giovedì 7 maggio 2009

l’Unità 7.5.09
Bertinotti: «Alle Europee? Tanto peggio tanto meglio»
L’ex leader Prc duro e amaro con Pd ed ex compagni di strada. «Dopo Genova avremmo dovuto fondare un nuovo soggetto politico»
Intervista a Fausto Bertinotti di Simone Collini


Abbiamo avuto due sinistre. Non ne abbiamo più nessuna. Dobbiamo provare a ricostruirne una». Fausto Bertinotti chiude con questa frase “Devi augurarti che la strada sia lunga” (Ponte alle Grazie, 229 pagine), che sta per arrivare nelle librerie. «Non ero molto convinto di farlo», spiega nel suo studio al quarto piano di Palazzo Theodoli, sede della Fondazione della Camera di cui è presidente. A sollecitarlo sono state Ritanna Armeni e Rina Gagliardi, insieme alle quali poi lo ha scritto. Attraverso «il cannocchiale di un’educazione sentimentale», stila un bilancio e analizza «le ragioni di una sconfitta». Si parte dall’infanzia nella «Milano operaia» e si finisce, appunto, sul fatto che oggi in Italia non esiste più la sinistra. Per l’ex segretario di Rifondazione comunista è necessario un «big bang» per chiudere con gli esperimenti fin qui falliti (dal Pd al Prc) e riportarla in vita. Tanto che quando l’intervista è finita e si avvia verso l’uscita che dà su piazza del Parlamento, Bertinotti si lascia andare a una battuta: «Io non l’ho mai detto, ma per il risultato delle europee è proprio il caso di dirlo: tanto peggio tanto meglio». Una battuta, appunto, perché questa «destra populista» va contrastata e perché il suo voto alla sinistra (e libertà) non lo farà mancare. Ma che non è poi così estranea al ragionamento che fa l’ex presidente della Camera.
Perché sostiene che la sinistra non esiste?
«Una sinistra diffusa esiste. Anzi, è visibilissima la contraddizione tra quella che esiste nel paese e il vuoto di sinistra politica, l’assenza di un discorso e di una forza organizzata di questo tipo. Basti pensare che per la prima volta nella storia repubblicana c’è stato uno sciopero generale organizzato dalla Cgil senza che il maggiore partito di opposizione vi abbia aderito. Una manifestazione come quella della Cgil al Circo Massimo mette sulla scena un popolo laburista come non c’è in nessun altro paese europeo. A cui non corrisponde però un partito. E questo vuoto lascia sul campo solo il populismo, rappresentato da Berlusconi, dalla Lega e da Di Pietro. Siamo di fronte a una solitudine degli operai. Che non a caso, come ha mostrato un recente sondaggio, votano più il Pdl che non il Pd».
Gli operai, stando al risultato delle politiche, non votano troppo neanche la sinistra radicale. Che in quest’annonon è riuscita a risalire la china.
«Dalla sconfitta elettorale si è ricavato il peggio a sinistra. Ci sono state conseguenze più disastrose del risultato medesimo, sia nell’accentuazione che nel Pd si è presa come partito senza radice sociale, sia nella regressione neoidentitaria che ha colpito Rifondazione comunista».
Partito che lei ha guidato per 12 anni: avrà delle responsabilità per come si è conclusa la vicenda, o no?
«Io ho tentato un revisionismo di sinistra, ho provato a produrre una rinascita partendo dall’incontro tra il movimento operaio e il movimento altermondista. Noi siamo stati, lo dico anche con orgoglio, l’unico partito al mondo che è stato ammesso alla firma del Social forum di Porto Alegre. E poi su Genova abbiamo investito tutta la nostra forza. Il dubbio che oggi ho è di non aver osato troppo in quell’occasione».
Cioè?
«Forse lì, dopo Genova, Rifondazione comunista avrebbe dovuto tentare di fare l’operazione dell’araba fenice, risorgere dalle sue ceneri, proporre la costruzione di un nuovo soggetto politico. Non, come giustamente abbiamo fatto e come secondo me bisognerebbe continuare a fare, a fine corsa. Ma lì, nel pieno di un movimento allo stato nascente».
Nel libro parla del fallimento del governo dell’Unione e di Prodi come “spregiudicato uomo di potere”: perché?
«Il fallimento del governo Prodi è derivato dalla sua impermeabilità alla società italiana e al movimento. Era fortissima la domanda di cambiamento, erano tante le attese, tutte fondate sulla discontinuità rispetto al governo Berlusconi. Questa discontinuità non c’è stata. Basti pensare alla prima Finanziaria, all’aspettativa di un minimo di redistribuzione, quando noi invece abbiamo fatto l’operazione del cuneo fiscale».
Voi non avete commesso errori?
«Per un verso abbiamo sopravvalutato la permeabilità del governo alla sinistra. E forse abbiamo sopravvalutato noi stessi. Cioè abbiamo pensato che anche qualora il movimento avesse una fase di stanca, la sinistra radicale avrebbe potuto alimentare questa permeabilità. Ma non abbiamo fatto i conti con la nostra esiguità di peso, nella società».
Esclude che un tipo diverso di centrosinistra possa riuscire dove voi avete fallito?
«Il centrosinistra italiano può essere idoneo ad accompagnare la modernizzazione, si veda ad esempio l’introduzione dell’Euro, ed è invece totalmente inidoneo ad operare la trasformazione, cioè la riforma economica e sociale del paese. Per quanto riguarda lo specifico del governo Prodi, dietro il programma di 180 pagine, avanzato, c’era come nascosto un programma reale di cui erano depositarie le forze moderate del centrosinistra, la tolda di comando di quell’esecutivo. Ed era un’idea di sostegno delle ragioni della globalizzazione capitalistica, intesa come modernizzazione da sostenere e non come restaurazione capitalistica».
E lei in tutto questo? Sicuro che abbandonare la guida del Prc ed assumere il ruolo di presidente della Camera sia stata la scelta giusta?
«Riconosco che è stata una scelta problematica, perché era stata pensata in continuità con la storia della sinistra italiana, che aveva occupato quel posto come valorizzazione del Parlamento quale luogo di accrescimento della democrazia nel paese. Questo punto conteneva un errore analitico. Cioè non ha visto quanto la tendenza a far prevalere l’esecutivo sulle assemblee avesse logorato gli istituti parlamentari nella realtà. Tanto che quando ci venne addosso l’offensiva della casta ha potuto far breccia perché agli occhi del paese il Parlamento non è più il luogo della decisione ma è quasi un lusso. Me ne sono accorto poco dopo che ho assunto quel ruolo, di fronte alla decretazione sempre maggiore, al fastidio crescente da parte dell’esecutivo per il dibattito parlamentare, per le sue lungaggini».
Parla della scorsa legislatura?
«Sì. Figuriamoci adesso».

Repubblica 7.5.09
Prodi-Bertinotti la portavoce Zampa polemizza in latino


ROMA - «Le parole di Bertinotti sollecitano un´unica risposta. Quella che il presidente Prodi usa in casi come questi: "de mortuis nisi bonum"». Sandra Zampa, portavoce del Professore risponde così, "dei morti non si parla che bene", all´ex presidente della Camera che nel suo ultimo ha scritto che Romano Prodi è «diventato uno spregiudicato uomo di potere». Pungente anche il commento di Silvio Sircana, ex portavoce del governo: «Prodi è proprio colui che si è speso e non poco per "sdoganare" Bertinotti, dandogli l´occasione (miseramente sprecata) come presidente della Camera di dimostrare che la "questione comunista" era definitivamente superata. Forse il comandante Fausto dovrebbe domandarsi chi sia veramente "il leader politico che negli ultimi anni ha avuto la peggior parabola politica discendente".

l’Unità 7.5.09
Veronesi, l’etica laica e la battaglia delle fedi
La conversazione con Cecchi Paone


Alcuni estratti del colloquio del grande scienziato con Cecchi Paone su Sky
«L’etica laica è superiore a quella religiosa perché implica il rispetto dell’altro»

Cecchi Paone: Ben ritrovato Professore. Di recente ho letto una ricerca di «Signs Nanotecnology», una rivista dedicata alle nanotecnologie, secondo cui i Paesi dove è ancora molto forte il sentimento religioso sono quelli più arretrati dal punto di vista scientifico-tecnologico.
Veronesi: È normale. È una conferma perché scienza e fede sono una contraddizione perché la fede è credere ciecamente in una verità che può essere rivelata ma anche solo tramandata. Senza esercitare potere critico che anzi è visto male.
C.P.: Bisogna accettare il dogma
V.: Accettare perché è una verità già preconfezionata, ti arriva direttamente da Dio. E Dio non può sbagliare e quindi tu lo devi prendere così come è. Inevitabilmente il fedele, il credente è un integralista perché non si può credere a metà. La scienza è sul fronte opposto, la scienza non crede ma verifica sperimentalmente con potere critico. Quindi se il credente è integralista, lo scienziato è possibilista per sua natura. Quindi siamo in due mondi diversi. È chiaro che il mondo della scienza deve procedere per farsi strada in una società molto religiosa con difficoltà cercando di trovare dei limiti per non ledere troppo i sentimenti delle persone che vivono insieme.
C.P.: È difficile anche perchè di recente Papa Benedetto XIV ha detto che per lui alcuni scienziati sono un pericolo per l’umanità perché vengono colti da delirio di onnipotenza.
V.: No, l’onnipotenza per lo scienziato non esiste, la scienza è piena di dubbi per sua natura perché non sa scavare filosoficamente nel perché è successo, la scienza ti spiega come tutto è successo. La scienza in se è molto potente, non lo scienziato. La scienza è un corpo di conoscenze che permette lo sviluppo civile di una popolazione.
C.P.: A proposito di sviluppo civile, quali sono i Paesi in cui secondo te c’è più libertà di ricerca?
V.: Nel mondo europeo credo che la grande tradizione naturalistica prima e teorico induttiva dopo, venga dalla Gran Bretagna.
C.P.: Considerando che gli inglesi sono il faro della democrazia e libertà occidentale questo vuol dire che libertà della scienza e democrazia vanno insieme.
V.: Certo. Il regime autoritario non ama la scienza. Viene utilizzata per il proprio potere, questo sì, ma lo scienziato è visto con un certo tipo di paura dall’uomo politico perché gli scienziati hanno una quantità di conoscenze che rappresenta un potere di per sé. E sono sempre un pericolo perché lo scienziato per sua natura non accetta la dittatura perché la scienza è una forma di ragionamento per sua natura libero. Quindi democrazia e scienza vanno d’accordo e siccome la GB è stata una delle prime democrazie è stato facile svilupparsi. Adesso sono ancora i primi, anche nei settori un po’ marginali, la clonazione, le ricerche sugli embrioni.
C.P.: In un’udienza papale sentii dire da un prelato «i medici curano, Dio guarisce». Come la commenti?
V.: Sembra un pò semplicistico. Credo che il medico quando cura è anche in grado di guarire.
C.P.: Quindi non era un tentativo di mettere insieme scienza e fede quella frase...
V.: Non credo. Nè c’è nessuna dimostrazione che un paziente con fede guarisce prima di uno che non ce l’ha.
C.P.: Tu una volta hai detto una cosa ancora più forte, che «i non credenti curano meglio dei credenti».
V.: No non lo è perchè un non credente sa che la vita finisce con la morte. Il fatto che tu muoia perchè è un tuo dovere morire per lasciare spazio a chi verrà dopo di te: questo è un pensiero laico. Quindi il laico che si prepara alla morte con questi discorsi quando arriva la morte è pronto.
C.P.: Ma un credente che crede che dopo la morte ci sia un’altra vita non dovrebbe essere più tranquillo...
V.: Ma si vede che cosi non è. Ti assicuro che dalla mia osservazione molti credenti vivono male il periodo terminale della loro vita.
C.P.: Tu in realtà sei un appassionato delle storie delle religioni...
V.: Beh, la storia della religione dovrebbero saperla tutti. E poi ci sono le religioni cosmiche, dove tutto è sempre accaduto e tutto sempre accadrà. In queste religioni orientali le divinità quasi non esistono, atee. Ti danno indicazioni che riguardano l’introspezione: devi cercare in te stesso il bene e il male. C’è una corrente religiosa protestante che va in questa direzione: questo gruppo di teologi americani ipotizza l’allontanamento di Dio ma ha riversato nell’uomo tutta la sua divinità quindi l’uomo è divinizzato. Ed è interessante come speculazione, anche perchè il grande tema di questi teologi è spiegare come mai c’è stata questa secolarizzazione... L’ateismo sta invadendo il mondo occidentale in maniera molto forte.
C.P.: A te non dispiace?
V.: No, io constato semplicemente, non so dirti se un mondo ateo sia meglio di uno religioso. Per la scienza sì, anche per l’etica laica è mille volte superiore all’etica religiosa perchè ti dice che devi comportarti bene per il rispetto degli altri mentre l’etica religiosa ti impone di comportarti bene perchè cosi vuole Dio.
C.P.: Il 2009 è un anniversario darwiniano. Come è possibile che stiamo ancora a discutere tra darwiniani, evoluzionisti e creazionisti?
V.: Non te lo so dire. Credi che siamo tutti nati cosi come siamo adesso? Animali, piante e che non ci sia stato un cambiamento e tutto questo è avvenuto secondo la Bibbia credo 2500 anni prima di Cristo...
C.P.: Da laico di riferimento, da parte di Giuda si dice spesso “il laico e non credente finisce per essere solo e disperato”. Tu cosa rispondi?
V.: L’opposto. Sono diventato non credente e in quel momento ho acquistato una serenità assoluta perchè non ho più dubbi. Il credente ha molti dubbi, si chiede perchè molte cose non quadrano come vorrebbero le Sacre Scritture. Il credente deve sempre confrontarsi con gli altri credenti, il mondo islamico, ebraico... L’Islamismo è una bella religione molto più evoluta del Cristianesimo perchè Dio è Dio, è uno spirito. Non lo possono rappresentare perchè non c’è, è senza materia. Per l’Islam credere vuol dire operare, non puoi chiuderti in camera o in un convento.

il Riformista 7.5.09
Non solo Bellocchio
Ida e le altre
Il duce e le donne al cinema
di Michele Anselmi


Fa bene Marco Bellocchio, in vista dell'anteprima a Cannes del suo Vincere, a ripetere nelle interviste: «Scrivendo il film non ho pensato affatto a Berlusconi né ho fatto similitudini con Mussolini. A quasi 70 anni e con la carriera che ho alle spalle non ho paura di nulla. Perciò sono sincero quando dico che non ho pensato a Berlusconi, malgrado il premier abbia in comune col duce una grande capacità nell'usare e imporre la propria immagine». Fa bene, Bellocchio, ma non servirà a evitare paragoni birichini o maliziosi, allusioni alle vicende di questi giorni. Purtroppo.
Gira nelle sale e su YouTube il primo trailer del film. Giovanna Mezzogiorno, avvenente e fiera, scandisce: «Mi chiamo Ida Dalser, Sua Eccellenza Benito Mussolini è mio marito». Disconosciuta e vessata, finirà in manicomio, dove muore nel 1937. Cinque anni dopo toccherà al figlio Benito Albino. E intanto, ancora baffuto e dotato di folta capigliatura, vediamo il giovane Mussolini incarnato da Filippo Timi che urla con impeto futurista in una riunione di socialisti: «Questa guerra è rivoluzionaria. Darà, col sangue, alla ruota della storia il movimento». Ida annuisce ammirata. Non sa ciò che l'aspetta.
Anche da queste poche scene si capisce perché il regista dei Pugni in tasca abbia voluto girare Vincere. Bellocchio vede Ida Dalser come «la prima eroina antifascista, anche piuttosto antipatica, una vera rompiscatole che vuole affermare ad ogni costo la verità». Insomma, una donna unica, segnata dal rifiuto di qualsiasi compromesso. In fondo avrebbe potuto accettare di tornare nell'ombra, magari lautamente ricompensata, come avvenne per tante altre amanti del duce. Invece tenne duro, si espose platealmente, non accettò il tradimento dell'uomo amato in quel modo assoluto, al quale tutto aveva donato, patrimonio incluso. Incuriosisce sapere come Bellocchio, nel mostrare donna Rachele, la moglie sposata subito dopo Ida, renderà l'imbarazzo progressivo di Mussolini, la sua determinazione nel disfarsi, pure per ragioni di opportunità politica, di quell'antico amore. Pronto subito dopo a soddisfare le famose necessità di ordine sessuale con la più candida e fresca disinvoltura.
Chi vuole informarsi sul tema può leggere il libretto Mussolini e le donne (Sellerio), scritto con vivace e calda ironia, dove Gian Carlo Fusco ricostruisce il disinvolto percorso erotico-sentimentale del duce, gran sciupafemmine, amatore instancabile per quanto sbrigativo. Di sicuro non fu facile per Rachele, moglie ufficiale (e ufficialmente cornificata), sopportare il confronto con quello stuolo di amanti, almeno sei delle quali ben infisse nella carne e nei pensieri del marito. Ida Dalser, appunto, madre di Benito Albino. Ma anche Angela Curti Cucciati, «candida agnella», creatura soave e delicata. O Margherita Sarfatti, forse la più importante, borghese, dotata di intelligenza e cultura. O Cornelia Tanzi, la poetessa. O la fulgida Romilda Ruspi. Per non dire di Claretta Petacci, la più nota, conosciuta nel 1933 e compagna anche nella morte a Dongo. È su quest'ultima che il cinema s'è specialmente concentrato, facendola ritrarre da attrici belle e temperamentose: Claudia Cardinale (in Claretta di di Pasquale Squitieri), Lisa Gastoni (in Mussolini ultimo atto di Carlo Lizzani), Barbara De Rossi (in Io e il duce di Alberto Negrin).
Secondo Marcello Dell'Utri, custode dei diari segreti di Mussolini e amico del premier, «a Palazzo Venezia, con le donne, Benito usava la tecnica musica e magia». Tra il 1935 e il 1939 il duce non avrebbe avuto amanti, ma «soltanto fugaci incontri». Commento di Mario Ajello sul Messaggero: «Berlusconi si sta rivelando molto meno abile di quel suo predecessore».

Repubblica 7.5.09
Il Cavaliere e il letto al potere
di Francesco Merlo


Il gossip, come diceva Flaubert, «dispensa dal pensare» e dunque nessuno si stupisce di questo cortile, di questo anfanare plebeo sugli amori di una coppia di speciale visibilità come sono i coniugi Berlusconi.
Né è una novità l´asservimento della televisione pubblica ai vizi del principe, con il "Porta a porta" diventato per l´occasione "Letto a letto". Ma la velocità, la passione e l´intensità del gossip sul divorzio hanno coperto lo scandalo reale, ancora irrisolto e dunque intollerabile in un paese civile. Berlusconi infatti non ha mai chiarito, né i suoi detrattori hanno mai pienamente dimostrato, quanto erotici siano in Italia i dicasteri e quanto ci sia di Morgensgabe, di dono del mattino, nelle cariche istituzionali. Insomma, l´accanimento sul tradimento della moglie nasconde la vera questione italiana: siamo tornati, unico Paese dell´Occidente avanzato, alle forme autocratiche del potere, quando lo Stato, i posti di Stato, i ministeri di Stato, venivano appaltati ai famigli, ai favoriti, ai mariti delle amanti, alle amanti?
Berlusconi, fiutando il palcoscenico maschile, ha consegnato a Bruno Vespa le sue dichiarazioni di innocenza accompagnate dai soliti ammiccamenti verso i peccati che giura di non avere commesso. Ma il sospetto infamante e dunque calunnioso che pesa su di lui non è l´adulterio, non è l´avere oltraggiato la delicatezza femminile della moglie, non è l´avere offeso e rinnegato il berlusconismo ingentilito che c´è in Veronica, ma l´avere portato il letto al potere d´Italia.
Ed è persino divertente che il giornale dei vescovi gli rimproveri l´impertinenza e la mancanza di sobrietà, insomma proprio i famosi peccati di cui l´italiano, da simpatica canaglia, sa pentirsi e negare, e al tempo stesso compiacersene e andare fiero. Inconsapevolmente, a riprova che il moralismo è cieco, "Avvenire" ha reso un favore al Berlusconi che si bea appunto della propria impertinenza e delle proprie marachelle e non si rende conto che chiedere a un´assessora il permesso di palpeggiamento, chiedere «posso palpeggiare un po´ la signora?» con un mezzo sorriso burocratico istituzionale durante una visita nelle zone terremotate non è una pulsione ma è una patologia. Eppure "Avvenire" ha accreditato, censurandola, l´esuberanza sessual-affettiva e non la malattia, ha certificato quell´eterna adolescenza nella quale Berlusconi finge drammaticamente di vivere e non la sindrome del nonno immaturo che ridiventa bambino con i bambini e con le bambine.
Più acutamente il mondo religioso avrebbe dovuto vedervi la decadenza di quell´infoiamento che fu raccontato al cinema da Tognazzi. Qui infatti non c´è il premierato annichilito dalla commedia all´italiana, dalle Baruffe chiozzotte, dalle trame dell´Ubalda tutta calda o del Magnifico cornuto, ma c´è invece il sesso ossessione, il sesso fantasma, il sesso che nessun concetto prefabbricato dalla psicologia può spiegare e contenere e che nessuna velina potrà mai addomesticare; qui non c´è lo spettacolo delle soubrette dalle forme rotonde e le gambe lunghe che capitalizzano e investono sulla propria bellezza impataccando di carezze gli uomini ricchi e potenti, ma c´è lo spettacolo degli anziani uomini di potere che le esibiscono e le istruiscono alla politica: le ricompensano con la politica.
Ma perché i vescovi non gli chiedono conto di quell´altro peccato che, se fosse vero, sarebbe ben più grave, peccato mortale contro l´Italia e contro gli italiani? Stiamo parlando della simonia laica, del sospetto, mai provato e mai fugato, di ricompensare l´avvenenza con i posti in Parlamento e con i ministeri.
Fu nell´estate scorsa che l´Italia fu invasa da decine e decine di "aforismi telefonici" sui meriti sessuali di ministre e sottosegretarie, frasi più o meno volgari e più o meno verosimili che ancora adesso purtroppo accompagnano la Carfagna, la Gelmini, la Brambilla nonché l´intero educandato di attrici, veline e ballerine che non sono più la gioia malandrina del potere ma sono ormai una degenerazione del potere italiano.
È vero che fu gossip anche quella divulgazione, per passaparola e per mormorio, del contenuto, non si sa quanto calunnioso, di alcune intercettazioni, come sempre di nessun valore penale. Ma la distruzione legittima e legale di quelle intercettazioni non ha certo smontato l´infamia della quale Berlusconi e le sue ministre si dichiararono vittime. Anche perché l´Italia deve all´ambiguità della sua storia la fama di paese nel quale si distruggono solo le prove, di paese nel quale più si distrugge e più si costruisce la prova.
Attenzione dunque a quel che accade. Con la complicità delle televisioni e dei giornali che trascinano anche Veronica nel letamaio e la mostrano senza veli per farne una velina dissennata e scosciata, Berlusconi sta trasformando le ferite che ha inferto alla moglie in una battaglia e magari già in una vittoria politica, con l´idea tutta berlusconiana della politica che, come la vita sregolata e romanzesca, fluisce nel viso rifatto e nei capelli che ricrescono, nella prostata che guarisce e nel seduttore che ringiovanisce, nel padre in pericolo e nel marito monello: è un fumo, una magia, un "a me gli occhi" che non solo restaura il mito guasto e avariato del "Silvio Priapo" ma nasconde il vero, l´ultimo scandalo di un´Italia non più governata dal conflitto di interessi, ma dal conflitto di piaceri: prurito di interessi, conflitto di pruriti, conflitto di interessi pruriginosi.

Repubblica 7.5.09
Prudenti i giudizi del sottosegretario Roccella e dell´editorialista di "Avvenire" Delle Foglie
"Le accuse di Veronica? Serve la verità"
I leader del Family day: il premier non ha offeso, ma sia più sobrio"È evidente che i suoi fatti privati hanno un riverbero politico. È bene che faccia chiarezza"
di Orazio La Rocca


ROMA - «No, Berlusconi non offende le donne. Lui è fatto così, è un grande leader, un grande comunicatore in sintonia con il suo pubblico, anche se a volte lo fa con elementi di anomalia. Ma l´invito alla sobrietà fatto da Avvenire lo condivido, non solo per il premier, per tutti, stampa compresa». «Le accuse che gli ha fatto la moglie? Sono molto insinuanti, se vere sarebbero choccanti per il paese, per questo necessitano di un supplemento di verità, che non può che arrivare solo dalla moglie e dal premier, il cui intervento a Porta a Porta è stato una manifestazione di forza e di debolezza che deve far riflettere».
Berlusconi a «giudizio» di Eugenia Roccella, Sottosegretaria al Walfare, e di Domenico Delle Foglie, editorialista del quotidiano cattolico Avvenire, tra gli organizzatori del Family Day del 12 maggio 2007, il grande meeting cattolico sulle politiche familiari al quale intervenne anche l´attuale premier, a quel tempo capo dell´opposizione del governo Prodi. Per Roccella - portavoce ufficiale al Family insieme a Savino Pezzotta - «prima di dare giudizi sommari su questa vicenda sarebbe bene ricordarsi che il Vangelo non a caso invita a scagliare la prima pietra solo chi è senza peccato e critica quanti vedono la pagliuzza nell´occhio dell´altro senza tener conto della trave che si ha nel proprio occhio». Ecco perché, puntualizza, «apprezzo l´invito alla sobrietà del giornale dei vescovi». Ma come donna non le offendono le battute maschiliste del premier? «Lui è fatto così, è fuori dai canoni tradizionali della comunicazione, ma ama scherzare su tante cose e chiedergli di cambiare significherebbe snaturarlo: sarebbe come imporre a Marco Pannella di parlare solo per 5 minuti». «Un politico - aggiunge ancora Roccella - si giudica dalla politica che fa, anche se è evidente che i suoi fatti personali hanno un riverbero pubblico. E il premier dovrebbe tenerne conto. Ma non sarei entrata così pesantemente sulle sue questioni familiari, perché quando una famiglia si rompe è un fatto privato dolorosissimo che andrebbe rispettato».
Berlusconi, però, ama esternare la sua fede cattolica e presentarsi come l´alfiere del dialogo con la Chiesa e il Vaticano. Come va giudicato? «Il premier - ragiona Domenico Delle Foglie - è un cattolico molto complesso, tradizionale, nel senso che è un uomo del secolo scorso che ama il rapporto con le gerarchie cattoliche. E´ talmente sicuro di sè che non ama ascoltare la base cattolica. Una prova? Quando venne al Family Day del 2007 lo invitai ad ascoltare gli interventi della Roccella, di Pezzotta e degli altri relatori e lui sa cosa mi rispose? ‘Ma allora io cosa sono venuto a fare? Io sono venuto a parlare!´. Ed in effetti parlò a lungo, da solo con le tv, le radio e i giornali, e il giorno dopo i media parlarono in prevalenza solo di lui». Per niente entusiastica, inoltre, l´analisi che Delle Foglie fa dell´intervento del premier a Porta a Porta: «Se ha sentito la necessità di parlare direttamente al popolo per le sue vicende personali e, quel che è peggio, per respingere le accuse della moglie Veronica, è un insospettabile segno di debolezza che non può non fare riflettere. E´ bene che ora su quelle accuse così infamanti il premier faccia completamente chiarezza, perché per cose così gravi non si potrebbe fare finta di nulla. E questo lo pensano tutti i cattolici, senza distinzioni politiche».

Corriere della Sera 7.5.09
Perché sto dalla parte di Veronica
di Isabella Bossi Fedrigotti


Vada come vada il divorzio nazionale, possibilmente senza troppe sofferenze reciproche, per riguardo dei figli, soprattutto. E poiché è impossibile sperare in una discreta e quasi beneducata separazione lampo come quella degli ex coniugi Sarkozy — se non altro perché gli alimenti in palio nel nostro caso vanno probabilmente moltiplicati per mille — auguriamoci, almeno, che i colpi bassi non siano troppo numerosi.
Uno, pesantissimo, che giocoforza induce a prendere le parti della moglie divorzianda, è, peraltro, già andato in onda — e in scena — l’altro ieri sera a Porta a Porta, dove il premier ha potuto, davanti a tutto il Paese, sfogarsi, discolparsi (non scusarsi), giustificarsi, teorizzare, sostenere e poi accusare, denunciare, insinuare a ruota libera e in piena libertà ma, quel che più conta, in assenza della controparte che non ha potuto (o non voluto?) intervenire nemmeno con una piccola telefonata in diretta.
Comunicatore istrionico qual è, ha convinto probabilmente non solo la platea televisiva — che ha approvato con ripetuti scroscianti applausi —, ma anche quella nazionale di essere un marito nonostante tutto — ancora — innamorato della moglie, un padre generosissimo e venerato, un nonno che più tenero non si può, un capofamiglia coscienzioso e dabbene, più molte altre cose, tutte edificanti tanto che il suo confessore gli ha già perdonato certe trascurabili debolezze (che, secondo il suo dire, «caratterizzano tutti i grandi uomini»). Il tutto in plateale, bruciante absentia. Senza che la moglie potesse in qualche modo sostenere le sue ragioni, confermando, smentendo o mettendo in dubbio le tante affermazioni andate in onda. E se è vero che del festoso clima familiare descritto dal premier in trasmissione esistono puntuali e decorative testimonianze fotografiche, è anche vero, si sa, che la comunicazione è materia che egli conosce forse come nessun altro. Virtualmente, in verità, Veronica era assai presente, per tutto il tempo, a Porta a Porta, in qualità di ritratto appeso al muro, però, di ombra zittita e muta sullo sfondo. Se anche non si volesse, dunque, se anche si preferisse tenersi più lontani possibile e disinteressati al gran divorzio, pare difficile non sentirsi solidali con lei: per clamorosamente mancata par condicio.

il Riformista 7.5.09
Consiglio al Cav da un coetaneo:
Arriverà troppo fango
Caro Cavaliere, si dimetta
di Giampaolo Pansa


Posso dare un consiglio amichevole a Silvio Berlusconi? Dovrebbe dimettersi da premier. Lasciando la presidenza del Consiglio a un big del Pdl. Per esempio, a Giulio Tremonti. E riposarsi dopo quindici anni di lavoro estenuante, a volte come leader di partito, a volte come capo del Governo. Una fatica pazzesca che avrebbe accoppato un toro. Una fatica che il Cavaliere ha sempre affrontato con dedizione, coraggio e successo. Fino a oggi.
Oggi il Toro di Arcore è stanco, ammaccato e nell'angolo. O almeno così sembra a molta gente: amici, nemici, osservatori neutrali come il sottoscritto. Ma la stanchezza del toro non è una condizione umiliante. Soprattutto quando i toreri sono troppi. E non usano soltanto la spada. Bensì un intero arsenale di armi, anche improprie. Con una gamma vasta di colpi leciti e no.
Posso dire che Silvio mi fa quasi tenerezza? Non ho mai votato per lui, ma mi sento vicino alla sua vicenda umana. Anche in ragione dell'età che abbiamo entrambi. All'inizio di ottobre, farò 74 anni. Qualche giorno prima, il Cavaliere ne compirà 73. Ecco due numeri che mi obbligano a riflettere sul suo possibile percorso.
Nel caso che Berlusconi tentasse di reggere sino alla fine di questa legislatura, nel 2013 avrà 77 anni.
In quel momento sarà concluso anche il settennato di Giorgio Napolitano. Se il Cavaliere intendesse succedergli al Quirinale, al termine dell'eventuale mandato ne avrebbe ben 84. Un'età rispettabile che, per quel che mi riguarda, forse non vedrò neppure. Silvio vuole davvero arrivarci senza aver mai lasciato per un istante l'attività politica?
Mi auguro di no. Me lo auguro per lui, immaginando i roghi che dovrà attraversare e le trappole che sarà costretto a scansare. Quelle trappole Bettino Craxi le chiamava con un'immagine suggestiva: i serpenti sotto le foglie. Tanto tempo fa, quando sperava di diventare capo del Governo, Bettino mi disse: «Non hai idea di quanti siano i serpenti che mi aspettano al varco. Stanno nascosti fra gli sterpi, sotto il fogliame, ma sono pronti a mordermi». Il Cavaliere si ricordi delle parole di un vecchio amico. E rifletta sul percorso di guerra che si è spalancato di fronte a lui.
Su quel percorso Berlusconi incontrerà almeno due ostacoli che già oggi vediamo tutti, lui per primo. L'ostacolo numero uno sarà lo snodarsi della causa di divorzio che la moglie, la signora Veronica Lario, sembra decisa a gettargli addosso. È facile immaginare che sarà lunga e dura, molto dura. Succede sempre così quando sono in gioco spartizioni patrimoniali importanti e intricati nodi famigliari da sciogliere. Le tappe della causa ecciteranno di continuo i media. Se poi entreranno in gioco anche dei sentimenti avvelenati, Dio scampi il Cavaliere da quanto accadrà.
Il secondo ostacolo verrà dalla guerriglia politica messa in atto dagli avversari di Berlusconi. Se non saranno rasi al suolo dal voto europeo e amministrativo del 7 giugno, ipotesi che adesso non mi sembra realistica, Franceschini, Di Pietro & C. non daranno tregua al Toro di Arcore. Il loro terreno di battaglia sarà la Questione Sessuale, come l'ha chiamata il Riformista. Nella speranza di trasformarla in una scivolosa Questione Immorale.
Non credo che il centrosinistra mollerà l'osso dei costumi sessuali del premier. Anche perché non ha un altro osso da mordere. Lo si è visto martedì sera, nella puntata di "Ballarò". Berlusconi vi è stato dipinto come un maturo puttaniere che non ha rispetto per le donne. Non gli è stato risparmiato nulla. Neppure le prediche del direttore dell'Unità, Concita De Gregorio. Un signora che pontificava sul rispetto dovuto al corpo femminile. Ma senza ricordare di aver prestato il suo Lato B a un maestro della fotografia come Oliviero Toscani. Perché ne facesse l'icona del nuovo corso del quotidiano post-comunista.
Se il buongiorno s'intravede dalla serata di "Ballarò", non oso immaginare che cosa farà l'opposizione per infilzare mille volte il Toro di Arcore. Al posto di Franceschini, Di Pietro & C. farei lo stesso. Come diceva il saggio Rino Formica, la politica è sangue e merda. Anche se la cacca messa nel ventilatore potrebbe non risparmiare nemmeno gli avversari di Silvio.
Pure il disporre di una forte popolarità gli servirà a poco. Allo stesso modo, non sarà di grande utilità la difesa degli organi di stampa orientati a favore del centrodestra. In Italia, il magico Giornalista Collettivo è sempre stato di sinistra. Penso di poterlo affermare senza tema di smentite, poiché ho lavorato in molte cucine editoriali. E non mi stupisce più vedere giornali d'informazione muoversi alla maniera dei commandos. Contro Silvio, naturalmente. Dai titoli di prima pagina sino all'ultima delle vignette.
Tuttavia anche i media per principio non ostili a Berlusconi non potranno evitare di seguire, giorno dopo giorno, la vicenda del divorzio fra il premier e la signora Lario. Ecco una storia troppo ghiotta per essere trascurata. Posso sbagliarmi, ma dopo la Tangentopoli dei primi anni Novanta non s'era mai vista una saga nazional-popolare come quella innescata dal papiello di Veronica.
In questo caso, poi, c'è tutto quello che mancava al tormentone delle mazzette pagate ai politici. Qui c'è il sesso, le donne, le presunte minorenni, i vizi dell'Imperatore, il suo invecchiare fra i bagordi di corte, veri o inventati non importa.
Perché Silvio dovrebbe sopportare questa prevedibile pioggia di fango? Per orgoglio, per difendere l'immagine che ha di se stesso, per non cedere a chi lo ricatta, per non darla vinta a quanti, anche dentro il Partitone Azzurro, lo vorrebbero morto? Ma ne vale davvero la pena?
Per questo gli consiglio di sottrarsi a questo orrendo gioco al massacro. Nell'unico modo utile: lasciando Palazzo Chigi. È il solo mezzo realistico per disarmare i molti toreri che cercheranno di ucciderlo: dimettersi dopo il voto europeo e una volta concluso il G8 all'Aquila.
Lasci a chi verrà dopo di lui, amici e nemici, il peso di questa Italia ingovernabile e alle prese con una terribile crisi e sociale. Un'Italia sempre pronta a scannarsi, dentro una guerra civile che non ha mai fine. Per una volta, il Cavaliere pensi soltanto alla propria vicenda umana. In tanti lo capiranno.

il Riformista 7.5.09
L'affaire Veronica
Come si fa a chiedergli sobrietà?
di Claudia Mancina


Chi ha seguito la trasmissione di Porta a porta l'altra sera ha visto un Berlusconi teso e preoccupato. Il timore di un effetto politico negativo della clamorosa vicenda coniugale era evidente. Così come è evidente, nonostante la prudenza non priva di ipocrisia delle esternazioni, la speranza dell'opposizione che l'irresistibile ascesa del premier nelle preferenze degli italiani possa infine trovare un ostacolo, un limite. Il timore (o la speranza) è che i toni boccacceschi della vicenda possano pesare sul voto dei cattolici e, per ragioni diverse, su quello dei giovani.
Stupisce l'intemerata dell'Avvenire. La sobrietà decisamente non è un pregio di Berlusconi, ma lo si sapeva già. In altri casi questa mancanza andava nella stessa direzione dei vescovi: forse per questo non se ne sono accorti prima
I primi sondaggi dicono di no; comunque lo sapremo ben presto, visto che solo un mese ci divide dalle elezioni. Per l'opposizione però sarebbe un ben magro guadagno: vedere Berlusconi sconfitto politicamente dalla moglie sarebbe una ulteriore e drammatica conferma della sua fragilità, della sua incapacità di mettere in difficoltà il premier.
È certo il colmo del contrappasso per Berlusconi, rischiare di essere fermato da una storia privata e amara come la più classica lite da divorzio, come se ne vedono tutti i giorni tra la gente comune e non solo tra i ricchi e famosi. Tuttavia il premier ha poco da lamentarsi: è lui che, anche più di altri leader, ha reso la sua vita uno spettacolo pubblico, mettendosi al centro della politica con tutta la sua personalità, il suo corpo, la sua famiglia, il suo carattere, la sua storia personale. L'incapacità di trattenere la sua esuberanza, con conseguenti gaffes, battute infelici, atteggiamenti da maschio di una volta e quindi anche indelicatezze verso la moglie, non sono che l'altra faccia della sua capacità di empatia con la gente normale, con i suoi elettori. Del resto il suo linguaggio, il suo modo di esprimersi, è sempre rimasto un linguaggio da piazzista più che da statista, figuriamoci da imperatore!, sia quando magnifica la gestione della crisi (abbiamo fatto meglio di qualunque altro governo al mondo…) sia quando magnifica le sue virtù di padre (credo di essere un padre assolutamente straordinario…). E questo, si badi, non è un giudizio sulla verità dell'asserzione. Stupisce quindi l'intemerata dell'Avvenire, che lamenta la mancanza di sobrietà. La sobrietà decisamente non è un pregio di Berlusconi, ma lo si sapeva già. In altri casi questa mancanza andava nella stessa direzione dei vescovi: forse per questo non se ne sono accorti prima.
Che relazione c'è dunque tra l'uomo pubblico e l'uomo privato? L'atteggiamento maschilista e volgare verso le donne, il comportamento irrispettoso verso la moglie, possono o devono essere considerati elementi di valutazione di un uomo politico? Nella storia italiana e non solo (basti pensare alle due famiglie di Mitterrand) si tende a separare abbastanza nettamente moralità privata e pubblica; e anche il caso troppo citato di Clinton - che peraltro non ha mai perso, nonostante una furiosa campagna contro di lui dei repubblicani, il favore degli americani - aveva al suo centro non lo scandalo sessuale, ma le sue dichiarazioni menzognere. Il problema era la sua credibilità, che è una dote essenziale per il ruolo pubblico, non la sua attività sessuale. E tuttavia la discussione sul caso Clinton in America (che non è ancora spenta: ci sono elettori democratici che hanno preferito Obama a Hillary proprio a causa di quella storia) ha toccato molto spesso il tema del rapporto tra pubblico e privato. Un rapporto che difficilmente nella società di oggi può essere visto nella chiave tradizionale di una separazione formale e assoluta, come faceva Barbara Spinelli ieri sulla Stampa, invitando a lasciare il proprio privato sull'attaccapanni come un cappotto. Trent'anni e più di pensiero femminista dovrebbero avere insegnato che non è affatto così semplice. Pubblico e privato sono strettamente connessi e lo sono ancor più nel caso dei leader politici. Quando votiamo per qualcuno, con l'intenzione di dargli l'incarico di governare gli affari pubblici, facciamo su di lui (o lei) un investimento di fiducia. E la fiducia investe la persona nella sua interezza: alla fiducia si risponde con tutto il proprio carattere e la propria personalità. Per questo un leader politico - tanto più in un regime comunicativo in cui nulla sfugge ai media - è interamente sotto gli occhi dei suoi concittadini. Ciò però non significa che tra privato e pubblico non ci sia nessuna distinzione. Non c'è un confine segnato in modo indiscutibile, ma un confine mobile, che muta e si sposta secondo le circostanze storiche, i ruoli, i mezzi di comunicazione; e anche secondo le scelte soggettive. Che sia stata Veronica Lario a trasformare una dolorosa ferita privata (la propensione del marito per le belle ragazze) in una questione pubblica, due anni fa con la lettera a Repubblica e oggi con la denuncia della composizione delle liste, è un fatto, come tutti i fatti aperto a diverse interpretazioni. È stata una sua scelta, rispettabile ancorché criticabile. Non un tradimento, ché si tratta di un gesto coerente con lo stile del marito. Neanche però, io credo, un gesto di opposizione politica o di autocoscienza femminista. In fondo, il gesto di Veronica, più che superare la separazione tra pubblico e privato, come è sembrato a qualcuna, conferma la tradizione familista italiana, in una sua versione paradossale e postmoderna. Nel senso che la vita pubblica diventa un'appendice della famiglia, viene risucchiata nelle sue dinamiche e utilizzata nei suoi conflitti. Qualcosa che non ha proprio niente a che fare col femminismo, ma invece riecheggia in forma estenuata, e adatta alla nostra civiltà televisiva, la primazia italiana del privato sul pubblico.

Repubblica 7.5.09
Massacri a Gaza, l’Onu accusa Israele
Peres: "Rapporto fazioso e inaccettabile"
di Vincenzo Nigro


ROMA - All´improvviso in Medio Oriente tutto sembra ripartire a velocità caotica e accelerata, su mille tavoli e più livelli. La notizia più "rumorosa" è quella di Israele che rifiuta con forza il rapporto Onu che condanna la condotta dei suoi soldati durante la guerra di Gaza. «E´ un rapporto scandaloso e fazioso», dice il presidente Shimon Peres del testo di una commissione tecnica Onu. Il "Board of investigation" ha preso in esame 9 casi in cui l´esercito di Israele ha colpito uffici Onu a Gaza, uccidendo spesso personale internazionale o civili. «Israele non chiederà mai scusa per aver difeso le sue donne e i suoi figli», dice Peres, «siamo furiosi, non c´è alcuna menzione di Hamas: se loro non avessero lanciato razzi tutto questo non ci sarebbe stato».
La commissione nominata da Ban Ki-moon, con la quale Israele aveva collaborato, ha ritenuto Israele colpevole di 6 dei 9 casi investigati. «Noi abbiamo rispetto per il segretario generale, ma non accettiamo una parola di questo rapporto», ha chiuso Peres. E lo stesso Ban ha accettato di lasciar raffreddare le cose, ricordando che il "board" da lui nominato non è una corte di giustizia, e quindi gli effetti del rapporto saranno nulli, a meno che non monti una campagna internazionale contro Israele.
Il rapporto è stato presentato l´altro ieri sera e per il momento la campagna anti-israeliana non è partita: la verità è che quasi tutti i protagonisti in Medio Oriente sono impegnati in un gioco semi-sotterraneo rapido e complicato. Ieri è riemerso dopo mesi di eclisse politica Tony Blair, inviato del Quartetto per il Medio Oriente. Blair ha detto che è in preparazione una «nuova strategia», un piano che dovrebbe essere ufficialmente varato da Usa, Russia, Onu e Ue tra cinque o sei settimane.
L´input alla revisione delle carte del Quartetto l´ha dato l´amministrazione Obama, che ha suggerito anche ai suoi partner arabi più moderati e influenti (Egitto e Arabia Saudita) di mettere mano anche alla revisione del famoso "piano arabo" del 2002 che nacque su iniziativa saudita. Blair ha detto il piano del Quartetto sarà finalizzato dopo i colloqui che Obama avrà questo mese con i leader politici arabi e israeliani.
Del piano arabo, invece, il quotidiano Al-Quds Al-Arabi scrive invece che i leader arabi moderati stanno rivedendo le loro idee per renderle più accettabili a Israele. Il nuovo piano prevederebbe uno Stato palestinese smilitarizzato con capitale a Gerusalemme est, la Città Vecchia proclamata "zona internazionale" e l´assorbimento nei paesi di residenza dei profughi palestinesi, ad eccezione di una piccola parte che entrerà nel nuovo stato Stato palestinese. Sarebbe di fatto una rinuncia a quel "diritto al ritorno" per i profughi palestinesi costretti a lasciare la loro terra, una rinuncia che di fatto riconoscerebbe il diritto di Israele ad esistere come Stato ebraico nei confini che verranno definiti dagli accordi di pace.

Repubblica 7.5.09
Perché la Shoah è il male assoluto
risponde Corrado Augias


Egregio Augias, dissento dalla sua opinione sulla Shoah come male assoluto in quanto unico esempio di sterminio pianificato. Lei scrive che gli altri massacri sono stati frutto di ideologie, magari sbagliate, ma pur sempre di «ideali». La conquista del continente americano costò tra i 50 ed i 200 milioni di morti tra gli indigeni. I nativi non furono solo vittime dell'ineluttabile «progresso», della storia, chiamato dagli americani «destino manifesto». Mi limito a due citazioni. Il generale Sherman al ministro della Guerra, novembre 1868: «Se permetteremo anche a solo 50 indiani di rimanere tra il Platte e l'Arkansas dovremo far proteggere ogni treno, ogni cantoniera, ogni gruppo che lavora alla ferrovia. 50 indiani "ostili" possono tenere in scacco 3000 soldati. Meglio buttarli fuori al più presto, e non fa molta differenza se ciò avverrà mediante l'imbroglio da parte dei commissari per gli affari indiani o uccidendoli». Da una lettera di Nicholas C. Meeker, agente per gli indiani, al senatore Teller, febbraio 1878: «Io farò in modo di ridurre ciascuno di loro alla fame più nera se gli indiani non vorranno lavorare». Anche quello sterminio fu pianificato. Rientrava in un disegno senza giustificazioni ideali: loro erano una razza inferiore, destinata a soccombere, dovevano fare spazio e non creare rogne ai bianchi, portatori di una cultura superiore.
Giuseppe Galluccio giuseppegal@tin.it

Lo sterminio degli indiani fu gesto di implacabile ferocia non meno di quello dei Galli operato da Cesare che io ricordavo. Furono (come tutti gli altri) massacri di conquista, rientrano nella brama di dominio innata nella specie umana. Ciò che rende unica la Shoah è la sua gratuità. La signora Elena La Rocca (elenalrc@alice.it) l'ha condensata molto bene in queste parole che condivido: «Molti ebrei erano cittadini tedeschi: in Germania lavoravano, pagavano le tasse, rispettavano le leggi. Come gli altri cittadini avevano partecipato alla prima guerra mondiale. Si pensi quindi a uno Stato che si mette a perseguitare/uccidere parte dei propri cittadini, non perché autonomisti o indipendentisti, oppositori o ribelli, ma perché "ebrei". Un regime che a freddo, si potrebbe dire a tavolino, si inventa un nemico interno su cui convogliare frustrazioni, disagi, aggressività per compattare il resto dei propri cittadini dandogli un senso di supremazia. Un popolo che vuole annientare un altro popolo (per riprendere le parole di Arrigo Levi) non perché vuole annetterne il territorio, conquistare uno sbocco al mare, il petrolio o altro che sia, ma perché lo vede come fonte di corruzione, contaminazione di una propria immaginaria "purezza"». C'è un elemento misterioso in quello sterminio, appartiene all'irrazionale, alla parte buia dell'animo umano. Questo rende la Shoah male assoluto.

Corriere 7.5.09
L’attacco di Liberazione
Il Prc critica gli operai Salvi non ci sta: hanno ragione loro. Abbandonati da noi
di Alessandro Trocino


ROMA — «La domanda vera è questa: perché un operaio dovrebbe ancora votare per il centrosinistra?». Ottima domanda, soprattutto se a porla è Cesare Salvi, recente alleato di Rifondazione comunista. Domanda che segue l’articolo di Gian Antonio Stella, sul Corriere, che rilancia il reportage-invettiva di Liberazione sugli operai. Il quotidiano del Prc si è scoperto disilluso nei confronti della classe operaia, che invece di seguire le magnifiche e progressive sorti della sinistra, cerca «l’uomo forte» e si «rimbambisce con la televisione». Lo sconforto di Liberazione sull’operaio che parteggia per i «padroni» non è condiviso da Salvi: «L’operaio non ha mai torto. A chi gli rimprovera di aver cambiato partito, lui risponde: ma avete visto la mia busta paga?». Per Salvi, «è la sinistra che ha abbandonato gli operai»: «Sono spariti dal nostro linguaggio. Tutti gli elementi identitari e di appartenenza ideale sono stati eliminati. Sono state danneggiate le loro condizioni materiali: Cipputi, come nelle vignette, ha solo preso cazzotti nello stomaco e ombrellate». Proprio per questo, spiega Salvi, «Rifondazione e la sinistra devono tornare a occuparsi seriamente degli operai, non più solo a chiacchiere. Bisogna valorizzare la loro figura sociale».
Parere opposto a quello di Paolo Ferrero, segretario del Prc, che parla di «un’operazione politica»: «Dire che il Prc schifa gli operai è il contrario di quello che succede. Non so dove li vedono gli intellettuali borghesi che parlano di operai. Io a 19 anni lavoravo in Fiat e l’autore del pezzo su Liberazione è un lavoratore precario».

Repubblica 7.5.09
Bauman: i nuovi valori della vita
Com´è cambiata l’arte di esistere
di Zygmunt Bauman


Bisogna affrontare le sfide difficili, cercando di dare una forma a quel che è indefinito. Ed essere consapevoli che lo sforzo sarà sempre enorme
Servono legami responsabili: l´amore richiede cure, non consumo
Il nostro tempo è governato "dall´economia delle esperienze"

Anticipiamo un brano del nuovo libro di "L´arte della vita" (Laterza, pagg.178, euro 15) da oggi in libreria

Ognuno di noi è artista della propria vita: che lo sappia o no, che lo voglia o no, che gli piaccia o no. Essere artista significa dare forma e struttura a ciò che altrimenti sarebbe informe e indefinito. Significa manipolare probabilità. Significa imporre un «ordine» a ciò che altrimenti sarebbe «caos»: «organizzare» un insieme di cose ed eventi che altrimenti sarebbe caotico (casuale, fortuito e dunque imprevedibile), rendendo così più probabile il verificarsi di certi eventi anziché di altri.
A chi dovremo ispirarci per sapere come organizzare (e organizzarci), se non ai professionisti, a chi è responsabile di quelle entità che si chiamano «organizzazioni»?
Fino a pochissimo tempo fa il concetto di «organizzazione» era entrato a far parte dell´uso comune associato a grafici, diagrammi, organigrammi, dipartimenti, tempistiche, regolamenti; alla vittoria dell´ordine (di uno stato in cui si fa in modo che alcuni eventi siano molto più probabili di qualsiasi altro) sul caos (su uno stato in cui ogni cosa ha la stessa probabilità o una probabilità incalcolabile di accadere).
Ho scritto «fino a pochissimo tempo fa» perché oggi, entrando nella sede centrale di un´organizzazione, si sentono soffiare i venti del cambiamento. Qualche anno fa Joseph B. Pine e James H. Gilmore pubblicarono un libro, L´economia delle esperienze, il cui titolo (sicuramente anche grazie all´aiuto dalle credenziali della Harvard Business School) accese immediatamente la fantasia degli studenti di Economia aziendale, elevando l´attuale modo di pensare di direttori e presidenti di aziende a nuovo paradigma degli studi di organizzazione. In un volume di stimolanti saggi pubblicato dalla Copenhagen Business School Press, i curatori Daniel Hjorth e Monika Kostera hanno delineato in termini generali e con notevole ricchezza di particolari il percorso dal vecchio paradigma organizzativo, imperniato sul «management» e sulla priorità del controllo e dell´efficienza, al paradigma emergente, che guarda soprattutto allo spirito imprenditoriale e sottolinea «le caratteristiche più vitali dell´esperienza: immediatezza, spirito ludico, soggettività e performatività».
Niels Akerstrom, docente alla Copenhagen Business School, paragona l´attuale situazione del dipendente di un´organizzazione a quella che si vive oggi da sposati o conviventi. L´analisi di Akerstrom sulla tendenza a ridefinire le organizzazioni secondo uno schema simile a quello delle relazioni d´amore ci rinvia a una trasformazione ancora più vasta, che è probabilmente alla base del «cambio di paradigma»: alla trasformazione profonda del ruolo svolto nel contesto liquido-moderno dai legami umani, in particolare dai rapporti d´amore e più in generale dall´amicizia. La loro forza d´attrazione raggiunge oggi, a detta di tutti, livelli senza precedenti, ma è inversamente proporzionale alla capacità di svolgere il ruolo sperato e atteso, che era e resta la causa principale di quell´attrazione. E´ proprio perché siamo disponibili ad «amicizie e unioni profonde», proprio perché lo desideriamo più forte e disperatamente che mai, che i nostri rapporti sono pieni di rumore e furore, carichi di ansia e in perenne allerta.
Vorremmo la mano disponibile di una persona amica, affidabile, fedele, alla «finché-morte-non-ci-separi», che ci venga tesa sicuramente, prontamente e di buon grado in qualsiasi momento si renda necessaria, che sia come l´isola per il naufrago o l´oasi per chi si è perso nel deserto: sono queste le mani che ci occorrono, che vorremmo attorno a noi, tanto più numerose tanto meglio.
Eppure. Nel nostro ambiente liquido-moderno la fedeltà a vita è una grazia, inseparabile da varie disgrazie. Che fare se le onde cambiano direzione, se emergono nuove opportunità che trasformano i rassicuranti punti di forza di ieri nelle minacciose debolezze di oggi, gli averi che un tempo ci si teneva stretti in fastidiose zavorre, i giubbotti salvagente in cinture con i piombi?
«Dov´è il confine tra il diritto alla felicità personale e al nuovo amore e l´egoismo esasperato disposto a mandare in frantumi la famiglia, e magari a danneggiare i figli?», si chiede Ivan Klíma. Tracciare questo confine con precisione può essere doloroso, ma di una cosa possiamo esser certi: quel confine, ovunque sia, viene violato nel momento in cui l´atto di stringere e sciogliere legami tra gli uomini è dichiarato moralmente indifferente e neutro, sollevando a priori gli attori dalla responsabilità delle reciproche conseguenze di ciò che fanno: da quella stessa responsabilità incondizionata che l´amore promette, nella buona e nella cattiva sorte, e che lotta per costruire e conservare. «La creazione di una relazione buona e durevole», in netta opposizione alla ricerca di godimento attraverso oggetti di consumo, «richiede uno sforzo enorme».
Per farla breve: l´amore non è qualcosa che si possa trovare, non è un objet trouvé o un ready-made. E´ qualcosa che richiede di essere creato e ricreato ogni giorno, ogni ora; che ha bisogno di essere costantemente risuscitato e riaffermato e richiede attenzione e cure. In linea con la crescente fragilità dei legami umani, con l´impopolarità degli impegni a lungo termine, con l´eliminazione dei «doveri» dai «diritti» e l´elusione di ogni obbligo che non sia «verso se stessi» («me lo devo», «me lo merito», e via dicendo) si tende a vedere nell´amore qualcosa che è perfetto dall´inizio oppure è fallito, e che dunque è meglio abbandonare e sostituire con esemplari «nuovi e migliorati», si spera davvero perfetti. Un simile amore non sopravvivrà al primo piccolo litigio, e tanto meno al primo serio disaccordo e scontro.
La felicità - per richiamare la diagnosi di Kant - non è un´ideale della ragione, ma dell´immaginazione. E lo stesso Kant avvertì che dal legno storto dell´umanità non si sarebbe mai potuto ricavare nulla di dritto. John Stuart Mill parve riunire entrambe le nozioni in un avvertimento: chiediti se sei felice e cesserai di esserlo. Gli antichi probabilmente già lo sospettavano ma, guidati dal principio Dum spiro, spero - finché c´è vita, c´è speranza -, sostenevano che senza duro lavoro la vita non offrirebbe nulla che abbia valore. Duemila anni dopo, questo suggerimento non ha perso affatto la sua attualità.
© 2008, Zygmunt Bauman
© 2009, Laterza
Traduzione di Marco Cupellaro

Repubblica 7.5.09
Scienza & Arte al tempo di Galileo
di Claudio Strinati


È alle origini di un modo nuovo e diverso di vedere la realtà. Che usa la pittura come strumento primo di conoscenza
Quadri, sculture, disegni, libri e oggetti raccontano l´influenza del grande studioso sui maggiori artisti dell´epoca
Per i 400 anni dalle prime osservazioni astronomiche, Pisa rende omaggio al suo cittadino più illustre con una mostra che indaga i rapporti tra arti figurative e scoperte scientifiche

Galileo Galilei nasce umanista e diventa scienziato. La mostra allestita nelle sale del Palazzo Blu di Pisa tiene nel massimo conto questo dato di fatto. Galilei fu un colto letterato e uno studioso molto partecipe della teoria delle arti, ma resta sempre un po´ difficile capire in che misura il suo essere stato un vero umanista abbia condizionato o meno il metodo scientifico messo a punto prima in un consenso larghissimo e poi in mezzo a tremende polemiche e lotte. La mostra racconta questa vicenda, di massima rilevanza nella nascita della coscienza dell´uomo moderno occidentale, perché è lecito sostenere che Galilei, insieme con gli amici della appena nata Accademia dei Lincei, sia veramente alle origini di un modo nuovo e diverso di vedere la realtà intorno a noi. Questo provocò reazioni in ogni campo del sapere basato sull´osservazione delle cose naturali. L´arte fu il terreno d´incontro con la scienza perché a quel tempo coloro che praticavano l´arte si erano spostati verso un approfondimento sempre più accentuato degli studi sulla sua stessa essenza.
Il ´500 era stato il secolo della teoria e dell´investigazione in chiave scientifica del significato e dei fini dell´arte. Gli artisti avevano sviluppato una coscienza critica e speculativa quale mai si era manifestata nel corso dei secoli precedenti. Michelangelo e Leonardo da Vinci, il Pontormo, Benvenuto Cellini, il Vasari, Federico Zuccari e tanti altri si erano distinti non solo per il loro lavoro creativo ma anche per lo sforzo di fare chiarezza sul senso e sul ruolo dell´arte nella società.
Galilei da giovane si era formato in questa direzione e terrà conto di tutto questo dibattito quando, nel 1612, scriverà al suo pittore prediletto, il fiorentino Ludovico Cardi detto il Cigoli impostosi a Roma tra i primi maestri del tempo. Intorno a questa lettera sono stati espressi numerosi pareri nel tempo e il suo contenuto è ben presente agli ordinatori della mostra. Per arrivarvi si passa attraverso un percorso che prima rievoca il momento formativo di Galilei tra Pisa, Firenze e Padova. Libri, dipinti e oggetti introducono alla conoscenza dell´arte del secondo ´500, quel "manierismo" che Galilei vede nella sua giovinezza e che respinge per accostarsi a un ideale estetico di sobrietà e magniloquenza insieme, già presente nella pittura scientifica di un grande maestro del tempo, ora giustamente riconsiderato, Jacopo Ligozzi. È l´ambiente che privilegia l´osservazione diretta della realtà e considera l´arte della pittura come strumento in primo luogo di conoscenza. Sommo esponente di una simile mentalità fu il Caravaggio, anche lui ricordato nella mostra. Il manierismo predilesse la moltiplicazione delle immagini, la "curiosità", l´accumulo degli oggetti in una sorta di geniale dispersione che stimolò i più grandi ingegni ma saturò. La mostra ricorda questo tipo di mentalità ricostruendo i "gabinetti delle meraviglie" che sorsero presso tante corti d´Europa a dimostrazione della superiorità del sapere occidentale in grado di dominare ogni cosa e ogni evento nelle maglie di una suprema razionalità. Galileo sovrasta questo mondo e la mostra affronta il punto culminante quando egli intesse i suoi rapporti con i grandi artisti del tempo, non solo il Cigoli ma anche altri personaggi di livello universale come il tedesco Adam Elsheimer a Roma nel primo decennio del ´600, la cui opera è stata spesso accostata alle modalità di osservazione del creato messe in atto da Galilei. Sfilano davanti ai nostri occhi i grandi "naturalisti" del ´600, dallo spagnolo Ribera, il primo a dipingere il cannochiale, a Orazio e Artemisia Gentileschi, dai grandi toscani fervidi e curiosi come Furini, Paolini, Tornioli al Guercino e a quel Justus Sustermans che lasciò un ritratto di Galilei, raffigurato in tarda età ormai cieco e stanco e pure animato da un impeto irrefrenabile da cui nessuno riuscì a farlo arretrare.
La mostra individua nel libro di Galilei Sidereus Nuncius il grande discrimine dopo il quale la scienza moderna entra a pieno titolo nel rinnovato dibattito sul ruolo e la funzione delle arti. A Cigoli, che nel suo affresco dell´"Asssunzione della Vergine" in S. Maria Maggiore a Roma, aveva raffigurato la luna proprio come la si vedeva attraverso il cannocchiale, Galilei, nella lettera del 1612, aveva ribadito l´antica idea in base a cui è la pittura l´arte principe che meglio di ogni altra ci avvicina alla realtà intesa come verità delle cose. Ritornava il sensibile scrittore che anni prima si era speso per difendere la bellezza della poesia dell´Ariosto elevandola su quella di qualunque altro.

Repubblica 7.5.09
Lo scrittore matematico
di Piergiorgio Odifreddi


Per Italo Calvino, che di certe cose si intendeva, Galileo è stato il più grande scrittore italiano. Di questa qualifica si può confutare il superlativo, ma non il sostantivo, perchè colui che è stato inconfutabilmente il più grande scienziato italiano iniziò la sua carriera come umanista: più precisamente, come "scolaro artista" dello Studio di Pisa dal 1581 al 1585. I suoi Scritti letterari contengono sonetti e canzoni, considerazioni sul Tasso e postille all´Ariosto, e addirittura la traccia di una commedia. Ma spiccano soprattutto le Due lezioni all´Accademia Fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell´Inferno di Dante, tenute nel 1588: in esse, dopo aver dichiarato che lo studio dell´Inferno è ancora più meraviglioso di quello della Natura, Galileo passa a determinare le misure di gironi e bolge in maniera scientifica, mescolando osservazione sperimentale e deduzione logica. Questo tipo di analisi matematica della letteratura rivela un Galileo in via di traghettamento dall´umanesimo alla scienza. Effettivamente, nel 1584 era stato avviato alla matematica da un amico del padre, e ne era rimasto catturato. Abbandonati l´anno dopo gli studi artistici, si era dedicato alla lettura dei classici scientifici, da Euclide ad Archimede. Diventato matematico professionista, nel 1589 Galileo ottenne un lettorato triennale a Pisa e nel 1592 la cattedra presso lo Studio di Padova ambíta da Giordano Bruno, sulla quale rimase fino al 1610. In questo periodo aderisce all´eliocentrismo.
Nel frattempo stava diventando uno scienziato maturo: in una lettera del 29 novembre 1602 a Guidobaldo del Monte enunciò la legge dell´isocronia del pendolo, che la leggenda vuole avesse intuito fin dal 1583, quand´era ancora "scolaro artista" a Pisa, osservando le oscillazioni di una lampada nel duomo. Il 10 ottobre 1604 un tal Baldassarre Capra osservò a Padova per la prima volta una "stella nuova" nella costellazione del Serpentario, che rimase visibile per circa un anno e mezzo e scatenò una diatriba sulla sua natura. Galileo tenne tre affollate lezioni in cui dimostrò che non si trattava di un fenomeno sublunare, ma celeste, andando contro la teoria aristotelica dell´incorruttibilità del cielo. In quello stesso anno fu coinvolto in una disputa di priorità col Capra, a proposito di una versione primordiale di ciò che in seguito diventerà il regolo calcolatore. Egli ne descrisse il funzionamento nel primo libro che pubblicò, Le operazioni del compasso geometrico e militare, nel 1606. Ma pochi mesi dopo il Capra rivendicò la paternità dello strumento e Galileo lo citò in giudizio. Il tribunale gli diede ragione e condannò l´avversario per plagio.
Bisogna ammettere però che anche Galileo non andava troppo per il sottile quando si trattava di attribuzioni di priorità. Ad esempio, nell´offrire il cannocchiale al doge di Venezia il 24 agosto 1609, tacque di averlo costruito in seguito alle notizie della sua invenzione arrivate dall´estero. Nel frattempo Galileo aveva fatto un uso diverso della "sua" invenzione: nell´autunno 1609 puntò il cannocchiale in aria e ... apriti cielo! L´attonito scienziato scoprí che la Luna ha monti e valli, Venere fasi simili a quelle lunari, Giove quattro satelliti che gli girano attorno, Saturno strane anomalie (in seguito interpretate come i famosi anelli), il Sole ruota su se stesso, e le costellazioni e la Via Lattea sono composte di innumerevoli stelle: ce n´era abbastanza per entusiasmare il pubblico, turbare gli scienziati e terrorizzare la Chiesa. Quegli eventi cambiarono la vita di Galileo e la storia della scienza, in un´incalzante successione di tappe: nel 1610 la pubblicazione del Sidereus Nuncius, nel 1613 la corrispondenza con padre Benedetto Castelli sul rapporto tra fede e scienza, nel 1616 il primo ammonimento del Santo Uffizio, nel 1623 la pubblicazione del Saggiatore, nel 1632 quella del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, nel 1633 il processo di fronte all´Inquisizione e l´abiura, nel 1638 la pubblicazione dei Discorsi sopra due nuove scienze, e l´8 gennaio 1642 la morte, nello stesso anno in cui nacque Newton.

mercoledì 6 maggio 2009

Corriere della Sera 6.5.09
Verso Cannes. Il regista anticipa le scelte fatte per il suo «Vincere», unico film italiano sulla Croisette. E ne racconta anche i tagli
«Il mio Duce giovane fascinoso e brutale»
Bellocchio: Mussolini visto attraverso la donna che ripudiò
di Aldo Cazzullo


Dittatore. Filippo Timi, 34 anni, interpreta Benito Mussolini in «Vincere» di Marco Bellocchio, l’unico italiano in concorso al prossimo Festival di Cannes Il film traccia un duro ritratto del Duce, mostrato come un uomo «violento, calcolatore. brutale», come ha spiegato il regista

ROMA — «C’è il giovane Mussoli­ni che combatte un duello verbale con un prete. Il futuro Duce chiede agli spettatori un orologio da taschi­no. Lo poggia sul tavolo. Proclama: 'Se Dio entro cinque minuti non mi avrà fulminato, avremo la prova che non esiste!'. In quel momento entra in sala una ragazza di Trento, bella e ricca: Ida Dalser. E si innamora di quegli occhi fiammeggianti...».
Dopo Buongiorno notte, sul caso Moro, Marco Bellocchio torna al ci­nema politico. Due anni fa, il gran­de regista aveva rivelato al Corriere il progetto di un film sul giovane Mussolini e l’amore divenuto perse­cuzione e finito in tragedia per la Dalser e il loro figlio, Benito Albino. Ora il film — Vincere — è pronto. Lo producono Mario Gianani e Rai Cinema. Rappresenterà l’Italia al Festival di Cannes, tra due settimane. E Bellocchio ne anticipa il significa­to politico.
«Il mio Duce è un uomo affascinante: non a caso anche Rachele racconta di es­sersene innamorata subito attraverso i suoi occhi folgoranti. È un uomo amato non solo dalle donne, ma anche dal po­polo: come già per Moro, ho usato mate­riale di repertorio, visto e non visto (ad esempio un discorso in tedesco di Mus­solini a una folla oceanica di nazisti). Do­cumenti che testimoniano l’entusiasmo che la grande maggioranza degli italiani aveva per il capo, un attore dalla recita­zione sempre più pagliaccesca con il passare del tempo, tanto che ogni volta guardandolo mi chiedo con stupore: co­me ha potuto la quasi totalità degli ita­liani credere così ciecamente a un simi­le buffone? Il Duce che ho rappresentato non è un uo­mo buono. Non è il pater fa­milias amorevole tratteg­giato dalla tv, che commet­te il solo errore dell’allean­za con Hitler. È un uomo violento. Calcolatore. Bruta­le. Buono è suo fratello, Ar­naldo, fascistissimo ma molto cattolico, l’unico a prendersi cura del piccolo Benito Albino. Il Duce è in­vece senza pietà. Anche con la donna che aveva amato, e con il suo stesso figlio».
Mussolini è Filippo Timi. «L’ho scelto per la notevole somiglianza con il Duce da giovane — spiega Bellocchio —. Non mi andava di esagerare con il trucco, al­l’americana o alla Bagaglino, né di pren­dere un attore che con la fisicità del Du­ce non c’entrasse nulla, come Banderas che pure l’ha impersonato. E poi Timi ha il fascino magnetico di Mussolini ed è un attore generoso, sincero, pieno di ta­lento. Il Duce di Vincere vuole essere sempre il primo, il più geniale, il più coraggioso. Dopo il duello con l’onorevole Treves, socialista, trascura di farsi medi­care perché vuole verificare di persona che gli arbitri redigano fedelmente il ver­bale del combattimento e dei feroci as­salti, per pubblicarlo poi su Il Popolo d’Italia, ordinando al redattore di fare un grande titolo e che il suo nome prece­da quello di Treves. Il primo, il capo, il Duce. In un primo momento avevo pen­sato a un personaggio simile a Lou Ca­stel di I Pugni in tasca, che uccide la fa­miglia. Poi una discussione con mio fra­tello Pier Giorgio mi ha fatto riflettere. Il protagonista dei Pugni in tasca ha la vio­lenza schizofrenica del nazista. Il Duce era diverso. Dannunziano. Futurista. E io l’ho raccontato con un montaggio velo­ce che ricorda la velocità del futurismo. Il giorno prima di partire per la Grande Guerra, Mussolini porta Ida Dalser al ci­nema. Scorrono le immagini del fronte, il pianista suona l’inno di Garibaldi, gli interventisti lo intonano — «si sco­prono le tombe, si levano i mor­ti... » —, Benito si unisce al coro; i socialisti reagiscono, scoppia un tumulto che ha i colori del­la 'Rissa in galleria' di Boccio­ni. E Ida si lancia in difesa del suo uomo, anche se al settimo mese di gravidanza».
Due anni fa, Bellocchio non aveva scel­to ancora la sua protagonista. Diceva so­lo: «Dovrà essere di una bravura mostruo­sa». Per questo, spiega oggi, ha scelto Giovanna Mezzogiorno. «Mi è parsa per­fetta perché anche lei, come Ida Dalser, ha una fisicità generosa di sé, sempre in movimento, scattante, reattiva. Non so se Giovanna abbia qualcosa di Ida, non glielo auguro, certo si è trasformata in una vera protagonista che di continuo fa piangere e fa arrabbiare. La Dalser stori­ca non è simpatica. È quasi fastidiosa nel non cedere mai, nell’andare sotto le finestre del Popolo d’Italia a gridare e mo­strare il bambino, nel continuare sino al­l’ultimo a voler rivedere il Duce. Ma nel film finisce per diventare un’eroina. Un po’ Antigone e un po’ Medea. Perché è l’unica donna che si oppone davvero, da sola, a un uomo cui la grande maggioran­za delle italiane e degli italiani credeva e ubbidiva».
«Ida è una donna colta, conosce le lin­gue, ha un salone di bellezza. Ma Musso­lini, a lungo bigamo, finisce per preferi­re Rachele: carina, ignorante, ma donna di casa, che sa stare al suo posto: le basta essere la madre dei figli del Duce. Quan­do nasce il figlio di Ida, Mussolini lo riconosce. Ma il giorno stesso sposa Rache­le. È la scelta definitiva, a cui però la Dal­ser, che ha venduto tutti i suoi beni per finanziare il Popolo d’Italia, non si rasse­gna. C’era una scena un po’ da libro Cuo­re che ho tagliato, in cui Ida disperata per l’abbandono va a casa di Mussolini e alla piccola Edda che le apre chiede: 'Pa­pà ti vuole bene?'. Invece ho lasciato la scena, storicamente attestata, in cui le due rivali si affrontano nell’ospedale in cui il Duce è ricoverato. Mussolini è sta­to ferito gravemente, più di 50 schegge in corpo, e ha appena ricevuto la visita del Re, che solo pochi anni prima da so­cialista rivoluzionario aveva irriso («na­no!») e insultato («assassino!»). Ida non lo vedrà più. Mussolini, che appoggia la guerra ed è ormai in ottimi rapporti con il potere, riesce a farla arrestare. Lei vie­ne portata a Firenze. Quindi a Caserta, al confino. L’accusano persino di essere una spia tedesca, per il solo fatto di esse­re nata in territorio austriaco. Finisce nel manicomio di Pergine, vicino a Trento. Infine in quello di San Clemente, su un’isola di fronte a Venezia, dove mori­rà. Ida rivedrà il Duce solo al cinema, da spettatrice».
«Mussolini non aveva ironia. Ironico e provocatorio è il titolo del film, Vince­re.
Io non ho vissuto il fascismo, ma mi sono in parte formato su una cultura che, dopo essere stata complice del fa­scismo, l’ha deriso. Lo spirito di sconfit­ta come espiazione per aver creduto a quell’uomo. Di questo spirito di sconfit­ta la mia generazione si è in parte nutri­ta. Per poi conoscere l’altra grande di­sfatta storica, quella del comunismo (e anche Mao teorizzava la necessità di «osare vincere»). Per questo la nostra identità, di figli degli sconfitti o di una cultura della sconfitta, è stata a lungo de­pressa, grigia, vinta. All’ombra o nel bu­io di quella sconfitta si è formata la no­stra sensibilità. Poi ognuno ha preso la sua strada: chi si è perduto, chi si è totalmente integrato, chi, come me, si è ri­bellato e si è liberato da una condanna che sembrava definitiva a un’infelicità passiva, che mi fa essere oggi ottimista senza sentirmi un imbecille, rappresen­tando da ottimista un’autentica trage­dia. Parole come 'vincere' erano indici­bili. Fino all’arrivo di Berlusconi, che ha fondato democraticamente il suo successo sulla sua immagine vincen­te chiamando alla vittoria e all’otti­mismo il popolo italiano: il suo pri­mo partito non si chiamava Forza Italia? Usando la sua tv, così come Mussolini usò per imporre la pro­pria immagine vincente i mezzi che aveva a disposizione, il cinema, la radio, la fotografia, la grafica, persino la scultu­ra e la pittura».
Racconta Bellocchio che il finale è cambiato rispetto al progetto. «Pensa­vo di chiudere il film con una scena am­bientata dopo la Liberazione: il cogna­to di Ida Riccardo Paicher, l’uomo che non aveva saputo difenderla, esce da un cinema richiamato dalle sirene del­la polizia, assiste agli scontri di un cor­teo politico con le bandiere rosse e tut­to, e soccorre una ragazza ferita. Poi mi sono detto che il film non meritava un finale consolatorio. È una tragedia, e così deve finire».

l’Unità 6.5.09
Bellocchio e la moglie di Mussolini finita pazza
Il film sarà presentato a Cannes. Racconta un duce inedito. Di una donna perseguitata e del figlio Benito Albino
di Malcom Pagani


Il regista: «Il film parte da un documentario su parenti sacrificati»
Le lettere. La moglie scriveva e i federali la perseguitavano
Il figlio. Gli cambiarono l’affido il nome, lo fecero espatriare in Cina

A Palazzo Venezia, con le donne, Mussolini usava la tecnica musica e magia. Tra il ‘35 e il ‘39 non aveva amanti, ma solo fugaci incontri. Tromba e sparisci».
L’eleganza sublime e l’elogio trasversale. Democratico. Stallieri e dittatori. L’altro ieri, tramontata l’aura del 25 aprile pacificato, grazie a Marcello Dell’Utri scoprivamo i partigiani «di destra» e il Mussolini «troppo buono». Qualche giorno ancora e il festival di Cannes racconterà al mondo un altro duce. Bigamo e spietato. «Prima di allora, non sapevo nulla di questa storia. Poi nel 2005 lessi un articolo e vidi un documentario su Mussolini e sui parenti ignoti e sacrificati, la moglie Ida Dasler e il figlio legittimo del duce, Benito Albino».
Da 40 anni Marco Bellocchio esplora i lessici familiari. Codifica linguaggi, pugni tenuti in tasca, condanne, salti nel vuoto, mostri da occultare alla vista o sbattere in prima pagina. Un cinema che ripudia l’oblìo e spinge l’ex salesiano ribelle a occuparsi di terrorismo e psicanalisi, regimi e sacche di consenso. «Vincere», il suo film sul Duce più celato, sarà in concorso a Cannes. In luogo del ‘68 di Placido, la fotografia della donna che pagò caro l’irriducibile desiderio di non arrendersi. Fu bollata, resa incapace di nuocere all’immagine del dittatore, rinchiusa in manicomio.
Pazza. E quindi afona nel gridare, indecifrabile nello scrivere, querula nel chiedere aiuto. Pericolosa. Una serpe cresciuta in seno che rivendica l’amore del capo e diventa un problema. Da internare e dimenticare, usando ogni mezzo.
Stampa, Polizia, medici, prefetti. Il pubblico che si piega al privato e nasconde un segreto inconfessabile. Un gioco di scatole cinesi. Aperta la prima, non ci si può fermare. Il documentarista che insieme al giornalista Norelli ha guidato Bellocchio alla scoperta del lato oscuro di Mussolini si chiama Fabrizio Laurenti. Ha vissuto per 13 anni a New York, ondeggiato tra generi diversissimi e una sera per caso, è caduto sulla materia che avrebbe plasmato in 30 mesi di maniacale lavoro. «Mi dissero che Mussolini aveva avuto un figlio morto in manicomio. Mi sembrò incredibile. “Fidati, a Trento lo sanno tutti”. Decisi di indagare e mi immersi in un pozzo di fonti. Compagni di banco che avevano conosciuto Albino e le sue leggendarie imitazioni del padre, donne che vivevano di fronte al sanatorio dove era reclusa Ida, autentiche lettere autografe firmate Benito. Un materiale troppo importante sul funzionamento della burocrazia fascista per rischiarne l’estinzione».
Ida venne imprigionata a Pergine, «curata» con iniezioni di malaria nel sadico tentativo di «snebbiarle» la coscienza, screditata, messa infine in una fossa comune, nel 1937.
A Benito Albino cambiarono l’affido, il nome, lo fecero espatriare in Cina e poi, vista l’insistenza nel cantare un’aria sgradita, fatto accomodare in una struttura identica a quella della madre.
Morì nel 1942. «La corsa a guadagnare gli elogi del principe era senza freni. Compiacere è un meccanismo “naturale” che funzionava e funziona perfettamente». Laurenti coglie analogie con l’oggi. «Sono cambiate solo le facce. Come diceva Flaiano, correre in soccorso del vincitore è un istinto primario. Quando il potere diventa incontestabile e il consenso raggiunge vette così alte, c’è piaggeria. Ci sarà sempre un momento per essere ricompensati e magari vedersi catapultare in parlamento. Con Albino e Ida fecero cessare il rumore di fondo, il fastidio per una diceria che non doveva circolare».
Lei prendeva carta e penna: il nostro Benitino, “piccolo grande amore” lui riceveva freddi dispacci, frammenti di una violenza soffusa. «Per trovare le lettere incriminate, Tamburini, un federale di Trento, le smontò la casa. Portò via molte cose ma non quei fogli, nascosti dentro un gallo impagliato. Ci sono ancora. Tamburini, a Salò divenne capo della Polizia».
Ida non si adeguò mai. Fu sua moglie, sempre. «Accusò il fratello Arnaldo». Lo stesso che sulla Gazzetta Ufficiale mutò l’identità di Albino. «Gli fece assumere un altro cognome. Cambiò la vita di una persona e quella di una nazione».
Al di là di speculazioni, bizzarre similitudini, abbagli, equivoci di inizio estate.

l’Unità 6.5.09
«Io, Valentina sono bella amo gli Stones e m’arrabbio»
Attrici emergenti La Lodovini, nelle sale con “Generazione 1000 euro”: «Non è accettabile che lo Stato non investa nella cultura»
intervista di Paolo Calcagno


Mara, Daniela, Beatrice e le altre. Figlie del nostro tempo ingrato e minaccioso, soprattutto per i giovani: donne generose e battagliere che non ci stanno a farsi intrappolare nei conformismi rassicuranti e nei pregiudizi-rifugio di esistenze garantite. Le abbiamo incontrate al cinema con la faccia spiritosa e il sorriso contagioso di Valentina Lodovini: la maestra che sbarca nella provincia del Nord (La giusta distanza, di Carlo Mazzacurati) , ammalata di paura dell’altro, dell’immigrato extracomunitario; la fidanzata del giornalista napoletano Giancarlo Siani eliminato dalla camorra con 10 colpi di pistola (Fortapàsc, di Marco Risi); la professoressa di latino e greco (Generazione 1000 euro, di Massimo Venier) che attraversa con grinta il labirinto del precariato. E dall’11 maggio l’attrice sarà sul set triestino della fiction Rai Gli ultimi del Paradiso, la prima dedicata alle «morti bianche» causate dagli incidenti sul lavoro.
PIOVRE D’ITALIA
«Siamo tutti figli di papà – osserva Valentina Lodovini -. Non dico che noi trentenni siamo benestanti, ma ognuno ha una famiglia alle spalle. Il sogno è il lavoro sicuro, un miraggio nell’Italia di oggi. E ci sono due tronconi: c’è la parte che non si arrende, che si rimbocca le maniche, che fa due o tre lavori contemporaneamente per sbarcare il lunario, ma caparbiamente insegue l’obiettivo che ha scelto; poi, c’è l’altra parte, più fragile, che non fa fronte comune, che si lamenta e rinuncia a lottare». E la solidarietà, la rabbia? Si fatica a rintracciarle in questa generazione del “si salvi chi può”. «Secondo me, la rabbia c’è in entrambe le parti. Tutte le mattine mi sveglio arrabbiata contro questo stato che investe poco nel cinema, nel teatro, nella cultura, perché non ci crede; contro la politica e le lobby che condizionano sviluppi e vite in vari settori. Soprattutto, provo rabbia contro chi vuole rendere provinciale il nostro Paese. E mi fa incazzare che tanti facciano finta di niente. Anche per questo partecipo molto volentieri ai film che si occupano della realtà, non importa se realizzati in chiave drammatica o di commedia sentimentale».
LA MIA GENERAZIONE
Bella e tosta, Valentina Lodovini, 30 anni, umbra (ma cresciuta nella provincia di Arezzo): «Per me, oggi, è diverso: faccio il mestiere che ho scelto e posso persino respingere le offerte che mi arrivano. Però, non è stato sempre così. Ho fatto tutti i passaggi, fin da quando, a 19 anni, avevo deciso che sarei diventata attrice: la Scuola di teatro, il Centro sperimentale, eccetera. Anche a me è toccato di vivere in periferia, assieme a 7-8 ragazzi». Glamour e impegno sociale, un mix di cui non Valentina non nega di compiacersi. «Siccome sono umbra di origine e il fisico non mi manca, puntualmente mi hanno accostata alla Bellucci. Ma mi interessa poco. Per me, se sono bravi e hanno personalità, gli attori sono tutti belli. E io ho la fortuna di trovarmi in buona compagnia: in Italia sta crescendo un’eccellente generazione di attori e di attrici. Come donna, ho la mia vanità e non nascondo di avere un debole per i tacchi alti e il rossetto: mi fanno sentire più sicura del mio corpo. Ma della bellezza non trovo intelligente parlare».
CERTE MANIE
Appassionata dei Rolling Stones, avida di buone letture, Valentina ama concedersi piccole manie, come le collezioni di cappelli e occhiali. Il carattere solare e diretto è una costante dei personaggi principali creati dalla Lodovini: nessuna tentazione per un ruolo torbido da malafemmina? «Non mi spaventa il ruolo della stronza. Recitare una “malafemmina” sarebbe un godimento: mi manca una donna pericolosa e ambigua. Ma scegliere i ruoli, per un’attrice, è una battaglia: la qualità è merce rara nelle proposte che arrivano e io sono convinta che una carriera si costruisce più con i no che con i sì. Però, forse a teatro, a Taormina, farò Salomè, di Oscar Wilde, che non è proprio la solita signorina insicura...».
E accetterebbe anche la sfida di un ruolo comico? «L’ho fatto: sono stata protagonista di Pornorama, di Marc Rothemund. È una commedia divertentissima, in cui faccio un’attrice svampita, con un suo alter ego: è una maggiorata, una specie di Lollobrigida, Loren e Cardinale messe insieme, ma quando recita diventa la Magnani. L’ho girato tra Berlino e Monaco, ma per ora è andato solo in Europa: non so se arriverà in Italia».

l’Unità 6.5.09
Il privato di un imperatore
di Pietro Spataro


La domanda, senza tanti giri di parole, è questa: è davvero affare privato che un premier venga accusato dalla moglie di "frequentare le minorenni"? Ovviamente no, è un affare politico di prima grandezza. Eppure scivola via come una puntata del Grande Fratello o suscita le reprimende di qualche editorialista guerriero della privacy. Ultimo arrivato è Pierluigi Battista che ieri sul Corriere ha messo alle strette il vero colpevole: Dario Franceschini. Che ha osato lanciare l'allarme sul degrado morale dell’uomo che governa l’Italia e che è portatore di un immenso conflitto di interssi. Verrebbe da dire: poveri noi. Questa teoria della “intangibilità del privato” l’abbiamo letta in più versioni. E però: come si fa a giudicare fatti privati certe accuse così brucianti che in altri paesi avrebbero fatto tremare il palazzo? E infatti ieri sera il premier ha dato la prova più plateale: è andato a Porta a Porta e ci ha sbattuto in faccia i suoi vizi privati sulla tv pubblica.
Il fatto è che l'etica della politica oggi non è problemino da poco, tantomeno per Berlusconi. Da chi governa un paese e fa leggi che toccano le vite uno pretende comportamenti coerenti e sobrietà. E invece si assiste a spettacoli sempre più indecenti di fronte ai quali troppi tirano dritti. «In Italia non c'è più capacità di indignarsi» ci ha spiegato il corrispondente del Time. Detto da un giornalista straniero ferisce ancora di più. Forse ha proprio ragione Veronica Lario: che strano questo paese che tutto concede e tutto giustifica al suo imperatore.
pspataro@unita.it

l’Unità 6.5.09
Quel «Papi» ricorda Malaparte
di Bruno Gravagnuolo


Mette il «comico» come categoria dello spirito, al centro dela sua esegesi del «Moderno», Massimo Cacciari. Nel suo Hamletica, saggio adelphiano, dedicato a Shakespeare, Kafka e Beckett, figure chiave del nichilismo, di cui il comico sarebbe l’acme. Il «comico» come parossismo del Senso, del Potere, dei Valori. Del «regno delle immagini» e quant’altro la modernità fa implodere, consegnando tutto all’assurdo. Non è questo il luogo per «recensire» una tesi non del tutto originale, ma nondimeno suggestiva. E stimolante. Almeno per ciò che concerne la modernità italica. Quant’altre mai comica. Ma, in quanto inconsapevolmente tale, tragica. Citando passim, prendete Marcello Dell’Utri, già architetto di Forza Italia, bibliofilo. Uno degli «uomini del destino» ai quali dobbiamo questa nostra Italia. Beh, lui che è nel cuore di quel Cav, che pure «riabilita» il 25 aprile, va girando per l’Italia, cercando di rifilare a tutti la famosa patacca dei Diari del Duce. Palesemente falsi, come tutti gli storici seri hanno detto. E ripete, al solito Klaus Davi benevolente e dialogante su You Tube, che « Mussolini ha perso la guerra perché era troppo buono». Che era «un uomo straordinario, una brava persona, che non stimava Hitler». E via delirando comicamente. Una roba che non stupisce più di tanto nessuno, salvo pochi «indignati». E meno che mai stupisce, che a dirle certe cose, sia uno dei consigliori più intimi del Capo Supremo. Quanto a quest’ultimo poi, se è vero che i suoi spettacolini, con conigliette e Lolite, indignano la moglie (che ben lo conosce) - spingendola (alfine!) al divorzio - vero è altresì che c’è una maggioranza di italiani che lo ammira. Lo comprende, e nella sua antropologia comica si riconosce volentieri. Anche se quegli spettacolini tra Villa Certosa e Casoria, hanno il sapore farsesco del degrado. Tipo quello ben noto del La pelle di Malaparte! Insomma quel «papi» piace agli italiani. E non abbiamo ancora né una antropologia né un riso demolitore alternativi per farne implodere la maschera.

Repubblica 6.5.09
Lo specchio infranto
di Curzio Maltese


Ma che effetto avrà fatto agli italiani vedere in mondovisione il presidente del Consiglio costretto a discolparsi di non andare con le minorenni? Dice proprio così, «Non è vero che frequento le minorenni». Come sostiene non un passante, un avversario politico senza scrupoli, un giornalaccio scandalistico, un sito di gossip, ma la madre dei suoi figli.
Eccolo, il premier più popolare del mondo, secondo i suoi stessi sondaggi amato dal 75 per cento degli italiani, ma compatito, con punte di disgusto, dalla donna che gli sta accanto da trent´anni. Perché, sostiene Veronica, «è una persona che non sta bene». Eccolo, il re nudo, con i suoi settantadue anni e i capelli nuovi, il cameraman di fiducia, nel salotto amico, mentre spiega che figurarsi se lui frequenta le ragazzine, come sostiene Veronica. Figurarsi se voleva candidare le veline all'europarlamento. Figurarsi se Veronica, che gli sta accanto da trent'anni, conosce la verità. Figurarsi, d'altra parte, se lui candida qualcuno per altri meriti che l'impegno negli studi, la competenza, l'idealismo, come del resto «nel caso di Gelmini, Carfagna, Brambilla…». Ma si capisce, certo.
Nella sempre spettacolare parabola di Silvio Berlusconi questo rimarrà il vertice. Ma stavolta non è stato lui a scegliersi la scena e neppure la parte. Lo ha costretto la moglie. L'unica persona vicina a infrangere lo specchio e a rompere il muro dell'omertà, retto per tanti anni da centinaia di schiene di cortigiani politici, giornalisti, avvocati, amici, disposti a chiudere un occhio, due, tre in tutti questi anni sullo scempio di legalità e moralità. E lui ha dovuto andare in televisione, in mondovisione, a raccontare che sua moglie è male informata sul marito, vittima di un complotto della sinistra, dei giornali di sinistra, di Repubblica. «Non a caso Repubblica». Vero. Da chi doveva andare Veronica, in un paese classificato nella libertà di stampa dietro al Benin, dove il marito controlla gran parte dell'informazione? Non c'era molta scelta. Neppure Berlusconi ha fatto una scelta originale, andando da Vespa per riparare i danni dell'attacco dei vescovi. Dove, sennò?
La claque lo sostiene, lo applaude a ogni passaggio della difficile arrampicata di sesto grado sugli specchi, sullo specchio del volto gigantesco di Veronica alle sue spalle. Sembra una scena di un film di Fellini, la Donna stupenda e immensa, e l´omino laggiù, una formica, che si dibatte in alibi puerili, strepita innocenza, sputa minacce. Gli spettatori italiani, dopo tanti anni di teleserva, non faranno più caso all´atteggiamento di Bruno Vespa, accondiscende fin dal titolo. Il più surreale mai escogitato da Vespa: «Adesso parlo io». Adesso parla Berlusconi? Perché, gli altri giorni degli ultimi quindici anni? Tuttavia, tanto per dare un'idea vaga di giornalismo, bisognerebbe ricordare il genere delle questioni poste a Bill Clinton dal suo intervistatore per il caso di Monica Lewinski (peraltro abbondantemente maggiorenne). Queste: quando, dove e come vi siete conosciuti? Quante volte vi siete visti in seguito? I genitori erano al corrente del vostro rapporto e in quali termini? E´ venuta a trovarla a Washington (a Roma)? E´ andato a trovarla a casa di lei? Dove dormivate? Avete avuto rapporti sessuali? Di che tipo? Quante volte? Quante volte completi? E Bill Clinton ha risposto a tutte le domande, senza citare neppure alla lontana una teoria del complotto. Alla fine è andato a scusarsi da sua moglie, nel salotto di casa, non nel salotto televisivo del ciambellano. Ha chiesto perdono a sua moglie, che aveva offeso. Si è ripresentato all´opinione pubblica quando lo ha ottenuto, dopo aver ammesso nel dettaglio più intimo e vergognoso le proprie colpe. Così accade in un paese democratico e civile.
Forse a Silvio Berlusconi sarà bastato passare una sera dall´amico Vespa, nel calore della claque, per ricominciare da domani come nulla fosse. Magari bisognerà pure rassegnarsi, con realismo, a capire che in questa storia l´unica che non potrà più liberamente andare in giro per le strade di questo paese è la vittima, Veronica Lario. Già inseguita dalla muta dei cani che hanno appena cominciato a delegittimarla in tutti i modi.

Corriere della Sera 6.5.09
Sottili equilibri
di Massimo Franco


Si avverte una misce­la di disagio e re­alpolitik nelle rea­zioni delle gerar­chie cattoliche alla saga familiare dei coniugi Berlu­sconi. Disagio non tanto per l’annuncio del divor­zio, ma per il modo spetta­colare, per usare un eufe­mismo, con il quale è stato comunicato. Quanto alla realpolitik si scorge dietro l’assoluto silenzio vaticano e nelle parole sobrie con le quali il presidente dei vescovi italiani, Angelo Ba­gnasco, ha commentato e avallato a posteriori la pre­sa di posizione del quoti­diano Avvenire, vicino alla Cei: un articolo forse più dovuto che voluto, perché intervenire su questioni di vita privata declassate di fatto a pettegolezzo crea un imbarazzo evidente.
Tanto più perché i prota­gonisti della vicenda sono un presidente del Consi­glio considerato l’interlo­cutore principale del Vati­cano, e sua moglie. E qua­lunque parola di troppo ri­schia di alimentare una spi­rale di pettegolezzi in bili­co fra politica, etica, mora­lismo e soldi. L’apparente distacco dalla lite fra Silvio Berlusconi e Veronica La­rio nasconde la speranza impossibile di vedere il ca­so archiviato al più presto; e la realtà di un disappun­to e di una richiesta di tene­re atteggiamenti più re­sponsabili, rivolta tacita­mente ad entrambi. A que­sto si aggiunge il timore di un uso politico della vicen­da in un momento delica­to della vita del Paese. Ber­lusconi sembra consapevo­le di dovere affrontare una situazione scivolosa. La ri­vendicazione di rapporti ottimi con la Santa Sede, ri­petuta ieri sera in tv, riflet­te un dato di fatto ma forse va completata. Assume un significato diverso se vie­ne letta insieme alla sua certezza di non perdere «la simpatia» del mondo catto­lico a causa delle tensioni con la moglie: parole che in realtà tradiscono l’oscu­ro timore di essere danneg­giato politicamente ed elet­toralmente da quello che si ostina a considerare in modo un po’ troppo sbriga­tivo un gigantesco malinte­so. Ma si tratta di un peri­colo che in realtà non ri­guarda solo quell’univer­so. L’opinione pubblica sembra sconcertata e divi­sa senza distinzioni.
Non significa automati­camente che si prepari ad abbandonare il centrode­stra. Anzi, le polemiche che alcuni esponenti del­l’opposizione stanno facen­do contro gerarchie accusa­te di essere «governative», potrebbero rivelarsi a dop­pio taglio. Invece di far ri­saltare una sorta di incom­patibilità morale prima an­cora che politica fra valori cattolici e berlusconismo, rischiano di accentuare la distanza fra centrosinistra e Vaticano. Sarebbe un ri­sultato paradossale, nel momento forse più diffici­le del premier da quando ha vinto le elezioni nel 2008. Eppure, quanto è ac­caduto e può succedere nelle prossime settimane suona come un monito per Berlusconi.
Dovrebbe fargli capire che non bastano i limiti po­litici degli avversari a scon­giurare le critiche, i malin­tesi e alla fine un logora­mento, alimentati in buo­na misura anche da certi suoi comportamenti. Di colpo, potrebbe ritrovarsi appesantito da una zavor­ra di voci che finora hanno contribuito in modo discu­tibile ad alimentare i suoi successi.

Corriere della Sera 6.5.09
Primi segnali d’allarme sul gradimento dei giovani e timori per l’immagine estera del presidente del Consiglio
La delusione: tanti dei miei incapaci di difendermi
di Marco Galluzzo


ROMA — Sarà stata una casuali­tà, ma il sondaggio è arrivato nelle mani del Cavaliere poco dopo la polemica sulle veline. Dopo che la moglie ha definito «ciarpame sen­za pudore» l’uso che delle donne, a suo giudizio, viene fatto nella li­ste elettorali del partito di suo ma­rito. L’ultimo affondo prima di co­municare l’intenzione di divorzia­re. Ebbene i numeri di quella ricer­ca d’opinione, che ha allarmato più di un ministro, dicono che c’è una visibile inversione di tenden­za nel consenso che i giovani, so­prattutto in cerca di lavoro, tributa­no al partito delle Libertà.
Per lo stato maggiore della neo­nata formazione politica è più di un campanello d’allarme. Così co­me per Silvio Berlusconi. Per la pri­ma volta un sondaggio segnala che la «questione veline» è filtrata in modo diffuso nell’elettorato. Ve­ro o falso che sia il dato di cronaca (per il Cavaliere assolutamente fal­so, inventato ad arte dalla sinistra e dai suoi quotidiani) c’è una per­cezione che si sta diffondendo fra chi vota: nel partito del capo del governo si può fare carriera anche grazie all’estetica. Ovviamente la cosa comincia a disturbare chi un lavoro lo cerca (e in questo perio­do in modo sempre più travaglia­to) in base al solo curriculum.
La storia delle veline è stato «un danno al Pdl», ha detto ieri sera il capo del governo a «Porta a Por­ta ». Forse pensava anche ai nume­ri che in questi giorni sono circola­ti fra i dirigenti del suo partito. Poi ha citato l’altro danno, «al sotto­scritto». E in questo caso una delle cose che più lo ha scosso è stato vedere come la materia è stata trat­tata dai media internazionali. «So­no molto preoccupato per la mia immagine all’estero», è uno dei crucci più dolenti di questa vicen­da, spiegabile anche con la psicolo­gia di un uomo che all’immagine tiene in modo quasi maniacale. Co­me e più di ogni politico.
Le accuse della moglie all’estero sono arrivate senza filtro: quella di frequentare una minorenne, quel­la di non essere un buon padre, quelle di non sapere mettere un li­mite ai desideri. Rilanciate dai siti d’informazione, dalle televisioni e dai quotidiani di tutto il pianeta. Per chi nella politica estera riscon­tra la maggior parte del suo lavo­ro, che nei vertici internazionali enfatizza gli effetti diplomatici del rapporto personale con gli altri lea­der, è un danno potenzialmente in­calcolabile, che brucia e provoca imbarazzo.
C’è infine un altro dato che lo scontro con la moglie ha amplifi­cato, richiamando nel Cavaliere sentimenti che ha già provato in altri momenti di difficoltà. Le ac­cuse subite addolorano, bruciano, ne vengono soppesati gli effetti in­terni ed internazionali. Esiste pe­rò almeno un altro effetto, di natu­ra intima, psicologica, che non emerge dalle chiacchiere con lo staff, con i principali collaborato­ri, ma solo nelle conversazioni con gli amici, ed è una sensazione di solitudine: «Sono deluso da molti dei miei, anche da molte del­le donne del Pdl, da un’infinità di gente che sembra incapace di di­fendermi...». Insomma mentre Bossi ironizza­va sulle esigenze delle mogli, che non devono essere trascurate dai mariti, mentre molte esponenti del centrodestra (forse con la sola ecce­zione di Daniela Santanchè) formu­lavano giudizi che spiccavano per i distinguo e non per la difesa a spa­da tratta del Cavaliere, mentre dal­le parti di Arcore a Fini continuava ad essere attribuita parte della re­sponsabilità oggettiva del primo affondo di Veronica (contro le veli­ne, criticate in un articolo della rivi­sta della fondazione vicina al presi­dente della Camera), proprio in quei momenti Berlusconi rifletteva sul fatto che «i miei sono incapaci di difendermi»: misurando forse la solitudine politica di chi viene coinvolto in vicende che di politi­co hanno ben poco.

Corriere della Sera 6.5.09
La «sorpresa» di Veronica Quella telefonata con Letta
Anche Confalonieri ha contattato la moglie del premier


MILANO — Doveva essere una serata tranquilla. Nella villa di Macherio, a cena — la prima dall’annuncio della se­parazione —, erano invitati al­cuni amici di famiglia. Invece Veronica Lario si è trovata ad affrontare l’ennesima situa­zione di tensione: suo marito a Porta a Porta a parlare della fine della loro storia. Una scel­ta che la moglie del premier ha appreso soltanto nel pome­riggio. Ed è superfluo dire che è rimasta sorpresa. No, questa mossa proprio non se l’aspettava. Non dopo la frase pronunciata da Silvio Berlu­sconi nei giorni scorsi: «Vor­rei che la storia del divorzio rimanesse nella sfera priva­ta».
Invece il presidente del Consiglio, nonostante i suoi più fidati collaboratori glielo avessero sconsigliato, ha deci­so di andare lo stesso in tv. Ed ha parlato per la prima vol­ta con Bruno Vespa della sua vicenda familiare. A lei, a Ve­ronica, ieri sera non è rima­sto che sedersi sul divano del salotto a guardare il marito parlare in televisione. Una scelta «spudorata», secondo alcune care amiche, quella di Berlusconi. Ma non è questo che ha sorpreso di più Veroni­ca Lario. Semmai, a colpirla, è stato il silenzio calato attorno a lei in questi giorni. Degli amici di sempre, Fedele Con­falonieri è stato uno dei po­chi a chiamarla. E poi, la scor­sa settimana, c’è stato un lun­go colloquio telefonico con Gianni Letta, nel corso del quale il braccio destro di Ber­lusconi avrebbe provato a sondare il terreno per capire i margini di una possibile ri­conciliazione, dovendo poi concludere che erano pratica­mente nulli. Anche a Letta, come alle persone a lei più care, Veroni­ca Lario avrebbe spiegato le ragioni che l’hanno spinta a questo gesto così sofferto e complicato. Non è stata solo la partecipazione di Berlusco­ni alla festa di Noemi Letizia a Napoli la causa scatenante della rottura — ha detto — ma più che altro la lunga se­rie di frequentazioni avute ne­gli ultimi anni dal marito, co­me anche il suo stile di vita. Tutte scelte che, secondo lei, avrebbero leso la sua dignità di donna e di madre. A tal punto, da spingerla a dire ba­sta a un matrimonio senza più prospettive. Dopo dieci anni — ha chiarito — non vo­glio più mercanteggiare. O mi ammalavo o facevo questa scelta, l’unica possibile per salvare la mia immagine pri­vata e pubblica.
Tra l’altro è sicura, Veroni­ca, che la strada intrapresa, quella della separazione, farà del bene anche al marito. I fi­gli, invece, rappresentano un capitolo a parte. Sicuramente non le hanno fatto piacere, ad esempio, le spiegazioni da­te da Berlusconi in tv a propo­sito delle presunte assenze al­le feste di compleanno dei tre ragazzi. Chi la conosce, rac­conta che spesso Veronica ha dovuto insistere molto con lui per farlo partecipare. Qua­si sempre senza risultato.
Barbara, Eleonora e Luigi per ora preferiscono non commentare. In questa guer­ra a distanza tra i genitori, hanno scelto di tenersi in di­sparte. Almeno pubblicamen­te. Ma è abbastanza certo che negli ultimi mesi avevano sperato che tra la madre e il padre potesse durare quella sorta di tregua sopraggiunta dopo la nascita del piccolo Alessandro, il figlio di Barba­ra. Quel nipotino, del quale Berlusconi ha parlato con af­fetto anche ieri sera a Porta a Porta, sembrava aver ridotto le distanze tra i due. Sanato un po’ le ferite. E le foto ma­no nella mano a Portofino ne erano la prova.

Repubblica 6.5.09
Il lato oscuro dei normali "perversi"
Da tabù a moda: cambia il giudizio sui gusti erotici
di Natalia Aspesi


Un libro del giornalista Daniel Bergner racconta quattro casi di persone con inclinazioni sessuali diverse, estreme. Ma "Il lato oscuro del desiderio" è sempre più comune

Cerano tempi in cui barbuti studiosi consideravano diabolicamente perverse le signore che a letto, persino col loro legittimo sposo, non si dimostravano del tutto marmoree. Nei decenni, alcune propensioni sessuali un tempo considerate criminali sono diventate alla moda e guai a non praticarle correttamente, altre nei secoli bui punite con l´impalamento, oggi danno vita a felici famigliole monosessuali: e tuttavia, tale è l´ingordigia di rendere il sesso meno soporifero o di non sentirsi massa anche a letto, e nello stesso tempo tale il bisogno di dare all´amore il cupo colore dell´ignominia, che quelle che si chiamano perversioni sono sempre lì, invitanti.
Solo che, come fantasia e come consumatori, si sono evolute, moltiplicate, e con l´avvento del web, organizzate, normalizzate, diventate mercato, dando da pensare e favoleggiare e lavorare a vaste categorie di studiosi; a cominciare dai fondamentali e celeberrimi scienziati tedeschi del ramo, il massimo divo ora polveroso della psichiatria, Richard von Krafft-Ebing (Psychopathia sexualis, 1886) e il medico Magnus Hirschfeld (Geschlechtsanimalien und perversionen, 1926), pioniere degli studi sulla omosessualità e omosessuale lui stesso. Spaventosi esempi citati dai due dotti voyeur: un giovanotto che si eccitava orribilmente leggendo La capanna dello zio Tom, una vera epidemia tra le nobildonne inglesi del XVIII secolo che si riunivano una volta la settimana per frustarsi vicendevolmente in grande allegria.
Per le pari opportunità va detto che, tra i tanti celebri maso, anche il grande letterato settecentesco Samuel Johnson adorava essere frustrato dalla sua signora. E´ il momento di rinfrescare un po´ la vasta casistica e la tipologia umana (per la verità più maschile che femminile) di chi, sessualmente parlando, non riesce a farlo o lo fa con esangue divertimento, se non lo fa strano. Per chi voglia erudirsi e, ammesso che ci tenga, cercar di capire perché uno si compra le manette di marabu rosa, e una sogna di essere trattata anche solo in vacanza come la protagonista di Histoire d'O, castello e nani cattivi compresi, c´è adesso un libro di grande perizia psicologica e giornalistica, che non eccita ma neppure addormenta, che non appare ridicolo più di tanto come spesso questo tipo di ricerca, ma neppure del tutto orripilante come molti studi minacciosi.
Si intitola Il lato oscuro del desiderio, sottotitolo "I sentieri deviati dell´attrazione sessuale" (Einaudi Stile libero, pagg. 198, euro 16), e lo ha scritto Daniel Bergner, 48 anni, collaboratore del New York Times Magazine, autore di altri due libri inchiesta sugli orrori in un carcere in Louisiana e la guerra civile nella Sierra Madre. Bergner sottolineando con vigore di essere un tipo senza grilli erotici per la testa, o altrove, racconta i casi di quattro americani, tre uomini e una donna, imprigionati in prelibatezze sessuali in un certo senso classiche anche se non consuete. C´è la perversione criminale, la pedofilia, qui rappresentata con molta cautela, visto che l´informatico Roy è finito in galera solo per aver tentato senza riuscirci, di sedurre la figliastra dodicenne, al contrario del professor Humbert di Nabokov che riuscì senza difficoltà a irretire la figliastra Lolita.
C´è la perversione di massimo consumismo di coppia, il sadomasochismo, che ci viene raccontata da una stilista di moda S/M, detta La Baronessa, dominatrice molto nota per un suo locale a New York dove, volendo, si può essere legati a uno spiedo e rosolati, con danni lievi, sopra carboni ardenti, o addirittura, come massima umiliazione virile e vantaggio domestico per la signora (che vanta un lungo matrimonio tradizionale molto felice), pulirle i pavimenti di casa con la lingua indossando un completo di vinile rosso creato e venduto dalla furba Baronessa stessa.
C´è la perversione innocua per tutti tranne per chi la pratica, che, non avendo visto il film di Buñuel Diario di una cameriera con vecchio feticista innamorato degli stivaletti di Jeanne Moreau, se ne angoscia e prende farmaci per smettere; si tratta del rappresentante di commercio Jacob, pure dislettico, pazzo per i piedi, tanto che al solo sentir dire alla tivù, "la neve ha raggiunto i due piedi", lui va in estasi. Prostitute contente per un lavoro così semplice, i medici a dirgli, ma perché non confida a sua moglie questa sua eccentricità che magari è ben disposta, ma lui no, se ne vergogna e poi se lei ci stesse, lui non l´amerebbe più. C´è il perverso benefico che, si apprende con una vena di stupore, fa parte di una moltitudine di confratelli, provvisti di riviste specializzate, innumerevoli siti internet, gruppi in analisi e congressi con merchandising: il pubblicitario Ron appassionato di donne disabili che ama fotografare, ne trova a iosa, sposa dapprima Elizabeth, una giovane donna dalle gambe amputate e molto esibizionista, e dopo il divorzio trova l´amore della sua vita, Laura, anche lei senza gambe in seguito a un incidente d´auto. Offese le signore disabili che si sentono in diritto di essere amate e non fonte di perversione.
Cinema molto interessato, da Tristana di Buñuel, con vendicativa Catherine Deneuve senza una gamba, a Crash di Cronenberg con Rosanna Arquette provvista di gamba di legno, a Boxing Helena di Jennifer Lynch, figlia del regista David, con Julian Sands che per tener prigioniera la sua innamorata a poco a poco le taglia braccia e gambe. Per quanto la lettura di Il lato oscuro del desiderio sia appassionante anche per chi pratica la monogamia con qualche ritocco finesettimana acquistato nei sexshop o ogni tanto un brivido da swapping, basta accendere la televisione su programmi per famiglie per arricchire la propria cultura erotica. E per esempio nell´adorata fiction Sex and the city ora riproposta (su Foxlife), l´aitante marito della bella e appassionata Charlotte non la tocca, preferendo chiudersi in bagno con una rivista specializzata in signore dal seno enorme; gioco innocuo ma, almeno per la sposa intonsa, insopportabilmente perverso.
E poi: qualche settimana fa sono state "Le Iene" (Italia Uno) a portarci in un locale padano apposito, dove uomini e donne vestiti da Mandrake si pestavano di santa ragione, finalmente erotizzati al massimo: meno una signora molto grassa che pretendeva di essere sospesa per aria, senza che ben tre robusti giovanotti con maschera di cuoio ce la facessero. L´anno scorso su un canale Sky trasmisero un´indimenticabile intervista a una innocua massaia americana che conviveva finalmente felice con un cavallo, peraltro non intervistato e girando per i vari canali capita di trovare allegrissimi bordelli dove le signore pesano tutte più di cento chili. Ma in tivù le perversioni non fanno info, come il libro di Bergner, ma solo enterteinment e non dei più riusciti, per un pubblico che mentre segue anche per caso queste trasmissioni castamente lubriche e comunque più amene di "Porta a Porta", non si arrapa ma si addormenta beato.

Repubblica 6.5.09
A Palazzo Chigi allarme rosso sul voto cattolico
I primi sondaggi preoccupano. Bonaiuti a pranzo con i direttori della stampa di Oltretevere
Per andare a "Porta a porta" disdetto un incontro al Quirinale. I sospetti contro i Radicali
di Francesco Bei


ROMA - «Adesso basta, bisogna reagire». Silvio Berlusconi, diviso tra quanti (le colombe Gianni Letta e Paolo Bonaiuti) gli consigliavano di abbassare i toni e altri che puntavano al contrattacco, alla fine ha preso la sua decisione seguendo l´istinto: «Andiamo da Vespa, adesso parlo io, avvertitelo». Decisivo un ultimo consulto a colazione con l´uomo che in questi giorni ha confermato il suo ruolo chiave nell´inner circle del Cavaliere: l´avvocato-consigliere Nicolò Ghedini, (la cui sorella Ippolita seguirà la causa di divorzio).
La "strategia del giunco", che si piega finché non sia passata la piena, non aveva sortito alcun effetto. Com´era prevedibile quel primo comunicato di domenica, in cui Berlusconi quasi scongiurava di far rimanere un «fatto privato» il divorzio, non era stato tenuto in nessun conto. Anzi. Nel mondo la notizia continua a montare, mandando in fumo un lungo lavoro di promozione dell´immagine di Berlusconi all´estero affidato agli ambasciatori. Ma soprattutto i primi focus group organizzati dalla solita sondaggista di fiducia rivelavano il baratro di un impatto molto negativo della vicenda Lario. Anzitutto sugli elettori cattolici praticanti.
Non basta. A funestare la giornata anche il quotidiano dei vescovi Avvenire, per la prima volta critico nei confronti del premier. Osservazioni avallate per di più dal presidente della Cei Angelo Bagnasco. L´allarme rosso a palazzo Grazioli scatta immediatamente e vengono decise alcune, importanti, contromisure. Si tratta di offrire subito una versione alternativa a quella di Veronica, smentire la storia delle «minorenni», delle «vergini che si offrono al drago», prima che si fissi nell´opinione pubblica. Così Berlusconi chiede a Vespa di organizzargli una puntata ad hoc per spiegarsi, per far girare le foto ufficiali di quella maledetta festa napoletana, già fatte pubblicare al settimanale di famiglia "Chi". Vista l´emergenza Lario e la puntata di Porta a Porta da registrare alle diciotto, Berlusconi decide di rischiare l´incidente diplomatico con il Quirinale. E fa annullare da Gianni Letta l´appuntamento già fissato alla stessa ora al Colle con il capo dello Stato per discutere della promozione a ministro della Brambilla.
Contemporaneamente al sottosegretario Paolo Bonaiuti viene affidata la missione più delicata e segreta. Un pranzo con i direttori dell´Osservatore Romano, di Civiltà cattolica, la rivista dei gesuiti, e di Avvenire, per cercare di limitare i danni. Incontro già fissato da tempo, si dice. Ma che ieri, inevitabilmente, è stato piegato agli eventi, per cercare di smussare, ridimensionare, cercare di bloccare sul nascere altri sgraditi editoriali sulla «sobrietà» del presidente del Consiglio.
Nel frattempo, nella cerchia del Cavaliere, si comincia a ragionare con calma sui possibili «mandanti» e organizzatori di quello che viene considerato «un complotto politico-mediatico». Va bene i giornali «di sinistra». Ma alcuni indizi avrebbero portato a individuare, tra gli ispiratori di Veronica, alcuni tasselli di una filiera che va dai radicali fino a Gianfranco Fini. Le tracce. L´avvocato a cui la moglie di Berlusconi si è affidata per la causa di separazione è la stessa professionista che aiutò Beppino Englaro a incardinare la battaglia per Eluana. «Una simpatizzante radicale», secondo gli uomini del Pdl. Altro elemento. Sofia Ventura, la docente che diede l´altolà alle «veline in politica» sulla rivista Ffwebmagazine (quella di Fini, appunto), è la stessa che figura tra i promotori di "Libertiamo", un´associazione vicina al Pdl ma di cultura e radici nel mondo radicale. E sempre da quell´area viene Diego Sabatinelli, segretario della Lega Italiana per il Divorzio Breve, il primo a invitare Veronica a trasformare la sua vicenda in una «battaglia civile e politica». «Una grandissima cavolata», ribatte il deputato radicale Matteo Mecacci, «forse cercano in noi un capro espiatorio per giustificare con i vescovi quello che è accaduto». Eppure i sospetti dei berlusconiani restano forti. Ritengono che una manina possa aver suggerito a Veronica di uscire allo scoperto. «Possibile - si chiedeva ieri pomeriggio in Transatlantico un esponente di primissimo piano del Pdl - che una prudente come la Bonino arrivi a esporsi in questo modo? Sembra quasi che ci abbia messo la firma». Il riferimento è a una dichiarazione molto severa di Emma Bonino - «Berlusconi è uno che le donne le disprezza - che ha colpito molto e irritato il Cavaliere.

il Riformista 6.5.09
La fiaba incompiuta di Berlusconi
di Adolfo Scotto di Luzio


All'inizio era una questione pubblica: la composizione delle liste per le europee. Poi il ciarpame senza pudore è diventato l'intollerabilità di un uomo che frequenta le minorenni. Di qui il divorzio e il nuovo confine tra pubblico e privato. La fine di un amore non deve finire sui giornali, dicono gli avvocati di Veronica Lario. Per Berlusconi, si tratta di una vicenda dolorosa e non ne vuole parlare. Questa commistione tra arena pubblica e interesse privato non è una novità; è anzi costitutiva del berlusconismo. Nell'Italia post tangentopoli non solo la nuova politica nasce sul terreno di una delusione, ma di questa stessa delusione si nutre l'idea che sia legittimo far prevalere l'interesse privato sul servizio pubblico.
Bisogna però chiedersi quali sono i contenuti di questa sfera privata? C'è spazio solo per la roba? Da giorni la stampa è piena di cifre e di numeri. Cosa si devono spartire i coniugi Berlusconi? Ma tutto questo, quel poco che i giornali sapranno, non supera i confini degli interessi famigliari. Quello che l'Italia divide con loro sono passioni e fantasmi interiori.
La forza di Berlusconi sta nella leggenda antidemocratica che è riuscito a incarnare nell'Italia senza ormai i partiti e, soprattutto, senza i loro grandi racconti. Non voglio essere frainteso, la legittimità del leader politico non è qui in discussione. Mi riferisco a un'altra cosa; al fatto che la società di massa cova al proprio interno un'esigenza profonda di stereotipi naturali potenti che sorgono, però, su di un terreno che gli è storicamente estraneo; miti, che derivano da un'altra epoca, al tempo di quando le aristocrazie erano ancora saldamente insediate nel possesso della terra, e che riaffiorano nel cuore stesso della nostra civiltà, nonostante il suo formale rifiuto del privilegio e la sua teoria dei diritti naturali. Eppure, l'uomo della democrazia, di questi miti della disuguaglianza, non sembra poterne fare a meno. I grandi conflitti affettivi all'interno della famiglia, la gelosia dei fratelli, la predilezione di un padre dispotico per una figlia dolce e soave a danno del resto della prole, la spartizione di un regno e le gare e gli odi tra consanguinei che ne derivano, sono tutti elementi che, variamente mascherati, si trovano nelle trame dei grandi racconti della letteratura e nelle vicende della famiglia Berlusconi.
Da qualche tempo, al centro di questa scena drammatica c'è una donna, Veronica Lario; una sorta di madre-regina severa e inaccessibile, che vive, discosta e offesa, nel suo castello; lontana dal marito e dai rumori del mondo. È una presenza scura in volto e incombente, che dice di parlare a nome dei figli, spingendo il marito a dichiarare che quanto ai figli, quelli, gli vogliono un bene dell'anima. Una specie di love-test in pubblico, proprio come accade nel grande teatro delle passioni.
C'è, nel discorso di Veronica Lario, un rapporto tra la cornice e il contenuto che non è stato ben distinto. L'immediatezza del suo messaggio è solo veicolata dal tema dell'autonomia femminile e dell'immagine televisiva degradata della donna. Per ovvie ragioni, questa cornice ha una immediatezza politica che tuttavia è fuorviante. Il nucleo centrale, affettivo e potente, è altrove. Evoca un tema eterno, quello del rapporto dei figli con il padre e del ruolo manipolativo della madre.
Le molte donne delle terre basse, la lunga schiera di veline e starlette, evocate dalla protesta sdegnosa della madre-regina sono l'altro polo della cattività del marito-re, diviso tra l'obbligo di sacrificare e l'ansia della fuga.
Ha ragione Ruggero Guarini quando sul Foglio di giovedì scrive che Berlusconi appartiene alla fiaba. Non alla politica, né alla storia.
Solo che della fiaba manca qui un elemento importante: la principessa liberata, che libera a sua volta l'eroe che la salva. L'universo femminile berlusconiano è pieno di giovinette, bionde e apparentemente piene di grazia; nessuna di loro è tuttavia in grado di far nascere l'eroe. Nessuna assomiglia a una Cenerentola in attesa del proprio liberatore. Neanche una traccia degli occhi stellanti di Julia Roberts in Pretty woman. Tutte hanno piuttosto il tratto berciante e invidioso delle sorellastre della fiaba, che sgomitano per un ballo a corte.
Diviso tra questi due poli, l'eroe incompiuto della fiaba berlusconiana parla di uno stadio della coscienza nazionale di cui non ci si può sbarazzare con un gesto di sufficienza. Non certo l'opposizione che vi recita la parte che fu dei sette nani.
Soprattutto, se Berlusconi è una fiaba, il terreno della fuoriuscita dal berlusconismo non può che essere fiabesco. Evoca per contrasto la necessità di un eroe solare, che non si aggiri più nelle selve muscose dei possedimenti della madre, e sia in grado di interpretare e di far maturare i tratti maschili, verticali, saldi, nella certezza di un sé autentico, e responsabili dell'anima della nazione. Che gli additi un compito e un futuro. Ho detto un eroe e non è detto che debba essere un uomo. Maschile e femminile essendo, come è noto, cosa diversa da maschio e femmina.

il Riformista 6.5.09
La Cei picchia ma non rompe
di Paolo Rodari


Il direttore di Avvenire Dino Boffo questa mattina è ancora al suo posto di lavoro e, dunque, è evidente che la "sculacciata" che ieri il suo quotidiano ha voluto dare - con un editoriale in prima pagina - a Silvio Berlusconi per come sta gestendo la separazione da sua moglie Veronica Lario (cui peraltro non viene lesinata qualche critica per come «da parte offesa abbia scelto la maggiore agenzia giornalistica per commentare le discutibilissime scelte del marito-premier») risponde in qualche modo al sentire dei suoi editori. I vescovi italiani, appunto.
Meno evidente è se il pezzo possa avere un peso nei rapporti finora non certo difficili tra l'attuale governo e la Chiesa italiana. Ovvero, se l'editoriale resti una "sculacciata" o possa assumere i toni di un'aperta rottura tra le parti.
Due frasi, contenute nello stesso editoriale, possono aiutare a sciogliere il rebus. La prima è verso la fine. La firma femminile del pezzo (di lei diremo poco oltre) scrive che «un uomo di governo va giudicato per ciò che realizza, per i suoi programmi e la qualità delle leggi che contribuisce a varare». Come a dire: il giudizio della Chiesa su Berlusconi resta legato anzitutto alla sua azione politica prima che alle sue vicende personali.
La seconda è una frase immediatamente successiva a quella appena citata. Si legge che «noi continuiamo a coltivare la richiesta di un presidente che con sobrietà sappia essere specchio, il meno deforme, all'anima del paese». Come a dire: se è vero che il premier viene giudicato per la sua azione politica, è anche vero che su questa vicenda la misura è colma e il giornale dei vescovi - anche per rispettare la sensibilità dei propri lettori - non può tacere. È un concetto col quale il premier - gli piaccia o meno - deve fare i conti. Un concetto la cui stesura, affinché suoni forte e chiara, è stata affidata non a caso a Rossana Sisti: coordinatrice da tredici anni di Popotus, il supplemento del giornale dedicato ai più piccoli, si è occupata per parecchio tempo sempre su Avvenire di tematiche sociali e soprattutto familiari. La vicenda Berlusconi-Lario ha un impatto educativo notevole e l'editoriale affidato alla Sisti è probabilmente la migliore scelta per sottolineare la cosa.
Dunque, la "sculacciata" c'è tutta e non è da poco. Ma dire che significhi qualcosa di più è ardito. Da una parte, infatti, c'è il totale silenzio del Vaticano e del suo giornale l'Osservatore Romano, dall'altra c'è Avvenire, e ieri sera anche il presidente della Cei Angelo Bagnasco: «Il richiamo alla sobrietà e alla responsabilità per tutti - ha detto il cardinale- è sempre molto positivo». Un avvertimento per il futuro il suo. Per dire che se la rotta intrapresa da Berlusconi non cambia, la situazione tra la Chiesa e il governo può peggiorare.
Ieri pomeriggio Pierluigi Bersani ha provato a leggere la vicenda in altro modo. A suo dire l'uscita di Avvenire era troppo soft tanto che ha dichiarato di non immaginare «cosa sarebbe successo se questa vicenda avesse riguardato Prodi». La risposta che avvenire.it ha voluto dare in un commento intitolato La Puntura (lo stile sembra quello del direttore Boffo) chiarisce come, invece, Avvenire sia super partes. «Per noi parlano i fatti» si legge nel commento apparso sul sito web del giornale. E ancora: «Bersani provi a chiedere al suo collega Sircana, già portavoce del presidente Prodi, come Avvenire si è comportato allorché fu lui a ritrovarsi al centro di una storia non poco pruriginosa (due anni fa venne fotografato mentre parlava da una macchina con un transessuale, ndr). Dalla risposta di Sircana potrà immediatamente intuire che con la sua dichiarazione lei s'è scelto il bersaglio sbagliato, seminando al vento parole vuote. Questo giornale, su certi temi, usa con tutti - assolutamente tutti - la stessa misura, fatta di rispetto e delicatezza. Anche se lei pare non essersene accorto».

Repubblica 6.5.09
Se la Chiesa vieta l’aborto alle donne violentate
risponde Corrado Augias


Egregio Dott. Augias, sabato 25 Aprile, verso le 18, mi sono sintonizzata sull'emittente cattolica Radio Maria. Un professore spiegava perché i cattolici devono essere contrari alla cosiddetta "pillola del giorno dopo". Il professore ha toccato anche il dramma delle donne che subiscono violenza ribadendo con forza il no alla pillola del giorno dopo anche dinanzi a simili circostanze. Motivava il rifiuto con il fatto che è difficile che una donna violentata resti incinta e che comunque non si può reagire al male con una mancanza di bene; inoltre ricordava il secco "no", espresso dal vicepresidente della Pontificia Accademia per la Vita monsignor Jean Laffitte in un articolo sull' Osservatore Romano . Queste motivazioni mi hanno turbato; offendono tutte le vittime di stupro che a seguito della violenza sono rimaste incinte. Come si fa a dire che la pillola del giorno dopo è una mancanza di bene dinnanzi ad un male così atroce qual è lo stupro? Semmai è negare tale farmaco che rappresenta un ulteriore male che si aggiunge ad un male devastante! Mi chiedo se questa non è un'ulteriore violenza che viene fatta sul corpo e sull'anima di queste povere creature!
Danielle Ferri d.ferri@fastwebmail.it

Radio Maria è una stazione nota per le sue posizioni ultraconservatrici. In questo caso però ciò che quel professore ha dichiarato è in linea con quanto proclamano le gerarchie vaticane. Ricordo per esempio che un paio di anni fa il cardinal Bertone, Primo Ministro vaticano, partecipando al Meeting di Rimini, attaccò con decisione Amnesty International che aveva inserito tra i diritti umani l'interruzione di gravidanza per le donne violentate. Poche settimane fa ha suscitato scandalo nel mondo la scomunica inflitta dall'arcivescovo brasiliano José Cardoso Sobrinho al medico che aveva fatto abortire una bambina di 9 anni (del peso di 33 chili!) violentata e messa incinta dal patrigno. La legge brasiliana consente l'aborto in caso di stupro o di problemi per la salute della madre. La sventurata bambina rientrava in ambedue le categorie essendo incinta di due gemelli, dunque a rischio della vita. L'implacabile arcivescovo di fronte alle proteste ha dichiarato: «La legge di Dio è superiore a qualunque legge umana. Quindi se la legge umana è contraria alla legge di Dio non ha valore». Chiedere a una donna di portare a termine la gravidanza in nome del diritto alla vita dell'embrione significa obbligarla a farsi strumento della violenza per nove lunghi mesi. Diventare poi madre di un bambino che è figlio anche di un "nemico". Oppure scegliere di affidarlo ad altri. Drammi che sembrano non interessare l'ideologia. Così come si trascura che la pillola del giorno dopo non è un abortivo ma un semplice anticoncezionale come il preservativo o la pillola. Dunque di che mai parlava il professore?

l’Unità 6.5.09
Che guaio se Dell’Utri vuol riscrivere la storia
Leggi razziali, avversari politici perseguitati e fatti uccidere...


Certo però Mussolini non fece l’errore di promuovere federale o ministro una delle tante amanti di passaggio

Con tutte le grane che ha, pubbliche e private, ci mancava anche il sodale più caro e, dicono, più colto, Marcello Dell’Utri, a procurare altri guai al Cavaliere. Giusto alla vigilia della visita in Campidoglio dove più d’uno ammiccherà al titolo di «imperatore» nel momento in cui, impettito, Silvio I° si affaccerà su Via dei Fori Imperiali. Berlusconi ha appena riconosciuto nell’antifascismo e nella Resistenza il «valore fondante» della Repubblica e Dell’Utri ti va a ripescare la storia del Mussolini «troppo buono», del fascismo diventato «orrendo» solo per colpa di altri (?), dell’alleanza con Hitler provocata dalla «inique sanzioni», delle leggi razziali che Lui voleva «blande».
Dell’Utri dovrebbe forse sapere che Mussolini si attribuì la responsabilità del delitto Matteotti, don Minzoni, Gobetti e Amendola morirono di bastonate, i fratelli Rosselli furono assassinati, Gramsci venne spento in carcere, circa 5 mila antifascisti subirono nel complesso 28 mila anni di carcere, altre centinaia patirono l’esilio, migliaia di italiani ebrei perirono nei lager. Grazie a quella «brava persona che ha fatto degli errori» (sic). Un errore, è vero, non lo fece: non promosse ministro né federale una delle amanti di passaggio.
L’intervista contiene altre amenità destinate a rendere editorialmente appetibili quei Diari mussoliniani trovati in Svizzera che nessuno storico serio degna di attenzione. Ancora due perle. La prima: le «veline» sono «più apprezzabili di alcune tele giornaliste Rai». Perfettamente in linea col Capo. La seconda: la Rai? Lui la occuperebbe, come adombra Gasparri ritenendola “in mano alla sinistra”. Qui qualcosa non quadra. Guardi Dell’Utri, che la Rai lei l’ha già occupata. Proprio con una legge Gasparri.

Repubblica 6.5.09
La scoperta degli scienziati cinesi funziona come i contraccettivi femminili
Arriva il "pillolo", sarà una puntura
di Federico Rampini


LONDRA. Sta per arrivare la pillola maschile. Solo che non è una pillola. È un´iniezione nel sedere. Funziona nel 99 per cento dei casi, la stessa percentuale della pillola anticoncezionale per le donne, e dunque promette un futuro in cui la responsabilità di procreare o meno sarà suddivisa equamente tra i due sessi.Il pillolo è una puntura contraccettivo per lui ecco l´ultimo test

Senza più scaricare l´onere di non restare incinta soltanto su quello femminile. Non saranno più solo le donne a doversi ricordare di prendere la fatidica pillolina, ma già tra di loro sorgono i primi dubbi: si ricorderanno, gli uomini, di fare l´iniezione alla data prevista? Dimenticare, per una donna, comporta il rischio di una gravidanza non desiderata. Ma se dimentica l´uomo, a lui, personalmente, non succede niente.
Pubblicata da un´influente rivista scientifica britannica, il Journal of Clinical Endocrinology and Metabolism, la notizia proviene dalla Cina, paese che ha fortemente investito nella ricerca dei metodi anticoncezionali per fare fronte al suo pressante problema demografico. Scienziati del Centro ricerche per la Pianificazione familiare di Pechino hanno iniettato per due anni dosi di testosterone in mille volontari uomini: per tutto quel periodo soltanto l´1 per cento ha avuto figli. Gli uomini erano tra i 20 e i 45 anni d´età e nei due anni precedenti avevano avuto almeno un figlio. Erano sposati con donne tra i 18 e i 38 anni che non avevano mai avuto problemi di riproduzione. L´esperimento è il più ampio mai condotto su un anticoncezionale maschile basato sul testosterone. La quota del 99 per cento di efficacia equivale a un pieno successo, considerato che nessun anticoncezionale funziona al 100 per cento: tra l´1 e il 2 per cento delle donne che prendono la pillola restano incinte.
Commenta il dottor Yi-Qun Gu, uno dei ricercatori impegnati nel progetto: «Per le coppie che non possono o preferiscono non usare i contraccettivi femminili, l´alternativa finora era limitata alla vasectomia, ai profilattici o al coitus interruptus. Il nostro studio dimostra che un contraccettivo ormonale maschile può essere una soluzione valida». La pillola anticoncezionale, introdotta negli anni Sessanta, rivoluzionò i rapporti sessuali ma assegnò esclusivamente alle donne il peso della responsabilità di riprodursi: erano loro a doverla prendere e a non dimenticare il rito quotidiano. Da anni la scienza cerca un "pillolo", una pillola per l´uomo, ma i tentativi fatti fino ad ora avevano incontrato problemi di affidabilità e di effetti collaterali negativi, come sbalzi di umore e una diminuzione della libido sessuale. Nell´esperimento in Cina, gli uomini hanno ricevuto dosi di 500 milligrammi di testosterone, riducendo la produzione di due agenti chimici del cervello che a loro volta fermano la produzione di sperma. Non ci sono stati effetti collaterali negativi, tranne un attacco di forte acne in alcuni volontari, e il procedimento è reversibile: sei mesi dopo l´ultima iniezione, lo sperma è tornato ai livelli per la riproduzione. Ulteriori test saranno necessari per valutare le conseguenze a lungo termine: se andrà tutto bene, il "pillolo" potrebbe essere introdotto sul mercato entro cinque anni. «Era ora», commenta la Family Planning Association, un´associazione britannica che si occupa del controllo delle nascite.

Repubblica 6.5.09
Ai francesi la palma dei sogni d’oro
di Maria Novella de Luca


Per loro ben 530 minuti di sonno al giorno, contro i 498 degli italiani e i 469 degli sveglissimi coreani. Lo dice l´Ocse. Che racconta 30 paesi del mondo attraverso l´uso che ogni popolo fa del proprio tempo
Messicani incollati alla tv, a olandesi e americani il titolo di "divoratori di cibo"

Sono numeri, eppure dicono molto, anzi moltissimo. Perché raccontano non solo i giorni ma anche le notti, non soltanto quanto lavoriamo, ma anche quanto dormiamo, in quanto tempo mangiamo, laviamo i piatti, o che cosa guardiamo in tv. La classifica è seria, l´ha compilata l´Ocse, che con puntigliosa precisione ha calcolato in ore e minuti, le abitudini quotidiane dei cittadini di 30 paesi, dall´Europa agli Usa, dall´Australia al Messico.
Una vera miniera di dati che rivelano ad esempio che i francesi sono la nazione più "dormigliona" del mondo, con 530 minuti di sonno al giorno, contro i 518 degli americani, i 498 degli italiani, e i 469 minuti dei coreani, che vantano il record non invidiabile di "paese più insonne del mondo". Il gusto per il sonno non è però l´unico vanto dei francesi, che affermano anche di impiegare oltre due ore al dì per consumare comodamente colazione, pranzo e cena, seguiti a stretto giro dai neozelandesi inferiori soltanto di 5 minuti, mentre gli italiani, nonostante la fama planetaria della nostra cucina, si concedono soltanto 114 minuti per i pasti. Ma la palma del fast-food, anzi del cibo "divorato", spetta ad americani e canadesi, che per circa 4 pasti al giorno impiegano poco più di un´ora, incuranti forse delle conseguenze su stomaco e pancreas. E chi sono i maggiori consumatori di Tv del globo? L´Ocse ha calcolato che i messicani spendono il 48% del loro tempo libero facendo zapping, contro i tedeschi che al piccolo schermo dedicano soltanto il 28% delle loro ore private. Ed è proprio sulle ore di svago e di riposo che si registrano le maggiori disparità. Mentre in Norvegia uomini e donne possono contare sulla stessa identica quantità, in Italia, sottolinea l´Ocse «i maschi riescono ad avere ben 80 minuti in più di tempo libero al giorno rispetto alle donne». Nel senso che sottratte le ore di sonno, dei pasti e della professione, le donne italiane utilizzano ciò che resta della giornata per i compiti domestici. Un record non proprio gratificante in tema di parità, mentre sul fronte del lavoro in Italia le ore annuali sono 1536, contro le oltre 1800 della Polonia e degli Usa e le 1459 della Francia. I Paesi dove si lavora di meno sono la Svezia e la Norvegia che con 1290 ore l´anno ha il tasso di "tempo occupato" più basso del mondo.
Addentrandosi ancor più nel dettaglio l´Ocse ha quindi conteggiato i minuti che in ogni paese si dedicano alla cura di se stessi. I più avari in materia risultano belgi, finlandesi e inglesi, che non sfiorano nemmeno l´ora di orologio, mentre gli italiani si concedono ben 61 minuti di bagni e docce, ma il record a sorpresa spetta ai coreani, che dormono poco ma utilizzano poi 71 minuti della loro giornata per il benessere. Infine lo sport. Qui in vetta ci sono gli spagnoli che non solo divorano il calcio in tv, ma utilizzano il 12% del loro tempo libero facendo jogging o tennis, a differenza di americani e turchi che spendono in palestra una dose infinitesimale della loro giornata.

Repubblica 6.5.09
L'intervento del filosofo domani ai "Classici" di Bologna
La logica del Denaro e l’esistenza di Dio
di Massimo Cacciari


L´impossibilità di stabilire il confine tra i consumi superflui e quelli necessari

Con questo testo di si inaugura domani a Bologna nell´Aula Magna di Santa Lucia l´ottava edizione della manifestazione "I Classici", dedicata quest´anno al tema del denaro col titolo "Regina pecunia"

Regina pecunia... ma di quale "pecunia" parliamo? Di quella nel cui stesso nome risuona la relazione alla sostanzialità della cosa, al possesso del "pecus", del capo di bestiame, dell´animale domestico, che il "pastore" custodisce gelosamente? Questa "pecunia" è stata detronizzata da tempo. Tutte le proprietà della cosa in quanto valore di scambio si presentano nel denaro scisse dalla loro forma naturale. Il denaro rende ora omogeneo in quanto merce tutto ciò che per natura è differente. "La comune bagascia del genere umano" rende–uno il cuore di Antonio e i cani, gli asini, gli schiavi e i palazzi dei suoi zelanti amici. Shakespeare docet, Marx discit.
Ma il denaro si distingue radicalmente dall´antica pecunia non solo perché de-sostanzializza il mondo, ma anche perché esclude ogni avarizia. Se lo tieni fermo "evapora". L´avaro vorrebbe che il suo denaro non si "solidificasse" mai, lo vorrebbe "liquido" sempre, e che proprio in tale forma potesse moltiplicarsi. Ma ciò è impossibile. Il denaro, per riprodursi, ha bisogno di "sparire" di nuovo nel valore d´uso, trasformandosi in merce. Il denaro deve "morire" per "rinascere". La "mistica" di questo denaro è stata spiegata da Marx una volta per sempre.
Ma ciò che forse non è stato bene appreso dalla lezione marxiana è l´immanente e insuperabile contraddizione di tale dialettica. Se il denaro deve "gettare" sempre nuove merci fuori di sé "come combustibile nel fuoco" (Marx), e dunque creare e ri-creare bisogni, nulla assicura che tali merci possano di nuovo traformarsi in valori. Il soggetto che consumando la merce fa "rinascere" il denaro non è lo stesso che lo "arrischia" nella produzione. Da qui la tendenza o la "tentazione" insuperabile a non "solidificarlo", a tentare di moltiplicarlo senza farlo uscire dalla sua "astrazione". Ma non esiste alcuna "miniera" dove il denaro possa custodirsi senza annullarsi. Così come non vi è alcun "mercato" che garantisca il suo ritorno "a casa", più forte e più pronto a nuove avventure.
Il denaro è segno di crisi. Anche per l´individuo. Gli enti-merce di cui è l´universale equivalente sono tutti perituri. Lui solo appare come l´indistruttibile. E dunque il desiderio per lui non può placarsi nel possesso. Il denaro produce un illimitato desiderio, che nessuno dei prodotti in cui si incarna potrà mai soddisfare. Il pastore poteva "restar-contento" del suo pecus. Mai lo potrà chi possiede denaro ed è costretto a "gettarlo" nella circolazione, a "perderlo " per cercare di ritrovarlo, né lo potrà chi, grazie alla infinita potenza del denaro, non acquista che la "miseria" di queste effimere merci.
Tuttavia è necessario parlare dell´essenza metafisica del denaro senza alcun moralismo e lontani da ogni reazionario disprezzo. È vero che il processo di circolazione che il denaro genera produce la perenne insoddisfazione del consumo, ma è vero anche che in ciò si rappresenta la mia autonomia, la "libertà" della persona rispetto a ogni misura o legge universali di felicità o benessere. Soltanto io posso sapere quanto esso mi sia costato e soltanto io posso sapere quale grado di benessere mi dia l´acquisto e il consumo che esso consente. Non esistono misure obiettive di felicità, né esiste la possibilità di determinare in assoluto dove corra il discrimine tra bisogni necessari e superflui.
Certo, nulla di essenziale può esprimersi nel desiderio individuale, e perciò nulla di essenziale può essere perseguito attraverso la potenza universale del denaro. Ma lungi dal portare alla conclusione vetero-moralista: "il denaro non conta", "non può renderci felici", etc., ciò non rappresenta che quella "legge individuale", che Georg Simmel ha illustrato nel suo magnum opus La filosofia del denaro, pubblicato nel 1900, pietra miliare del contemporaneo: nulla può imporci la "misura" del nostro essere felici. Il denaro è universale proprio nel suo esprimere l´impossibilità di una tale "misura" e l´inessenzialità del nostro desiderio, "liberandoci" così dalla "superbia" di ergerlo in qualche modo a norma o modello. Sullo specchio del denaro si rivela soltanto l´infinità del desiderio. E questo soltanto ci è comune. Ma come il denaro, per divenire, deve "morire" nella individualità determinata della merce, così l´infinità del desiderio per vivere deve incarnarsi nella inessenzialità del mio essere felice o in-felice.
Questa paradossale onnipotenza del denaro mai risolvibile in atto, sempre incompiuta, può essere intesa come "mondanizzazione" del dio giudaico-cristiano? Ancora Simmel lo riteneva certo. Dovremmo oggi essere diventati tutti più cauti nell´applicare ovunque come passe-partout l´idea di secolarizzazione. L´onnipotenza infinita dell´immagine del denaro è quella di un poter tutto comprare. Ma questo è appunto actu irrealizzabile. E tutto ciò che è comprabile è inessenziale. L´onnipotenza divina, invece, si "svuota" di sé per poter tutto qui-e-ora amare. Anche l´amare non è mai alla meta, mai "contento", ma non perché trapassi da consumo a consumo; all´opposto: perché il suo "amato" è oltre ogni logica del possesso e del consumo. Il suo scambio è puro dono, mentre il denaro "funziona" soltanto in quella relazione dove nulla di "gratuito" intervenga. "Ciò è qualcosa di gratuito", così parla il denaro – e intende: "ciò è qualcosa di insensato, di illogico, di inutile". Tuttavia la sua potenza deve alla fine riconoscere quella "legge individuale" che afferma l´inessenzialità del desiderio e del consumo che essa consente. E così, paradossalmente, per negativo, il denaro stesso fa cenno a quell´"inutile" della gratuità del dono dove si custodisce l´inconsumabile e indistruttibile, che continuiamo malgrado tutto ad avvertire in noi, "al cuore" stesso della nostra perenne ricerca e del suo continuo fallire.

Corriere della Sera 6.5.09
Il Prc e il voto di Cipputi
E la sinistra «scaricò» gli operai
di Gian Antonio Stella


Il voltafaccia di «Liberazione» Reportage-invettiva deI quotidiano di Rifondazione: state con chi vi licenzia e vi manda a morire
«Amate i padroni»: e il Prc scaricò gli operai

Uffa, gli operai! A leggere Liberazione di ieri, pare proprio che a Rifondazione comunista non ne possano più di questi Cipputi che si sono messi a votare a destra. Non li riconoscono.
E restano inorriditi come gli abitanti di Santa Mira nel vecchio film di fantascienza L’invasione degli ultracorpi, quando assistono con ribrezzo allo schiudersi di enormi baccelli dai quali escono esseri identici ad amici, parenti e compaesani. Ma mostruosamente irriconoscibili dentro.
Così è stato vissuto, l’ultimo son­daggio del Sole 24 Ore, con quel 43,4% di operai decisi a votare Pdl, percentuale che con la Lega Nord sali­rebbe a uno stratosferico 58,2%: co­me una specie di invasione di ul­tra- operai. Tanto da spingere il quoti­diano comunista a pubblicare un re­portage da Torino di Maurizio Pa­gliassotti che, sotto il titolo Se lo stra­niero fa paura più del licenziamento, manifesta tutto lo sgomento di un naufrago alla deriva tra i flutti di un mare improvvisamente ignoto.
«La generazione di operai che arri­va intorno ai 30-35 anni è in larga parte persa. Sono rimbambiti dalla te­levisione, dei deficienti», si sfoga la Rosina, operaia Riv-Skf di Airasca, «Hanno il mito dell’uomo forte, di quello che risolve problemi. Senza te­ner conto dell’immagine da galletto tra le donne che Berlusconi continua a propagandare. C’è da mettersi le mani nei capelli».
Una voce estemporanea? Per nien­te. Basti leggere il quadro d’insieme, venato di sarcasmo: «È vero amore ormai tra gli operai italiani e gli im­prenditori che li licenziano e li man­dano a morire sul posto di lavoro. La classe operaia apprezza con crescen­te entusiasmo che i poveracci paghi­no una crisi con i licenziamenti e i manager ingrassino sempre di più. La politica del governo che esclude, anche durante questa catastrofica cri­si, ogni minima redistribuzione della ricchezza dopo che la forchetta sala­ri- rendite è di fatto sfondata, è gradi­ta ». Gli operai italiani, prosegue l’ar­ticolo, «amano il brivido, quindi, pol­lice alzato anche per la 'norma salva manager', bollata dal presidente del­la Repubblica come 'da riscrivere', che di fatto allenta le responsabilità di chi per puro profitto condanna a morte i lavoratori. Molto bene anche l’inesistente lotta all’evasione fiscale verso chi non paga le tasse perché non ha ritenute alla fonte. L’impren­ditore che licenzia al primo calo del fatturato, non paga le tasse e manda al rogo i suoi dipendenti sta dalla stessa parte del suo operaio, ovvero con Silvio Berlusconi».
Un’invettiva. Lo sfogo di un inna­morato ferito dal più inaspettato dei tradimenti. Eppure, senza farla trop­po grossa recuperando George Orwell e le sue parole sulla difficoltà di tanti intellettuali ad accettare la «puzza del proletariato» tra gli odori della tripperia ne La strada di Wigan Pier, è sufficiente rileggere quanto diceva otto anni fa lo straor­dinario fondatore del manifesto Lui­gi Pintor: «Qualsiasi sommossa di schiavi, da Spartaco in poi, ha il pote­re di sedurmi malgrado il costo e la vanità dell’impresa. Rivoluzionario nella vita pubblica, sono tuttavia ri­masto profondamente borghese nel privato, senza trovare un’armonia tra comportamenti intimi e ideali pubblici. Io non c’entro niente con il mondo di cui ho parlato per una vi­ta. Un po’ come molti intellettuali di sinistra».
«In che senso?», gli chiese Simo­netta Fiori. E lui: «Non sanno niente della realtà di cui si occupano. I vec­chi comunisti cercavano di porre ri­medio alla scissione, invitando noi giovani borghesi a mescolarci nelle mense con gli operai. Era un rimedio ingenuo, illusorio. La sinistra è rima­sta quanto di più lontano dalle pul­sioni degli uomini. La destra vincerà le elezioni proprio perché intercetta i bisogni reali degli individui». O al­meno non irride a certe paure.
Era già chiara allora, la tendenza. Anzi, già nel ’97 (dodici anni fa!) Gianfranco Pasquino aveva messo in guardia contro il modo con cui certi ministri ulivisti stavano al potere: «Questi qui si sentono assai migliori del Paese che governano, dell’opinio­ne pubblica, delle cosiddette parti so­ciali e, se mi posso permettere, degli intellettuali e dei professori». E al­l’inizio di questo decennio Ilvo Dia­manti spiegava già che nel Veneto e nel Friuli (bollati da certa gauche co­me modelli repellenti perché il torni­tore puntava a metter su una sua fab­brichetta accettando l’«auto-sfrutta­mento ») il centro-destra mieteva tra gli operai il 66%.
Macché: tutto inutile. Come inuti­le fu la lezione delle «presidenziali» francesi col ballottaggio tra Chirac e Le Pen e il crollo socialista salutato da Liberazione con funesta esultan­za: «Arlette Laguillere, candidata di Lutte Ouvrière, con quasi il 6%, arri­va a picchi del dieci-quindici per cen­to tra il voto operaio!».
E inutili gli avvisi ai naviganti del­la «sinistra antipatica» da parte del mal sopportato Luca Ricolfi. E inuti­le la batosta dell’anno scorso, con la Lega che (a dispetto di quel Bertinot­ti che aveva dedicato la presidenza della Camera «alle operaie e agli ope­rai ») umiliava la Sinistra Arcobaleno in storiche roccaforti operaie come Valdagno (30% contro 2,1), Arzigna­no (37 contro 1,5), Chiampo (41 con­tro 0,9) o San Pietro Mussolino: 49,8 contro 0,6%. Tutto inutile.
Fosse ancora vivo Lucio Colletti, uno cresciuto tutto dentro la gauche, avrebbe gioco facile a ripetere la sua rasoiata: «Questi intellettuali sono così boriosi da disprezzare il popolo quando non gli permette di consegui­re la vittoria elettorale». Non sarebbe ora, per la sinistra tutta, e non solo quella rifondarola, di uscire dai vec­chi schemi per tornare a parlarci, con gli operai?