sabato 9 maggio 2009

l’Unità 9.5.09
«I migranti fuggono da condizioni gravi e inumane»
Il responsabile rifugiati di Human Rights Watch: «Sono stupito dalle dichiarazioni dei ministri italiani. Hanno rimandato persone in situazioni di pericolo»
intervista a Bill Frelick di Unberto De Giovannangeli


Un atto d’accusa forte, argomentato. Human Rights Watch critica duramente il Governo italiano per la decisione di far tornare 227 migranti in Libia. A spiegare le ragioni di questa denuncia è Bill Frelick, responsabile del settore rifugiati dell’organizzazione per la difesa dei diritti umani che ha la sua centrale negli Stati Uniti.
La decisione assunta dal governo italiano di far tornare 227 migranti in Libia ha sollevato polemiche e denunce. Tra queste, quella di Human Rights Watch. Su che basi si fonda la vostra posizione?
«Su basi solidissime che fanno riferimento alla Convenzione di Ginevra e a precise norme del Diritto internazionale in materia di diritti inalienabili della persona, tra i quali il diritto d’asilo. Sono stupito, amareggiato e fortemente preoccupato nel leggere le dichiarazioni di ministri del governo italiano che rivendicano con orgoglio la decisione di rispedire indietro 227 migranti, senza avvertire l’obbligo di accertare prima la loro identità e la situazione dalla quale fuggivano. L’Italia si è comportata come se avesse fatto qualcosa di positivo rimandando immediatamente queste persone indietro...».
Invece?
«In realtà, hanno negato a queste persone il diritto di asilo e le hanno messe in una situazione difficile, di grave pericolo. Sappiamo quanto duramente la Libia abbia trattato altri migranti rientrati nel Paese. I rapporti di agenzie internazionali che documentano gli abusi subiti da persone nei campi di “accoglienza” libici sono di dominio pubblico. Mi chiedo se i governanti italiani li hanno letti e presi in considerazione. Ne dubito fortemente».
Insisto su questo punto. Il governo di Tripoli nega questi maltrattamenti. Per averne riferito l’Unità è stata querelata dall’ambasciatore libico a Roma…
«Se vuole, posso metterle a disposizione le testimonianze raccolte da volontari di Hrw che hanno visitato migranti in Libia, a Malta, ora anche in Sicilia. Sono testimonianze sconvolgenti che fanno riferimento a maltrattamenti e detenzioni in condizioni inumane da parte delle autorità libiche. I nostri volontari hanno visto il terrore negli sguardi di questa povera gente. “Non ci abbandonate”, ripetevano. “Non ci condannate a morte”. Molte di queste persone hanno storie di sofferenze indicibili, di abusi. Fuggivano da situazioni di guerra e di sofferenza. E avevano paura di tornare in quei centri di detenzione. Prima di rimandare indietro queste persone occorre pensarci non una ma cento volte. Perché a rischio è la loro stessa vita».
Il governo italiano ribadisce la necessità di garantire il diritto alla sicurezza.
«Il primo diritto da garantire è quello alla vita. Diritto che viene ogni giorno messo in discussione da organizzazioni criminali che fanno affari con la tratta di esseri umani; diritto che viene negato da quei regimi che perseguitano donne e uomini per la loro appartenenza etnica o per il loro credo religioso. Questo diritto va difeso e garantito. Operando perché vengano meno le motivazioni che spingono centinaia di migliaia di persone a fuggire dall’inferno dei loro Paesi e avventurarsi in mare. Un’avventura comunque tragica. Quest’azione è il modo più giusto ed efficace per garantire la propria sicurezza. E per mantenere in vita una cultura dell’accoglienza e del rispetto dei più deboli».

Corriere della Sera 9.5.09
Tra Europa e Africa Tripoli non ha mai riconosciuto la Convenzione internazionale sulle garanzie ai perseguitati politici
L’asilo negato senza verifiche e l’inferno dei campi libici
Il Consiglio dei rifugiati: a un centinaio spettava il soccorso
di Gian Antonio Stella


Chissà quanti erano, tra quei clandestini ributtati in Libia, ad avere diritto allo status di rifugiati. Uomini, donne e bambini in fuga da regimi assassini che forse sono già stati ammassati in un container e stanno ora viaggiando attraverso il deserto per esser scaricati in mezzo al Sahara.
Bobo Maroni, fiero della scelta, ha detto che se vogliono chiedere asilo possono farlo lì.
«Anche in Libia c'è un Cir, un centro italiano per i rifugiati, aperto a tutti», ha detto il ministro dell’Interno. Sapete quante persone ci lavorano? Una. E solo da lunedì. E senza mezzi. E senza il riconoscimento di Tripoli. Che del resto non ha mai riconosciuto manco la Convenzione di Gine­vra sui rifugiati.
È chiarissima quella carta ginevrina del 1951. Ha diritto all'asilo chi scappa per il «giustificato timore d'essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua apparte­nenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche». Altrettanto netto è l'articolo 10 della Costituzione: «Lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzio­ne italiana ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge».
Vogliamo prendere una storia a caso, dall'in­ferno dei campi libici? Ecco quella di una donna eritrea, cristiana, nel documentario «Come un uomo sulla terra» di Andrea Segre: «Ero in prigio­ne con un'amica eritrea incinta, la rabbia le ave­va deformato il viso. Il marito cercava di difen­derla perché il poliziotto le premeva la pancia col bastone dicendole: 'Hai in pancia un ebreo, andate in Italia e poi in Israele per combattere gli arabi'». Un'altra donna: «Preferivamo morire piuttosto che doverci togliere la croce al collo. Piangevamo, se questa era la volontà di Dio l'ac­cettavamo, ma la croce non la volevamo togliere. Cristiani siamo e cristiani rimarremo. E loro ci sbattevano contro il muro. Mentre gli uomini ve­nivano picchiati noi urlavamo. Gli uomini veni­vano frustati sotto la pianta dei piedi fino a per­dere i sensi».
Situazioni agghiaccianti. Denunciate già nel 2004 da una Missione tecnica in Libia dell'Unio­ne europea, dove si parlava di abusi, arresti arbi­trari, deportazioni collettive... Confermate nel febbraio 2006 dalla deposizione del prefetto Ma­rio Mori, il direttore del Sisde, in una audizione al Comitato parlamentare di controllo: «I clande­stini vengono accalappiati come cani, messi su furgoncini pick-up e liberati in centri di acco­glienza dove i sorveglianti per entrare devono mettere i fazzoletti intorno alla bocca per gli odo­ri nauseabondi...». La visita al centro di acco­glienza di Seba lo aveva turbato: «Prevede di ospitare cento persone ma ce ne sono 650, una ammassata sull'altra senza rispetto di alcuna nor­ma igienica e in condizioni terribili».
Per non dire di certe deportazioni nei contai­ner blindati come quella raccontata da Anna («Presto sotto il sole di luglio il container diven­tò un forno, l'aria era sempre più pesante, era bu­io pesto. I bambini piangevano. Due giorni di viaggio senza niente da bere, né da mangiare. Al­cuni bevevano le proprie urine») in «Fuga da Tri­poli / Rapporto sulle condizioni dei migranti in transito in Libia», a cura dell'Osservatorio sulle vittime delle migrazioni «Fortress europe». Os­servatorio secondo il quale in soli cinque anni «dal 1998 al 2003 più di 14.500 persone sono sta­te abbandonate in mezzo al deserto lungo la fron­tiera libica con Niger, Ciad, Sudan ed Egitto. Mol­ti deportati, una volta abbandonati nel deserto hanno perso la vita».
E per non dire ancora degli stupri, come nella testimonianza di Fatawhit: «Ho visto molte don­ne violentate nel centro di detenzione di Kufrah. I poliziotti entravano nella stanza, prendevano una donna e la violentavano in gruppo davanti a tutti. Non facevano alcuna distinzione tra donne sposate e donne sole, Molte di loro sono rimaste incinta e molte di loro sono state obbligate a su­bire un aborto, fatto nella clandestinità, metten­do a forte rischio la propria vita».
Forzature? Lasciamo la risposta al comunicato ufficiale del Servizio Informazione della Chiesa Italiana: «Non possiamo tollerare che le persone rischino la vita, siano torturate e che l'85 per cen­to delle donne che arrivano a Lampedusa siano state violentate». Per questo i vescovi non han­no dubbi: è «una vergogna» che siano state re­spinte persone che «hanno già subito delle perse­cuzioni nei rispettivi Paesi». Posizione ribadita dall'Osservatore Romano: «Preoccupa il fatto che fra i migranti possa esserci chi è nelle condi­zioni di poter chiedere asilo politico. E si ricorda anzitutto la priorità del dovere di soccorso nei confronti di chi si trova in gravi condizioni di bi­sogno».
Questo è il nodo: la scelta di tenere verso gli immigrati in arrivo una posizione più o meno du­ra, compassionevole o «cattiva», come ha teoriz­zato tempo fa Maroni, spetta a chi governa. Ed è giusto che sia così. La decisione di «fare di ogni erba un fascio», rifiutare ogni distinzione e re­spingere chi arriva senza neppure concedergli, per dirla coi vescovi, almeno la possibilità di di­mostrare che ha diritto all'asilo, è però un'altra faccenda. Che non solo rinnega una storia piena di esuli politici (da Dante a Mazzini, da Garibaldi ai fratelli Rosselli a don Luigi Sturzo) ma, secon­do Laura Boldrini e l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, fa a pezzi le regole vigenti poiché «tutti gli obblighi internazionali» e anche la legge italiana «vietano tassativamente il respingimento di rifugiati o richiedenti asilo».
Quanti erano, su quella barca respinta, quelli che avrebbero avuto diritto ad essere accolti? Ri­sponde Christopher Hein, Direttore del Cir, il Consiglio italiano per i rifugiati: «Generalmente tra i disperati che arrivano a Lampedusa quelli che chiedono diritto d'asilo sono il 70% ma di questi solo la metà ottiene lo status di rifugiato. Gli egiziani o i maghrebini, per esempio, difficil­mente lo chiedono. Del resto difficilmente lo ot­terrebbero. Gli stessi cinesi non lo chiedono mai. Ora, poiché tra i passeggeri di quella nave riportati in Libia non c'erano maghrebini, egizia­ni o cinesi, è presumibile che almeno il 70% avrebbe chiesto asilo. E di questi, con ogni proba­bilità, la metà ne aveva diritto. Il che significa che l'Italia ha respinto almeno un centinaio di persone alle quali la nostra Costituzione garanti­va il soccorso». Non possono farlo adesso? «La vedo dura. In tutta la Libia, dico tutta (non sap­piamo neppure quanti siano i centri libici di de­tenzione, pare 25) abbiamo una persona. Che si è insediata da quattro giorni. Senza avere ancora il riconoscimento delle autorità. Veda un po’ lei...».

Liberazione 8.5.09
Ferrero risponde a Bertinotti: «Un errore distruggere tutto»
«In politica troppa confusione può diventare nichilismo»
intervista di Frida Nacinovich


Segretario Ferrero, in un'intervista a "l'Unità" il suo predecessore Fausto Bertinotti guarda alle elezioni europee e dice: «Tanto peggio, tanto meglio». Quindi pensa che in fondo sarebbe un bene se alla sinistra del Pd nessuno arrivasse al 4%. Tradotto: dopo che in Italia, fuori dal Parlamento anche in Europa. Alla cronista viene in mente un racconto di Edgar Allan Poe, il gatto nero, con il protagonista che uccide prima l'amato gatto di casa poi la moglie. Davvero è tutto da buttare, tutto da rifare? La sinistra italiana è davvero come l'araba fenice, deve rinascere dalle sue ceneri?
Finalmente Fausto fa un'analisi della sconfitta elettorale simile a quella fatta dalla maggioranza che ha vinto il congresso di Chianciano. Ne prendo atto con favore.

Dal congresso di Chianciano è passato quasi un anno, nel mezzo c'è stata perfino una scissione. Può spiegarci?
Nell'intervista Bertinotti riconosce che era sbagliata la linea politica che ha portato Rifondazione comunista nel governo. E dentro questa linea la sua scelta di fare il presidente della Camera.

Su quest'ultimo punto la frase testuale è: «Una scelta problematica...».
Bertinotti è più netto quando parla dell'esperienza di governo, più reticente quando affronta l'argomento della sua presidenza della Camera.

In fondo questo è un dettaglio. Quello che conta è la linea politica. Ferrero ha appena riconosciuto a Bertinotti di aver ammesso l'errore. Tornerete insieme quindi?
Il problema è che Bertinotti non tira le conseguenze politiche della sua analisi. La sconfitta della sinistra Arcobaleno è il frutto di una linea sbagliata.

Ci spieghi ancora meglio.
Bertinotti annuncia il suo voto per "Sinistra e libertà", un raggruppamento politico che fa l'analisi opposta della sconfitta elettorale.

Cerchiamo di essere ancora più chiari: cosa divide "Sinistra e libertà" da Rifondazione comunista?
"Sinistra e libertà" non riconosce che andare al governo è stato un errore. Ecco perché si in lista con i socialisti craxiani e stringe alleanza con il Partito democratico a Napoli, Milano, Firenze e Torino. Insomma, si colloca come corrente esterna del Pd. E non è un caso che nell'intervista Bertinotti non affronti il tema della scissione da Rifondazione.

Due partiti, entrambi con il problema capitale di raggiungere il 4% alle europee.Tanto peggio tanto meglio?
C'è un fondo nichilista in questa affermazione che non è solo sbagliata ma dannosa.

Non servirebbe un bel big bang alla sinistra italiana?
Insisto: in quell'espressione c'è un elemento nichilista, che si traduce anche nell'accusa rivolta a Rifondazione di essere affetta da regressione neoidentitaria. Distruggere tutto per poi ricostruire, appunto. Il problema è che la distruzione della sinistra con un Pd in queste condizioni e un Pdl così forte rischia di coincidere con la cancellazione dell'idea di sinistra.

Ma Bertinotti dice che senza una tabula rasa la sinistra italiana non può rinascere.
Se si avverasse l'auspicio di Fausto l'esistenza stessa della sinistra sarebbe chiusa. Magari una parte di ceto politico finirebbe nel Pd, ma larga parte dell'elettorato si sposterebbe stabilmente nell'unico antiberlusconismo presente. Cioè l'Italia dei valori di Antonio Di Pietro. Un esito devastante, soprattutto perché Di Pietro non è sinistra.

La sinistra di cui parla lei è quella che è stata definita di volta in volta neoidentitaria, nostalgica della falce e martello, anche stalinista.
Ci attribuiscono una deriva neoidentitaria quando invece abbiamo proposto di fare una lista unitaria per le elezioni europee sulla base dell'appartenenza al Gue, il gruppo unitario della sinistra alternativa a Strasburgo. E' sbagliato confondere la sconfitta della propria linea politica con la possibilità di costruire una sinistra.

Quindi, secondo lei di falce e martello c'è sempre bisogno.
Il pensare di dover tagliare le proprie radici per esistere è il principio con cui si è suicidata la sinistra in Italia. Un conto è la rifondazione, altro conto l'estirpazione.

Si parla sempre di due sinistra, quali sono?
A ben guardare la sinistra moderata era già così come è dieci anni fa, invece la sinistra di alternativa si è quasi suicidata nell'esperienza di governo. Il problema oggi è ricostruire la sinistra anticapitalista e comunista, non di fare l'occhiolino a D'Alema.

Sempre nell'intervista a "l'Unità" Bertinotti sostiene che dopo Genova Rifondazione si doveva sciogliere e contribuire a creare un partito più grande.
Già ai tempi del G8 dissi che Rifondazione comunista avrebbe dovuto essere il motore di una sinistra di alternativa vera ed aggregare altri pezzi. L'intuizione della sinistra europea andava proprio in quella direzione: un contenitore politico cui aveva aderito anche il segretario della Fiom. Poi quell'esperienza è stata sacrificato sull'altare della sinistra arcobaleno.

4% alle europee è davvero questione di vita o di morte?
Penso che sia davvero necessario che la sinistra anticapitalista e comunista raggiunga il 4%. Perché è l'unico progetto alternativo sul tappeto. Noi abbiamo scelto di andare del Gue, c'è chi invece ha gettato falce e martello un cambio di un'alleanza con i craxiani. Che posso farci?

Ferrero, non si sente "il vecchio", rispetto a un Bertinotti che archivia "falce e martello" nel segno della "nuova nuova sinistra"?
Sul piano psicologico l'intervista di Bertinotti fa venire in mente la celebre frase "apres moi le deluge". Ma c'è anche un piano politico: cancellare le proprie radici è un suicidio, come si è visto con Occhetto. Non è un caso che nei paesi latinoamericani - penso ai sandinisti, agli zapatisti , ai boliviani - si tengano invece ben stretto il filo rosso della loro storia. Quando la confusione diventa nichilismo si spiana la strada al bipartitismo, all'alternanza tra simili.

l’Unità 9.5.09
La Consulta sulla legge 40: «La tutela dell’embrione non è assoluta»


Spetta al medico, e non al legislatore, individuare, di volta in volta, il numero di embrioni «idoneo ad assicurare un serio tentativo di procreazione assistita, riducendo al minimo ipotizzabile il rischio per la salute della donna e del feto». La Corte costituzioanle ha depositato le motivazione, 33 pagine, della sentenza con cui ha dichiarato parzialmente incostituzionale la legge 40 sulla fecondazione assistita. Era una legge sbagliata, come si evince da quanto scrivono i giudici che affermano, tra l’altro, che gli embrioni «prodotti ma non impiantati per scelta medica» vanno congelati, così derogando al divieto di crio-conservazione. Il giudice costituzionale Alfio Finocchiaro fuga ogni dubbio e chiarisce il perché sia illegittima la produzione di non più di tre embrioni per volta da impiantare contemporaneamente in utero. Tale limite - scrive la Corte - viola l'art. 3 della Costituzione «sotto il duplice profilo del principio di ragionevolezza e di quello di uguaglianza, in quanto il legislatore riserva il medesimo trattamento a situazioni dissimili», e viola anche l'art. 32 per «il pregiudizio alla salute della donna - ed eventualmente (...) del feto - ad esso connesso». La «tutela dell'embrione non è assoluta, ma limitata dalla necessità di individuare un giusto bilanciamento con la tutela della esigenza di procreazione». La legge ha un limite: «La regola di fondo deve essere l'autonomia e la responsabilità del medico che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali».

Corriere della Sera 9.5.09
Le motivazioni della Consulta. Sarà il medico a decidere quanti ovociti fecondare
La sentenza sugli embrioni «Si possono congelare»
La Corte costituzionale cambia la legge 40, insorgono i cattolici
I centri esultano: ora potremo scegliere quelli migliori
di Margherita de Bac


ROMA — Sarà più libero il medico. Libero di scegliere le cure migliori e meno rischiose per le coppie. Valutando anche la possibilità di mettere da par­te gli embrioni «prodotti ma non impiantati». È la deroga al divieto di congelamento la ve­ra sorpresa della sentenza con cui la Corte Costituzionale ha parzialmente bocciato la legge 40 sulla procreazione medical­mente assistita. Nelle motiva­zioni scritte dal giudice Alfio Finocchiaro e pubblicate ieri dopo oltre un mese di attesa si riconosce al ginecologo «auto­nomia e responsabilità» nello stabilire di volta in volta quan­ti ovociti fecondare (attual­mente c’era un limite di tre). Non solo. Potrà decidere quan­ti «frutti» della provetta trasfe­rire nell’utero.
Alcuni dei divieti fondamen­tali della legge secondo il giudi­ce violano l’articolo 3 della Co­stituzione «sotto il duplice pro­filo del principio di ragionevo­lezza e di quello di eguaglianza in quanto il legislatore riserva il medesimo trattamento a si­tuazioni dissimili. Violano inol­tre l’articolo 32 «per il pregiudi­zio alla salute della donna ed eventualmente del feto».
La sentenza in teoria rivolu­ziona già da oggi l’attività dei centri. Il medico potrà valutare ad esempio se sia il caso di fe­condare quattro ovociti e, una volta ottenuti un certo numero di embrioni, stabilire di non impiantarli tutti in un’unica so­luzione, come invece era previ­sto. La Corte però chiarisce che «resta salvo il principio se­condo cui le tecniche non de­vono creare un numero di em­brioni superiore a quello stret­tamente necessario». La preoc­cupazione di base resta quella di evitare che si riempiano di nuovo i bidoni di azoto liqui­do, la sostanza usata per la crio­conservazione.
Nel complesso però la Consulta smonta lo steccato che ha delimitato l’at­tività dei centri di fecondazio­ne artificiale negli ultimi 5 an­ni. La considerazione di fondo è che «la tutela dell’embrione non è assoluta» ma che occor­re trovare «un bilanciamento con l’esigenza di procreazio­ne ». Resta in piedi l’ultimo pi­lastro, il divieto di diagnosi preimpianto (se i genitori so­no portatori di malattie geneti­che si possono selezionare gli embrioni sani), barriera che era però stata in parte abbassa­ta con la modifica delle linee guida allegate alla legge da par­te dell’ex ministro della Salute, Livia Turco.
E proprio le linee guida do­vranno essere cambiate, alla lu­ce della sentenza. Il sottosegre­tario al Welfare Eugenia Roccel­la intende muoversi presto: «La legge resta al suo posto pur con le modifiche forzate. Emerge un’incoerenza interna alla Corte. La sentenza rispetta­va l’impianto del testo, le moti­vazioni vanno oltre. Non cono­scono i dati. Ci sono passaggi ambigui». Carlo Casini, del Mo­vimento per la Vita, si dice indi­gnato per una «decisione che offende la ragione e l’egua­glianza tra gli esseri umani». Il sottosegretario all’Interno, Al­fredo Mantovano, parla di «ide­ologica non condivisione» da parte dei giudici. Per la sinistra è una rivincita. «È stata piena­mente confermata la ragione dei ricorrenti e di tutti quelli che avevano denunciato iniqui­tà », affermano i Radicali. «Non si possono fare le leggi igno­rando la scienza», commenta il senatore Pd Ignazio Marino. Barbara Pollastrini, deputata del Pd, chiede al Parlamento di rivedere la legge.

I centri esultano: ora potremo scegliere quelli migliori
ROMA — La paziente sul lettino ha il volto teso ma contento. Sa di es­sere fortunata. È una delle prime a poter beneficiare della sentenza della Consulta che ha cancellato una parte della legge 40. I sei ovociti che ha pro­dotto sono stati tutti inseminati. Si sono formati sei embrioni, i tre mi­gliori sono stati trasferiti. Gli altri so­no rimasti in coltura e il giorno dopo hanno smesso di crescere. Soltanto poche settimane fa questa procedura sarebbe stata impossibile. Siamo al centro Raprui di Severino Antinori. «Sono fiero che esista in Italia un’isti­tuzione come la Consulta — dice visi­bilmente soddisfatto visto che la sen­tenza è frutto di un suo ricorso al Tar

Repubblica 9.5.09
Quello che resta del testamento biologico
risponde Corrado Augias


Gentilissimo Corrado Augias, torno sul tema alimentazione e idratazione su persone in stato vegetativo per ricordarle che nell'ultimo forum delle associazioni che si occupano di traumi cranici e gravi cerebrolesioni, San Pellegrino Terme, si è definito che nutrizione e idratazione artificiale sono «atti dovuti». Bisogna infatti considerare che questa operazione, nei casi di cui parliamo, viene fatta nella prima fase dopo l'evento, può essere transitoria, a volte integra un'alimentazione per bocca e comunque molti familiari nella fase cronica utilizzano alimenti naturali preparati e frullati da loro stessi. Se nella discussione in atto riuscissimo a superare la semplicistica contrapposizione tra laici e cattolici, tra destra e sinistra, se qualcuno deviasse l'indice del senatore Ignazio Marino dal tubo di alimentazione all'ambito socio-familiare del problema avremmo fatto, forse, tutti un passo avanti. È così difficile intercettare i reali bisogni delle persone che convivono con la malattia ed interrogarsi sulla vita di relazione di ognuno di noi? Non vorrei che le Dichiarazioni Anticipate di Trattamento ci cogliessero nel vuoto pneumatico del nostro sé, isolato nella sterile roccaforte del proprio corpo. Vuoti, nel non voler riconoscere chi vive il problema.
Fulvio De Nigris Direttore Centro Studi Ricerca sul Coma Gli amici di Luca

C'è enorme differenza tra un «atto dovuto» e un atto garantito dal SSN, ma sul quale deve esserci il consenso informato del paziente. Alla definizione elaborata a San Pellegrino Terme si può infatti opporre la dichiarazione della Società italiana nutrizione artificiale e metabolismo e della sua omologa europea, la European Society for Clinical Nutrition and Metabolism. Entrambe, nelle linee guida consultabili sui rispettivi siti, parlano di «procedure terapeutiche mediante le quali è possibile soddisfare integralmente i fabbisogni nutrizionali di pazienti altrimenti non in grado di alimentarsi sufficientemente per la via naturale». Aggiungono: «Si tratta comunque di un trattamento medico a tutti gli effetti, tanto che prevede il consenso informato del malato o del suo delegato, secondo le norme del codice deontologico». Quanto all'importanza dell'ambito socio-familiare, il dottor De Nigris ha ragione a sottolinearne le carenze. Per dovere di cronaca ricordo però che il senatore Marino nella sua proposta sul Testamento Biologico aveva introdotto ben 13 articoli sull'importanza delle cure palliative, dell'assistenza ai disabili gravi ed alle loro famiglie (anche con strumenti come il pre-pensionamento di un genitore) e dell'assistenza qualificata ai pazienti inguaribili e/o terminali, attraverso il finanziamento di nuovi hospice. Nella legge poi approvata dal Senato di tutto questo non è rimasta una riga. Questo per la precisione.

l’Unità 9.5.09
La dittatura del reality
di Conchita De Gregorio


Per concludere. Il divorzio non c’entra niente, o poco. La minorenne con l’autista è l’ultima goccia. Le inverosimili ricostruzioni che gli avvocati del premier sono incaricati di ammannire in tv (la ragazza cantava a domicilio ma sempre in presenza di papà, Berlusconi è amico degli umili per questo i messi comunali lo chiamano sul cellulare) un patetico ennesimo tentativo di sviare l’attenzione da un colossale problema pubblico e niente affatto privato che riguarda ciascuno. In Italia la politica agonizza. Non è successo all’improvviso. Sono vent’anni che scivoliamo lungo questo pendio. Dai luccicanti anni Ottanta, quelli di Colpo Grosso e di Milano da bere. Al principio fu la costruzione dell’impero. La rete dei venditori. Dell’Utri. Poi il reclutamento dei parlamentari. Dentro tutti gli avvocati (in una percentuale, in Parlamento, tuttora di quattrocento volte più alta che in natura) gli amici d’infanzia e d’impresa. Poi le donne, all’inizio poche e chiamate dalle professioni: la giovane imprenditrice, la magistrata devota. Nel frattempo le leggi opportune. La sciagurata legge elettorale, da ultimo. Quella che fa dei parlamentari dei dipendenti del capo. Grati, dunque, per principio e per sempre. La dittatura dei reality tv, intanto. I tronisti, le isole, i famosi. E la risacca della crisi economia, insieme. Non c’è lavoro. Se c’è è flessibile, dunque sotto ricatto. Eserciti di giovani cresciuti senza futuro che non sia quello di avere qualcuno che li raccomanda. Nelle università, nei ministeri, nelle professioni. A raccogliere mele e a studiare Cartesio non diventi famoso. Se hai belle gambe puoi fare un book. «Lei sa chi sia Emanuele Filiberto? Sì: quello che ha vinto Ballando sotto le stelle».
Così anche dove i voti si devono conquistare uno per uno funziona il casting. A destra come a sinistra, certo. Passa chi rappresenta un bisogno, un progetto? Ma per carità. Chi drena consensi: la giovane, la precaria, il campione sportivo, il principe ballerino. A destra come a sinistra, sì. Poi però l’età avanza. Passati i settanta se vuoi incarnare l’eterna giovinezza hai bisogno dei medici. Degli elisir di Scapagnini, pazienza per gli eccessi collaterali. La giovinezza coincide col vigore, il vigore con la virilità. Quante ragazze puoi compiacere in una volta: venti? Cinquanta? Ecco il via vai dalle magioni sotto gli occhi di tutti, le foto in tuta da relax e due ragazze, cinque, dodici. Ecco Noemi, infine, una bambina. «Vorrei un programma tv o un seggio alla Camera». È uguale. Non è Noemi: è il suo mondo, quello attorno a noi. I book agli agenti giusti e 25mila euro per avere i piedi come quelli di Paola Barale, fate un giro su Internet. Una scuola di politica di tre giorni e pronte per Bruxelles. Reclutate nei consorzi agricoli, tra le insegnanti di scuola media? Tra le normodotate a una cert’ora (succede se non hai un camerino) «maleodoranti»? Macché. La tragedia è duplice. La prima: che alla logica del casting non si sottragga nessuno. La seconda: che si debba discutere se una bella ragazza non possa essere anche intelligente e se ambire alla tv sia un disonore. Certo che sì, certo che no. Ma devi avere la farfallina al collo, però. Devi essere prima passata da palazzo al cospetto del sovrano in kimono. Il seggio è il regalino del buongiorno-tesoro. E fatela finita con la menata della sobrietà e del buon esempio, parrucconi. Ma va là.

l’Unità 9.5.09
Maya Sansa: «Povera italia attrici e veline pari sono»
di Gabriella Gallozzi


Maya Sansa Visto da Parigi il nostro Paese sembra sempre più piccolo:
«Si crede che recitare sia mettersi i tacchi a spillo, ormai tutto passa per la tv»
Ecco perché, da Stromboli a Marzabotto, lei cerca un’altra strada

Ci sono donne innamorate del successo a tutti i costi. Parolina berlusconiana filtrata come un virus anche dalle nostre parti. E donne innamorate del potere che usano senza alcun rispetto delle regole. Anche di queste ne conosciamo, no? Poi ci sono donne che preferiscono inseguire la qualità. La ricerca e la crescita nel proprio lavoro, magari a costo di rimettersi in gioco ogni volta. Una di queste è Maya Sansa, «la nuova icona del cinema italiano» come l’ha già ribattezzata il New York Times, che per sfuggire agli «stereotipi del successo» ha scelto di mollare l’Italia proprio nel «momento di gloria». Quello arrivato con La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana: era Mirella, la fotografa e poi la brigatista in Buongiorno, notte di Marco Bellocchio, al quale deve il suo «lancio» con La balia, nel ’98. «Era un momento bellissimo - ci racconta da Parigi, dove vive ormai da quattro anni - ma faticoso dal punto di vista della sovraesposizione mediatica. Ad un certo punto i giornalisti mi cercavano non per parlare del mio lavoro di attrice, ma per chiedermi se preferivo il mare o la montagna. E non sto parlando di piccoli giornali e riviste, ma di testate come il Corriere o Repubblica. Certe cose mi sembrano molto italiane… Certo, su Le monde non si leggono». L’Italia, insomma, stava diventando un po’ stretta per lei. Come le era già accaduto, racconta, a 18 anni quando ha scelto di studiare recitazione a Londra. Nata a Roma 33 anni fa – «sono nata sull’Isola Tiberina e mi sento romanissima» - da padre di Teheran, mamma torinese e nonna istriana, Maya Sansa si dice «uno spirito nomade» che «non ha voglia di mettere su famiglia».
RIMETTERSI I GIOCO
Per questo ha scelto la Francia: «Rimettermi in gioco - dice - imparare una nuova lingua e ricominciare di nuovo mi è sembrata la cosa più giusta per il mio lavoro». Nel quale non sopporta nessuna etichetta, neanche quella di attrice «impegnata» per via dei suoi trascorsi d’autore. «Come se un’attrice fosse quello che recita - dice -. E magari una professionista davvero intellettuale come Regina Orioli siccome ha interpretato Il gallo cedrone non viene considerata con serietà». Il fatto è che «ormai in Italia fra l’attrice e la velina non si fa più differenza. Se vai dal panettiere ti chiede: “non ti si vede da un po’, perché non vai da Costanzo o dalla De Filippi?”. A causa di certi reality - prosegue - «si crede che recitare sia mettersi i tacchi a spillo o piangere alla telefonata della mamma. Non capiscono che dietro all’improvvisazione c’è un lavoro ancora più profondo». Come mostra Giving Voice, il documentario di Alessandro Fabrizi - nelle sale da ieri - in cui Maya Sansa è tra i protagonisti di questo stage professionale girato nell’isola di Stromboli. Il problema del nostro paese, prosegue Maya, «è che tutto passa attraverso i media. Anche i politici sparano stupidaggini solo per apparire in tv». Lei che le cronache italiane le legge dall’on line de l’Unità («è l’home page del mio computer», dice) spiega di non aver alcune interesse per certe «chiacchiere, tipo il divorzio di Berlusconi. Mi sembra di perdere tempo, quando invece i problemi del paese sono ben altri e, gravi, le cose compiute da questo governo». Ecco, spiega: «Voglio essere diversa dal politico che fa l’attore. Voglio mettere le distanze da questo rapporto morboso coi media. Io sono un’attrice e non faccio politica, ma il mio modo di impegnarmi è nelle scelte professionali». Come il recente ruolo nell’Uomo che verrà, il film di Giorgio Diritti sulla strage di Marzabotto, per esempio. Qui, insieme ad Alba Rohrwacher, sarà una moglie contadina di una famiglia «travolta dalla storia». Mentre nel nuovo lavoro di Gianni Amelio, Il primo uomo, da Albert Camus, sarà la madre da giovane dello scrittore francese. E nelle «scelte» ci può essere anche la fiction tv. Magari firmata da nomi importanti del cinema. Quella francese di Claude Goretta, Sartre, l’age des passiones o quella italiana della Cavani su Einstein in cui è stata Milena Maric, la moglie del grande Albert.
NOBILDONNA
Oppure la fiction più «leggera» come l’ultimo David Copperfield. Ma anche un block buster francesissimo sulla Seconda guerra mondiale (Les femmes de l’ombre di Jean-Paul Salomè) al fianco di Sophie Marceau e Julie Depardieu venduto pure in Giappone. In cui si è potuta togliere il gusto di fare la «nobildonna» visto che in Italia, dice sorridendo, «le nobili sono solo bionde con gli occhi azzurri». Insomma, l’importante, conclude Maya Sansa, è «sperimentare». E se la Bellucci ed Asia Argento, le altre dive italiane di Francia, «appartengono ad un altro contesto», lei non ha ancora «ruoli da protagonista, ma terzi ruoli, in modo da potersi godere un po’ di serenità». E continuare a sperimentare come fa con «Le club», un «luogo per la creatività», spiega, messo in piedi col suo compagno Fabrice - anche lui attore - «in cui si recita, si scrive, si suona e l’unica regola è: non criticare». Ma cercare la qualità.

Maya Sansa (di padre iraniano e madre italiana) nasce a Roma nel 1975. Nel 1999 debutta sul grande schermo con «La balia» di Marco Bellocchio. Seguiranno, tra gli altri, «La meglio gioventù» di Marco Tullio Giordana, «Buongiorno, notte» di Marco Bellocchio, e «Il vestito da sposa» di Fiorella Infascelli (2003) e «L’amore ritrovato» di Carlo Mazzacurati (2004).
Francia
Nel 2004 il «New York Times» la definisce la nuova icona del cinema italiano. Si trasferisce in Francia dove, nel 2008, escono «La Troisième partie du monde» di Eric Forestier e «Les Femmes de l’ombre» di Jean-Paul Salomé. Di quest’anno è «L’uomo che verrà» di Giorgio Diritti.

Repubblica 9.5.09
La rivoluzione sessuale di Obama "tagli" ai predicatori dell´astinenza
Tolti i fondi ai programmi di Bush. Il Vaticano: attacco alla famiglia
E nella "Giornata nazionale di preghiera" la Casa Bianca cancella il rito pubblico
I finanziamenti andranno a programmi che parlino anche di anticoncezionali
di Alberto Flores d’Arcais


NEW YORK - Giovedì era il «giorno nazionale della preghiera» e Barack Obama l´ha onorata «pregando privatamente». La Casa Bianca non è andata oltre un laconico commento, ma il piccolo strappo del presidente Usa rispetto a un´usanza che negli anni di Bush si era consolidata - quella di una pubblica preghiera nella residenza presidenziale - ha irritato non poco i gruppi della destra cristiana. Nel silenzio del Gop - nessuna protesta ufficiale è arrivata dal partito repubblicano - a guidare le critiche ci hanno pensato la rete televisiva Fox (una bella inquadratura della Casa Bianca con la scritta «amen, adieu»), il guru delle radio conservatrici Rush Limbaugh - oggi vero leader della destra americana - e Shirley Dobson, presidente della «National Day of Prayer Task Force» che negli ultimi otto anni era stata sempre invitata alla cerimonia alla Casa Bianca: «Siamo profondamente delusi. In questo momento della storia del nostro Paese speravamo che il presidente comprendesse più profondamente l´importanza della preghiera».
In realtà Obama non ha fatto altro che ripristinare una tradizione che risale agli anni di Truman. Il «giorno nazionale della preghiera» venne infatti creato dal Congresso nel 1952, ed è considerato la giornata in cui i cittadini si raccolgono a pregare per il bene dell´America. In mezzo secolo poco era cambiato ed è solo con George W. Bush che la cerimonia era diventata di fatto una «preghiera ufficiale» alla Casa Bianca.
Obama fa dunque un nuovo strappo con il suo predecessore, il cui successo coincise con il boom della destra cristiano-evangelica.
Nel giorno della preghiera, poi, Obama ha preso un´altra decisione che irrita evangelici e destra, quella di tagliare i fondi pubblici destinati ai programmi di astinenza sessuale tra i giovani. Un programma che la Casa Bianca di Bush aveva lanciato e sostenuto con forza, grazie al quale la destra cristiana aveva avuto accesso a notevoli finanziamenti (cento milioni di dollari) e che adesso verrà in larga parte sostituito da «iniziative di prevenzione, anche religiose e di comunità, delle gravidanze dei teenager», in cui sono previsti anche modelli «sperimentati e sicuri». Ossia l´uso degli anticoncezionali.
Sono piccoli segnali di una svolta che non piace neanche al Vaticano. Ieri l´arcivescovo Raymond Burke, Prefetto della Segnatura Apostolica, ha accusato Obama di «promuovere una agenda contro la vita e contro la famiglia», definendo poi uno «scandalo» la decisione della università cattolica di Notre Dame, nell´Indiana, di invitare Obama a tenere il 17 maggio il discorso alla cerimonia di laurea, e di conferirgli anche una laurea «honoris causa». Troppo, dice Burke, considerato che nelle ultime settimane (ad esempio concedendo fondi federali ad organizzazioni che consentono l´aborto) la nuova amministrazione «ha danneggiato la fondamentale società rappresentata dalla famiglia».
Obama è molto attento a non urtare i sentimenti religiosi di una nazione ancora fondamentalmente cristiana (nelle sue varie chiese e forme), ma è altrettanto attento alle altre religioni (molto apprezzato è stato il seder per la Pasqua ebraica alla Casa Bianca) e anche ai non credenti. Del resto, l´ondata evangelica è in pieno riflusso e sui temi sociali la Casa Bianca è inevitabilmente destinata a scontrarsi nel prossimo futuro con la destra religiosa. Nel caso Obama scegliesse come giudice della Corte Suprema una donna gay (due le possibili candidate) la campagna di Fox, Limbaugh e delle varie organizzazioni di destra sarebbe durissima. E anche il Gop, partito in piena crisi, sarebbe costretto a prendere posizione.

l’Unità 9.5.09
Il nuovo mondo di Raffaello
Una grande mostra a Urbino rende al maestro la sua eredità culturale
di Renato Barilli


Una esposizione al Palazzo Ducale di Urbino cerca di dimostrare che la nascita di Raffaello (1483-1520) nella capitale dei Montefeltro non è stato un puro dato biografico esteriore ma ha comportato la trasmissione di una consistente eredità culturale. Il compito è legittimo, se parliamo di un imprinting quasi di natura biologica che Urbino ha potuto esercitare sul genio futuro, permettendogli di assorbire fin dalla prima infanzia le ampie, ariose, ventilate visioni di colli all’orizzonte, o i morbidi impasti atmosferici propri del paesaggio marchigiano. Quanto all’eredità del padre, Giovanni Santi (1439-1494), anche questa è stata senza dubbio rilevante, ma non si possono ignorare i ben 44 anni che separavano le nascite di padre e figlio. Giovanni fu, come ci ricorda il catalogo della mostra, un considerevole artista, e un intellettuale dei suoi tempi, oltre che un facoltoso borghese, tanto da disporre di un cognome di famiglia, perfino prosaico, quel banale Santi poi nobilitato in Sanzio. Ma il dato anagrafico ne faceva un esponente della «seconda maniera», per dirla con le insostituibili classificazioni del Vasari, ovvero un pittore duro, legnoso, rigido nelle forme, e del resto Urbino, sul finire del ‘400, era al termine della sua luminosa stagione dominata dalla figura di Piero Della Francesca. E dunque, bisogna dare ascolto alla versione vasariana, invece di trattarla con superiorità, come gli studiosi tendono a fare al giorno d’oggi. Il Santi padre, presago anche della sua morte precoce, fece bene ad avviare il figlio verso la scuola del Perugino, che di quella seconda maniera era il dominatore sovrano. Forse l’unica cosa che si può concedere è che l’incontro tra il giovane e l’anziano maestro si realizzasse non tanto in Umbria, quanto già a Firenze, dove Raffaello fu nei primissimi anni del Cinquecento, ma continuandovi l’inconfondibile maniera peruginesca, con quegli occhi larghi e languidi, le visioni frontali, le grazie curvilinee dei contorni, anche se il giovane, lanciato verso alti destini, conferiva alle Madonne con Bambino, pur lasciandole ferme al centro delle tavole, il brio di mosse sinuose già protese a vivacizzare lo spazio circostante.
IL CAMBIAMENTO
Ma, anche nei ritratti, per esempio di Elisabetta Gonzaga e di Guidubaldo da Montefeltro, presenti in mostra, persisteva la quiete peruginesca, e soprattutto la convenzione arcaizzante di stagliare volti e busti contro cieli tersi. Il cambiamento incredibile di Raffaello, tale da fargli lasciare alle spalle la staticità della seconda maniera e di farlo entrare di forza nella terza maniera vasariana, sacra al moderno, avverrà solo a Roma, dopo il 1508, e troverà un tipico segnale nel fatto che lo splendido ritratto muliebre, detto della Muta, dipinto a Firenze ma secondo il precetto di scontornarlo su sfondo chiaro, verrà avvolto in un’oscurità altamente pittoresca. Il pianeta cessava di essere un pacato paradiso terrestre, per divenire un asteroide sperduto nel buio cosmico.
Raffaello e Urbino, a cura di Lorenza Mochi Onori Urbino Palazzo Ducale
Fino al 12 luglio Catalogo: Electa

(AGI) - Roma, 9 mag. - Quel primo incontro di Villa Piccolomini, il 6 novembre 2004, cui sarebbe seguito un secondo alla Libreria Amore e Psiche luglio 2005, poi all'Auditorium a giugno 2007, lo aveva definito in un'intervista all'Agi "un grande evento culturale, un incontro, un confronto di alto valore e spessore politico da cui non sono emerse incompatibilita' anzi convergenze sul tema della 'non violenza'". Quella sera oltre mille persone, "dotate di una fantastica capacita' di relazionarsi con il mondo - evidenzio' l'allora leader di Rifondazione Comunista - e con la politica", seguirono attente il dibattito cui partecipava Pietro Ingrao. "Sono state due ore intense e piene di emozione - sottolineo' Bertinotti - E' accaduto l'inimmaginabile, mai avrei pensato di trovarmi difronte ad una platea con tanti giovani cosi' attenta e competente, preparata e piena d'interesse per la politica che al contrario non sa parlare alla gente ed ai giovani: penso che abbia funzionato l'argomento, la scintilla e' stata la non violenza". Tema sul quale Rifondazione aveva tenuto il Congresso di San Servolo. "Seppure questa fantastica realta' fa ricerca sulla psiche e sul profondo dell'essere umano - osservo' ancora Bertinotti - e' capace di relazionarsi con la cultura, con la politica, con quel che accade nel mondo". Sono lontani davvero gli anni in cui la sinistra non riconosceva osteggiava l'Analisi Collettiva nata spontaneamente nel '75 a Villa Massimo: oggi e' un fatto, una realta' storica innegabile. "Dialogo e confronto con questa realta'? Caspita se sono possibili - preciso' - anche se quest'area culturale e' costruita sull'indagine del pronfondo dell'essere umano, sulla psiche umana". Non si tratta dunque di qualcosa di astratto. "Indubbiamente e' stato un grande evento culturale per la citta' e la politica", concluse (AGI)

(AGI) - Roma, 9 mag. - Tornando a Prodi, "quando l'ho conosciuto un po' piu' approfonditamente dopo le elezioni del 1996 durante il suo primo governo era - ricorda - un mix interessante di riformismo cattolico contagiato dal dossettismo e di impianto tecnocratico. Poi la seconda componente, quella tecnocratica, ha preso il sopravvento, e ha avuto la meglio il suo interesse per il potere in quanto tale fuori da una ipotesi riformista". Un giudizio severo come quello emesso il 5 dicembre 2007: "Come vedo Prodi? Con tutto il rispetto, di lui mi viene da dire quello che Flaiano disse di Cardarelli. E' il piu' grande poeta morente...". E sul centro-sinistra? "Dobbiamo prenderne atto, ha fallito: la grande ambizione con la quale avevamo costruito l'Unione non si e' realizzata". Insomma, quel centro-sinistra che aveva suscitato tante speranze ed attese di riscatto non solo economico nella gente per vittoria strappata per pochi voti al centro-destra, era gia' morto alla fine del 2007. Quale il futuro della sinistra? "Abbiamo avuto due sinistre - osserva Bertinotti - Non ne abbiamo piu' nessuna. Dobbiamo provare a ricostruirne una". Nel libro-colloquio Bertinotti ripercorre le tappe della sua vita: dal piccolo scolaro ben curato nel vestire al sindacalista della Filtea e della Fiom torinese, la sconfitta alla Fiat nel 1980, dopo un 'braccio di ferro' durato 35 giorni con scioperi e picchetti fino alla marcia dei 40 mila, l'approdo alla segreteria confederale della Cgil, gli scontri prima con Antonio Pizzinato poi con Bruno Trentin e quindi il trasloco a Rifondazione Comunista, preceduta dalla rottura con il Pds, fino alla catastrofe del 13-14 aprile. Bertinotti riconosce di aver "sottovalutato" il nesso tra il "crollo del Muro", la ripresa di forza e di influenza del capitalismo e le difficolta', che ne sono conseguite, per la sinistra e il movimento operaio". (AGI)

venerdì 8 maggio 2009

Repubblica 8.5.09
Immigrati, Maroni esulta "Un trionfo riportarli in Libia"
La protesta dell’Onu: un errore, ripensateci
Da Amnesty International a Medici senza frontiere: in questo modo l’Italia non rispetta la Convenzione di Ginevra
Le organizzazioni umanitarie: gesto cinico
di Caterina Pasolini


ROMA - Un gesto preoccupante, cinico e violento, contrario alle leggi internazionali e al rispetto dei diritti umani. Protestano le organizzazioni umanitarie per la sorte dei clandestini ripescati nel canale di Sicilia e rispediti direttamente in Libia. Dalla Caritas all´Arci, da Medici senza frontiere a Save the Children accusano il governo. Mentre l´Onu chiede di «riconsiderare la preoccupante decisione». Tre i punti fondamentali. Non è stata data ai migranti la possibilità, prevista dalle Convenzione di Ginevra, di chiedere asilo. Vengono mandati in un paese che non ha ratificato le convenzioni internazionali sui diritti umani. Senza dimenticare «che è fondamentale che il principio internazionale di non respingimento continui ad essere integralmente rispettato», dice l´Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati Antonio Guterres. Preoccupato perché questo «incidente mostra un radicale mutamento delle politiche migratorie del governo italiano», ancor più allarmante «per la mancanza di trasparenza con cui si è svolto».
Loro, che si occupano dei più deboli, che conoscono le rotte dei disperati, che hanno visitato «i campi» libici di accoglienza più volte bocciati dalle organizzazioni internazionali, temono per il futuro di quei clandestini.
«Non sappiamo chi se ne farà carico. Se verranno rimandati nei paesi dai quali sono fuggiti finiranno in carcere, sparendo nel nulla come è già accaduto. Oppure resteranno per anni senza tutela in quei campi dove il rispetto dei diritti umani è bassissimo. Non possiamo lavarcene le mani, siamo responsabili del loro destino», dice Oliviero Forti, responsabile ufficio immigrazione della Caritas. «Ricacciare quei disperati è assurdo e incivile. Una prova di forza inaccettabile, un atto elettorale visto che non sembra esserci un piano, un progetto», sbotta Valerio Neri di Save the children che ricorda come ai clandestini non sia stata concessa la possibilità di chiedere asilo prevista dalla Convenzione di Ginevra. E molti lo avrebbero ottenuto visto che su cento richieste cinquanta ottengono lo status di rifugiato. Non solo. vengano mandati in un paese che non ha ratificato la convenzione sui diritti umani, che non è attrezzato a dare asilo. Un comportamento, ricorda, già sanzionato dalla Corte europea che nel 2005 aveva condannato l´Italia per aver fatto respingimenti collettivi alla volta delle città libiche.
Punta il dito anche Filippo Miraglia dell´Arci. «La Libia è stata più volte denunciata per il mancato rispetto dei diritti umani, trattata gli irregolari in maniera indegna detenendoli in veri e propri lager, oppure abbandonandoli nel deserto o ancora rispedendoli nelle terre d´origine anche nel caso in cui ci siano guerre e persecuzioni». Un avvenimento terribile, lo giudica Loris de Filippi, presidente di Medici senza frontiere. «Questo rimpatrio forzato e cinico è contrario alle leggi internazionali e metterà l´Italia al bando delle nazioni civilizzate».

Repubblica 8.5.09
"Li avete mandati al massacro in quei lager stupri e torture"
Tra le reduci del Pinar: meglio morire che tornare lì
di Francesco Viviano


Le lacrime di Hope e Florence per i disperati riportati in Libia: i nostri mesi all´inferno
"Voi italiani siete buoni, come avete potuto fare una cosa del genere? È disumano"

LAMPEDUSA - «Li hanno mandati al massacro. Li uccideranno, uccideranno anche i loro bambini. Gli italiani non devono permettere tutto questo. In Libia ci hanno torturate, picchiate, stuprate, trattate come schiave per mesi. Meglio finire in fondo al mare. Morire nel deserto. Ma in Libia no». Hanno le lacrime agli occhi le donne nigeriane, etiopi, somale, le «fortunate» che sono arrivate a Lampedusa nelle settimane scorse e quelle reduci dal mercantile turco Pinar. Hanno saputo che oltre 200 disgraziati come loro sono stati raccolti in mare dalle motovedette italiane e rispediti «nell´inferno libico», dove sono sbarcati ieri mattina. Tra di loro anche 41 donne. Alcuni hanno gravi ustioni, altri sintomi di disidratazione. Ma la malattia più grave, è quella di essere stati riportati in Libia. Da dove «erano fuggite dopo essere state violentati e torturati. Non solo le donne, ma anche gli uomini».
I visi di chi invece si è salvato, ed è a Lampedusa raccontano una tragedia universale. La raccontano le ferite che hanno sul corpo, le tracce sigarette spente sulle braccia o sulla faccia dai trafficanti di essere umani. Storie terribili che non dimenticheranno mai. Come quella che racconta Florence, nigeriana, arrivata a Lampedusa qualche mese fa con una bambina di pochissimi giorni. L´ha battezzata nella chiesa di Lampedusa e l´ha chiamata «Sharon», ma quel giorno i suoi occhi, nerissimi, e splendenti come due cocci di ossidiana, erano tristi. Quella bambina non aveva un padre e non l´avrà mai.
«Mi hanno violentata ripetutamente in tre o quattro, anche se ero sfinita e gridavo pietà loro continuavano e sono rimasta incinta. Non so chi sia il padre di Sharon, voglio soltanto dimenticare e chiedo a Dio di farla vivere in pace». Accanto a Florence, c´è una ragazza somala. Anche lei ha subito le pene dell´inferno. «Quando ho lasciato il mio villaggio ho impiegato quattro mesi per arrivare al confine libico, e lì ci hanno vendute ai trafficanti e ai poliziotti libici. Ci hanno messo dentro dei container, la sera venivano a prenderci, una ad una e ci violentavano. Non potevamo fare nulla, soltanto pregare perché quell´incubo finisse». Raccontano il loro peregrinare nel deserto in balia di poliziotti e trafficanti. «Ci chiedevano sempre denaro, ma non avevamo più nulla. Ma loro continuavano, ci tenevano legate per giorni e giorni, sperando di ottenere altro denaro».
Il racconto s´interrompe spesso, le donne piangono ricordando quei giorni, quei mesi, dentro i capannoni nel deserto. Vicino alle spiagge nella speranza che un giorno o l´altro potessero partire. E ricordano un loro cugino, un ragazzo di 17 anni, che è diventato matto per le sevizie che ha subito e per i colpi di bastone che i poliziotti libici gli avevano sferrato sulla testa. «È ancora li, in Libia, è diventato pazzo. Lo trattano come uno schiavo, gli fanno fare i lavori più umilianti. Gira per le strade come un fantasma. La sua colpa era quella di essere nero, di chiamarsi Abramo e di essere "israelita". Lo hanno picchiato a sangue sulla testa, lo hanno anche stuprato. Quel ragazzo non ha più vita, gli hanno tolto anche l´anima. Preghiamo per lui. Non perché viva, ma perché muoia presto, perché, finalmente, possa trovare la pace».
Le settimane, i mesi, trascorsi nelle «prigioni» libiche allestite vicino alla costa di Zuwara, non le dimenticheranno mai. «Molte di noi rimanevano incinte, ma anche in quelle condizioni ci violentavamo, non ci davano pace. Molti hanno tentato di suicidarsi, aspettavano la notte per non farsi vedere, poi prendevano una corda, un lenzuolo, qualunque cosa per potersi impiccare. Non so se era meglio essere vivi o morti. Adesso che siamo in Italia siamo più tranquille, ma non posso non stare male pensando che molte altre donne e uomini nelle nostre stesse condizioni siano state salvate in mare e poi rispedite in quell´inferno, non è giusto, non è umano, non si può dormire pensando ad una cosa del genere. Perché lo avete fatto?».
«Noi eravamo sole, ma c´erano anche coppie. Spesso gli uomini morivano per le sevizie e le torture che subivano. Le loro mogli imploravano di essere uccise con loro. La rabbia, il dolore, l´impotenza, cambiavano i loro volti, i loro occhi, diventavano esseri senza anima e senza corpo. Aiutateci, aiutateli. Voi italiani non siete cattivi. Non possiamo rischiare di morire nel deserto, in mare, per poi essere rispediti come carne da macello a subire quello che cerchiamo inutilmente di dimenticare». Hope, 22 anni, nigeriana è una delle sopravvissute ad una terribile traversata. Con lei in barca c´era anche un´amica con il compagno. Viaggiavano insieme ai loro due figlioletti. Morirono per gli stenti delle fame e della sete, i corpi buttati in mare. «Come possiamo dimenticare queste cose? Anche loro erano in Libia, anche loro avevano subito torture e sevizie, non ci davano acqua, non ci davano da mangiare, ci trattavano come animali. Ci avevano rubati tutti i soldi. Per mesi e mesi ci hanno fatto lavorare nelle loro case, nelle loro aziende, come schiavi, per dieci, venti dollari al mese. Ma non dovevamo camminare per strada perché ci trattavano come degli appestati. Schiavi, prigionieri in quei terribili capannoni dove finiranno quelli che l´Italia ha rispedito indietro. Nessuno saprà mai che fine faranno, se riusciranno a sopravvivere oppure no e quelli che sopravviveranno saranno rispediti indietro, in Somalia, in Nigeria, in Sudan, in Etiopia. Se dovesse accadere questo prego Dio che li faccia morire subito».

Repubblica 8.5.09
Amos Luzzatto: "Io, vittima nel ´38, dico che oggi siamo al razzismo"
di Alessandra Longo


Luzzatto, ex presidente delle Comunità ebraiche, si schiera con Franceschini e attacca l´idea di Salvini: anche io fuorilegge perché viaggio in metro e sono veneziano
Il leader Pd farnetica? Ma sono farneticante io o quelli che pensano di costringere medici e insegnanti a denunciare i figli dei clandestini?

ROMA - Giusto il caso. Quando lo chiamiamo, Amos Luzzatto, già presidente delle Comunità ebraiche italiane, sta uscendo dalla metropolitana di Milano. Luzzatto, ha sentito? La Lega propone vagoni destinati esclusivamente ai milanesi... C´è silenzio. Poi questo ottantenne giramondo, innamorato del dialogo, «ebreo di sinistra», come lui stesso si definisce nella sua biografia «Conta e racconta», esplode in un commento secco: «Ma questo è razzismo puro!». Forse una volta Luzzatto si sarebbe prudentemente fatto leggere le agenzie di stampa, avrebbe pensato ad uno scherzo, ma oggi l´aria che tira porta a credere subito che la proposta del leghista Salvini non sia affatto una boutade. «In un certo senso – chiosa il professore con ironia amara – anch´io violerei la legge viaggiando in metro. Sono residente a Venezia...».
Luzzatto, per la verità, prima di quest´ultim´ora, volevamo chiederle che cosa ne pensa dell´uscita di Dario Franceschini. Ha fatto bene il segretario del Pd a evocare le leggi razziali commentando la normativa di governo sulla sicurezza?
«Conosco Franceschini e penso che sia una persona attenta, equilibrata. So che a Ferrara, sua città natale, ha rapporti molto amichevoli, stretti, con alcune famiglie storiche della comunità ebraica. E questo può aver influito sulla sua percezione del clima».
La maggioranza ha definito "farneticanti" le sue dichiarazioni sul pericolo di un ritorno alle leggi del ´38.
«Scusi, capiamoci bene. Mi sembra che Franceschini non abbia detto: "La normativa sulla sicurezza è come le leggi razziali", non ha fatto un´equazione, non ha offeso la tragedia della Shoah, si è limitato a ricordare un capitolo della storia italiana. E la storia è questa: il primo provvedimento in assoluto che fu preso nel ´38 riguardò proprio la scuola. E io me lo ricordo bene. Fui una delle vittime di allora. Avevo 10 anni ed ero orgogliosissimo di aver superato gli esami di ammissione al ginnasio. Due mesi dopo la mia prova – ero stato il migliore della sessione – mi hanno detto: "Lei non può più andare a scuola". Ero un "giudeo", un termine che racchiudeva in sé tutto il disprezzo e il disgusto possibili. Un amica di mia madre disse che il Duce lo aveva fatto "anche per il nostro bene...". Quello che voglio dire è che capisco il meccanismo che ha fatto scattare Franceschini. Si cominciò con i bambini, furono i primi a soffrire moralmente e materialmente».
Naturalmente la maggioranza nega che nell´impianto del disegno di legge sulla sicurezza ci siano ingredienti razzisti e discriminatori...
«C´è un clima di insorgente razzismo e questo è un fatto. Ripeto: Franceschini si è limitato a ricordare quel che è successo nel nostro passato. Adesso non si può più nemmeno ricordare? Sono farneticante io o quelli che pensano di costringere medici e insegnanti a denunciare i figli dei clandestini? Io, con la mia storia, dico che mi sento vicino ad ogni bambino cui possa venir detta una cosa come questa: "Fuori di qui. Non hai titolo a sederti sui banchi di scuola". Ogni provvedimento, diretto o indiretto, che coinvolga l´infanzia riporta fatalmente a ferite che abbiamo già avuto».
Fiamma Nirenstein definisce "scandalosa" l´evocazione delle leggi razziali.
«Non è neutra. E´ una deputata che appartiene all´altro schieramento».

Repubblica 8.5.09
Da Lampedusa all’apartheid
di Gad Lerner


Chi saranno i milanesi doc aventi diritto a posti riservati sui mezzi pubblici, nella greve fantasia del leghista Matteo Salvini? Bisognerà esserci nati, a Milàn (come usano chiamarla sul giornale di partito), o basterà la residenza?
E i brianzoli, i monzesi, perfino i sestesi che detengono il capolinea del Metrò fuori dai confini comunali, vorremo mica escluderli, in fondo sono pure loro dei poveri padani, vero? Basterà la residenza per accedere al diritto di tutela, e pazienza se ne approfitterà qualcuno nato troppo lontano dalla Madonnina, oppure il controllore Atm verrà incaricato di esaminarci il dna?
La provocazione calcolata di un capolista della Lega Nord alle prossime elezioni europee, già resosi noto per i volantinaggi di fronte alle chiese contro l´arcivescovo Tettamanzi - a propagandare un Vangelo per soli lumbard - e per avere paragonato i rom a topi, come tali da derattizzare, è un´avvertenza precisa. Il partito di Bossi investe il suo futuro politico su una riforma complessiva del diritto in senso discriminatorio. Agli immigrati non si vogliono negare solo i diritti politici legati alla cittadinanza, ma anche i diritti civili fondamentali, in una sorta di riedizione dell´apartheid.
Introducendo nel lavoro il criterio della "preferenza nazionale" in luogo della parità di trattamento a parità di contributi e versamenti. Con il "tetto" di presenze straniere nelle scuole. E ciò per i regolari dotati di permesso di soggiorno. Gli irregolari (che in Italia sono più numerosi che altrove a causa dell´economia sommersa e degli ostacoli posti alla loro emersione) vengono invece condannati a vivere nella paura.
Salvini ha voluto scandalizzare gli stessi alleati del Pdl che martedì prossimo verranno chiamati a votare la fiducia sul decreto sicurezza, con cui s´introduce nel nostro ordinamento il reato di immigrazione clandestina. In seguito al quale tutti i pubblici ufficiali - presidi e medici compresi - saranno tenuti a procedere d´ufficio nella segnalazione di chi non è in regola. Non solo la Lega vuole trascinare un Pdl renitente a sottoscrivere questa promessa elettorale, ma vuole connotare quel voto drammatizzandolo all´insegna del razzismo.
L´anticipazione di un comportamento che nega l´umanità stessa dei migranti, e quindi i doveri fondamentali di soccorso e di cura nei loro confronti, lo ha rivendicato sempre ieri il ministro Maroni: riconsegnare alle autorità libiche tutti i disperati del Canale di Sicilia - senza curarsi di quel che succederà loro - stravolge e mortifica l´etica stessa del soccorso marittimo e le Convenzioni che regolano i diritti dell´uomo. Già da qualche settimana a Lampedusa s´era notato che le motovedette non partivano più in soccorso dei natanti in difficoltà, facilmente individuabili sui radar: ora abbiamo capito che si trattava di un´indicazione venuta dall´alto. Disonorevole per il nostro paese, e inutile perché il flusso dall´Africa troverà presto vie nuove per raggiungere le coste europee. Chi fugge dalla fame e dalle persecuzioni, disposto a affrontare traversate rischiosissime, non si lascerà certo spaventare da un ministro col fazzoletto verde. Mentre dal 15 maggio, quando entrerà in vigore l´accordo italo-libico, sarà un dovere di civiltà vigilare sulla sorte delle persone trattenute nel deserto e negli altri campi di prigionia dagli agenti di Gheddafi.
Dai tram milanesi alle spiagge di Lampedusa, la Lega vuole confermarci nelle nostre più pessimistiche previsioni. Evocando, come già fece "Famiglia Cristiana", il piano inclinato che ci riporta verso le leggi razziali, Dario Franceschini non avrà forse conseguito maggiore popolarità. Ma gli sia reso il merito di non avere fatto calcoli di marketing.

l’Unità 8.5.09
Chi soffia sul razzismo
con la scusa della sicurezza
di Pietro Soldini


Il Presidente della Camera Fini ha manifestato il suo dissenso rispetto al pacchetto sicurezza ponendo l’accento sulle norme che riguardano i medici-spia e i presidi-spia e mettendo in guardia il governo da probabili profili d’incostituzionalità. Il governo e la maggioranza, Lega compresa, sembrano aver accolto queste obiezioni e si appresterebbero a modificare queste specifiche norme: se così fosse ci si dovrebbe tuttavia spiegare perché le stesse obiezioni non riguardano i funzionari dello “stato civile spia” che sono ancora contenuti nel Ddl sicurezza e che impediranno il matrimonio (diritto umano sancito dalla carta dell’Onu, art. 16), la registrazione delle nascite e delle morti e il riconoscimento dei figli naturali.
È evidente che anche per questa fattispecie valgono i motivi d’incostituzionalità di cui sopra. Il paradosso è che per sanare la piaga della clandestinità si fa di tutto tranne l’unica cosa realmente efficace: denunciare dove gli immigrati irregolari lavorano in nero e offrire loro un’opportunità di regolarizzazione. In questo modo la stragrande maggioranza degli immigrati irregolari diventerebbero legali e la clandestinità criminale sarebbe isolata e più facilmente perseguibile.
La verità è che, con il pretesto della sicurezza, si vogliono colpire gli immigrati per dare sfogo propagandistico ed elettorale a una ondata di razzismo pericolosamente dilagante. In questo impianto legislativo s’incontrano come ulteriore materiale esplosivo le norme sulle ronde e sulla detenzione prolungata nei Cie che sembrava fossero cancellate e invece sono state di nuovo inserite. L’ispirazione razziale è confermata anche da altre norme che nulla hanno a che vedere con l’immigrazione illegale e la sicurezza. Mi riferisco alla tassa di 200 euro per rinnovare il permesso di soggiorno o chi fa richiesta della cittadinanza, o la restrizione dei ricongiungimenti familiari, l’istituzione del permesso a punti, l’innalzamento della idoneità alloggiativa, tutte restrizioni e vessazioni persecutorie che riguardano lavoratori e cittadini immigrati regolari che pagano le tasse e rispettano le leggi di questo Stato.
Questo Ddl, se approvato, rappresenta un vulnus gravissimo della nostra civiltà giuridica e dei valori di uguaglianza sanciti dalla nostra Costituzione.
Che il governo abbia posto la fiducia su questo provvedimento è un atto di arroganza nei confronti del Parlamento e di tutti quei deputati, compresi molti della maggioranza, che avevano rivendicato giustamente un voto di responsabilità e coscienza.
Se questa legge sarà approvata senza significativi cambiamenti dovremo valutare tutte le possibili impugnazioni davanti alla Corte Costituzionale e quella di Giustizia Europea non escludendo il ricorso al referendum abrogativo.

l’Unità 8.5.09
Sono leggi razziali che discriminano i cittadini sulla base dell’identità etnica
Le norme contenute nel ddl sulla sicurezza non puniscono i comportamenti ma lo straniero perchè immigrato
Minori e aggravante di clandestinità i punti più pericolosi
di Federico Resta


La definizione di Dario Franceschini («leggi razziali») a proposito di alcune norme, già approvate o contemplate dal disegno di legge sulla sicurezza, ha suscitato scandalo. Alle reazioni furibonde del centrodestra («vaneggiamenti») si è accompagnato un qualche imbarazzo nel centrosinistra: forse si esagera un po’, signora mia. E invece, se l’evocazione storica può risultare problematica, le implicazioni giuridiche e sociali di quelle norme non lo sono affatto.
Sì, siamo in presenza di «leggi razziali». Nel senso che si tratta di norme che discriminano tra i cittadini in base alla loro identità etnica. Basti pensare alla cosiddetta «aggravante di clandestinità». Essa si applica a qualunque reato, per il solo fatto di venire commesso da un migrante irregolare, anche in assenza di alcuna relazione con la condotta a lui contestata e con il bene giuridico protetto leso da quel reato. Non meno discriminatoria la norma che qualifica come fattispecie penale quello che oggi è un mero illecito amministrativo, ovvero il soggiorno e l’ingresso irregolari nel territorio dello Stato. Si tratta di una norma in primo luogo inefficace (perché non fa che gravare i tribunali di processi destinati a concludersi con la prescrizione o con l’espulsione): e, soprattutto, dotata di una fortissima valenza culturale e simbolica. Ciò che viene punito, infatti, non è un comportamento, ma la circostanza tutta soggettiva di essere straniero e non in regola: responsabile soltanto, magari, di non aver rinnovato il permesso di soggiorno in tempo utile.
Si consideri poi che la norma si applica anche ai minori ultraquattordicenni imputabili, che peraltro - non potendo essere espulsi - saranno tra i pochi a subire un processo. Come si vede queste due norme hanno un tratto comune. In spregio al principio garantista e liberale che concepisce il diritto penale come diritto del fatto e non dell’autore, si incrimina non un (o si aggrava la pena non per un) comportamento ma si sanziona uno status amministrativo, quale appunto la condizione di regolarità. Se non sono «leggi razziali», queste, cos’altro sono? Né più né meno che altrettanti meccanismi di produzione di intolleranza per via istituzionale.
P.s. A proposito: ma perché tutti, proprio tutti (dal Tg1 ad AnnoZero) utilizzano il termine «clandestino» per definire chi, almeno finora, è semplicemente non regolare? A furia di stigmatizzare il «politicamente corretto», è fatale che si caschi nella trivialità dei concetti, oltre che delle parole.

Repubblica 8.5.09
Il presidente, Noemi e quelle domande che non hanno risposta
di Giuseppe D’Avanzo


C’è in giro una semplificata idea di democrazia. «Le regole del gioco in una democrazia decente sono chiare: ciascuno dice la sua». Memorabile e coerente perché è appunto questo che abbiamo nelle orecchie, a proposito di Silvio, Veronica e le altre.

La vicenda comincia con le critiche di FareFuturo, poi la festa di Casoria. La teoria del complotto non fa molta strada
Bobo Craxi e Di Donato smentiscono la versione del premier secondo cui il padre di Noemi è stato l´autista del leader Psi

Slogan demagogici (tra moglie e marito…); frasi fatte (i panni sporchi si lavano in famiglia); chiacchiericcio (la vicenda è privata). Dire democrazia, questo frastuono, pare un azzardo. E´ rumore che ogni cosa confonde. E´ un dispositivo che distrugge la realtà nell´immagine riflessa del contenitore vuoto dei media. L´operazione non è senza conseguenze perché «il falso indiscutibile» prima cancella l´opinione pubblica che diventa incapace di farsi sentire; poi anche solo di formarsi. C´è chi in questo andazzo ci sta come il topo nel formaggio o perché ha già conquistato il suo posticino a corte o perché spera di conquistarlo al prossimo turno o perché, più umanamente, non ha voglia di darsi il coraggio necessario per chiedere di non essere preso per il naso, almeno. Sarà anche legittimo non farselo piacere l´andazzo, no? Sarà ancora legittimo credere ancora che la realtà esista o che la rimozione non aiuta a guarire le nevrosi – siano esse di un individuo o di una società. E´ ancora legittima, per questa destra nichilista, l´esistenza di chi crede che negare la verità significa sempre negare dei fatti e quindi concedergli di conoscerli? Si potrà forse acconsentire che un principio della cultura dominante (Lietkultur) dell´Occidente europeo e liberale è l´«uso pubblico della ragione». Allora, diciamo che è in nome della ragione o, senza esagerare, di una mediocre ragionevolezza che si può chiedere a Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio, di inventare meglio la frottola perché così come ce la offre è troppo taroccata per crederla vera. Dovunque la sfiori, suona falsa.
E´ in cerca di risposta qualche domanda: Berlusconi «frequenta minorenni», come sostiene Veronica Lario quando si convince a divorziare? Che rapporto, negli anni, Berlusconi ha intrattenuto con Noemi Letizia, 18 anni il 26 di aprile? In quale clima psichico vive il premier? «Ha bisogno di aiuto perché non sta bene», come sostiene preoccupata sua moglie? La febbre o l´inclinazione psicopatologica che lo accalda può definirsi, come hanno scritto il Riformista e l´Unità senza ricevere smentite, un´impotente satiriasi o sexual addiction sfogata in «spettacolini» affollati di escort e «farfalline» tra materassi extralarge in quel palazzo Grazioli, impernacchiato di tricolore, dove si decidono le politiche del Paese? E, per ultimo ma non ultimo – perché questione politica per eccellenza – può essere, per dirla con le parole di Veronica Lario, «il divertimento dell´imperatore», questo «ciarpame senza pudore in nome del potere», a selezionare le classe dirigenti, a decidere della rappresentanza politica? Non emerge oggi «attraverso il paravento delle curve e della bellezza femminile (ancora la Lario) la sfrontatezza e la mancanza di ritegno del potere che offende la credibilità di tutte le donne soprattutto di quelle che sono state sempre in prima linea e che ancora lo sono, a tutela dei loro diritti»?
Abituato a scriversi in solitudine l´agenda dell´attenzione pubblica, assuefatto a dettare il menabò dell´informazione scritta e televisiva, Berlusconi barcolla quando lo assale l´imprevisto e non ha il copione scritto. Bersaglio delle critiche al «velinismo in politica» di Sofia Ventura, politologa di Fare Futuro, sorpreso a festeggiare a Casoria, Napoli, una diciottenne, Berlusconi da Varsavia improvvisa e sbaglia le sue mosse. Dice che non ha mai pensato a sistemare "veline" (escluse a sorpresa e in gran fretta, una miss Veneto, una "meteorina" di Retequattro lo smentiscono mentre tacciono deluse una "rossa" del Grande Fratello, una valletta Mediaset, un star di «Incantesimo», un´«Elisa di Rivombrosa»). Dice che Noemi è soltanto «la figlia di un vecchio amico, ex autista di Craxi» (lo smentiscono Bobo Craxi e Giulio Di Donato, vicesegretario del Psi e per di più un napoletano che dovrebbe conoscere l´autista napoletano del segretario). Dice che si tratta di un «tranello mediatico» in cui è caduta anche «la signora», cioè sua moglie. Trappola di chi? Di Fare Futuro, think tank di Gianfranco Fini? La teoria del complotto non fa molta strada, è buona soltanto per babbei e turiferari. Muore lì.
Tornato in Italia da Varsavia, Berlusconi guadagna qualche ora per rimettere insieme e meglio i cocci della sua storia. Che, sulla scena gregaria di Porta a Porta, diventa questa. «E´ una menzogna che frequento minorenni. Il padre della ragazza mi ha chiamato perché voleva un appuntamento con me per parlarmi delle candidature nel sud di Franco Malvano e Flavio Martusciello. E´ stata soltanto Repubblica a sottendere la frequentazione della ragazza». La favola è scritta male, può contare – per essere accettata – soltanto su una pulsione servile. E´ stata Noemi, che lo chiama «papi», a raccontare come sono andate le cose in questi anni. «Papi mi ha allevata. Non mi ha fatto mai mancare le sue attenzioni. Un anno, ricordo, mi ha regalato un diamantino; un´altra volta, una collanina. Domenica, una collana d´oro con un ciondolo. Lo adoro. Gli faccio compagnia. Lui mi chiama, mi dice che ha qualche momento libero e io lo raggiungo a Milano, a Roma. Resto ad ascoltarlo. E´ questo che lui desidera da me. Poi cantiamo assieme. No, non mi candiderò alle prossime regionali. Preferisco candidarmi alla Camera. Ci penserà papi Silvio». Di questi incontri e promesse, Berlusconi non parla. Lascia pubblicare a un periodico della Casa le foto della festa di Casoria. E che c´entrano? Mica Veronica Lario lo ha accusato di atti osceni in luogo pubblico? La strategia di Berlusconi è nota, e le foto la confermano. Non confuta, ma distrae. Non offre alcun certo punto di riferimento per orientarsi nella polemica, ma disintegra nel rumore quel che poco che si sa nella convinzione che, presto, affiorerà la consueta «indifferenza per come stanno davvero le cose».
La fanfaluca («non frequento minorenni») non regge nemmeno se la si verifica, diciamo così, dal lato del padre di Noemi, Benedetto Letizia. E´ lui, Benedetto, il "contatto" tutto politico di Berlusconi? L´uomo, commesso in municipio, dovrebbe essere un influente esponente del Popolo della Libertà meridionale se il presidente del Consiglio discute con lui, proprio con lui e solo con lui senza intermediari, le candidature europee. Purtroppo nel Popolo della Libertà nessuno conosce Benedetto Letizia. Ignorano chi sia Benedetto anche Franco Malvano e Flavio Martusciello. Il primo è stato questore di Napoli e, investito da Berlusconi, candidato sindaco di Napoli. Il secondo è il fratello di Antonio Martusciello, dirigente di Publitalia prima di entrare nella task force di Marcello Dell´Utri che creò Forza Italia, diventato parlamentare e anche viceministro dei Beni culturali. Un buon veicolo, il fratello, per raggiungere il Capo. E´ ragionevole credere che se i due avessero voluto discutere delle loro candidature si sarebbero rivolti direttamente a Berlusconi e non ai buoni uffici di un commesso del Comune che nel PdL non si è mai visto. Berlusconi ammette di aver incontrato la ragazza in qualche occasione, ma sempre alla presenza dei genitori. Né la madre né il padre di Noemi hanno mai parlato di incontri a Milano o a Roma con Berlusconi. Si può scommettere qualche euro che lo faranno nei prossimi giorni. Se si sbriciolano tutti gli argomenti preparati per smentire gli incontri con una minorenne (tre regali, tre compleanni vuol dire che Noemi incontra Berlusconi da quando aveva sedici anni e lo ha conosciuto quindicenne), è più assennato credere alle parole inquiete di Veronica Lario: è vero, il presidente del Consiglio frequenta minorenni che «magari» fossero sue figlie segrete. Trascuriamo le ricostruzioni degli «spettacolini» e gli «accappatoi di un bianco che quasi abbaglia» e il vigore ritrovato con un misterioso «farmaco che si inietta», assunto ormai «fuori da ogni controllo medico». Abbandoniamo queste scene tra le cose dette e mai contraddette perché è ben più critico (o molto coerente) che la questione politica, sollevata all´inizio di questa storia da due donne, Sofia Ventura e Veronica Lario, sia stata affrontata soltanto da altre donne (Aspesi, Bindi, Bonino, Spinelli, Dominijanni) nel raggelante silenzio dell´élite nazionale come se questa «valorizzazione» delle donne non riducesse «la loro libertà a libertà di mostrarsi in tv e offrirsi come gadget al circuito del potere» o a un dominio proprietario e "spettacolare". Sembra che soltanto le donne abbiano capito che quest´ambigua, violenta atmosfera che consente di ridicolizzare le loro storie e il loro destino, tra sghignazzi, ironie e magari qualche «palpatina di classe», educa «la gente per bene ad abituarsi ad ascoltare cose che, nel passato, sarebbe stata orripilata di pensare e alle quali non sarebbe stata concessa pubblica espressione». O alcun «uso pubblico della ragione».

Repubblica 8.5.09
Le incongruenze del premier nel salotto TV
risponde Corrado Augias


Caro dottor Augias, è con profonda tristezza che scopro di vivere in un paese che non mi piace, circondato da gente che non mi piace, volgare e suddita. Si dice in giro che non vi debbano più essere nemici, ma solo avversari con cui confrontarsi pur nella diversità di opinione. Ma per confrontarsi bisogna avere qualcosa da dirsi, usare un linguaggio comune. Mi chiedo: che cosa mi accomuna a questo signore che ci governa, ossessionato dal suo aspetto e dalla sua potenza sessuale, e con il popolo che lo segue adorante e plaudente? Vedo qualcosa di avvilente nelle private vicende di un anziano e facoltoso signore che finge di essere giovane e "in forma" circondandosi di ragazzine avvenenti e disponibili. E c'è qualcosa di così orribile in questo sciagurato paese che esulta per le avventure dell'anziano signore, solo perché è un potente e lo difende dalla moglie che protesta pubblicamente contro la sua indecorosa condotta. Mi sento estraneo e disgustato.
Franco Bertini bertau@tin.it

Ancora una volta ha dovuto cancellare, depistare. Spariti i nomi delle veline e attricette in un primo momento candidate (Chiara Sgarbossa, Angela Sozio, Susanna Petrone, Eleonora Gaggioli, Camilla Ferranti, Giovanna Del Giudice). Nelle successive interviste s'è messo al riparo dietro ben altri nomi. Mi piacerebbe conoscere i discorsi fatti alle povere ragazze che sabato protestavano a gran voce sui giornali e dopo tutte zitte. Tra le cose serie dette da Veronica Lario c'era anche: «lo sconcerto che questo metodo non faccia scandalo, che quasi nessuno si stupisca, che per una strana alchimia il paese tutto conceda e tutto giustifichi al suo "imperatore"». Lì è il vero segnale del guasto provocato in questi anni, confermato dagli ultimi sondaggi. Anche nel monologo da Vespa c'era un'altra pacchiana incongruenza. Il premier ha detto che, avvicinandosi un temporale, è dovuto partire prima da Rho. Quindi aveva guadagnato un po' di tempo ed è andato a trovare un vecchio amico, il messo comunale Elio (scortato da ben otto macchine) a tre minuti dall'aeroporto. Entra nel locale e come per magia spunta un ciondolo preziosissimo per la giovinetta. Domanda: dove l'ha comprato quel ciondolo nel concitato spostamento? Il paese è ormai abituato ad accogliere queste notizie con il ghigno cinico del servo che non osa giudicare i vizi del padrone e un po' lo invidia. Mi ha scritto Giovanna Tanda (giovannati@tin.it): «Prodi perseguiva la "normalità". Valore poco apprezzato anche dalla coalizione che lo sosteneva». L'ingeneroso Bertinotti definisce il buon Prodi "Uomo di potere". Così di potere che aveva scambiato questo paese per l'Inghilterra di Churchill.

l’Unità 8.5.09
Telefonate compromettenti o no, questo tragico carnevale rischia di durare a lungo
di Andrea Camilleri


Saverio Lodato: Camilleri, che intendeva Silvio Berlusconi quando dichiarò «se escono certe mie telefonate lascio l’Italia»? Che intendeva quando profetizzò: «sta per uscire uno scandalo che sarà il più grande della storia della repubblica»? È rimasto in Italia e di «certe telefonate» non si è saputo più nulla. Se «papi» ha chiesto alla signora Lia Giovanazzi Beltrami, assessore a Trento, se «poteva palparla»; se in Campidoglio ha detto: «Amo le finlandesi, ma oltre i 18 anni»; se sua moglie Veronica, cadendo nella trappola rossa, dice che non può stare con un marito che frequenta minorenni, ma che mai ci sarà stato in quelle telefonate, tanto da mettere in conto l’espatrio?
Caro Lodato, non è elegante autocitarsi, ma devo ricordare i versi di una mia poesia «incivile» dedicata a Berlusconi: «ha più scheletri nell’armadio lui/ che la Cripta dei cappuccini a Palermo». Perciò Lei capisce come sia difficile intuire a cosa si riferiva quando dichiarava che avrebbe lasciato l’Italia se certe sue telefonate venivano rese note. Dal punto di vista economico, possiede un impero variamente ramificato, e altrettanto può dirsi per il suo impero, forse più ramificato dell’altro, composto di vallette, veline e starlette. Di sicuro si sarà trattato di telefonate molto compromettenti, indirizzate all’uno o all’altro impero. Oltre non possiamo spingerci. Ma basta e avanza quello che fa e dice alla luce del sole, a esempio la richiesta di palpamento a un’attonita signora, per dimostrare a tutti che i suoi freni inibitori avrebbero urgente necessità di revisione. Dopo la bufera che si è abbattuta su di lui, è apparso sorridente, come se niente fosse, facile alle battute facili, e dimentico degli inviti alla sobrietà che gli sono giunti da più parti. Questo tragico carnevale italiano è destinato a durare a lungo.

l’Unità 8,5.09
Vendola sottolinea la dichiarazione di voto per Sinistra e libertà: sì, la crisi è profonda
Il leader Prc: la sua è una forma di nichilismo. Il segretario Pdci: gioca allo sfascio
Bertinotti agita la sinistra
Duri Ferrero e Diliberto
di Simone Collini


Per Fava il risultato delle Europee potrà solo accelerare o rallentare un progetto che comunque rimarrà in campo. Bertinotti fa sapere che voterà Musacchio, candidato con Sinistra e libertà.

«Ci mancava solo questa». A sinistra non ha fatto troppo piacere l’uscita di Fausto Bertinotti. Già i sondaggi non sono così incoraggianti, già c’è da fronteggiare l’offensiva del Pd sul voto utile, e allora sia la lista Sinistra e libertà che quella Prc-Pdci avrebbero fatto volentieri a meno di sentir dire dall’ex presidente della Camera che «oggi in Italia non esiste la sinistra politica» e che «per ricostruirne una» sarebbe quasi auspicabile un risultato negativo alle europee per azzerare gli esperimenti fin qui falliti e ricominciare da capo.
Così il segretario del Pdci Oliviero Diliberto liquida la faccenda con un secco «gioca allo sfascio», quello di Rifondazione Paolo Ferrero si fa intervistare da Liberazione per denunciare la «forma di nichilismo», il coordinatore di Sd Claudio Fava sostiene che «un progetto di sinistra già esiste» e Nichi Vendola tenta di chiudere il discorso facendo notare che «Bertinotti non avrebbe detto per chi vota se non riconoscesse che l’apertura di un cantiere almeno c’è».
Il voto di Bertinotti
Già, perché nel giorno in cui è uscita l’intervista a l’Unità contenente la battuta di Bertinotti che poco è piaciuta a Prc-Pdci e a Sinistra e libertà («alle europee, tanto peggio tanto meglio») l’ex presidente della Camera ha fatto sapere che il primo week-end di giugno andrà a votare: ha firmato l’appello a sostegno di Roberto Musacchio e poi ha rilasciato un’intervista pubblicata sul sito on-line dell’europarlamentare uscente: «Con Roberto c’è una lunga collaborazione, una lunga storia comune nel movimento operaio e in Rifondazione comunista». Modalità e parole per dire che il suo voto è più che altro sulla persona, con un’unica concessione, a due facce, per Sinistra e libertà, «una lista che non si vuole rassegnare allo stato della sinistra in Italia e che si considera una presenza utilmente provvisoria».
Luci e ombre
È comunque quanto basta a Vendola per guardare più alle luci che non alle ombre, nelle parole di Bertinotti. «Sinistra e libertà nasce dalla consapevolezza di quanto sia profonda la crisi e di quanto sia drammatico il vuoto di rappresentanza del mondo del lavoro», dice il governatore della Puglia. Per Fava il risultato che questa lista otterrà alle europee inciderà fino a un certo punto: «Se sarà positivo, il progetto subirà un’accelerazione, se sarà negativo, un rallentamento. La prospettiva sta prendendo corpo e rimane comunque in campo».
Chi invece dà una lettura a tinte fosche dell’analisi di Bertinotti sono Diliberto («gioca allo sfascio, dopo essere stato il principale protagonista dello sfacelo») e Ferrero. Il segretario del Prc dice che «se le forze di sinistra falliscono alle europee, un po’ di ceto politico finisce nel Pd e un po’ di popolo va ulteriormente con Di Pietro e Lega». Conclusione: «Non vedo le magnifiche sorti e progressive, vedo la vittoria del bipolarismo e quindi la scomparsa della sinistra di alternativa».
Il sostegno di Levi Montalcini
Il problema vero è che i sondaggi danno le due liste lontane dalla soglia di sbarramento (l’ultimo Ipsos dà quella Prc-Pdci sopra il 4% solo tra insegnanti e operai, quella SL tra disoccupati e studenti). Un trend rimasto immodificato dopo che sono state rese note le candidature, nonostante lo spessore di alcune di esse. Il premio Nobel Rita Levi Montalcini è intervenuta a sostegno di Mauro Palma, direttore della Treccani e presidente del Comitato Ue contro la tortura, al quale ha inviato un messaggio di auguri per dirgli «con quanta ammirazione» gli è «vicina»: «Auguro il ben meritato successo alla proposta della tua candidatura».

L’Unità 8.5.09
Bertinotte
di Marco Travaglio


Fausto Bertinotti, già segretario della Federazione operai tessili, già segretario della Cgil Piemonte, per 2 anni presidente della Camera e tuttora presidente della Fondazione Camera dei Deputati, già segretario di Rifondazione Comunista per 13 anni, già deputato per quattro legislature, già ospite dello yacht di Vittorio Cecchi Gori per le vacanze estive a Salina con Valeria Marini (con la quale la sua signora Lella ha rivelato di scambiarsi le mutande), già primatista mondiale delle ospitate a Porta a Porta nel salotto dell’amico Bruno, già ospite fisso del salotto della signora Maria Angiolillo, già protagonista della caduta del governo Prodi I (in nome della leggendaria battaglia sulle 35 ore) e coprotagonista della caduta del Prodi II, dunque due volte corresponsabile e del ritorno di Al Tappone a Palazzo Chigi, omaggiato dal Cainano con diversi orologi del Milan e molti complimenti per le squisite maniere, già protagonista della disfatta della sinistra ridotta ai minimi storici alle ultime elezioni (memorabile la conferenza stampa-funerale convocata all’Hard Rock Cafè di Via Veneto in Roma, affollatissimo di operai delle presse), già teorizzatore dell’abolizione della proprietà privata, già seguace dello psicoguru Massimo Fagioli, già titolare del quarto più alto reddito di Montecitorio con 213.195 euro nel 2006, ha scritto che Romano Prodi – cioè l’unico esponente del centrosinistra che sia riuscito a battere Berlusconi due volte su due, nonostante Bertinotti - è «uno spregiudicato uomo di potere», simbolo dello «smacco complessivo del centrosinistra». Prodi.

Repubblica 8.5.09
Dna, arriva la banca dati "È una schedatura di massa"
Scontro sulla legge Il giudice Santosuosso: no ai prelievi a chi non è indagato
di Vladimiro Polchi


ROMA - Una banca aperta a tutti: criminali, immigrati irregolari, onesti cittadini, agenti di polizia. Entrare sarà facile, uscirne un po´ di meno. E´ la banca dati del Dna, pronta a custodire i campioni biologici delle persone non iscritte nel registro degli indagati e di chiunque entri in contatto con la scena del crimine, forze dell´ordine comprese. Il prelievo forzoso del codice genetico non farà dunque distinzione in base alla fedina penale. Sta scritto nel disegno di legge approvato mercoledì alla Camera. «Una violazione della privacy, con il rischio di schedature di massa», tuona l´opposizione. «Una norma pericolosa, a rischio di incostituzionalità», rilanciano i giuristi.
Il ddl recepisce il trattato europeo di Prum e istituisce la banca dati del Dna, con l´obiettivo dichiarato di contrastare «criminalità transfrontaliera, terrorismo e migrazione illegale». Come funzionerà in concreto? L´archivio raccoglierà il codice genetico di condannati, imputati e indagati. E non solo. Il magistrato potrà infatti disporre il prelievo forzoso di materiale biologico anche ai non indagati, quando procede per delitti non colposi, puniti dalla legge con l´ergastolo o la reclusione superiore a tre anni. Secondo la maggioranza la norma serve a garantire il prelievo del Dna di tutti coloro che sono entrati in contatto con la scena del crimine, compresi gli uomini delle forze dell´ordine, in modo da escludere dalle indagini le tracce biologiche non rilevanti. Il disegno di legge prevede la cancellazione d´ufficio del profilo del Dna nel caso di assoluzione o quando si accerta che il fatto non costituisce reato. Negli altri casi, i campioni biologici verranno conservati per 40 anni. Il prelievo viene escluso solo per alcuni reati: quelli bancari, fiscali e societari.
Va detto che le banche del Dna in Italia già ci sono, ma sono prive di base normativa. «Polizia e carabinieri, per le esigenze processuali, già raccolgono campioni biologici - spiega Amedeo Santosuosso, giudice della Corte d´appello di Milano - e di fatto si sono andate a creare delle banche dati fuori da ogni disciplina legislativa». Ben venga dunque una legge. «Ma non questa», avverte Santosuosso. Tre i punti critici: «Primo, il testo prevede il prelievo coatto anche da una persona non indagata. Il che viola la Costituzione e non accade in nessun Paese al mondo. Secondo - prosegue il magistrato - la legge contrasta con la sentenza della Corte europea dei diritti dell´uomo del dicembre 2008, che bilancia le esigenze di sicurezza con la tutela della privacy. La nuova banca dati ha invece porte d´entrata più grandi di quelle d´uscita. In caso di assoluzione infatti si viene cancellati. Ma solo in base ad alcune formule assolutorie. Non tutte. E poi, si può prendere il Dna anche della parte lesa, come la vittima di uno stupro, che chiaramente non verrà mai "assolta". Infine, viene prevista la creazione di un nuovo laboratorio presso il Dap del ministero della Giustizia e la possibilità nel frattempo di avvalersi anche di strutture private».
«Ci può essere una violazione della Costituzione - aggiunge Stefano Merlini, costituzionalista a Firenze - se passa la proposta governativa di sottrarre la direzione della polizia giudiziaria ai Pm. In questo caso la banca del Dna verrebbe svincolata da un controllo dell´autorità giudiziaria». Per il garante della Privacy, Francesco Pizzetti, la legge «ha tenuto conto delle nostre prescrizioni. La nostra competenza è solo sulla banca dati, ma quanto al Dna dei non indagati siamo per un´interpretazione restrittiva».

Repubblica 8.5.09
Se i francesi si ribellano
di Marc Lazar


Ma che sta succedendo in Francia? Le manifestazioni contro la crisi sono imponenti; i casi di sequestri di dirigenti per mano di lavoratori esasperati si moltiplicano, e tutto questo avviene, in larga misura, con l´approvazione dei francesi. La politica si estremizza. Non senza compiacimento, Dominique de Villepin, già primo ministro di destra, ha parlato di «rischio rivoluzionario», mentre il centrista François Bayrou si è lanciato in accese requisitorie; i socialisti si spostano a sinistra e la sinistra estrema avanza, tanto che uno dei suoi leader, Olivier Besançenot, è oggi tra i politici più popolari. I media parlano di insurrezione, di rivolta, di deriva terroristica, di rigetto del capitalismo, alimentando dibattiti a non finire.
Come si spiega questo clima? Le ragioni sono innanzitutto congiunturali. La Francia è alle prese con un aumento della disoccupazione e un calo del potere d´acquisto che le misure varate dal governo non sono ancora riuscite ad arginare. Le disuguaglianze aumentano più che mai, e i francesi si preoccupano per il futuro dei loro figli. La questione delle remunerazioni dei manager, in particolare da parte di aziende che licenziano dopo aver ricevuto denaro pubblico, continua ad alimentare le controversie esacerbando la percezione dell´ingiustizia.
Ma quest´atmosfera rivela anche alcuni tratti più profondi. La Francia è scossa regolarmente da crisi intense, nel corso delle quali esplodono sentimenti di ostilità verso le élite e l´aspirazione a una rottura completa. Queste crisi febbrili alimentano interrogativi che sono sempre gli stessi: è psicodramma o rivoluzione? Se lo chiedeva, fin dal 1968, anche il filosofo Raymond Aron. I sindacati, deboli e divisi, sono tentati di lanciarsi in rivendicazioni crescenti, e in parte anche in azioni dure. E incontrano enormi difficoltà a negoziare compromessi con un padronato spesso intransigente, e più ancora a farli applicare. Dato il peso storico dello Stato, i francesi tendono abitualmente a metterlo sotto pressione, e nei momenti critici ricercano più che mai la sua protezione. Sono oramai in molti a diffidare dell´economia di mercato, a respingere la globalizzazione e a condividere quella famosa passione per l´uguaglianza di cui già parlava Alexis de Toqueville. Ma di fatto, in ogni circostanza i francesi tendono a percepire in maniera piuttosto negativa qualsiasi cambiamento economico o sociale.
Da una quindicina d´anni una parte del ceto medio del settore pubblico, che rappresenta in Francia quasi il 30% dei lavoratori dipendenti, si ribella contro il calo del proprio potere d´acquisto, il deterioramento delle condizioni di lavoro, le politiche di austerità e le varie riforme dei servizi pubblici promulgate a livello europeo. Si spiegano così le grandi mobilitazioni e lo spostamento a sinistra di alcune categorie: i più anziani, ma anche i più giovani, spesso frustrati da un lavoro non all´altezza del loro livello di qualificazione e delle loro speranze. Da alcune settimane stiamo forse assistendo a una novità in questo senso: a dar voce alla rabbia e al malcontento sono ora anche i lavoratori dipendenti del settore privato e i precari. Se mai si arrivasse a una confluenza di queste diverse proteste, la situazione potrebbe diventare esplosiva - anche se certo non rivoluzionaria. Il fatto è che i francesi sanno come agitare questa minaccia, come gestire questa retorica per far passare le loro rivendicazioni. Stando ai sondaggi, i fautori di un cambiamento radicale della società non sono più del 10%.
La Francia costituisce un´eccezione, o è piuttosto un laboratorio sperimentale? La domanda merita di essere posta, anche perché in questo Paese le disuguaglianze sono meno pronunciate che altrove - ad esempio in Italia, dove povertà e disoccupazione sono in aumento e si stanno aggravando le sperequazioni tra i territori, i gruppi sociali e le generazioni, oltre che tra uomini e donne. Perché allora - al di là dell´importante manifestazione della Cgil il 4 aprile scorso, o di quella unitaria del 1° maggio - le proteste qui sono minori? Si possono fare diverse ipotesi. L´Italia è certo colpita dalla crisi, e lo sarà più ancora nei prossimi mesi; ma per diverse ragioni, tra cui il deliberato ottimismo sfoggiato dal capo del governo, l´opinione pubblica - come dimostrano i sondaggi europei - non ha ancora preso piena coscienza della sua gravità. Nelle piccole imprese, spina dorsale dell´economia italiana, i rapporti tra i proprietari e i dipendenti sono diversi da quelli che regnano nelle grandi aziende, e in particolare nelle multinazionali. I classici ammortizzatori sociali - lavoro al nero e frode fiscale, solidarietà familiare, molteplici reti associative più o meno formali, distribuite in maniera diseguale - funzionano ancora. Il ciclo della preminenza delle strategie individuali non è ancora esaurito, e non ha ceduto il passo a quello caratterizzato dall´azione collettiva - per riprendere le categorie del sociologo Albert Hirschman. La fiducia nel governo è tuttora elevata. Le tentazioni più radicali non trovano sbocchi politici, nonostante gli sforzi di Di Pietro. I partiti di governo Pdl e Pd, nonostante le loro divergenze su questi temi, danno prova di un senso di responsabilità che sembra condiviso dagli italiani. Ma sarebbe un grave errore pensare che l´Italia sia al riparo dalla contestazione. In quest´inizio del XXII secolo i problemi sociali si stanno acutizzando. E poiché, parallelamente, la diffidenza verso le istituzioni e la "casta" è profondamente radicata nell´opinione pubblica, in assenza di soluzioni si profila il rischio di pericolose degenerazioni.
Traduzione di Elisabetta Horvat

il Riformista 8.5.09
Dibattiti Un pensatore antitotalitario e le degenerazioni politiche
Chiaromonte e la rivolta del '68 «conformista»
di Filippo La Porta


Politica. Raccolti in un volume i saggi e le lettere del fondatore di "Tempo Presente". L'intellettuale interviene sulla violenza e il Movimento: «È giusto che diventi un principio di ragione?». O è un regresso ideologico?

Se ripenso agli anni ruggenti del movimento e al rapporto di quella generazione con la violenza (nel '68 avevo 15 anni), mi vengono in mente subito due aspetti. Innanzitutto: la violenza, che pure fino alla metà degli anni 70 ebbe un carattere prevalentemente difensivo, ci affascinava dal punto di vista estetico e ci esaltava come forma di epica, dava una risposta al nostro bisogno di avventura, di scontro, di rischio, di eroismo (provate a far giocare i bambini non con i soldatini ma con i pacifisti di stagno, si chiedeva con sarcasmo Orwell).
Le gesta guerrigliere del Che e di Giap si confondevano con le scene dei film di Sergio Leone e Peckinpah che alla sera vedevamo al cinema Farnese. Solo molto tempo dopo ho scoperto che anche i vigili del fuoco di New York e i volontari umanitari sono figure a loro modo epiche. E poi la violenza mi sembrava la cosa più radicale ed estrema, meno riassorbibile, assai più concreta di assemblee, discussioni, collettivi.
Se Nicola Chiaromonte in quell'anno avesse scritto una lettera a me, e non ad Anne Coppel, mi avrebbe spiegato che la violenza, intrinseca alla natura umana, non può pero diventare un principio di ragione, come avviene in Marx. Ci promette ingannevolmente la liberazione immediata dall'oppressione ma sbocca nel caos ed è esposta alla nemesi. Nessuno può impunemente pensare di gestirla: certo, «a volte un male necessario, al momento giusto, ma male sempre, da ridurre al minimo».
Inoltre mi avrebbe fatto capire che quella rivolta condivideva con la società che pretendeva di combattere alcune attitudini di fondo: l'ideale della soddisfazione di tutti i bisogni e della autorealizzazione a tutti i costi, il culto della novità e dell'incoerenza, il primato dell'efficacia immediata su ogni considerazione morale, l'ossessione della politica come unico agire concreto. E mi avrebbe ricordato come invece due anni prima gli studenti di Berkeley, assai meno ideologizzati di noi, si erano mossi sulla base di una semplice istanza di libertà, di un imperativo della coscienza decidendo solo «che qualcosa da fare c'era in America, e si doveva fare subito».
C'è un passaggio poi decisivo della lettera di Chiaromonte invia alla studentessa francese comunista: «Tu mi dici ciò che ti irrita, ti rattrista, ti rivolta persino nella vita famigliare. Tu mi dici anche ciò che ti rivolta e ti indigna nel mondo vicino a te (ma anche in quello lontano da te). Ma non mi dici ciò che ami, ciò che ti piace, ciò che ti tocca e ti commuove, ciò che ti entusiasma infine». Ecco, credo che qualsiasi critica dell'esistente che non si fondi sull'amore per qualcosa che pure all'esistente appartiene - sia esso una persona concreta, un paesaggio, una stagione, il mare, un'opera d'arte - sia destinata all'aridità. La rivolta deve precisare non solo contro chi è indirizzata - contro quali valori, modelli, classi, poteri, sistemi di governo - ma da cosa nasce e trae alimento.
Partendo dalle lettere e dagli scritti ora raccolti in volume (saggi e articoli) si può oggi ricostruire la posizione di Chiaromonte sul movimento del 68: di sostanziale adesione alle sue ragioni (questa società non merita alcun rispetto)e di critica di ideologie e pratiche violente che ritiene regressive: appunto una «rivolta conformista».
Oggi è facile concordare con questa posizione. Ma sbaglieremmo, credo, a sentirci tutti al riparo, ormai divenuti adulti e disincantati No, la critica della violenza che troviamo in Chiaromonte è critica radicale della politica (delle pretese totalitarie della politica) e ci rivolge oggi domande urgenti a cui dobbiamo dare risposta. Come scrive nell'agosto '68 «l'idea di mobilitare la Forza per abolire il Male sulla terra è la grande idea moderna». La non violenza può anche rivelarsi inefficace come metodo di azione ma diventa «un modo di concepire la vita e di viverla tutt'altro da quello contemporaneo…la fiducia che solo ciò che nasce, cresce e si forma secondo il suo proprio ritmo è vera e vale». Alla Coppel inoltre Chiaromonte spiega che «il mondo della politica (delle idee politiche correnti, delle pratiche e dei metodi attuali) è radicalmente sterile e corrotto per ciò che riguarda le aspirazioni autentiche dell'essere umano», e aggiunge che per una politica di sinistra il fine non è mai l'efficacia immediata. Nei saggi su Stendhal e Tolstoj Chiaromonte osserva che la realtà è mutevole e non modificabile, che la Storia è un gioco arcano di forze incalcolabili e che il peccato originale della politica è ritenere di poter governare cose e persone. Questa l'illusione demiurgica, e rovinosa, di Napoleone, che agli occhi dei filosofi e storiosofi doveva incarnare lo Spirito del Mondo a cavallo. Al contrario, bisognerebbe fare ciò che riteniamo giusto e doveroso senza preoccuparci degli esiti. L'imperativo della coscienza viene prima di strategie e tattiche. La testimonianza, l'esempio, le buone pratiche contro l'agire organizzato e collettivo che in qualche modo sempre differisce l'agire concreto dei singoli individui. La weberiana etica della responsabilità infatti non riguarda tanto le conseguenze del nostro agire (che sono sempre imponderabili, spostate nel futuro, sottoposte all'eterogenesi dei fini), quanto l'educazione a un senso del limite e della misura.