Verso Cannes. Il regista anticipa le scelte fatte per il suo «Vincere», unico film italiano sulla Croisette. E ne racconta anche i tagli
«Il mio Duce giovane fascinoso e brutale»
Bellocchio: Mussolini visto attraverso la donna che ripudiò
di Aldo Cazzullo
Dittatore. Filippo Timi, 34 anni, interpreta Benito Mussolini in «Vincere» di Marco Bellocchio, l’unico italiano in concorso al prossimo Festival di Cannes Il film traccia un duro ritratto del Duce, mostrato come un uomo «violento, calcolatore. brutale», come ha spiegato il regista
ROMA — «C’è il giovane Mussolini che combatte un duello verbale con un prete. Il futuro Duce chiede agli spettatori un orologio da taschino. Lo poggia sul tavolo. Proclama: 'Se Dio entro cinque minuti non mi avrà fulminato, avremo la prova che non esiste!'. In quel momento entra in sala una ragazza di Trento, bella e ricca: Ida Dalser. E si innamora di quegli occhi fiammeggianti...».
Dopo Buongiorno notte, sul caso Moro, Marco Bellocchio torna al cinema politico. Due anni fa, il grande regista aveva rivelato al Corriere il progetto di un film sul giovane Mussolini e l’amore divenuto persecuzione e finito in tragedia per la Dalser e il loro figlio, Benito Albino. Ora il film — Vincere — è pronto. Lo producono Mario Gianani e Rai Cinema. Rappresenterà l’Italia al Festival di Cannes, tra due settimane. E Bellocchio ne anticipa il significato politico.
«Il mio Duce è un uomo affascinante: non a caso anche Rachele racconta di essersene innamorata subito attraverso i suoi occhi folgoranti. È un uomo amato non solo dalle donne, ma anche dal popolo: come già per Moro, ho usato materiale di repertorio, visto e non visto (ad esempio un discorso in tedesco di Mussolini a una folla oceanica di nazisti). Documenti che testimoniano l’entusiasmo che la grande maggioranza degli italiani aveva per il capo, un attore dalla recitazione sempre più pagliaccesca con il passare del tempo, tanto che ogni volta guardandolo mi chiedo con stupore: come ha potuto la quasi totalità degli italiani credere così ciecamente a un simile buffone? Il Duce che ho rappresentato non è un uomo buono. Non è il pater familias amorevole tratteggiato dalla tv, che commette il solo errore dell’alleanza con Hitler. È un uomo violento. Calcolatore. Brutale. Buono è suo fratello, Arnaldo, fascistissimo ma molto cattolico, l’unico a prendersi cura del piccolo Benito Albino. Il Duce è invece senza pietà. Anche con la donna che aveva amato, e con il suo stesso figlio».
Mussolini è Filippo Timi. «L’ho scelto per la notevole somiglianza con il Duce da giovane — spiega Bellocchio —. Non mi andava di esagerare con il trucco, all’americana o alla Bagaglino, né di prendere un attore che con la fisicità del Duce non c’entrasse nulla, come Banderas che pure l’ha impersonato. E poi Timi ha il fascino magnetico di Mussolini ed è un attore generoso, sincero, pieno di talento. Il Duce di Vincere vuole essere sempre il primo, il più geniale, il più coraggioso. Dopo il duello con l’onorevole Treves, socialista, trascura di farsi medicare perché vuole verificare di persona che gli arbitri redigano fedelmente il verbale del combattimento e dei feroci assalti, per pubblicarlo poi su Il Popolo d’Italia, ordinando al redattore di fare un grande titolo e che il suo nome preceda quello di Treves. Il primo, il capo, il Duce. In un primo momento avevo pensato a un personaggio simile a Lou Castel di I Pugni in tasca, che uccide la famiglia. Poi una discussione con mio fratello Pier Giorgio mi ha fatto riflettere. Il protagonista dei Pugni in tasca ha la violenza schizofrenica del nazista. Il Duce era diverso. Dannunziano. Futurista. E io l’ho raccontato con un montaggio veloce che ricorda la velocità del futurismo. Il giorno prima di partire per la Grande Guerra, Mussolini porta Ida Dalser al cinema. Scorrono le immagini del fronte, il pianista suona l’inno di Garibaldi, gli interventisti lo intonano — «si scoprono le tombe, si levano i morti... » —, Benito si unisce al coro; i socialisti reagiscono, scoppia un tumulto che ha i colori della 'Rissa in galleria' di Boccioni. E Ida si lancia in difesa del suo uomo, anche se al settimo mese di gravidanza».
Due anni fa, Bellocchio non aveva scelto ancora la sua protagonista. Diceva solo: «Dovrà essere di una bravura mostruosa». Per questo, spiega oggi, ha scelto Giovanna Mezzogiorno. «Mi è parsa perfetta perché anche lei, come Ida Dalser, ha una fisicità generosa di sé, sempre in movimento, scattante, reattiva. Non so se Giovanna abbia qualcosa di Ida, non glielo auguro, certo si è trasformata in una vera protagonista che di continuo fa piangere e fa arrabbiare. La Dalser storica non è simpatica. È quasi fastidiosa nel non cedere mai, nell’andare sotto le finestre del Popolo d’Italia a gridare e mostrare il bambino, nel continuare sino all’ultimo a voler rivedere il Duce. Ma nel film finisce per diventare un’eroina. Un po’ Antigone e un po’ Medea. Perché è l’unica donna che si oppone davvero, da sola, a un uomo cui la grande maggioranza delle italiane e degli italiani credeva e ubbidiva».
«Ida è una donna colta, conosce le lingue, ha un salone di bellezza. Ma Mussolini, a lungo bigamo, finisce per preferire Rachele: carina, ignorante, ma donna di casa, che sa stare al suo posto: le basta essere la madre dei figli del Duce. Quando nasce il figlio di Ida, Mussolini lo riconosce. Ma il giorno stesso sposa Rachele. È la scelta definitiva, a cui però la Dalser, che ha venduto tutti i suoi beni per finanziare il Popolo d’Italia, non si rassegna. C’era una scena un po’ da libro Cuore che ho tagliato, in cui Ida disperata per l’abbandono va a casa di Mussolini e alla piccola Edda che le apre chiede: 'Papà ti vuole bene?'. Invece ho lasciato la scena, storicamente attestata, in cui le due rivali si affrontano nell’ospedale in cui il Duce è ricoverato. Mussolini è stato ferito gravemente, più di 50 schegge in corpo, e ha appena ricevuto la visita del Re, che solo pochi anni prima da socialista rivoluzionario aveva irriso («nano!») e insultato («assassino!»). Ida non lo vedrà più. Mussolini, che appoggia la guerra ed è ormai in ottimi rapporti con il potere, riesce a farla arrestare. Lei viene portata a Firenze. Quindi a Caserta, al confino. L’accusano persino di essere una spia tedesca, per il solo fatto di essere nata in territorio austriaco. Finisce nel manicomio di Pergine, vicino a Trento. Infine in quello di San Clemente, su un’isola di fronte a Venezia, dove morirà. Ida rivedrà il Duce solo al cinema, da spettatrice».
«Mussolini non aveva ironia. Ironico e provocatorio è il titolo del film, Vincere.
Io non ho vissuto il fascismo, ma mi sono in parte formato su una cultura che, dopo essere stata complice del fascismo, l’ha deriso. Lo spirito di sconfitta come espiazione per aver creduto a quell’uomo. Di questo spirito di sconfitta la mia generazione si è in parte nutrita. Per poi conoscere l’altra grande disfatta storica, quella del comunismo (e anche Mao teorizzava la necessità di «osare vincere»). Per questo la nostra identità, di figli degli sconfitti o di una cultura della sconfitta, è stata a lungo depressa, grigia, vinta. All’ombra o nel buio di quella sconfitta si è formata la nostra sensibilità. Poi ognuno ha preso la sua strada: chi si è perduto, chi si è totalmente integrato, chi, come me, si è ribellato e si è liberato da una condanna che sembrava definitiva a un’infelicità passiva, che mi fa essere oggi ottimista senza sentirmi un imbecille, rappresentando da ottimista un’autentica tragedia. Parole come 'vincere' erano indicibili. Fino all’arrivo di Berlusconi, che ha fondato democraticamente il suo successo sulla sua immagine vincente chiamando alla vittoria e all’ottimismo il popolo italiano: il suo primo partito non si chiamava Forza Italia? Usando la sua tv, così come Mussolini usò per imporre la propria immagine vincente i mezzi che aveva a disposizione, il cinema, la radio, la fotografia, la grafica, persino la scultura e la pittura».
Racconta Bellocchio che il finale è cambiato rispetto al progetto. «Pensavo di chiudere il film con una scena ambientata dopo la Liberazione: il cognato di Ida Riccardo Paicher, l’uomo che non aveva saputo difenderla, esce da un cinema richiamato dalle sirene della polizia, assiste agli scontri di un corteo politico con le bandiere rosse e tutto, e soccorre una ragazza ferita. Poi mi sono detto che il film non meritava un finale consolatorio. È una tragedia, e così deve finire».
l’Unità 6.5.09
Bellocchio e la moglie di Mussolini finita pazza
Il film sarà presentato a Cannes. Racconta un duce inedito. Di una donna perseguitata e del figlio Benito Albino
di Malcom Pagani
Il regista: «Il film parte da un documentario su parenti sacrificati»
Le lettere. La moglie scriveva e i federali la perseguitavano
Il figlio. Gli cambiarono l’affido il nome, lo fecero espatriare in Cina
A Palazzo Venezia, con le donne, Mussolini usava la tecnica musica e magia. Tra il ‘35 e il ‘39 non aveva amanti, ma solo fugaci incontri. Tromba e sparisci».
L’eleganza sublime e l’elogio trasversale. Democratico. Stallieri e dittatori. L’altro ieri, tramontata l’aura del 25 aprile pacificato, grazie a Marcello Dell’Utri scoprivamo i partigiani «di destra» e il Mussolini «troppo buono». Qualche giorno ancora e il festival di Cannes racconterà al mondo un altro duce. Bigamo e spietato. «Prima di allora, non sapevo nulla di questa storia. Poi nel 2005 lessi un articolo e vidi un documentario su Mussolini e sui parenti ignoti e sacrificati, la moglie Ida Dasler e il figlio legittimo del duce, Benito Albino».
Da 40 anni Marco Bellocchio esplora i lessici familiari. Codifica linguaggi, pugni tenuti in tasca, condanne, salti nel vuoto, mostri da occultare alla vista o sbattere in prima pagina. Un cinema che ripudia l’oblìo e spinge l’ex salesiano ribelle a occuparsi di terrorismo e psicanalisi, regimi e sacche di consenso. «Vincere», il suo film sul Duce più celato, sarà in concorso a Cannes. In luogo del ‘68 di Placido, la fotografia della donna che pagò caro l’irriducibile desiderio di non arrendersi. Fu bollata, resa incapace di nuocere all’immagine del dittatore, rinchiusa in manicomio.
Pazza. E quindi afona nel gridare, indecifrabile nello scrivere, querula nel chiedere aiuto. Pericolosa. Una serpe cresciuta in seno che rivendica l’amore del capo e diventa un problema. Da internare e dimenticare, usando ogni mezzo.
Stampa, Polizia, medici, prefetti. Il pubblico che si piega al privato e nasconde un segreto inconfessabile. Un gioco di scatole cinesi. Aperta la prima, non ci si può fermare. Il documentarista che insieme al giornalista Norelli ha guidato Bellocchio alla scoperta del lato oscuro di Mussolini si chiama Fabrizio Laurenti. Ha vissuto per 13 anni a New York, ondeggiato tra generi diversissimi e una sera per caso, è caduto sulla materia che avrebbe plasmato in 30 mesi di maniacale lavoro. «Mi dissero che Mussolini aveva avuto un figlio morto in manicomio. Mi sembrò incredibile. “Fidati, a Trento lo sanno tutti”. Decisi di indagare e mi immersi in un pozzo di fonti. Compagni di banco che avevano conosciuto Albino e le sue leggendarie imitazioni del padre, donne che vivevano di fronte al sanatorio dove era reclusa Ida, autentiche lettere autografe firmate Benito. Un materiale troppo importante sul funzionamento della burocrazia fascista per rischiarne l’estinzione».
Ida venne imprigionata a Pergine, «curata» con iniezioni di malaria nel sadico tentativo di «snebbiarle» la coscienza, screditata, messa infine in una fossa comune, nel 1937.
A Benito Albino cambiarono l’affido, il nome, lo fecero espatriare in Cina e poi, vista l’insistenza nel cantare un’aria sgradita, fatto accomodare in una struttura identica a quella della madre.
Morì nel 1942. «La corsa a guadagnare gli elogi del principe era senza freni. Compiacere è un meccanismo “naturale” che funzionava e funziona perfettamente». Laurenti coglie analogie con l’oggi. «Sono cambiate solo le facce. Come diceva Flaiano, correre in soccorso del vincitore è un istinto primario. Quando il potere diventa incontestabile e il consenso raggiunge vette così alte, c’è piaggeria. Ci sarà sempre un momento per essere ricompensati e magari vedersi catapultare in parlamento. Con Albino e Ida fecero cessare il rumore di fondo, il fastidio per una diceria che non doveva circolare».
Lei prendeva carta e penna: il nostro Benitino, “piccolo grande amore” lui riceveva freddi dispacci, frammenti di una violenza soffusa. «Per trovare le lettere incriminate, Tamburini, un federale di Trento, le smontò la casa. Portò via molte cose ma non quei fogli, nascosti dentro un gallo impagliato. Ci sono ancora. Tamburini, a Salò divenne capo della Polizia».
Ida non si adeguò mai. Fu sua moglie, sempre. «Accusò il fratello Arnaldo». Lo stesso che sulla Gazzetta Ufficiale mutò l’identità di Albino. «Gli fece assumere un altro cognome. Cambiò la vita di una persona e quella di una nazione».
Al di là di speculazioni, bizzarre similitudini, abbagli, equivoci di inizio estate.
l’Unità 6.5.09
«Io, Valentina sono bella amo gli Stones e m’arrabbio»
Attrici emergenti La Lodovini, nelle sale con “Generazione 1000 euro”: «Non è accettabile che lo Stato non investa nella cultura»
intervista di Paolo Calcagno
Mara, Daniela, Beatrice e le altre. Figlie del nostro tempo ingrato e minaccioso, soprattutto per i giovani: donne generose e battagliere che non ci stanno a farsi intrappolare nei conformismi rassicuranti e nei pregiudizi-rifugio di esistenze garantite. Le abbiamo incontrate al cinema con la faccia spiritosa e il sorriso contagioso di Valentina Lodovini: la maestra che sbarca nella provincia del Nord (La giusta distanza, di Carlo Mazzacurati) , ammalata di paura dell’altro, dell’immigrato extracomunitario; la fidanzata del giornalista napoletano Giancarlo Siani eliminato dalla camorra con 10 colpi di pistola (Fortapàsc, di Marco Risi); la professoressa di latino e greco (Generazione 1000 euro, di Massimo Venier) che attraversa con grinta il labirinto del precariato. E dall’11 maggio l’attrice sarà sul set triestino della fiction Rai Gli ultimi del Paradiso, la prima dedicata alle «morti bianche» causate dagli incidenti sul lavoro.
PIOVRE D’ITALIA
«Siamo tutti figli di papà – osserva Valentina Lodovini -. Non dico che noi trentenni siamo benestanti, ma ognuno ha una famiglia alle spalle. Il sogno è il lavoro sicuro, un miraggio nell’Italia di oggi. E ci sono due tronconi: c’è la parte che non si arrende, che si rimbocca le maniche, che fa due o tre lavori contemporaneamente per sbarcare il lunario, ma caparbiamente insegue l’obiettivo che ha scelto; poi, c’è l’altra parte, più fragile, che non fa fronte comune, che si lamenta e rinuncia a lottare». E la solidarietà, la rabbia? Si fatica a rintracciarle in questa generazione del “si salvi chi può”. «Secondo me, la rabbia c’è in entrambe le parti. Tutte le mattine mi sveglio arrabbiata contro questo stato che investe poco nel cinema, nel teatro, nella cultura, perché non ci crede; contro la politica e le lobby che condizionano sviluppi e vite in vari settori. Soprattutto, provo rabbia contro chi vuole rendere provinciale il nostro Paese. E mi fa incazzare che tanti facciano finta di niente. Anche per questo partecipo molto volentieri ai film che si occupano della realtà, non importa se realizzati in chiave drammatica o di commedia sentimentale».
LA MIA GENERAZIONE
Bella e tosta, Valentina Lodovini, 30 anni, umbra (ma cresciuta nella provincia di Arezzo): «Per me, oggi, è diverso: faccio il mestiere che ho scelto e posso persino respingere le offerte che mi arrivano. Però, non è stato sempre così. Ho fatto tutti i passaggi, fin da quando, a 19 anni, avevo deciso che sarei diventata attrice: la Scuola di teatro, il Centro sperimentale, eccetera. Anche a me è toccato di vivere in periferia, assieme a 7-8 ragazzi». Glamour e impegno sociale, un mix di cui non Valentina non nega di compiacersi. «Siccome sono umbra di origine e il fisico non mi manca, puntualmente mi hanno accostata alla Bellucci. Ma mi interessa poco. Per me, se sono bravi e hanno personalità, gli attori sono tutti belli. E io ho la fortuna di trovarmi in buona compagnia: in Italia sta crescendo un’eccellente generazione di attori e di attrici. Come donna, ho la mia vanità e non nascondo di avere un debole per i tacchi alti e il rossetto: mi fanno sentire più sicura del mio corpo. Ma della bellezza non trovo intelligente parlare».
CERTE MANIE
Appassionata dei Rolling Stones, avida di buone letture, Valentina ama concedersi piccole manie, come le collezioni di cappelli e occhiali. Il carattere solare e diretto è una costante dei personaggi principali creati dalla Lodovini: nessuna tentazione per un ruolo torbido da malafemmina? «Non mi spaventa il ruolo della stronza. Recitare una “malafemmina” sarebbe un godimento: mi manca una donna pericolosa e ambigua. Ma scegliere i ruoli, per un’attrice, è una battaglia: la qualità è merce rara nelle proposte che arrivano e io sono convinta che una carriera si costruisce più con i no che con i sì. Però, forse a teatro, a Taormina, farò Salomè, di Oscar Wilde, che non è proprio la solita signorina insicura...».
E accetterebbe anche la sfida di un ruolo comico? «L’ho fatto: sono stata protagonista di Pornorama, di Marc Rothemund. È una commedia divertentissima, in cui faccio un’attrice svampita, con un suo alter ego: è una maggiorata, una specie di Lollobrigida, Loren e Cardinale messe insieme, ma quando recita diventa la Magnani. L’ho girato tra Berlino e Monaco, ma per ora è andato solo in Europa: non so se arriverà in Italia».
l’Unità 6.5.09
Il privato di un imperatore
di Pietro Spataro
La domanda, senza tanti giri di parole, è questa: è davvero affare privato che un premier venga accusato dalla moglie di "frequentare le minorenni"? Ovviamente no, è un affare politico di prima grandezza. Eppure scivola via come una puntata del Grande Fratello o suscita le reprimende di qualche editorialista guerriero della privacy. Ultimo arrivato è Pierluigi Battista che ieri sul Corriere ha messo alle strette il vero colpevole: Dario Franceschini. Che ha osato lanciare l'allarme sul degrado morale dell’uomo che governa l’Italia e che è portatore di un immenso conflitto di interssi. Verrebbe da dire: poveri noi. Questa teoria della “intangibilità del privato” l’abbiamo letta in più versioni. E però: come si fa a giudicare fatti privati certe accuse così brucianti che in altri paesi avrebbero fatto tremare il palazzo? E infatti ieri sera il premier ha dato la prova più plateale: è andato a Porta a Porta e ci ha sbattuto in faccia i suoi vizi privati sulla tv pubblica.
Il fatto è che l'etica della politica oggi non è problemino da poco, tantomeno per Berlusconi. Da chi governa un paese e fa leggi che toccano le vite uno pretende comportamenti coerenti e sobrietà. E invece si assiste a spettacoli sempre più indecenti di fronte ai quali troppi tirano dritti. «In Italia non c'è più capacità di indignarsi» ci ha spiegato il corrispondente del Time. Detto da un giornalista straniero ferisce ancora di più. Forse ha proprio ragione Veronica Lario: che strano questo paese che tutto concede e tutto giustifica al suo imperatore.
pspataro@unita.it
l’Unità 6.5.09
Quel «Papi» ricorda Malaparte
di Bruno Gravagnuolo
Mette il «comico» come categoria dello spirito, al centro dela sua esegesi del «Moderno», Massimo Cacciari. Nel suo Hamletica, saggio adelphiano, dedicato a Shakespeare, Kafka e Beckett, figure chiave del nichilismo, di cui il comico sarebbe l’acme. Il «comico» come parossismo del Senso, del Potere, dei Valori. Del «regno delle immagini» e quant’altro la modernità fa implodere, consegnando tutto all’assurdo. Non è questo il luogo per «recensire» una tesi non del tutto originale, ma nondimeno suggestiva. E stimolante. Almeno per ciò che concerne la modernità italica. Quant’altre mai comica. Ma, in quanto inconsapevolmente tale, tragica. Citando passim, prendete Marcello Dell’Utri, già architetto di Forza Italia, bibliofilo. Uno degli «uomini del destino» ai quali dobbiamo questa nostra Italia. Beh, lui che è nel cuore di quel Cav, che pure «riabilita» il 25 aprile, va girando per l’Italia, cercando di rifilare a tutti la famosa patacca dei Diari del Duce. Palesemente falsi, come tutti gli storici seri hanno detto. E ripete, al solito Klaus Davi benevolente e dialogante su You Tube, che « Mussolini ha perso la guerra perché era troppo buono». Che era «un uomo straordinario, una brava persona, che non stimava Hitler». E via delirando comicamente. Una roba che non stupisce più di tanto nessuno, salvo pochi «indignati». E meno che mai stupisce, che a dirle certe cose, sia uno dei consigliori più intimi del Capo Supremo. Quanto a quest’ultimo poi, se è vero che i suoi spettacolini, con conigliette e Lolite, indignano la moglie (che ben lo conosce) - spingendola (alfine!) al divorzio - vero è altresì che c’è una maggioranza di italiani che lo ammira. Lo comprende, e nella sua antropologia comica si riconosce volentieri. Anche se quegli spettacolini tra Villa Certosa e Casoria, hanno il sapore farsesco del degrado. Tipo quello ben noto del La pelle di Malaparte! Insomma quel «papi» piace agli italiani. E non abbiamo ancora né una antropologia né un riso demolitore alternativi per farne implodere la maschera.
Repubblica 6.5.09
Lo specchio infranto
di Curzio Maltese
Ma che effetto avrà fatto agli italiani vedere in mondovisione il presidente del Consiglio costretto a discolparsi di non andare con le minorenni? Dice proprio così, «Non è vero che frequento le minorenni». Come sostiene non un passante, un avversario politico senza scrupoli, un giornalaccio scandalistico, un sito di gossip, ma la madre dei suoi figli.
Eccolo, il premier più popolare del mondo, secondo i suoi stessi sondaggi amato dal 75 per cento degli italiani, ma compatito, con punte di disgusto, dalla donna che gli sta accanto da trent´anni. Perché, sostiene Veronica, «è una persona che non sta bene». Eccolo, il re nudo, con i suoi settantadue anni e i capelli nuovi, il cameraman di fiducia, nel salotto amico, mentre spiega che figurarsi se lui frequenta le ragazzine, come sostiene Veronica. Figurarsi se voleva candidare le veline all'europarlamento. Figurarsi se Veronica, che gli sta accanto da trent'anni, conosce la verità. Figurarsi, d'altra parte, se lui candida qualcuno per altri meriti che l'impegno negli studi, la competenza, l'idealismo, come del resto «nel caso di Gelmini, Carfagna, Brambilla…». Ma si capisce, certo.
Nella sempre spettacolare parabola di Silvio Berlusconi questo rimarrà il vertice. Ma stavolta non è stato lui a scegliersi la scena e neppure la parte. Lo ha costretto la moglie. L'unica persona vicina a infrangere lo specchio e a rompere il muro dell'omertà, retto per tanti anni da centinaia di schiene di cortigiani politici, giornalisti, avvocati, amici, disposti a chiudere un occhio, due, tre in tutti questi anni sullo scempio di legalità e moralità. E lui ha dovuto andare in televisione, in mondovisione, a raccontare che sua moglie è male informata sul marito, vittima di un complotto della sinistra, dei giornali di sinistra, di Repubblica. «Non a caso Repubblica». Vero. Da chi doveva andare Veronica, in un paese classificato nella libertà di stampa dietro al Benin, dove il marito controlla gran parte dell'informazione? Non c'era molta scelta. Neppure Berlusconi ha fatto una scelta originale, andando da Vespa per riparare i danni dell'attacco dei vescovi. Dove, sennò?
La claque lo sostiene, lo applaude a ogni passaggio della difficile arrampicata di sesto grado sugli specchi, sullo specchio del volto gigantesco di Veronica alle sue spalle. Sembra una scena di un film di Fellini, la Donna stupenda e immensa, e l´omino laggiù, una formica, che si dibatte in alibi puerili, strepita innocenza, sputa minacce. Gli spettatori italiani, dopo tanti anni di teleserva, non faranno più caso all´atteggiamento di Bruno Vespa, accondiscende fin dal titolo. Il più surreale mai escogitato da Vespa: «Adesso parlo io». Adesso parla Berlusconi? Perché, gli altri giorni degli ultimi quindici anni? Tuttavia, tanto per dare un'idea vaga di giornalismo, bisognerebbe ricordare il genere delle questioni poste a Bill Clinton dal suo intervistatore per il caso di Monica Lewinski (peraltro abbondantemente maggiorenne). Queste: quando, dove e come vi siete conosciuti? Quante volte vi siete visti in seguito? I genitori erano al corrente del vostro rapporto e in quali termini? E´ venuta a trovarla a Washington (a Roma)? E´ andato a trovarla a casa di lei? Dove dormivate? Avete avuto rapporti sessuali? Di che tipo? Quante volte? Quante volte completi? E Bill Clinton ha risposto a tutte le domande, senza citare neppure alla lontana una teoria del complotto. Alla fine è andato a scusarsi da sua moglie, nel salotto di casa, non nel salotto televisivo del ciambellano. Ha chiesto perdono a sua moglie, che aveva offeso. Si è ripresentato all´opinione pubblica quando lo ha ottenuto, dopo aver ammesso nel dettaglio più intimo e vergognoso le proprie colpe. Così accade in un paese democratico e civile.
Forse a Silvio Berlusconi sarà bastato passare una sera dall´amico Vespa, nel calore della claque, per ricominciare da domani come nulla fosse. Magari bisognerà pure rassegnarsi, con realismo, a capire che in questa storia l´unica che non potrà più liberamente andare in giro per le strade di questo paese è la vittima, Veronica Lario. Già inseguita dalla muta dei cani che hanno appena cominciato a delegittimarla in tutti i modi.
Corriere della Sera 6.5.09
Sottili equilibri
di Massimo Franco
Si avverte una miscela di disagio e realpolitik nelle reazioni delle gerarchie cattoliche alla saga familiare dei coniugi Berlusconi. Disagio non tanto per l’annuncio del divorzio, ma per il modo spettacolare, per usare un eufemismo, con il quale è stato comunicato. Quanto alla realpolitik si scorge dietro l’assoluto silenzio vaticano e nelle parole sobrie con le quali il presidente dei vescovi italiani, Angelo Bagnasco, ha commentato e avallato a posteriori la presa di posizione del quotidiano Avvenire, vicino alla Cei: un articolo forse più dovuto che voluto, perché intervenire su questioni di vita privata declassate di fatto a pettegolezzo crea un imbarazzo evidente.
Tanto più perché i protagonisti della vicenda sono un presidente del Consiglio considerato l’interlocutore principale del Vaticano, e sua moglie. E qualunque parola di troppo rischia di alimentare una spirale di pettegolezzi in bilico fra politica, etica, moralismo e soldi. L’apparente distacco dalla lite fra Silvio Berlusconi e Veronica Lario nasconde la speranza impossibile di vedere il caso archiviato al più presto; e la realtà di un disappunto e di una richiesta di tenere atteggiamenti più responsabili, rivolta tacitamente ad entrambi. A questo si aggiunge il timore di un uso politico della vicenda in un momento delicato della vita del Paese. Berlusconi sembra consapevole di dovere affrontare una situazione scivolosa. La rivendicazione di rapporti ottimi con la Santa Sede, ripetuta ieri sera in tv, riflette un dato di fatto ma forse va completata. Assume un significato diverso se viene letta insieme alla sua certezza di non perdere «la simpatia» del mondo cattolico a causa delle tensioni con la moglie: parole che in realtà tradiscono l’oscuro timore di essere danneggiato politicamente ed elettoralmente da quello che si ostina a considerare in modo un po’ troppo sbrigativo un gigantesco malinteso. Ma si tratta di un pericolo che in realtà non riguarda solo quell’universo. L’opinione pubblica sembra sconcertata e divisa senza distinzioni.
Non significa automaticamente che si prepari ad abbandonare il centrodestra. Anzi, le polemiche che alcuni esponenti dell’opposizione stanno facendo contro gerarchie accusate di essere «governative», potrebbero rivelarsi a doppio taglio. Invece di far risaltare una sorta di incompatibilità morale prima ancora che politica fra valori cattolici e berlusconismo, rischiano di accentuare la distanza fra centrosinistra e Vaticano. Sarebbe un risultato paradossale, nel momento forse più difficile del premier da quando ha vinto le elezioni nel 2008. Eppure, quanto è accaduto e può succedere nelle prossime settimane suona come un monito per Berlusconi.
Dovrebbe fargli capire che non bastano i limiti politici degli avversari a scongiurare le critiche, i malintesi e alla fine un logoramento, alimentati in buona misura anche da certi suoi comportamenti. Di colpo, potrebbe ritrovarsi appesantito da una zavorra di voci che finora hanno contribuito in modo discutibile ad alimentare i suoi successi.
Corriere della Sera 6.5.09
Primi segnali d’allarme sul gradimento dei giovani e timori per l’immagine estera del presidente del Consiglio
La delusione: tanti dei miei incapaci di difendermi
di Marco Galluzzo
ROMA — Sarà stata una casualità, ma il sondaggio è arrivato nelle mani del Cavaliere poco dopo la polemica sulle veline. Dopo che la moglie ha definito «ciarpame senza pudore» l’uso che delle donne, a suo giudizio, viene fatto nella liste elettorali del partito di suo marito. L’ultimo affondo prima di comunicare l’intenzione di divorziare. Ebbene i numeri di quella ricerca d’opinione, che ha allarmato più di un ministro, dicono che c’è una visibile inversione di tendenza nel consenso che i giovani, soprattutto in cerca di lavoro, tributano al partito delle Libertà.
Per lo stato maggiore della neonata formazione politica è più di un campanello d’allarme. Così come per Silvio Berlusconi. Per la prima volta un sondaggio segnala che la «questione veline» è filtrata in modo diffuso nell’elettorato. Vero o falso che sia il dato di cronaca (per il Cavaliere assolutamente falso, inventato ad arte dalla sinistra e dai suoi quotidiani) c’è una percezione che si sta diffondendo fra chi vota: nel partito del capo del governo si può fare carriera anche grazie all’estetica. Ovviamente la cosa comincia a disturbare chi un lavoro lo cerca (e in questo periodo in modo sempre più travagliato) in base al solo curriculum.
La storia delle veline è stato «un danno al Pdl», ha detto ieri sera il capo del governo a «Porta a Porta ». Forse pensava anche ai numeri che in questi giorni sono circolati fra i dirigenti del suo partito. Poi ha citato l’altro danno, «al sottoscritto». E in questo caso una delle cose che più lo ha scosso è stato vedere come la materia è stata trattata dai media internazionali. «Sono molto preoccupato per la mia immagine all’estero», è uno dei crucci più dolenti di questa vicenda, spiegabile anche con la psicologia di un uomo che all’immagine tiene in modo quasi maniacale. Come e più di ogni politico.
Le accuse della moglie all’estero sono arrivate senza filtro: quella di frequentare una minorenne, quella di non essere un buon padre, quelle di non sapere mettere un limite ai desideri. Rilanciate dai siti d’informazione, dalle televisioni e dai quotidiani di tutto il pianeta. Per chi nella politica estera riscontra la maggior parte del suo lavoro, che nei vertici internazionali enfatizza gli effetti diplomatici del rapporto personale con gli altri leader, è un danno potenzialmente incalcolabile, che brucia e provoca imbarazzo.
C’è infine un altro dato che lo scontro con la moglie ha amplificato, richiamando nel Cavaliere sentimenti che ha già provato in altri momenti di difficoltà. Le accuse subite addolorano, bruciano, ne vengono soppesati gli effetti interni ed internazionali. Esiste però almeno un altro effetto, di natura intima, psicologica, che non emerge dalle chiacchiere con lo staff, con i principali collaboratori, ma solo nelle conversazioni con gli amici, ed è una sensazione di solitudine: «Sono deluso da molti dei miei, anche da molte delle donne del Pdl, da un’infinità di gente che sembra incapace di difendermi...». Insomma mentre Bossi ironizzava sulle esigenze delle mogli, che non devono essere trascurate dai mariti, mentre molte esponenti del centrodestra (forse con la sola eccezione di Daniela Santanchè) formulavano giudizi che spiccavano per i distinguo e non per la difesa a spada tratta del Cavaliere, mentre dalle parti di Arcore a Fini continuava ad essere attribuita parte della responsabilità oggettiva del primo affondo di Veronica (contro le veline, criticate in un articolo della rivista della fondazione vicina al presidente della Camera), proprio in quei momenti Berlusconi rifletteva sul fatto che «i miei sono incapaci di difendermi»: misurando forse la solitudine politica di chi viene coinvolto in vicende che di politico hanno ben poco.
Corriere della Sera 6.5.09
La «sorpresa» di Veronica Quella telefonata con Letta
Anche Confalonieri ha contattato la moglie del premier
MILANO — Doveva essere una serata tranquilla. Nella villa di Macherio, a cena — la prima dall’annuncio della separazione —, erano invitati alcuni amici di famiglia. Invece Veronica Lario si è trovata ad affrontare l’ennesima situazione di tensione: suo marito a Porta a Porta a parlare della fine della loro storia. Una scelta che la moglie del premier ha appreso soltanto nel pomeriggio. Ed è superfluo dire che è rimasta sorpresa. No, questa mossa proprio non se l’aspettava. Non dopo la frase pronunciata da Silvio Berlusconi nei giorni scorsi: «Vorrei che la storia del divorzio rimanesse nella sfera privata».
Invece il presidente del Consiglio, nonostante i suoi più fidati collaboratori glielo avessero sconsigliato, ha deciso di andare lo stesso in tv. Ed ha parlato per la prima volta con Bruno Vespa della sua vicenda familiare. A lei, a Veronica, ieri sera non è rimasto che sedersi sul divano del salotto a guardare il marito parlare in televisione. Una scelta «spudorata», secondo alcune care amiche, quella di Berlusconi. Ma non è questo che ha sorpreso di più Veronica Lario. Semmai, a colpirla, è stato il silenzio calato attorno a lei in questi giorni. Degli amici di sempre, Fedele Confalonieri è stato uno dei pochi a chiamarla. E poi, la scorsa settimana, c’è stato un lungo colloquio telefonico con Gianni Letta, nel corso del quale il braccio destro di Berlusconi avrebbe provato a sondare il terreno per capire i margini di una possibile riconciliazione, dovendo poi concludere che erano praticamente nulli. Anche a Letta, come alle persone a lei più care, Veronica Lario avrebbe spiegato le ragioni che l’hanno spinta a questo gesto così sofferto e complicato. Non è stata solo la partecipazione di Berlusconi alla festa di Noemi Letizia a Napoli la causa scatenante della rottura — ha detto — ma più che altro la lunga serie di frequentazioni avute negli ultimi anni dal marito, come anche il suo stile di vita. Tutte scelte che, secondo lei, avrebbero leso la sua dignità di donna e di madre. A tal punto, da spingerla a dire basta a un matrimonio senza più prospettive. Dopo dieci anni — ha chiarito — non voglio più mercanteggiare. O mi ammalavo o facevo questa scelta, l’unica possibile per salvare la mia immagine privata e pubblica.
Tra l’altro è sicura, Veronica, che la strada intrapresa, quella della separazione, farà del bene anche al marito. I figli, invece, rappresentano un capitolo a parte. Sicuramente non le hanno fatto piacere, ad esempio, le spiegazioni date da Berlusconi in tv a proposito delle presunte assenze alle feste di compleanno dei tre ragazzi. Chi la conosce, racconta che spesso Veronica ha dovuto insistere molto con lui per farlo partecipare. Quasi sempre senza risultato.
Barbara, Eleonora e Luigi per ora preferiscono non commentare. In questa guerra a distanza tra i genitori, hanno scelto di tenersi in disparte. Almeno pubblicamente. Ma è abbastanza certo che negli ultimi mesi avevano sperato che tra la madre e il padre potesse durare quella sorta di tregua sopraggiunta dopo la nascita del piccolo Alessandro, il figlio di Barbara. Quel nipotino, del quale Berlusconi ha parlato con affetto anche ieri sera a Porta a Porta, sembrava aver ridotto le distanze tra i due. Sanato un po’ le ferite. E le foto mano nella mano a Portofino ne erano la prova.
Repubblica 6.5.09
Il lato oscuro dei normali "perversi"
Da tabù a moda: cambia il giudizio sui gusti erotici
di Natalia Aspesi
Un libro del giornalista Daniel Bergner racconta quattro casi di persone con inclinazioni sessuali diverse, estreme. Ma "Il lato oscuro del desiderio" è sempre più comune
Cerano tempi in cui barbuti studiosi consideravano diabolicamente perverse le signore che a letto, persino col loro legittimo sposo, non si dimostravano del tutto marmoree. Nei decenni, alcune propensioni sessuali un tempo considerate criminali sono diventate alla moda e guai a non praticarle correttamente, altre nei secoli bui punite con l´impalamento, oggi danno vita a felici famigliole monosessuali: e tuttavia, tale è l´ingordigia di rendere il sesso meno soporifero o di non sentirsi massa anche a letto, e nello stesso tempo tale il bisogno di dare all´amore il cupo colore dell´ignominia, che quelle che si chiamano perversioni sono sempre lì, invitanti.
Solo che, come fantasia e come consumatori, si sono evolute, moltiplicate, e con l´avvento del web, organizzate, normalizzate, diventate mercato, dando da pensare e favoleggiare e lavorare a vaste categorie di studiosi; a cominciare dai fondamentali e celeberrimi scienziati tedeschi del ramo, il massimo divo ora polveroso della psichiatria, Richard von Krafft-Ebing (Psychopathia sexualis, 1886) e il medico Magnus Hirschfeld (Geschlechtsanimalien und perversionen, 1926), pioniere degli studi sulla omosessualità e omosessuale lui stesso. Spaventosi esempi citati dai due dotti voyeur: un giovanotto che si eccitava orribilmente leggendo La capanna dello zio Tom, una vera epidemia tra le nobildonne inglesi del XVIII secolo che si riunivano una volta la settimana per frustarsi vicendevolmente in grande allegria.
Per le pari opportunità va detto che, tra i tanti celebri maso, anche il grande letterato settecentesco Samuel Johnson adorava essere frustrato dalla sua signora. E´ il momento di rinfrescare un po´ la vasta casistica e la tipologia umana (per la verità più maschile che femminile) di chi, sessualmente parlando, non riesce a farlo o lo fa con esangue divertimento, se non lo fa strano. Per chi voglia erudirsi e, ammesso che ci tenga, cercar di capire perché uno si compra le manette di marabu rosa, e una sogna di essere trattata anche solo in vacanza come la protagonista di Histoire d'O, castello e nani cattivi compresi, c´è adesso un libro di grande perizia psicologica e giornalistica, che non eccita ma neppure addormenta, che non appare ridicolo più di tanto come spesso questo tipo di ricerca, ma neppure del tutto orripilante come molti studi minacciosi.
Si intitola Il lato oscuro del desiderio, sottotitolo "I sentieri deviati dell´attrazione sessuale" (Einaudi Stile libero, pagg. 198, euro 16), e lo ha scritto Daniel Bergner, 48 anni, collaboratore del New York Times Magazine, autore di altri due libri inchiesta sugli orrori in un carcere in Louisiana e la guerra civile nella Sierra Madre. Bergner sottolineando con vigore di essere un tipo senza grilli erotici per la testa, o altrove, racconta i casi di quattro americani, tre uomini e una donna, imprigionati in prelibatezze sessuali in un certo senso classiche anche se non consuete. C´è la perversione criminale, la pedofilia, qui rappresentata con molta cautela, visto che l´informatico Roy è finito in galera solo per aver tentato senza riuscirci, di sedurre la figliastra dodicenne, al contrario del professor Humbert di Nabokov che riuscì senza difficoltà a irretire la figliastra Lolita.
C´è la perversione di massimo consumismo di coppia, il sadomasochismo, che ci viene raccontata da una stilista di moda S/M, detta La Baronessa, dominatrice molto nota per un suo locale a New York dove, volendo, si può essere legati a uno spiedo e rosolati, con danni lievi, sopra carboni ardenti, o addirittura, come massima umiliazione virile e vantaggio domestico per la signora (che vanta un lungo matrimonio tradizionale molto felice), pulirle i pavimenti di casa con la lingua indossando un completo di vinile rosso creato e venduto dalla furba Baronessa stessa.
C´è la perversione innocua per tutti tranne per chi la pratica, che, non avendo visto il film di Buñuel Diario di una cameriera con vecchio feticista innamorato degli stivaletti di Jeanne Moreau, se ne angoscia e prende farmaci per smettere; si tratta del rappresentante di commercio Jacob, pure dislettico, pazzo per i piedi, tanto che al solo sentir dire alla tivù, "la neve ha raggiunto i due piedi", lui va in estasi. Prostitute contente per un lavoro così semplice, i medici a dirgli, ma perché non confida a sua moglie questa sua eccentricità che magari è ben disposta, ma lui no, se ne vergogna e poi se lei ci stesse, lui non l´amerebbe più. C´è il perverso benefico che, si apprende con una vena di stupore, fa parte di una moltitudine di confratelli, provvisti di riviste specializzate, innumerevoli siti internet, gruppi in analisi e congressi con merchandising: il pubblicitario Ron appassionato di donne disabili che ama fotografare, ne trova a iosa, sposa dapprima Elizabeth, una giovane donna dalle gambe amputate e molto esibizionista, e dopo il divorzio trova l´amore della sua vita, Laura, anche lei senza gambe in seguito a un incidente d´auto. Offese le signore disabili che si sentono in diritto di essere amate e non fonte di perversione.
Cinema molto interessato, da Tristana di Buñuel, con vendicativa Catherine Deneuve senza una gamba, a Crash di Cronenberg con Rosanna Arquette provvista di gamba di legno, a Boxing Helena di Jennifer Lynch, figlia del regista David, con Julian Sands che per tener prigioniera la sua innamorata a poco a poco le taglia braccia e gambe. Per quanto la lettura di Il lato oscuro del desiderio sia appassionante anche per chi pratica la monogamia con qualche ritocco finesettimana acquistato nei sexshop o ogni tanto un brivido da swapping, basta accendere la televisione su programmi per famiglie per arricchire la propria cultura erotica. E per esempio nell´adorata fiction Sex and the city ora riproposta (su Foxlife), l´aitante marito della bella e appassionata Charlotte non la tocca, preferendo chiudersi in bagno con una rivista specializzata in signore dal seno enorme; gioco innocuo ma, almeno per la sposa intonsa, insopportabilmente perverso.
E poi: qualche settimana fa sono state "Le Iene" (Italia Uno) a portarci in un locale padano apposito, dove uomini e donne vestiti da Mandrake si pestavano di santa ragione, finalmente erotizzati al massimo: meno una signora molto grassa che pretendeva di essere sospesa per aria, senza che ben tre robusti giovanotti con maschera di cuoio ce la facessero. L´anno scorso su un canale Sky trasmisero un´indimenticabile intervista a una innocua massaia americana che conviveva finalmente felice con un cavallo, peraltro non intervistato e girando per i vari canali capita di trovare allegrissimi bordelli dove le signore pesano tutte più di cento chili. Ma in tivù le perversioni non fanno info, come il libro di Bergner, ma solo enterteinment e non dei più riusciti, per un pubblico che mentre segue anche per caso queste trasmissioni castamente lubriche e comunque più amene di "Porta a Porta", non si arrapa ma si addormenta beato.
Repubblica 6.5.09
A Palazzo Chigi allarme rosso sul voto cattolico
I primi sondaggi preoccupano. Bonaiuti a pranzo con i direttori della stampa di Oltretevere
Per andare a "Porta a porta" disdetto un incontro al Quirinale. I sospetti contro i Radicali
di Francesco Bei
ROMA - «Adesso basta, bisogna reagire». Silvio Berlusconi, diviso tra quanti (le colombe Gianni Letta e Paolo Bonaiuti) gli consigliavano di abbassare i toni e altri che puntavano al contrattacco, alla fine ha preso la sua decisione seguendo l´istinto: «Andiamo da Vespa, adesso parlo io, avvertitelo». Decisivo un ultimo consulto a colazione con l´uomo che in questi giorni ha confermato il suo ruolo chiave nell´inner circle del Cavaliere: l´avvocato-consigliere Nicolò Ghedini, (la cui sorella Ippolita seguirà la causa di divorzio).
La "strategia del giunco", che si piega finché non sia passata la piena, non aveva sortito alcun effetto. Com´era prevedibile quel primo comunicato di domenica, in cui Berlusconi quasi scongiurava di far rimanere un «fatto privato» il divorzio, non era stato tenuto in nessun conto. Anzi. Nel mondo la notizia continua a montare, mandando in fumo un lungo lavoro di promozione dell´immagine di Berlusconi all´estero affidato agli ambasciatori. Ma soprattutto i primi focus group organizzati dalla solita sondaggista di fiducia rivelavano il baratro di un impatto molto negativo della vicenda Lario. Anzitutto sugli elettori cattolici praticanti.
Non basta. A funestare la giornata anche il quotidiano dei vescovi Avvenire, per la prima volta critico nei confronti del premier. Osservazioni avallate per di più dal presidente della Cei Angelo Bagnasco. L´allarme rosso a palazzo Grazioli scatta immediatamente e vengono decise alcune, importanti, contromisure. Si tratta di offrire subito una versione alternativa a quella di Veronica, smentire la storia delle «minorenni», delle «vergini che si offrono al drago», prima che si fissi nell´opinione pubblica. Così Berlusconi chiede a Vespa di organizzargli una puntata ad hoc per spiegarsi, per far girare le foto ufficiali di quella maledetta festa napoletana, già fatte pubblicare al settimanale di famiglia "Chi". Vista l´emergenza Lario e la puntata di Porta a Porta da registrare alle diciotto, Berlusconi decide di rischiare l´incidente diplomatico con il Quirinale. E fa annullare da Gianni Letta l´appuntamento già fissato alla stessa ora al Colle con il capo dello Stato per discutere della promozione a ministro della Brambilla.
Contemporaneamente al sottosegretario Paolo Bonaiuti viene affidata la missione più delicata e segreta. Un pranzo con i direttori dell´Osservatore Romano, di Civiltà cattolica, la rivista dei gesuiti, e di Avvenire, per cercare di limitare i danni. Incontro già fissato da tempo, si dice. Ma che ieri, inevitabilmente, è stato piegato agli eventi, per cercare di smussare, ridimensionare, cercare di bloccare sul nascere altri sgraditi editoriali sulla «sobrietà» del presidente del Consiglio.
Nel frattempo, nella cerchia del Cavaliere, si comincia a ragionare con calma sui possibili «mandanti» e organizzatori di quello che viene considerato «un complotto politico-mediatico». Va bene i giornali «di sinistra». Ma alcuni indizi avrebbero portato a individuare, tra gli ispiratori di Veronica, alcuni tasselli di una filiera che va dai radicali fino a Gianfranco Fini. Le tracce. L´avvocato a cui la moglie di Berlusconi si è affidata per la causa di separazione è la stessa professionista che aiutò Beppino Englaro a incardinare la battaglia per Eluana. «Una simpatizzante radicale», secondo gli uomini del Pdl. Altro elemento. Sofia Ventura, la docente che diede l´altolà alle «veline in politica» sulla rivista Ffwebmagazine (quella di Fini, appunto), è la stessa che figura tra i promotori di "Libertiamo", un´associazione vicina al Pdl ma di cultura e radici nel mondo radicale. E sempre da quell´area viene Diego Sabatinelli, segretario della Lega Italiana per il Divorzio Breve, il primo a invitare Veronica a trasformare la sua vicenda in una «battaglia civile e politica». «Una grandissima cavolata», ribatte il deputato radicale Matteo Mecacci, «forse cercano in noi un capro espiatorio per giustificare con i vescovi quello che è accaduto». Eppure i sospetti dei berlusconiani restano forti. Ritengono che una manina possa aver suggerito a Veronica di uscire allo scoperto. «Possibile - si chiedeva ieri pomeriggio in Transatlantico un esponente di primissimo piano del Pdl - che una prudente come la Bonino arrivi a esporsi in questo modo? Sembra quasi che ci abbia messo la firma». Il riferimento è a una dichiarazione molto severa di Emma Bonino - «Berlusconi è uno che le donne le disprezza - che ha colpito molto e irritato il Cavaliere.
il Riformista 6.5.09
La fiaba incompiuta di Berlusconi
di Adolfo Scotto di Luzio
All'inizio era una questione pubblica: la composizione delle liste per le europee. Poi il ciarpame senza pudore è diventato l'intollerabilità di un uomo che frequenta le minorenni. Di qui il divorzio e il nuovo confine tra pubblico e privato. La fine di un amore non deve finire sui giornali, dicono gli avvocati di Veronica Lario. Per Berlusconi, si tratta di una vicenda dolorosa e non ne vuole parlare. Questa commistione tra arena pubblica e interesse privato non è una novità; è anzi costitutiva del berlusconismo. Nell'Italia post tangentopoli non solo la nuova politica nasce sul terreno di una delusione, ma di questa stessa delusione si nutre l'idea che sia legittimo far prevalere l'interesse privato sul servizio pubblico.
Bisogna però chiedersi quali sono i contenuti di questa sfera privata? C'è spazio solo per la roba? Da giorni la stampa è piena di cifre e di numeri. Cosa si devono spartire i coniugi Berlusconi? Ma tutto questo, quel poco che i giornali sapranno, non supera i confini degli interessi famigliari. Quello che l'Italia divide con loro sono passioni e fantasmi interiori.
La forza di Berlusconi sta nella leggenda antidemocratica che è riuscito a incarnare nell'Italia senza ormai i partiti e, soprattutto, senza i loro grandi racconti. Non voglio essere frainteso, la legittimità del leader politico non è qui in discussione. Mi riferisco a un'altra cosa; al fatto che la società di massa cova al proprio interno un'esigenza profonda di stereotipi naturali potenti che sorgono, però, su di un terreno che gli è storicamente estraneo; miti, che derivano da un'altra epoca, al tempo di quando le aristocrazie erano ancora saldamente insediate nel possesso della terra, e che riaffiorano nel cuore stesso della nostra civiltà, nonostante il suo formale rifiuto del privilegio e la sua teoria dei diritti naturali. Eppure, l'uomo della democrazia, di questi miti della disuguaglianza, non sembra poterne fare a meno. I grandi conflitti affettivi all'interno della famiglia, la gelosia dei fratelli, la predilezione di un padre dispotico per una figlia dolce e soave a danno del resto della prole, la spartizione di un regno e le gare e gli odi tra consanguinei che ne derivano, sono tutti elementi che, variamente mascherati, si trovano nelle trame dei grandi racconti della letteratura e nelle vicende della famiglia Berlusconi.
Da qualche tempo, al centro di questa scena drammatica c'è una donna, Veronica Lario; una sorta di madre-regina severa e inaccessibile, che vive, discosta e offesa, nel suo castello; lontana dal marito e dai rumori del mondo. È una presenza scura in volto e incombente, che dice di parlare a nome dei figli, spingendo il marito a dichiarare che quanto ai figli, quelli, gli vogliono un bene dell'anima. Una specie di love-test in pubblico, proprio come accade nel grande teatro delle passioni.
C'è, nel discorso di Veronica Lario, un rapporto tra la cornice e il contenuto che non è stato ben distinto. L'immediatezza del suo messaggio è solo veicolata dal tema dell'autonomia femminile e dell'immagine televisiva degradata della donna. Per ovvie ragioni, questa cornice ha una immediatezza politica che tuttavia è fuorviante. Il nucleo centrale, affettivo e potente, è altrove. Evoca un tema eterno, quello del rapporto dei figli con il padre e del ruolo manipolativo della madre.
Le molte donne delle terre basse, la lunga schiera di veline e starlette, evocate dalla protesta sdegnosa della madre-regina sono l'altro polo della cattività del marito-re, diviso tra l'obbligo di sacrificare e l'ansia della fuga.
Ha ragione Ruggero Guarini quando sul Foglio di giovedì scrive che Berlusconi appartiene alla fiaba. Non alla politica, né alla storia.
Solo che della fiaba manca qui un elemento importante: la principessa liberata, che libera a sua volta l'eroe che la salva. L'universo femminile berlusconiano è pieno di giovinette, bionde e apparentemente piene di grazia; nessuna di loro è tuttavia in grado di far nascere l'eroe. Nessuna assomiglia a una Cenerentola in attesa del proprio liberatore. Neanche una traccia degli occhi stellanti di Julia Roberts in Pretty woman. Tutte hanno piuttosto il tratto berciante e invidioso delle sorellastre della fiaba, che sgomitano per un ballo a corte.
Diviso tra questi due poli, l'eroe incompiuto della fiaba berlusconiana parla di uno stadio della coscienza nazionale di cui non ci si può sbarazzare con un gesto di sufficienza. Non certo l'opposizione che vi recita la parte che fu dei sette nani.
Soprattutto, se Berlusconi è una fiaba, il terreno della fuoriuscita dal berlusconismo non può che essere fiabesco. Evoca per contrasto la necessità di un eroe solare, che non si aggiri più nelle selve muscose dei possedimenti della madre, e sia in grado di interpretare e di far maturare i tratti maschili, verticali, saldi, nella certezza di un sé autentico, e responsabili dell'anima della nazione. Che gli additi un compito e un futuro. Ho detto un eroe e non è detto che debba essere un uomo. Maschile e femminile essendo, come è noto, cosa diversa da maschio e femmina.
il Riformista 6.5.09
La Cei picchia ma non rompe
di Paolo Rodari
Il direttore di Avvenire Dino Boffo questa mattina è ancora al suo posto di lavoro e, dunque, è evidente che la "sculacciata" che ieri il suo quotidiano ha voluto dare - con un editoriale in prima pagina - a Silvio Berlusconi per come sta gestendo la separazione da sua moglie Veronica Lario (cui peraltro non viene lesinata qualche critica per come «da parte offesa abbia scelto la maggiore agenzia giornalistica per commentare le discutibilissime scelte del marito-premier») risponde in qualche modo al sentire dei suoi editori. I vescovi italiani, appunto.
Meno evidente è se il pezzo possa avere un peso nei rapporti finora non certo difficili tra l'attuale governo e la Chiesa italiana. Ovvero, se l'editoriale resti una "sculacciata" o possa assumere i toni di un'aperta rottura tra le parti.
Due frasi, contenute nello stesso editoriale, possono aiutare a sciogliere il rebus. La prima è verso la fine. La firma femminile del pezzo (di lei diremo poco oltre) scrive che «un uomo di governo va giudicato per ciò che realizza, per i suoi programmi e la qualità delle leggi che contribuisce a varare». Come a dire: il giudizio della Chiesa su Berlusconi resta legato anzitutto alla sua azione politica prima che alle sue vicende personali.
La seconda è una frase immediatamente successiva a quella appena citata. Si legge che «noi continuiamo a coltivare la richiesta di un presidente che con sobrietà sappia essere specchio, il meno deforme, all'anima del paese». Come a dire: se è vero che il premier viene giudicato per la sua azione politica, è anche vero che su questa vicenda la misura è colma e il giornale dei vescovi - anche per rispettare la sensibilità dei propri lettori - non può tacere. È un concetto col quale il premier - gli piaccia o meno - deve fare i conti. Un concetto la cui stesura, affinché suoni forte e chiara, è stata affidata non a caso a Rossana Sisti: coordinatrice da tredici anni di Popotus, il supplemento del giornale dedicato ai più piccoli, si è occupata per parecchio tempo sempre su Avvenire di tematiche sociali e soprattutto familiari. La vicenda Berlusconi-Lario ha un impatto educativo notevole e l'editoriale affidato alla Sisti è probabilmente la migliore scelta per sottolineare la cosa.
Dunque, la "sculacciata" c'è tutta e non è da poco. Ma dire che significhi qualcosa di più è ardito. Da una parte, infatti, c'è il totale silenzio del Vaticano e del suo giornale l'Osservatore Romano, dall'altra c'è Avvenire, e ieri sera anche il presidente della Cei Angelo Bagnasco: «Il richiamo alla sobrietà e alla responsabilità per tutti - ha detto il cardinale- è sempre molto positivo». Un avvertimento per il futuro il suo. Per dire che se la rotta intrapresa da Berlusconi non cambia, la situazione tra la Chiesa e il governo può peggiorare.
Ieri pomeriggio Pierluigi Bersani ha provato a leggere la vicenda in altro modo. A suo dire l'uscita di Avvenire era troppo soft tanto che ha dichiarato di non immaginare «cosa sarebbe successo se questa vicenda avesse riguardato Prodi». La risposta che avvenire.it ha voluto dare in un commento intitolato La Puntura (lo stile sembra quello del direttore Boffo) chiarisce come, invece, Avvenire sia super partes. «Per noi parlano i fatti» si legge nel commento apparso sul sito web del giornale. E ancora: «Bersani provi a chiedere al suo collega Sircana, già portavoce del presidente Prodi, come Avvenire si è comportato allorché fu lui a ritrovarsi al centro di una storia non poco pruriginosa (due anni fa venne fotografato mentre parlava da una macchina con un transessuale, ndr). Dalla risposta di Sircana potrà immediatamente intuire che con la sua dichiarazione lei s'è scelto il bersaglio sbagliato, seminando al vento parole vuote. Questo giornale, su certi temi, usa con tutti - assolutamente tutti - la stessa misura, fatta di rispetto e delicatezza. Anche se lei pare non essersene accorto».
Repubblica 6.5.09
Se la Chiesa vieta l’aborto alle donne violentate
risponde Corrado Augias
Egregio Dott. Augias, sabato 25 Aprile, verso le 18, mi sono sintonizzata sull'emittente cattolica Radio Maria. Un professore spiegava perché i cattolici devono essere contrari alla cosiddetta "pillola del giorno dopo". Il professore ha toccato anche il dramma delle donne che subiscono violenza ribadendo con forza il no alla pillola del giorno dopo anche dinanzi a simili circostanze. Motivava il rifiuto con il fatto che è difficile che una donna violentata resti incinta e che comunque non si può reagire al male con una mancanza di bene; inoltre ricordava il secco "no", espresso dal vicepresidente della Pontificia Accademia per la Vita monsignor Jean Laffitte in un articolo sull' Osservatore Romano . Queste motivazioni mi hanno turbato; offendono tutte le vittime di stupro che a seguito della violenza sono rimaste incinte. Come si fa a dire che la pillola del giorno dopo è una mancanza di bene dinnanzi ad un male così atroce qual è lo stupro? Semmai è negare tale farmaco che rappresenta un ulteriore male che si aggiunge ad un male devastante! Mi chiedo se questa non è un'ulteriore violenza che viene fatta sul corpo e sull'anima di queste povere creature!
Danielle Ferri d.ferri@fastwebmail.it
Radio Maria è una stazione nota per le sue posizioni ultraconservatrici. In questo caso però ciò che quel professore ha dichiarato è in linea con quanto proclamano le gerarchie vaticane. Ricordo per esempio che un paio di anni fa il cardinal Bertone, Primo Ministro vaticano, partecipando al Meeting di Rimini, attaccò con decisione Amnesty International che aveva inserito tra i diritti umani l'interruzione di gravidanza per le donne violentate. Poche settimane fa ha suscitato scandalo nel mondo la scomunica inflitta dall'arcivescovo brasiliano José Cardoso Sobrinho al medico che aveva fatto abortire una bambina di 9 anni (del peso di 33 chili!) violentata e messa incinta dal patrigno. La legge brasiliana consente l'aborto in caso di stupro o di problemi per la salute della madre. La sventurata bambina rientrava in ambedue le categorie essendo incinta di due gemelli, dunque a rischio della vita. L'implacabile arcivescovo di fronte alle proteste ha dichiarato: «La legge di Dio è superiore a qualunque legge umana. Quindi se la legge umana è contraria alla legge di Dio non ha valore». Chiedere a una donna di portare a termine la gravidanza in nome del diritto alla vita dell'embrione significa obbligarla a farsi strumento della violenza per nove lunghi mesi. Diventare poi madre di un bambino che è figlio anche di un "nemico". Oppure scegliere di affidarlo ad altri. Drammi che sembrano non interessare l'ideologia. Così come si trascura che la pillola del giorno dopo non è un abortivo ma un semplice anticoncezionale come il preservativo o la pillola. Dunque di che mai parlava il professore?
l’Unità 6.5.09
Che guaio se Dell’Utri vuol riscrivere la storia
Leggi razziali, avversari politici perseguitati e fatti uccidere...
Certo però Mussolini non fece l’errore di promuovere federale o ministro una delle tante amanti di passaggio
Con tutte le grane che ha, pubbliche e private, ci mancava anche il sodale più caro e, dicono, più colto, Marcello Dell’Utri, a procurare altri guai al Cavaliere. Giusto alla vigilia della visita in Campidoglio dove più d’uno ammiccherà al titolo di «imperatore» nel momento in cui, impettito, Silvio I° si affaccerà su Via dei Fori Imperiali. Berlusconi ha appena riconosciuto nell’antifascismo e nella Resistenza il «valore fondante» della Repubblica e Dell’Utri ti va a ripescare la storia del Mussolini «troppo buono», del fascismo diventato «orrendo» solo per colpa di altri (?), dell’alleanza con Hitler provocata dalla «inique sanzioni», delle leggi razziali che Lui voleva «blande».
Dell’Utri dovrebbe forse sapere che Mussolini si attribuì la responsabilità del delitto Matteotti, don Minzoni, Gobetti e Amendola morirono di bastonate, i fratelli Rosselli furono assassinati, Gramsci venne spento in carcere, circa 5 mila antifascisti subirono nel complesso 28 mila anni di carcere, altre centinaia patirono l’esilio, migliaia di italiani ebrei perirono nei lager. Grazie a quella «brava persona che ha fatto degli errori» (sic). Un errore, è vero, non lo fece: non promosse ministro né federale una delle amanti di passaggio.
L’intervista contiene altre amenità destinate a rendere editorialmente appetibili quei Diari mussoliniani trovati in Svizzera che nessuno storico serio degna di attenzione. Ancora due perle. La prima: le «veline» sono «più apprezzabili di alcune tele giornaliste Rai». Perfettamente in linea col Capo. La seconda: la Rai? Lui la occuperebbe, come adombra Gasparri ritenendola “in mano alla sinistra”. Qui qualcosa non quadra. Guardi Dell’Utri, che la Rai lei l’ha già occupata. Proprio con una legge Gasparri.
Repubblica 6.5.09
La scoperta degli scienziati cinesi funziona come i contraccettivi femminili
Arriva il "pillolo", sarà una puntura
di Federico Rampini
LONDRA. Sta per arrivare la pillola maschile. Solo che non è una pillola. È un´iniezione nel sedere. Funziona nel 99 per cento dei casi, la stessa percentuale della pillola anticoncezionale per le donne, e dunque promette un futuro in cui la responsabilità di procreare o meno sarà suddivisa equamente tra i due sessi.Il pillolo è una puntura contraccettivo per lui ecco l´ultimo test
Senza più scaricare l´onere di non restare incinta soltanto su quello femminile. Non saranno più solo le donne a doversi ricordare di prendere la fatidica pillolina, ma già tra di loro sorgono i primi dubbi: si ricorderanno, gli uomini, di fare l´iniezione alla data prevista? Dimenticare, per una donna, comporta il rischio di una gravidanza non desiderata. Ma se dimentica l´uomo, a lui, personalmente, non succede niente.
Pubblicata da un´influente rivista scientifica britannica, il Journal of Clinical Endocrinology and Metabolism, la notizia proviene dalla Cina, paese che ha fortemente investito nella ricerca dei metodi anticoncezionali per fare fronte al suo pressante problema demografico. Scienziati del Centro ricerche per la Pianificazione familiare di Pechino hanno iniettato per due anni dosi di testosterone in mille volontari uomini: per tutto quel periodo soltanto l´1 per cento ha avuto figli. Gli uomini erano tra i 20 e i 45 anni d´età e nei due anni precedenti avevano avuto almeno un figlio. Erano sposati con donne tra i 18 e i 38 anni che non avevano mai avuto problemi di riproduzione. L´esperimento è il più ampio mai condotto su un anticoncezionale maschile basato sul testosterone. La quota del 99 per cento di efficacia equivale a un pieno successo, considerato che nessun anticoncezionale funziona al 100 per cento: tra l´1 e il 2 per cento delle donne che prendono la pillola restano incinte.
Commenta il dottor Yi-Qun Gu, uno dei ricercatori impegnati nel progetto: «Per le coppie che non possono o preferiscono non usare i contraccettivi femminili, l´alternativa finora era limitata alla vasectomia, ai profilattici o al coitus interruptus. Il nostro studio dimostra che un contraccettivo ormonale maschile può essere una soluzione valida». La pillola anticoncezionale, introdotta negli anni Sessanta, rivoluzionò i rapporti sessuali ma assegnò esclusivamente alle donne il peso della responsabilità di riprodursi: erano loro a doverla prendere e a non dimenticare il rito quotidiano. Da anni la scienza cerca un "pillolo", una pillola per l´uomo, ma i tentativi fatti fino ad ora avevano incontrato problemi di affidabilità e di effetti collaterali negativi, come sbalzi di umore e una diminuzione della libido sessuale. Nell´esperimento in Cina, gli uomini hanno ricevuto dosi di 500 milligrammi di testosterone, riducendo la produzione di due agenti chimici del cervello che a loro volta fermano la produzione di sperma. Non ci sono stati effetti collaterali negativi, tranne un attacco di forte acne in alcuni volontari, e il procedimento è reversibile: sei mesi dopo l´ultima iniezione, lo sperma è tornato ai livelli per la riproduzione. Ulteriori test saranno necessari per valutare le conseguenze a lungo termine: se andrà tutto bene, il "pillolo" potrebbe essere introdotto sul mercato entro cinque anni. «Era ora», commenta la Family Planning Association, un´associazione britannica che si occupa del controllo delle nascite.
Repubblica 6.5.09
Ai francesi la palma dei sogni d’oro
di Maria Novella de Luca
Per loro ben 530 minuti di sonno al giorno, contro i 498 degli italiani e i 469 degli sveglissimi coreani. Lo dice l´Ocse. Che racconta 30 paesi del mondo attraverso l´uso che ogni popolo fa del proprio tempo
Messicani incollati alla tv, a olandesi e americani il titolo di "divoratori di cibo"
Sono numeri, eppure dicono molto, anzi moltissimo. Perché raccontano non solo i giorni ma anche le notti, non soltanto quanto lavoriamo, ma anche quanto dormiamo, in quanto tempo mangiamo, laviamo i piatti, o che cosa guardiamo in tv. La classifica è seria, l´ha compilata l´Ocse, che con puntigliosa precisione ha calcolato in ore e minuti, le abitudini quotidiane dei cittadini di 30 paesi, dall´Europa agli Usa, dall´Australia al Messico.
Una vera miniera di dati che rivelano ad esempio che i francesi sono la nazione più "dormigliona" del mondo, con 530 minuti di sonno al giorno, contro i 518 degli americani, i 498 degli italiani, e i 469 minuti dei coreani, che vantano il record non invidiabile di "paese più insonne del mondo". Il gusto per il sonno non è però l´unico vanto dei francesi, che affermano anche di impiegare oltre due ore al dì per consumare comodamente colazione, pranzo e cena, seguiti a stretto giro dai neozelandesi inferiori soltanto di 5 minuti, mentre gli italiani, nonostante la fama planetaria della nostra cucina, si concedono soltanto 114 minuti per i pasti. Ma la palma del fast-food, anzi del cibo "divorato", spetta ad americani e canadesi, che per circa 4 pasti al giorno impiegano poco più di un´ora, incuranti forse delle conseguenze su stomaco e pancreas. E chi sono i maggiori consumatori di Tv del globo? L´Ocse ha calcolato che i messicani spendono il 48% del loro tempo libero facendo zapping, contro i tedeschi che al piccolo schermo dedicano soltanto il 28% delle loro ore private. Ed è proprio sulle ore di svago e di riposo che si registrano le maggiori disparità. Mentre in Norvegia uomini e donne possono contare sulla stessa identica quantità, in Italia, sottolinea l´Ocse «i maschi riescono ad avere ben 80 minuti in più di tempo libero al giorno rispetto alle donne». Nel senso che sottratte le ore di sonno, dei pasti e della professione, le donne italiane utilizzano ciò che resta della giornata per i compiti domestici. Un record non proprio gratificante in tema di parità, mentre sul fronte del lavoro in Italia le ore annuali sono 1536, contro le oltre 1800 della Polonia e degli Usa e le 1459 della Francia. I Paesi dove si lavora di meno sono la Svezia e la Norvegia che con 1290 ore l´anno ha il tasso di "tempo occupato" più basso del mondo.
Addentrandosi ancor più nel dettaglio l´Ocse ha quindi conteggiato i minuti che in ogni paese si dedicano alla cura di se stessi. I più avari in materia risultano belgi, finlandesi e inglesi, che non sfiorano nemmeno l´ora di orologio, mentre gli italiani si concedono ben 61 minuti di bagni e docce, ma il record a sorpresa spetta ai coreani, che dormono poco ma utilizzano poi 71 minuti della loro giornata per il benessere. Infine lo sport. Qui in vetta ci sono gli spagnoli che non solo divorano il calcio in tv, ma utilizzano il 12% del loro tempo libero facendo jogging o tennis, a differenza di americani e turchi che spendono in palestra una dose infinitesimale della loro giornata.
Repubblica 6.5.09
L'intervento del filosofo domani ai "Classici" di Bologna
La logica del Denaro e l’esistenza di Dio
di Massimo Cacciari
L´impossibilità di stabilire il confine tra i consumi superflui e quelli necessari
Con questo testo di si inaugura domani a Bologna nell´Aula Magna di Santa Lucia l´ottava edizione della manifestazione "I Classici", dedicata quest´anno al tema del denaro col titolo "Regina pecunia"
Regina pecunia... ma di quale "pecunia" parliamo? Di quella nel cui stesso nome risuona la relazione alla sostanzialità della cosa, al possesso del "pecus", del capo di bestiame, dell´animale domestico, che il "pastore" custodisce gelosamente? Questa "pecunia" è stata detronizzata da tempo. Tutte le proprietà della cosa in quanto valore di scambio si presentano nel denaro scisse dalla loro forma naturale. Il denaro rende ora omogeneo in quanto merce tutto ciò che per natura è differente. "La comune bagascia del genere umano" rende–uno il cuore di Antonio e i cani, gli asini, gli schiavi e i palazzi dei suoi zelanti amici. Shakespeare docet, Marx discit.
Ma il denaro si distingue radicalmente dall´antica pecunia non solo perché de-sostanzializza il mondo, ma anche perché esclude ogni avarizia. Se lo tieni fermo "evapora". L´avaro vorrebbe che il suo denaro non si "solidificasse" mai, lo vorrebbe "liquido" sempre, e che proprio in tale forma potesse moltiplicarsi. Ma ciò è impossibile. Il denaro, per riprodursi, ha bisogno di "sparire" di nuovo nel valore d´uso, trasformandosi in merce. Il denaro deve "morire" per "rinascere". La "mistica" di questo denaro è stata spiegata da Marx una volta per sempre.
Ma ciò che forse non è stato bene appreso dalla lezione marxiana è l´immanente e insuperabile contraddizione di tale dialettica. Se il denaro deve "gettare" sempre nuove merci fuori di sé "come combustibile nel fuoco" (Marx), e dunque creare e ri-creare bisogni, nulla assicura che tali merci possano di nuovo traformarsi in valori. Il soggetto che consumando la merce fa "rinascere" il denaro non è lo stesso che lo "arrischia" nella produzione. Da qui la tendenza o la "tentazione" insuperabile a non "solidificarlo", a tentare di moltiplicarlo senza farlo uscire dalla sua "astrazione". Ma non esiste alcuna "miniera" dove il denaro possa custodirsi senza annullarsi. Così come non vi è alcun "mercato" che garantisca il suo ritorno "a casa", più forte e più pronto a nuove avventure.
Il denaro è segno di crisi. Anche per l´individuo. Gli enti-merce di cui è l´universale equivalente sono tutti perituri. Lui solo appare come l´indistruttibile. E dunque il desiderio per lui non può placarsi nel possesso. Il denaro produce un illimitato desiderio, che nessuno dei prodotti in cui si incarna potrà mai soddisfare. Il pastore poteva "restar-contento" del suo pecus. Mai lo potrà chi possiede denaro ed è costretto a "gettarlo" nella circolazione, a "perderlo " per cercare di ritrovarlo, né lo potrà chi, grazie alla infinita potenza del denaro, non acquista che la "miseria" di queste effimere merci.
Tuttavia è necessario parlare dell´essenza metafisica del denaro senza alcun moralismo e lontani da ogni reazionario disprezzo. È vero che il processo di circolazione che il denaro genera produce la perenne insoddisfazione del consumo, ma è vero anche che in ciò si rappresenta la mia autonomia, la "libertà" della persona rispetto a ogni misura o legge universali di felicità o benessere. Soltanto io posso sapere quanto esso mi sia costato e soltanto io posso sapere quale grado di benessere mi dia l´acquisto e il consumo che esso consente. Non esistono misure obiettive di felicità, né esiste la possibilità di determinare in assoluto dove corra il discrimine tra bisogni necessari e superflui.
Certo, nulla di essenziale può esprimersi nel desiderio individuale, e perciò nulla di essenziale può essere perseguito attraverso la potenza universale del denaro. Ma lungi dal portare alla conclusione vetero-moralista: "il denaro non conta", "non può renderci felici", etc., ciò non rappresenta che quella "legge individuale", che Georg Simmel ha illustrato nel suo magnum opus La filosofia del denaro, pubblicato nel 1900, pietra miliare del contemporaneo: nulla può imporci la "misura" del nostro essere felici. Il denaro è universale proprio nel suo esprimere l´impossibilità di una tale "misura" e l´inessenzialità del nostro desiderio, "liberandoci" così dalla "superbia" di ergerlo in qualche modo a norma o modello. Sullo specchio del denaro si rivela soltanto l´infinità del desiderio. E questo soltanto ci è comune. Ma come il denaro, per divenire, deve "morire" nella individualità determinata della merce, così l´infinità del desiderio per vivere deve incarnarsi nella inessenzialità del mio essere felice o in-felice.
Questa paradossale onnipotenza del denaro mai risolvibile in atto, sempre incompiuta, può essere intesa come "mondanizzazione" del dio giudaico-cristiano? Ancora Simmel lo riteneva certo. Dovremmo oggi essere diventati tutti più cauti nell´applicare ovunque come passe-partout l´idea di secolarizzazione. L´onnipotenza infinita dell´immagine del denaro è quella di un poter tutto comprare. Ma questo è appunto actu irrealizzabile. E tutto ciò che è comprabile è inessenziale. L´onnipotenza divina, invece, si "svuota" di sé per poter tutto qui-e-ora amare. Anche l´amare non è mai alla meta, mai "contento", ma non perché trapassi da consumo a consumo; all´opposto: perché il suo "amato" è oltre ogni logica del possesso e del consumo. Il suo scambio è puro dono, mentre il denaro "funziona" soltanto in quella relazione dove nulla di "gratuito" intervenga. "Ciò è qualcosa di gratuito", così parla il denaro – e intende: "ciò è qualcosa di insensato, di illogico, di inutile". Tuttavia la sua potenza deve alla fine riconoscere quella "legge individuale" che afferma l´inessenzialità del desiderio e del consumo che essa consente. E così, paradossalmente, per negativo, il denaro stesso fa cenno a quell´"inutile" della gratuità del dono dove si custodisce l´inconsumabile e indistruttibile, che continuiamo malgrado tutto ad avvertire in noi, "al cuore" stesso della nostra perenne ricerca e del suo continuo fallire.
Corriere della Sera 6.5.09
Il Prc e il voto di Cipputi
E la sinistra «scaricò» gli operai
di Gian Antonio Stella
Il voltafaccia di «Liberazione» Reportage-invettiva deI quotidiano di Rifondazione: state con chi vi licenzia e vi manda a morire
«Amate i padroni»: e il Prc scaricò gli operai
Uffa, gli operai! A leggere Liberazione di ieri, pare proprio che a Rifondazione comunista non ne possano più di questi Cipputi che si sono messi a votare a destra. Non li riconoscono.
E restano inorriditi come gli abitanti di Santa Mira nel vecchio film di fantascienza L’invasione degli ultracorpi, quando assistono con ribrezzo allo schiudersi di enormi baccelli dai quali escono esseri identici ad amici, parenti e compaesani. Ma mostruosamente irriconoscibili dentro.
Così è stato vissuto, l’ultimo sondaggio del Sole 24 Ore, con quel 43,4% di operai decisi a votare Pdl, percentuale che con la Lega Nord salirebbe a uno stratosferico 58,2%: come una specie di invasione di ultra- operai. Tanto da spingere il quotidiano comunista a pubblicare un reportage da Torino di Maurizio Pagliassotti che, sotto il titolo Se lo straniero fa paura più del licenziamento, manifesta tutto lo sgomento di un naufrago alla deriva tra i flutti di un mare improvvisamente ignoto.
«La generazione di operai che arriva intorno ai 30-35 anni è in larga parte persa. Sono rimbambiti dalla televisione, dei deficienti», si sfoga la Rosina, operaia Riv-Skf di Airasca, «Hanno il mito dell’uomo forte, di quello che risolve problemi. Senza tener conto dell’immagine da galletto tra le donne che Berlusconi continua a propagandare. C’è da mettersi le mani nei capelli».
Una voce estemporanea? Per niente. Basti leggere il quadro d’insieme, venato di sarcasmo: «È vero amore ormai tra gli operai italiani e gli imprenditori che li licenziano e li mandano a morire sul posto di lavoro. La classe operaia apprezza con crescente entusiasmo che i poveracci paghino una crisi con i licenziamenti e i manager ingrassino sempre di più. La politica del governo che esclude, anche durante questa catastrofica crisi, ogni minima redistribuzione della ricchezza dopo che la forchetta salari- rendite è di fatto sfondata, è gradita ». Gli operai italiani, prosegue l’articolo, «amano il brivido, quindi, pollice alzato anche per la 'norma salva manager', bollata dal presidente della Repubblica come 'da riscrivere', che di fatto allenta le responsabilità di chi per puro profitto condanna a morte i lavoratori. Molto bene anche l’inesistente lotta all’evasione fiscale verso chi non paga le tasse perché non ha ritenute alla fonte. L’imprenditore che licenzia al primo calo del fatturato, non paga le tasse e manda al rogo i suoi dipendenti sta dalla stessa parte del suo operaio, ovvero con Silvio Berlusconi».
Un’invettiva. Lo sfogo di un innamorato ferito dal più inaspettato dei tradimenti. Eppure, senza farla troppo grossa recuperando George Orwell e le sue parole sulla difficoltà di tanti intellettuali ad accettare la «puzza del proletariato» tra gli odori della tripperia ne La strada di Wigan Pier, è sufficiente rileggere quanto diceva otto anni fa lo straordinario fondatore del manifesto Luigi Pintor: «Qualsiasi sommossa di schiavi, da Spartaco in poi, ha il potere di sedurmi malgrado il costo e la vanità dell’impresa. Rivoluzionario nella vita pubblica, sono tuttavia rimasto profondamente borghese nel privato, senza trovare un’armonia tra comportamenti intimi e ideali pubblici. Io non c’entro niente con il mondo di cui ho parlato per una vita. Un po’ come molti intellettuali di sinistra».
«In che senso?», gli chiese Simonetta Fiori. E lui: «Non sanno niente della realtà di cui si occupano. I vecchi comunisti cercavano di porre rimedio alla scissione, invitando noi giovani borghesi a mescolarci nelle mense con gli operai. Era un rimedio ingenuo, illusorio. La sinistra è rimasta quanto di più lontano dalle pulsioni degli uomini. La destra vincerà le elezioni proprio perché intercetta i bisogni reali degli individui». O almeno non irride a certe paure.
Era già chiara allora, la tendenza. Anzi, già nel ’97 (dodici anni fa!) Gianfranco Pasquino aveva messo in guardia contro il modo con cui certi ministri ulivisti stavano al potere: «Questi qui si sentono assai migliori del Paese che governano, dell’opinione pubblica, delle cosiddette parti sociali e, se mi posso permettere, degli intellettuali e dei professori». E all’inizio di questo decennio Ilvo Diamanti spiegava già che nel Veneto e nel Friuli (bollati da certa gauche come modelli repellenti perché il tornitore puntava a metter su una sua fabbrichetta accettando l’«auto-sfruttamento ») il centro-destra mieteva tra gli operai il 66%.
Macché: tutto inutile. Come inutile fu la lezione delle «presidenziali» francesi col ballottaggio tra Chirac e Le Pen e il crollo socialista salutato da Liberazione con funesta esultanza: «Arlette Laguillere, candidata di Lutte Ouvrière, con quasi il 6%, arriva a picchi del dieci-quindici per cento tra il voto operaio!».
E inutili gli avvisi ai naviganti della «sinistra antipatica» da parte del mal sopportato Luca Ricolfi. E inutile la batosta dell’anno scorso, con la Lega che (a dispetto di quel Bertinotti che aveva dedicato la presidenza della Camera «alle operaie e agli operai ») umiliava la Sinistra Arcobaleno in storiche roccaforti operaie come Valdagno (30% contro 2,1), Arzignano (37 contro 1,5), Chiampo (41 contro 0,9) o San Pietro Mussolino: 49,8 contro 0,6%. Tutto inutile.
Fosse ancora vivo Lucio Colletti, uno cresciuto tutto dentro la gauche, avrebbe gioco facile a ripetere la sua rasoiata: «Questi intellettuali sono così boriosi da disprezzare il popolo quando non gli permette di conseguire la vittoria elettorale». Non sarebbe ora, per la sinistra tutta, e non solo quella rifondarola, di uscire dai vecchi schemi per tornare a parlarci, con gli operai?