mercoledì 6 maggio 2009

Corriere della Sera 6.5.09
Verso Cannes. Il regista anticipa le scelte fatte per il suo «Vincere», unico film italiano sulla Croisette. E ne racconta anche i tagli
«Il mio Duce giovane fascinoso e brutale»
Bellocchio: Mussolini visto attraverso la donna che ripudiò
di Aldo Cazzullo


Dittatore. Filippo Timi, 34 anni, interpreta Benito Mussolini in «Vincere» di Marco Bellocchio, l’unico italiano in concorso al prossimo Festival di Cannes Il film traccia un duro ritratto del Duce, mostrato come un uomo «violento, calcolatore. brutale», come ha spiegato il regista

ROMA — «C’è il giovane Mussoli­ni che combatte un duello verbale con un prete. Il futuro Duce chiede agli spettatori un orologio da taschi­no. Lo poggia sul tavolo. Proclama: 'Se Dio entro cinque minuti non mi avrà fulminato, avremo la prova che non esiste!'. In quel momento entra in sala una ragazza di Trento, bella e ricca: Ida Dalser. E si innamora di quegli occhi fiammeggianti...».
Dopo Buongiorno notte, sul caso Moro, Marco Bellocchio torna al ci­nema politico. Due anni fa, il gran­de regista aveva rivelato al Corriere il progetto di un film sul giovane Mussolini e l’amore divenuto perse­cuzione e finito in tragedia per la Dalser e il loro figlio, Benito Albino. Ora il film — Vincere — è pronto. Lo producono Mario Gianani e Rai Cinema. Rappresenterà l’Italia al Festival di Cannes, tra due settimane. E Bellocchio ne anticipa il significa­to politico.
«Il mio Duce è un uomo affascinante: non a caso anche Rachele racconta di es­sersene innamorata subito attraverso i suoi occhi folgoranti. È un uomo amato non solo dalle donne, ma anche dal po­polo: come già per Moro, ho usato mate­riale di repertorio, visto e non visto (ad esempio un discorso in tedesco di Mus­solini a una folla oceanica di nazisti). Do­cumenti che testimoniano l’entusiasmo che la grande maggioranza degli italiani aveva per il capo, un attore dalla recita­zione sempre più pagliaccesca con il passare del tempo, tanto che ogni volta guardandolo mi chiedo con stupore: co­me ha potuto la quasi totalità degli ita­liani credere così ciecamente a un simi­le buffone? Il Duce che ho rappresentato non è un uo­mo buono. Non è il pater fa­milias amorevole tratteg­giato dalla tv, che commet­te il solo errore dell’allean­za con Hitler. È un uomo violento. Calcolatore. Bruta­le. Buono è suo fratello, Ar­naldo, fascistissimo ma molto cattolico, l’unico a prendersi cura del piccolo Benito Albino. Il Duce è in­vece senza pietà. Anche con la donna che aveva amato, e con il suo stesso figlio».
Mussolini è Filippo Timi. «L’ho scelto per la notevole somiglianza con il Duce da giovane — spiega Bellocchio —. Non mi andava di esagerare con il trucco, al­l’americana o alla Bagaglino, né di pren­dere un attore che con la fisicità del Du­ce non c’entrasse nulla, come Banderas che pure l’ha impersonato. E poi Timi ha il fascino magnetico di Mussolini ed è un attore generoso, sincero, pieno di ta­lento. Il Duce di Vincere vuole essere sempre il primo, il più geniale, il più coraggioso. Dopo il duello con l’onorevole Treves, socialista, trascura di farsi medi­care perché vuole verificare di persona che gli arbitri redigano fedelmente il ver­bale del combattimento e dei feroci as­salti, per pubblicarlo poi su Il Popolo d’Italia, ordinando al redattore di fare un grande titolo e che il suo nome prece­da quello di Treves. Il primo, il capo, il Duce. In un primo momento avevo pen­sato a un personaggio simile a Lou Ca­stel di I Pugni in tasca, che uccide la fa­miglia. Poi una discussione con mio fra­tello Pier Giorgio mi ha fatto riflettere. Il protagonista dei Pugni in tasca ha la vio­lenza schizofrenica del nazista. Il Duce era diverso. Dannunziano. Futurista. E io l’ho raccontato con un montaggio velo­ce che ricorda la velocità del futurismo. Il giorno prima di partire per la Grande Guerra, Mussolini porta Ida Dalser al ci­nema. Scorrono le immagini del fronte, il pianista suona l’inno di Garibaldi, gli interventisti lo intonano — «si sco­prono le tombe, si levano i mor­ti... » —, Benito si unisce al coro; i socialisti reagiscono, scoppia un tumulto che ha i colori del­la 'Rissa in galleria' di Boccio­ni. E Ida si lancia in difesa del suo uomo, anche se al settimo mese di gravidanza».
Due anni fa, Bellocchio non aveva scel­to ancora la sua protagonista. Diceva so­lo: «Dovrà essere di una bravura mostruo­sa». Per questo, spiega oggi, ha scelto Giovanna Mezzogiorno. «Mi è parsa per­fetta perché anche lei, come Ida Dalser, ha una fisicità generosa di sé, sempre in movimento, scattante, reattiva. Non so se Giovanna abbia qualcosa di Ida, non glielo auguro, certo si è trasformata in una vera protagonista che di continuo fa piangere e fa arrabbiare. La Dalser stori­ca non è simpatica. È quasi fastidiosa nel non cedere mai, nell’andare sotto le finestre del Popolo d’Italia a gridare e mo­strare il bambino, nel continuare sino al­l’ultimo a voler rivedere il Duce. Ma nel film finisce per diventare un’eroina. Un po’ Antigone e un po’ Medea. Perché è l’unica donna che si oppone davvero, da sola, a un uomo cui la grande maggioran­za delle italiane e degli italiani credeva e ubbidiva».
«Ida è una donna colta, conosce le lin­gue, ha un salone di bellezza. Ma Musso­lini, a lungo bigamo, finisce per preferi­re Rachele: carina, ignorante, ma donna di casa, che sa stare al suo posto: le basta essere la madre dei figli del Duce. Quan­do nasce il figlio di Ida, Mussolini lo riconosce. Ma il giorno stesso sposa Rache­le. È la scelta definitiva, a cui però la Dal­ser, che ha venduto tutti i suoi beni per finanziare il Popolo d’Italia, non si rasse­gna. C’era una scena un po’ da libro Cuo­re che ho tagliato, in cui Ida disperata per l’abbandono va a casa di Mussolini e alla piccola Edda che le apre chiede: 'Pa­pà ti vuole bene?'. Invece ho lasciato la scena, storicamente attestata, in cui le due rivali si affrontano nell’ospedale in cui il Duce è ricoverato. Mussolini è sta­to ferito gravemente, più di 50 schegge in corpo, e ha appena ricevuto la visita del Re, che solo pochi anni prima da so­cialista rivoluzionario aveva irriso («na­no!») e insultato («assassino!»). Ida non lo vedrà più. Mussolini, che appoggia la guerra ed è ormai in ottimi rapporti con il potere, riesce a farla arrestare. Lei vie­ne portata a Firenze. Quindi a Caserta, al confino. L’accusano persino di essere una spia tedesca, per il solo fatto di esse­re nata in territorio austriaco. Finisce nel manicomio di Pergine, vicino a Trento. Infine in quello di San Clemente, su un’isola di fronte a Venezia, dove mori­rà. Ida rivedrà il Duce solo al cinema, da spettatrice».
«Mussolini non aveva ironia. Ironico e provocatorio è il titolo del film, Vince­re.
Io non ho vissuto il fascismo, ma mi sono in parte formato su una cultura che, dopo essere stata complice del fa­scismo, l’ha deriso. Lo spirito di sconfit­ta come espiazione per aver creduto a quell’uomo. Di questo spirito di sconfit­ta la mia generazione si è in parte nutri­ta. Per poi conoscere l’altra grande di­sfatta storica, quella del comunismo (e anche Mao teorizzava la necessità di «osare vincere»). Per questo la nostra identità, di figli degli sconfitti o di una cultura della sconfitta, è stata a lungo de­pressa, grigia, vinta. All’ombra o nel bu­io di quella sconfitta si è formata la no­stra sensibilità. Poi ognuno ha preso la sua strada: chi si è perduto, chi si è totalmente integrato, chi, come me, si è ri­bellato e si è liberato da una condanna che sembrava definitiva a un’infelicità passiva, che mi fa essere oggi ottimista senza sentirmi un imbecille, rappresen­tando da ottimista un’autentica trage­dia. Parole come 'vincere' erano indici­bili. Fino all’arrivo di Berlusconi, che ha fondato democraticamente il suo successo sulla sua immagine vincen­te chiamando alla vittoria e all’otti­mismo il popolo italiano: il suo pri­mo partito non si chiamava Forza Italia? Usando la sua tv, così come Mussolini usò per imporre la pro­pria immagine vincente i mezzi che aveva a disposizione, il cinema, la radio, la fotografia, la grafica, persino la scultu­ra e la pittura».
Racconta Bellocchio che il finale è cambiato rispetto al progetto. «Pensa­vo di chiudere il film con una scena am­bientata dopo la Liberazione: il cogna­to di Ida Riccardo Paicher, l’uomo che non aveva saputo difenderla, esce da un cinema richiamato dalle sirene del­la polizia, assiste agli scontri di un cor­teo politico con le bandiere rosse e tut­to, e soccorre una ragazza ferita. Poi mi sono detto che il film non meritava un finale consolatorio. È una tragedia, e così deve finire».

l’Unità 6.5.09
Bellocchio e la moglie di Mussolini finita pazza
Il film sarà presentato a Cannes. Racconta un duce inedito. Di una donna perseguitata e del figlio Benito Albino
di Malcom Pagani


Il regista: «Il film parte da un documentario su parenti sacrificati»
Le lettere. La moglie scriveva e i federali la perseguitavano
Il figlio. Gli cambiarono l’affido il nome, lo fecero espatriare in Cina

A Palazzo Venezia, con le donne, Mussolini usava la tecnica musica e magia. Tra il ‘35 e il ‘39 non aveva amanti, ma solo fugaci incontri. Tromba e sparisci».
L’eleganza sublime e l’elogio trasversale. Democratico. Stallieri e dittatori. L’altro ieri, tramontata l’aura del 25 aprile pacificato, grazie a Marcello Dell’Utri scoprivamo i partigiani «di destra» e il Mussolini «troppo buono». Qualche giorno ancora e il festival di Cannes racconterà al mondo un altro duce. Bigamo e spietato. «Prima di allora, non sapevo nulla di questa storia. Poi nel 2005 lessi un articolo e vidi un documentario su Mussolini e sui parenti ignoti e sacrificati, la moglie Ida Dasler e il figlio legittimo del duce, Benito Albino».
Da 40 anni Marco Bellocchio esplora i lessici familiari. Codifica linguaggi, pugni tenuti in tasca, condanne, salti nel vuoto, mostri da occultare alla vista o sbattere in prima pagina. Un cinema che ripudia l’oblìo e spinge l’ex salesiano ribelle a occuparsi di terrorismo e psicanalisi, regimi e sacche di consenso. «Vincere», il suo film sul Duce più celato, sarà in concorso a Cannes. In luogo del ‘68 di Placido, la fotografia della donna che pagò caro l’irriducibile desiderio di non arrendersi. Fu bollata, resa incapace di nuocere all’immagine del dittatore, rinchiusa in manicomio.
Pazza. E quindi afona nel gridare, indecifrabile nello scrivere, querula nel chiedere aiuto. Pericolosa. Una serpe cresciuta in seno che rivendica l’amore del capo e diventa un problema. Da internare e dimenticare, usando ogni mezzo.
Stampa, Polizia, medici, prefetti. Il pubblico che si piega al privato e nasconde un segreto inconfessabile. Un gioco di scatole cinesi. Aperta la prima, non ci si può fermare. Il documentarista che insieme al giornalista Norelli ha guidato Bellocchio alla scoperta del lato oscuro di Mussolini si chiama Fabrizio Laurenti. Ha vissuto per 13 anni a New York, ondeggiato tra generi diversissimi e una sera per caso, è caduto sulla materia che avrebbe plasmato in 30 mesi di maniacale lavoro. «Mi dissero che Mussolini aveva avuto un figlio morto in manicomio. Mi sembrò incredibile. “Fidati, a Trento lo sanno tutti”. Decisi di indagare e mi immersi in un pozzo di fonti. Compagni di banco che avevano conosciuto Albino e le sue leggendarie imitazioni del padre, donne che vivevano di fronte al sanatorio dove era reclusa Ida, autentiche lettere autografe firmate Benito. Un materiale troppo importante sul funzionamento della burocrazia fascista per rischiarne l’estinzione».
Ida venne imprigionata a Pergine, «curata» con iniezioni di malaria nel sadico tentativo di «snebbiarle» la coscienza, screditata, messa infine in una fossa comune, nel 1937.
A Benito Albino cambiarono l’affido, il nome, lo fecero espatriare in Cina e poi, vista l’insistenza nel cantare un’aria sgradita, fatto accomodare in una struttura identica a quella della madre.
Morì nel 1942. «La corsa a guadagnare gli elogi del principe era senza freni. Compiacere è un meccanismo “naturale” che funzionava e funziona perfettamente». Laurenti coglie analogie con l’oggi. «Sono cambiate solo le facce. Come diceva Flaiano, correre in soccorso del vincitore è un istinto primario. Quando il potere diventa incontestabile e il consenso raggiunge vette così alte, c’è piaggeria. Ci sarà sempre un momento per essere ricompensati e magari vedersi catapultare in parlamento. Con Albino e Ida fecero cessare il rumore di fondo, il fastidio per una diceria che non doveva circolare».
Lei prendeva carta e penna: il nostro Benitino, “piccolo grande amore” lui riceveva freddi dispacci, frammenti di una violenza soffusa. «Per trovare le lettere incriminate, Tamburini, un federale di Trento, le smontò la casa. Portò via molte cose ma non quei fogli, nascosti dentro un gallo impagliato. Ci sono ancora. Tamburini, a Salò divenne capo della Polizia».
Ida non si adeguò mai. Fu sua moglie, sempre. «Accusò il fratello Arnaldo». Lo stesso che sulla Gazzetta Ufficiale mutò l’identità di Albino. «Gli fece assumere un altro cognome. Cambiò la vita di una persona e quella di una nazione».
Al di là di speculazioni, bizzarre similitudini, abbagli, equivoci di inizio estate.

l’Unità 6.5.09
«Io, Valentina sono bella amo gli Stones e m’arrabbio»
Attrici emergenti La Lodovini, nelle sale con “Generazione 1000 euro”: «Non è accettabile che lo Stato non investa nella cultura»
intervista di Paolo Calcagno


Mara, Daniela, Beatrice e le altre. Figlie del nostro tempo ingrato e minaccioso, soprattutto per i giovani: donne generose e battagliere che non ci stanno a farsi intrappolare nei conformismi rassicuranti e nei pregiudizi-rifugio di esistenze garantite. Le abbiamo incontrate al cinema con la faccia spiritosa e il sorriso contagioso di Valentina Lodovini: la maestra che sbarca nella provincia del Nord (La giusta distanza, di Carlo Mazzacurati) , ammalata di paura dell’altro, dell’immigrato extracomunitario; la fidanzata del giornalista napoletano Giancarlo Siani eliminato dalla camorra con 10 colpi di pistola (Fortapàsc, di Marco Risi); la professoressa di latino e greco (Generazione 1000 euro, di Massimo Venier) che attraversa con grinta il labirinto del precariato. E dall’11 maggio l’attrice sarà sul set triestino della fiction Rai Gli ultimi del Paradiso, la prima dedicata alle «morti bianche» causate dagli incidenti sul lavoro.
PIOVRE D’ITALIA
«Siamo tutti figli di papà – osserva Valentina Lodovini -. Non dico che noi trentenni siamo benestanti, ma ognuno ha una famiglia alle spalle. Il sogno è il lavoro sicuro, un miraggio nell’Italia di oggi. E ci sono due tronconi: c’è la parte che non si arrende, che si rimbocca le maniche, che fa due o tre lavori contemporaneamente per sbarcare il lunario, ma caparbiamente insegue l’obiettivo che ha scelto; poi, c’è l’altra parte, più fragile, che non fa fronte comune, che si lamenta e rinuncia a lottare». E la solidarietà, la rabbia? Si fatica a rintracciarle in questa generazione del “si salvi chi può”. «Secondo me, la rabbia c’è in entrambe le parti. Tutte le mattine mi sveglio arrabbiata contro questo stato che investe poco nel cinema, nel teatro, nella cultura, perché non ci crede; contro la politica e le lobby che condizionano sviluppi e vite in vari settori. Soprattutto, provo rabbia contro chi vuole rendere provinciale il nostro Paese. E mi fa incazzare che tanti facciano finta di niente. Anche per questo partecipo molto volentieri ai film che si occupano della realtà, non importa se realizzati in chiave drammatica o di commedia sentimentale».
LA MIA GENERAZIONE
Bella e tosta, Valentina Lodovini, 30 anni, umbra (ma cresciuta nella provincia di Arezzo): «Per me, oggi, è diverso: faccio il mestiere che ho scelto e posso persino respingere le offerte che mi arrivano. Però, non è stato sempre così. Ho fatto tutti i passaggi, fin da quando, a 19 anni, avevo deciso che sarei diventata attrice: la Scuola di teatro, il Centro sperimentale, eccetera. Anche a me è toccato di vivere in periferia, assieme a 7-8 ragazzi». Glamour e impegno sociale, un mix di cui non Valentina non nega di compiacersi. «Siccome sono umbra di origine e il fisico non mi manca, puntualmente mi hanno accostata alla Bellucci. Ma mi interessa poco. Per me, se sono bravi e hanno personalità, gli attori sono tutti belli. E io ho la fortuna di trovarmi in buona compagnia: in Italia sta crescendo un’eccellente generazione di attori e di attrici. Come donna, ho la mia vanità e non nascondo di avere un debole per i tacchi alti e il rossetto: mi fanno sentire più sicura del mio corpo. Ma della bellezza non trovo intelligente parlare».
CERTE MANIE
Appassionata dei Rolling Stones, avida di buone letture, Valentina ama concedersi piccole manie, come le collezioni di cappelli e occhiali. Il carattere solare e diretto è una costante dei personaggi principali creati dalla Lodovini: nessuna tentazione per un ruolo torbido da malafemmina? «Non mi spaventa il ruolo della stronza. Recitare una “malafemmina” sarebbe un godimento: mi manca una donna pericolosa e ambigua. Ma scegliere i ruoli, per un’attrice, è una battaglia: la qualità è merce rara nelle proposte che arrivano e io sono convinta che una carriera si costruisce più con i no che con i sì. Però, forse a teatro, a Taormina, farò Salomè, di Oscar Wilde, che non è proprio la solita signorina insicura...».
E accetterebbe anche la sfida di un ruolo comico? «L’ho fatto: sono stata protagonista di Pornorama, di Marc Rothemund. È una commedia divertentissima, in cui faccio un’attrice svampita, con un suo alter ego: è una maggiorata, una specie di Lollobrigida, Loren e Cardinale messe insieme, ma quando recita diventa la Magnani. L’ho girato tra Berlino e Monaco, ma per ora è andato solo in Europa: non so se arriverà in Italia».

l’Unità 6.5.09
Il privato di un imperatore
di Pietro Spataro


La domanda, senza tanti giri di parole, è questa: è davvero affare privato che un premier venga accusato dalla moglie di "frequentare le minorenni"? Ovviamente no, è un affare politico di prima grandezza. Eppure scivola via come una puntata del Grande Fratello o suscita le reprimende di qualche editorialista guerriero della privacy. Ultimo arrivato è Pierluigi Battista che ieri sul Corriere ha messo alle strette il vero colpevole: Dario Franceschini. Che ha osato lanciare l'allarme sul degrado morale dell’uomo che governa l’Italia e che è portatore di un immenso conflitto di interssi. Verrebbe da dire: poveri noi. Questa teoria della “intangibilità del privato” l’abbiamo letta in più versioni. E però: come si fa a giudicare fatti privati certe accuse così brucianti che in altri paesi avrebbero fatto tremare il palazzo? E infatti ieri sera il premier ha dato la prova più plateale: è andato a Porta a Porta e ci ha sbattuto in faccia i suoi vizi privati sulla tv pubblica.
Il fatto è che l'etica della politica oggi non è problemino da poco, tantomeno per Berlusconi. Da chi governa un paese e fa leggi che toccano le vite uno pretende comportamenti coerenti e sobrietà. E invece si assiste a spettacoli sempre più indecenti di fronte ai quali troppi tirano dritti. «In Italia non c'è più capacità di indignarsi» ci ha spiegato il corrispondente del Time. Detto da un giornalista straniero ferisce ancora di più. Forse ha proprio ragione Veronica Lario: che strano questo paese che tutto concede e tutto giustifica al suo imperatore.
pspataro@unita.it

l’Unità 6.5.09
Quel «Papi» ricorda Malaparte
di Bruno Gravagnuolo


Mette il «comico» come categoria dello spirito, al centro dela sua esegesi del «Moderno», Massimo Cacciari. Nel suo Hamletica, saggio adelphiano, dedicato a Shakespeare, Kafka e Beckett, figure chiave del nichilismo, di cui il comico sarebbe l’acme. Il «comico» come parossismo del Senso, del Potere, dei Valori. Del «regno delle immagini» e quant’altro la modernità fa implodere, consegnando tutto all’assurdo. Non è questo il luogo per «recensire» una tesi non del tutto originale, ma nondimeno suggestiva. E stimolante. Almeno per ciò che concerne la modernità italica. Quant’altre mai comica. Ma, in quanto inconsapevolmente tale, tragica. Citando passim, prendete Marcello Dell’Utri, già architetto di Forza Italia, bibliofilo. Uno degli «uomini del destino» ai quali dobbiamo questa nostra Italia. Beh, lui che è nel cuore di quel Cav, che pure «riabilita» il 25 aprile, va girando per l’Italia, cercando di rifilare a tutti la famosa patacca dei Diari del Duce. Palesemente falsi, come tutti gli storici seri hanno detto. E ripete, al solito Klaus Davi benevolente e dialogante su You Tube, che « Mussolini ha perso la guerra perché era troppo buono». Che era «un uomo straordinario, una brava persona, che non stimava Hitler». E via delirando comicamente. Una roba che non stupisce più di tanto nessuno, salvo pochi «indignati». E meno che mai stupisce, che a dirle certe cose, sia uno dei consigliori più intimi del Capo Supremo. Quanto a quest’ultimo poi, se è vero che i suoi spettacolini, con conigliette e Lolite, indignano la moglie (che ben lo conosce) - spingendola (alfine!) al divorzio - vero è altresì che c’è una maggioranza di italiani che lo ammira. Lo comprende, e nella sua antropologia comica si riconosce volentieri. Anche se quegli spettacolini tra Villa Certosa e Casoria, hanno il sapore farsesco del degrado. Tipo quello ben noto del La pelle di Malaparte! Insomma quel «papi» piace agli italiani. E non abbiamo ancora né una antropologia né un riso demolitore alternativi per farne implodere la maschera.

Repubblica 6.5.09
Lo specchio infranto
di Curzio Maltese


Ma che effetto avrà fatto agli italiani vedere in mondovisione il presidente del Consiglio costretto a discolparsi di non andare con le minorenni? Dice proprio così, «Non è vero che frequento le minorenni». Come sostiene non un passante, un avversario politico senza scrupoli, un giornalaccio scandalistico, un sito di gossip, ma la madre dei suoi figli.
Eccolo, il premier più popolare del mondo, secondo i suoi stessi sondaggi amato dal 75 per cento degli italiani, ma compatito, con punte di disgusto, dalla donna che gli sta accanto da trent´anni. Perché, sostiene Veronica, «è una persona che non sta bene». Eccolo, il re nudo, con i suoi settantadue anni e i capelli nuovi, il cameraman di fiducia, nel salotto amico, mentre spiega che figurarsi se lui frequenta le ragazzine, come sostiene Veronica. Figurarsi se voleva candidare le veline all'europarlamento. Figurarsi se Veronica, che gli sta accanto da trent'anni, conosce la verità. Figurarsi, d'altra parte, se lui candida qualcuno per altri meriti che l'impegno negli studi, la competenza, l'idealismo, come del resto «nel caso di Gelmini, Carfagna, Brambilla…». Ma si capisce, certo.
Nella sempre spettacolare parabola di Silvio Berlusconi questo rimarrà il vertice. Ma stavolta non è stato lui a scegliersi la scena e neppure la parte. Lo ha costretto la moglie. L'unica persona vicina a infrangere lo specchio e a rompere il muro dell'omertà, retto per tanti anni da centinaia di schiene di cortigiani politici, giornalisti, avvocati, amici, disposti a chiudere un occhio, due, tre in tutti questi anni sullo scempio di legalità e moralità. E lui ha dovuto andare in televisione, in mondovisione, a raccontare che sua moglie è male informata sul marito, vittima di un complotto della sinistra, dei giornali di sinistra, di Repubblica. «Non a caso Repubblica». Vero. Da chi doveva andare Veronica, in un paese classificato nella libertà di stampa dietro al Benin, dove il marito controlla gran parte dell'informazione? Non c'era molta scelta. Neppure Berlusconi ha fatto una scelta originale, andando da Vespa per riparare i danni dell'attacco dei vescovi. Dove, sennò?
La claque lo sostiene, lo applaude a ogni passaggio della difficile arrampicata di sesto grado sugli specchi, sullo specchio del volto gigantesco di Veronica alle sue spalle. Sembra una scena di un film di Fellini, la Donna stupenda e immensa, e l´omino laggiù, una formica, che si dibatte in alibi puerili, strepita innocenza, sputa minacce. Gli spettatori italiani, dopo tanti anni di teleserva, non faranno più caso all´atteggiamento di Bruno Vespa, accondiscende fin dal titolo. Il più surreale mai escogitato da Vespa: «Adesso parlo io». Adesso parla Berlusconi? Perché, gli altri giorni degli ultimi quindici anni? Tuttavia, tanto per dare un'idea vaga di giornalismo, bisognerebbe ricordare il genere delle questioni poste a Bill Clinton dal suo intervistatore per il caso di Monica Lewinski (peraltro abbondantemente maggiorenne). Queste: quando, dove e come vi siete conosciuti? Quante volte vi siete visti in seguito? I genitori erano al corrente del vostro rapporto e in quali termini? E´ venuta a trovarla a Washington (a Roma)? E´ andato a trovarla a casa di lei? Dove dormivate? Avete avuto rapporti sessuali? Di che tipo? Quante volte? Quante volte completi? E Bill Clinton ha risposto a tutte le domande, senza citare neppure alla lontana una teoria del complotto. Alla fine è andato a scusarsi da sua moglie, nel salotto di casa, non nel salotto televisivo del ciambellano. Ha chiesto perdono a sua moglie, che aveva offeso. Si è ripresentato all´opinione pubblica quando lo ha ottenuto, dopo aver ammesso nel dettaglio più intimo e vergognoso le proprie colpe. Così accade in un paese democratico e civile.
Forse a Silvio Berlusconi sarà bastato passare una sera dall´amico Vespa, nel calore della claque, per ricominciare da domani come nulla fosse. Magari bisognerà pure rassegnarsi, con realismo, a capire che in questa storia l´unica che non potrà più liberamente andare in giro per le strade di questo paese è la vittima, Veronica Lario. Già inseguita dalla muta dei cani che hanno appena cominciato a delegittimarla in tutti i modi.

Corriere della Sera 6.5.09
Sottili equilibri
di Massimo Franco


Si avverte una misce­la di disagio e re­alpolitik nelle rea­zioni delle gerar­chie cattoliche alla saga familiare dei coniugi Berlu­sconi. Disagio non tanto per l’annuncio del divor­zio, ma per il modo spetta­colare, per usare un eufe­mismo, con il quale è stato comunicato. Quanto alla realpolitik si scorge dietro l’assoluto silenzio vaticano e nelle parole sobrie con le quali il presidente dei vescovi italiani, Angelo Ba­gnasco, ha commentato e avallato a posteriori la pre­sa di posizione del quoti­diano Avvenire, vicino alla Cei: un articolo forse più dovuto che voluto, perché intervenire su questioni di vita privata declassate di fatto a pettegolezzo crea un imbarazzo evidente.
Tanto più perché i prota­gonisti della vicenda sono un presidente del Consi­glio considerato l’interlo­cutore principale del Vati­cano, e sua moglie. E qua­lunque parola di troppo ri­schia di alimentare una spi­rale di pettegolezzi in bili­co fra politica, etica, mora­lismo e soldi. L’apparente distacco dalla lite fra Silvio Berlusconi e Veronica La­rio nasconde la speranza impossibile di vedere il ca­so archiviato al più presto; e la realtà di un disappun­to e di una richiesta di tene­re atteggiamenti più re­sponsabili, rivolta tacita­mente ad entrambi. A que­sto si aggiunge il timore di un uso politico della vicen­da in un momento delica­to della vita del Paese. Ber­lusconi sembra consapevo­le di dovere affrontare una situazione scivolosa. La ri­vendicazione di rapporti ottimi con la Santa Sede, ri­petuta ieri sera in tv, riflet­te un dato di fatto ma forse va completata. Assume un significato diverso se vie­ne letta insieme alla sua certezza di non perdere «la simpatia» del mondo catto­lico a causa delle tensioni con la moglie: parole che in realtà tradiscono l’oscu­ro timore di essere danneg­giato politicamente ed elet­toralmente da quello che si ostina a considerare in modo un po’ troppo sbriga­tivo un gigantesco malinte­so. Ma si tratta di un peri­colo che in realtà non ri­guarda solo quell’univer­so. L’opinione pubblica sembra sconcertata e divi­sa senza distinzioni.
Non significa automati­camente che si prepari ad abbandonare il centrode­stra. Anzi, le polemiche che alcuni esponenti del­l’opposizione stanno facen­do contro gerarchie accusa­te di essere «governative», potrebbero rivelarsi a dop­pio taglio. Invece di far ri­saltare una sorta di incom­patibilità morale prima an­cora che politica fra valori cattolici e berlusconismo, rischiano di accentuare la distanza fra centrosinistra e Vaticano. Sarebbe un ri­sultato paradossale, nel momento forse più diffici­le del premier da quando ha vinto le elezioni nel 2008. Eppure, quanto è ac­caduto e può succedere nelle prossime settimane suona come un monito per Berlusconi.
Dovrebbe fargli capire che non bastano i limiti po­litici degli avversari a scon­giurare le critiche, i malin­tesi e alla fine un logora­mento, alimentati in buo­na misura anche da certi suoi comportamenti. Di colpo, potrebbe ritrovarsi appesantito da una zavor­ra di voci che finora hanno contribuito in modo discu­tibile ad alimentare i suoi successi.

Corriere della Sera 6.5.09
Primi segnali d’allarme sul gradimento dei giovani e timori per l’immagine estera del presidente del Consiglio
La delusione: tanti dei miei incapaci di difendermi
di Marco Galluzzo


ROMA — Sarà stata una casuali­tà, ma il sondaggio è arrivato nelle mani del Cavaliere poco dopo la polemica sulle veline. Dopo che la moglie ha definito «ciarpame sen­za pudore» l’uso che delle donne, a suo giudizio, viene fatto nella li­ste elettorali del partito di suo ma­rito. L’ultimo affondo prima di co­municare l’intenzione di divorzia­re. Ebbene i numeri di quella ricer­ca d’opinione, che ha allarmato più di un ministro, dicono che c’è una visibile inversione di tenden­za nel consenso che i giovani, so­prattutto in cerca di lavoro, tributa­no al partito delle Libertà.
Per lo stato maggiore della neo­nata formazione politica è più di un campanello d’allarme. Così co­me per Silvio Berlusconi. Per la pri­ma volta un sondaggio segnala che la «questione veline» è filtrata in modo diffuso nell’elettorato. Ve­ro o falso che sia il dato di cronaca (per il Cavaliere assolutamente fal­so, inventato ad arte dalla sinistra e dai suoi quotidiani) c’è una per­cezione che si sta diffondendo fra chi vota: nel partito del capo del governo si può fare carriera anche grazie all’estetica. Ovviamente la cosa comincia a disturbare chi un lavoro lo cerca (e in questo perio­do in modo sempre più travaglia­to) in base al solo curriculum.
La storia delle veline è stato «un danno al Pdl», ha detto ieri sera il capo del governo a «Porta a Por­ta ». Forse pensava anche ai nume­ri che in questi giorni sono circola­ti fra i dirigenti del suo partito. Poi ha citato l’altro danno, «al sotto­scritto». E in questo caso una delle cose che più lo ha scosso è stato vedere come la materia è stata trat­tata dai media internazionali. «So­no molto preoccupato per la mia immagine all’estero», è uno dei crucci più dolenti di questa vicen­da, spiegabile anche con la psicolo­gia di un uomo che all’immagine tiene in modo quasi maniacale. Co­me e più di ogni politico.
Le accuse della moglie all’estero sono arrivate senza filtro: quella di frequentare una minorenne, quel­la di non essere un buon padre, quelle di non sapere mettere un li­mite ai desideri. Rilanciate dai siti d’informazione, dalle televisioni e dai quotidiani di tutto il pianeta. Per chi nella politica estera riscon­tra la maggior parte del suo lavo­ro, che nei vertici internazionali enfatizza gli effetti diplomatici del rapporto personale con gli altri lea­der, è un danno potenzialmente in­calcolabile, che brucia e provoca imbarazzo.
C’è infine un altro dato che lo scontro con la moglie ha amplifi­cato, richiamando nel Cavaliere sentimenti che ha già provato in altri momenti di difficoltà. Le ac­cuse subite addolorano, bruciano, ne vengono soppesati gli effetti in­terni ed internazionali. Esiste pe­rò almeno un altro effetto, di natu­ra intima, psicologica, che non emerge dalle chiacchiere con lo staff, con i principali collaborato­ri, ma solo nelle conversazioni con gli amici, ed è una sensazione di solitudine: «Sono deluso da molti dei miei, anche da molte del­le donne del Pdl, da un’infinità di gente che sembra incapace di di­fendermi...». Insomma mentre Bossi ironizza­va sulle esigenze delle mogli, che non devono essere trascurate dai mariti, mentre molte esponenti del centrodestra (forse con la sola ecce­zione di Daniela Santanchè) formu­lavano giudizi che spiccavano per i distinguo e non per la difesa a spa­da tratta del Cavaliere, mentre dal­le parti di Arcore a Fini continuava ad essere attribuita parte della re­sponsabilità oggettiva del primo affondo di Veronica (contro le veli­ne, criticate in un articolo della rivi­sta della fondazione vicina al presi­dente della Camera), proprio in quei momenti Berlusconi rifletteva sul fatto che «i miei sono incapaci di difendermi»: misurando forse la solitudine politica di chi viene coinvolto in vicende che di politi­co hanno ben poco.

Corriere della Sera 6.5.09
La «sorpresa» di Veronica Quella telefonata con Letta
Anche Confalonieri ha contattato la moglie del premier


MILANO — Doveva essere una serata tranquilla. Nella villa di Macherio, a cena — la prima dall’annuncio della se­parazione —, erano invitati al­cuni amici di famiglia. Invece Veronica Lario si è trovata ad affrontare l’ennesima situa­zione di tensione: suo marito a Porta a Porta a parlare della fine della loro storia. Una scel­ta che la moglie del premier ha appreso soltanto nel pome­riggio. Ed è superfluo dire che è rimasta sorpresa. No, questa mossa proprio non se l’aspettava. Non dopo la frase pronunciata da Silvio Berlu­sconi nei giorni scorsi: «Vor­rei che la storia del divorzio rimanesse nella sfera priva­ta».
Invece il presidente del Consiglio, nonostante i suoi più fidati collaboratori glielo avessero sconsigliato, ha deci­so di andare lo stesso in tv. Ed ha parlato per la prima vol­ta con Bruno Vespa della sua vicenda familiare. A lei, a Ve­ronica, ieri sera non è rima­sto che sedersi sul divano del salotto a guardare il marito parlare in televisione. Una scelta «spudorata», secondo alcune care amiche, quella di Berlusconi. Ma non è questo che ha sorpreso di più Veroni­ca Lario. Semmai, a colpirla, è stato il silenzio calato attorno a lei in questi giorni. Degli amici di sempre, Fedele Con­falonieri è stato uno dei po­chi a chiamarla. E poi, la scor­sa settimana, c’è stato un lun­go colloquio telefonico con Gianni Letta, nel corso del quale il braccio destro di Ber­lusconi avrebbe provato a sondare il terreno per capire i margini di una possibile ri­conciliazione, dovendo poi concludere che erano pratica­mente nulli. Anche a Letta, come alle persone a lei più care, Veroni­ca Lario avrebbe spiegato le ragioni che l’hanno spinta a questo gesto così sofferto e complicato. Non è stata solo la partecipazione di Berlusco­ni alla festa di Noemi Letizia a Napoli la causa scatenante della rottura — ha detto — ma più che altro la lunga se­rie di frequentazioni avute ne­gli ultimi anni dal marito, co­me anche il suo stile di vita. Tutte scelte che, secondo lei, avrebbero leso la sua dignità di donna e di madre. A tal punto, da spingerla a dire ba­sta a un matrimonio senza più prospettive. Dopo dieci anni — ha chiarito — non vo­glio più mercanteggiare. O mi ammalavo o facevo questa scelta, l’unica possibile per salvare la mia immagine pri­vata e pubblica.
Tra l’altro è sicura, Veroni­ca, che la strada intrapresa, quella della separazione, farà del bene anche al marito. I fi­gli, invece, rappresentano un capitolo a parte. Sicuramente non le hanno fatto piacere, ad esempio, le spiegazioni da­te da Berlusconi in tv a propo­sito delle presunte assenze al­le feste di compleanno dei tre ragazzi. Chi la conosce, rac­conta che spesso Veronica ha dovuto insistere molto con lui per farlo partecipare. Qua­si sempre senza risultato.
Barbara, Eleonora e Luigi per ora preferiscono non commentare. In questa guer­ra a distanza tra i genitori, hanno scelto di tenersi in di­sparte. Almeno pubblicamen­te. Ma è abbastanza certo che negli ultimi mesi avevano sperato che tra la madre e il padre potesse durare quella sorta di tregua sopraggiunta dopo la nascita del piccolo Alessandro, il figlio di Barba­ra. Quel nipotino, del quale Berlusconi ha parlato con af­fetto anche ieri sera a Porta a Porta, sembrava aver ridotto le distanze tra i due. Sanato un po’ le ferite. E le foto ma­no nella mano a Portofino ne erano la prova.

Repubblica 6.5.09
Il lato oscuro dei normali "perversi"
Da tabù a moda: cambia il giudizio sui gusti erotici
di Natalia Aspesi


Un libro del giornalista Daniel Bergner racconta quattro casi di persone con inclinazioni sessuali diverse, estreme. Ma "Il lato oscuro del desiderio" è sempre più comune

Cerano tempi in cui barbuti studiosi consideravano diabolicamente perverse le signore che a letto, persino col loro legittimo sposo, non si dimostravano del tutto marmoree. Nei decenni, alcune propensioni sessuali un tempo considerate criminali sono diventate alla moda e guai a non praticarle correttamente, altre nei secoli bui punite con l´impalamento, oggi danno vita a felici famigliole monosessuali: e tuttavia, tale è l´ingordigia di rendere il sesso meno soporifero o di non sentirsi massa anche a letto, e nello stesso tempo tale il bisogno di dare all´amore il cupo colore dell´ignominia, che quelle che si chiamano perversioni sono sempre lì, invitanti.
Solo che, come fantasia e come consumatori, si sono evolute, moltiplicate, e con l´avvento del web, organizzate, normalizzate, diventate mercato, dando da pensare e favoleggiare e lavorare a vaste categorie di studiosi; a cominciare dai fondamentali e celeberrimi scienziati tedeschi del ramo, il massimo divo ora polveroso della psichiatria, Richard von Krafft-Ebing (Psychopathia sexualis, 1886) e il medico Magnus Hirschfeld (Geschlechtsanimalien und perversionen, 1926), pioniere degli studi sulla omosessualità e omosessuale lui stesso. Spaventosi esempi citati dai due dotti voyeur: un giovanotto che si eccitava orribilmente leggendo La capanna dello zio Tom, una vera epidemia tra le nobildonne inglesi del XVIII secolo che si riunivano una volta la settimana per frustarsi vicendevolmente in grande allegria.
Per le pari opportunità va detto che, tra i tanti celebri maso, anche il grande letterato settecentesco Samuel Johnson adorava essere frustrato dalla sua signora. E´ il momento di rinfrescare un po´ la vasta casistica e la tipologia umana (per la verità più maschile che femminile) di chi, sessualmente parlando, non riesce a farlo o lo fa con esangue divertimento, se non lo fa strano. Per chi voglia erudirsi e, ammesso che ci tenga, cercar di capire perché uno si compra le manette di marabu rosa, e una sogna di essere trattata anche solo in vacanza come la protagonista di Histoire d'O, castello e nani cattivi compresi, c´è adesso un libro di grande perizia psicologica e giornalistica, che non eccita ma neppure addormenta, che non appare ridicolo più di tanto come spesso questo tipo di ricerca, ma neppure del tutto orripilante come molti studi minacciosi.
Si intitola Il lato oscuro del desiderio, sottotitolo "I sentieri deviati dell´attrazione sessuale" (Einaudi Stile libero, pagg. 198, euro 16), e lo ha scritto Daniel Bergner, 48 anni, collaboratore del New York Times Magazine, autore di altri due libri inchiesta sugli orrori in un carcere in Louisiana e la guerra civile nella Sierra Madre. Bergner sottolineando con vigore di essere un tipo senza grilli erotici per la testa, o altrove, racconta i casi di quattro americani, tre uomini e una donna, imprigionati in prelibatezze sessuali in un certo senso classiche anche se non consuete. C´è la perversione criminale, la pedofilia, qui rappresentata con molta cautela, visto che l´informatico Roy è finito in galera solo per aver tentato senza riuscirci, di sedurre la figliastra dodicenne, al contrario del professor Humbert di Nabokov che riuscì senza difficoltà a irretire la figliastra Lolita.
C´è la perversione di massimo consumismo di coppia, il sadomasochismo, che ci viene raccontata da una stilista di moda S/M, detta La Baronessa, dominatrice molto nota per un suo locale a New York dove, volendo, si può essere legati a uno spiedo e rosolati, con danni lievi, sopra carboni ardenti, o addirittura, come massima umiliazione virile e vantaggio domestico per la signora (che vanta un lungo matrimonio tradizionale molto felice), pulirle i pavimenti di casa con la lingua indossando un completo di vinile rosso creato e venduto dalla furba Baronessa stessa.
C´è la perversione innocua per tutti tranne per chi la pratica, che, non avendo visto il film di Buñuel Diario di una cameriera con vecchio feticista innamorato degli stivaletti di Jeanne Moreau, se ne angoscia e prende farmaci per smettere; si tratta del rappresentante di commercio Jacob, pure dislettico, pazzo per i piedi, tanto che al solo sentir dire alla tivù, "la neve ha raggiunto i due piedi", lui va in estasi. Prostitute contente per un lavoro così semplice, i medici a dirgli, ma perché non confida a sua moglie questa sua eccentricità che magari è ben disposta, ma lui no, se ne vergogna e poi se lei ci stesse, lui non l´amerebbe più. C´è il perverso benefico che, si apprende con una vena di stupore, fa parte di una moltitudine di confratelli, provvisti di riviste specializzate, innumerevoli siti internet, gruppi in analisi e congressi con merchandising: il pubblicitario Ron appassionato di donne disabili che ama fotografare, ne trova a iosa, sposa dapprima Elizabeth, una giovane donna dalle gambe amputate e molto esibizionista, e dopo il divorzio trova l´amore della sua vita, Laura, anche lei senza gambe in seguito a un incidente d´auto. Offese le signore disabili che si sentono in diritto di essere amate e non fonte di perversione.
Cinema molto interessato, da Tristana di Buñuel, con vendicativa Catherine Deneuve senza una gamba, a Crash di Cronenberg con Rosanna Arquette provvista di gamba di legno, a Boxing Helena di Jennifer Lynch, figlia del regista David, con Julian Sands che per tener prigioniera la sua innamorata a poco a poco le taglia braccia e gambe. Per quanto la lettura di Il lato oscuro del desiderio sia appassionante anche per chi pratica la monogamia con qualche ritocco finesettimana acquistato nei sexshop o ogni tanto un brivido da swapping, basta accendere la televisione su programmi per famiglie per arricchire la propria cultura erotica. E per esempio nell´adorata fiction Sex and the city ora riproposta (su Foxlife), l´aitante marito della bella e appassionata Charlotte non la tocca, preferendo chiudersi in bagno con una rivista specializzata in signore dal seno enorme; gioco innocuo ma, almeno per la sposa intonsa, insopportabilmente perverso.
E poi: qualche settimana fa sono state "Le Iene" (Italia Uno) a portarci in un locale padano apposito, dove uomini e donne vestiti da Mandrake si pestavano di santa ragione, finalmente erotizzati al massimo: meno una signora molto grassa che pretendeva di essere sospesa per aria, senza che ben tre robusti giovanotti con maschera di cuoio ce la facessero. L´anno scorso su un canale Sky trasmisero un´indimenticabile intervista a una innocua massaia americana che conviveva finalmente felice con un cavallo, peraltro non intervistato e girando per i vari canali capita di trovare allegrissimi bordelli dove le signore pesano tutte più di cento chili. Ma in tivù le perversioni non fanno info, come il libro di Bergner, ma solo enterteinment e non dei più riusciti, per un pubblico che mentre segue anche per caso queste trasmissioni castamente lubriche e comunque più amene di "Porta a Porta", non si arrapa ma si addormenta beato.

Repubblica 6.5.09
A Palazzo Chigi allarme rosso sul voto cattolico
I primi sondaggi preoccupano. Bonaiuti a pranzo con i direttori della stampa di Oltretevere
Per andare a "Porta a porta" disdetto un incontro al Quirinale. I sospetti contro i Radicali
di Francesco Bei


ROMA - «Adesso basta, bisogna reagire». Silvio Berlusconi, diviso tra quanti (le colombe Gianni Letta e Paolo Bonaiuti) gli consigliavano di abbassare i toni e altri che puntavano al contrattacco, alla fine ha preso la sua decisione seguendo l´istinto: «Andiamo da Vespa, adesso parlo io, avvertitelo». Decisivo un ultimo consulto a colazione con l´uomo che in questi giorni ha confermato il suo ruolo chiave nell´inner circle del Cavaliere: l´avvocato-consigliere Nicolò Ghedini, (la cui sorella Ippolita seguirà la causa di divorzio).
La "strategia del giunco", che si piega finché non sia passata la piena, non aveva sortito alcun effetto. Com´era prevedibile quel primo comunicato di domenica, in cui Berlusconi quasi scongiurava di far rimanere un «fatto privato» il divorzio, non era stato tenuto in nessun conto. Anzi. Nel mondo la notizia continua a montare, mandando in fumo un lungo lavoro di promozione dell´immagine di Berlusconi all´estero affidato agli ambasciatori. Ma soprattutto i primi focus group organizzati dalla solita sondaggista di fiducia rivelavano il baratro di un impatto molto negativo della vicenda Lario. Anzitutto sugli elettori cattolici praticanti.
Non basta. A funestare la giornata anche il quotidiano dei vescovi Avvenire, per la prima volta critico nei confronti del premier. Osservazioni avallate per di più dal presidente della Cei Angelo Bagnasco. L´allarme rosso a palazzo Grazioli scatta immediatamente e vengono decise alcune, importanti, contromisure. Si tratta di offrire subito una versione alternativa a quella di Veronica, smentire la storia delle «minorenni», delle «vergini che si offrono al drago», prima che si fissi nell´opinione pubblica. Così Berlusconi chiede a Vespa di organizzargli una puntata ad hoc per spiegarsi, per far girare le foto ufficiali di quella maledetta festa napoletana, già fatte pubblicare al settimanale di famiglia "Chi". Vista l´emergenza Lario e la puntata di Porta a Porta da registrare alle diciotto, Berlusconi decide di rischiare l´incidente diplomatico con il Quirinale. E fa annullare da Gianni Letta l´appuntamento già fissato alla stessa ora al Colle con il capo dello Stato per discutere della promozione a ministro della Brambilla.
Contemporaneamente al sottosegretario Paolo Bonaiuti viene affidata la missione più delicata e segreta. Un pranzo con i direttori dell´Osservatore Romano, di Civiltà cattolica, la rivista dei gesuiti, e di Avvenire, per cercare di limitare i danni. Incontro già fissato da tempo, si dice. Ma che ieri, inevitabilmente, è stato piegato agli eventi, per cercare di smussare, ridimensionare, cercare di bloccare sul nascere altri sgraditi editoriali sulla «sobrietà» del presidente del Consiglio.
Nel frattempo, nella cerchia del Cavaliere, si comincia a ragionare con calma sui possibili «mandanti» e organizzatori di quello che viene considerato «un complotto politico-mediatico». Va bene i giornali «di sinistra». Ma alcuni indizi avrebbero portato a individuare, tra gli ispiratori di Veronica, alcuni tasselli di una filiera che va dai radicali fino a Gianfranco Fini. Le tracce. L´avvocato a cui la moglie di Berlusconi si è affidata per la causa di separazione è la stessa professionista che aiutò Beppino Englaro a incardinare la battaglia per Eluana. «Una simpatizzante radicale», secondo gli uomini del Pdl. Altro elemento. Sofia Ventura, la docente che diede l´altolà alle «veline in politica» sulla rivista Ffwebmagazine (quella di Fini, appunto), è la stessa che figura tra i promotori di "Libertiamo", un´associazione vicina al Pdl ma di cultura e radici nel mondo radicale. E sempre da quell´area viene Diego Sabatinelli, segretario della Lega Italiana per il Divorzio Breve, il primo a invitare Veronica a trasformare la sua vicenda in una «battaglia civile e politica». «Una grandissima cavolata», ribatte il deputato radicale Matteo Mecacci, «forse cercano in noi un capro espiatorio per giustificare con i vescovi quello che è accaduto». Eppure i sospetti dei berlusconiani restano forti. Ritengono che una manina possa aver suggerito a Veronica di uscire allo scoperto. «Possibile - si chiedeva ieri pomeriggio in Transatlantico un esponente di primissimo piano del Pdl - che una prudente come la Bonino arrivi a esporsi in questo modo? Sembra quasi che ci abbia messo la firma». Il riferimento è a una dichiarazione molto severa di Emma Bonino - «Berlusconi è uno che le donne le disprezza - che ha colpito molto e irritato il Cavaliere.

il Riformista 6.5.09
La fiaba incompiuta di Berlusconi
di Adolfo Scotto di Luzio


All'inizio era una questione pubblica: la composizione delle liste per le europee. Poi il ciarpame senza pudore è diventato l'intollerabilità di un uomo che frequenta le minorenni. Di qui il divorzio e il nuovo confine tra pubblico e privato. La fine di un amore non deve finire sui giornali, dicono gli avvocati di Veronica Lario. Per Berlusconi, si tratta di una vicenda dolorosa e non ne vuole parlare. Questa commistione tra arena pubblica e interesse privato non è una novità; è anzi costitutiva del berlusconismo. Nell'Italia post tangentopoli non solo la nuova politica nasce sul terreno di una delusione, ma di questa stessa delusione si nutre l'idea che sia legittimo far prevalere l'interesse privato sul servizio pubblico.
Bisogna però chiedersi quali sono i contenuti di questa sfera privata? C'è spazio solo per la roba? Da giorni la stampa è piena di cifre e di numeri. Cosa si devono spartire i coniugi Berlusconi? Ma tutto questo, quel poco che i giornali sapranno, non supera i confini degli interessi famigliari. Quello che l'Italia divide con loro sono passioni e fantasmi interiori.
La forza di Berlusconi sta nella leggenda antidemocratica che è riuscito a incarnare nell'Italia senza ormai i partiti e, soprattutto, senza i loro grandi racconti. Non voglio essere frainteso, la legittimità del leader politico non è qui in discussione. Mi riferisco a un'altra cosa; al fatto che la società di massa cova al proprio interno un'esigenza profonda di stereotipi naturali potenti che sorgono, però, su di un terreno che gli è storicamente estraneo; miti, che derivano da un'altra epoca, al tempo di quando le aristocrazie erano ancora saldamente insediate nel possesso della terra, e che riaffiorano nel cuore stesso della nostra civiltà, nonostante il suo formale rifiuto del privilegio e la sua teoria dei diritti naturali. Eppure, l'uomo della democrazia, di questi miti della disuguaglianza, non sembra poterne fare a meno. I grandi conflitti affettivi all'interno della famiglia, la gelosia dei fratelli, la predilezione di un padre dispotico per una figlia dolce e soave a danno del resto della prole, la spartizione di un regno e le gare e gli odi tra consanguinei che ne derivano, sono tutti elementi che, variamente mascherati, si trovano nelle trame dei grandi racconti della letteratura e nelle vicende della famiglia Berlusconi.
Da qualche tempo, al centro di questa scena drammatica c'è una donna, Veronica Lario; una sorta di madre-regina severa e inaccessibile, che vive, discosta e offesa, nel suo castello; lontana dal marito e dai rumori del mondo. È una presenza scura in volto e incombente, che dice di parlare a nome dei figli, spingendo il marito a dichiarare che quanto ai figli, quelli, gli vogliono un bene dell'anima. Una specie di love-test in pubblico, proprio come accade nel grande teatro delle passioni.
C'è, nel discorso di Veronica Lario, un rapporto tra la cornice e il contenuto che non è stato ben distinto. L'immediatezza del suo messaggio è solo veicolata dal tema dell'autonomia femminile e dell'immagine televisiva degradata della donna. Per ovvie ragioni, questa cornice ha una immediatezza politica che tuttavia è fuorviante. Il nucleo centrale, affettivo e potente, è altrove. Evoca un tema eterno, quello del rapporto dei figli con il padre e del ruolo manipolativo della madre.
Le molte donne delle terre basse, la lunga schiera di veline e starlette, evocate dalla protesta sdegnosa della madre-regina sono l'altro polo della cattività del marito-re, diviso tra l'obbligo di sacrificare e l'ansia della fuga.
Ha ragione Ruggero Guarini quando sul Foglio di giovedì scrive che Berlusconi appartiene alla fiaba. Non alla politica, né alla storia.
Solo che della fiaba manca qui un elemento importante: la principessa liberata, che libera a sua volta l'eroe che la salva. L'universo femminile berlusconiano è pieno di giovinette, bionde e apparentemente piene di grazia; nessuna di loro è tuttavia in grado di far nascere l'eroe. Nessuna assomiglia a una Cenerentola in attesa del proprio liberatore. Neanche una traccia degli occhi stellanti di Julia Roberts in Pretty woman. Tutte hanno piuttosto il tratto berciante e invidioso delle sorellastre della fiaba, che sgomitano per un ballo a corte.
Diviso tra questi due poli, l'eroe incompiuto della fiaba berlusconiana parla di uno stadio della coscienza nazionale di cui non ci si può sbarazzare con un gesto di sufficienza. Non certo l'opposizione che vi recita la parte che fu dei sette nani.
Soprattutto, se Berlusconi è una fiaba, il terreno della fuoriuscita dal berlusconismo non può che essere fiabesco. Evoca per contrasto la necessità di un eroe solare, che non si aggiri più nelle selve muscose dei possedimenti della madre, e sia in grado di interpretare e di far maturare i tratti maschili, verticali, saldi, nella certezza di un sé autentico, e responsabili dell'anima della nazione. Che gli additi un compito e un futuro. Ho detto un eroe e non è detto che debba essere un uomo. Maschile e femminile essendo, come è noto, cosa diversa da maschio e femmina.

il Riformista 6.5.09
La Cei picchia ma non rompe
di Paolo Rodari


Il direttore di Avvenire Dino Boffo questa mattina è ancora al suo posto di lavoro e, dunque, è evidente che la "sculacciata" che ieri il suo quotidiano ha voluto dare - con un editoriale in prima pagina - a Silvio Berlusconi per come sta gestendo la separazione da sua moglie Veronica Lario (cui peraltro non viene lesinata qualche critica per come «da parte offesa abbia scelto la maggiore agenzia giornalistica per commentare le discutibilissime scelte del marito-premier») risponde in qualche modo al sentire dei suoi editori. I vescovi italiani, appunto.
Meno evidente è se il pezzo possa avere un peso nei rapporti finora non certo difficili tra l'attuale governo e la Chiesa italiana. Ovvero, se l'editoriale resti una "sculacciata" o possa assumere i toni di un'aperta rottura tra le parti.
Due frasi, contenute nello stesso editoriale, possono aiutare a sciogliere il rebus. La prima è verso la fine. La firma femminile del pezzo (di lei diremo poco oltre) scrive che «un uomo di governo va giudicato per ciò che realizza, per i suoi programmi e la qualità delle leggi che contribuisce a varare». Come a dire: il giudizio della Chiesa su Berlusconi resta legato anzitutto alla sua azione politica prima che alle sue vicende personali.
La seconda è una frase immediatamente successiva a quella appena citata. Si legge che «noi continuiamo a coltivare la richiesta di un presidente che con sobrietà sappia essere specchio, il meno deforme, all'anima del paese». Come a dire: se è vero che il premier viene giudicato per la sua azione politica, è anche vero che su questa vicenda la misura è colma e il giornale dei vescovi - anche per rispettare la sensibilità dei propri lettori - non può tacere. È un concetto col quale il premier - gli piaccia o meno - deve fare i conti. Un concetto la cui stesura, affinché suoni forte e chiara, è stata affidata non a caso a Rossana Sisti: coordinatrice da tredici anni di Popotus, il supplemento del giornale dedicato ai più piccoli, si è occupata per parecchio tempo sempre su Avvenire di tematiche sociali e soprattutto familiari. La vicenda Berlusconi-Lario ha un impatto educativo notevole e l'editoriale affidato alla Sisti è probabilmente la migliore scelta per sottolineare la cosa.
Dunque, la "sculacciata" c'è tutta e non è da poco. Ma dire che significhi qualcosa di più è ardito. Da una parte, infatti, c'è il totale silenzio del Vaticano e del suo giornale l'Osservatore Romano, dall'altra c'è Avvenire, e ieri sera anche il presidente della Cei Angelo Bagnasco: «Il richiamo alla sobrietà e alla responsabilità per tutti - ha detto il cardinale- è sempre molto positivo». Un avvertimento per il futuro il suo. Per dire che se la rotta intrapresa da Berlusconi non cambia, la situazione tra la Chiesa e il governo può peggiorare.
Ieri pomeriggio Pierluigi Bersani ha provato a leggere la vicenda in altro modo. A suo dire l'uscita di Avvenire era troppo soft tanto che ha dichiarato di non immaginare «cosa sarebbe successo se questa vicenda avesse riguardato Prodi». La risposta che avvenire.it ha voluto dare in un commento intitolato La Puntura (lo stile sembra quello del direttore Boffo) chiarisce come, invece, Avvenire sia super partes. «Per noi parlano i fatti» si legge nel commento apparso sul sito web del giornale. E ancora: «Bersani provi a chiedere al suo collega Sircana, già portavoce del presidente Prodi, come Avvenire si è comportato allorché fu lui a ritrovarsi al centro di una storia non poco pruriginosa (due anni fa venne fotografato mentre parlava da una macchina con un transessuale, ndr). Dalla risposta di Sircana potrà immediatamente intuire che con la sua dichiarazione lei s'è scelto il bersaglio sbagliato, seminando al vento parole vuote. Questo giornale, su certi temi, usa con tutti - assolutamente tutti - la stessa misura, fatta di rispetto e delicatezza. Anche se lei pare non essersene accorto».

Repubblica 6.5.09
Se la Chiesa vieta l’aborto alle donne violentate
risponde Corrado Augias


Egregio Dott. Augias, sabato 25 Aprile, verso le 18, mi sono sintonizzata sull'emittente cattolica Radio Maria. Un professore spiegava perché i cattolici devono essere contrari alla cosiddetta "pillola del giorno dopo". Il professore ha toccato anche il dramma delle donne che subiscono violenza ribadendo con forza il no alla pillola del giorno dopo anche dinanzi a simili circostanze. Motivava il rifiuto con il fatto che è difficile che una donna violentata resti incinta e che comunque non si può reagire al male con una mancanza di bene; inoltre ricordava il secco "no", espresso dal vicepresidente della Pontificia Accademia per la Vita monsignor Jean Laffitte in un articolo sull' Osservatore Romano . Queste motivazioni mi hanno turbato; offendono tutte le vittime di stupro che a seguito della violenza sono rimaste incinte. Come si fa a dire che la pillola del giorno dopo è una mancanza di bene dinnanzi ad un male così atroce qual è lo stupro? Semmai è negare tale farmaco che rappresenta un ulteriore male che si aggiunge ad un male devastante! Mi chiedo se questa non è un'ulteriore violenza che viene fatta sul corpo e sull'anima di queste povere creature!
Danielle Ferri d.ferri@fastwebmail.it

Radio Maria è una stazione nota per le sue posizioni ultraconservatrici. In questo caso però ciò che quel professore ha dichiarato è in linea con quanto proclamano le gerarchie vaticane. Ricordo per esempio che un paio di anni fa il cardinal Bertone, Primo Ministro vaticano, partecipando al Meeting di Rimini, attaccò con decisione Amnesty International che aveva inserito tra i diritti umani l'interruzione di gravidanza per le donne violentate. Poche settimane fa ha suscitato scandalo nel mondo la scomunica inflitta dall'arcivescovo brasiliano José Cardoso Sobrinho al medico che aveva fatto abortire una bambina di 9 anni (del peso di 33 chili!) violentata e messa incinta dal patrigno. La legge brasiliana consente l'aborto in caso di stupro o di problemi per la salute della madre. La sventurata bambina rientrava in ambedue le categorie essendo incinta di due gemelli, dunque a rischio della vita. L'implacabile arcivescovo di fronte alle proteste ha dichiarato: «La legge di Dio è superiore a qualunque legge umana. Quindi se la legge umana è contraria alla legge di Dio non ha valore». Chiedere a una donna di portare a termine la gravidanza in nome del diritto alla vita dell'embrione significa obbligarla a farsi strumento della violenza per nove lunghi mesi. Diventare poi madre di un bambino che è figlio anche di un "nemico". Oppure scegliere di affidarlo ad altri. Drammi che sembrano non interessare l'ideologia. Così come si trascura che la pillola del giorno dopo non è un abortivo ma un semplice anticoncezionale come il preservativo o la pillola. Dunque di che mai parlava il professore?

l’Unità 6.5.09
Che guaio se Dell’Utri vuol riscrivere la storia
Leggi razziali, avversari politici perseguitati e fatti uccidere...


Certo però Mussolini non fece l’errore di promuovere federale o ministro una delle tante amanti di passaggio

Con tutte le grane che ha, pubbliche e private, ci mancava anche il sodale più caro e, dicono, più colto, Marcello Dell’Utri, a procurare altri guai al Cavaliere. Giusto alla vigilia della visita in Campidoglio dove più d’uno ammiccherà al titolo di «imperatore» nel momento in cui, impettito, Silvio I° si affaccerà su Via dei Fori Imperiali. Berlusconi ha appena riconosciuto nell’antifascismo e nella Resistenza il «valore fondante» della Repubblica e Dell’Utri ti va a ripescare la storia del Mussolini «troppo buono», del fascismo diventato «orrendo» solo per colpa di altri (?), dell’alleanza con Hitler provocata dalla «inique sanzioni», delle leggi razziali che Lui voleva «blande».
Dell’Utri dovrebbe forse sapere che Mussolini si attribuì la responsabilità del delitto Matteotti, don Minzoni, Gobetti e Amendola morirono di bastonate, i fratelli Rosselli furono assassinati, Gramsci venne spento in carcere, circa 5 mila antifascisti subirono nel complesso 28 mila anni di carcere, altre centinaia patirono l’esilio, migliaia di italiani ebrei perirono nei lager. Grazie a quella «brava persona che ha fatto degli errori» (sic). Un errore, è vero, non lo fece: non promosse ministro né federale una delle amanti di passaggio.
L’intervista contiene altre amenità destinate a rendere editorialmente appetibili quei Diari mussoliniani trovati in Svizzera che nessuno storico serio degna di attenzione. Ancora due perle. La prima: le «veline» sono «più apprezzabili di alcune tele giornaliste Rai». Perfettamente in linea col Capo. La seconda: la Rai? Lui la occuperebbe, come adombra Gasparri ritenendola “in mano alla sinistra”. Qui qualcosa non quadra. Guardi Dell’Utri, che la Rai lei l’ha già occupata. Proprio con una legge Gasparri.

Repubblica 6.5.09
La scoperta degli scienziati cinesi funziona come i contraccettivi femminili
Arriva il "pillolo", sarà una puntura
di Federico Rampini


LONDRA. Sta per arrivare la pillola maschile. Solo che non è una pillola. È un´iniezione nel sedere. Funziona nel 99 per cento dei casi, la stessa percentuale della pillola anticoncezionale per le donne, e dunque promette un futuro in cui la responsabilità di procreare o meno sarà suddivisa equamente tra i due sessi.Il pillolo è una puntura contraccettivo per lui ecco l´ultimo test

Senza più scaricare l´onere di non restare incinta soltanto su quello femminile. Non saranno più solo le donne a doversi ricordare di prendere la fatidica pillolina, ma già tra di loro sorgono i primi dubbi: si ricorderanno, gli uomini, di fare l´iniezione alla data prevista? Dimenticare, per una donna, comporta il rischio di una gravidanza non desiderata. Ma se dimentica l´uomo, a lui, personalmente, non succede niente.
Pubblicata da un´influente rivista scientifica britannica, il Journal of Clinical Endocrinology and Metabolism, la notizia proviene dalla Cina, paese che ha fortemente investito nella ricerca dei metodi anticoncezionali per fare fronte al suo pressante problema demografico. Scienziati del Centro ricerche per la Pianificazione familiare di Pechino hanno iniettato per due anni dosi di testosterone in mille volontari uomini: per tutto quel periodo soltanto l´1 per cento ha avuto figli. Gli uomini erano tra i 20 e i 45 anni d´età e nei due anni precedenti avevano avuto almeno un figlio. Erano sposati con donne tra i 18 e i 38 anni che non avevano mai avuto problemi di riproduzione. L´esperimento è il più ampio mai condotto su un anticoncezionale maschile basato sul testosterone. La quota del 99 per cento di efficacia equivale a un pieno successo, considerato che nessun anticoncezionale funziona al 100 per cento: tra l´1 e il 2 per cento delle donne che prendono la pillola restano incinte.
Commenta il dottor Yi-Qun Gu, uno dei ricercatori impegnati nel progetto: «Per le coppie che non possono o preferiscono non usare i contraccettivi femminili, l´alternativa finora era limitata alla vasectomia, ai profilattici o al coitus interruptus. Il nostro studio dimostra che un contraccettivo ormonale maschile può essere una soluzione valida». La pillola anticoncezionale, introdotta negli anni Sessanta, rivoluzionò i rapporti sessuali ma assegnò esclusivamente alle donne il peso della responsabilità di riprodursi: erano loro a doverla prendere e a non dimenticare il rito quotidiano. Da anni la scienza cerca un "pillolo", una pillola per l´uomo, ma i tentativi fatti fino ad ora avevano incontrato problemi di affidabilità e di effetti collaterali negativi, come sbalzi di umore e una diminuzione della libido sessuale. Nell´esperimento in Cina, gli uomini hanno ricevuto dosi di 500 milligrammi di testosterone, riducendo la produzione di due agenti chimici del cervello che a loro volta fermano la produzione di sperma. Non ci sono stati effetti collaterali negativi, tranne un attacco di forte acne in alcuni volontari, e il procedimento è reversibile: sei mesi dopo l´ultima iniezione, lo sperma è tornato ai livelli per la riproduzione. Ulteriori test saranno necessari per valutare le conseguenze a lungo termine: se andrà tutto bene, il "pillolo" potrebbe essere introdotto sul mercato entro cinque anni. «Era ora», commenta la Family Planning Association, un´associazione britannica che si occupa del controllo delle nascite.

Repubblica 6.5.09
Ai francesi la palma dei sogni d’oro
di Maria Novella de Luca


Per loro ben 530 minuti di sonno al giorno, contro i 498 degli italiani e i 469 degli sveglissimi coreani. Lo dice l´Ocse. Che racconta 30 paesi del mondo attraverso l´uso che ogni popolo fa del proprio tempo
Messicani incollati alla tv, a olandesi e americani il titolo di "divoratori di cibo"

Sono numeri, eppure dicono molto, anzi moltissimo. Perché raccontano non solo i giorni ma anche le notti, non soltanto quanto lavoriamo, ma anche quanto dormiamo, in quanto tempo mangiamo, laviamo i piatti, o che cosa guardiamo in tv. La classifica è seria, l´ha compilata l´Ocse, che con puntigliosa precisione ha calcolato in ore e minuti, le abitudini quotidiane dei cittadini di 30 paesi, dall´Europa agli Usa, dall´Australia al Messico.
Una vera miniera di dati che rivelano ad esempio che i francesi sono la nazione più "dormigliona" del mondo, con 530 minuti di sonno al giorno, contro i 518 degli americani, i 498 degli italiani, e i 469 minuti dei coreani, che vantano il record non invidiabile di "paese più insonne del mondo". Il gusto per il sonno non è però l´unico vanto dei francesi, che affermano anche di impiegare oltre due ore al dì per consumare comodamente colazione, pranzo e cena, seguiti a stretto giro dai neozelandesi inferiori soltanto di 5 minuti, mentre gli italiani, nonostante la fama planetaria della nostra cucina, si concedono soltanto 114 minuti per i pasti. Ma la palma del fast-food, anzi del cibo "divorato", spetta ad americani e canadesi, che per circa 4 pasti al giorno impiegano poco più di un´ora, incuranti forse delle conseguenze su stomaco e pancreas. E chi sono i maggiori consumatori di Tv del globo? L´Ocse ha calcolato che i messicani spendono il 48% del loro tempo libero facendo zapping, contro i tedeschi che al piccolo schermo dedicano soltanto il 28% delle loro ore private. Ed è proprio sulle ore di svago e di riposo che si registrano le maggiori disparità. Mentre in Norvegia uomini e donne possono contare sulla stessa identica quantità, in Italia, sottolinea l´Ocse «i maschi riescono ad avere ben 80 minuti in più di tempo libero al giorno rispetto alle donne». Nel senso che sottratte le ore di sonno, dei pasti e della professione, le donne italiane utilizzano ciò che resta della giornata per i compiti domestici. Un record non proprio gratificante in tema di parità, mentre sul fronte del lavoro in Italia le ore annuali sono 1536, contro le oltre 1800 della Polonia e degli Usa e le 1459 della Francia. I Paesi dove si lavora di meno sono la Svezia e la Norvegia che con 1290 ore l´anno ha il tasso di "tempo occupato" più basso del mondo.
Addentrandosi ancor più nel dettaglio l´Ocse ha quindi conteggiato i minuti che in ogni paese si dedicano alla cura di se stessi. I più avari in materia risultano belgi, finlandesi e inglesi, che non sfiorano nemmeno l´ora di orologio, mentre gli italiani si concedono ben 61 minuti di bagni e docce, ma il record a sorpresa spetta ai coreani, che dormono poco ma utilizzano poi 71 minuti della loro giornata per il benessere. Infine lo sport. Qui in vetta ci sono gli spagnoli che non solo divorano il calcio in tv, ma utilizzano il 12% del loro tempo libero facendo jogging o tennis, a differenza di americani e turchi che spendono in palestra una dose infinitesimale della loro giornata.

Repubblica 6.5.09
L'intervento del filosofo domani ai "Classici" di Bologna
La logica del Denaro e l’esistenza di Dio
di Massimo Cacciari


L´impossibilità di stabilire il confine tra i consumi superflui e quelli necessari

Con questo testo di si inaugura domani a Bologna nell´Aula Magna di Santa Lucia l´ottava edizione della manifestazione "I Classici", dedicata quest´anno al tema del denaro col titolo "Regina pecunia"

Regina pecunia... ma di quale "pecunia" parliamo? Di quella nel cui stesso nome risuona la relazione alla sostanzialità della cosa, al possesso del "pecus", del capo di bestiame, dell´animale domestico, che il "pastore" custodisce gelosamente? Questa "pecunia" è stata detronizzata da tempo. Tutte le proprietà della cosa in quanto valore di scambio si presentano nel denaro scisse dalla loro forma naturale. Il denaro rende ora omogeneo in quanto merce tutto ciò che per natura è differente. "La comune bagascia del genere umano" rende–uno il cuore di Antonio e i cani, gli asini, gli schiavi e i palazzi dei suoi zelanti amici. Shakespeare docet, Marx discit.
Ma il denaro si distingue radicalmente dall´antica pecunia non solo perché de-sostanzializza il mondo, ma anche perché esclude ogni avarizia. Se lo tieni fermo "evapora". L´avaro vorrebbe che il suo denaro non si "solidificasse" mai, lo vorrebbe "liquido" sempre, e che proprio in tale forma potesse moltiplicarsi. Ma ciò è impossibile. Il denaro, per riprodursi, ha bisogno di "sparire" di nuovo nel valore d´uso, trasformandosi in merce. Il denaro deve "morire" per "rinascere". La "mistica" di questo denaro è stata spiegata da Marx una volta per sempre.
Ma ciò che forse non è stato bene appreso dalla lezione marxiana è l´immanente e insuperabile contraddizione di tale dialettica. Se il denaro deve "gettare" sempre nuove merci fuori di sé "come combustibile nel fuoco" (Marx), e dunque creare e ri-creare bisogni, nulla assicura che tali merci possano di nuovo traformarsi in valori. Il soggetto che consumando la merce fa "rinascere" il denaro non è lo stesso che lo "arrischia" nella produzione. Da qui la tendenza o la "tentazione" insuperabile a non "solidificarlo", a tentare di moltiplicarlo senza farlo uscire dalla sua "astrazione". Ma non esiste alcuna "miniera" dove il denaro possa custodirsi senza annullarsi. Così come non vi è alcun "mercato" che garantisca il suo ritorno "a casa", più forte e più pronto a nuove avventure.
Il denaro è segno di crisi. Anche per l´individuo. Gli enti-merce di cui è l´universale equivalente sono tutti perituri. Lui solo appare come l´indistruttibile. E dunque il desiderio per lui non può placarsi nel possesso. Il denaro produce un illimitato desiderio, che nessuno dei prodotti in cui si incarna potrà mai soddisfare. Il pastore poteva "restar-contento" del suo pecus. Mai lo potrà chi possiede denaro ed è costretto a "gettarlo" nella circolazione, a "perderlo " per cercare di ritrovarlo, né lo potrà chi, grazie alla infinita potenza del denaro, non acquista che la "miseria" di queste effimere merci.
Tuttavia è necessario parlare dell´essenza metafisica del denaro senza alcun moralismo e lontani da ogni reazionario disprezzo. È vero che il processo di circolazione che il denaro genera produce la perenne insoddisfazione del consumo, ma è vero anche che in ciò si rappresenta la mia autonomia, la "libertà" della persona rispetto a ogni misura o legge universali di felicità o benessere. Soltanto io posso sapere quanto esso mi sia costato e soltanto io posso sapere quale grado di benessere mi dia l´acquisto e il consumo che esso consente. Non esistono misure obiettive di felicità, né esiste la possibilità di determinare in assoluto dove corra il discrimine tra bisogni necessari e superflui.
Certo, nulla di essenziale può esprimersi nel desiderio individuale, e perciò nulla di essenziale può essere perseguito attraverso la potenza universale del denaro. Ma lungi dal portare alla conclusione vetero-moralista: "il denaro non conta", "non può renderci felici", etc., ciò non rappresenta che quella "legge individuale", che Georg Simmel ha illustrato nel suo magnum opus La filosofia del denaro, pubblicato nel 1900, pietra miliare del contemporaneo: nulla può imporci la "misura" del nostro essere felici. Il denaro è universale proprio nel suo esprimere l´impossibilità di una tale "misura" e l´inessenzialità del nostro desiderio, "liberandoci" così dalla "superbia" di ergerlo in qualche modo a norma o modello. Sullo specchio del denaro si rivela soltanto l´infinità del desiderio. E questo soltanto ci è comune. Ma come il denaro, per divenire, deve "morire" nella individualità determinata della merce, così l´infinità del desiderio per vivere deve incarnarsi nella inessenzialità del mio essere felice o in-felice.
Questa paradossale onnipotenza del denaro mai risolvibile in atto, sempre incompiuta, può essere intesa come "mondanizzazione" del dio giudaico-cristiano? Ancora Simmel lo riteneva certo. Dovremmo oggi essere diventati tutti più cauti nell´applicare ovunque come passe-partout l´idea di secolarizzazione. L´onnipotenza infinita dell´immagine del denaro è quella di un poter tutto comprare. Ma questo è appunto actu irrealizzabile. E tutto ciò che è comprabile è inessenziale. L´onnipotenza divina, invece, si "svuota" di sé per poter tutto qui-e-ora amare. Anche l´amare non è mai alla meta, mai "contento", ma non perché trapassi da consumo a consumo; all´opposto: perché il suo "amato" è oltre ogni logica del possesso e del consumo. Il suo scambio è puro dono, mentre il denaro "funziona" soltanto in quella relazione dove nulla di "gratuito" intervenga. "Ciò è qualcosa di gratuito", così parla il denaro – e intende: "ciò è qualcosa di insensato, di illogico, di inutile". Tuttavia la sua potenza deve alla fine riconoscere quella "legge individuale" che afferma l´inessenzialità del desiderio e del consumo che essa consente. E così, paradossalmente, per negativo, il denaro stesso fa cenno a quell´"inutile" della gratuità del dono dove si custodisce l´inconsumabile e indistruttibile, che continuiamo malgrado tutto ad avvertire in noi, "al cuore" stesso della nostra perenne ricerca e del suo continuo fallire.

Corriere della Sera 6.5.09
Il Prc e il voto di Cipputi
E la sinistra «scaricò» gli operai
di Gian Antonio Stella


Il voltafaccia di «Liberazione» Reportage-invettiva deI quotidiano di Rifondazione: state con chi vi licenzia e vi manda a morire
«Amate i padroni»: e il Prc scaricò gli operai

Uffa, gli operai! A leggere Liberazione di ieri, pare proprio che a Rifondazione comunista non ne possano più di questi Cipputi che si sono messi a votare a destra. Non li riconoscono.
E restano inorriditi come gli abitanti di Santa Mira nel vecchio film di fantascienza L’invasione degli ultracorpi, quando assistono con ribrezzo allo schiudersi di enormi baccelli dai quali escono esseri identici ad amici, parenti e compaesani. Ma mostruosamente irriconoscibili dentro.
Così è stato vissuto, l’ultimo son­daggio del Sole 24 Ore, con quel 43,4% di operai decisi a votare Pdl, percentuale che con la Lega Nord sali­rebbe a uno stratosferico 58,2%: co­me una specie di invasione di ul­tra- operai. Tanto da spingere il quoti­diano comunista a pubblicare un re­portage da Torino di Maurizio Pa­gliassotti che, sotto il titolo Se lo stra­niero fa paura più del licenziamento, manifesta tutto lo sgomento di un naufrago alla deriva tra i flutti di un mare improvvisamente ignoto.
«La generazione di operai che arri­va intorno ai 30-35 anni è in larga parte persa. Sono rimbambiti dalla te­levisione, dei deficienti», si sfoga la Rosina, operaia Riv-Skf di Airasca, «Hanno il mito dell’uomo forte, di quello che risolve problemi. Senza te­ner conto dell’immagine da galletto tra le donne che Berlusconi continua a propagandare. C’è da mettersi le mani nei capelli».
Una voce estemporanea? Per nien­te. Basti leggere il quadro d’insieme, venato di sarcasmo: «È vero amore ormai tra gli operai italiani e gli im­prenditori che li licenziano e li man­dano a morire sul posto di lavoro. La classe operaia apprezza con crescen­te entusiasmo che i poveracci paghi­no una crisi con i licenziamenti e i manager ingrassino sempre di più. La politica del governo che esclude, anche durante questa catastrofica cri­si, ogni minima redistribuzione della ricchezza dopo che la forchetta sala­ri- rendite è di fatto sfondata, è gradi­ta ». Gli operai italiani, prosegue l’ar­ticolo, «amano il brivido, quindi, pol­lice alzato anche per la 'norma salva manager', bollata dal presidente del­la Repubblica come 'da riscrivere', che di fatto allenta le responsabilità di chi per puro profitto condanna a morte i lavoratori. Molto bene anche l’inesistente lotta all’evasione fiscale verso chi non paga le tasse perché non ha ritenute alla fonte. L’impren­ditore che licenzia al primo calo del fatturato, non paga le tasse e manda al rogo i suoi dipendenti sta dalla stessa parte del suo operaio, ovvero con Silvio Berlusconi».
Un’invettiva. Lo sfogo di un inna­morato ferito dal più inaspettato dei tradimenti. Eppure, senza farla trop­po grossa recuperando George Orwell e le sue parole sulla difficoltà di tanti intellettuali ad accettare la «puzza del proletariato» tra gli odori della tripperia ne La strada di Wigan Pier, è sufficiente rileggere quanto diceva otto anni fa lo straor­dinario fondatore del manifesto Lui­gi Pintor: «Qualsiasi sommossa di schiavi, da Spartaco in poi, ha il pote­re di sedurmi malgrado il costo e la vanità dell’impresa. Rivoluzionario nella vita pubblica, sono tuttavia ri­masto profondamente borghese nel privato, senza trovare un’armonia tra comportamenti intimi e ideali pubblici. Io non c’entro niente con il mondo di cui ho parlato per una vi­ta. Un po’ come molti intellettuali di sinistra».
«In che senso?», gli chiese Simo­netta Fiori. E lui: «Non sanno niente della realtà di cui si occupano. I vec­chi comunisti cercavano di porre ri­medio alla scissione, invitando noi giovani borghesi a mescolarci nelle mense con gli operai. Era un rimedio ingenuo, illusorio. La sinistra è rima­sta quanto di più lontano dalle pul­sioni degli uomini. La destra vincerà le elezioni proprio perché intercetta i bisogni reali degli individui». O al­meno non irride a certe paure.
Era già chiara allora, la tendenza. Anzi, già nel ’97 (dodici anni fa!) Gianfranco Pasquino aveva messo in guardia contro il modo con cui certi ministri ulivisti stavano al potere: «Questi qui si sentono assai migliori del Paese che governano, dell’opinio­ne pubblica, delle cosiddette parti so­ciali e, se mi posso permettere, degli intellettuali e dei professori». E al­l’inizio di questo decennio Ilvo Dia­manti spiegava già che nel Veneto e nel Friuli (bollati da certa gauche co­me modelli repellenti perché il torni­tore puntava a metter su una sua fab­brichetta accettando l’«auto-sfrutta­mento ») il centro-destra mieteva tra gli operai il 66%.
Macché: tutto inutile. Come inuti­le fu la lezione delle «presidenziali» francesi col ballottaggio tra Chirac e Le Pen e il crollo socialista salutato da Liberazione con funesta esultan­za: «Arlette Laguillere, candidata di Lutte Ouvrière, con quasi il 6%, arri­va a picchi del dieci-quindici per cen­to tra il voto operaio!».
E inutili gli avvisi ai naviganti del­la «sinistra antipatica» da parte del mal sopportato Luca Ricolfi. E inuti­le la batosta dell’anno scorso, con la Lega che (a dispetto di quel Bertinot­ti che aveva dedicato la presidenza della Camera «alle operaie e agli ope­rai ») umiliava la Sinistra Arcobaleno in storiche roccaforti operaie come Valdagno (30% contro 2,1), Arzigna­no (37 contro 1,5), Chiampo (41 con­tro 0,9) o San Pietro Mussolino: 49,8 contro 0,6%. Tutto inutile.
Fosse ancora vivo Lucio Colletti, uno cresciuto tutto dentro la gauche, avrebbe gioco facile a ripetere la sua rasoiata: «Questi intellettuali sono così boriosi da disprezzare il popolo quando non gli permette di consegui­re la vittoria elettorale». Non sarebbe ora, per la sinistra tutta, e non solo quella rifondarola, di uscire dai vec­chi schemi per tornare a parlarci, con gli operai?

martedì 5 maggio 2009

Repubblica 5.5.09
Il Cavaliere teme il processo mediatico "Troppo lungo un divorzio per colpa"
Marina e Piersilvio ad Arcore. Gli altri tre figli schierati con la madre
Le mosse della First Lady farebbero pensare ad una separazione "con addebito"
Il premier studia la controffensiva e continua a ripetere di non avere nulla da nascondere
di Claudio Tito


ROMA - «Separazione con addebito». Adesso sono diventate queste le parole che fanno più paura a Silvio Berlusconi. La possibilità, cioè, che Veronica Lario chieda non la procedura consensuale per arrivare al divorzio, ma quella per «colpa». Un iter che renderebbe tutto più drammatico. Soprattutto trasformerebbe l´addio tra "Veronica e Silvio" in un grande processo pubblico.
Il Cavaliere ha passato tutta la giornata di ieri ad Arcore. Ha chiamato tutti i collaboratori più fidati, ha consultato l´avvocato Niccolò Ghedini e la sorella Ippolita, ha convocato l´amico di sempre Bruno Ermolli e ha chiesto ai figli maggiori, Marina e Piersilvio, di mettere sul tavolo la loro posizione e i loro suggerimenti. Ha insomma discusso come affrontare le tappe del secondo divorzio. Ha soppesato i rischi connessi agli assetti proprietari dell´impero aziendale ma anche quelli relativi alla prossima campagna elettorale. Lo staff berlusconiano dunque prepara la controffensiva. Gli annunci dell´ormai "ex consorte" hanno messo in allarme lo stato maggiore di Villa San Martino. Al punto che tra le varie opzioni, è stata valutata pure la reazione da organizzare nel caso in cui la Lario si rivolga al giudice per ottenere la «separazione per colpa». Una eventualità che innervosisce il capo del governo. Dopo l´approvazione del cosiddetto "Lodo Alfano", infatti, il capo del governo era convinto di non dover più frequentare le aule dei tribunali. In particolare quelle di Milano. Ma se la "signora" davvero imboccherà la strada dello "scontro", sarà inevitabile rimettere piede a corso di Porta Vittoria.
Secondo i legali del premier, infatti, le mosse della First lady fanno pensare ad una soluzione di questo tipo. A cominciare da quel richiamo alla «minorenne» Noemi. «Se sarà così - è il timore del premier - la vicenda potrebbe durare troppo». Una telenovela su cui saranno puntati gli obiettivi di tv e giornali. Sebbene l´avvocato della Lario, Maria Cristiana Morelli, abbia ieri spiegato che questa è una «materia che non va gestita sui giornali».
Gli uomini del presidente del consiglio, poi, hanno centrato la loro attenzione anche su altri rischi che potrebbero fare chiudere il divorzio in modo poco proficuo. Compresa la parte economica e aziendale. Non solo. C´è anche chi ha fatto notare che Tangentopoli è scoppiata nel 1992 proprio a causa di una lite coniugale. Il braccio di ferro sugli alimenti tra Mario Chiesa e l´allora consorte Laura Sala incuriosì il pool milanese di Mani Pulite. Un´osservazione, però, contestata da Berlusconi: «Io non ho nulla da nascondere».
Sta di fatto che l´idea di un addio lungo e travagliato non lascia tranquillo l´inquilino di Palazzo Chigi. Moglie e marito non si sono ancora chiariti a quattr´occhi. Per non parlare della scelta dei tre figli di "secondo letto" schieratisi al fianco della madre. Non è un caso che ieri pomeriggio ad Arcore ci fossero solo Marina e Piersilvio. Del resto, sul tavolo restano i nodi relativi ai ruoli che assumeranno Barbara, Eleonora e Luigi nei futuri assetti societari. Nessuno dei tre riveste cariche di primo piano in Mediaset e in Mondadori, ossia nel cuore del colosso imprenditoriale berlusconiano.
Per gli stessi motivi fino a domenica scorsa il "marito" non aveva escluso una riconciliazione in extremis con la moglie. Un´opzione che ieri ha perso terreno, sebbene ad Arcore non venga ancora considerata definitivamente tramontata.
A Palazzo Chigi nessuno sottovaluta le ripercussioni della vicenda sulla situazione politica. Soprattutto sulla prossima campagna elettorale e sui risultati delle europee. Prima dell´"affaire Veronica", il premier era deciso a giocare la consultazione di Strasburgo solo sulla sua persona. Un vero e proprio plebiscito, non tanto sul governo ma su "Silvio Berlusconi". «Voglio battere tutti i record di preferenze», aveva spiegato ai suoi fedelissimi. Voleva superare per numero di voti tutti i "campioni" della Prima Repubblica (l´esempio più citato è quello anni ´80 di Giulio Andreotti nella circoscrizione Centro) e soprattutto voleva battere tutti i candidati europei. Per presentarsi così come l´uomo più "cliccato" del continente. Con questo obiettivo ha deciso di "correre" su tutto il territorio nazionale. Il "caso Lario", però, potrebbe costringerlo a cambiare i programmi.

Repubblica 5.5.09
Maria Cristina Morelli, 48 anni, ha assistito anche Beppino Englaro
"Il ciarpame resterà fuori dalla causa" l´avvocato della Lario prepara la guerra
di Cinzia Sasso


Nell´ambiente forense è conosciuta come una che non molla mai. Ha incontrato la moglie del Cavaliere domenica scorsa a Macherio

MILANO - La guerriera è una donna molto alta, il fisico asciutto, un fascino androgino e un paio di occhi blu che almeno nel colore somigliano a quelli della famosa cliente. Maria Cristina Morelli, il Davide che sfiderà Golia, l´avvocato che Veronica Lario ha scelto per dire addio al marito Silvio Berlusconi, arriva a piedi con le sue solite scarpette basse e mostra subito di che pasta è fatta: sa che la battaglia non sarà solo davanti al giudice civile, che l´immagine e la comunicazione conteranno molto, certo che ha letto i primi segnali - le foto a seno scoperto di Veronica attrice pubblicate su Libero e in possesso solo della casa - ma da subito vuole mettere i paletti. «Io sono un avvocato e mi occupo dell´aspetto legale» dice. Il «ciarpame» resterà fuori da qui.
"Qui" è uno studio in un palazzo anonimo di via Fontana, a due passi dal palazzo di giustizia. La via dei grandi studi, degli avvocatoni di fama, di quelli, insomma, che ieri si chiedono stupiti: ma davvero Veronica ha scelto la Morelli? Nessuno disposto a dire che è simpatica: una dura, raccontano; una che non molla mai; una che dà anima e corpo alla professione e che lavora venti ore al giorno; una che «va sempre alla guerra». A giugno compirà 48 anni, viene da Soresina, nel Cremonese, da una famiglia benestante di quelle col villone, la madre aveva una partecipazione in una concessionaria della Fiat, due fratelli maschi, lei l´unica ad aver studiato legge. Niente marito e nemmeno figli. Laurea a Parma, poi l´inizio della professione a Milano, assistente del suo relatore, il professore di diritto processuale Bruno Cavallone; il passaggio, per un paio d´anni, in uno degli studi più importanti per il diritto di famiglia, quello di Laura Hoesch, e infine il grande salto: titolare. Ed eccola, nei primi tempi dei ricorsi alla corte d´appello di Milano, accanto a Beppino Englaro. Interviene, ma ai convegni giuridici, sui temi di bioetica: dal caso di Eluana a quello della donna che morì per aver rifiutato l´amputazione di una gamba. Nessuna concessione all´immagine, niente salotti, nessun timore reverenziale per alcuno, una vena di sarcasmo contro gli uomini.
Il primo maggio era a Ginostra, là dove va sempre quando può, ed è rientrata subito per via della telefonata di Veronica. Si sono viste domenica a Macherio, ma non sono servite tante parole. Avevano già parlato a lungo, di questa storia. Cristina c´era già due anni fa, ai tempi della lettera a Repubblica della «signora». Veronica sa a cosa andrà incontro e sa anche che Cristina non ha paura.

Repubblica 5.5.09
Privato e pubblico di un divorzio
Risponde Corrado Augias


Caro Augias, molti dicono che il divorzio è questione privata. Dissento. Più volte la nostra vita è stata influenzata da leggi o commenti fatti su questioni altrettanto private. Procreazione assistita, coppie di fatto, divorzio breve, il signor Englaro trattato come un assassino. Tutti costoro hanno il diritto di sapere chi ha interferito con la loro vita in nome di principi religiosi, e se a questi stessi principi si attiene.
Antonio Scirocco a.scirocco@katamail.com

I L divorzio tra Berlusconi e Veronica è affar loro. Ma vedendo l'edizione di Libero del 30 aprile e i commenti di certi giornalisti di destra si ha la netta impressione che il «signore abbia slegato i cani».
Claudio Tarozzi claudio.tarozzi@gmail.com

Fino a ieri Veronica Lario era la moglie del Presidente, la Fist lady. Discreta, riservata, lontana dalla scena pubblica. Rispettata. Poi Libero pubblica sue vecchie foto a seno nudo. Una ritorsione, una vendetta. I media del capo faranno scempio della signora Lario. Veronica dovrà essere forte.
Ezio Pelino pelinoezio@tiscali.it

Una questione privata, è vero. Devo dire però che le osservazioni del signor Scirocco mi hanno colpito. Molte questioni altrettanto private, molte vite, molte decisioni sono state deviate o impedite da provvedimenti presi in nome di valutazioni altrettanto private, tirando in ballo la morale cattolica. Giusto dunque che anche il secondo divorzio di questo "difensore della famiglia" venga pubblicamente valutato. Ma tralasciamo pure questo aspetto. In questa "faccenda privata" ci sono almeno due aspetti clamorosamente pubblici. Il primo è la famosa questione delle veline messe in lista e poi frettolosamente espunte, di notte. Berlusconi aveva rimproverato sua moglie dicendo che s'era fatta turlupinare dai giornali di sinistra. Era una delle sue menzogne, ma chissà quante persone male informate dai suoi media ci hanno creduto e continuano a crederci. La seconda questione è in una piccola frase detta dalla signora Lario quando lo ha definito: «Un uomo che non sta bene». Perché lo avrà detto? Erano parole dettate dal risentimento o basate su conoscenze precise? Anche questo è un aspetto pubblico perché se l'uomo non sta bene la cosa interessa, molto, tutti noi.

Repubblica 5.5.09
Venticinque per cento
di Sebastiano Messina


Quanto influirà, si chiedono tutti, il divorzio da Veronica sul consenso di Berlusconi? Ce lo diranno i prossimi sondaggi. Gli ultimi dati, assicurava il presidente del Consiglio fino all´altro ieri, rivelano che il 75% degli italiani lo ama. Un record mondiale, secondo l´interessato. E i numeri, si sa, hanno una forza invincibile. Anche in politica. Anzi, soprattutto in politica, dove il potere si può conquistare o perdere per un solo voto. Ma adesso quelle stime e quelle percentuali dovranno essere riviste. Perché l´unico evento che la matematica non può calcolare - il destino cinico e baro - ha voluto che proprio adesso la sua seconda moglie abbia deciso di chiedere il divorzio. Tradotto in percentuali, significa che lui ha il consenso del 75% degli italiani, ma ahimè il 50% delle sue consorti fa parte dell´altro 25%. Statisticamente, è una bella sfiga.

Corriere della Sera 5.5.09
Dietro le quinte «Sto difendendo la mia dignità di donna e quella dei miei figli»
E Veronica: mi sento come un soldatino assediato dagli eserciti


MILANO — «E adesso come mi sen­to? Come un povero soldatino oramai assediato dagli eserciti nemici». Ufficia­lizzata la richiesta di divorzio, condita da una serie di critiche rivolte al mari­to, in questi giorni finalmente primave­rili Veronica Lario se ne sta rintanata nella sua villa di Macherio a guardare la tempesta mediatica e politica che han­no scatenato le sue parole. Certo, l’ha fatta soffrire il fatto che tra le fila di que­gli eserciti abbia scorto anche volti un tempo amici. Attacchi che le hanno da­to il senso della battaglia che si sta pre­parando: senza limiti e senza regole.
Ma se la ride, all’ipotesi lanciata da Berlusconi che dietro il suo gesto si na­sconda «un sobillatore». Idea che fa sor­ridere anche le sue amiche più care: «Veronica sobillata? Chi la conosce be­ne sa che sarebbe impossibile. Ha una testa durissima, a volte ai limiti della cocciutaggine». E per ora lei sceglie, co­me è naturale, di non commentare uffi­cialmente. Né le dichiarazioni del mari­to né quelle di altri.
Un aspetto, però, Veronica Lario ci tie­ne a chiarirlo per bene: «In questa sto­ria vorrei che tutti capissero, se non l’hanno ancora fatto, che sto soltanto di­fendendo la mia dignità di donna. Che è stata profondamente offesa. E, con me, sto difendendo anche quella dei miei figli».
Già, i figli. Luigi, Eleonora e Barbara di commentare non hanno alcuna inten­zione. Lo hanno detto più e più volte. Il piccolo di casa in queste ore è a Lour­des con i cavalieri dell’Ordine di Malta. La secondogenita è a New York, dove studia all’università. La maggiore, Bar­bara, invece è rimasta a Macherio, an­che perché è al settimo mese di gravi­danza. Tutti e tre, però, in questi giorni ostentano grande serenità. Certo, la de­cisione della madre per loro non è stata una bella notizia. Al padre, come vanno ripetendo a tutti da giorni, loro voglio­no un gran bene. E se anche gli rimpro­verano atteggiamenti e comportamenti spesso sopra le righe, non per questo vogliono rinunciare al suo affetto. «I miei figli mi amano tantissimo», ha ri­badito quasi difendendosi Silvio Berlu­sconi in questi giorni. Per poi aggiunge­re: «Veronica me li vuole mettere con­tro ». La replica della moglie non si è fat­ta attendere: «Non è così. Se gli voglio­no bene ne sono contenta, ho contribui­to io a costruire il loro rapporto e l’ulti­ma cosa che vorrei fare è danneggiare mio marito».
Ma per ora, almeno ufficialmente, i tre ragazzi Berlusconi non hanno inten­zione di schierarsi con nessuno dei due genitori. Lasciano alla sfera privata eventuali sentimenti di disapprovazio­ne o di rabbia. In queste ore è sempre e solo Veronica ad esporsi. Alle amiche ha spiegato, ancora una volta, i motivi che si nascondono dietro la sua scelta, primo fra tutti la storia di Noemi, la di­ciottenne di Napoli: «È la prova che lui non è cambiato. Me l’aveva promesso ma non è stato così. Anzi, è peggiorato. Sono dieci anni che sopporto tutto que­sto. Ora la misura è colma. Non provas­se a convincermi di ripensarci. Non tor­no più indietro».

Corriere della Sera 5.5.09
Un caso destinato a rinfocolare l’antiberlusconismo
Pd e Idv puntano il dito contro il pubblico e privato del premier
di Massimo Franco


Definirla una questione privata, ormai, è impos­sibile. Il problema è per quanto tempo rimarrà un caso politico; e se in prospettiva possa assu­mere altri risvolti. Sebbene deprimente, la lite coniugale fra il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, e la seconda mo­glie, Veronica Lario, rappresenta la nuova frontiera dello scon­tro fra governo e opposizione. E vede, forse per la prima volta, un premier preoccupato dai contraccolpi della vicenda. Il sotto­segretario a Palazzo Chigi, Gianni Letta, cita Niccolò Machiavel­li per sostenere che in politica bisognerebbe evitare «disprezzo e odio». Ma i veleni lievitano.
Il dopoterremoto in Abruzzo, sul quale Berlusconi ha scommes­so parte della propria credibilità, viene oscurato dalle cronache del suo matrimonio pubblicamente in pezzi. Le parole imbarazzanti della moglie sulla frequentazione di ragazze minorenni sono diven­tate materia di interrogazioni par­lamentari. Nel Pd si parla di «per­versioni morali» che sarebbero ri­flesse dalla cultura berlusconiana. Cade nel vuoto l’appello di esponenti come Umberto Ranieri, a non colpire «nella sfera pri­vata »: anche perché il Cavaliere insiste sul «complotto mediati­co » orchestrato dalla sinistra. E dopo l’autodifesa iniziale sem­bra oscillare fra strategia del silenzio e controffensiva dura. Gli avversari hanno capito che la storia potrebbe durare a lungo; e che offre una forte tentazione di rivincita sugli ultimi successi berlusconiani. La sensazione è che il centrosinistra si renda con­to di avere trovato un punto debole del premier.
E adesso addita e mescola pubblico e privato di Berlusconi, usando la sponda offerta dalla moglie. Si tratta di un filone scivo­loso: anche se lui continua a ripetere che la sua popolarità non è intaccata dalle disavventure familiari. Ma rimane l’incognita, adombrata da Idv e Pd, dei contraccolpi extrapolitici delle allu­sioni della consorte alle frequentazioni con minorenni: un argo­mento imbarazzante, che può oscurare l’attività di governo.
Alla tesi del «complotto della sinistra», accreditata dal pre­mier, il segretario del Pd, Dario Franceschini, replica definendo­la assurda. Come minimo, appare riduttiva. Ma anche sentir di­re ai legali della signora Berlusconi che la pratica di divorzio «non è materia che va gestita sui giornali» fa un po’ sorridere: soprattutto dopo che ogni mossa è sembrata mirata a dare la massima eco ad una lite di famiglia, scaricandola inopinatamen­te sul Paese.

Corriere della Sera 5.5.09
Berlusconi vuole evitare il Tribunale e arrivare a un compromesso
Lo sfogo del Cavaliere «Contro di me ondata di falso perbenismo»
La preoccupazione per il fronte cattolico


ROMA — Ancora una setti­mana fa era «il presidente di tut­ti gli italiani». Ci ha pensato sua moglie, «la signora», a pic­conare il basamento della sta­tua. Perché sarà pur vero che, per ora, Silvio Berlusconi tiene nei sondaggi, che tutti gli anali­sti giudicano la lite familiare priva di riflessi sull’elettorato. Ma il Cavaliere - dopo l’affondo di Veronica Lario - teme che «l’offensiva di perbenismo e fal­so moralismo avviata contro di me» possa alla lunga intaccare la sua immagine, il suo indice di gradimento presso l’opinio­ne pubblica, e infine i suoi con­sensi. È il fronte cattolico che lo preoccupa maggiormente, lì c’è il rischio di uno smottamento, e come non bastassero gli av­versari «c’è anche l’amico Um­berto », Umberto Bossi, che si è messo a fare la talpa per scavar­gli la terra sotto i piedi. Compe­tition is competition, vale an­che per il centrodestra.
Fossero questi tutti i suoi problemi. Il fatto è che la «Dina­sty » all’italiana impone al pre­mier di tutelarsi su molti, trop­pi fronti. Il primo è legato alla pesante allusione della moglie sulla «frequentazione di mino­renni ». I rischi potrebbero non limitarsi a un contraccolpo nel­l’ambito politico e nella contro­versia del divorzio. Perciò il Ca­valiere ha anticipato un pezzo della sua strategia mediatica: le foto della festa a Casoria per i 18 anni di Noemi Letizia, la gio­vane che chiama Berlusconi «papi», verranno pubblicate sul prossimo numero di Chi, settimanale del gruppo Monda­dori. Ma ieri il tg di Italia1, Stu­dio Aperto, le ha mostrate co­me anticipazione, «ed è la pro­va della mia moralità e buona fede».
È evidente come la strategia d’immagine del premier s’in­trecci con la linea legale, per controbattere alle accuse della Lario. Raccontano che in que­ste ore il suo umore ondeggi tra un senso di liberazione, «mi sento un uomo libero» ha det­to, e picchi di indignazione ver­so «la signora»: «Lei non mi vuole parlare? Sono io che non voglio parlarle».
Le battute sul «sobillatore» della Lario e sui «giornali di si­nistra » non sono state affatto casuali: agli amici il Cavaliere ha fatto un identikit preciso del personaggio, rivelando che «Ve­ronica ci passava le ore al telefo­no, subendone il fascino intel­lettuale e finendo per prestarsi a una macchinazione politica». Pare che voglia addirittura far­ne uno dei punti della linea di difesa. Ma c’è di più: il premier immagina che dietro le mosse della (ex) moglie si celino «av­vocati e finanzieri», e che dun­que sia l’impero dell’«imperato­re » nel mirino.
Una cosa è certa, Berlusconi non può né vuole arrivare in tri­bunale. I panni di famiglia di­verrebbero cosa pubblica e sa­rebbe un disastro che vorrebbe risparmiare anzitutto ai figli. Per questo è propenso a ricercare un compromesso. È l’unico punto sul quale i due (ex) coniugi concordano. Si preannuncia uno scontro fra eserciti legali.
È in questo clima che descrivono un Fedele Confalonieri assai preoccupato per la serenità dell’amico e anche per la tranquillità di Mediaset. Al patron del Biscione, che si è sempre speso per pacificare le cose tra «Silvio» e «Veronica», non piace l’idea dell’azienda ridotta a prateria dove si fanno scorribande. D’altronde c’è chi - toccando ferro - rammenta come finì la vicenda dell’Arnoldo Mondadori Editore, che iniziò proprio con una lite tra due rami della stessa famiglia. E ci sarà un motivo se ieri - mentre lo staff del Cavaliere si preparava già a fronteggiare «un’estate di paparazzate contro il premier» - ad Arcore veniva ricevuto Bruno Ermolli, amico strettissimo di Berlusconi e grande consulente di strategie aziendali. Il Biscione va difeso, il Biscione non si tocca.
Fuori dalla porta il Cavaliere ha lasciato le vicende politiche, l’astio verso «quel Fini» a cui attribuisce un ruolo - per quanto indiretto - nella vicenda, e il disappunto verso Bossi. La battuta del leader leghista sulle veline non gli è piaciuta, perché «quando Walter Veltroni ha candidato Marianna Madia, tutti hanno parlato di ricambio generazionale. Invece, appena ho proposto io delle giovani, una delle quali ha persino collaborato con le agenzie delle Nazioni Unite, si è scatenato il putiferio. Altro che ciarpame, questo è razzismo».
Ancora una settimana fa Berlusconi era «il presidente di tutti gli italiani». Non è stata l’opposizione a picconarlo ma la (ex) moglie. Così sì è aperta una crepa, e tutti lavorano per allargarla. Tra il serio e il faceto l’altro giorno la leghista Emanuela Dal Lago commentava: «Magari potessimo candidare la Lario con noi...». Berlusconi è consapevole dello sbrego, e per quanto cercherà di abbassare i toni della vicenda familiare, lo scontro legale e mediatico sul divorzio si preannuncia durissimo. Sarà stato un caso, ma il 30 aprile, proprio dopo l’attacco della «signora» al Cavaliere, sulla prima pagina del Giornale è apparsa la rubrica «controcor­rente » con uno strano testo: «Una delle celebri figure della corrida è la Veronica. Il toro il più delle volte ne esce male». Il più delle volte, non sempre.

Corriere della Sera 5.5.09
La madre di Noemi «L’ho cresciuta nella luce del Vangelo e nel mito di Silvio»


NAPOLI — Un angelo cresciuto «nella luce del Vangelo» e «nel mito di Berlusconi». Ec­co Noemi Letizia nella sintesi che ne fanno i suoi genitori. E non si sono nemmeno messi d’accordo, mamma e papà, prima di annun­ciare i valori che hanno accompagnato il per­corso della loro figlia dall’infanzia a oggi che è appena maggiorenne.
La signora Anna lo dice al Corriere con tono risentito: «Basta con tutta questa attenzione su Noemi. È una bambina, una ragazzina che io ho allevato nella luce, la luce del Vangelo e del Signore». Benedetto Letizia, invece, ne parla con Chi - il settimanale della berlusco­niana Mondadori in edicola oggi con le foto in esclusiva del premier alla festa della giova­nissima che lo chiama papi - e spiega così il perché di quel vezzeggiativo: «È cre­sciuta con il mito di Berlusconi e que­sto è un suo modo spontaneo di ma­nifestargli la propria ammirazio­ne. I soliti maligni hanno dato al­la parola sfumature scandalose del tutto fuori posto».
C’è una foto, tra quelle scattate il 26 aprile scorso durante il ri­cevimento in una villa sulla cir­cumvallazione esterna di Napo­li, che sembra la rappresenta­zione di quanto sostengono i genitori della diciottenne. Berlu­sconi, la signora Anna, Noemi e il papà: tutti vicini e con i calici colmi di champagne. Sguardi verso l’obiettivo, sorrisi, e Noemi che co­pre in parte i capelli biondi con un velo di merletto, come si fa prima di entrare in chiesa.
«Era un momento bello, non c’era l’intenzio­ne di far male a nessuno», dice Benedetto Le­tizia se gli si fa notare che la presenza del pre­mier alla festa di sua figlia sembra essere sta­ta la molla che ha fatto scattare in Veronica Lario la decisione di chiedere la separazione. Benedetto invece riconduce tutto a «notizie distorte» che «capisco possano turbare una persona dolce e squisita come la signora Ve­ronica. Me ne dispiace tanto, ma non saprei davvero che altro dire».
Per il papà di Noemi, però, «quando tutto sa­rà chiarito ogni cosa tornerà al proprio po­sto, perché l’unica verità è che è stata trasfor­mata una amicizia un fatto sia politico». Il chiarimento Benedetto Letizia ritiene sia quello che riferisce nell’intervista a Chi, dove ritira fuori la storia dell’amicizia tra lui e Ber­lusconi nata ai tempi del Psi: «Ci siamo cono­sciuti casualmente durante una campagna elettorale molti anni fa ed è iniziato un rap­porto fondato sulla sintonia politica (io sono un vecchio socialista riformista) e sulla mia grande ammirazione per lui». E conferma pu­re quanto già dichiarato da Berlusconi, e cioè che prima della festa per il compleanno di Noemi, lui aveva contattato il suo amico presidente del Consiglio «per caldeggiare al­cune candidature nelle liste elettorali per le elezioni europee», e da quel colloquio politi­co sarebbe nato poi l’invito, accettato dal pre­mier «con la sua solita generosità e corte­sia ».

il Riformista 5.5.09
I vizi privati e le virtù pubbliche dell'imperatore
di Antonio Polito


Non occorre una visione evoluta della vita per amare il potere. Non occorre una visione evoluta della vita per andare al potere. Una visione evoluta della vita può, anzi, essere il peggiore impedimento, mentre non avere una visione evoluta può essere il più splendido vantaggio.
Philip Roth

Qual è il rapporto tra potere ed etica? Ce n'è uno? E qual è in Silvio Berlusconi? Dopo la questione morale, una questione sessuale? Da sempre il nostro premier è inseguito da un qualche fantasma, che gli impedisce di essere "normale", e secondo alcuni lo rende «unfit to run Italy», secondo un celebre titolo dell'Economist. Finché c'erano processi in corso, la questione erano gli affari; ora che sono finiti, la questione sono gli affari di cuore.
La domanda è: questa nuova "questione" personale avrà un peso pubblico analogo a quella che ebbe la questione morale? Non mi riferisco al gradimento presso il pubblico, del quale i sondaggisti non prevedono grandi cambiamenti. Lì entrano in gioco fattori psicologici e irrazionali: ci sarà chi accrescerà il suo disgusto per l'uomo dopo aver letto ciò che ne dice la moglie, e ci sarà pure chi lo considererà anche più umano e simpatico di quanto avesse mai pensato, perché più simile alla Middle Italy, all'italiano medio.
Ma i sondaggi non dicono tutto in democrazia. Lasciano comunque aperta la questione: i vizi privati possono avere conseguenze pubbliche? È questa la domanda che conta, anche per il futuro della leadership di Berlusconi che, com'è noto, aspira un giorno a trasferirsi al Quirinale.
Si dice spesso che i Paesi di etica protestante sono più severi di quelli cattolici nel giudicare questo nesso tra privato e pubblico. È vero fino a un certo punto. I Paesi protestanti, per esempio, sono da sempre più spregiudicati dei nostri in quanto a morale privata.
Nei Paesi protestanti ci sono politici e ministri dichiaratamente gay da molto tempo prima che si affacciassero sulla scena italiana. E i Paesi protestanti hanno tollerato grandi vizi privati: Clinton sarebbe stato tranquillamente eletto, a giudicare dai sondaggi, anche al colmo dello scandalo con Monica. Non è la morale che distingue quei Paesi dall'Italia. È piuttosto il senso dell'interesse collettivo. Di fronte a uno scandalo sessuale, in America o in Gran Bretagna ci si domanda se l'incapacità del politico di controllare i suoi comportamenti privati denunci una debolezza di carattere che può farlo sbagliare anche mentre maneggia la cosa pubblica. Il peccato - che spesso i politici coinvolti negli scandali devono ammettere in atti di contrizione pubblica - è il «lack of judgment»: la mancanza di giudizio. Se nella sua vita privata mostra un difetto di equilibrio, è possibile che possa sbagliare anche nella sua funzione pubblica.
Credo che sia su questo, e solo su questo, che gli italiani giudicheranno Berlusconi anche stavolta. Sui giornali ci accapiglieremo sui risvolti psicologici e morali del divorzio del leader. Gli italiani, invece, si domanderanno soltanto se possono ancora credere a quest'uomo, e affidarsi a lui. Dopo cinque anni di governo, Berlusconi perse le elezioni nel 2006, seppur di poco, esclusivamente perché diede l'idea di occuparsi con più impegno dei suoi affari con la giustizia che degli affari dell'azienda Italia. Se invece in questa legislatura Berlusconi dimostrerà di saper far convivere la passione per le ragazzine con la ricostruzione dell'Abruzzo o con la difesa dell'occupazione, non perderà le prossime elezioni.
Per chi si oppone politicamente a Berlusconi, e vorrebbe rimuoverlo dal potere, anche stavolta non ci sono scorciatoie. La critica che può fargli male non è quella di essere un sultano, o un leader da Turkmenistan. Ma quella di governare un'Italia con una recessione peggiore della media europea (-4,4% del Pil), avviata ad alti tassi di disoccupazione (8,8%), con un debito pubblico che è tornato sopra il 120%. Nel mal comune, l'Italia non trova affatto mezzo gaudio, ma piuttosto l'aggravamento della sua storica condizione di malato d'Europa. E - come ha segnalato l'Economist - l'incapacità di riformare il Paese è ancora più grave quando un leader gode del consenso di cui Berlusconi dispone oggi. Proprio quel favore popolare, quell'acquiescenza che scandalizza Franceschini e che spinge la stessa Veronica a chiedersi perché solo lei protesta per i vizi dell'imperatore, gli toglie ogni alibi e lo obbliga a salvare l'Italia. È per questo che è stato eletto, ed è solo su questo che alla fine sarà giudicato.

il Riformista 5.5.09
S'infrange il tabù
Approdano in aula i veleni del divorzio
di Stefano Cappellini


Dal letto al Parlamento. Dai tempi del caso Montesi la regola non scritta del Palazzo vuole che le vicende a sfondo sessuale siano tenute fuori dalla lotta politica. Ma l'Idv chiede al premier di riferire su Noemi (poi frena). Franceschini non segue, però nel Pd il dibattito è aperto: garantire o no embargo alle traversie familiari del premier?
È toccato al fin qui defilato Antonio Borghesi, vicecapogruppo alla Camera dei deputati per Italia dei Valori, rompere un tacito, annoso e trasversale accordo di Palazzo: tenere fuori le vicende private, specialmente quelle a sfondo sessuale, dalla lotta politica. Parlando ieri in aula Borghesi non ha usato giri di parole: «In un'intervista non smentita - ha tuonato il dipietrista dal suo scranno - Veronica Lario ha dichiarato che il proprio marito avrebbe intrattenuto una relazione con una minorenne solo da pochi giorni diventata maggiorenne». Quindi ha invitato il presidente del Consiglio a riferirne in aula, non prima di aver citato l'articolo del codice penale - il 609 - «che configura una serie di reati relativi a rapporti tra persone adulte e minorenni».
Era forse dai tempi del caso Montesi - la ragazza romana trovata cadavere su una spiaggia di Tor Vajanica nel 1953, al centro di un giallo mai risolto che costò (ingiustamente) la carriera al potente ministro democristiano Attilio Piccioni - che fatti di letto, o presunti tali, non entravano così esplicitamente in un'aula di Parlamento. Quando nel luglio scorso Sabina Guzzanti ha sdoganato dal palco girotondino di piazza Navona le chiacchiere sulle intercettazioni hot del Cavaliere, nessun esponente politico l'ha seguita su quel terreno. E quanto Borghesi si sia spinto più in là delle regole non scritte della politica tricolore è testimoniato dal fatto che nel giro di pochi minuti è stato addirittura il suo capogruppo Massimo Donadi a smorzare il valore politico dell'intervento in aula: «Siamo convinti che l'etica privata di un uomo pubblico sia un fatto assolutamente rilevante, ma non vogliamo confondere le responsabilità del presidente del Consiglio con la vita privata di terze persone, che siano figli o ragazze minorenni verso cui dobbiamo rispetto».
Il dibattito parallelo in seno all'opposizione resta aperto: chiedere conto a Berlusconi delle sue traversie familiari o stendere un velo di silenzio in nome del fair play? Il segretario del Pd Dario Franceschini, sostenitore della seconda posizione, ha ripreso la parola solo per replicare alla teoria del premier secondo cui sarebbe una non meglio precisata manovra della sinistra a sobillare «la signora» («Berlusconi è patetico»). Ma nel partito non tutti la pensano allo stesso modo. Non altri cattolici ex popolari come Rosy Bindi e Pierluigi Castagnetti, che invocano «coerenza» e gridano «indignazione». E nemmeno una laica a tutto tondo come Linda Lanzillotta condivide l'embargo assoluto sulla vicenda: «Berlusconi - dice l'ex ministro - non può usare la sua biografia come elemento di propaganda politica e poi pretendere silenzio quando gli è più comodo». Vittoria Franco, responsabile nazionale pari opportunità del Pd, respingendo la linea del silenzio («la signora Berlusconi ha portato ragioni pubbliche di etica politica alla sua decisione»), approfitta per chiedere presto una legge sul divorzio breve, «perché certe vicende si concludano il più rapidamente possibile, tutelando il coniuge più debole».
Ma a preoccupare il Cavaliere, al momento, non sono tanto le possibili intemerate degli avversari politici, quanto l'eventualità che la campagna mediatica della consorte preveda nuovi dirompenti uscite mediatiche. O che altri particolari della sua vita oltre la politica finiscano in pasto all'opinione pubblica con il semplice avanzare della causa di divorzio, trasformandosi in faccenda politica a prescindere dalle scelte dell'opposizione. Perché il tono e il merito delle parole scelte da Veronica per annunciare la sua dipartita coniugale non lasciano dubbi, e il ruolo di apripista incarnato da Borghesi nemmeno: il divorzio Berlusconi-Lario non godrà del riparo mediatico e politico che - dopo il caso Montesi - ha accompagnato nel tempo per quasi mezzo secolo fossero le inconfessabili trasgressioni o i gusti particolari del doroteismo diccì, le esuberanze nottambule e le scappatelle mondane del rampante socialismo craxiano e le stesse «bagattelle» berlusconiane fin qui archiviate. Storie che animavano conversazioni da trivio in Transtlantico, e di cui pure i sassi erano al corrente, e che però mai, nemmeno nei momenti di più aspro scontro nell'Italia della Prima Repubblica, sono state brandite come clave. Il che non significa che mancassero manovre sotterranee e minatorie, come testimoniò al massimo grado negli anni Settanta la campagna stampa da destra e da sinistra contro l'allora presidente della Repubblica Leone, che trovò il suo sfogo più brutale sulle colonne di Op, il settimanale diretto da Carmine Pecorelli e specializzato nel rilanciare veleni e boatos. Ma persino su Op i pettegolezzi più selvaggi erano comunque trasfigurati in battute, allusioni, messaggi in codice. E si trattava comunque di un giornale. Nulla in confronto al metodo Borghesi in Parlamento: «La signorina in questione (la diciottenne Noemi, ndr), con una dovizia anche di particolari, lascia intendere che vi siano rapporti altamente confidenziali con il presidente del Consiglio con il quale si sarebbe intrattenuta in più occasioni e in luoghi diversi. I cittadini italiani hanno diritto di conoscere in merito questa vicenda».

il Riformista 5.5.09
Scandalo pubblico o da confessionale?
I dubbi dei cattolici
di Paolo Rodari


OPINIONI. Per Baget Bozzo è «una crisi di coppia come tante». Il cardinale Tonini soffre per i figli e rimpiange De Gasperi e Zaccagnini. Paola Binetti «prova dolore» e attacca la stampa. Duro Castagnetti: «Che futuro ha un paese dove le madri offrono le figlie in cambio di notorietà?».
Un Silvio Berlusconi, a volte a parole altre con azioni politiche, difensore di certe tematiche care al mondo cattolico - dalla vita alla famiglia - che cade proprio su un tema delicato per i credenti (la fedeltà coniugale) provoca reazioni diverse. Se Vaticano e mondo dell'associazionismo preferiscono non commentare («quanti uomini politici anche appartenenti a partiti d'ispirazione cattolica, ad esempio l'Udc, hanno una vita familiare diciamo difficile?», è tutto ciò che esce dalla voce d'un prelato che intende restare anonimo), altri personaggi dichiaratamente cattolici parlano. E si dividono tra coloro che ritengono che la misura sia colma e quelli che, invece, tendono a minimizzare convinti che non è a causa di queste vicende che parte del mondo cattolico smetterà di votare per l'attuale premier.
Gianni Baget Bozzo legge la querelle con distacco: «Siamo semplicemente innanzi a una crisi d'un rapporto di coppia - spiega -. C'è poco altro da dire. Del resto, non è che Berlusconi abbia mai detto di sé: "Sono un santo". Né, credo l'abbia mai pensato». L'hanno forse pensato quei cattolici che l'hanno votato? «Non credo - dice -. Si sa che l'uomo è debole. Anche i vecchi democristiani del resto non erano dei santi. Insomma, nella prassi, la castità è stata sempre tradita. In pochi possono essere d'esempio in proposito. Ed è per questo motivo che penso che la vicenda difficilmente potrà incidere sulla vita politica del paese. Non credo che gli elettori ne saranno influenzati».
Anche il "televisivo" cardinale Ersilio Tonini sa guardare la cosa con distacco, ma fino a un certo punto. «Sono cose che capitano - racconta -. Ma il dramma resta. Ed è anzitutto un dramma familiare. Leggendo i giornali, soffro. Perché penso ai figli della coppia. Penso a come diversa era la mia famiglia: mamma e papà legati da una reciproca venerazione. E poi penso ai grandi politici del passato. Alcuni erano davvero integerrimi, un esempio valido. C'era Alcide De Gasperi che attraversò uno dei periodi più difficili del paese mettendo in campo una ricchezza interiore straordinaria. E c'era Benigno Zaccagnini: indicato come esempio di attaccamento alla politica, mi chiamava al telefono per confidarsi che in verità non faceva altro che il proprio dovere. Non risiedo a Roma e, dunque, non so se il Vaticano simpatizzi per questa o quella parte politica. So però che il popolo deve sapere che ai vescovi interessa anzitutto una cosa: che vi siano politici in grado di assolvere i propri doveri. Occorre leggersi Edgar Morin che in L'identità umana spiega come il momento attuale sia propizio perché la mondializzazione dei problemi può favorire quel lavoro per il bene comune di cui la società necessita».
La "opusiana" Paola Binetti prova «dolore per la vicenda». «Dolore - spiega - per loro due (Silvio e Veronica) e per i figli». Ma c'è anche «un problema dei media: è come se i giornali abbiano sempre bisogno di trovare una notizia sulla quale fare convergere l'attenzione di tutti. Così le cose si amplificano. E, insieme, s'inventano». E anche l'idea che Berlusconi sia più vicino alla Chiesa di quanto non lo siano certi politici del Pd è un'invenzione: «La Chiesa - dice - guarda ai valori. Su questi a volte i politici di centro destra sono più vicini alla Chiesa e altre volte lo sono quelli di centro sinistra».
Per Luigi Bobba «le scelte private dei singoli restano tali e al massimo possono intaccare la credibilità d'una persona». Così è anche per Savino Pezzotta: «Gli italiani - dice - giudicheranno in coscienza, anche se, occorre dirlo, c'è un problema di costume non da poco».
Più drastico è Pierluigi Castagnetti: «La politica - dice - non deve interessarsi del divorzio di Berlusconi» perché «è un fatto privato». Ma «le cose che ha detto la Veronica Lario non può ignorarle, perchè evocano una diretta responsabilità proprio della politica: un paese nel quale le madri offrono le figlie minorenni in cambio di una illusoria notorietà, che futuro potrà mai avere?».

il Riformista 5.5.09
La «satiriasi» e le mille in una notte
Le notti di Palazzo Grazioli. Dalle intercettazioni hard alla storia della diciottenne Noemi. Chi frequenta il Cavaliere racconta come sono cambiate le abitudini di PlaySilvio da quando ha superato i 70 anni. L'apologia degli odori.
di Fabrizio d'Esposito


Le mille in una notte? La cifra è simbolica, ma è certo che un paio di mesi fa nel cortile di Palazzo Grazioli, residenza romana del Cavaliere, hanno visto entrare un camion da cui poi è stato scaricato un materasso enorme. Un letto a tre piazze.
Quest'altra scena, invece, risale allo scorso fine giugno. L'estate rovente delle intercettazioni hard di Silvio Berlusconi, quelle in cui si parlava delle ministre e mai uscite per intero. Il Riformista ne pubblicò qualche brano e un berlusconiano di alto rango si fece vivo chiedendo la massima discrezione. L'incontro col cronista, a Roma, fu una lunga passeggiata attorno ai palazzi del potere. Una discussione, una volta tanto, che esulava dal totus politicus. L'azzurro partì dal problema che angoscia ogni uomo, credente o no. Il problema della morte. Ognuno reagisce a modo suo, disse il politico, e quando il colloquio filosofico, e un po' surreale, arrivò al protagonista delle intercettazioni, il sigillo alla riflessione fu questo: «Satiriasi», ossia l'equivalente maschile della ninfomania. Mani dietro la schiena, il berlusconiano di alto rango si fermò in mezzo alla strada e disse proprio così: «Satiriasi».
E forse è per questo che Veronica Lario, nello sfogo che ha consegnato a Repubblica domenica scorsa, ha parlato di un uomo malato: «Ho cercato di aiutare mio marito, ho implorato coloro che gli stanno accanto di fare altrettanto, come si farebbe con una persona che non sta abene. È stato tutto inutile». E ancora: «Non posso stare con un uomo che frequenta le minorenni». Accuse devastanti, che trovano una conferma nelle storie piccanti che circolano da tempo sulle notti di Palazzo Grazioli. Da quando cioè il Cavaliere ha superato i settant'anni - è nato nel 1936 - e l'assillo dell'età gli avrebbe fatto nascere un forte disgusto per il decadimento fisico. Ieri l'Unità ha scritto delle feste di Palazzo Grazioli, con un tavolo da cinquanta posti, dove mangiare, e graziose fanciulle sulle ginocchia dell'imperatore (copyright Veronica). Chi ha partecipato, da invitata, a queste serate racconta al Riformista una quantità impressionante di dettagli, in cui spicca un accappatoio bianco che quasi abbaglia la vista e un medicinale che non è il Cialis, bensì un farmaco che si inietta. Ma soprattutto, grazie a una frequentazione di vari anni a Palazzo Grazioli, la donna rivela in che modo sono progressivamente cambiate le abitudini del Cavaliere. È un racconto lungo e crudo, che si sovrappone perfettamente allo sfogo della moglie Veronica, in cui a colpire l'interlocutore è anche l'apologia dell'odore. I profumi sono una parte essenziale delle mille in una notte. E poi ci sono il letto, il bagno, i sospiri e altri particolari di cui non si può dare conto perché la questione sessuale del premier si muove a cavallo tra la privacy e il comune senso del pudore.
Il premier che «frequenta le minorenni», secondo l'accusa della consorte, è poi una storia che trapelò dalle stesse intercettazioni hard oggi distrutte, sia a Milano sia a Napoli nell'ambito di due inchieste diverse. C'era il nome di un'importante azzurra, incaricata di svolgere un ruolo delicato nell'organizzazione delle feste berlusconiane. E adesso che Veronica ha deciso di divorziare dal marito Silvio per la vicenda di Noemi e del suo primo compleanno da maggiorenne, dal passato riemerge un quadro più chiaro e completo. Forse un giorno questo spaccato della vita del presidente del Consiglio sarà raccontato in maniera più organica, come fece Gian Carlo Fusco con il duce in un libretto strepitoso intitolato dapprima PlayDux e poi Mussolini e le donne. Fusco fece un catalogo con le amanti preferite e quelle occasionali. Raccolse pure la confidenza del portiere di Palazzo Venezia che gli riferì di come il dittatore del fascismo ne cambiava una al giorno.
E oggi, PlaySilvio, che piaccia o no, non è solo gossip o guardonismo di noi esseri normali e forse invidiosi, ma la narrazione del potere ai tempi del Cavaliere, sdoganatore del velinismo al governo e in Parlamento. Una narrazione sì gaudente ma al tempo stesso tragica perché alle prese, almeno nell'ultimo lustro, con la questione della morte e del senso di finitezza che viene percepito dagli uomini anziani. Fosse davvero immortale, Silvio Berlusconi, i recenti problemi con la moglie li avrebbe evitati, sicuramente.

il Riformista 5.5.09
«Chi critica le veline è un po' razzista»
Vittorio Feltri. Il direttore di "Libero" scatenato contro Veronica Lario. «Non vuole solo separarsi, vuole distruggere politicamente il marito».
di Alessandro De Angelis


«Non credo che Veronica voglia smentire la sua vita da velina». Il direttore di Libero Vittorio Feltri non si sente responsabile di aver scatenato le ire di Veronica pubblicando le foto di uno spettacolo teatrale, in cui la signora Lario appariva poco vestita.
Si sente in colpa per quelle foto?
No. Le ha fatte lei, mica noi, quelle foto.
Però pubblicarle quel giorno…
Quando gliele hanno scattate evidentemente le ha fatto piacere. Altrimenti avrebbe detto di no e si sarebbe arrabbiata all'epoca. Non credo che la signora voglia smentire la sua vita un po' da velina. Suvvia, allora era un'attricetta. Mica recitava Shakespeare.
Dica la verità: lei sta con Berlusconi.
Non entro nelle diatribe tra moglie e marito. Il giorno prima di pubblicare le foto avevo scritto un fondo sulla questione delle veline. Dicevo: perché prendersela con la scelta di candidarle? Sono ragazze che si vogliono impegnare, poi vivaddio alle europee ci sono le preferenze. Se avranno i voti…
E Veronica le ha bollate come «ciarpame».
Appunto, lei si è scagliata contro candidate provenienti dal mondo dello spettacolo e io, il giorno dopo il mio fondo, le ho ricordato che anche lei viene da lì. Quel mondo merita rispetto. Se sono ciarpame le veline è ciarpame anche lei. O è biologicamente cambiata?
Chi critica le veline è snob?
È razzista. E io proprio non lo capisco questo razzismo culturale nei confronti di chi viene dallo spettacolo leggero. Tutti fanno discorsi moralistici e poi si cade nel cliché che se una è bella deve essere per forza pure puttana.
Che cosa non le piace di Veronica?
Come sta gestendo la vicenda. Se uno si vuole separare normalmente parla col marito e con l'avvocato. Lei invece parla con Repubblica, FareFuturo, l'universo mondo. Ci manca solo l'Osservatore romano.
Insomma fa politica.
Non lo posso dire. È ovvio che Repubblica ci inzuppa il biscotto. Se la signora Veronica non sa che parlando con un giornale si può scatenare un casino è stupida. Poiché non lo è, è una furbacchiona che vuole danneggiare il marito. Fatto sta che non può certo appellarsi all'etica.
Le motivazioni con cui Veronica chiede il divorzio sono pesanti: la malattia, le minorenni…
Questa storie non esistono. Secondo me Berlusconi non va neanche con le maggiorenni, figuriamoci con le minorenni.
E lei che ne sa?
Uno di 73 anni che, come è noto, ha avuto un tumore alla prostata, non ha tutta questa attività sessuale, pure se è immortale come Berlusconi. Io che ho 65 anni faccio la mia bella fatica…
Se non è per gelosia perché vuole il divorzio?
Sospetto che c'entrino i quattrini, ma c'entra anche un attivismo politico da portineria. Mi pare che Veronica abbia fini meno nobili di una separazione.
Vuole distruggere il marito?
Credo proprio di sì. Vuole distruggerlo anche politicamente.
Le sue uscite tolgono consenso al premier?
Per ora credo di no. Ma a Berlusconi non giova essere trascinato in tribunale.
Crisi, terremoto: sta invocando il silenzio in nome della ragion di Stato?
Detta così suona un po' retorica, però la realtà drammatica del Paese stride con questi piagnistei. Consiglio di cercare una separazione consensuale. Con una giudiziale uscirebbero sicuro altre storie che adesso non conosciamo, con altri strascichi polemici. Insomma, chiacchiere da portineria.
Senta, il problema del Cavaliere è il suo debole per la gnocca?
È il debole di tutti. Lui ha un atteggiamento da bar dello sport. Lo dico senza offesa. Ha presente quelli che quando vedono una donna, dicono: «Bona quella» o «Te la sei fatta?». Comunque sono certo che il Paese, il dongiovanni da bar, lo perdona.
Anche se ha una figlia illegittima?
Io pure frequento minorenni, ma questo non autorizza nessuno a dire che ci vado a letto.

il Riformista 5.5.09
«Diritto di cronaca»
Si prepara la guerra all'ultimo gossip
Stampa rosa. Il premier affida al suo "Chi" le foto del party di Noemi. Novella 2000 e Diva e donna si preparano a rispondere.
di Sonia Oranges


Veronica e Silvio, la bella e il potente trasformatisi in moglie tradita e satiro impenitente: materia gustosissima per i rotocalchi specializzati in costume e gossip, che ora affilano le armi in una tenzone all'ultima indiscrezione. D'altra parte, è stato lo stesso premier Berlusconi a cavalcare l'onda del pettegolezzo, affidando le foto che lo ritraggono al party per i 18 anni di Noemi Letizia a Chi, magazine della scuderia berlusconiana, che sul gossip ha costruito la sua fortuna, sotto l'acuta direzione di «quel diavolo di Signorini», per usare le parole del premier. Signorini che ieri non ha voluto anticipare nulla su quanto pubblicherà nel prossimo numero.
I suoi competitor non saranno da meno, c'è da scommetterci. «Certo che ci occuperemo di una vicenda così interessante - dice Silvana Giacobini, direttrice di Diva e donna - Qui non ci troviamo di fronte al classico gossip che tende a insinuare fatti, questa è trasparentissima cronaca». Cronaca che segna l'irruzione del privato nel pubblico: «È la diretta conseguenza della scelta di Veronica Lario di ricorrere alla stampa per comunicare lamentele e decisioni. Decisioni che, a mio avviso, sono irrevocabili. Veronica è una persona che parla solamente dopo aver riflettuto». Una storia, dunque, che non può lasciare indifferente il grande pubblico: «Bisogna stare attenti però. L'opinione pubblica percepisce quando la realtà viene un po' gonfiata dai media. C'è una grande richiesta di concretezza, la crisi ha fatto passare in subordine l'effimero. E anche in ambito politico la gente guarda ai fatti, soprattutto a quelli importanti, come il terremoto dell'Aquila, che certo non può essere oscurato da una vicenda così privata». Certo è che la cronaca di questo disastro privato, sta impazzando da un capo all'altro del pianeta, se ieri anche il canale internazionale della Cnn le ha dedicato un talk show.
«Mi sono fatta l'idea che Veronica sia stata una donna molto innamorata, che sia ancora affascinata dal marito, è che abbia scelto un profilo tutt'altro che basso per due motivi: per tutelare la dignità propria e della sua famiglia, ma anche per avvertirlo che la questione del patrimonio e dei diritti dei propri figli, deve essere risolta», spiega Candida Morvillo che dirige Novella 2000, ricordando che da tempo la Lario riferiva l'ipotesi di una separazione, ma solamente quando tutto sarebbe stato a posto, quando probabilmente il riassetto del patrimonio di famiglia sarebbe stato completato. Un'ipotesi trasformatasi in realtà sotto il peso degli avvenimenti: «La convocazione di veline e varie alla scuola di politica, il party di Noemi, le deliranti interviste della ragazza in cui chiamava Silvio "papi", sono state umiliazioni pubbliche per la signora Berlusconi». Già, la ninfetta partenopea con un suo piccolo pubblico conquistato su una rete televisiva locale, come racconta la Giacobini, e quel book su internet, le foto in posa, vestita (poco) in vari modi, che già lasciavano presupporre ad aspirazioni da starlett. «Non se n'era sentito parlare sinora - continua la Morvillo - Però avevamo già sentito quel termine "papi", che fa parte della leggenda su Berlusconi e le donne, secondo cui il premier amerebbe farsi accompagnare da belle ragazze, mai una sola per carità, riconoscibili da una farfallina di brillanti e la Mini Minor regalate da Silvio. E da quell'appellativo: "papi"».
Che Berlusconi sia stato "papi" una volta di troppo? «Non credo che questa storia danneggerà Berlusconi sul piano politico. Se fosse stata Veronica a tradirlo, sarebbe stato un colpo. Gli italiani s'identificano nel machismo di Silvio, nel divertimento dell'imperatore». E, tristemente, anche le donne sembrano riconoscersi nello stereotipo della moglie rassegnata a subire: «Sono stupita davvero. Molte donne sono contro di lei, come lei hanno rinunciato alla carriera per i figli, ma la considerano una privilegiata. Così, in una sorta di invidia sociale, avrebbero preferito chiudesse gli occhi e sopportasse. Io comunque, tra i due scelgo lei. Anche se non m'è piaciuta la retorica della "separazione tranquilla". Almeno, Veronica ci ha salvato dall'infarcitura di signorine che avrebbero sottolinato certi aspetti della politica italiana anche in Europa».

il Riformista 5.5.09
Pochi scherzi, si fa presto a dire sex addicted
Parla Marco Rossi, psichiatra e sessuologo. «È cosa ben diversa dal pensiero fisso e dall'atteggiamento seduttivo».
di Serenella Mattera


«Ho cercato di aiutare mio marito, come si farebbe con una persona che non sta bene». Dopo queste parole attribuite alla «signora» Veronica Lario, la domanda riempie Internet e le conversazioni da bar: Berlusconi è "malato di donne"?
Lo disse Gerald Ford di Bill Clinton. Michael Douglas ha fatto outing. E il gossip hollywoodiano lo attribuisce a questo o quell'attore. Ma i medici invitano ad andarci piano. Perché la sexual addiction, la dipendenza sessuale, è una malattia. Che negli Stati Uniti viene curata in tantissime cliniche specializzate. In Italia ce n'è una, a Bolzano. Dove arrivano circa 200 pazienti l'anno da tutto il Paese, una piccola parte di quel milione che, secondo il direttore Cesare Guerreschi, sarebbero affette dalla malattia.
Marco Rossi, psichiatra e sessuologo, ci tiene a sgombrare subito il campo: «Difficile dare numeri, troppo spesso si dice "malato di sesso" a sproposito. Non stiamo parlando del pensiero fisso, altrimenti ne saremmo afflitti in tanti. E neanche di quel modo seduttivo, piacione, che hanno certe persone di porsi verso gli altri».
E allora di cosa stiamo parlando?
Di una malattia caratterizzata dalla compulsività dell'atto. Chi ne è affetto sta male, se non ha rapporti sessuali. I sintomi sono di tipo ansioso-depressivo. Crea dipendenza come l'alcolismo, la tossicodipendenza, il gioco d'azzardo.
Come si scopre?
Nelle fasi iniziali è difficile accorgersene, perché la patologia peggiora col tempo. Poi generalmente i malati o i loro familiari se ne rendono conto quando iniziano a dilapidare il patrimonio per andare con le prostitute.
Ci si aspetta che il problema riguardi gli uomini…
No, anche le donne. Ma sono meno della metà degli uomini e le manifestazioni della compulsività per loro sono molto meno forti.
Età a rischio?
Tra i 30 e i 50 anni.
Come si guarisce?
Con un lavoro psicoterapico, sedute per non meno di sei mesi, cui bisogna abbinare una terapia farmacologica, con antidepressivi che diminuiscono l'ansia, la compulsività e il desiderio sessuale.
Come ci si ammala?
La sexual addiction appartiene alla cultura occidentale. Una delle motivazioni principali è l'insicurezza. Il sesso diventa un modo per sentirsi sicuri e appagati insieme. E crea dipendenza, perché agisce sulla dopamina, come molte droghe.

il Riformista 5.5.09
Da Ferrara a don Verzè
I Lario's alla prova divorzio
di Tommaso Labate


Umberto Bossi e Gianfranco Fini sì, ne fanno parte e nel borsino creato ad hoc sono dati «in ascesa». E se Dario Franceschini è sempre stato fuori dal giro, Walter Veltroni no, lui era uno dei più quotati ma poi è stato espulso dalla Signora in persona. Sandro Bondi invece soffre, la tessera lui l'aveva ma dopo gli ultimi giorni è stato costretto a stracciarla per amore del Signore. Giuliano Ferrara medita, il partito Repubblica combatte, Massimo Cacciari sfugge, Paolo Flores d'Arcais è sempre più convinto, Fo&Rame affilano le lame e anche Gino&Michele, forse, s'incazzano.
In tempi di divorzio, il «Partito Veronica» si prepara a cambiare pelle. C'è chi l'ha usato silenziosamente come un taxi ed è pronto a scendere senza nemmeno pagare il prezzo della corsa. Chi rimarrà fedele a prescindere dall'ira funesta del Capo. E chi, invece, chiede l'iscrizione ex novo. Come alcuni democristiani, ad esempio, l'unica categoria dello spirito che Veronica (su questo fronte perfettamente in linea con il quasi ex marito) non ha mai amato. Pierluigi Castagnetti («Veronica Lario ha avuto il merito di squarciare il velo dell'ipocrisia che avvolgeva un certo degrado morale») o Rosy Bindi («La signora Lario ha ragione, non possiamo far finta di nulla»), sono gli ultimi che hanno chiesto di ascendere, proprio ieri, al Regno della Signora.
La tessera numero uno del Partito rimane custodita gelosamente nel caveau di Floriana Mentasti, regina delle acque San Pellegrino, da anni migliore amica di Veronica. Veltroni aveva provato a strappargliela quando disse urbi et orbi «voglio Veronica nella mia squadra», quella del Pd. Certo lei, Bartolini in arte Lario già Berlusconi, aveva apprezzato - nel respingerli entrambi al mittente - sia il gesto che la dichiarazione dell'ex sindaco di Roma. Salvo poi espellerlo, mesi dopo, dal regno della Signora. A mezzo Stampa, nel senso del quotidiano torinese: «Veltroni mi ricorda Amleto quando dice "Ah Dio, potrei essere rinchiuso in un guscio di noce e sentirmi re di uno spazio infinito, se non fosse che faccio brutti sogni"».
Più che nel centrosinistra, Veronica spopola nella sinistra-sinistra. Paolo Flores d'Arcais ancora ringrazia Erri de Luca per avergli suggerito di chiedere, alla Signora, quel famoso intervento contro la guerra poi pubblicato da Micromega. Franca Rame, invece, non ha mai rimpianto di aver scritto, di Veronica, che «è una donna con la D maiuscola, che dimostra cultura e intelligenza e che si è esposta per difendere un principio di democrazia» (il principio, in fin dei conti, riguardava la ribellione della Bertolini in arte Lario già Berlusconi contro la censura all'Anomalo bicefalo di Fo).
Guidata dalla fede cattolica nel dire in tre parole «no alla guerra» e da quella socialista nel votare quattro sì ai referendum sulla fecondazione assistita (al contrario delle figlie, che scelsero l'astensione), Veronica perde consensi nella vecchia Forza Italia ma ne guadagna tra gli altri big della carovana della maggioranza. A volerla prendere larga è stato Gianfranco Fini, via Fare futuro, a dare il la all'uscita della Lario contro le veline-ciarpame (o il ciarpame-veline, fate voi). Poi c'è Bossi, che con il suo «non bisogna far soffrire le mogli e i figli», le ha restituito il favore che Bartolini in arte Lario già Berlusconi gli aveva fatto spiegando, a inizio legislatura, «che la Lega esprime esigenze concrete, della parte d'Italia più produttiva».
"Coperto" a sinistra e tutto sommato non abbandonato dalla destra, il Partito Veronica manterrà i legami con don Verzé, per la cui rivista la Signora scrisse un mini-saggio sul «modello maschile» («Non c'è solo denaro e successo») e sulla donna (vista come «angelo morale»). In attesa di capire come si muoverà il giornale di proprietà (Bertolini in arte Lario già Berlusconi possiede a tutti gli effetti il 38 per cento del Foglio diretto da Giuliano Ferrara), il Regno della Signora darà notizie di sé attraverso quel sistema informativo che parte da Repubblica e arriva alla Stampa, con qualche incursione qua e là di Maria Latella. Da ricostruire, invece, la tela degli interlocutori del salotto economico-finanziario: Carlo Bernasconi, di cui era grande amica, è morto qualche anno fa; Ubaldo Livolsi e Bruno Ermolli, seppur coi rispettivi distinguo, rimangono pur sempre sotto il grande ombrello del Cavaliere. Inutile cercare proseliti dallo «schermo», piccolo o grande che sia: il Partito Veronica non li ha mai voluti né li vorrà. D'altronde la Signora, per l'educazione dei suoi figli, ha scelto una scuola steineriana. Di quelle che la tv, ai ragazzi, non gliela farebbero vedere nemmeno col binocolo.

il Riformista 5.5.09
Con Lei
Il maschio è denudato
di Ritanna Armeni


La Signora Veronica Lario non poteva fare altrimenti. La richiesta di divorzio era inevitabile dopo le accuse fatte al marito e le risposte ricevute. Se non lo avesse fatto sarebbero ricaduti sulla sua persona tutti i giudizi negativi da lei espressi nei confronti del marito. Sarebbe apparsa una donna colpita, arrabbiata, ma, di fatto, succube. O peggio, una donna che per mantenere il suo ruolo di moglie, moglie ricca, dell'uomo più potente e ricco d'Italia era disposta ad accettare tutto. Un modello diffuso, quanto è diffuso quello libertino, dongiovannesco, rappresentato dal marito, presidente del Consiglio, con una concezione delle donne da vitellone degli anni 50, che certo non si addice al suo ruolo e al suo incarico. Veronica non ha voluto adottare quel modello, ha mostrato pubblicamente il più ampio disprezzo per quello rappresentato dal marito e, di conseguenza, ha chiesto il divorzio.
Ora nei confronti di Veronica Lario ne vedremo delle belle. Lei se le aspetta e noi anche. Plotoni di esecuzioni no, ma i plotoni mediatici al servizio dell'imperatore sono già in posizione di tiro.
I più benevoli dicono che quanto è successo fra Veronica e Silvio è un fatto strettamente privato che riguarda i rapporti fra moglie e marito. Di conseguenza male ha fatto la moglie a gridare la sua indignazione, i panni privati vanno lavati in famiglia, il marito birichino poteva essere richiamato con più discrezione. Naturalmente costoro dimenticano, o fingono di dimenticare, che la vicenda è diventata pubblica proprio grazie a Silvio Berlusconi che non ha fatto mai mistero dei suoi comportamenti e delle sue propensioni. Che non solo non li ha nascosti, ma li ha proposti, ne ha fatto un mezzo per acquisire consenso e approvazione. E probabilmente ci è riuscito. L'uomo, o meglio il maschio italiano, sembrava non aspettare altro. Il premier ha sdoganato comportamenti libertini, illeciti, che erano rimasti nascosti, ha fatto riaffiorare pulsioni represse. Quanti uomini si comportano come Berlusconi, ma di nascosto? Quanti non lo fanno, ma lo farebbero volentieri? Quanti, anche se disapprovano, sono affascinati da quel potere che tutto può anche rovesciare i sistemi di valore ai quali si dice di credere? Tantissimi, probabilmente la maggioranza. Ora davvero Silvio Berlusconi è il loro leader. E non solo in politica.
Quanto agli altri plotoni mentre scrivo li posso tutti immaginare già all'opera e prevedere le loro fucilate. Alcuni li abbiamo già visti in azione con le foto di Veronica, attrice di teatro che mostra il seno. Sposeranno tutte le accuse del premier e altre ne aggiungeranno. Si dirà che anche Veronica Lario ha fatto parte di quell'ambiguo mondo dello spettacolo che il marito ama e che lì è stata scelta. Si sottolineeranno i privilegi e la ricchezza di cui finora ha goduto e che le sono stati generosamente elargiti da quel marito ricco e potente che ora - ingrata - attacca. E infine si dirà, ligi alla linea dettata dall'imperatore, che la signora è stata manovrata dalla sinistra. Sicuramente si scaverà nel suo passato alla ricerca di peccati e amicizie pericolose. Staremo a vedere.
Ma qualcosa stiamo già vedendo. Perché in questa vicenda anche i silenzi e le omertà contano. Che fine hanno fatto i difensori a oltranza dei valori della famiglia? Mi piacerebbe, ad esempio, sapere che cosa pensano dell'affaire Lario-Berlusconi due paladini dei valori familiari come Eugenia Roccella e Savino Pezzotta che con l'appoggio e l'approvazione del premier hanno organizzato il Family day. Mi piacerebbe sapere che cosa pensano alcune donne del centrodestra che conosco e apprezzo, giovani deputate come Beatrice Lorenzin o Chiara Moroni o Laura Ravetto o Giorgia Meloni. O due donne appassionate come Alessandra Mussolini o Daniela Santanchè. Mi piacerebbe trovare sull'Osservatore romano, che dopo il congresso costitutivo del Pdl ha detto che quel partito rappresenta i valori cattolici, almeno una parola o un'osservazione sui comportamenti del suo leader. E magari assistere anche a qualche talk show importante che affronta liberamente l'argomento.
Non credo che vedrò nulla di tutto questo. Per quanto mi riguarda nutro una certa gratitudine per la signora Lario. Come, in genere mi capita di nutrirla nei confronti di chi mi dà qualche elemento in più per capire il Paese in cui vivo. Grazie a lei e alle reazioni che ha suscitato ho capito che vivo in un Paese che è tornato indietro, non solo nell'economia e nei rapporti sociali. È arretrato culturalmente, ha fatto un salto precedente agli anni 70, ha cancellato nella coscienza anche se non ancora sulla carta le conquiste civili, i nuovi rapporti fra uomo e donna che si era cercato faticosamente di costruire, una relazione fra comportamento pubblico e vita privata sempre difficoltosa e mai risolta ma che cercava una coerenza. Ha scritto Maria Laura Rodotà sul Corriere che in questa vicenda c'è la sconfitta di tutte le donne. Ha ragione. Ma c'è anche la sconfitta degli uomini, regrediti tragicamente a maschi.

il Riformista 5.5.09
Con lui
La signora non ha stile
di Peppino Caldarola


Non mi iscrivo al “partito di Veronica”. La signora Lario questa volta non mi ha convinto. Confesso di parteggiare per Berlusconi
Anni fa quando venne arrestato Paolo, il fratello del premier, scrissi un editoriale non firmato sull'Unità diretta da Veltroni in cui invitavo la sinistra a rinunciare alla scorciatoia giustizialista. La battaglia doveva restare esclusivamente politica. Questa volta rivolgo lo stesso invito a rinunciare all'uso del dramma familiare del premier per combatterlo. È una vicenda privata che ha rilievo pubblico per la notorietà dei personaggi ma che va gestita con il massimo di sobrietà e di rispetto.
So che non parteggiare per Veronica è politicamente scorretto, che molti nel nostro campo (ma esiste ancora il nostro campo?) vedono in questo divorzio la conferma delle cattive abitudini di Berlusconi, ma non riesco ad appassionarmi a questa nuova caccia all'uomo. La signora Laria con l'uno-due del fine settimana ha scritto un vero e proprio manifesto politico. L'accusa privata al marito che motiva la decisione del divorzio è stata arricchita da giudizi di straordinario impatto pubblico. Il premier è un «pover'uomo malato», che gli amici non aiutano a guarire con la loro condiscendenza, che «se la fa con le minorenni», che ha fondato un impero in cui colpevolmente affoga il nostro Paese. Non siamo di fronte a un marito "colpevole", ma a un anziano signore degenerato che usa l'Italia per i suoi trastulli. Solo Beppe Grillo aveva detto di peggio.
Molti a sinistra ricavano da questi giudizi opinioni politiche, io preferisco giudicare gli atti politici e non mi voglio occupare delle vite private dei potenti. Liberi noi, liberi loro.
Forse la signora Lario non se ne è accorta, ma le sue dichiarazioni contengono anche una notizia di reato. Non sarei sorpreso se un pm desideroso di pubblicità aprisse un fascicolo per accusare il premier di pedofilia visto che frequenta minorenni. Il dolore per un matrimonio fallito può spingere a dichiarazioni dure e forti, ma è possibile che la signora Lario non si sia resa conto che le sue parole avevano un forte impatto mediatico e sottoponevano il suo compagno non già al giudizio della pubblica opinione per aver disatteso i suoi doveri coniugali ma lo esponevano al disonore e persino all'accusa penale?
Ho letto quello che scrivono i blogger di centrodestra e i titoli di Libero. Non mi sono piaciute le foto della signora Lario seminuda. Temo che alcuni fan di Berlusconi che chiedono rispetto per il capo non ne abbiano per la sua ex consorte. In questa vicenda il rischio di cadere nel pecoreccio è costante. E spetta innanzitutto ai protagonisti impedire che questo accada.
Una domanda mi frulla nella mente. Perché Veronica Lario ha scelto di alzare così violentemente i toni della sua finale battaglia coniugale? Non voglio fare il processo alle intenzioni e capisco che leggere articoli su veline amiche del premier e su una diciottenne che lo chiama "papi" possa urtare la suscettibilità. Tuttavia la clamorosa esposizione mediatica dà anche l'idea di una decisione fredda resa impellente dal desiderio di ottenere una separazione per "colpa" in grado di inchiodare il coniuge e di fornire alla consorte una clamorosa posizione di vantaggio nella lite giudiziale. Tutto quello che è legittimo nello scontro che accompagna la fine di un matrimonio diventa sgradevole quando pubblicamente si invoca l'insanità mentale del marito e la sua propensione verso le minorenni. Non ha avuto stile, la signora Lario. Cecilia Sarkozy lasciò il presidente francese con maggiore eleganza.
La vita pubblica è stata spesso attraversata da uomini politici sensibili al fascino femminile. Mitterrand aveva più di una famiglia. Di Willy Brandt si diceva che fosse talmente attratto dalle donne da cercarne una per ogni viaggio ufficiale in qualunque capitale fosse diretto. Bill Clinton è stato un noto sciupafemmine. Le loro donne hanno tollerato e persino difeso i mariti. Non penso che questo debba essere considerato un modello di comportamento. Molti si scandalizzarono quando Hillary reagì a muso duro contro i repubblicani e i media per lo scandalo Lewinsky. Ma fra la difesa a spada tratta e la gogna mediatica ci deve essere una via d'uscita dignitosa. Quella scelta dalla signora Lario non è stata dignitosa. Ho l'impressione che la coppia fosse scoppiata da tempo e che vi fosse un patto non scritto di svolgere ciascuno per proprio conto la propria vita. Lo fanno i ricchi e anche i poveri. Veronica Lario ha pensato di rompere il patto non scritto, ha pensato che si fossero realizzate le condizioni più favorevoli per strappare un divorzio più oneroso per il premier. Va tutto bene. Ma noi, italiani berlusconiani e italiani comuni, perché siamo stati coinvolti in questa telenovela? Spero che fra un po' non si parli più di questa storia. I nostri guai sono ben altri.

l’Unità 5.5.09
Lodo Veronica
di Marco Travaglio


L’improvvisa comparsa dell’avvocato Ghedini sulla scena del divorzio preannuncia avvincenti sviluppi nella guerra dei Roses brianzola. È allo studio un Lodo Veronica in 4 articoli che verrà tosto comunicato al ministro Al Fano e all’occorrenza spiegato con l’ausilio di disegnini, dopodiché sarà sottoposto alle opposizioni per il necessario dialogo bipartisan: «1) Le cause di divorzio che coinvolgano le quattro alte cariche dello Stato sono sospese fino alla scadenza dei rispettivi mandati, sospensione prorogata in caso passaggio da una carica all’altra; la sospensione non vale in caso di divorzio attivo (alta carica che molla la moglie), ma solo di divorzio passivo (alta carica mollata dalla moglie). 2) Vietato divorziare in prossimità di elezioni di ogni ordine e grado: ogni causa avviata nei 40 giorni precedenti il voto è da considerarsi nulla e mai più reiterabile. 3) Le cariche di cui all’art. 1 sono dispensate dal divieto di frequentare ragazze minorenni; anzi, se lo fanno riceveranno la comunione direttamente dalle mani del Santo Padre (previa deroga ai Patti Lateranensi). 4) Le notizie sulla vita privata delle quattro cariche sono coperte da segreto di Stato e punite con severissime pene detentive, eccezion fatta per quelle commissionate dalle cariche medesime per autoritrarsi in idilliaci quadretti familiari; il gossip può invece proseguire serenamente sulle testate di proprietà di una delle alte cariche quando riguardi privati cittadini o esponenti dell’opposizione (vedi caso Sircana o bacio tra Di Pietro e un’amica). 5) Io so’ io e voi nun siete un cazzo».

l’Unità 5.5.09
Ora Silvio teme tracolli
Lo spauracchio dei sondaggi


Quella punta avvelenata, «un uomo che frequenta minorenni», quella sì che lo mette in agitazione, che può sgretolare l’atteso consenso plebiscitario. Così, asserragliato ad Arcore, ieri Silvio Berlusconi ha confessato, iroso, «questa storia mi può far davvero perdere voti». Potrebbe incrinare la tolleranza finora mostrata dalla Chiesa alla sua moralità di facciata, incuneare il dubbio nella fiducia delle donne cattoliche e non. Uno, due milioni di voti in meno? Il premier ha già messo in moto la macchina dei sondaggi, e oggi il singhiozzo del consenso avrà dei dati.
C’è chi parla di un’ennesima ricucitura, ma Veronica sembra determinata. E ha scelto una donna che per prima ha aperto la strada alla battaglia di Beppino Englaro, innovando la concezione del tutore come interprete di chi non può esprimere la propria volontà. Maria Cristina Morelli, cremonese di Soresina, avvocato dal 1991, cassazionista dal 2007, esperta in diritto di famiglia. Lui, Silvio, resta ancorato a Niccolò Ghedini, penalista- deputato e autore delle ultime leggi ad personam, forse affiancato da una delle sorelle, Ippolita, avvocato civilista in Padova.
Tanto per risolvere la grana con la seconda moglie, però ieri Berlusconi ha ricevuto i figli della prima, Marina e Piersilvio, i due grandi che gestiscono le società di (papi) la fetta grossa dell’impero. Per distrarsi Il premier ha fatto un sopralluogo per mettere su una scuola politica brianzola. Oggi torna a Roma.

l’Unità 5.5.09
La fondazione presieduta da Fini rivendica l’articolo dello scandalo
«Abbiamo posto una questione culturale, non certo di gossip»
Farefuturo e le veline: «Il problema è politico»


Alla fondazione di Fini Farefuturo si dicono tranquilli: «Abbiamo posto un tema culturale e politico, non fatto gossip». Sul loro giornale era uscito il corsivo su «donne e velinismo politico».

Il tema del giorno? Non lo è diventato per colpa nostra né per merito nostro». Nel centralissimo Palazzo Serlupi Crescenzi, sede della finiana fondazione Farefuturo, la giornata scorre come tante altre. Fuori, no: il teatrino della politica è scosso dall’annuncio che Veronica Lario intende divorziare dal marito. Cioè dal premier, cioè dal principale alleato del presidente della Camera che presiede Farefuturo e ieri ha lanciato come modello multietnico la «Generazione Balotelli».
Sul giornale online «Farefuturo webmagazine» è uscito, il 22 aprile, il corsivo «Donne in politica, il velinismo non serve» che ha suscitato, nell’ordine: l’ira di Berlusconi; la garbata presa di distanza di Fini; il dibattito se lo scritto abbia contribuito al divampare della crisi coniugale. Li descrivono preoccupati per l’effetto slavina, ma il 42enne direttore Filippo Rossi smentisce: «Siamo tranquilli. Quello che avevamo da dire l’abbiamo detto. Abbiamo posto un problema politico-culturale, non certo di gossip». Sofia Ventura, docente di Scienza Politica all’università di Bologna e componente con Della Vedova del gruppo Libertiamo, è l’autrice del corsivo “galeotto”.
Professoressa, era consapevole di lanciare un sasso nello stagno?
«Non lo avrei mai immaginato. Ho scritto cose in cui credo senza mire politiche. Neppure sapevo che si stessero discutendo le candidature. Né che Veronica Lario si sarebbe inserita in questo tema».
Non prova un certo orgoglio intellettuale nel vedere che il suo tema oggi anima il dibattito politico?
«Premesso che non voglio parlare di una questione privata che non mi riguarda e non conosco, mi fa piacere che finalmente si parli del ruolo delle donne nella politica e nella società. Anche se io resto una persona riservata e non c’è nessun disegno di Farefuturo dietro».
Il velinismo è lo specchio del Paese, come dice Veronica?
«Mi hanno colpito le ultime righe dell’intervista a Maria Latella: un Paese dove le madri offrono le figlie minorenni. Ha colto un punto vero che purtroppo fa parte della nostra cultura. Un certo modo di concepire le donne e il successo. E guardi, io sono una liberale, credo nell’ambizione: ma il successo è frutto di un lungo percorso e dell’intelligenza, non di comparsate in tv».
Secondo lei, con chi stanno gli italiani nella vicenda?
«Con Berlusconi. Non ho dubbi. Ho appena riletto Giordano Bruno Guerri e lo condivido: siamo un popolo di guardoni pruriginosi che amano il peccato ma la sera tornano a casa dalla moglie. Verrà stigmatizzato più lo sfogo di lei che il comportamento di lui. Io invece ho trovato orribile la copertina di Libero».
Ha ricevuto attacchi o solidarietà?
«Amici a parte, solo qualche battuta dai parlamentari. Né attacchi né sostegno: il metodo è il silenzio».
Ipotizza di candidarsi in futuro?
«Io? Proprio no».

l’Unità 5.5.09
l’informazione dimezzata
Il divorzio e il ciarpame
di Enzo Costa


«La signora Veronica Lario ha confermato stamane all’agenzia di stampa Ansa la sua intenzione di divorziare dal marito Silvio Berlusconi. È stato già avviato il contatto con l’avvocato per le pratiche di separazione. La notizia era stata diffusa dai quotidiani la Repubblica e la Stampa. Il Premier in mattinata ha lasciato Roma per recarsi a Milano. Nei giorni scorsi avevano suscitato polemiche le dichiarazioni di Veronica Lario, che aveva definito “ciarpame” le voci sulle candidature di veline alle elezioni europee. Il Premier aveva replicato: “Anche la signora ha creduto alla disinformazione di certi giornali della sinistra”».
Così Susanna Petruni ha dato la notizia della rottura tra Silvio e Veronica nel Tg1 delle 13,30 di domenica. Con un’asetticità diabolica, ovvero dotata di dettagli in cui, si sa, si nasconde il diavolo. Su tutti, quanto attribuito alla “signora”: aver «definito “ciarpame” le voci sulle candidature di veline alle elezioni europee». Eccolo, il dettaglio: “ciarpame”, non - come in realtà affermato da Veronica - le tentate candidature di veline, bensì le voci su quelle candidature. A suggerire che la spazzatura non è nell’idea del Capo di esportare allegre fanciulle a Bruxelles, ma nell’informazione (falsaria?) che quell’idea ha divulgato. Furbo espediente lessicale supportato dalla chiusura, che ripete a pappagallo la versione del Capo sui giornali della sinistra, e dall’unica “colpa” attribuita: quella di aver suscitato polemiche.
Colpa di Veronica e delle sue (avventate?) dichiarazioni: sottinteso, ah, se fosse stata zitta! Ascoltando una notizia fornita in questo modo, cos’ha capito un teleutente non informato dai giornali (condizione piuttosto diffusa)? Poche cose, e sbagliate: ha intuito che la colpa è di Veronica e dei giornali di sinistra; nulla gli è stato detto delle tante veline e letteronze effettivamente destinate alla candidatura e rimosse solo a bufera coniugale scoppiata; nulla della spigliata fanciulla napoletana omaggiata di visita e gioielli dal Premier; nulla circa l’abitudine di quest’ultima di chiamarlo “papi”; nulla del padre di un'altra aspirante candidata arrivato a darsi fuoco per la promessa elettorale non esaudita dal Premier azzurro. Gli è stato detto, confusamente e implicitamente, che la “signora” aveva: biasimato voci assurde diffuse dai media; creato polemiche; chiesto il divorzio perché, come aveva spiegato il Premier, fuorviata dalla stampa di sinistra. Perlomeno, gli odiosi attacchi di Libero a Veronica Lario erano a viso aperto.
enzo@enzocosta.net
www.enzocosta.net

Repubblica 5.5.09
Presidi-spia, l´accusa di Fini "Sarebbe incostituzionale"
Maroni: giusto. Torna l´obbligo di denuncia antiestorsioni
Nelle scuole parte la protesta "Siamo educatori, non poliziotti"
Il no dei professori: una legge disumana e repressiva
di Caterina Pasolini


Al via una raccolta di firme tra i presidi: l´istruzione è un diritto, non possiamo negarla
"Non solo si danneggiano i ragazzini senza colpe, ma tutta la società"

ROMA - E una mattina all´improvviso le cattedre diventano barricate in difesa del diritto allo studio. Di tutti, italiani e stranieri, regolari e non. Contro il provvedimento del governo, dopo la protesta dei medici contrari all´obbligo di denuncia dei clandestini e che ieri hanno scritto a Fini perché lo cancelli, si allarga la protesta. Arriva la rivolta dei professori ben decisi a non diventare «presidi spia, perché noi siamo educatori non poliziotti», a caccia di bambini senza documenti regolari.
«Qui non si denuncia, si insegna», ripetono. Non hanno dubbi loro che conoscono la fatica di imparare per chi arriva da lontano, lo spaesamento di chi appare qualche giorno in classe e poi si perde nelle strade della città. Chi non ha genitori accanto che conoscano la lingua e lo aiutino a fare i compiti, chi viene sfruttato, chi ha in classe l´occasione per cambiarsi la vita. «Questo provvedimento, che prevede l´obbligo di denuncia se lo studente non ha il permesso di soggiorno, è inumano, repressivo, foriero di gravi disagi per la convivenza civile. Danneggia il minore, toglie un diritto», sbotta Armando Catalano, che rappresenta più di duemila presidi della Cgil che sul sito wwww. flcgil. it hanno cominciato a raccogliere firme all´insegna di «io educo non denuncio». Perché, ripete, le leggi sanciscono il diritto all´istruzione, stabiliscono che l´unico obbligo dei docenti è sottoporre i ragazzini ad una visita per le malattie infettive. «Mentre così non solo si danneggia il minorenne che non ha colpe, ma tutta la società: non verranno a scuola, non andranno in ospedale. Col rischio di una moltiplicazione dei contagi».
Minorenni puniti anche se incolpevoli, condannati a perdere l´occasione di costruirsi un futuro migliore, «L´istruzione è un diritto sancito dalla Costituzione, ma a parte questo educando i giovani li si toglie dalla strada, gli si dà una possibilità. Senza contare che gli insegnanti vedono se i bambini sono sfruttati, malmenati», dice Giuseppe Losio preside della scuola media milanese Quintino Di Vona. Lo sa bene Anna Sandi che più di una volta ha scoperto la «doppia vita» di alcuni suoi piccoli alunni alla scuola elementare al Lorenteggio. Dormivano nelle fabbriche dismesse lungo in Naviglio e nei giorni in cui sparivano dalla classe chiedevano l´elemosina alla stazione, lavavano i vetri per strada. «Se questo provvedimento è per proteggerli da chi li sfrutta bene, ma prima voglio leggerlo, e di una cosa sono sicura: io i minori stranieri li accetto, li iscrivo a scuola e non li denuncio solo perché clandestini».
Non vogliono denunciare ma come pubblici ufficiali, se passa il reato di immigrazione clandestina, rischiano di vedersi obbligati a farlo. Altrimenti scatta la denuncia penale. Come per i medici. «È da irresponsabili non cambiare la legge, già ora c´è stato un calo del 15 per cento di immigrati ai pronto soccorso. Qui si scherza col fuoco, con la salute di tutti. Un esempio? Abbiamo 4000 casi di tbc, il 30 % sono immigrati, se clandestini non verranno a curarsi e si espanderà il contagio, con problemi per tutti, italiani compresi», dice Massimo Cozza, segretario medici Cgil pronto a rivolgersi alla Corte costituzionale, a quella europea per tutelare il diritto alla salute.

Repubblica 5.5.09
Il chirurgo, e senatore del Pd: con il reato di clandestinità, conflitto fra obblighi e divieti
E Marino rilancia l´allarme-medici "Sono stretti fra norme diverse bisogna vietare ogni denuncia"
"Le presenze di immigrati negli ospedali sono già calate del 20% in un mese e mezzo"
di l.mi.


ROMA - L´allame di Ignazio Marino è fortissimo. Contro il reato di clandestinità e sui medici obbligati a tenerne conto e denunciare gli immigrati ammalati. Il famoso chirurgo e senatore del Pd, che presiede la Commissione d´inchiesta sul servizio sanitario nazionale, chiede al governo di scrivere espressamente che il medico non deve denunciare nessuno.
Fini ha fatto il miracolo sui presidi-spia, lei ne vuole un altro?
«Quel reato produce una ferita grave su due capisaldi della nostra società, sanità e scuola. Anche se è stato soppresso l´obbligo di denuncia per un paziente che si rechi in ospedale, con il reato il medico sarà stretto tra il divieto di segnalazione previsto dal testo unico sull´immigrazione e l´articolo 365 del codice penale che obbliga a redigere il referto e quindi, con esso, a denunciare la clandestinità».
Non vale la previsione dello stesso articolo che consente l´omissione di referto qualora ciò «esponga il soggetto assistito a procedimento penale»?
«Se nel referto scrivo che la persona ha la tubercolosi questo non è un reato, ma il documento porta con sé una denuncia in quanto lì è obbligatorio indicare le generalità. Se fosse incompleto farebbe emergere lo stato di clandestinità».
Nel ddl va scritto che il medico non deve denunciare?
«Va precisato con estrema chiarezza che, nonostante il reato, nell´ambito del servizio sanitario nazionale chiunque lavora in qualunque ruolo, funzione sanitaria o amministrativa, non deve denunciare situazioni di irregolarità relative alla cittadinanza o alla condizione di immigrato».
Sarebbe risolutivo?
«È sempre un pannicello caldo, perché mette riparo a un problema che sarebbe risolto eliminando il reato, un´ offesa grave alla Costituzione, almeno in campo sanitario».
È una posizione di principio o teme conseguenze?
«In Italia ci sono 4mila casi di tubercolosi, di questi il 28%, 1.200 persone, riguarda immigrati. Che se hanno paura, pur stando male, non andranno più al pronto soccorso».
Ciò per lei è contro la Costituzione?
«Va contro l´articolo 32 per cui il diritto alla salute non è del cittadino ma dell´individuo. Se si toglie l´assistenza medica si va contro la Costituzione. Con conseguenze gravissime. Nell´ultimo mese e mezzo, solo per l´effetto annuncio, gli immigrati negli ospedali sono calati fino al 20%. Che succederà con la legge?».

Repubblica 5.5.09
Riccardo Chieppa, presidente emerito della Consulta: "Salute e istruzione sono servizi essenziali che vanno garantiti a tutti"
La rivolta dei giuristi: "Un attacco alla Carta"
di Vladimiro Polchi


ROMA - «Un attacco ai principi fondamentali della Costituzione». «Una norma del tutto irragionevole». Tra i costituzionalisti suona il campanello d´allarme: i giuristi bocciano in coro i "presidi-spia" e plaudono all´intervento critico del presidente della Camera.
Riccardo Chieppa, presidente emerito della Consulta, non nasconde le sue «fortissime perplessità sulla ragionevolezza di una norma che di fatto nega la frequenza scolastica ai figli degli irregolari». Perché «salute (vedi medici-spia, ndr) e istruzione sono servizi essenziali che vanno garantiti a tutti». I dubbi di Gianfranco Fini sono condivisi anche da Stefano Merlini, costituzionalista a Firenze: «Il problema riguarda l´esistenza in Costituzione di uno statuto fondamentale della persona umana, che tocca tanto la tutela della salute quanto il diritto all´istruzione. E quando la Costituzione parla di persona umana non distingue tra cittadino e immigrato. Ebbene, nessuna norma può violare questo statuto anteponendo altri interessi seppure legittimi, come la tutela della legalità e dell´ordine pubblico. Per questo - prosegue Merlini - in base ai principi fondamentali della Costituzione, così come i medici non devono denunciare i pazienti clandestini, i presidi non devono segnalare gli alunni irregolari». Non solo: «Le eventuali norme sui medici o presidi-spia potrebbero essere portate davanti alla Consulta».
Di doppia illegalità parla Michele Ainis, docente di diritto pubblico a Roma. «Per fare emergere quella in cui versa l´irregolare, se ne genera un´altra: l´illegalità del minore che non può frequentare la scuola». Per Ainis, «c´è un principio di universalità dei diritti, ad eccezione di quelli politici legati alla cittadinanza: insomma, un irregolare non può certo votare, ma ha diritto all´istruzione e alla salute».

Corriere della Sera 5.5.09
Il sindaco leghista di Verona
Tosi: idee sbagliate L’unico diritto è la sopravvivenza
«Garantire l’istruzione vuol dire ammettere la possibilità di una permanenza senza limiti»
di Marco Cremonesi


MILANO — «Gli unici diritti inalienabili sono quelli che riguardano la sopravvivenza». Il sindaco di Verona, Flavio Tosi, 39 anni, non si stupisce della lettera scritta da Gianfranco Fini a Roberto Maroni riguardo l’iscrizione degli immigrati alla scuola dell’obbligo: «È una linea che conosciamo. Ma è pericolosa: se il sistema può assorbire un certo numero di persone, i messaggi che propongono aperture mettono a rischio il sistema».
L’istruzione non è un diritto primario?
«Non sarà bello da dire, ma la verità è che l’abbassare l’asticella dei requisiti crea situazioni insostenibili e inique».
In che senso?
«Io sono convinto che se una persona è malata ha il diritto di essere curata. Sempre. E con il freddo dell’inverno, le persone hanno diritto a un ricovero di emergenza per non morire di gelo. Ma riconoscere l’istruzione significa ammettere il diritto dei clandestini a una permanenza senza limiti. E poi, perché l’istruzione sì e la casa no? Perché non gli assegni famigliari?».
Giusto. Perché?
«Lo chieda a Fini. Certo, se si riconosce il diritto all’istruzione, non si vede come si possano negare tutti i diritti che gli stati mettono a disposizione dei loro cittadini».
Lei come si spiega la posizione di Fini?
«Sembra convinto di avere un peccato originale gigantesco. E per farlo dimenticare scavalca a sinistra la sinistra.

Repubblica 5.5.09
Dell´Utri: "Mussolini fu troppo buono i ragazzi di Salò partigiani di destra"
Il senatore Pdl: "La Rai è di sinistra, dovremo occuparla"
di Carmelo Lopapa


ROMA - Mussolini dittatore «troppo buono». Sue le leggi razziali anche in Italia, certo, ma in fondo qui erano «blande». E i suoi repubblichini, altro non erano che «partigiani di destra». Rieccolo, il solito, provocatorio, Marcello Dell´Utri. Bibliofilo ma soprattutto cultore di storia, da rivedere e correggere a suo modo, all´occorrenza. Il senatore siciliano risponde a tutto campo a Klaus Davi nell´intervista per il programma "Klauscondicio", lo stesso nel quale un anno fa, alla vigilia delle Politiche, aveva definito Vittorio Mangano, stalliere di Arcore, un «eroe». Stavolta il braccio destro di sempre di Silvio Berlusconi guarda anche all´imminente nomina dei vertici Rai per non escluderne, ironicamente, l´occupazione. «Perché no? Ma naturalmente speriamo di non doverla occupare. È in mano alla sinistra, non so come stia in piedi, un´altra azienda sarebbe fallita».
Idee chiare e tranchant, come sempre. Anche sulle polemiche e i veleni di questi giorni, storie del Capo, delle sue donne e del privato che finisce in politica. «Le veline laureate e preparate politicamente - sentenzia Dell´Utri - sono di gran lunga più apprezzabili di alcune tele-giornaliste, che non conoscono l´italiano». E comunque, alle prossime Europee il leader Pdl non sarà penalizzato, anzi, avrà un «plebiscito: più del 70%».
Ma a scatenare le prevedibili reazioni preoccupate, dal centrosinistra all´Udc, sono le riflessioni su fascismo e occupazione della tv pubblica. «Mussolini - è la tesi del senatore - ha perso la guerra perché era troppo buono. Non era affatto un dittatore spietato e sanguinario come Stalin». Dell´Utri ha letto e riletto i diari del Duce e confessa di aver trovato «Mussolini straordinario, di grande cultura». E non è stata affatto colpa sua se «il fascismo è stato un orrendo regime». Nella visione dellutriana, anche l´alleanza con Hitler non è stata voluta. E questo, precisa il parlamentare ancora sotto processo per concorso esterno, non per «fare dell´apologia del fascismo». Ma anche quella storia della persecuzione degli ebrei in Italia va ridimensionata, «nei suoi diari, Mussolini scrive che le leggi razziali devono essere blande». Come pure i ragazzi di Salò, in fondo: «Erano al 100% partigiani di destra, credevano in alcuni valori». Parole che finiscono per stridere con quelle che, sempre ieri, pronunciava il presidente della Camera Gianfranco Fini, parlando ai giovani della Luiss di Roma. Lui, i conti col passato li ha fatti. «Il no al fascismo e il sì ai valori della democrazia che An pronunciò a Fiuggi - scandisce - erano frutto di convinzione e non di convenienza».
L´opposizione accusa Dell´Utri di revisionismo e insorge. «È la conferma che il paese è a rischio: dicendo che la Rai va occupata, che Mussolini non era poi tanto male e che le veline sono meglio delle giornaliste Rai, Dell´Utri getta la maschera» accusa dal Pd Roberto Cuillo. Francesco Pardi, senatore Idv, lo invita a fare una visita in via Tasso a Roma (luogo delle torture delle Ss) «dove forse perfino lui sa che cosa succedeva al tramonto del regime». A definire «sconcertanti» le parole di Dell´Utri è anche l´Udc, con Roberto Rao, membro della Vigilanza Rai, preoccupato per l´ipotesi "occupazione": «Il cda saprà rispondere a questo tentativo con nomine autorevoli». La Federazione della stampa respinge l´insulto alle giornaliste tv e bolla come «ignorante chi vanta un dittatore o auspica occupazioni».

Repubblica 5.5.09
La grande paura
Nel suo ultimo libro Bertinotti fa autocritica, ma attacca Prodi: "Spregiudicato uomo di potere"
"Presunzione ed errori così la sinistra s´è sfracellata"
di Alessandra Longo


Alle elezioni 2008 non siamo stati credibili ma campagna elettorale con modalità squallide
Nell´ultimo governo c´è stata una sopravvalutazione delle nostre possibilità
Noi gente di sinistra viviamo nella paura che essa sia scomparsa dalla vita quotidiana

ROMA - Vivere nella paura: «Noi, gente di sinistra, viviamo nella paura». Paura «che la sinistra non ci sia più, che essa sia scomparsa non solo dal Parlamento e dai grandi media, ma dalla società, dalla cultura e perfino dalla vita quotidiana». Paura della «desertificazione», di quel paesaggio spettrale che lasciano le cose che finiscono, come in «una foresta i cui alberi sono stati sradicati uno a uno... «. Di questa «paura» parla, senza infingimenti, Fausto Bertinotti nel suo ultimo libro che esce a giorni ed è una lunga conversazione-sfogo con Ritanna Armeni e Rina Gagliardi. Titolo mutuato da "Itaca" di Kavafis: «Devi augurarti che la strada sia lunga» (Ponte alle Grazie editore). Tanto lunga, la strada, da poter sperare di rimontare, di rinascere. Bertinotti chiude con un´ultima pagina che, nonostante tutto, non ha il sapore della resa: «Abbiamo avuto due sinistre. Non ne abbiamo più nessuna. Dobbiamo provare a ricostruirne una».
Nessun complotto da denunciare, nessun vittimismo, semmai l´elenco degli errori, degli equivoci, per esempio nel rapporto di Rifondazione con l´ultimo esecutivo Prodi: «Ci siamo sfracellati, siamo andati a sbattere contro tutti i nostri limiti... C´è stata non solo una sopravvalutazione di noi stessi, insomma dei rapporti di forza, ma anche, di conseguenza, della possibilità di influenzare la compagine di governo, di cui entravamo a far parte». L´ex leader ripercorre le tappe della sua vita, da piccolo scolaro, curato nel vestire grazie ad una orgogliosa madre operaia, agli anni della Cgil, del libero e autonomo sindacato torinese, alla rottura con il Pds, oggi giudicata tardiva, fino alla spirale negativa, drammatica, dell´ultimo periodo, con il tonfo della Sinistra Arcobaleno, affondata anche per colpa delle «modalità perfino squallide con cui si è svolta la campagna elettorale». «Non siamo stati credibili», dice.
In una sola occasione Bertinotti perde l´aplomb, ed è quando gli si chiede un giudizio su Prodi. Ecco che cosa risponde: «E´ il leader politico che in questi anni ha avuto la peggior parabola politica discendente». Ad un primo Prodi, quello del ‘96, ancora «interessante» come interlocutore, con quel suo «riformismo cattolico, contagiato dal dossettismo, mescolato ad un impianto tecnocratico», ne fa seguito, secondo Bertinotti, un secondo Prodi, versione 2006, ormai «diventato uno spregiudicato uomo di potere». Cammeo davvero gelido. Nessun ricordo di contatti diretti nel periodo in cui uno era presidente della Camera e l´altro presidente del Consiglio: «Qualche volta - liquida Bertinotti - mi ha fatto sapere che avrebbe gradito un percorso agevolato per un provvedimento nei lavori parlamentari. Il che era ovviamente impossibile e gli è stato rifiutato». Prodi, dunque, simbolo dello «smacco complessivo», irreversibile, del centrosinistra, e forse per questo così crudamente evocato.
Non essendo una biografia, ma «un viaggio nell´educazione sentimentale» del protagonista, il libro segue, senza gerarchie rigide, ricordi e riflessioni. E´ fugace l´accenno al dramma del terrorismo, ai terribili Anni Ottanta di Torino e della Fiat. In quella cornice di sangue, i ricordi di Bertinotti si fermano piuttosto «sull´uso politico», in chiave antisindacale, che la Fiat fece «dell´insorgenza terroristica», su quel 9 ottobre 1979, quando 61 operai vennero licenziati perché accusati di essere «fiancheggiatori» o «pericolosi simpatizzanti» o semplicemente autori di «comportamenti del tutto indisciplinati in fabbrica». Il mondo stava cambiando, «erano cominciati gli anni Ottanta», le grandi ristrutturazioni aziendali, «il primato dell´interesse delle imprese su quello dei lavoratori». Solo un anno dopo, a Torino, sfilavano i colletti bianchi della marcia dei quarantamila.
Segnali da cogliere: il declino del movimento operaio organizzato, dell´unità sindacale. E poi l´89. Bertinotti dice di aver «sottovalutato» il nesso tra il «crollo del Muro» (comunque «liberatorio»), la ripresa di forza e di influenza del capitalismo e le difficoltà, che ne sono conseguite, per la sinistra e il movimento operaio». E´ un tornare indietro anche crudele, un rivedere alla moviola le occasioni perdute come appare, nel giudizio del suo ex leader, lo stesso partito della Rifondazione, da lui agganciato ai grandi movimenti no global, alla pratica della nonviolenza, e proiettato nel presente, con la scelta, non a tutti gradita, di liberarlo dalle residue scorie staliniste. E adesso? Adesso bisogna metabolizzare la sconfitta e ripartire con una proposta di società: «C´è sempre la necessità, per chi vuole cambiare il mondo, dell´attesa dell´evento, di ciò che cambia la scena senza esser stato prevedibile... Anche in politica c´è il tempo della semina. Ed è proprio per questo che devi augurarti che la strada sia lunga».

Repubblica 5.5.09
"Perché le torture?" così un bambino inchioda la Rice
Condi in imbarazzo tra gli alunni delle elementari
di Vittorio Zucconi


Il bimbo è parso poco soddisfatto della risposta dell´ex consigliere di Bush
Il piccolo si chiama Misha Lerner, figlio di immigrati russi, nove anni

WASHINGTON - I bambini. Sono sempre i bambini a scoprire che il re è nudo, anche se in questo caso nuda era la ex regina della diplomazia americana, Condi Rice, costretta a spiegare, senza successo, che cosa sia la tortura ai fanciulli.
Eppure, le insegnanti della quarta elementare raccolti nella Sinagoga di Washington erano state accuratamente indottrinate dal direttore, quando avevano saputo della visita che l´ex segretaria di stato Condoleezza Rice avrebbe fatto alle classi, e le maestre avevano preparato i bambini, preselezionando le domande che avrebbero potuto rivolgere all´illustre ospite, per non metterla in imbarazzo. Questa visita a una scuola elementare ebraica era la prima «rentrée» pubblica della Rice nella capitale che l´aveva vista per quattro anni al timone della politica estera nazionale, e altri quattro come massima consigliere per la sicurezza nazionale, al fianco del Presidente Bush, e dunque l´incontro con gli scolaretti voleva essere un ritorno morbido sulla scena.
Ma poi spunta il solito bambino, quello con la mano alzata fino a quando non gli danno retta. «Che cosa pensa delle cose che Obama sta dicendo dei metodi di interrogatorio usati dal Presidente Bush?» domanda Misha Lerner, figlio di immigrati russi, dall´alto dei suoi nove anni, sotto lo sguardo terrorizzato della madre e delle insegnanti che lo avevano convinto a non usare almeno la parolaccia proibita - «tortura» - come lui avrebbe voluto fare. Ma tutti, Rice per prima, avevano capito benissimo a che cosa alludesse e l´ex segretaria di Stato ha dovuto remare. «Il nostro dovere, carino, era quello di proteggere l´America dopo l´11 settembre», «fare tutto quello che si poteva fare», «ma niente che non fosse autorizzato dal Presidente e quindi legale». Poi, un po´ più lamentosa: «Spero che tu capisca, Misha, che tutta la nazione capisca che noi stavamo soltanto cercando di proteggere la nazione».
Misha si è rimesso a sedere, poco soddisfatto dalla risposta che non ha risposto, come poi dirà la madre, piccola voce bianca di una nazione intera che ancora cerca di capire perchè l´America «che non tortura», l´America che si immagina migliore del resto del mondo e immune da pratiche indecenti, abbia torturato quei prigionieri. E si chiedono se anch´essa possa scivolare nei comportamenti che sempre rimprovera agli altri, purchè i massimi dirigenti del governo dichiarino essere legale quello che legale non è, soltanto perchè così vogliono. E la Rice non sa davvero che cosa rispondere, oltre la formula classica del «lo abbiamo fatto per il vostro bene».
Pochi giorni prima dell´incontro con gi scolaretti delle elementari a Washington, aveva dovuto affrontare i meno teneri studenti dell´università di Stanford, in California, che l´avevano rosolata sul punto chiave del caso torture, sulla falsa dottrina, cara a Bush, della legalità definita dal sovrano. La tesi del «tutto ciò che è presidenziale è legale» sostenuta dalla Rice a Stanford e poi ripetuta ai bambini, non convince, fa paura, in una nazione che ancora crede ai limiti del potere esecutivo e che ricorda come questa fosse stata esattamente la «dottrina Nixon» quando cercava di salvarsi dal processo di impeachment e dalle dimissioni forzate.
Non persuade neppure Obama e i suoi, che si contorcono in questi giorni fra la rivelazione delle torture inflitte ai prigionieri, certamente illegali, e il timore di aprire una Norimberga, un processo formale a chi le volle, come Bush e il suo burattinaio Cheney, a chi le accettò e le fece passare, secondo la classica formula dell´»ubbidire agli ordini», come la Rice o il direttore della Cia Goss, riaprendo una piaga infetta. «Il passato è passato, non camminiamo con la testa voltata all´indietro» invocava Peggy Noonan, una delle voci più moderate della generazione reaganiana, mentre Dick Cheney, l´oscuro principe del regno Bush, è tornato inopportunamente a ringhiare in pubblico per difendere quella pratiche di interrogatorio, come l´annegamento simulato, il waterboarding già entusiasticamente praticato dai Santi Inquisitori su eretici e marrani, che sono inequivocabilmente torture.
Quello che in realtà tutti vorrebbero, dal team Obama agli ex bushisti meno fanatici come la Rice, sarebbe ammettere il peccato ma senza mandare al rogo i peccatori, voltare pagina, giustificarsi con lo stato di emergenza e di panico nelle ore dopo l´11 settembre. Ma ci sono sempre i bambini, come Misha, o i vecchi che si comportano da bambini, come il capriccioso Cheney, che non vogliono star buoni e scuotono gli scheletri dagli armadi. Alla fine della visita alla scuola elementare, la Rice è andata a cercare quel bambino che l´aveva messa in difficoltà come mai neppure i Putin, gli Chirac o i Blair avevano fatto e ha voluto farsi fare una foto con lui, che sorrideva imbarazzato, ma poi l´ha abbracciata, perchè nove anni sono nove anni.

Corriere della Sera 5.5.09
Aribert Heim. E’ uno dei dieci grandi latitanti del Terzo Reich
Il giallo del Dottor Morte «E’ ancora vivo, in Cile»
Il centro Wiesenthal: «Falsa la scomparsa in Egitto»
di Guido Olimpio


WASHINGTON — Non c’è una cartella odontoiatrica per fare un raffronto. Non esistono resti umani su cui eseguire il test del Dna. E, co­me per Osama Bin Laden, va­le la frase: «Non considerare un umano deceduto fintan­to che non vedi il suo corpo. E anche in quel caso puoi fa­re un errore». Parliamo di Aribert Heim, il «Dottor Mor­te », il criminale di guerra nazi­sta responsabi­le di orrendi esperimenti sui prigionieri nei lager di Mau­thausen, Sach­senhausen e Bu­chenwald. E’ davvero crepa­to oppure, al­l’età di 85 anni, rimane uno dei dieci grandi latitanti del Terzo Reich?
Un’inchiesta giornalistica, pubblicata in febbraio, ha concluso che Heim sarebbe spirato nell’estate del 1992 in Egitto. E ciò è quello che ha ripetuto la sua famiglia sostenendo che il loro con­giunto era arrivato al Cairo dopo una lunga fuga. Dalla Germania alla Francia, dal Marocco alla Libia, infine l’Egitto dove aveva abbrac­ciato la fede islamica e si fa­ceva chiamare Tarek Farid Hussein. I reporter scovano anche una valigia con docu­menti, certificati, carte. Pre­sunte prove del suo soggior­no egiziano.
Ma lo scoop giornalistico non ha chiuso il giallo. Efra­im Zuroff, responsabile del Centro Wiesenthal, impe­gnato da anni nella caccia agli ultimi nazisti, ha un’al­tra idea. La sua tesi è che il criminale potrebbe essere ancora vivo o comunque non sarebbe deceduto in Egitto. C’è la possibilità che Heim si nasconda in Cile. Se­gnalazioni raccolte nel Con­tinente americano sembra­no confermarlo. E oggi il so­spetto di Zuroff è condiviso, come ha rivelato il settima­nale Spiegel, dalla polizia te­desca. Un cambio d’opinio­ne significativo. Gli investi­gatori, a febbraio, avevano giudicato fondate le conclu­sioni del New York Times e della tv tedesca Zdf che ave­vano svelato la presunta morte di Heim al Cairo. I fun­zionari della Divisione Cri­minale del Baden-Württem­berg hanno raccolto nuove informazioni sul network, con appoggi in Svizzera e Usa, che ha garantito al fug­giasco un flusso continuo di denaro. Soldi usati per vive­re ma anche per rimediare a un «buco» creato da un inve­stimento finanziario finito male in Egitto.
Il Centro Wiesenthal, con l’aiuto dei membri delle co­munità ebraiche sparse per il mondo, e le autorità tede­sche hanno allora ripreso a indagare «in ogni direzione». Zuroff afferma che la storia egiziana «è troppo perfetta» per essere vera. E non è un ca­so che sia emersa dopo un an­no durante il quale i cacciato­ri hanno riempito il dossier sul criminale con nuovi dati. Una serie di indizi che hanno permesso di concentrare le ri­cerche in Spagna e Sud Ame­rica. Il Centro Wiesenthal, poi, cita una circostanza stra­na.
Un avvocato tedesco ha presentato una richiesta di esenzione fiscale per conto di Heim nel 2001, — ossia 12 anni dopo la sua presunta morte — precisando di esse­re «in contatto con il mio cliente, che vive all’estero». Questo, sottolinea Zuroff, di­mostra che la famiglia ha mentito. Il figlio del nazista replica negando l’esistenza di quella pratica. La rabbiosa reazione di ambienti neonazi­sti americani con appelli alla solidarietà per il camerata svela legami pericolosi.
Chi insegue Heim deve di­stricarsi tra dritte buone e false. Un conto corrente an­cora attivo portava a guarda­re in Spagna. Vecchie compli­cità di camerati spingevano a cercare negli ambienti del­la destra sudamericana, sem­pre accogliente con i gerar­chi. Trame da film di ex spie israeliane raccontavano al­tro: è stato rapito in Canada, sostenevano, poi ucciso al largo della California. Zuroff studia, verifica, cerca. E’ con­sapevole che è rimasto poco tempo e vorrebbe vedere He­im in una cella prima che la morte lo faccia sparire per l’ultima volta.

Repubblica 5.5.09
Watson: usiamo il Dna per migliorare la specie
di Elena Dusi


Nel 1953 James Watson scoprì il Dna. Oggi continua a guardare avanti. Nei prossimi 10 anni, assicura, la genetica «ci darà terapie più efficaci contro il cancro». Per poi rilanciare sull´eugenetica: «Se aggiungere tre o quattro geni servirà a renderci più sani e intelligenti dobbiamo farlo».
A 50 anni dalla scoperta, la ricerca sembra fermarsi. "Ma è solo questione di tempo, vedrete". Parola del "padre del genoma": Watson

A dieci anni dall´annuncio del sequenziamento del genoma umano, i supercomputer macinano dati ma la ricerca sembra fermarsi. Il Nobel James Dewey Watson, scopritore della doppia elica del Dna, però è ottimista: "Abbiamo allungato di parecchio la vita e migliorato la sua qualità. Le cure arriveranno"

"Presto ognuno di noi potrà avere il profilo completo del suo genoma per mille dollari"
A breve la genetica ci farà conoscere l´essenza del cancro, potremo agire con efficacia

Quasi dieci anni dopo, il responso è scritto sulle colonne di Nature da un gruppo di ricercatori delle università di Houston, Stanford, Texas e Alberta: «Nonostante l´enorme valore scientifico della ricerca fatta, le nuove tecnologie hanno solo un impatto marginale per la cura delle malattie nella popolazione».

Sgrana gli occhi Watson, a chi gli chiede un bilancio della scienza che è stata sua compagna per più di 60 anni: «Siamo riusciti ad allungare la vita umana tanto, e a migliorarne enormemente la qualità. Come possiamo essere insoddisfatti?». Il freno all´entusiasmo, nella comunità scientifica, nasce dalla consapevolezza che la stele di Rosetta del linguaggio della vita sia più complessa del previsto. All´inondazione di dati sfornati dai computer la nostra comprensione non ha sempre saputo far argine. E la sequenza fluviale di lettere A, T, C e G che si alternano nel Dna di ciascun vivente può dare l´impressione che il libro della vita sia piuttosto un labirinto.
«Siamo molto più complessi di quanto prevedessimo» ammette Watson, che è in Italia per annunciare la sua partecipazione alla quinta conferenza mondiale "Il futuro della scienza", dedicata quest´anno alla "rivoluzione del Dna". L´appuntamento con il convegno organizzato dalle fondazioni Giorgio Cini, Silvio Tronchetti Provera e Umberto Veronesi, che si occupa ogni anno di un tema scientifico che ha particolari riflessi sulla società, è fissato a Venezia tra il 20 e il 22 settembre. «L´idea che a un gene corrisponda la produzione di una singola proteina - spiega Watson - è superata. I frammenti di Dna operano in combinazione fra loro, e queste reti non sono facili da ricostruire. Ma i costi dei computer usati per il sequenziamento stanno crollando. Presto ognuno di noi potrà avere il profilo completo del genoma per mille dollari. A quel punto la scinza non sarà più avara di notizie bomba».
Saranno i tumori, secondo il premio Nobel del 1962, il primo campo della medicina a beneficiare della rivoluzione tecnologica che sta abbattendo i costi della genetica. «È grazie agli studi sul Dna che già oggi conosciamo le cause del cancro a livello molecolare. Nei prossimi dieci anni le diagnosi basate sulla genetica ci faranno penetrare fino in fondo nell´essenza del cancro, dandoci terapie più efficaci. Nel nostro obiettivo ci sono cellule dalla natura così particolare come le staminali».
Maria Ines Colnaghi, direttrice dell´Associazione italiana per la ricerca sul cancro che collaborerà alla conferenza di Venezia con un simposio su tumori e genetica, fa il punto sui benefici concreti della ricerca sul Dna nella cura del cancro. «Già oggi sappiamo individuare le persone con particolari geni che hanno una predisposizione alta ad ammalarsi di cancro. I tumori ereditari coprono circa il 10% del totale dei casi. Controlli costanti, prevenzione a base di farmaci e diagnosi precoce permettono di tenerli a bada. E a ogni paziente negli istituti oncologici italiani viene fornita una diagnosi molecolare per individuare la cura migliore».
Nonostante i primi risultati concreti nell´affrontare i tumori, il campo dove le attese sono più grandi - quello dell´oncologia - è anche quello dove il labirinto del genoma fa girare di più la testa ai ricercatori. Non uno ma circa una decina di geni danneggiati sono alla base della malattia. E questi frammenti di Dna, smentendo gli ottimisti, si sono rivelati molto variabili tra un caso di malattia e l´altro. Invece di avere un´alterazione frequente in una decina di geni, molte forme di cancro mostrano alterazioni rare sparse in centinaia di frammenti diversi del Dna. La rete dei rimandi fra un gene e l´altro è ancora troppo complessa per essere maneggiata e sta avvolgendo le speranze di trovare nuove cure in un bozzolo da cui uscire è difficile.
Per ricostruire questo puzzle con troppi pezzi, si fa ricorso oggi alla potenza delle macchine: sequenziando migliaia di cellule tumorali alla volta si spera con la forza dei numeri di trovare la chiave che accomuna le varie forme di cancro. Ma i costi sono alti, e una serie di articoli sul New England Journal of Medicine un mese fa ha accusato questo approccio di essere tutto muscoli e poco cervello. «L´informazione che se ne ricava - ha scritto il genetista della Duke University David Goldstein - è di scarsa o nulla utilità dal punto di vista clinico».
Serve un colpo di reni, concorda Watson. «La scienza è perseveranza, ma ha anche bisogno di eroi. L´ultimo è stato Jonas Salk, inventore del vaccino della polio. Oggi i ricercatori sono troppo legati alle industrie farmaceutiche, ma credo lo stesso che un nuovo eroe spunterà». Troppo importanti sono i benefici che la genetica può offrire alla nostra specie. «Non dobbiamo avere paura di entrare nell´ignoto - dice uno Watson che non è nuovo alle polemiche e non ha mai fatto mistero del suo favore per l´eugenetica - e se aggiungere tre o quattro geni al Dna servirà a renderci più sani e intelligenti, dobbiamo farlo. L´ingegneria genetica migliorerà gli animali e le piante che ci nutrono. La specie umana è sopravvissuta perché si è continuamente evoluta. Dobbiamo usare gli strumenti a nostra disposizione, non fermarci qui».
L'uomo che oltre 50 anni fa scrutò il codice della vita, è anche stato il primo nel 2007 a leggere il suo Dna sequenziato dalla prima all´ultima lettera. «Ora è su internet, non ho avuto paura di renderlo pubblico per il bene della conoscenza». Al suo interno ha trovato molte informazioni utili. «Il mio metabolismo alza la pressione sanguigna. Sapendolo, sto molto più attento». Ma di fronte a un dato ha preferito fermarsi. «Non voglio sapere se ho la predisposizione all´Alzheimer» dice alzando le mani. «Non serve a niente avere notizie spiacevoli, se non si può fare niente per prevenirle» ammette perfino un ottimista della scienza come lui, capace sempre di afferrare le luci e scansare le ombre.

Repubblica 5.5.09
Le promesse del genoma
di Umberto Veronesi


Per Umberto Veronesi la conoscenza dei geni ha già dato risultati straordinari in medicina
Tumori e malattie ereditarie ecco le terapie della speranza
Ma la genomica apre il dibattito su questioni etiche che la società deve affrontare

La scoperta del Codice della Vita nel Dna, annunciata da Craig Venter nel giugno del 2000, rappresenta la più importante rivoluzione non violenta della storia recente. Oggi, all´affacciarsi dei dieci anni da quel giorno, la strada del Dna appare segnata nel pensiero senza via di ritorno e le prime applicazioni ci confermano che le potenzialità per il bene dell´uomo sono davvero straordinarie. Per esempio il trasferimento genico ha dato un gran contributo alla medicina.
Per l´uomo, dalla conoscenza dei geni delle malattie ereditarie si è sviluppata la medicina predittiva in grado di evitare l´insorgenza stessa delle malattie. Abbiamo la possibilità di effettuare diagnosi preimpianto e diagnosi prenatali che offrono l´opportunità anche a chi è portatore di una malattia genetica di non trasmetterla ai propri figli, salvando esistenze straziate da patologie devastanti. Abbiamo fatto progressi rilevanti nello studio di queste malattie fino a ieri senza speranza, per le quali si apre lo spiraglio della terapia genica, e delle patologie degenerative, per le quali la clonazione delle cellule staminali embrionali, già sperimentata negli animali, è oggi la più realistica prospettiva di salvezza.
Nella lotta al cancro, il Dna ha aperto nuove possibilità di ricerca molto concrete. Se è vero che la causa dei tumori è al 90% nell´ambiente, è vero anche che i fattori ambientali creano un danno al Dna, che può essere riparato. Oggi possiamo conoscere il profilo genico delle cellule tumorali, informazione molto preziosa per la diagnosi precoce e per le terapie personalizzate. È nata infatti la farmacogenomica che si occupa della creazione di farmaci meno tossici, che abbiano come bersaglio esclusivo le cellule tumorali, in quanto hanno un genoma alterato.
Già ce ne sono in uso almeno una decina, anche in combinazione con i farmaci tradizionali. Ancora i geni sono la piattaforma di studio per la nutrigenomica, la scienza che indaga come combinare il profilo genetico individuale con i cibi, per arrivare a un´alimentazione protettiva per le principali malattie, o addirittura terapeutica. Oppure per la medicina forense, che con l´esame del Dna, aiuta la giustizia ad identificare gli autori dei crimini.
Tutto questo non impedisce che il mondo inizi a chiedersi se le aspettative di dieci anni fa circa la rivoluzione del Dna siano state in parte disattese e se le grandi promesse di malattie sconfitte e calamità debellate, rimarranno tali. Io credo di no. Perché in realtà sono tante le conquiste del Dna e una sola la colpa: di aver infranto nelle menti il mistero affascinante delle nostre identità, del nostro corpo, del nostro carattere, della nostra e delle altre vite. Un duro colpo inferto all´intero sistema culturale che per secoli ha retto il mondo più evoluto. E c´è una colpa anche di noi uomini di scienza, che abbiamo sinceramente pensato che l´accelerazione della ricerca scientifica sarebbe stata fortissima e immediata.
Abbiamo fatto male i conti, però, con i freni degli investimenti - la ricerca genomica si basa su tecnologie costosissime e non facili da applicare - e, appunto, con quelli del pensiero. Il messaggio sconvolgente della decodifica del genoma è infatti che, per l´uomo come per un virus o la mosca, un elefante un filo d´erba, la vita ha lo stesso primo punto di partenza: quella identica struttura del Dna, formata da quattro basi azotate, che si comportano come le quattro lettere (a,c,g,t) di un alfabeto semplicissimo, e che, combinandosi fra loro, scrivono il libro della vita, qualsiasi forma di vita.
Come conciliare questa realtà con l´idea di un uomo Signore dell´Universo, unica creatura a immagine e somiglianza di Dio? E, poiché se tutti i geni degli esseri viventi sono uguali , allora si possono trasferire da un organismo all´altro ( da un uomo ad un altro uomo , ma anche da un uomo a una pianta o a un batterio) quale etica spiegherà che l´uomo è in grado di intervenire su ogni forma di vita, anche la sua, fino a crearla artificialmente o riprodurla per clonazione? La possibilità di conoscere e modificare la struttura biologica pone la società di fronte a responsabilità pesantissime e le prime ricadute pratiche della rivoluzione del Dna hanno già provocato fratture profonde. Pensiamo ai vincoli alla fecondazione assistita, imposti in Italia agitando lo spettro dell´eugenetica , o allo stop alla ricerca sulle cellule staminali embrionali in molte parti del mondo, che solo recentemente il presidente Obama ha cancellato.
Se dunque, dopo dieci anni, la scienza, pur fra ostacoli e battute d´arresto, non ha dubbi sulla via del Dna, molto più incerta è la società. E il problema non è quel farmaco mai arrivato al malato o quella nuova cura non ancora realizzata, ma un disagio più profondo che deriva dall´incapacità di elaborare un nuovo sistema di pensiero e valori, che tenga conto del fatto che l´uomo ha poteri diversi, più estesi, sulla vita e sulla morte Per questo il vero dibattito sulla genomica nei prossimi dieci anni non è una questione scientifica, ma dovrebbe scendere nell´agorà, entrare nelle famiglie, essere oggetto di dialogo fra genitori e figli e di confronto fra opinioni e generazioni diverse. La Conferenza di Venezia sul futuro della scienza, "The Dna Revolution", incentrata sui problemi etici, sociali e filosofici legati alla rivoluzione del Dna, vuole essere un contributo in questa direzione.

Corriere della Sera 5.5.09
Incapacità di decidere, agire e darsi uno scopo: i temi di «Hamletica» in uscita da Adelphi
Shakespeare, Kafka, Beckett Tre miti per capire il mondo
L’analisi di Cacciari sul «brancolamento» dell’uomo d’oggi
di Armando Torno


Chi era Amleto? Per noi fu il principe di Danimarca, testi­moniato nel dramma dal­l’omonima tragedia di Shake­speare. Tuttavia, chi volesse cercarne le origini rischierebbe di perdersi in un la­birinto medievale. Ecco il nome, per li­mitarci a qualche esempio, nelle gesta di Re Horn (siamo intorno al 1250); ed eccolo in un documento irlandese, gli Annals of the Four Masters. Nella secon­da parte dell’Edda si attesta una saga islandese di Amlodhi o Amled della fine del X secolo.
Massimo Cacciari nella sua nuova opera, Hamletica (Adelphi, pp. 144, e 18), offre una soluzione per i nostri gior­ni: Amleto vive il dramma dei politici. Come dargli torto? Del resto, allorché nell’opera di Shakespeare dichiara al­l’ombra del padre di essere «prigioniero delle circostanze e della passione» (così i meglio informati traducono quel lap­sed in time and passion nella quarta sce­na del terzo atto), la sua figura riflette i problemi della categoria di cui ha co­minciato a far parte. Cacciari, però, non ha scritto un’ese­gesi delle dichiarazioni del principe: in Hamletica ha riunito i tre grandi miti dell’«ontologica insicurezza» dell’Occi­dente contemporaneo, osservandoli — oltre che in Shakespeare — in Kafka e Beckett. Essi consentono di comprende­re e decifrare il «brancolamento» attua­le della Terra e il tramonto di ogni No­mos, di tutte le leggi che hanno caratte­rizzato i ruoli, le immagini, i linguaggi. Se Amleto — profetica anticipazione di quanto viviamo — ora è il politico «co­stretto a obbedire alla logica dei fatti », che si dibatte nel dubbio e «marchia ogni sua azione di incompiutezza», l’agrimensore K., il protagonista de Il ca­stello, rivela l’uomo che non ha più pos­sibilità di azione. Su di lui i fatti pesano. È lo straniero nel quale l’agire «si mani­festa così perfettamente prigioniero del­l’ordine dei fatti da rendere inconcepibi­le il timbro stesso della decisione».
E Beckett? Egli mostra l’azione priva di qualunque fine, che ripete se stessa, senza uno scopo. Perché? Per compren­dere quanto sta accadendo si può co­minciare da una intuizione di Bonnefoy, consegnata a uno dei Racconti in sogno (edizioni Egea), dove si immagina l’arti­sta dell’ultimo giorno: «Il mondo stava per finire», scrive il poeta francese, giac­ché «l’insieme delle immagini prodotte dall’umanità avrebbe superato il nume­ro delle creature viventi». Succede in­somma che l’equilibrio tra la vita e il sembrare dei segni potrebbe spezzarsi e non ci sarà ritorno, poiché — sottolinea Cacciari — le immagini stanno com­piendo il proprio destino: «Sommerge­re la vita, trasporre il mondo nel multi­verso dei linguaggi». Già, i linguaggi. Credevano di spiegarlo e possederlo questo nostro mondo.
E cosa può fare l’artista dell’ultimo giorno? Trattiene la mano, la sua opera è indugio; cerca, sperimenta, vuole puri­ficare l’immagine affinché cessi di esse­re «la rivale illecita di ciò che esiste». Si dibatte, spinge la parola al silenzio, infi­ne potrebbe assumersi il compito di «farla finita». Il mondo reale e il suo «il­lecito rivale», forse a loro volta apparen­ze, lasciano allora spazio a infinite do­mande. Ne scegliamo una, tra quelle for­mulate da Cacciari: «Si risveglierà il nau­seante gioco delle rappresentazioni, ma­gari nella forma della dissacrante iro­nia? ». Beckett non è la risposta ma si presenta, collocandosi oltre l’artista del­l’ultimo giorno. Per lui questo significa «oltre Joyce» (ma è un «oltre» che suo­na come l’opposto di «oltrepassare», giacché «ora è possibile procedere solo ritirandosi» ).
Cacciari ricompone in Hamletica un tormentato dialogo a frammenti tra questi autori. Nelle sue pagine proseguono le ricerche sulla storia consegnate a Geo­filosofia dell’Europa e all’Arcipelago, nonché a quelle sul rapporto tra nihili­smo e linguaggio del mistico che sono il filo rosso in Dell’inizio e Della cosa ulti­ma.
Bergson, riprendendo un’antica intui­zione, scrisse che un uomo con gli abiti del comico può dirci che c’è la nebbia, mentre il poeta racconta cosa c’è oltre di essa. Cacciari, tra i molti scenari esa­minati, ci ricorda che l’esito possibile delle situazioni delineate è il comico.

Corriere della Sera 5.5.09
Un saggio ricostruisce amicizia e malumori tra i pittori. «La causa? Litigarono per una donna»
Fu Gauguin a tagliare l’orecchio di Van Gogh
L’ipotesi di due studiosi riapre il caso
di Stefano Bucci


I critici
Flavio Caroli: «È possibile, tra i due c’era tensione». Marco Goldin: «Un’ipotesi come un’altra». Vittorio Sgarbi: «Versione credibile»

Un accordo segreto, ma anche la prova tangibile di un’amici­zia al tempo stesso profonda e complicata tra due giganti del­­l’arte, Vincent Van Gogh (1853-1890) e Paul Gauguin (1848-1903). Il saggio di Hans Kaufmann e Rita Wildegans appena uscito in Germania (L’orecchio di Van Go­gh, Paul Gauguin e il patto del silenzio, Osburg Verlag, pp. 392, e 23) certo propo­ne un’interpretazione inedita di un fatto notissimo: non sarebbe stato Van Gogh a tagliarsi l’orecchio nella notte tra il 23 e il 24 dicembre 1888, ad Arles, ma sarebbe in­vece stato Gauguin a ferire l’amico al ter­mine di un litigio, forse non per motivi ar­tistici, ma piuttosto per colpa di «una cer­ta Rachele».
Non solo: il saggio (corollario ideale al­la mostra Van Gogh. Tra terra e cielo in corso al Museo d’arte di Basilea, dove ver­rà presentato e discusso il 17 giugno) con­ferma il legame tra Vincent e Paul e quella tensione, mista a gelosia, che accomunava i due. Una tensione che il critico Flavio Ca­roli definisce «ben avvertibile già a partire dall’inverno del 1886, che sembrava nasce­re dalla gelosia di Van Gogh per l’amico più 'forte' e che vedeva come terzo inco­modo il giovane Émile Bernard». Secondo Caroli l’interpretazione di Kaufmann e Wil­degans «è possibile», anche perché di quell’evento non ci sono documenti certi: «Se non quelli ufficiali del sindaco di Ar­les, la petizione dei cittadini che non vole­vano quel pittore così scomodo e il reso­conto della polizia di un Van Gogh che si presenta in un bordello con il suo orec­chio avvolto nella carta di giornale».
I due ricercatori tedeschi sostengono che «l’automutilazione di Van Gogh non è mai stata provata» e che, di fatto, «l’unica testimonianza accertata è quella di Gau­guin ». Che ne parla ampiamente nel libro Avant et après del 1903 e che, forse non per caso, dopo l’incidente sarebbe precipi­tosamente ritornato a Parigi per poi fuggi­re a Tahiti. Gauguin avrebbe mozzato il lo­bo dell’orecchio di Van Gogh con una scia­bola, che poi avrebbe gettato nel Rodano, al termine di un litigio «su una prostitu­ta », Rachele appunto (e non su problemi d’arte) mentre l’amico avrebbe taciuto per proteggerlo (più tardi i due si sarebbero anche scritti). La mattina del 24 la polizia avrebbe poi trovato un uomo con il volto insanguinato e l’avrebbe fatto ricoverare in ospedale.
Scrivono Kaufmann e Wildegans: «La versione tradizionale, quella finora accre­ditata, è basata solo su affermazioni senza prove e sul racconto di Gauguin, che non sarebbe nemmeno stato presente al fatto, un racconto pieno di contraddizioni e di punti oscuri. Non esiste un’inchiesta uffi­ciale e nemmeno un testimone indipen­dente. Van Gogh, per parte sua, non ha mai confermato niente». Di fatto, secondo questa tesi, viene a crollare l’idea di un’au­tomutilazione che avrebbe anticipato il suicidio di Van Gogh, sette mesi più tardi, nella casa del Dottor Gauchet.
Dunque, nessuna nuova prova. Eppure questa lettura può essere convincente. An­che per Marco Goldin, storico dell’arte e organizzatore di mostre (la sua più recen­te, quella dedicata a Van Gogh al Museo di Santa Giulia a Brescia, ha collezionato ol­tre 200mila visitatori in 111 giorni): «So­no stupito, ma può essere una lettura co­me un’altra. Certo, il fatto che quel litigio non fosse legato all’arte, ma a una donna, era abbastanza noto» (un fatto che con­traddice la tesi a suo tempo proposta da Bataille e Artaud che videro nell’automuti­lazione di Van Gogh «il simbolo della fol­lia come base dell’arte moderna»). Vitto­rio Sgarbi, curatore della mostra Arte, ge­nio, follia in corso a Siena a Santa Maria della Scala (fino al 25 maggio), che vede Van Gogh tra i suoi protagonisti, confer­ma: «Quella dell’automutilazione è una leggenda, per cui anche quest’altra ipotesi può essere valida». Certo è che, al di là del­l’orecchio tagliato di Van Gogh, sorprende come gli impressionisti continuino ad atti­rare l’attenzione. Così, mentre per Einaudi esce in Italia il libro di Cyntia Saltzmann sul Ritratto del Dottor Gauchet («Storia e avventura di un capolavoro»), dall’Inghil­terra arriva il saggio di Philip Hook The ul­timate Trophy (Prestel), ovvero «come gli impressionisti hanno conquistato il mon­do » grazie a un mix di semplicità e di pit­tori intriganti come star. Non a caso, nel 1956, a Hollywood su Van Gogh avrebbe­ro girato addirittura un film (regista Vin­cent Minnelli) con Kirk Douglas. Che, in quel caso, si sarebbe tagliato da solo l’orec­chio. Ma fuori scena.

Terra, 5.5.09
Karl Löwith: una vita da filosofo in bilico tra Dio e il nulla
di Noemi Ghetti


In libreria il libro di Orlando Franceschelli, docente di Teoria dell’evoluzione e politica alla Sapienza di Roma, nel quale si ripercprre il pensiero di una delle figure più significative del panorama intellettuale del XX secolo

Formatosi alla scuola di Husserl e di Heidegger, nel 1936 fu drammaticamente costretto a lasciare, in quanto ebreo, la Germania nazista.

Una vita intera spesa alla ricerca di un nuovo umanesimo, o meglio di una visione naturalistica della realtà umana, riscattata dalla falsa alternativa di un’esistenza meramente apparente, sospesa tra il creazionismo biblico e quella forma di «teologia senza dio» che è il nichilismo moderno. Da questa prospettiva in Karl Löwith. Le sfide della modernità tra Dio e il nulla (Donzelli Editore) Orlando Franceschelli, docente all’università La Sapienza di Teoria dell’evoluzione e politica, ripercorre le tappe fondamentali della vicenda del filosofo tedesco, che è stato una delle figure più significative del panorama intellettuale del XX secolo. Formatosi alla scuola di Husserl e di Heidegger, nel 1936 fu drammaticamente costretto a lasciare, in quanto ebreo, la Germania nazista, rifugiandosi in Giappone e poi negli Stati Uniti. Vi ritornò nel 1952, per insegnare filosofia ad Heidelberg, dove morì nel 1973, lasciando opere come Da Hegel a Nietzsche, Nietzsche e l’eterno ritorno e Il nichilismo europeo, che sono divenute dei classici della storia della filosofia.
Una lettura di attualità, nel momento in cui la concezione naturalistica del mondo e dell’uomo, convalidata nell’Ottocento dalla teoria dell’evoluzione di Darwin e ormai largamente acquisita nella mentalità comune, è sotto l’attacco del neointegralismo cattolico, che tenta di negarle ogni plausibilità scientifica ed etico-politica. O più sottilmente di annettersela, inquadrandola all’interno della cosiddetta «teologia evoluzionistica» del Disegno intelligente, come accadde nell’età romantica con l’idea hegeliana di un Progresso della storia governato da un disegno provvidenziale: in palese contraddizione con lo spettro, da sempre evocato dalla Chiesa, che la concezione naturalistica priverebbe l’uomo di qualsiasi dignità e possibilità di salvezza.
Il problema di fondo del creazionismo giudaico-cristiano, secondo Karl Löwith, è la svalutazione della «naturalità» del mondo, prima radice di ogni nichilismo. Filosofo della scepsi per autodefinizione (dove la parola è usata per indicare «l’incertezza del nostro sapere»), dichiarò esplicitamente che coloro, che non possono sopportare questa incertezza, sono pronti ad accettare tutte le varie forme di religiosità, e si servono della filosofia come surrogato della religione.
La filosofia di Ludwig Feuerbach e quella di Friedrich Nietzsche ebbero una grande rilevanza nella sua formazione. Di Feuerbach mise in luce il «salto» oltre Hegel (e anche oltre Marx) nel rivendicare la positività del mondo sensibile, «autentica fuoriuscita dal carcere della filosofia della riflessione», grazie alla quale l’uomo totale, in carne e ossa, torna ad essere il fondamento reale di ogni attività e dimensione della vita, riappropriandosi delle qualità («predicati») che ha alienato nella divinità. La scoperta di Feuerbach della dinamica dell’alienazione religiosa è secondo Löwith fondata su questa rivalutazione della corporeità e della sensatezza della realtà naturale. Ma è con Nietzsche, egli sostiene, che l’ateismo riesce ad accompagnarsi alla proposizione di «una seconda forma di innocenza», riscattando il mondo a se stesso: la critica del cristianesimo nietzscheana supera il nichilismo, cioè elimina la prospettiva teologica che questo mondo sia apparente, e pone le basi per la possibilità della «trasvalutazione dei valori». Ma l’avvento del nazismo nel 1933, e il feroce disinganno per l’opzione di Heidegger a favore di Hitler, resero contestualmente manifeste anche le carenze della ricerca nietzscheana.
Ripercorrere le tappe dell’apprezzabile tentativo di Karl Löwith è una conferma che per quella totale «trasformazione e dissoluzione della teologia in antropologia», in cui Feuerbach ravvisava il compito dell’età moderna, era necessaria la scoperta della nascita del pensiero come immagine dalla realtà biologica. La sfida per l’affermazione di questa nuova idea di realtà umana si propone oggi con la massima urgenza, se pensiamo all’incalzare delle questioni bioetiche e al rinnovato protagonismo della religione nella sfera pubblica e privata.
Particolarmente utile in questo senso è la ristampa, in appendice del libro, del saggio del 1966 La libertà di fronte alla morte (Die Freiheit zum Tode): una serrata disamina sul tema della libertà di morire dal mondo classico, nel quale il suicidio era ammesso come atto estremo di umanità, al mondo cristiano, fino a Spinoza, Hume, Kant, Hegel, Heidegger, che unanimemente lo condannano. Alla condanna da parte della Chiesa, che sostiene che la vita è un dono di Dio di cui l’uomo non può disporre, il pensiero laico di Löwith oppone il generico principio del «diritto di morire», analogamente a quanto ha sostenuto Umberto Veronesi nelle recenti polemiche sul testamento biologico.
Ma le ragioni della ragione, anche in questo caso, non sono sufficienti per le indispensabili distinzioni che la delicata questione richiede. Il «disincanto» non basta. La parabola intellettuale di Löwith è una rappresentazione emblematica del punto massimo di sviluppo, e poi di crisi, a cui un onesto esercizio del pensiero razionale può condurre. L’esito scettico della sua ricerca infatti approda, come nell’epoché dei Greci, al «silenzio del mondo» e alla «pausa dell’intelligenza», fino alla simpatia mostrata per il buddismo zen della spiritualità giapponese: contemplare e ascoltare, senza sperare. Non gli consente di arrivare all’autentica scoperta della modernità, oltre la morte di Dio, oltre il nichilismo: che la vera natura dell’uomo è essere e pensare, e poi lottare, in e per il rapporto con gli altri esseri umani.