segna l'irruzione del privato nel pubblico: «È la diretta conseguenza della scelta di Veronica Lario di ricorrere alla stampa per comunicare lamentele e decisioni. Decisioni che, a mio avviso, sono irrevocabili. Veronica è una persona che parla solamente dopo aver riflettuto». Una storia, dunque, che non può lasciare indifferente il grande pubblico: «Bisogna stare attenti però. L'opinione pubblica percepisce quando la realtà viene un po' gonfiata dai media. C'è una grande richiesta di concretezza, la crisi ha fatto passare in subordine l'effimero. E anche in ambito politico la gente guarda ai fatti, soprattutto a quelli importanti, come il terremoto dell'Aquila, che certo non può essere oscurato da una vicenda così privata». Certo è che la cronaca di questo disastro privato, sta impazzando da un capo all'altro del pianeta, se ieri anche il canale internazionale della Cnn le ha dedicato un talk show.
«Mi sono fatta l'idea che Veronica sia stata una donna molto innamorata, che sia ancora affascinata dal marito, è che abbia scelto un profilo tutt'altro che basso per due motivi: per tutelare la dignità propria e della sua famiglia, ma anche per avvertirlo che la questione del patrimonio e dei diritti dei propri figli, deve essere risolta», spiega Candida Morvillo che dirige Novella 2000, ricordando che da tempo la Lario riferiva l'ipotesi di una separazione, ma solamente quando tutto sarebbe stato a posto, quando probabilmente il riassetto del patrimonio di famiglia sarebbe stato completato. Un'ipotesi trasformatasi in realtà sotto il peso degli avvenimenti: «La convocazione di veline e varie alla scuola di politica, il party di Noemi, le deliranti interviste della ragazza in cui chiamava Silvio "papi", sono state umiliazioni pubbliche per la signora Berlusconi». Già, la ninfetta partenopea con un suo piccolo pubblico conquistato su una rete televisiva locale, come racconta la Giacobini, e quel book su internet, le foto in posa, vestita (poco) in vari modi, che già lasciavano presupporre ad aspirazioni da starlett. «Non se n'era sentito parlare sinora - continua la Morvillo - Però avevamo già sentito quel termine "papi", che fa parte della leggenda su Berlusconi e le donne, secondo cui il premier amerebbe farsi accompagnare da belle ragazze, mai una sola per carità, riconoscibili da una farfallina di brillanti e la Mini Minor regalate da Silvio. E da quell'appellativo: "papi"».
Che Berlusconi sia stato "papi" una volta di troppo? «Non credo che questa storia danneggerà Berlusconi sul piano politico. Se fosse stata Veronica a tradirlo, sarebbe stato un colpo. Gli italiani s'identificano nel machismo di Silvio, nel divertimento dell'imperatore». E, tristemente, anche le donne sembrano riconoscersi nello stereotipo della moglie rassegnata a subire: «Sono stupita davvero. Molte donne sono contro di lei, come lei hanno rinunciato alla carriera per i figli, ma la considerano una privilegiata. Così, in una sorta di invidia sociale, avrebbero preferito chiudesse gli occhi e sopportasse. Io comunque, tra i due scelgo lei. Anche se non m'è piaciuta la retorica della "separazione tranquilla". Almeno, Veronica ci ha salvato dall'infarcitura di signorine che avrebbero sottolinato certi aspetti della politica italiana anche in Europa».

il Riformista 5.5.09
Pochi scherzi, si fa presto a dire sex addicted
Parla Marco Rossi, psichiatra e sessuologo. «È cosa ben diversa dal pensiero fisso e dall'atteggiamento seduttivo».
di Serenella Mattera


«Ho cercato di aiutare mio marito, come si farebbe con una persona che non sta bene». Dopo queste parole attribuite alla «signora» Veronica Lario, la domanda riempie Internet e le conversazioni da bar: Berlusconi è "malato di donne"?
Lo disse Gerald Ford di Bill Clinton. Michael Douglas ha fatto outing. E il gossip hollywoodiano lo attribuisce a questo o quell'attore. Ma i medici invitano ad andarci piano. Perché la sexual addiction, la dipendenza sessuale, è una malattia. Che negli Stati Uniti viene curata in tantissime cliniche specializzate. In Italia ce n'è una, a Bolzano. Dove arrivano circa 200 pazienti l'anno da tutto il Paese, una piccola parte di quel milione che, secondo il direttore Cesare Guerreschi, sarebbero affette dalla malattia.
Marco Rossi, psichiatra e sessuologo, ci tiene a sgombrare subito il campo: «Difficile dare numeri, troppo spesso si dice "malato di sesso" a sproposito. Non stiamo parlando del pensiero fisso, altrimenti ne saremmo afflitti in tanti. E neanche di quel modo seduttivo, piacione, che hanno certe persone di porsi verso gli altri».
E allora di cosa stiamo parlando?
Di una malattia caratterizzata dalla compulsività dell'atto. Chi ne è affetto sta male, se non ha rapporti sessuali. I sintomi sono di tipo ansioso-depressivo. Crea dipendenza come l'alcolismo, la tossicodipendenza, il gioco d'azzardo.
Come si scopre?
Nelle fasi iniziali è difficile accorgersene, perché la patologia peggiora col tempo. Poi generalmente i malati o i loro familiari se ne rendono conto quando iniziano a dilapidare il patrimonio per andare con le prostitute.
Ci si aspetta che il problema riguardi gli uomini…
No, anche le donne. Ma sono meno della metà degli uomini e le manifestazioni della compulsività per loro sono molto meno forti.
Età a rischio?
Tra i 30 e i 50 anni.
Come si guarisce?
Con un lavoro psicoterapico, sedute per non meno di sei mesi, cui bisogna abbinare una terapia farmacologica, con antidepressivi che diminuiscono l'ansia, la compulsività e il desiderio sessuale.
Come ci si ammala?
La sexual addiction appartiene alla cultura occidentale. Una delle motivazioni principali è l'insicurezza. Il sesso diventa un modo per sentirsi sicuri e appagati insieme. E crea dipendenza, perché agisce sulla dopamina, come molte droghe.

il Riformista 5.5.09
Da Ferrara a don Verzè
I Lario's alla prova divorzio
di Tommaso Labate


Umberto Bossi e Gianfranco Fini sì, ne fanno parte e nel borsino creato ad hoc sono dati «in ascesa». E se Dario Franceschini è sempre stato fuori dal giro, Walter Veltroni no, lui era uno dei più quotati ma poi è stato espulso dalla Signora in persona. Sandro Bondi invece soffre, la tessera lui l'aveva ma dopo gli ultimi giorni è stato costretto a stracciarla per amore del Signore. Giuliano Ferrara medita, il partito Repubblica combatte, Massimo Cacciari sfugge, Paolo Flores d'Arcais è sempre più convinto, Fo&Rame affilano le lame e anche Gino&Michele, forse, s'incazzano.
In tempi di divorzio, il «Partito Veronica» si prepara a cambiare pelle. C'è chi l'ha usato silenziosamente come un taxi ed è pronto a scendere senza nemmeno pagare il prezzo della corsa. Chi rimarrà fedele a prescindere dall'ira funesta del Capo. E chi, invece, chiede l'iscrizione ex novo. Come alcuni democristiani, ad esempio, l'unica categoria dello spirito che Veronica (su questo fronte perfettamente in linea con il quasi ex marito) non ha mai amato. Pierluigi Castagnetti («Veronica Lario ha avuto il merito di squarciare il velo dell'ipocrisia che avvolgeva un certo degrado morale») o Rosy Bindi («La signora Lario ha ragione, non possiamo far finta di nulla»), sono gli ultimi che hanno chiesto di ascendere, proprio ieri, al Regno della Signora.
La tessera numero uno del Partito rimane custodita gelosamente nel caveau di Floriana Mentasti, regina delle acque San Pellegrino, da anni migliore amica di Veronica. Veltroni aveva provato a strappargliela quando disse urbi et orbi «voglio Veronica nella mia squadra», quella del Pd. Certo lei, Bartolini in arte Lario già Berlusconi, aveva apprezzato - nel respingerli entrambi al mittente - sia il gesto che la dichiarazione dell'ex sindaco di Roma. Salvo poi espellerlo, mesi dopo, dal regno della Signora. A mezzo Stampa, nel senso del quotidiano torinese: «Veltroni mi ricorda Amleto quando dice "Ah Dio, potrei essere rinchiuso in un guscio di noce e sentirmi re di uno spazio infinito, se non fosse che faccio brutti sogni"».
Più che nel centrosinistra, Veronica spopola nella sinistra-sinistra. Paolo Flores d'Arcais ancora ringrazia Erri de Luca per avergli suggerito di chiedere, alla Signora, quel famoso intervento contro la guerra poi pubblicato da Micromega. Franca Rame, invece, non ha mai rimpianto di aver scritto, di Veronica, che «è una donna con la D maiuscola, che dimostra cultura e intelligenza e che si è esposta per difendere un principio di democrazia» (il principio, in fin dei conti, riguardava la ribellione della Bertolini in arte Lario già Berlusconi contro la censura all'Anomalo bicefalo di Fo).
Guidata dalla fede cattolica nel dire in tre parole «no alla guerra» e da quella socialista nel votare quattro sì ai referendum sulla fecondazione assistita (al contrario delle figlie, che scelsero l'astensione), Veronica perde consensi nella vecchia Forza Italia ma ne guadagna tra gli altri big della carovana della maggioranza. A volerla prendere larga è stato Gianfranco Fini, via Fare futuro, a dare il la all'uscita della Lario contro le veline-ciarpame (o il ciarpame-veline, fate voi). Poi c'è Bossi, che con il suo «non bisogna far soffrire le mogli e i figli», le ha restituito il favore che Bartolini in arte Lario già Berlusconi gli aveva fatto spiegando, a inizio legislatura, «che la Lega esprime esigenze concrete, della parte d'Italia più produttiva».
"Coperto" a sinistra e tutto sommato non abbandonato dalla destra, il Partito Veronica manterrà i legami con don Verzé, per la cui rivista la Signora scrisse un mini-saggio sul «modello maschile» («Non c'è solo denaro e successo») e sulla donna (vista come «angelo morale»). In attesa di capire come si muoverà il giornale di proprietà (Bertolini in arte Lario già Berlusconi possiede a tutti gli effetti il 38 per cento del Foglio diretto da Giuliano Ferrara), il Regno della Signora darà notizie di sé attraverso quel sistema informativo che parte da Repubblica e arriva alla Stampa, con qualche incursione qua e là di Maria Latella. Da ricostruire, invece, la tela degli interlocutori del salotto economico-finanziario: Carlo Bernasconi, di cui era grande amica, è morto qualche anno fa; Ubaldo Livolsi e Bruno Ermolli, seppur coi rispettivi distinguo, rimangono pur sempre sotto il grande ombrello del Cavaliere. Inutile cercare proseliti dallo «schermo», piccolo o grande che sia: il Partito Veronica non li ha mai voluti né li vorrà. D'altronde la Signora, per l'educazione dei suoi figli, ha scelto una scuola steineriana. Di quelle che la tv, ai ragazzi, non gliela farebbero vedere nemmeno col binocolo.

il Riformista 5.5.09
Con Lei
Il maschio è denudato
di Ritanna Armeni


La Signora Veronica Lario non poteva fare altrimenti. La richiesta di divorzio era inevitabile dopo le accuse fatte al marito e le risposte ricevute. Se non lo avesse fatto sarebbero ricaduti sulla sua persona tutti i giudizi negativi da lei espressi nei confronti del marito. Sarebbe apparsa una donna colpita, arrabbiata, ma, di fatto, succube. O peggio, una donna che per mantenere il suo ruolo di moglie, moglie ricca, dell'uomo più potente e ricco d'Italia era disposta ad accettare tutto. Un modello diffuso, quanto è diffuso quello libertino, dongiovannesco, rappresentato dal marito, presidente del Consiglio, con una concezione delle donne da vitellone degli anni 50, che certo non si addice al suo ruolo e al suo incarico. Veronica non ha voluto adottare quel modello, ha mostrato pubblicamente il più ampio disprezzo per quello rappresentato dal marito e, di conseguenza, ha chiesto il divorzio.
Ora nei confronti di Veronica Lario ne vedremo delle belle. Lei se le aspetta e noi anche. Plotoni di esecuzioni no, ma i plotoni mediatici al servizio dell'imperatore sono già in posizione di tiro.
I più benevoli dicono che quanto è successo fra Veronica e Silvio è un fatto strettamente privato che riguarda i rapporti fra moglie e marito. Di conseguenza male ha fatto la moglie a gridare la sua indignazione, i panni privati vanno lavati in famiglia, il marito birichino poteva essere richiamato con più discrezione. Naturalmente costoro dimenticano, o fingono di dimenticare, che la vicenda è diventata pubblica proprio grazie a Silvio Berlusconi che non ha fatto mai mistero dei suoi comportamenti e delle sue propensioni. Che non solo non li ha nascosti, ma li ha proposti, ne ha fatto un mezzo per acquisire consenso e approvazione. E probabilmente ci è riuscito. L'uomo, o meglio il maschio italiano, sembrava non aspettare altro. Il premier ha sdoganato comportamenti libertini, illeciti, che erano rimasti nascosti, ha fatto riaffiorare pulsioni represse. Quanti uomini si comportano come Berlusconi, ma di nascosto? Quanti non lo fanno, ma lo farebbero volentieri? Quanti, anche se disapprovano, sono affascinati da quel potere che tutto può anche rovesciare i sistemi di valore ai quali si dice di credere? Tantissimi, probabilmente la maggioranza. Ora davvero Silvio Berlusconi è il loro leader. E non solo in politica.
Quanto agli altri plotoni mentre scrivo li posso tutti immaginare già all'opera e prevedere le loro fucilate. Alcuni li abbiamo già visti in azione con le foto di Veronica, attrice di teatro che mostra il seno. Sposeranno tutte le accuse del premier e altre ne aggiungeranno. Si dirà che anche Veronica Lario ha fatto parte di quell'ambiguo mondo dello spettacolo che il marito ama e che lì è stata scelta. Si sottolineeranno i privilegi e la ricchezza di cui finora ha goduto e che le sono stati generosamente elargiti da quel marito ricco e potente che ora - ingrata - attacca. E infine si dirà, ligi alla linea dettata dall'imperatore, che la signora è stata manovrata dalla sinistra. Sicuramente si scaverà nel suo passato alla ricerca di peccati e amicizie pericolose. Staremo a vedere.
Ma qualcosa stiamo già vedendo. Perché in questa vicenda anche i silenzi e le omertà contano. Che fine hanno fatto i difensori a oltranza dei valori della famiglia? Mi piacerebbe, ad esempio, sapere che cosa pensano dell'affaire Lario-Berlusconi due paladini dei valori familiari come Eugenia Roccella e Savino Pezzotta che con l'appoggio e l'approvazione del premier hanno organizzato il Family day. Mi piacerebbe sapere che cosa pensano alcune donne del centrodestra che conosco e apprezzo, giovani deputate come Beatrice Lorenzin o Chiara Moroni o Laura Ravetto o Giorgia Meloni. O due donne appassionate come Alessandra Mussolini o Daniela Santanchè. Mi piacerebbe trovare sull'Osservatore romano, che dopo il congresso costitutivo del Pdl ha detto che quel partito rappresenta i valori cattolici, almeno una parola o un'osservazione sui comportamenti del suo leader. E magari assistere anche a qualche talk show importante che affronta liberamente l'argomento.
Non credo che vedrò nulla di tutto questo. Per quanto mi riguarda nutro una certa gratitudine per la signora Lario. Come, in genere mi capita di nutrirla nei confronti di chi mi dà qualche elemento in più per capire il Paese in cui vivo. Grazie a lei e alle reazioni che ha suscitato ho capito che vivo in un Paese che è tornato indietro, non solo nell'economia e nei rapporti sociali. È arretrato culturalmente, ha fatto un salto precedente agli anni 70, ha cancellato nella coscienza anche se non ancora sulla carta le conquiste civili, i nuovi rapporti fra uomo e donna che si era cercato faticosamente di costruire, una relazione fra comportamento pubblico e vita privata sempre difficoltosa e mai risolta ma che cercava una coerenza. Ha scritto Maria Laura Rodotà sul Corriere che in questa vicenda c'è la sconfitta di tutte le donne. Ha ragione. Ma c'è anche la sconfitta degli uomini, regrediti tragicamente a maschi.

il Riformista 5.5.09
Con lui
La signora non ha stile
di Peppino Caldarola


Non mi iscrivo al “partito di Veronica”. La signora Lario questa volta non mi ha convinto. Confesso di parteggiare per Berlusconi
Anni fa quando venne arrestato Paolo, il fratello del premier, scrissi un editoriale non firmato sull'Unità diretta da Veltroni in cui invitavo la sinistra a rinunciare alla scorciatoia giustizialista. La battaglia doveva restare esclusivamente politica. Questa volta rivolgo lo stesso invito a rinunciare all'uso del dramma familiare del premier per combatterlo. È una vicenda privata che ha rilievo pubblico per la notorietà dei personaggi ma che va gestita con il massimo di sobrietà e di rispetto.
So che non parteggiare per Veronica è politicamente scorretto, che molti nel nostro campo (ma esiste ancora il nostro campo?) vedono in questo divorzio la conferma delle cattive abitudini di Berlusconi, ma non riesco ad appassionarmi a questa nuova caccia all'uomo. La signora Laria con l'uno-due del fine settimana ha scritto un vero e proprio manifesto politico. L'accusa privata al marito che motiva la decisione del divorzio è stata arricchita da giudizi di straordinario impatto pubblico. Il premier è un «pover'uomo malato», che gli amici non aiutano a guarire con la loro condiscendenza, che «se la fa con le minorenni», che ha fondato un impero in cui colpevolmente affoga il nostro Paese. Non siamo di fronte a un marito "colpevole", ma a un anziano signore degenerato che usa l'Italia per i suoi trastulli. Solo Beppe Grillo aveva detto di peggio.
Molti a sinistra ricavano da questi giudizi opinioni politiche, io preferisco giudicare gli atti politici e non mi voglio occupare delle vite private dei potenti. Liberi noi, liberi loro.
Forse la signora Lario non se ne è accorta, ma le sue dichiarazioni contengono anche una notizia di reato. Non sarei sorpreso se un pm desideroso di pubblicità aprisse un fascicolo per accusare il premier di pedofilia visto che frequenta minorenni. Il dolore per un matrimonio fallito può spingere a dichiarazioni dure e forti, ma è possibile che la signora Lario non si sia resa conto che le sue parole avevano un forte impatto mediatico e sottoponevano il suo compagno non già al giudizio della pubblica opinione per aver disatteso i suoi doveri coniugali ma lo esponevano al disonore e persino all'accusa penale?
Ho letto quello che scrivono i blogger di centrodestra e i titoli di Libero. Non mi sono piaciute le foto della signora Lario seminuda. Temo che alcuni fan di Berlusconi che chiedono rispetto per il capo non ne abbiano per la sua ex consorte. In questa vicenda il rischio di cadere nel pecoreccio è costante. E spetta innanzitutto ai protagonisti impedire che questo accada.
Una domanda mi frulla nella mente. Perché Veronica Lario ha scelto di alzare così violentemente i toni della sua finale battaglia coniugale? Non voglio fare il processo alle intenzioni e capisco che leggere articoli su veline amiche del premier e su una diciottenne che lo chiama "papi" possa urtare la suscettibilità. Tuttavia la clamorosa esposizione mediatica dà anche l'idea di una decisione fredda resa impellente dal desiderio di ottenere una separazione per "colpa" in grado di inchiodare il coniuge e di fornire alla consorte una clamorosa posizione di vantaggio nella lite giudiziale. Tutto quello che è legittimo nello scontro che accompagna la fine di un matrimonio diventa sgradevole quando pubblicamente si invoca l'insanità mentale del marito e la sua propensione verso le minorenni. Non ha avuto stile, la signora Lario. Cecilia Sarkozy lasciò il presidente francese con maggiore eleganza.
La vita pubblica è stata spesso attraversata da uomini politici sensibili al fascino femminile. Mitterrand aveva più di una famiglia. Di Willy Brandt si diceva che fosse talmente attratto dalle donne da cercarne una per ogni viaggio ufficiale in qualunque capitale fosse diretto. Bill Clinton è stato un noto sciupafemmine. Le loro donne hanno tollerato e persino difeso i mariti. Non penso che questo debba essere considerato un modello di comportamento. Molti si scandalizzarono quando Hillary reagì a muso duro contro i repubblicani e i media per lo scandalo Lewinsky. Ma fra la difesa a spada tratta e la gogna mediatica ci deve essere una via d'uscita dignitosa. Quella scelta dalla signora Lario non è stata dignitosa. Ho l'impressione che la coppia fosse scoppiata da tempo e che vi fosse un patto non scritto di svolgere ciascuno per proprio conto la propria vita. Lo fanno i ricchi e anche i poveri. Veronica Lario ha pensato di rompere il patto non scritto, ha pensato che si fossero realizzate le condizioni più favorevoli per strappare un divorzio più oneroso per il premier. Va tutto bene. Ma noi, italiani berlusconiani e italiani comuni, perché siamo stati coinvolti in questa telenovela? Spero che fra un po' non si parli più di questa storia. I nostri guai sono ben altri.

l’Unità 5.5.09
Lodo Veronica
di Marco Travaglio


L’improvvisa comparsa dell’avvocato Ghedini sulla scena del divorzio preannuncia avvincenti sviluppi nella guerra dei Roses brianzola. È allo studio un Lodo Veronica in 4 articoli che verrà tosto comunicato al ministro Al Fano e all’occorrenza spiegato con l’ausilio di disegnini, dopodiché sarà sottoposto alle opposizioni per il necessario dialogo bipartisan: «1) Le cause di divorzio che coinvolgano le quattro alte cariche dello Stato sono sospese fino alla scadenza dei rispettivi mandati, sospensione prorogata in caso passaggio da una carica all’altra; la sospensione non vale in caso di divorzio attivo (alta carica che molla la moglie), ma solo di divorzio passivo (alta carica mollata dalla moglie). 2) Vietato divorziare in prossimità di elezioni di ogni ordine e grado: ogni causa avviata nei 40 giorni precedenti il voto è da considerarsi nulla e mai più reiterabile. 3) Le cariche di cui all’art. 1 sono dispensate dal divieto di frequentare ragazze minorenni; anzi, se lo fanno riceveranno la comunione direttamente dalle mani del Santo Padre (previa deroga ai Patti Lateranensi). 4) Le notizie sulla vita privata delle quattro cariche sono coperte da segreto di Stato e punite con severissime pene detentive, eccezion fatta per quelle commissionate dalle cariche medesime per autoritrarsi in idilliaci quadretti familiari; il gossip può invece proseguire serenamente sulle testate di proprietà di una delle alte cariche quando riguardi privati cittadini o esponenti dell’opposizione (vedi caso Sircana o bacio tra Di Pietro e un’amica). 5) Io so’ io e voi nun siete un cazzo».

l’Unità 5.5.09
Ora Silvio teme tracolli
Lo spauracchio dei sondaggi


Quella punta avvelenata, «un uomo che frequenta minorenni», quella sì che lo mette in agitazione, che può sgretolare l’atteso consenso plebiscitario. Così, asserragliato ad Arcore, ieri Silvio Berlusconi ha confessato, iroso, «questa storia mi può far davvero perdere voti». Potrebbe incrinare la tolleranza finora mostrata dalla Chiesa alla sua moralità di facciata, incuneare il dubbio nella fiducia delle donne cattoliche e non. Uno, due milioni di voti in meno? Il premier ha già messo in moto la macchina dei sondaggi, e oggi il singhiozzo del consenso avrà dei dati.
C’è chi parla di un’ennesima ricucitura, ma Veronica sembra determinata. E ha scelto una donna che per prima ha aperto la strada alla battaglia di Beppino Englaro, innovando la concezione del tutore come interprete di chi non può esprimere la propria volontà. Maria Cristina Morelli, cremonese di Soresina, avvocato dal 1991, cassazionista dal 2007, esperta in diritto di famiglia. Lui, Silvio, resta ancorato a Niccolò Ghedini, penalista- deputato e autore delle ultime leggi ad personam, forse affiancato da una delle sorelle, Ippolita, avvocato civilista in Padova.
Tanto per risolvere la grana con la seconda moglie, però ieri Berlusconi ha ricevuto i figli della prima, Marina e Piersilvio, i due grandi che gestiscono le società di (papi) la fetta grossa dell’impero. Per distrarsi Il premier ha fatto un sopralluogo per mettere su una scuola politica brianzola. Oggi torna a Roma.

l’Unità 5.5.09
La fondazione presieduta da Fini rivendica l’articolo dello scandalo
«Abbiamo posto una questione culturale, non certo di gossip»
Farefuturo e le veline: «Il problema è politico»


Alla fondazione di Fini Farefuturo si dicono tranquilli: «Abbiamo posto un tema culturale e politico, non fatto gossip». Sul loro giornale era uscito il corsivo su «donne e velinismo politico».

Il tema del giorno? Non lo è diventato per colpa nostra né per merito nostro». Nel centralissimo Palazzo Serlupi Crescenzi, sede della finiana fondazione Farefuturo, la giornata scorre come tante altre. Fuori, no: il teatrino della politica è scosso dall’annuncio che Veronica Lario intende divorziare dal marito. Cioè dal premier, cioè dal principale alleato del presidente della Camera che presiede Farefuturo e ieri ha lanciato come modello multietnico la «Generazione Balotelli».
Sul giornale online «Farefuturo webmagazine» è uscito, il 22 aprile, il corsivo «Donne in politica, il velinismo non serve» che ha suscitato, nell’ordine: l’ira di Berlusconi; la garbata presa di distanza di Fini; il dibattito se lo scritto abbia contribuito al divampare della crisi coniugale. Li descrivono preoccupati per l’effetto slavina, ma il 42enne direttore Filippo Rossi smentisce: «Siamo tranquilli. Quello che avevamo da dire l’abbiamo detto. Abbiamo posto un problema politico-culturale, non certo di gossip». Sofia Ventura, docente di Scienza Politica all’università di Bologna e componente con Della Vedova del gruppo Libertiamo, è l’autrice del corsivo “galeotto”.
Professoressa, era consapevole di lanciare un sasso nello stagno?
«Non lo avrei mai immaginato. Ho scritto cose in cui credo senza mire politiche. Neppure sapevo che si stessero discutendo le candidature. Né che Veronica Lario si sarebbe inserita in questo tema».
Non prova un certo orgoglio intellettuale nel vedere che il suo tema oggi anima il dibattito politico?
«Premesso che non voglio parlare di una questione privata che non mi riguarda e non conosco, mi fa piacere che finalmente si parli del ruolo delle donne nella politica e nella società. Anche se io resto una persona riservata e non c’è nessun disegno di Farefuturo dietro».
Il velinismo è lo specchio del Paese, come dice Veronica?
«Mi hanno colpito le ultime righe dell’intervista a Maria Latella: un Paese dove le madri offrono le figlie minorenni. Ha colto un punto vero che purtroppo fa parte della nostra cultura. Un certo modo di concepire le donne e il successo. E guardi, io sono una liberale, credo nell’ambizione: ma il successo è frutto di un lungo percorso e dell’intelligenza, non di comparsate in tv».
Secondo lei, con chi stanno gli italiani nella vicenda?
«Con Berlusconi. Non ho dubbi. Ho appena riletto Giordano Bruno Guerri e lo condivido: siamo un popolo di guardoni pruriginosi che amano il peccato ma la sera tornano a casa dalla moglie. Verrà stigmatizzato più lo sfogo di lei che il comportamento di lui. Io invece ho trovato orribile la copertina di Libero».
Ha ricevuto attacchi o solidarietà?
«Amici a parte, solo qualche battuta dai parlamentari. Né attacchi né sostegno: il metodo è il silenzio».
Ipotizza di candidarsi in futuro?
«Io? Proprio no».

l’Unità 5.5.09
l’informazione dimezzata
Il divorzio e il ciarpame
di Enzo Costa


«La signora Veronica Lario ha confermato stamane all’agenzia di stampa Ansa la sua intenzione di divorziare dal marito Silvio Berlusconi. È stato già avviato il contatto con l’avvocato per le pratiche di separazione. La notizia era stata diffusa dai quotidiani la Repubblica e la Stampa. Il Premier in mattinata ha lasciato Roma per recarsi a Milano. Nei giorni scorsi avevano suscitato polemiche le dichiarazioni di Veronica Lario, che aveva definito “ciarpame” le voci sulle candidature di veline alle elezioni europee. Il Premier aveva replicato: “Anche la signora ha creduto alla disinformazione di certi giornali della sinistra”».
Così Susanna Petruni ha dato la notizia della rottura tra Silvio e Veronica nel Tg1 delle 13,30 di domenica. Con un’asetticità diabolica, ovvero dotata di dettagli in cui, si sa, si nasconde il diavolo. Su tutti, quanto attribuito alla “signora”: aver «definito “ciarpame” le voci sulle candidature di veline alle elezioni europee». Eccolo, il dettaglio: “ciarpame”, non - come in realtà affermato da Veronica - le tentate candidature di veline, bensì le voci su quelle candidature. A suggerire che la spazzatura non è nell’idea del Capo di esportare allegre fanciulle a Bruxelles, ma nell’informazione (falsaria?) che quell’idea ha divulgato. Furbo espediente lessicale supportato dalla chiusura, che ripete a pappagallo la versione del Capo sui giornali della sinistra, e dall’unica “colpa” attribuita: quella di aver suscitato polemiche.
Colpa di Veronica e delle sue (avventate?) dichiarazioni: sottinteso, ah, se fosse stata zitta! Ascoltando una notizia fornita in questo modo, cos’ha capito un teleutente non informato dai giornali (condizione piuttosto diffusa)? Poche cose, e sbagliate: ha intuito che la colpa è di Veronica e dei giornali di sinistra; nulla gli è stato detto delle tante veline e letteronze effettivamente destinate alla candidatura e rimosse solo a bufera coniugale scoppiata; nulla della spigliata fanciulla napoletana omaggiata di visita e gioielli dal Premier; nulla circa l’abitudine di quest’ultima di chiamarlo “papi”; nulla del padre di un'altra aspirante candidata arrivato a darsi fuoco per la promessa elettorale non esaudita dal Premier azzurro. Gli è stato detto, confusamente e implicitamente, che la “signora” aveva: biasimato voci assurde diffuse dai media; creato polemiche; chiesto il divorzio perché, come aveva spiegato il Premier, fuorviata dalla stampa di sinistra. Perlomeno, gli odiosi attacchi di Libero a Veronica Lario erano a viso aperto.
enzo@enzocosta.net
www.enzocosta.net

Repubblica 5.5.09
Presidi-spia, l´accusa di Fini "Sarebbe incostituzionale"
Maroni: giusto. Torna l´obbligo di denuncia antiestorsioni
Nelle scuole parte la protesta "Siamo educatori, non poliziotti"
Il no dei professori: una legge disumana e repressiva
di Caterina Pasolini


Al via una raccolta di firme tra i presidi: l´istruzione è un diritto, non possiamo negarla
"Non solo si danneggiano i ragazzini senza colpe, ma tutta la società"

ROMA - E una mattina all´improvviso le cattedre diventano barricate in difesa del diritto allo studio. Di tutti, italiani e stranieri, regolari e non. Contro il provvedimento del governo, dopo la protesta dei medici contrari all´obbligo di denuncia dei clandestini e che ieri hanno scritto a Fini perché lo cancelli, si allarga la protesta. Arriva la rivolta dei professori ben decisi a non diventare «presidi spia, perché noi siamo educatori non poliziotti», a caccia di bambini senza documenti regolari.
«Qui non si denuncia, si insegna», ripetono. Non hanno dubbi loro che conoscono la fatica di imparare per chi arriva da lontano, lo spaesamento di chi appare qualche giorno in classe e poi si perde nelle strade della città. Chi non ha genitori accanto che conoscano la lingua e lo aiutino a fare i compiti, chi viene sfruttato, chi ha in classe l´occasione per cambiarsi la vita. «Questo provvedimento, che prevede l´obbligo di denuncia se lo studente non ha il permesso di soggiorno, è inumano, repressivo, foriero di gravi disagi per la convivenza civile. Danneggia il minore, toglie un diritto», sbotta Armando Catalano, che rappresenta più di duemila presidi della Cgil che sul sito wwww. flcgil. it hanno cominciato a raccogliere firme all´insegna di «io educo non denuncio». Perché, ripete, le leggi sanciscono il diritto all´istruzione, stabiliscono che l´unico obbligo dei docenti è sottoporre i ragazzini ad una visita per le malattie infettive. «Mentre così non solo si danneggia il minorenne che non ha colpe, ma tutta la società: non verranno a scuola, non andranno in ospedale. Col rischio di una moltiplicazione dei contagi».
Minorenni puniti anche se incolpevoli, condannati a perdere l´occasione di costruirsi un futuro migliore, «L´istruzione è un diritto sancito dalla Costituzione, ma a parte questo educando i giovani li si toglie dalla strada, gli si dà una possibilità. Senza contare che gli insegnanti vedono se i bambini sono sfruttati, malmenati», dice Giuseppe Losio preside della scuola media milanese Quintino Di Vona. Lo sa bene Anna Sandi che più di una volta ha scoperto la «doppia vita» di alcuni suoi piccoli alunni alla scuola elementare al Lorenteggio. Dormivano nelle fabbriche dismesse lungo in Naviglio e nei giorni in cui sparivano dalla classe chiedevano l´elemosina alla stazione, lavavano i vetri per strada. «Se questo provvedimento è per proteggerli da chi li sfrutta bene, ma prima voglio leggerlo, e di una cosa sono sicura: io i minori stranieri li accetto, li iscrivo a scuola e non li denuncio solo perché clandestini».
Non vogliono denunciare ma come pubblici ufficiali, se passa il reato di immigrazione clandestina, rischiano di vedersi obbligati a farlo. Altrimenti scatta la denuncia penale. Come per i medici. «È da irresponsabili non cambiare la legge, già ora c´è stato un calo del 15 per cento di immigrati ai pronto soccorso. Qui si scherza col fuoco, con la salute di tutti. Un esempio? Abbiamo 4000 casi di tbc, il 30 % sono immigrati, se clandestini non verranno a curarsi e si espanderà il contagio, con problemi per tutti, italiani compresi», dice Massimo Cozza, segretario medici Cgil pronto a rivolgersi alla Corte costituzionale, a quella europea per tutelare il diritto alla salute.

Repubblica 5.5.09
Il chirurgo, e senatore del Pd: con il reato di clandestinità, conflitto fra obblighi e divieti
E Marino rilancia l´allarme-medici "Sono stretti fra norme diverse bisogna vietare ogni denuncia"
"Le presenze di immigrati negli ospedali sono già calate del 20% in un mese e mezzo"
di l.mi.


ROMA - L´allame di Ignazio Marino è fortissimo. Contro il reato di clandestinità e sui medici obbligati a tenerne conto e denunciare gli immigrati ammalati. Il famoso chirurgo e senatore del Pd, che presiede la Commissione d´inchiesta sul servizio sanitario nazionale, chiede al governo di scrivere espressamente che il medico non deve denunciare nessuno.
Fini ha fatto il miracolo sui presidi-spia, lei ne vuole un altro?
«Quel reato produce una ferita grave su due capisaldi della nostra società, sanità e scuola. Anche se è stato soppresso l´obbligo di denuncia per un paziente che si rechi in ospedale, con il reato il medico sarà stretto tra il divieto di segnalazione previsto dal testo unico sull´immigrazione e l´articolo 365 del codice penale che obbliga a redigere il referto e quindi, con esso, a denunciare la clandestinità».
Non vale la previsione dello stesso articolo che consente l´omissione di referto qualora ciò «esponga il soggetto assistito a procedimento penale»?
«Se nel referto scrivo che la persona ha la tubercolosi questo non è un reato, ma il documento porta con sé una denuncia in quanto lì è obbligatorio indicare le generalità. Se fosse incompleto farebbe emergere lo stato di clandestinità».
Nel ddl va scritto che il medico non deve denunciare?
«Va precisato con estrema chiarezza che, nonostante il reato, nell´ambito del servizio sanitario nazionale chiunque lavora in qualunque ruolo, funzione sanitaria o amministrativa, non deve denunciare situazioni di irregolarità relative alla cittadinanza o alla condizione di immigrato».
Sarebbe risolutivo?
«È sempre un pannicello caldo, perché mette riparo a un problema che sarebbe risolto eliminando il reato, un´ offesa grave alla Costituzione, almeno in campo sanitario».
È una posizione di principio o teme conseguenze?
«In Italia ci sono 4mila casi di tubercolosi, di questi il 28%, 1.200 persone, riguarda immigrati. Che se hanno paura, pur stando male, non andranno più al pronto soccorso».
Ciò per lei è contro la Costituzione?
«Va contro l´articolo 32 per cui il diritto alla salute non è del cittadino ma dell´individuo. Se si toglie l´assistenza medica si va contro la Costituzione. Con conseguenze gravissime. Nell´ultimo mese e mezzo, solo per l´effetto annuncio, gli immigrati negli ospedali sono calati fino al 20%. Che succederà con la legge?».

Repubblica 5.5.09
Riccardo Chieppa, presidente emerito della Consulta: "Salute e istruzione sono servizi essenziali che vanno garantiti a tutti"
La rivolta dei giuristi: "Un attacco alla Carta"
di Vladimiro Polchi


ROMA - «Un attacco ai principi fondamentali della Costituzione». «Una norma del tutto irragionevole». Tra i costituzionalisti suona il campanello d´allarme: i giuristi bocciano in coro i "presidi-spia" e plaudono all´intervento critico del presidente della Camera.
Riccardo Chieppa, presidente emerito della Consulta, non nasconde le sue «fortissime perplessità sulla ragionevolezza di una norma che di fatto nega la frequenza scolastica ai figli degli irregolari». Perché «salute (vedi medici-spia, ndr) e istruzione sono servizi essenziali che vanno garantiti a tutti». I dubbi di Gianfranco Fini sono condivisi anche da Stefano Merlini, costituzionalista a Firenze: «Il problema riguarda l´esistenza in Costituzione di uno statuto fondamentale della persona umana, che tocca tanto la tutela della salute quanto il diritto all´istruzione. E quando la Costituzione parla di persona umana non distingue tra cittadino e immigrato. Ebbene, nessuna norma può violare questo statuto anteponendo altri interessi seppure legittimi, come la tutela della legalità e dell´ordine pubblico. Per questo - prosegue Merlini - in base ai principi fondamentali della Costituzione, così come i medici non devono denunciare i pazienti clandestini, i presidi non devono segnalare gli alunni irregolari». Non solo: «Le eventuali norme sui medici o presidi-spia potrebbero essere portate davanti alla Consulta».
Di doppia illegalità parla Michele Ainis, docente di diritto pubblico a Roma. «Per fare emergere quella in cui versa l´irregolare, se ne genera un´altra: l´illegalità del minore che non può frequentare la scuola». Per Ainis, «c´è un principio di universalità dei diritti, ad eccezione di quelli politici legati alla cittadinanza: insomma, un irregolare non può certo votare, ma ha diritto all´istruzione e alla salute».

Corriere della Sera 5.5.09
Il sindaco leghista di Verona
Tosi: idee sbagliate L’unico diritto è la sopravvivenza
«Garantire l’istruzione vuol dire ammettere la possibilità di una permanenza senza limiti»
di Marco Cremonesi


MILANO — «Gli unici diritti inalienabili sono quelli che riguardano la sopravvivenza». Il sindaco di Verona, Flavio Tosi, 39 anni, non si stupisce della lettera scritta da Gianfranco Fini a Roberto Maroni riguardo l’iscrizione degli immigrati alla scuola dell’obbligo: «È una linea che conosciamo. Ma è pericolosa: se il sistema può assorbire un certo numero di persone, i messaggi che propongono aperture mettono a rischio il sistema».
L’istruzione non è un diritto primario?
«Non sarà bello da dire, ma la verità è che l’abbassare l’asticella dei requisiti crea situazioni insostenibili e inique».
In che senso?
«Io sono convinto che se una persona è malata ha il diritto di essere curata. Sempre. E con il freddo dell’inverno, le persone hanno diritto a un ricovero di emergenza per non morire di gelo. Ma riconoscere l’istruzione significa ammettere il diritto dei clandestini a una permanenza senza limiti. E poi, perché l’istruzione sì e la casa no? Perché non gli assegni famigliari?».
Giusto. Perché?
«Lo chieda a Fini. Certo, se si riconosce il diritto all’istruzione, non si vede come si possano negare tutti i diritti che gli stati mettono a disposizione dei loro cittadini».
Lei come si spiega la posizione di Fini?
«Sembra convinto di avere un peccato originale gigantesco. E per farlo dimenticare scavalca a sinistra la sinistra.

Repubblica 5.5.09
Dell´Utri: "Mussolini fu troppo buono i ragazzi di Salò partigiani di destra"
Il senatore Pdl: "La Rai è di sinistra, dovremo occuparla"
di Carmelo Lopapa


ROMA - Mussolini dittatore «troppo buono». Sue le leggi razziali anche in Italia, certo, ma in fondo qui erano «blande». E i suoi repubblichini, altro non erano che «partigiani di destra». Rieccolo, il solito, provocatorio, Marcello Dell´Utri. Bibliofilo ma soprattutto cultore di storia, da rivedere e correggere a suo modo, all´occorrenza. Il senatore siciliano risponde a tutto campo a Klaus Davi nell´intervista per il programma "Klauscondicio", lo stesso nel quale un anno fa, alla vigilia delle Politiche, aveva definito Vittorio Mangano, stalliere di Arcore, un «eroe». Stavolta il braccio destro di sempre di Silvio Berlusconi guarda anche all´imminente nomina dei vertici Rai per non escluderne, ironicamente, l´occupazione. «Perché no? Ma naturalmente speriamo di non doverla occupare. È in mano alla sinistra, non so come stia in piedi, un´altra azienda sarebbe fallita».
Idee chiare e tranchant, come sempre. Anche sulle polemiche e i veleni di questi giorni, storie del Capo, delle sue donne e del privato che finisce in politica. «Le veline laureate e preparate politicamente - sentenzia Dell´Utri - sono di gran lunga più apprezzabili di alcune tele-giornaliste, che non conoscono l´italiano». E comunque, alle prossime Europee il leader Pdl non sarà penalizzato, anzi, avrà un «plebiscito: più del 70%».
Ma a scatenare le prevedibili reazioni preoccupate, dal centrosinistra all´Udc, sono le riflessioni su fascismo e occupazione della tv pubblica. «Mussolini - è la tesi del senatore - ha perso la guerra perché era troppo buono. Non era affatto un dittatore spietato e sanguinario come Stalin». Dell´Utri ha letto e riletto i diari del Duce e confessa di aver trovato «Mussolini straordinario, di grande cultura». E non è stata affatto colpa sua se «il fascismo è stato un orrendo regime». Nella visione dellutriana, anche l´alleanza con Hitler non è stata voluta. E questo, precisa il parlamentare ancora sotto processo per concorso esterno, non per «fare dell´apologia del fascismo». Ma anche quella storia della persecuzione degli ebrei in Italia va ridimensionata, «nei suoi diari, Mussolini scrive che le leggi razziali devono essere blande». Come pure i ragazzi di Salò, in fondo: «Erano al 100% partigiani di destra, credevano in alcuni valori». Parole che finiscono per stridere con quelle che, sempre ieri, pronunciava il presidente della Camera Gianfranco Fini, parlando ai giovani della Luiss di Roma. Lui, i conti col passato li ha fatti. «Il no al fascismo e il sì ai valori della democrazia che An pronunciò a Fiuggi - scandisce - erano frutto di convinzione e non di convenienza».
L´opposizione accusa Dell´Utri di revisionismo e insorge. «È la conferma che il paese è a rischio: dicendo che la Rai va occupata, che Mussolini non era poi tanto male e che le veline sono meglio delle giornaliste Rai, Dell´Utri getta la maschera» accusa dal Pd Roberto Cuillo. Francesco Pardi, senatore Idv, lo invita a fare una visita in via Tasso a Roma (luogo delle torture delle Ss) «dove forse perfino lui sa che cosa succedeva al tramonto del regime». A definire «sconcertanti» le parole di Dell´Utri è anche l´Udc, con Roberto Rao, membro della Vigilanza Rai, preoccupato per l´ipotesi "occupazione": «Il cda saprà rispondere a questo tentativo con nomine autorevoli». La Federazione della stampa respinge l´insulto alle giornaliste tv e bolla come «ignorante chi vanta un dittatore o auspica occupazioni».

Repubblica 5.5.09
La grande paura
Nel suo ultimo libro Bertinotti fa autocritica, ma attacca Prodi: "Spregiudicato uomo di potere"
"Presunzione ed errori così la sinistra s´è sfracellata"
di Alessandra Longo


Alle elezioni 2008 non siamo stati credibili ma campagna elettorale con modalità squallide
Nell´ultimo governo c´è stata una sopravvalutazione delle nostre possibilità
Noi gente di sinistra viviamo nella paura che essa sia scomparsa dalla vita quotidiana

ROMA - Vivere nella paura: «Noi, gente di sinistra, viviamo nella paura». Paura «che la sinistra non ci sia più, che essa sia scomparsa non solo dal Parlamento e dai grandi media, ma dalla società, dalla cultura e perfino dalla vita quotidiana». Paura della «desertificazione», di quel paesaggio spettrale che lasciano le cose che finiscono, come in «una foresta i cui alberi sono stati sradicati uno a uno... «. Di questa «paura» parla, senza infingimenti, Fausto Bertinotti nel suo ultimo libro che esce a giorni ed è una lunga conversazione-sfogo con Ritanna Armeni e Rina Gagliardi. Titolo mutuato da "Itaca" di Kavafis: «Devi augurarti che la strada sia lunga» (Ponte alle Grazie editore). Tanto lunga, la strada, da poter sperare di rimontare, di rinascere. Bertinotti chiude con un´ultima pagina che, nonostante tutto, non ha il sapore della resa: «Abbiamo avuto due sinistre. Non ne abbiamo più nessuna. Dobbiamo provare a ricostruirne una».
Nessun complotto da denunciare, nessun vittimismo, semmai l´elenco degli errori, degli equivoci, per esempio nel rapporto di Rifondazione con l´ultimo esecutivo Prodi: «Ci siamo sfracellati, siamo andati a sbattere contro tutti i nostri limiti... C´è stata non solo una sopravvalutazione di noi stessi, insomma dei rapporti di forza, ma anche, di conseguenza, della possibilità di influenzare la compagine di governo, di cui entravamo a far parte». L´ex leader ripercorre le tappe della sua vita, da piccolo scolaro, curato nel vestire grazie ad una orgogliosa madre operaia, agli anni della Cgil, del libero e autonomo sindacato torinese, alla rottura con il Pds, oggi giudicata tardiva, fino alla spirale negativa, drammatica, dell´ultimo periodo, con il tonfo della Sinistra Arcobaleno, affondata anche per colpa delle «modalità perfino squallide con cui si è svolta la campagna elettorale». «Non siamo stati credibili», dice.
In una sola occasione Bertinotti perde l´aplomb, ed è quando gli si chiede un giudizio su Prodi. Ecco che cosa risponde: «E´ il leader politico che in questi anni ha avuto la peggior parabola politica discendente». Ad un primo Prodi, quello del ‘96, ancora «interessante» come interlocutore, con quel suo «riformismo cattolico, contagiato dal dossettismo, mescolato ad un impianto tecnocratico», ne fa seguito, secondo Bertinotti, un secondo Prodi, versione 2006, ormai «diventato uno spregiudicato uomo di potere». Cammeo davvero gelido. Nessun ricordo di contatti diretti nel periodo in cui uno era presidente della Camera e l´altro presidente del Consiglio: «Qualche volta - liquida Bertinotti - mi ha fatto sapere che avrebbe gradito un percorso agevolato per un provvedimento nei lavori parlamentari. Il che era ovviamente impossibile e gli è stato rifiutato». Prodi, dunque, simbolo dello «smacco complessivo», irreversibile, del centrosinistra, e forse per questo così crudamente evocato.
Non essendo una biografia, ma «un viaggio nell´educazione sentimentale» del protagonista, il libro segue, senza gerarchie rigide, ricordi e riflessioni. E´ fugace l´accenno al dramma del terrorismo, ai terribili Anni Ottanta di Torino e della Fiat. In quella cornice di sangue, i ricordi di Bertinotti si fermano piuttosto «sull´uso politico», in chiave antisindacale, che la Fiat fece «dell´insorgenza terroristica», su quel 9 ottobre 1979, quando 61 operai vennero licenziati perché accusati di essere «fiancheggiatori» o «pericolosi simpatizzanti» o semplicemente autori di «comportamenti del tutto indisciplinati in fabbrica». Il mondo stava cambiando, «erano cominciati gli anni Ottanta», le grandi ristrutturazioni aziendali, «il primato dell´interesse delle imprese su quello dei lavoratori». Solo un anno dopo, a Torino, sfilavano i colletti bianchi della marcia dei quarantamila.
Segnali da cogliere: il declino del movimento operaio organizzato, dell´unità sindacale. E poi l´89. Bertinotti dice di aver «sottovalutato» il nesso tra il «crollo del Muro» (comunque «liberatorio»), la ripresa di forza e di influenza del capitalismo e le difficoltà, che ne sono conseguite, per la sinistra e il movimento operaio». E´ un tornare indietro anche crudele, un rivedere alla moviola le occasioni perdute come appare, nel giudizio del suo ex leader, lo stesso partito della Rifondazione, da lui agganciato ai grandi movimenti no global, alla pratica della nonviolenza, e proiettato nel presente, con la scelta, non a tutti gradita, di liberarlo dalle residue scorie staliniste. E adesso? Adesso bisogna metabolizzare la sconfitta e ripartire con una proposta di società: «C´è sempre la necessità, per chi vuole cambiare il mondo, dell´attesa dell´evento, di ciò che cambia la scena senza esser stato prevedibile... Anche in politica c´è il tempo della semina. Ed è proprio per questo che devi augurarti che la strada sia lunga».

Repubblica 5.5.09
"Perché le torture?" così un bambino inchioda la Rice
Condi in imbarazzo tra gli alunni delle elementari
di Vittorio Zucconi


Il bimbo è parso poco soddisfatto della risposta dell´ex consigliere di Bush
Il piccolo si chiama Misha Lerner, figlio di immigrati russi, nove anni

WASHINGTON - I bambini. Sono sempre i bambini a scoprire che il re è nudo, anche se in questo caso nuda era la ex regina della diplomazia americana, Condi Rice, costretta a spiegare, senza successo, che cosa sia la tortura ai fanciulli.
Eppure, le insegnanti della quarta elementare raccolti nella Sinagoga di Washington erano state accuratamente indottrinate dal direttore, quando avevano saputo della visita che l´ex segretaria di stato Condoleezza Rice avrebbe fatto alle classi, e le maestre avevano preparato i bambini, preselezionando le domande che avrebbero potuto rivolgere all´illustre ospite, per non metterla in imbarazzo. Questa visita a una scuola elementare ebraica era la prima «rentrée» pubblica della Rice nella capitale che l´aveva vista per quattro anni al timone della politica estera nazionale, e altri quattro come massima consigliere per la sicurezza nazionale, al fianco del Presidente Bush, e dunque l´incontro con gli scolaretti voleva essere un ritorno morbido sulla scena.
Ma poi spunta il solito bambino, quello con la mano alzata fino a quando non gli danno retta. «Che cosa pensa delle cose che Obama sta dicendo dei metodi di interrogatorio usati dal Presidente Bush?» domanda Misha Lerner, figlio di immigrati russi, dall´alto dei suoi nove anni, sotto lo sguardo terrorizzato della madre e delle insegnanti che lo avevano convinto a non usare almeno la parolaccia proibita - «tortura» - come lui avrebbe voluto fare. Ma tutti, Rice per prima, avevano capito benissimo a che cosa alludesse e l´ex segretaria di Stato ha dovuto remare. «Il nostro dovere, carino, era quello di proteggere l´America dopo l´11 settembre», «fare tutto quello che si poteva fare», «ma niente che non fosse autorizzato dal Presidente e quindi legale». Poi, un po´ più lamentosa: «Spero che tu capisca, Misha, che tutta la nazione capisca che noi stavamo soltanto cercando di proteggere la nazione».
Misha si è rimesso a sedere, poco soddisfatto dalla risposta che non ha risposto, come poi dirà la madre, piccola voce bianca di una nazione intera che ancora cerca di capire perchè l´America «che non tortura», l´America che si immagina migliore del resto del mondo e immune da pratiche indecenti, abbia torturato quei prigionieri. E si chiedono se anch´essa possa scivolare nei comportamenti che sempre rimprovera agli altri, purchè i massimi dirigenti del governo dichiarino essere legale quello che legale non è, soltanto perchè così vogliono. E la Rice non sa davvero che cosa rispondere, oltre la formula classica del «lo abbiamo fatto per il vostro bene».
Pochi giorni prima dell´incontro con gi scolaretti delle elementari a Washington, aveva dovuto affrontare i meno teneri studenti dell´università di Stanford, in California, che l´avevano rosolata sul punto chiave del caso torture, sulla falsa dottrina, cara a Bush, della legalità definita dal sovrano. La tesi del «tutto ciò che è presidenziale è legale» sostenuta dalla Rice a Stanford e poi ripetuta ai bambini, non convince, fa paura, in una nazione che ancora crede ai limiti del potere esecutivo e che ricorda come questa fosse stata esattamente la «dottrina Nixon» quando cercava di salvarsi dal processo di impeachment e dalle dimissioni forzate.
Non persuade neppure Obama e i suoi, che si contorcono in questi giorni fra la rivelazione delle torture inflitte ai prigionieri, certamente illegali, e il timore di aprire una Norimberga, un processo formale a chi le volle, come Bush e il suo burattinaio Cheney, a chi le accettò e le fece passare, secondo la classica formula dell´»ubbidire agli ordini», come la Rice o il direttore della Cia Goss, riaprendo una piaga infetta. «Il passato è passato, non camminiamo con la testa voltata all´indietro» invocava Peggy Noonan, una delle voci più moderate della generazione reaganiana, mentre Dick Cheney, l´oscuro principe del regno Bush, è tornato inopportunamente a ringhiare in pubblico per difendere quella pratiche di interrogatorio, come l´annegamento simulato, il waterboarding già entusiasticamente praticato dai Santi Inquisitori su eretici e marrani, che sono inequivocabilmente torture.
Quello che in realtà tutti vorrebbero, dal team Obama agli ex bushisti meno fanatici come la Rice, sarebbe ammettere il peccato ma senza mandare al rogo i peccatori, voltare pagina, giustificarsi con lo stato di emergenza e di panico nelle ore dopo l´11 settembre. Ma ci sono sempre i bambini, come Misha, o i vecchi che si comportano da bambini, come il capriccioso Cheney, che non vogliono star buoni e scuotono gli scheletri dagli armadi. Alla fine della visita alla scuola elementare, la Rice è andata a cercare quel bambino che l´aveva messa in difficoltà come mai neppure i Putin, gli Chirac o i Blair avevano fatto e ha voluto farsi fare una foto con lui, che sorrideva imbarazzato, ma poi l´ha abbracciata, perchè nove anni sono nove anni.

Corriere della Sera 5.5.09
Aribert Heim. E’ uno dei dieci grandi latitanti del Terzo Reich
Il giallo del Dottor Morte «E’ ancora vivo, in Cile»
Il centro Wiesenthal: «Falsa la scomparsa in Egitto»
di Guido Olimpio


WASHINGTON — Non c’è una cartella odontoiatrica per fare un raffronto. Non esistono resti umani su cui eseguire il test del Dna. E, co­me per Osama Bin Laden, va­le la frase: «Non considerare un umano deceduto fintan­to che non vedi il suo corpo. E anche in quel caso puoi fa­re un errore». Parliamo di Aribert Heim, il «Dottor Mor­te », il criminale di guerra nazi­sta responsabi­le di orrendi esperimenti sui prigionieri nei lager di Mau­thausen, Sach­senhausen e Bu­chenwald. E’ davvero crepa­to oppure, al­l’età di 85 anni, rimane uno dei dieci grandi latitanti del Terzo Reich?
Un’inchiesta giornalistica, pubblicata in febbraio, ha concluso che Heim sarebbe spirato nell’estate del 1992 in Egitto. E ciò è quello che ha ripetuto la sua famiglia sostenendo che il loro con­giunto era arrivato al Cairo dopo una lunga fuga. Dalla Germania alla Francia, dal Marocco alla Libia, infine l’Egitto dove aveva abbrac­ciato la fede islamica e si fa­ceva chiamare Tarek Farid Hussein. I reporter scovano anche una valigia con docu­menti, certificati, carte. Pre­sunte prove del suo soggior­no egiziano.
Ma lo scoop giornalistico non ha chiuso il giallo. Efra­im Zuroff, responsabile del Centro Wiesenthal, impe­gnato da anni nella caccia agli ultimi nazisti, ha un’al­tra idea. La sua tesi è che il criminale potrebbe essere ancora vivo o comunque non sarebbe deceduto in Egitto. C’è la possibilità che Heim si nasconda in Cile. Se­gnalazioni raccolte nel Con­tinente americano sembra­no confermarlo. E oggi il so­spetto di Zuroff è condiviso, come ha rivelato il settima­nale Spiegel, dalla polizia te­desca. Un cambio d’opinio­ne significativo. Gli investi­gatori, a febbraio, avevano giudicato fondate le conclu­sioni del New York Times e della tv tedesca Zdf che ave­vano svelato la presunta morte di Heim al Cairo. I fun­zionari della Divisione Cri­minale del Baden-Württem­berg hanno raccolto nuove informazioni sul network, con appoggi in Svizzera e Usa, che ha garantito al fug­giasco un flusso continuo di denaro. Soldi usati per vive­re ma anche per rimediare a un «buco» creato da un inve­stimento finanziario finito male in Egitto.
Il Centro Wiesenthal, con l’aiuto dei membri delle co­munità ebraiche sparse per il mondo, e le autorità tede­sche hanno allora ripreso a indagare «in ogni direzione». Zuroff afferma che la storia egiziana «è troppo perfetta» per essere vera. E non è un ca­so che sia emersa dopo un an­no durante il quale i cacciato­ri hanno riempito il dossier sul criminale con nuovi dati. Una serie di indizi che hanno permesso di concentrare le ri­cerche in Spagna e Sud Ame­rica. Il Centro Wiesenthal, poi, cita una circostanza stra­na.
Un avvocato tedesco ha presentato una richiesta di esenzione fiscale per conto di Heim nel 2001, — ossia 12 anni dopo la sua presunta morte — precisando di esse­re «in contatto con il mio cliente, che vive all’estero». Questo, sottolinea Zuroff, di­mostra che la famiglia ha mentito. Il figlio del nazista replica negando l’esistenza di quella pratica. La rabbiosa reazione di ambienti neonazi­sti americani con appelli alla solidarietà per il camerata svela legami pericolosi.
Chi insegue Heim deve di­stricarsi tra dritte buone e false. Un conto corrente an­cora attivo portava a guarda­re in Spagna. Vecchie compli­cità di camerati spingevano a cercare negli ambienti del­la destra sudamericana, sem­pre accogliente con i gerar­chi. Trame da film di ex spie israeliane raccontavano al­tro: è stato rapito in Canada, sostenevano, poi ucciso al largo della California. Zuroff studia, verifica, cerca. E’ con­sapevole che è rimasto poco tempo e vorrebbe vedere He­im in una cella prima che la morte lo faccia sparire per l’ultima volta.

Repubblica 5.5.09
Watson: usiamo il Dna per migliorare la specie
di Elena Dusi


Nel 1953 James Watson scoprì il Dna. Oggi continua a guardare avanti. Nei prossimi 10 anni, assicura, la genetica «ci darà terapie più efficaci contro il cancro». Per poi rilanciare sull´eugenetica: «Se aggiungere tre o quattro geni servirà a renderci più sani e intelligenti dobbiamo farlo».
A 50 anni dalla scoperta, la ricerca sembra fermarsi. "Ma è solo questione di tempo, vedrete". Parola del "padre del genoma": Watson

A dieci anni dall´annuncio del sequenziamento del genoma umano, i supercomputer macinano dati ma la ricerca sembra fermarsi. Il Nobel James Dewey Watson, scopritore della doppia elica del Dna, però è ottimista: "Abbiamo allungato di parecchio la vita e migliorato la sua qualità. Le cure arriveranno"

"Presto ognuno di noi potrà avere il profilo completo del suo genoma per mille dollari"
A breve la genetica ci farà conoscere l´essenza del cancro, potremo agire con efficacia

Quasi dieci anni dopo, il responso è scritto sulle colonne di Nature da un gruppo di ricercatori delle università di Houston, Stanford, Texas e Alberta: «Nonostante l´enorme valore scientifico della ricerca fatta, le nuove tecnologie hanno solo un impatto marginale per la cura delle malattie nella popolazione».

Sgrana gli occhi Watson, a chi gli chiede un bilancio della scienza che è stata sua compagna per più di 60 anni: «Siamo riusciti ad allungare la vita umana tanto, e a migliorarne enormemente la qualità. Come possiamo essere insoddisfatti?». Il freno all´entusiasmo, nella comunità scientifica, nasce dalla consapevolezza che la stele di Rosetta del linguaggio della vita sia più complessa del previsto. All´inondazione di dati sfornati dai computer la nostra comprensione non ha sempre saputo far argine. E la sequenza fluviale di lettere A, T, C e G che si alternano nel Dna di ciascun vivente può dare l´impressione che il libro della vita sia piuttosto un labirinto.
«Siamo molto più complessi di quanto prevedessimo» ammette Watson, che è in Italia per annunciare la sua partecipazione alla quinta conferenza mondiale "Il futuro della scienza", dedicata quest´anno alla "rivoluzione del Dna". L´appuntamento con il convegno organizzato dalle fondazioni Giorgio Cini, Silvio Tronchetti Provera e Umberto Veronesi, che si occupa ogni anno di un tema scientifico che ha particolari riflessi sulla società, è fissato a Venezia tra il 20 e il 22 settembre. «L´idea che a un gene corrisponda la produzione di una singola proteina - spiega Watson - è superata. I frammenti di Dna operano in combinazione fra loro, e queste reti non sono facili da ricostruire. Ma i costi dei computer usati per il sequenziamento stanno crollando. Presto ognuno di noi potrà avere il profilo completo del genoma per mille dollari. A quel punto la scinza non sarà più avara di notizie bomba».
Saranno i tumori, secondo il premio Nobel del 1962, il primo campo della medicina a beneficiare della rivoluzione tecnologica che sta abbattendo i costi della genetica. «È grazie agli studi sul Dna che già oggi conosciamo le cause del cancro a livello molecolare. Nei prossimi dieci anni le diagnosi basate sulla genetica ci faranno penetrare fino in fondo nell´essenza del cancro, dandoci terapie più efficaci. Nel nostro obiettivo ci sono cellule dalla natura così particolare come le staminali».
Maria Ines Colnaghi, direttrice dell´Associazione italiana per la ricerca sul cancro che collaborerà alla conferenza di Venezia con un simposio su tumori e genetica, fa il punto sui benefici concreti della ricerca sul Dna nella cura del cancro. «Già oggi sappiamo individuare le persone con particolari geni che hanno una predisposizione alta ad ammalarsi di cancro. I tumori ereditari coprono circa il 10% del totale dei casi. Controlli costanti, prevenzione a base di farmaci e diagnosi precoce permettono di tenerli a bada. E a ogni paziente negli istituti oncologici italiani viene fornita una diagnosi molecolare per individuare la cura migliore».
Nonostante i primi risultati concreti nell´affrontare i tumori, il campo dove le attese sono più grandi - quello dell´oncologia - è anche quello dove il labirinto del genoma fa girare di più la testa ai ricercatori. Non uno ma circa una decina di geni danneggiati sono alla base della malattia. E questi frammenti di Dna, smentendo gli ottimisti, si sono rivelati molto variabili tra un caso di malattia e l´altro. Invece di avere un´alterazione frequente in una decina di geni, molte forme di cancro mostrano alterazioni rare sparse in centinaia di frammenti diversi del Dna. La rete dei rimandi fra un gene e l´altro è ancora troppo complessa per essere maneggiata e sta avvolgendo le speranze di trovare nuove cure in un bozzolo da cui uscire è difficile.
Per ricostruire questo puzzle con troppi pezzi, si fa ricorso oggi alla potenza delle macchine: sequenziando migliaia di cellule tumorali alla volta si spera con la forza dei numeri di trovare la chiave che accomuna le varie forme di cancro. Ma i costi sono alti, e una serie di articoli sul New England Journal of Medicine un mese fa ha accusato questo approccio di essere tutto muscoli e poco cervello. «L´informazione che se ne ricava - ha scritto il genetista della Duke University David Goldstein - è di scarsa o nulla utilità dal punto di vista clinico».
Serve un colpo di reni, concorda Watson. «La scienza è perseveranza, ma ha anche bisogno di eroi. L´ultimo è stato Jonas Salk, inventore del vaccino della polio. Oggi i ricercatori sono troppo legati alle industrie farmaceutiche, ma credo lo stesso che un nuovo eroe spunterà». Troppo importanti sono i benefici che la genetica può offrire alla nostra specie. «Non dobbiamo avere paura di entrare nell´ignoto - dice uno Watson che non è nuovo alle polemiche e non ha mai fatto mistero del suo favore per l´eugenetica - e se aggiungere tre o quattro geni al Dna servirà a renderci più sani e intelligenti, dobbiamo farlo. L´ingegneria genetica migliorerà gli animali e le piante che ci nutrono. La specie umana è sopravvissuta perché si è continuamente evoluta. Dobbiamo usare gli strumenti a nostra disposizione, non fermarci qui».
L'uomo che oltre 50 anni fa scrutò il codice della vita, è anche stato il primo nel 2007 a leggere il suo Dna sequenziato dalla prima all´ultima lettera. «Ora è su internet, non ho avuto paura di renderlo pubblico per il bene della conoscenza». Al suo interno ha trovato molte informazioni utili. «Il mio metabolismo alza la pressione sanguigna. Sapendolo, sto molto più attento». Ma di fronte a un dato ha preferito fermarsi. «Non voglio sapere se ho la predisposizione all´Alzheimer» dice alzando le mani. «Non serve a niente avere notizie spiacevoli, se non si può fare niente per prevenirle» ammette perfino un ottimista della scienza come lui, capace sempre di afferrare le luci e scansare le ombre.

Repubblica 5.5.09
Le promesse del genoma
di Umberto Veronesi


Per Umberto Veronesi la conoscenza dei geni ha già dato risultati straordinari in medicina
Tumori e malattie ereditarie ecco le terapie della speranza
Ma la genomica apre il dibattito su questioni etiche che la società deve affrontare

La scoperta del Codice della Vita nel Dna, annunciata da Craig Venter nel giugno del 2000, rappresenta la più importante rivoluzione non violenta della storia recente. Oggi, all´affacciarsi dei dieci anni da quel giorno, la strada del Dna appare segnata nel pensiero senza via di ritorno e le prime applicazioni ci confermano che le potenzialità per il bene dell´uomo sono davvero straordinarie. Per esempio il trasferimento genico ha dato un gran contributo alla medicina.
Per l´uomo, dalla conoscenza dei geni delle malattie ereditarie si è sviluppata la medicina predittiva in grado di evitare l´insorgenza stessa delle malattie. Abbiamo la possibilità di effettuare diagnosi preimpianto e diagnosi prenatali che offrono l´opportunità anche a chi è portatore di una malattia genetica di non trasmetterla ai propri figli, salvando esistenze straziate da patologie devastanti. Abbiamo fatto progressi rilevanti nello studio di queste malattie fino a ieri senza speranza, per le quali si apre lo spiraglio della terapia genica, e delle patologie degenerative, per le quali la clonazione delle cellule staminali embrionali, già sperimentata negli animali, è oggi la più realistica prospettiva di salvezza.
Nella lotta al cancro, il Dna ha aperto nuove possibilità di ricerca molto concrete. Se è vero che la causa dei tumori è al 90% nell´ambiente, è vero anche che i fattori ambientali creano un danno al Dna, che può essere riparato. Oggi possiamo conoscere il profilo genico delle cellule tumorali, informazione molto preziosa per la diagnosi precoce e per le terapie personalizzate. È nata infatti la farmacogenomica che si occupa della creazione di farmaci meno tossici, che abbiano come bersaglio esclusivo le cellule tumorali, in quanto hanno un genoma alterato.
Già ce ne sono in uso almeno una decina, anche in combinazione con i farmaci tradizionali. Ancora i geni sono la piattaforma di studio per la nutrigenomica, la scienza che indaga come combinare il profilo genetico individuale con i cibi, per arrivare a un´alimentazione protettiva per le principali malattie, o addirittura terapeutica. Oppure per la medicina forense, che con l´esame del Dna, aiuta la giustizia ad identificare gli autori dei crimini.
Tutto questo non impedisce che il mondo inizi a chiedersi se le aspettative di dieci anni fa circa la rivoluzione del Dna siano state in parte disattese e se le grandi promesse di malattie sconfitte e calamità debellate, rimarranno tali. Io credo di no. Perché in realtà sono tante le conquiste del Dna e una sola la colpa: di aver infranto nelle menti il mistero affascinante delle nostre identità, del nostro corpo, del nostro carattere, della nostra e delle altre vite. Un duro colpo inferto all´intero sistema culturale che per secoli ha retto il mondo più evoluto. E c´è una colpa anche di noi uomini di scienza, che abbiamo sinceramente pensato che l´accelerazione della ricerca scientifica sarebbe stata fortissima e immediata.
Abbiamo fatto male i conti, però, con i freni degli investimenti - la ricerca genomica si basa su tecnologie costosissime e non facili da applicare - e, appunto, con quelli del pensiero. Il messaggio sconvolgente della decodifica del genoma è infatti che, per l´uomo come per un virus o la mosca, un elefante un filo d´erba, la vita ha lo stesso primo punto di partenza: quella identica struttura del Dna, formata da quattro basi azotate, che si comportano come le quattro lettere (a,c,g,t) di un alfabeto semplicissimo, e che, combinandosi fra loro, scrivono il libro della vita, qualsiasi forma di vita.
Come conciliare questa realtà con l´idea di un uomo Signore dell´Universo, unica creatura a immagine e somiglianza di Dio? E, poiché se tutti i geni degli esseri viventi sono uguali , allora si possono trasferire da un organismo all´altro ( da un uomo ad un altro uomo , ma anche da un uomo a una pianta o a un batterio) quale etica spiegherà che l´uomo è in grado di intervenire su ogni forma di vita, anche la sua, fino a crearla artificialmente o riprodurla per clonazione? La possibilità di conoscere e modificare la struttura biologica pone la società di fronte a responsabilità pesantissime e le prime ricadute pratiche della rivoluzione del Dna hanno già provocato fratture profonde. Pensiamo ai vincoli alla fecondazione assistita, imposti in Italia agitando lo spettro dell´eugenetica , o allo stop alla ricerca sulle cellule staminali embrionali in molte parti del mondo, che solo recentemente il presidente Obama ha cancellato.
Se dunque, dopo dieci anni, la scienza, pur fra ostacoli e battute d´arresto, non ha dubbi sulla via del Dna, molto più incerta è la società. E il problema non è quel farmaco mai arrivato al malato o quella nuova cura non ancora realizzata, ma un disagio più profondo che deriva dall´incapacità di elaborare un nuovo sistema di pensiero e valori, che tenga conto del fatto che l´uomo ha poteri diversi, più estesi, sulla vita e sulla morte Per questo il vero dibattito sulla genomica nei prossimi dieci anni non è una questione scientifica, ma dovrebbe scendere nell´agorà, entrare nelle famiglie, essere oggetto di dialogo fra genitori e figli e di confronto fra opinioni e generazioni diverse. La Conferenza di Venezia sul futuro della scienza, "The Dna Revolution", incentrata sui problemi etici, sociali e filosofici legati alla rivoluzione del Dna, vuole essere un contributo in questa direzione.

Corriere della Sera 5.5.09
Incapacità di decidere, agire e darsi uno scopo: i temi di «Hamletica» in uscita da Adelphi
Shakespeare, Kafka, Beckett Tre miti per capire il mondo
L’analisi di Cacciari sul «brancolamento» dell’uomo d’oggi
di Armando Torno


Chi era Amleto? Per noi fu il principe di Danimarca, testi­moniato nel dramma dal­l’omonima tragedia di Shake­speare. Tuttavia, chi volesse cercarne le origini rischierebbe di perdersi in un la­birinto medievale. Ecco il nome, per li­mitarci a qualche esempio, nelle gesta di Re Horn (siamo intorno al 1250); ed eccolo in un documento irlandese, gli Annals of the Four Masters. Nella secon­da parte dell’Edda si attesta una saga islandese di Amlodhi o Amled della fine del X secolo.
Massimo Cacciari nella sua nuova opera, Hamletica (Adelphi, pp. 144, e 18), offre una soluzione per i nostri gior­ni: Amleto vive il dramma dei politici. Come dargli torto? Del resto, allorché nell’opera di Shakespeare dichiara al­l’ombra del padre di essere «prigioniero delle circostanze e della passione» (così i meglio informati traducono quel lap­sed in time and passion nella quarta sce­na del terzo atto), la sua figura riflette i problemi della categoria di cui ha co­minciato a far parte. Cacciari, però, non ha scritto un’ese­gesi delle dichiarazioni del principe: in Hamletica ha riunito i tre grandi miti dell’«ontologica insicurezza» dell’Occi­dente contemporaneo, osservandoli — oltre che in Shakespeare — in Kafka e Beckett. Essi consentono di comprende­re e decifrare il «brancolamento» attua­le della Terra e il tramonto di ogni No­mos, di tutte le leggi che hanno caratte­rizzato i ruoli, le immagini, i linguaggi. Se Amleto — profetica anticipazione di quanto viviamo — ora è il politico «co­stretto a obbedire alla logica dei fatti », che si dibatte nel dubbio e «marchia ogni sua azione di incompiutezza», l’agrimensore K., il protagonista de Il ca­stello, rivela l’uomo che non ha più pos­sibilità di azione. Su di lui i fatti pesano. È lo straniero nel quale l’agire «si mani­festa così perfettamente prigioniero del­l’ordine dei fatti da rendere inconcepibi­le il timbro stesso della decisione».
E Beckett? Egli mostra l’azione priva di qualunque fine, che ripete se stessa, senza uno scopo. Perché? Per compren­dere quanto sta accadendo si può co­minciare da una intuizione di Bonnefoy, consegnata a uno dei Racconti in sogno (edizioni Egea), dove si immagina l’arti­sta dell’ultimo giorno: «Il mondo stava per finire», scrive il poeta francese, giac­ché «l’insieme delle immagini prodotte dall’umanità avrebbe superato il nume­ro delle creature viventi». Succede in­somma che l’equilibrio tra la vita e il sembrare dei segni potrebbe spezzarsi e non ci sarà ritorno, poiché — sottolinea Cacciari — le immagini stanno com­piendo il proprio destino: «Sommerge­re la vita, trasporre il mondo nel multi­verso dei linguaggi». Già, i linguaggi. Credevano di spiegarlo e possederlo questo nostro mondo.
E cosa può fare l’artista dell’ultimo giorno? Trattiene la mano, la sua opera è indugio; cerca, sperimenta, vuole puri­ficare l’immagine affinché cessi di esse­re «la rivale illecita di ciò che esiste». Si dibatte, spinge la parola al silenzio, infi­ne potrebbe assumersi il compito di «farla finita». Il mondo reale e il suo «il­lecito rivale», forse a loro volta apparen­ze, lasciano allora spazio a infinite do­mande. Ne scegliamo una, tra quelle for­mulate da Cacciari: «Si risveglierà il nau­seante gioco delle rappresentazioni, ma­gari nella forma della dissacrante iro­nia? ». Beckett non è la risposta ma si presenta, collocandosi oltre l’artista del­l’ultimo giorno. Per lui questo significa «oltre Joyce» (ma è un «oltre» che suo­na come l’opposto di «oltrepassare», giacché «ora è possibile procedere solo ritirandosi» ).
Cacciari ricompone in Hamletica un tormentato dialogo a frammenti tra questi autori. Nelle sue pagine proseguono le ricerche sulla storia consegnate a Geo­filosofia dell’Europa e all’Arcipelago, nonché a quelle sul rapporto tra nihili­smo e linguaggio del mistico che sono il filo rosso in Dell’inizio e Della cosa ulti­ma.
Bergson, riprendendo un’antica intui­zione, scrisse che un uomo con gli abiti del comico può dirci che c’è la nebbia, mentre il poeta racconta cosa c’è oltre di essa. Cacciari, tra i molti scenari esa­minati, ci ricorda che l’esito possibile delle situazioni delineate è il comico.

Corriere della Sera 5.5.09
Un saggio ricostruisce amicizia e malumori tra i pittori. «La causa? Litigarono per una donna»
Fu Gauguin a tagliare l’orecchio di Van Gogh
L’ipotesi di due studiosi riapre il caso
di Stefano Bucci


I critici
Flavio Caroli: «È possibile, tra i due c’era tensione». Marco Goldin: «Un’ipotesi come un’altra». Vittorio Sgarbi: «Versione credibile»

Un accordo segreto, ma anche la prova tangibile di un’amici­zia al tempo stesso profonda e complicata tra due giganti del­­l’arte, Vincent Van Gogh (1853-1890) e Paul Gauguin (1848-1903). Il saggio di Hans Kaufmann e Rita Wildegans appena uscito in Germania (L’orecchio di Van Go­gh, Paul Gauguin e il patto del silenzio, Osburg Verlag, pp. 392, e 23) certo propo­ne un’interpretazione inedita di un fatto notissimo: non sarebbe stato Van Gogh a tagliarsi l’orecchio nella notte tra il 23 e il 24 dicembre 1888, ad Arles, ma sarebbe in­vece stato Gauguin a ferire l’amico al ter­mine di un litigio, forse non per motivi ar­tistici, ma piuttosto per colpa di «una cer­ta Rachele».
Non solo: il saggio (corollario ideale al­la mostra Van Gogh. Tra terra e cielo in corso al Museo d’arte di Basilea, dove ver­rà presentato e discusso il 17 giugno) con­ferma il legame tra Vincent e Paul e quella tensione, mista a gelosia, che accomunava i due. Una tensione che il critico Flavio Ca­roli definisce «ben avvertibile già a partire dall’inverno del 1886, che sembrava nasce­re dalla gelosia di Van Gogh per l’amico più 'forte' e che vedeva come terzo inco­modo il giovane Émile Bernard». Secondo Caroli l’interpretazione di Kaufmann e Wil­degans «è possibile», anche perché di quell’evento non ci sono documenti certi: «Se non quelli ufficiali del sindaco di Ar­les, la petizione dei cittadini che non vole­vano quel pittore così scomodo e il reso­conto della polizia di un Van Gogh che si presenta in un bordello con il suo orec­chio avvolto nella carta di giornale».
I due ricercatori tedeschi sostengono che «l’automutilazione di Van Gogh non è mai stata provata» e che, di fatto, «l’unica testimonianza accertata è quella di Gau­guin ». Che ne parla ampiamente nel libro Avant et après del 1903 e che, forse non per caso, dopo l’incidente sarebbe precipi­tosamente ritornato a Parigi per poi fuggi­re a Tahiti. Gauguin avrebbe mozzato il lo­bo dell’orecchio di Van Gogh con una scia­bola, che poi avrebbe gettato nel Rodano, al termine di un litigio «su una prostitu­ta », Rachele appunto (e non su problemi d’arte) mentre l’amico avrebbe taciuto per proteggerlo (più tardi i due si sarebbero anche scritti). La mattina del 24 la polizia avrebbe poi trovato un uomo con il volto insanguinato e l’avrebbe fatto ricoverare in ospedale.
Scrivono Kaufmann e Wildegans: «La versione tradizionale, quella finora accre­ditata, è basata solo su affermazioni senza prove e sul racconto di Gauguin, che non sarebbe nemmeno stato presente al fatto, un racconto pieno di contraddizioni e di punti oscuri. Non esiste un’inchiesta uffi­ciale e nemmeno un testimone indipen­dente. Van Gogh, per parte sua, non ha mai confermato niente». Di fatto, secondo questa tesi, viene a crollare l’idea di un’au­tomutilazione che avrebbe anticipato il suicidio di Van Gogh, sette mesi più tardi, nella casa del Dottor Gauchet.
Dunque, nessuna nuova prova. Eppure questa lettura può essere convincente. An­che per Marco Goldin, storico dell’arte e organizzatore di mostre (la sua più recen­te, quella dedicata a Van Gogh al Museo di Santa Giulia a Brescia, ha collezionato ol­tre 200mila visitatori in 111 giorni): «So­no stupito, ma può essere una lettura co­me un’altra. Certo, il fatto che quel litigio non fosse legato all’arte, ma a una donna, era abbastanza noto» (un fatto che con­traddice la tesi a suo tempo proposta da Bataille e Artaud che videro nell’automuti­lazione di Van Gogh «il simbolo della fol­lia come base dell’arte moderna»). Vitto­rio Sgarbi, curatore della mostra Arte, ge­nio, follia in corso a Siena a Santa Maria della Scala (fino al 25 maggio), che vede Van Gogh tra i suoi protagonisti, confer­ma: «Quella dell’automutilazione è una leggenda, per cui anche quest’altra ipotesi può essere valida». Certo è che, al di là del­l’orecchio tagliato di Van Gogh, sorprende come gli impressionisti continuino ad atti­rare l’attenzione. Così, mentre per Einaudi esce in Italia il libro di Cyntia Saltzmann sul Ritratto del Dottor Gauchet («Storia e avventura di un capolavoro»), dall’Inghil­terra arriva il saggio di Philip Hook The ul­timate Trophy (Prestel), ovvero «come gli impressionisti hanno conquistato il mon­do » grazie a un mix di semplicità e di pit­tori intriganti come star. Non a caso, nel 1956, a Hollywood su Van Gogh avrebbe­ro girato addirittura un film (regista Vin­cent Minnelli) con Kirk Douglas. Che, in quel caso, si sarebbe tagliato da solo l’orec­chio. Ma fuori scena.

Terra, 5.5.09
Karl Löwith: una vita da filosofo in bilico tra Dio e il nulla
di Noemi Ghetti


In libreria il libro di Orlando Franceschelli, docente di Teoria dell’evoluzione e politica alla Sapienza di Roma, nel quale si ripercprre il pensiero di una delle figure più significative del panorama intellettuale del XX secolo

Formatosi alla scuola di Husserl e di Heidegger, nel 1936 fu drammaticamente costretto a lasciare, in quanto ebreo, la Germania nazista.

Una vita intera spesa alla ricerca di un nuovo umanesimo, o meglio di una visione naturalistica della realtà umana, riscattata dalla falsa alternativa di un’esistenza meramente apparente, sospesa tra il creazionismo biblico e quella forma di «teologia senza dio» che è il nichilismo moderno. Da questa prospettiva in Karl Löwith. Le sfide della modernità tra Dio e il nulla (Donzelli Editore) Orlando Franceschelli, docente all’università La Sapienza di Teoria dell’evoluzione e politica, ripercorre le tappe fondamentali della vicenda del filosofo tedesco, che è stato una delle figure più significative del panorama intellettuale del XX secolo. Formatosi alla scuola di Husserl e di Heidegger, nel 1936 fu drammaticamente costretto a lasciare, in quanto ebreo, la Germania nazista, rifugiandosi in Giappone e poi negli Stati Uniti. Vi ritornò nel 1952, per insegnare filosofia ad Heidelberg, dove morì nel 1973, lasciando opere come Da Hegel a Nietzsche, Nietzsche e l’eterno ritorno e Il nichilismo europeo, che sono divenute dei classici della storia della filosofia.
Una lettura di attualità, nel momento in cui la concezione naturalistica del mondo e dell’uomo, convalidata nell’Ottocento dalla teoria dell’evoluzione di Darwin e ormai largamente acquisita nella mentalità comune, è sotto l’attacco del neointegralismo cattolico, che tenta di negarle ogni plausibilità scientifica ed etico-politica. O più sottilmente di annettersela, inquadrandola all’interno della cosiddetta «teologia evoluzionistica» del Disegno intelligente, come accadde nell’età romantica con l’idea hegeliana di un Progresso della storia governato da un disegno provvidenziale: in palese contraddizione con lo spettro, da sempre evocato dalla Chiesa, che la concezione naturalistica priverebbe l’uomo di qualsiasi dignità e possibilità di salvezza.
Il problema di fondo del creazionismo giudaico-cristiano, secondo Karl Löwith, è la svalutazione della «naturalità» del mondo, prima radice di ogni nichilismo. Filosofo della scepsi per autodefinizione (dove la parola è usata per indicare «l’incertezza del nostro sapere»), dichiarò esplicitamente che coloro, che non possono sopportare questa incertezza, sono pronti ad accettare tutte le varie forme di religiosità, e si servono della filosofia come surrogato della religione.
La filosofia di Ludwig Feuerbach e quella di Friedrich Nietzsche ebbero una grande rilevanza nella sua formazione. Di Feuerbach mise in luce il «salto» oltre Hegel (e anche oltre Marx) nel rivendicare la positività del mondo sensibile, «autentica fuoriuscita dal carcere della filosofia della riflessione», grazie alla quale l’uomo totale, in carne e ossa, torna ad essere il fondamento reale di ogni attività e dimensione della vita, riappropriandosi delle qualità («predicati») che ha alienato nella divinità. La scoperta di Feuerbach della dinamica dell’alienazione religiosa è secondo Löwith fondata su questa rivalutazione della corporeità e della sensatezza della realtà naturale. Ma è con Nietzsche, egli sostiene, che l’ateismo riesce ad accompagnarsi alla proposizione di «una seconda forma di innocenza», riscattando il mondo a se stesso: la critica del cristianesimo nietzscheana supera il nichilismo, cioè elimina la prospettiva teologica che questo mondo sia apparente, e pone le basi per la possibilità della «trasvalutazione dei valori». Ma l’avvento del nazismo nel 1933, e il feroce disinganno per l’opzione di Heidegger a favore di Hitler, resero contestualmente manifeste anche le carenze della ricerca nietzscheana.
Ripercorrere le tappe dell’apprezzabile tentativo di Karl Löwith è una conferma che per quella totale «trasformazione e dissoluzione della teologia in antropologia», in cui Feuerbach ravvisava il compito dell’età moderna, era necessaria la scoperta della nascita del pensiero come immagine dalla realtà biologica. La sfida per l’affermazione di questa nuova idea di realtà umana si propone oggi con la massima urgenza, se pensiamo all’incalzare delle questioni bioetiche e al rinnovato protagonismo della religione nella sfera pubblica e privata.
Particolarmente utile in questo senso è la ristampa, in appendice del libro, del saggio del 1966 La libertà di fronte alla morte (Die Freiheit zum Tode): una serrata disamina sul tema della libertà di morire dal mondo classico, nel quale il suicidio era ammesso come atto estremo di umanità, al mondo cristiano, fino a Spinoza, Hume, Kant, Hegel, Heidegger, che unanimemente lo condannano. Alla condanna da parte della Chiesa, che sostiene che la vita è un dono di Dio di cui l’uomo non può disporre, il pensiero laico di Löwith oppone il generico principio del «diritto di morire», analogamente a quanto ha sostenuto Umberto Veronesi nelle recenti polemiche sul testamento biologico.
Ma le ragioni della ragione, anche in questo caso, non sono sufficienti per le indispensabili distinzioni che la delicata questione richiede. Il «disincanto» non basta. La parabola intellettuale di Löwith è una rappresentazione emblematica del punto massimo di sviluppo, e poi di crisi, a cui un onesto esercizio del pensiero razionale può condurre. L’esito scettico della sua ricerca infatti approda, come nell’epoché dei Greci, al «silenzio del mondo» e alla «pausa dell’intelligenza», fino alla simpatia mostrata per il buddismo zen della spiritualità giapponese: contemplare e ascoltare, senza sperare. Non gli consente di arrivare all’autentica scoperta della modernità, oltre la morte di Dio, oltre il nichilismo: che la vera natura dell’uomo è essere e pensare, e poi lottare, in e per il rapporto con gli altri esseri umani.